La crisi del carcere? Bisogna occuparsi di poveri ed emarginati di Stefano Anastasia L’Unità, 30 marzo 2024 Va ridotta di netto la popolazione detenuta, ma provvedimenti straordinari, assolutamente necessari, non basteranno. Servono misure non solo penali o penitenziarie per trattare diversamente devianza, marginalità sociale, povertà. Uno stillicidio insopportabile come la sensazione di inutilità di ogni sforzo di prevenzione. A concentrarsi sulla vulnerabilità dei singoli si rischia di perdere di vista l’ostilità costitutiva della prigione. Dobbiamo rivolgere lo sguardo all’ambiente penitenziario, al sovraffollamento, alle strutture, al regime di vita aggravato da chiusure ingiustificate, buoni propositi non perseguiti, da cattive proposte minacciate e obblighi costituzionali a cui si vorrebbe sfuggire. Ormai non si fa più in tempo a pronunciare il numero delle persone che si sono tolte la vita in carcere che c’è qualcuno che ti fa segno che “no, ce n’è una in più”. È uno stillicidio insopportabile, tanto quanto è insopportabile la sensazione di inutilità di ogni sforzo di prevenzione. Ho passato una settimana a girare per la regione di cui sono garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà, a discutere con dirigenti sanitari e penitenziari (tra le altre cose) dei piani di prevenzione del rischio suicidario e intanto, prima Alvaro a Torino, poi un uomo di 52 anni (di cui ancora non conosciamo il nome) a Sassari, si sono tolti la vita. Il Capo Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Giovanni Russo, ha già annunciato integrazioni al piano nazionale di prevenzione e alle linee guida indirizzate agli istituti penitenziari. Magari sarebbe auspicabile riattivare le sezioni di accoglienza per i “nuovi giunti” (nella mia regione, per esempio, praticamente non esistono più, e dove esistono - come a Regina Coeli - sono un tale guazzabuglio che sarebbe meglio non esistessero), ma soprattutto sarebbe necessaria una rinnovata attenzione ambientale alle condizioni di detenzione. Già, perché il rischio che stiamo correndo, individualizzando certosinamente tutto, è che ci si perda nella ricerca delle vulnerabilità dei singoli dimenticando l’ostilità costitutiva del carcere, luogo di programmatica degradazione del condannato, e il suo aggravamento nelle attuali condizioni di sovraffollamento, fatiscenza strutturale e insufficienza del personale dedicato. Se non vogliamo patologizzare tutto, all’ambiente penitenziario, dunque, dobbiamo rivolgere lo sguardo, a quel sovraffollamento, a quelle strutture, a quel personale, al regime di vita interno al carcere, aggravato da chiusure ingiustificate, da buoni propositi non perseguiti, da cattive proposte minacciate e da obblighi costituzionali a cui si vorrebbe sfuggire. Penso a una circolare che rinchiude in stanza tutti i detenuti (la maggioranza) che non hanno attività da fare, all’incremento di telefonate promesso e mai attuato dal Ministro, alla minaccia di punire le legittime proteste nonviolente dei detenuti, al traccheggiamento in corso di fronte alla sentenza della Corte costituzionale che consente gli incontri riservati dei detenuti con i propri partner. Siamo ormai ai limiti del sovraffollamento che ci costò la condanna della Corte europea dei diritti umani, e - al contrario di allora - la tendenza è verso l’aumento progressivo della popolazione detenuta. Nonostante le misure alternative alla detenzione e le altre misure di comunità adottate durante o al termine del processo. Nonostante la riduzione percentuale delle persone detenute in attesa di giudizio. Nonostante la stabilità del numero generale dei reati e, in particolare, di quelli gravi contro la persona. Una massa senza precedenti di persone destinate al carcere senza causa e senza prospettive, effetto (forse) indesiderato di un’eccitazione punitiva condivisa dalla società politica (e in particolare da questo governo, che ne ha fatto una bandiera) e dalla società (in) civile, che ama farsi placare dal rito sacrificale della punizione di chicchessia per quel che sia. Così matura il sovraffollamento, come effetto di un corto circuito irrazionale tra la politica e il popolo, dove l’una si accontenta del prossimo sondaggio, e l’altro dello scalpo di chi gli sta accanto. Così, evidentemente, non se ne esce. E le condizioni non potranno che peggiorare, perché il personale (non solo quello penitenziario, ma anche quello sanitario, per esempio) sarà sempre insufficiente e perché non ci sarà mai modo di mettere mano a una seria opera di recupero e adeguamento del patrimonio edilizio penitenziario non ad auspicabili standard abitativi civili, ma anche solo alle norme di legge violate. Per uscirne, bisognerebbe ridurre di netto la popolazione detenuta alle trenta-quarantamila unità per cui spazi e personale sarebbero sufficienti. Se in Parlamento ci fosse coraggio, basterebbe un provvedimento di amnistia-indulto di due anni, da approvare prima che sia troppo tardi, prima - per esempio - che il combinato disposto di sovraffollamento e suicidi si sposi con il caldo torrido e l’abbandono estivo delle carceri. Ma di questo non se ne potrà parlare fino alle elezioni europee: non sono più i tempi dei partiti della prima repubblica, che non avevano bisogno dell’ultimo cavillo del codice penale per avere una forte legittimazione popolare. Magari dopo. Intanto è sul piatto la proposta Giachetti di tornare alla liberazione anticipata speciale che si sperimentò all’indomani della condanna europea: un incremento dei giorni scontati per la “partecipazione all’opera di rieducazione” sufficiente - si spera - a ridurre la popolazione detenuta. Vedremo. Intanto, però, bisogna sapere che un provvedimento straordinario, a questo punto assolutamente necessario, non sarà sufficiente a impedire che il sovraffollamento torni, come è stato dopo l’indulto del 2006, dopo le misure conseguenti alla condanna europea, dopo la riduzione dei detenuti durante la pandemia. Serviranno altre misure, non solo penali e non solo penitenziarie, volte a trattare diversamente la devianza, la marginalità sociale, la povertà, ormai lasciata a se stessa e destinata ad alimentare fatalmente la popolazione detenuta. Il carcere non si salva da solo, se fuori le periferie sono abbandonate, i servizi sociali depauperati, l’assistenza sanitaria pubblica ridotta al lumicino. Perché mai, in queste condizioni, il carcere dovrebbe garantire dignità e rieducazione? Quando in un capoluogo di provincia del Lazio l’ospedale pubblico chiude il Servizio psichiatrico di diagnosi e cura per assenza di medici psichiatrici, perché mai dovrebbero essercene nel carcere? Questa è la dimensione politica della questione carceraria: non un affare di settore, ma parte della civiltà del nostro Paese. A salvare vite nelle carceri sono gli stessi che le abitano di Sergio D’Elia* L’Unità, 30 marzo 2024 Anche quest’anno la nostra compagnia di giro ha ripreso a “visitare i carcerati”, opera di misericordia corporale che dovrebbe sentirsi impegnato a fare almeno una volta nella vita - come il battesimo, la prima comunione e la cresima - ogni bravo “cristiano”, detto in senso confessionale ma anche più semplicemente e laicamente nel senso che dalle mie meridionali parti vuol dire persona, uomo o donna di buona volontà. L’anno scorso ne abbiamo visitate 120 su 189 con Rita, Elisabetta, avvocati delle camere penali e anche magistrati, iscritti e simpatizzanti di Nessuno tocchi Caino o semplici cittadini convinti che per farsi un’idea del carcere occorreva seguire Piero Calamandrei e il suo “bisogna aver visto”. La pena che si vede, si respira e si tocca con mano, contagia e imprigiona tutto e tutti: il carcere, i detenuti e i “detenenti”. Le carceri fanno davvero pena. La pena non è solo quella del detenuto e dell’internato. La pena è anche quella del “detenente” che opera in un luogo di lavoro - spesso forzato fino a un tempo di straordinario obbligatorio - malsano, pericoloso e usurante che al confronto la più folle catena di montaggio di una fabbrica fordista può sembrare un posto di villeggiatura. Nelle carceri manca personale, mancano risorse finanziarie, mancano educatori, mancano scuole, mancano medici, psicologi, psichiatri, manca lavoro, mancano rapporti affettivi, manca il rispetto umano, l’amore e contatti umani significativi. A cosa può condurre una struttura carente di questi bisogni essenziali se non alla violenza? In questo stato, atti di autolesionismo, aggressioni al personale, pestaggi nei confronti dei detenuti, sono all’ordine del giorno. Sono sempre più convinto dell’urgenza di liberarsi, hic et nunc, della necessità del carcere, di questo carcere sempre più divenuto - tant’è che così è comunemente denominato - “luogo di pena”, “istituto penitenziario”. Tali sono le celle di isolamento, le sezioni di osservazione, ordine e sicurezza, i reparti di transito e di assistenza detta “sanitaria”, dove sono cumulati e tumulati “tossici”, minorati fisici, malati terminali e malati mentali che in altri tempi tenevamo in luoghi di cura, non di pena. Detto questo, aggiungo con altrettanta convinzione: beati i “costruttori di pace” nelle carceri, quei detenuti e quei “detenenti” che tutti i santi giorni sono impegnati nell’opera anch’essa di misericordia corporale di riduzione del danno connaturato a una struttura violenta, mortifera, patogena che infligge vere e proprie pene corporali, quelle che usavano nel medioevo e che poi abbiamo abolito perché inumane e degradanti. Mutilazioni fisiche, menomazioni mentali, perdita dei fondamentali sensi umani, sono la cifra della condizione carceraria. Non riuscire a volgere lo sguardo oltre le sbarre di una finestra spesso oscurata da una rete fitta o dalla “bocca di lupo” e al di là del muro di cinta per vedere l’infinito, l’azzurro del cielo e del mare, il verde di una collina e il rosso di un tramonto, rende ciechi. “Occhio per occhio” è la pena, non solo la privazione della libertà. L’assenza di rilevanti contatti umani, il denegato bisogno di riconoscimento in quanto persona, la mancanza di amore, affettività, sessualità, altera il battito cardiaco, rallenta la circolazione del sangue, fa impazzire il cuore e le cellule di organi vitali. La morte di crepacuore o di cancro è la pena, non solo la privazione della libertà. Il fine pena mai, una pena senza speranza, il pensiero fissato per sempre al male arrecato, il pregiudizio del reato e del danno irreparabile, fa perdere il senso della vita e anche il senno. La pazzia è causa ed effetto della pena, non solo la privazione della libertà. Il direttore di Venezia Santa Maria Maggiore, che abbiamo visitato di recente, ha detto che ben altro ci vorrebbe che una liberazione anticipata speciale, che con Rita Bernardini e Roberto Giachetti stiamo proponendo al parlamento per ridurre il carico intollerabile di corpi e di dolore che grava sulle carceri. Come premio minimo per la buona condotta che hanno tenuto i carcerati nella condizione di degrado cui sono stati costretti non per un giorno, non per un mese, non per un semestre ma per anni! Ripeto: beati i costruttori di pace e di speranza nelle carceri. Non solo i detenuti, ma anche i detenenti. Formati sui principi e le regole della riforma carceraria, direttori, educatori e poliziotti penitenziari si sono votati a fare di più del proprio mestiere: non solo sorvegliare ma anche curare, non solo custodire ma anche confortare, essere pure un po’ infermieri, un po’ medici, un po’ psicologi, un po’ psichiatri. “Despondere spem munus nostrum”, è il motto del corpo della polizia penitenziaria. “Spes contra spem”, è il motto nostro. La loro e nostra semina di speranza in un istituto dove regna la disperazione, la loro e nostra opera di misericordia corporale nei luoghi dove si infligge la pena corporale, ha sicuramente contribuito in questi anni nelle carceri del nostro Paese a salvare molte vite. Dalla solitudine e dal crepacuore, dall’angoscia e dall’impiccagione. *Segretario di Nessuno tocchi Caino Spazi angusti, degrado, mortificazione: la cella è una prigione nella prigione di Cesare Burdese* L’Unità, 30 marzo 2024 Da alcuni mesi, con Nessuno tocchi Caino visito le carceri. Lo faccio con lo sguardo dell’architetto, nella convinzione della possibilità, seppure remota, di dare dignità alle persone e ai luoghi che appartengono al carcere, attraverso il costruito. Osservare i muri del carcere, misurarli, disegnarli e descriverli non è cosa vana, se il fine è una maggiore consapevolezza del carcere per superarlo. Lo scorso 22 marzo ho visitato le carceri di Forlì e di Ravenna, risalenti al periodo della prima riforma penitenziaria del 1889 dopo l’Unità d’Italia e architettonicamente concepite secondo l’innovativa tipologia del carcere cellulare. Da allora esse hanno funzionato in base alla ricorrente pendolarità tra spinte umanitarie e restaurazioni rigoriste che appartiene alla nostra vicenda penitenziaria e non sono mutate. Quei muri rimandano alla pena delle loro origini, afflittiva anche se finalizzata alla rieducazione e all’emenda del condannato, attraverso il lavoro, la religione e lo studio. L’attualità continua a restituirci la storica centralità della cella nell’edificio carcerario e analogamente del suo uso nella quotidianità detentiva, nonostante la pomposa espressione camera di pernottamento che l’Ordinamento penitenziario del 1975 ha introdotto. La cella, da sempre carcere nel carcere, è il luogo dove le persone detenute - da sole o in compagnia - permangono più a lungo per libera scelta o costrette nel corso delle 24 ore. Tale circostanza addensa luci e ombre: la cella è casa, dove vivere la detenzione nella dimensione più personale e intima, condividere o isolarsi, ma è anche il luogo di ozio e di convivenza forzata in condizioni di inciviltà inaccettabile. Il recente dibattito e i provvedimenti dell’Amministrazione sul regime e sul trattamento penitenziari, hanno significativamente riguardato anche i tempi e le modalità di utilizzo della cella. L’apertura e la chiusura delle celle, continuano a essere argomento divisivo in tema di modalità gestionale delle persone detenute. Le caratteristiche architettoniche, le dotazioni impiantistiche e gli arredi delle celle visitate, smentiscono moniti, raccomandazioni e programmi in un quadro desolante di disumanità. Esse sono troppo piccole, non rispettano le prescrizioni igienico-edilizie minime delle abitazioni civili, sono male arredate e fatiscenti. Anche se rispettano la soglia minima dei 3 metri quadrati di pavimento libero pro capite, esse mortificano immotivatamente la condizione abitativa ed esistenziale di chi le utilizza. La cella, dove si esauriscono in uno spazio minimo tutte le funzioni dell’abitare domestico, non viene equiparata a una camera da letto di civile abitazione. Nello spazio ridotto delle celle visitate, l’invadenza degli arredi fissi e mobili, preclude di fatto ogni possibilità alternativa al giacere distesi sul letto. In esse l’uso di cucinare e conservare alimenti (a volte nel servizio igienico), e di consumare pasti, tradisce ogni buona regola igienica e rimanda all’uso inopportuno che se ne fa, in quanto la norma la destina al sonno e al riposo. L’inadeguatezza e la miseria degli arredi presenti obbligano a usi impropri i vani finestra (già di per sé troppo piccoli e tamponati con reti metalliche oltre le inferriate che pregiudicano la visuale verso l’esterno), utilizzati all’occorrenza per stendere indumenti e depositare calzature maleodoranti. Il cattivo stato di manutenzione delle celle visitate fa il pari con tutto il resto, ed è particolarmente rilevante per la vetustà e la precarietà degli infissi esterni, degli intonaci, dell’impianto elettrico. Le nostre 189 carceri in funzione, indistintamente, sono luoghi disumani e inadeguati ai fini risocializzativi, afflittivi oltremodo, anche per la loro natura architettonica, indipendentemente dall’ineluttabilità della sofferenza che la condizione detentiva determina. Il nostro carcere costruito non è mai stato adeguato né concepito secondo i valori morali e culturali della Costituzione e del dettato normativo in essere; si tratta in ogni caso di palese insipienza istituzionale. Certamente rendere umane e dignitose le nostre 189 carceri richiederebbe un investimento miliardario, ma anche altre sensibilità, fuori da ogni logica afflittiva. *Architetto, esperto di architettura penitenziaria Sex offenders ed esecuzione della pena di Valentina Alberta* Il Riformista, 30 marzo 2024 Pochissimi esempi virtuosi caratterizzavano sino a qualche anno fa il trattamento penitenziario degli autori di reati sessuali, i c.d. sex offenders, nelle carceri italiane. Mentre la gran parte degli istituti penitenziari si limitava al confinamento nelle sezioni “protette”, in condizioni di semi isolamento, di quei detenuti considerati “infami” dal resto della popolazione detenuta (insieme dunque a forze dell’ordine, collaboratori di giustizia e detenuti transessuali, senza alcuna attenzione rispetto alla necessità di individualizzare il trattamento penitenziario), in alcune carceri milanesi iniziavano progetti di sperimentazione di trattamento psicologico per i condannati per reati di violenza sessuale. Prima a Opera, con la dott. Marina Valcarenghi e il suo progetto basato su incontri di psicanalisi e psicoterapia collettivi e individuali, poi a Bollate, con interventi inizialmente individuali e poi mano a mano più strutturati e integrati con un patto trattamentale sottoscritto da tutti i detenuti, volto a consentire una parte della socialità in modo condiviso. Una rivoluzione: le adesioni spontanee dei detenuti erano particolarmente utili e furono ottimi i risultati in termini di riduzione della recidiva (peraltro, a dispetto della vulgata sul tema, non particolarmente elevata rispetto ad altre tipologie di reati). Il buon esempio portava poi ad alcuni progetti sviluppati in autonomia in singoli istituti e al consolidamento del lavoro del CIPM diretto dal prof. Paolo Giulini a Bollate. Venne istituita una vera e propria Unità a trattamento intensificato ex art. 115 DPR 230/00, con progetti di presa in carico anche all’esterno e con la possibilità di ottenere misure cautelari ed alternative ‘ammorbidite’ in caso di emersione di problematiche psicologiche sottese ad ipotesi di reato, da verificare o già oggetto di condanna. Nel 2006 il primo giro di vite. I reati sessuali vengono introdotti senza distinzione di sorta nell’art. 4 bis OP, con tutte le conseguenze del caso. Non tanto la poco sensata richiesta di escludere collegamenti con la criminalità organizzata (?) per la concessione di misure alternative, quanto la conseguenza indiretta della non sospendibilità dell’ordine di esecuzione per la carcerazione, e quindi nessuna possibilità di una misura alternativa immediata, anche in caso di percorsi psicologici già in essere all’esterno. Nel 2009 viene corretta la stortura logica dell’esigenza di accertare legami associativi, ma viene anche introdotto un ulteriore automatismo, che cambierà completamente l’approccio punitivo del sistema: la condanna per i reati in questione impone obbligatoriamente un intero anno di osservazione da condurre all’interno delle mura del carcere, a prescindere dall’entità della pena irrogata. Nessuna valutazione discrezionale della magistratura, dell’esecuzione o di sorveglianza, può dunque impedire di trascorrere un anno all’interno del carcere, vanificando eventuali percorsi di reinserimento già intrapresi. I programmi di trattamento interni divengono dunque un obbligo o comunque una “calda raccomandazione” per i condannati, a prescindere da un’autentica adesione ad un progetto di cura. Oggi le sezioni per i c.d. sex offenders (e anche per l’altra categoria di autori di reati intrafamigliari, i maltrattanti, che non rientra - ancora - nei meccanismi automatici ma che costituisce una fetta amplissima di detenuti) sono molte e i progetti di trattamento specifico si moltiplicano. Nel frattempo, nel 2012, la norma penitenziaria viene ulteriormente modificata con la volontà di incentivare, senza però alcun automatismo, la partecipazione a programmi specifici nel caso di reati commessi a danno di minori. Infine, il consolidamento definitivo della tendenza alla punizione senza alcuna opzione terapeutica autentica è avvenuto con le norme della legge “Roccella”, tutte tendenti ad aggravamenti di pena e a pesantissimi automatismi estesi all’area delle misure cautelari e di prevenzione. E così i “percorsi di recupero presso enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di soggetti condannati per i medesimi reati”, già introdotti nel 2019 come condizione per la sospensione condizionale della pena, divengono a necessaria frequenza bisettimanale e con verifica di “superamento con esito favorevole”. Un esame, addirittura. Senza neppure verificare se questi corsi siano presenti sul territorio in misura sufficiente e con livelli di prestazione idonei. E non è un caso che proprio su questa disposizione si incardinino le proposte di legge volte ad introdurre la cosiddetta “castrazione chimica”, terapia farmacologica che diverrebbe non obbligatoria, ma caldamente consigliata. Confidiamo che tale prospettiva sia irrealistica, ma altro non farebbe che confermare la tendenza ad una legislazione finalizzata non alla cura ma alla afflittività. *Avvocato penalista Area contabile e Polizia penitenziaria: una sinergia che può fare la differenza di Sandro Gugliotta* Il Dubbio, 30 marzo 2024 La legge sull’ordinamento penitenziario nella parte dedicata alla rieducazione dei ristretti prevede in modo preciso e puntuale che l’attività di osservazione e trattamento deve essere svolta in modo complementare da diverse figure presenti in istituto: i funzionari giuridico pedagogici, i professionisti esperti e gli incaricati della polizia penitenziaria. Dunque disegna una attività di osservazione articolata, che si basa sulle competenze di figure che nella loro specificità di compiti e ruoli, area educativa ed area della sicurezza, danno un contributo fondamentale alla definizione di quello che sarà il modello di intervento nell’istituto. Il dettato normativo vuole configurare una azione congiunta di queste aree, che contempli tutti gli aspetti che sono fondamentali sia dal punto di vista psicologico- educativo che da quello della sicurezza intesa nel suo significato più ampio. Un aspetto invece, che non è sufficientemente rimarcato riguarda l’attività di collaborazione e sinergia che deve realizzarsi tra l’area amministrativo- contabile e la Polizia penitenziaria. L’ordinamento non ne parla in modo esplicito ma si tratta di un aspetto che appare in tutta la sua importanza se si guarda dal punto di vista della gestione reale concreta dell’istituto penitenziario. Le due principali gestioni contabili degli istituti “il materiale” per la gestione del patrimonio e “la cassa” per la gestione del fondo detenuti, non potrebbero essere svolte correttamente se i funzionari contabili titolari delle gestioni non avessero canali virtuosi di comunicazione e scambio di informazioni e dati con i loro “fiduciari” incaricati della Polizia penitenziaria. La gestione del patrimonio sarebbe impossibile senza un rapporto strutturato e professionale di comunicazione con gli addetti di Polizia penitenziaria al magazzino materiale, al magazzino detenuti, alle cucine, al magazzino vestiario, alla caserma, con gli addetti alla manutenzione ordinaria dei fabbricati, e con i responsabili degli automezzi. Le operazioni contabili da realizzarsi sulle piattaforme informatiche devono rispecchiare in modo fedele le reali variazioni del patrimonio dell’istituto, ed il corretto riscontro delle disposizioni che le determinano si può fare soltanto con un costante e continuo monitoraggio dei movimenti reali. Poiché il funzionario contabile del materiale non può stare fisicamente e contemporaneamente in più posti dell’istituto, la comunicazione con gli addetti della Polizia penitenziaria diventa essenziale. Diversamente il risultato della gestione sarebbe, nei casi migliori, il disordine contabile. In modo del tutto analogo il funzionario contabile di Cassa deve dialogare costantemente con i referenti di Polizia penitenziaria addetti ai conti correnti dei detenuti ed anche con i vari responsabili dei reparti, per elaborare senza ritardi i movimenti di denaro e le diverse richieste dei detenuti. Sebbene possa sembrare scontato sottolineare tali aspetti, in realtà la spinta verso una sempre maggiore collaborazione tra Polizia penitenziaria ed Area amministrativo- contabile è a mio modo di vedere necessaria, non soltanto per cacciare indietro le vecchie visioni di una amministrazione divisa al suo interno con aree funzionali che invece di collaborare sono in perenne contrasto tra loro, ma anche perché, alla prova dei fatti, la proficua sinergia e intesa tra le diverse aree, ha come sbocco automatico la corretta gestione amministrativo- contabile dell’istituto anche sotto il profilo di una conseguente e più efficace gestione della sicurezza. È riscontrato in modo unanime che tutte le organizzazioni di lavoro che curano la comunicazione in modo funzionale agli obiettivi sono quelle che delineano in tempi minori le “best practices” con le quali in concreto si portano a conclusione con successo i diversi processi lavorativi. Infine vi è un valore aggiunto che è quello di restituire l’immagine di una Amministrazione coesa, come un corpo unico, che viaggia spedita verso i compiti istituzionali che le sono assegnati. *Capo Area Amministrazione Contabile Rebibbia Giustizia, il dibattito più pazzo del mondo di Valerio Spigarelli L’Unità, 30 marzo 2024 A sentire le polemiche tra toghe, ministri, politici, giornali, dubito che molti dei protagonisti dell’acceso confronto riuscirebbero a passare indenni il Minnesota test. Una cosa è certa: siamo il paese che può vantare il dibattito sulla giustizia più schizofrenico dell’universo. Sotto questo punto di vista dubito che molti dei protagonisti del medesimo riuscirebbero a passare il minnesota test indenni. Partiamo proprio dalla nota polemica sui test agli aspiranti magistrati. Intervento epocale, sostengono i governativi, finalmente inverato l’anatema del Cavaliere sulla tendenziale anomalia antropologica dell’Homus Magistratus. D’ora in poi non sarà più necessario sguinzagliare giornalisti investigativi di prim’ordine, e di sicura indipendenza, per andare a controllare se un giudice incaricato di decidere su di un caso delicato ha tutte le rotelle a posto; magari sbattendo sui giornali amici che indossa calzini dai colori stravaganti e per questo deve essere un po’ mattocchio. Il check up glielo facciamo all’inizio e stiamo a posto per i successivi trent’anni. La stampa di destra esulta dando il benvenuto ai “test mentali” per le toghe, un preclaro esempio di informazione moderata. Ora, a dirla tutta, e con il dovuto rispetto visto che sul tema la categoria ha il nervo scoperto, se proprio uno dovesse porsi il problema del profilo psicoattitudinale dei magistrati, con il lavoro stressante che fanno, sarebbe più logico che i controlli avvenissero in corso d’opera, cioè durante la carriera, non solo all’inizio. Questo però non si può fare, perché sennò i magistrati si arrabbiano sul serio. Quello che si propone, minimizzano infatti i governativi, è di fare lo screening iniziale che si utilizza anche per le forze dell’ordine al momento dell’assunzione; il già citato minnesota test, niente di che. In effetti la magistratura dovrebbe essere rassicurata dal paragone, se i controlli sono quelli non c’è nulla di che avere timore, basterebbe pensare al G8 di Genova o ai fatti di Santa Maria Capua Vetere per concludere che deve essere una cosetta a maglie larghe. Invece i magistrati e il loro sindacato insorgono perché non gli pare vero riesumare il fantasma del Cav e delle sue battutacce, o forse hanno letto una delle domande dei futuri test, quella che recita “penso spesso che ce l’abbiano tutti con me”, e si sono immedesimati. Il che dimostra che se il test invece dei magistrati lo facesse il loro sindacato qualche problema a passarlo lo avrebbe. Si scatena la polemica e la stampa nazionale amica della magistratura, cioè quasi tutta, immediatamente fa a gara con quella di destra per profondità di analisi e moderazione dei toni. “Assalto alla magistratura” è uno dei titoli più soft. E uno già si immagina stuoli di strizzacervelli sparpagliati nei tribunali italiani con divani portatili che smascherano schiere di magistrati ansiosi o depressi per metterli all’indice. La gara a chi la spara più grossa viene però vinta da una nota cronista de La Repubblica esperta - si fa per dire - di giustizia, che dice senza imbarazzo che “psicologia e psicoterapia non sono scienze matematicamente esatte, proprio il contrario del diritto”. In realtà, mentre la polemica è al diapason, i governativi hanno già fatto la loro strategica e consueta marcia indietro. Gli esperti della psiche interverranno ma sotto il diretto controllo di un magistrato il quale, forte del fatto che a lui non lo può controllare nessuno, stabilirà se i test hanno ragione o meno. Una farsa nella quale alla fine tutti potranno vantare di aver vinto e che viene degnamente, si fa per dire, conclusa dal sublime scambio di battute tra il procuratore Gratteri e il ministro Nordio sulla necessità di alcol e narco test per gli eletti dal popolo e i membri del governo invocata provocatoriamente dal primo. Uno si aspetta che il ministro mandi soavemente a stendere il Procuratore, rammentandogli che nei palazzi del potere ci si va su mandato popolare e non per concorso, il che significa che un matto in parlamento o al governo bene o male ce lo scegliamo al momento del voto mentre uno in tribunale o in procura ci capita per concorso. Invece no, Nordio risponde che lui è pronto a farli i test; che Dio gliela mandi buona. Mentre infuria la psico-polemica, una delle poche innovazioni coerenti della legge Cartabia, partorita dalla commissione diretta da un presidente emerito della Consulta, peraltro magistrato, viene alla ribalta. L’idea è che per valutare la vita professionale di un magistrato, più che il numero di telefonate al Palamara di turno, tornerebbe utile mettere nel fascicolo personale non i giudizi che si ritrovano ora - che sembrano ciclostilati da uno che alle elementari ha imparato solo gli aggettivi superlativi - ma esempi concreti e statistiche del curriculum professionale. Apriti cielo, dopo la psico polizia appare il fantasma del Grande Fratello. La misura viene immediatamente tacciata di aprire le porte al carrierismo più sfrenato e di riportare la magistratura ai tempi bui in cui per fare carriera i giudici italiani buttavano il tempo a scrivere sentenze in latinetto. Il nesso sfugge a noi poveri mortali ma tant’è: se lo dice l’ ANM sarà sicuramente vero. Siccome a via Arenula pensano di aver già dato molto con l’ideona dei test allora ragionano che in tema di carriera si può concedere qualcosina. Ecco dunque che nel fascicolo non saranno inseriti i provvedimenti o verificati gli esiti dei medesimi ma solo di un campione degli stessi. Una sorta di lotteria delle sentenze e delle ordinanze dall’incerta concludenza statistica. In realtà così è l’ennesima norma manifesto che serve a poco. E serve ancora meno la pezza che ci si mette sopra quando dalle file della maggioranza e il solito Costa dall’opposizione qualcuno fa notare che la soluzione finale sembra una presa in giro. Prontamente a via Arenula modificano ancora una volta la proposta dicendo che nel mitico fascicolo entreranno comunque “il trenta per cento” dei provvedimenti. Scelti da chi e come non appare chiaro; speriamo che non siano gli stessi chiamati a valutare la sanità mentale degli aspiranti uditori. Mentre queste delicatissime questioni vengono dibattute scoppia il caso Decaro e la classe politica dà il meglio di sé sul tema dell’antimafia che, come ogni religione, se ne impipa delle categorie psicopatologiche anche perché da quelle parti i matti di solito li fanno santi. Il fatto è noto, il sindaco di Bari, che di suo può vantare un curriculum di tutto rispetto sul tema della lotta alla criminalità organizzata, vede il suo Comune in odor di scioglimento per sospette “infiltrazioni” mafiose. Gli esperti del ramo sanno che il termine dal vago sentore idraulico significa tutto e nulla giacché viene utilizzato per coprire un ventaglio di situazioni diversissime che lasciano un amplissima discrezionalità applicativa. Talmente ampia da scadere spesso e volentieri nell’arbitrio. L’occasione sarebbe buona per aprire una riflessione sull’armamentario antimafia, in particolare sulla esondazione del potere prefettizio e giudiziario rispetto alla volontà popolare. Macché, diventa l’ennesimo derby tra osservanti del rito antimafioso, stavolta a parti invertite rispetto ai consueti schieramenti. La destra, che spesso si è trovata i suoi nei panni di Decaro, invoca l’intervento di qualche prefetto di ferro, la sinistra grida al complotto da parte del ministro di polizia dimenticando le centinaia di volte che ha alzato la voce per chiedere lo scioglimento del “comune-di-roccasecca” di turno se il pronipote della cognata della colf di un mafioso di zona era stato assunto per fare le pulizie. Per fortuna scende in campo Emiliano e dall’alto della sua indubbia competenza in qualità di officiante del rito garantisce l’osservanza da parte di Decaro. Nel farlo narra una parabola con lui, in veste di San Michele protettore, andato a domicilio da Satana per raccomandare il suo protetto che aveva sfidato le cosche a colpi di ZTL. Decine di politici imputati di concorso esterno trasecolano, assieme ai loro avvocati, essendo stati mandati sotto processo per raccomandazioni o contatti molto più blandi. Decaro, invece di riflettere sul fatto che la sua paradossale situazione dovrebbe far ragionare sugli effetti perversi della legislazione antimafia, nega l’intervento di San Michele ma prima rovescia sul tavolo del Viminale decine di faldoni di carte che dimostrano la sua obbedienza e poi si lamenta giustamente che quelli non hanno avuto neppure il tempo di leggerle prima di valutare la necessità dell’ispezione. Sembra di sentire le parole di quel senatore che, anni fa, chiedeva ai suoi colleghi almeno di leggere le carte prima di autorizzare il suo arresto. Richiesta inutile, il Senato autorizzò il carcere preventivo, che durò due anni e mezzo e il senatore venne poi assolto da un tribunale che le carte le lesse sul serio. Inutile cercare una dichiarazione di solidarietà del Decaro di turno. Per fortuna è Pasqua e ci si può rilassare. Pare che sull’Olimpo si siano divertiti a somministrare il minnesota test a Dike. Alla domanda n° 37 che recita “a volte ho voglia di fracassare qualcosa” la dea della giustizia ha risposto “se guardo il dibattito sulla giustizia in Italia, tutto”. Gratteri invoca alcol e narco test per eletti e governanti. Uno si aspetta che Nordio gli ricordi che nei palazzi del potere si entra per mandato popolare, invece dice che è pronto a farli i test. Che Dio gliela mandi buona. Musolino: “Gli psicotest servono solo a screditare la magistratura” di Mario Di Vito Il Manifesto, 30 marzo 2024 Il segretario di Magistratura Democratica: “Il governo è contro le istituzioni di garanzia. C’è un contesto negativo, veniamo da attacchi personali, come il caso Apostolico, e iniziative disciplinari gravi come quella contro i giudici di Milano per Artem Uss”. Stefano Musolino, procuratore aggiunto a Reggio Calabria e segretario di Magistratura Democratica, il consiglio dei ministri ha dato il suo ok e i test psicoattitudinali per i magistrati sembrano essere sul punto di diventare realtà… I magistrati hanno accolto questa notizia con disagio. E questo disagio va inserito in un contesto generale. Veniamo da attacchi personali anche molto duri, come nel caso di Iolanda Apostolico; veniamo da gravi iniziative disciplinari, come quella per il caso di Artem Uss contro i magistrati di Milano; veniamo da una situazione di palese inefficienza sul versante del processo telematico, che non sta funzionando. Veniamo insomma da una serie di iniziative che denotano soltanto intenti denigratori verso la magistratura. Questi test altro non sono che l’ennesimo tentativo di minare l’affidabilità dei magistrati davanti all’opinione pubblica. Il problema, a volerlo prendere sul serio, è far funzionare meglio i sistemi di valutazione già esistenti, che peraltro hanno tra i loro presupposti proprio l’equilibrio del magistrato. A questi test si è anche arrivati senza un vero percorso... La proposta dei test, in effetti, non era nella delega data al governo dal parlamento. Dunque non c’è stata alcuna vera discussione né tra le forze politiche né nell’opinione pubblica. Alla fine tutto questo sembra soltanto il tentativo di dare uno schiaffo alla magistratura, presentandola come un insieme di soggetti inaffidabili. Non dubito, per il resto che qualsiasi magistrato potrebbe superare questi test. E non perché tutti i magistrati siano perfetti, ma perché la capacità di equilibrio giurisdizionale è una materia molto diversa e molto più complessa rispetto all’equilibrio, diciamo, personale. Non è la prima volta che si parla dei test psicoattitudinali, già ai tempi dei governi Berlusconi c’era chi li proponeva... Sì, se ne parlava mentre alcune trasmissioni televisive creavano servizi come quello sui calzini di un giudice sgradito al governo (Raimondo Mesiano, ndr) per far passare l’idea che non fosse una persona equilibrata. Questo fatto ci ricorda quanto il discorso sui test possa anche essere pericoloso. La Costituzione dice che in magistratura si accede per concorso e non per test psicoattitudinali. Come vede la questione da questa prospettiva? Davanti alla Corte costituzionale si va solo in via incidentale e probabilmente nessuno avrà bisogno di fare ricorsi di questo genere perché i test non avranno capacità selettiva. La verità è che non avranno alcun effetto concreto e servono soltanto a cercare di screditare la magistratura. Mi dispiace che tutto questo sia nato da due magistrati che sono al governo (Nordio e Mantovano, ndr), che dovrebbero conoscere bene l’organismo giurisdizionale e che dovrebbero sapere che molti dei paesi che avevano misure del genere le hanno abolite da tempo. Tra qualche giorno l’Anm deciderà se indire o meno uno sciopero. Cosa ne pensa? Per noi lo sciopero è sempre l’extrema ratio. Ne abbiamo fatti sempre e solo quando ci sono sembrati in pericolo gli interessi dei cittadini, non abbiamo mai partecipato a scioperi corporativi. Dovrà esserci una valutazione unitaria di tutte le componenti dell’Anm. A maggio ci sarà il congresso dell’Anm a Palermo. Magistratura Democratica come arriva a questo appuntamento? La nostra speranza è che sarà un congresso aperto e che venga superata l’attuale fase in cui mi pare che alcune correnti, parlo di Magisratura Indipendente e di Area Democratica per la Giustizia, siano più che altro interessate ad avere attenzione mediatica a scapito degli interessi unitari della magistratura. Serve quindi maggiore consapevolezza dell’importanza di rivendicare l’unità della magistratura. L’obiettivo è questo. Questo governo spesso utilizza le istituzioni come un manganello, da ultimo ad esempio abbiamo il caso De Caro a Bari con l’ipotesi di sciogliere il consiglio comunale a due mesi dalle elezioni. Questa durezza, però, talvolta finisce per compattare quelli che il governo ritiene essere suoi nemici. Tra le toghe, al Csm, c’è concordia nel respingere l’idea dei test. Possiamo dire che, paradossalmente, Meloni sta aiutando l’unità della magistratura? È evidente che le divisioni vengono meno davanti a certi attacchi smodati. Dicevamo prima che gli attacchi cominciano ormai ad essere un bel numero… C’è una tendenza a voler indebolire le istituzioni di garanzia. E va bene che la magistratura ha un evidente profilo di contropotere, ma non è un vero potere: non possiamo inventarci o modificare le norme. Possiamo sollevare questioni costituzionali o individuare norme sovranazionali a cui rifarci, come nel caso Apostolico. Noi siamo un’istituzione di garanzia chiamata ad avere un controllo di legalità. E il governo deve avere rispetto di questo spazio. Psico-test per magistrati, la psichiatra Bondi: “Così porta a galla patologie nascoste” di Donatella Zorzetto La Stampa, 30 marzo 2024 Un test psicologico da sottoporre ai magistrati? Potrebbe anche essere efficace, ma in termini generali. Come le domande dello stesso test, dal nome Minnesota: alcune anche banali, altre caratteristiche di determinate problematiche sulla base di una standardizzazione clinica. Lo scopo? Sondare l’aspetto psicologico di una persona. Anche di un magistrato, evidentemente, secondo chi l’ha proposto. Ma non basta, nel senso che, se si evidenziassero alterazioni rispetto alla norma, allora bisognerebbe ricorrere a strumenti più specifici. Lo spiega Emi Bondi, presidentessa della Società italiana di psichiatria, con tutte le cautele del caso. “Un test generale” - Il Minnesota Multiphasic Personality Inventory, o Mmpi, che potrebbe essere somministrato ai magistrati, secondo il decreto legislativo approvato il 26 marzo dal Consiglio dei Ministri, è uno strumento largamente utilizzato. Ne sanno qualcosa i poliziotti, o i soldati, che devono affrontarlo a inizio carriera. Cosa che Bondi sottolinea. “Stiamo parlando di uno dei test in assoluto più diffusi e conosciuti, usato sia a livello di pratica clinica che per screening di tipo psicologico - spiega Bondi -. Un test che ha più di 100 anni, ideato nel 1942, negli Stati Uniti, e poi revisionato negli anni 90 per adeguare risposte e domande alle necessità del tempo”. “Mette a nudo il nostro profilo psicologico” - A cosa serve e perché è così diffuso? “Perché è un test generale che consente di farci comprendere l’aspetto psicologico di un individuo, le sue carattreristiche generali appunto: se vi sono deviazioni verso scale cliniche generali, ossia patologie come depressione, ipocondria, schizofrenia. Ovviamente patologie che, se emerono, vanno approfondite in sede psichiatrica”, spiega Bondi. Dunque, le applicazioni del sistema Minnesota, oltre che lavorative, sono spesso psichiatriche: il test viene usato per evidenziare problemi psicologici che vanno dalla depressione all’ipocondria, dal rischio dipendenze. Tre elementi di valutazione - Sono tre le scale di valutazione in uso nel test Minnesota. “Sono ‘menzogna’, ‘eccessivo controllo emotivo’ e ‘atipia della risposta’: consentono di verificare se la persona ha risposto in modo sincero - conferma la psichiatra. Il test pone domande, alcune banali e altre caratteristiche di determinate problematiche, sulla base di una standardizzazione clinica. In questo modo si può vedere se l’interessato presenti alterazioni rispetto alla norma. E quante: se due o tre insieme. Può essere paranoico o sospettoso fino ad avere delle vere e proprie personalità patologiche, che però vanno validate con strumenti più specifici”. Sono 567 affermazioni del test a cui si risponde “vero” o “falso”. Frasi come: “Mi piacciono le riviste di meccanica”; “Mio padre è una buona persona, o (se suo padre è morto) mio padre è stato una buona persona”, fino a “Riesco ad esprimere i miei veri sentimenti solo quando bevo” e “Ho spesso desiderato di essere di sesso opposto al mio”. “Essendo domande poste in un certo modo, nel senso che vengono riproposte all’interno del test con una formulazione diversa, è possibile capire se la persona abbia risposto in modo coerente - sottolinea Bondi -. Non parliamo dunque di un test che fa diagnosi psichiatrica perché in quel caso si utilizzerebbero altre scale e il colloquio clinico, ma di una prova che fornisce un orientamento generale sul fatto che la persona sia nella norma quanto a emotività e capacità di relazionarsi agli altri, oppure se, al contrario, presenti qualche patologia”. Le scale di validità - Dunque le scale di valutazione a cui fa riferimento Minnesota sono legate alla menzogna, all’eccessivo controllo emotivo e all’atipia di risposta. E per tutte e tre esistono punteggi che rendono il risultato del test invalido. Tre scale inserite tra le dieci cliniche, per ognuna delle quali esiste un punteggio oltre al quale viene definito il superamento della soglia di attenzione. Sono: 1- Ipocondria; 2- Depressione; 3- Isteria; 4- Deviazione; Psicopatica; 5- Mascolinità/Femminilità; 6- Pranoia); 7- Psicoastenia; - Schizofrenia; 9- Ipomaniacalità; 10- Introversione sociale. “In base al punteggio di ogni scala clinica si può valutare la presenza o assenza di specifici sintomi e l’eventuale correlazione con particolari sindromi psichiatriche - conclude Bondi -. E tutto ovviamente essere rivalutato con esame clinico e supporto anamnestico”. Scioglimenti dei Comuni per mafia, serve una riforma radicale di Gianpaolo Catanzariti Il Dubbio, 30 marzo 2024 Il caso Bari e l’assurdo di una legge che mortifica il voto senza scalfire le infiltrazioni. Che si annidano altrove. Il “caso Bari” ha scatenato un putiferio politico. Ma, come spesso accade in occasione delle più sconce vicende che calpestano lo Stato di diritto, siamo ancora alla solita strumentalizzazione politica. Un po’ come avvenuto con il caso Cospito che, lungi dall’essere occasione di revisione dell’anacronistico 41 bis, ha visto l’assurda convergenza, tra tutte le forze politiche, nessuna esclusa, sulla indispensabilità del carcere duro. Così per Ilaria Salis, puerile comparazione tra l’Ungheria e l’Italia sulla disumanità delle carceri, piuttosto che l’occasione per imporre una Carta penitenziaria, vincolante per i paesi del Consiglio d’Europa. O, ancora, dinanzi al dilagare dei suicidi nelle carceri, la polemica su chi ha introdotto nuovi reati o più ha inasprito le pene, senza affrontare il vero buco nero della democrazia italiana, la condizione vergognosa delle carceri italiane. E così che appare il dibattito politico sullo strumento dello “scioglimento dei comuni per mafia”, del tutto inadeguato se non politicamente pilotato. Con un centro-destra, almeno Forza Italia, imbarazzato ed ondivago dinanzi alla piega giustizialista del “caso Bari”; un Pd confuso in cui, accanto allo sconcerto per la strumentalizzazione della misura, si trovano le solite posizioni di omertoso, perciò sospetto, silenzio. Eppure, a parte l’onorevole Bruno Bossio, solitaria firmataria in passato di una proposta di legge comunque migliorativa sugli scioglimenti, di recente si è levata la voce autorevole dell’onorevole Orfini, già presidente del Pd, che, con grande onestà intellettuale e chiarezza, invoca una discussione laica per ripensare un meccanismo divenuto, nel tempo, un infernale strumento di lotta politica, inidoneo ad arginare le infiltrazioni mafiose nei Comuni. E allora che discussione laica sia, purché si giunga ad una riforma radicale. Non è più il tempo di modifiche buone solo per la propaganda politica. Quando alcuni anni fa, assieme a Pierpaolo Zavettieri, Mimmo Gangemi, Ilario Ammendolia, Andrea Cuzzocrea, sollevammo, in Calabria, con forza l’ipocrisia della lotta alla mafia attraverso lo “scioglimento dei Comuni”, commettendo sacrilegio dinanzi alle vestali dell’antimafia, nessun partito in Parlamento ci diede ascolto. Anche l’Anci Calabria, benché i numeri della misura in quella regione fossero allarmanti, si chiuse a riccio. Solo il Partito Radicale, quello di Marco Pannella, cogliendo il senso profondo della iniziativa, manifestò interesse per una lotta di avanguardia. E così che il 29 maggio 2018, assieme all’Ucpi, Migliucci presidente e Petrelli segretario, depositammo in Cassazione 8 proposte di legge di iniziativa popolare, tra cui quella sullo scioglimento dei Comuni. L’idea era, e rimane, quella di una radicale trasformazione dell’istituto, partendo proprio dall’analisi storica delle sue concrete applicazioni. I numeri rilevanti dal ‘91, data del cd decreto Taurianova, ad oggi impongono una profonda riflessione e una indifferibile modifica per rendere lo strumento più efficace nel contrastare il condizionamento, evitando, al contempo, l’annientamento di una effettiva partecipazione popolare alla vita amministrativa delle comunità, unico vero antidoto alle mafie. I comuni sciolti ad oggi sono stati ben 380. Il 20% ha subìto, spesso a distanza ravvicinata, più scioglimenti. Se la terapia, quindi, non è riuscita a debellare l’infezione mafiosa, al punto da richiedere un secondo intervento, forse sarebbe il caso di rivederla. Continuando con l’accanimento terapeutico rischiamo il decesso del paziente ovvero di quelle comunità. Alcuni anni fa uno studio condotto dal ministero dell’Interno tra i cittadini dei Comuni sciolti, segnalava come il 24% degli intervistati giudicava la misura “un complotto politico”, il 14,2% una “inutile perdita di tempo”, il 38% provava “indifferenza” verso la rimozione degli organi politici e il 28,5% “rassegnazione”. Risposte emblematiche sulla sfiducia nutrita dai cittadini verso la draconiana misura antimafia. Occorre, allora, superare il paradigma emergenziale posto alla base dell’attuale legge, per rimettere al centro una mirata verifica sulla gestione “pubblica” locale. La stragrande maggioranza dei comuni sciolti presentano gravi deficit gestionali/organizzativi dei servizi. Non sarebbe il caso, piuttosto che rimuovere gli organi politico-amministrativi, rispondere, in via principale, con supporti e interventi per turare le falle gestionali, facili ingressi per gli appetiti criminali? Occorre spostare l’attenzione dello Stato dalle relazioni personali alle condotte amministrative in grado di segnalare, in concreto, il condizionamento mafioso. Ritenere, benché del tutto ininfluenti nella gestione amministrativa, un rapporto di lontana parentela o una interlocuzione occasionale, forme di contagio mafioso serve solo alla strumentalizzazione politica. Questo dovrebbe fare, in via principale, una commissione d’accesso, affiancata magari da un rappresentante dell’ente interessato, in funzione consultiva e di contraddittorio, per poi relazionare alla filiera sovrastante. Solo in assenza assoluta di rimedi davvero preventivi e in presenza di elementi concreti, univoci e rilevanti su collegamenti diretti o indiretti con la criminalità organizzata, capaci, in concreto, di una alterazione del procedimento amministrativo/gestionale di un comune si dovrà giungere all’estremo scioglimento. Così come occorre una fase di effettiva verifica dell’operato svolto dalla commissione straordinaria in chiave di bonifica dell’ente, magari entro tre mesi dall’insediamento della nuova amministrazione eletta. Non è raro, infatti, nel Comune oggetto di reiterata decapitazione, riscontrare le stesse criticità/permeabilità segnalate nel precedente scioglimento, segno di inadeguatezza dei commissari. Il testo “radicale” è ancora là, pronto ad essere discusso e recepito, sempre che si voglia rendere lo scioglimento per mafia un efficace antidoto alle infiltrazioni mafiose, affrancandolo dalla condizione di strumento di lotta politica. La coop calabrese per ex detenuti accusata di frequentazioni “pericolose”: accoglieva pregiudicati di Simona Musco Il Dubbio, 30 marzo 2024 Nel 2012 il Consiglio comunale di Reggio Calabria fu sciolto anche perché, secondo la commissione, il presidente di una coop dava lavoro a persone svantaggiate. Ottobre 2012. Demetrio Arena, eletto sindaco della città di Reggio Calabria da 17 mesi, riceve una telefonata. Il Consiglio dei ministri ha appena sciolto la sua amministrazione per infiltrazioni mafiose. Una doccia fredda che si tramuta subito in un record: è il primo capoluogo di provincia ad incappare in questa decisione. Ma la Calabria è il posto dei record a prescindere, specie quando si tratta di scioglimenti. Quasi tutti frutto di disordini amministrativi, più che di atti politici precisi. Con l’effetto pratico, spesso, di ridurre intere cittadine al fantasma di se stesse. Quando arrivano i funzionari della prefettura a guidare i Comuni i poteri sono limitati. Ordinaria amministrazione, questa la regola, che dunque impedisce ogni forma di progresso. E spesso questo si traduce nella morte lenta di una città, di un paese, che un giorno è al centro della movida e il giorno dopo arranca per sopravvivere. È la dura legge degli scioglimenti, la legge del sospetto. Sospetto che non ha bisogno di riscontri, trasformandosi in una potente clava che rade al suolo ogni cosa. Ignorando le soluzioni intermedie, il contraddittorio, l’analisi approfondita. Reggio Calabria, dunque, fece storia. E la corposa relazione che spiegava le irregolarità - fatta anche di scambi di persona e sviste clamorose - racconta storie che avrebbero dovuto servire da allarme per le azioni future. E che forse non sono servite, a voler leggere la letteratura sugli scioglimenti calabresi. Nella relazione della commissione d’accesso agli atti del Comune di Reggio Calabria c’era un soggetto, indicato come “sospetto”, dalle frequentazioni pericolose e dal passato burrascoso, uno di quelli che, stando alla lente della commissione, offrivano il braccio del terzo settore alla scalata delle ‘ndrine a Palazzo San Giorgio. Ma la fedina penale di A. V., presidente di una cooperativa che oggi non esiste più, era “immacolata”. E le frequentazioni pericolose, quelle segnalate dai commissari che hanno stilato il lungo e articolato documento, altro non erano se non gli utenti del suo centro per le tossicodipendenze, un centro riconosciuto e finanziato dal ministero della Giustizia e dall’Azienda sanitaria provinciale. Una storia paradossale, che il presidente della cooperativa tentò di chiarire subito. “Sono responsabile di un centro per le tossicodipendenze - affermò subito dopo aver letto il suo nome nella relazione -, quindi che mi accompagnassi con dei tossicodipendenti era il minimo sindacale che mi si potesse chiedere. In quella relazione manca qualsiasi tipo di spiegazione del perché io andassi in giro con quei soggetti. È stata una forzatura e mi auguro solo per noi, altrimenti sarebbe pesante pensare che questo è il criterio seguito per sciogliere un’amministrazione comunale”. Nella relazione, quasi tre pagine erano dedicate ad A. V. e alle sue “amicizie”. Persone per le quali la sua cooperativa percepiva, periodicamente, delle rette direttamente dall’Asp, finalizzate proprio al pagamento del servizio di accompagnamento. “Noi possiamo essere contigui alla ‘ndrangheta esattamente come potrebbe esserlo un questore - aveva ironizzato l’allora presidente -. Non in modo diverso”. Le sue frequentazioni pericolose, inoltre, sarebbero state quelle con alcuni soci della sua cooperativa. Frequentazioni “imposte” per legge e che riguardavano tutte le cooperative di tipo B: la legge 381 del 1991, infatti, stabilisce che almeno il 30 per cento dei loro lavoratori sia costituito da persone svantaggiate. “Abbiamo seguito la legge - sottolineava -, sarebbe bastato andare a leggere il libro soci per capire di cosa si stesse parlando: a fianco ad ogni nome sospetto è riportata la dicitura “soggetti svantaggiati”, il che significa ex tossicodipendenti ed ex detenuti. C’era anche qualcuno che venne mandato da noi in affidamento per scontare gli arresti e che poi è stato estromesso per incompatibilità morale con le linee della cooperativa. È tutto riportato nei registri”. Ma perché questi approfondimenti non sono stati fatti? E le altre 230 pagine di relazione sono state scritte con lo stesso metodo? “Se questo è il criterio chissà quanto c’è di vero in uno scioglimento - aveva sottolineato qualche giorno dopo la pubblicazione della relazione -. Io voglio sperare che ci siano altre motivazioni, reali. Ma c’è molta ipocrisia sulle cooperative di tipo B. Dobbiamo continuare a lavorare o no? Possibile che devo essere segnalato e messo alla gogna quando è il tribunale a chiamarmi, pregandomi di prendere la gente gratis o di allungare la permanenza di qualcuno di altri 15 giorni? E la situazione non riguarda solo me, ma anche altre cooperative”. Ed essere additati dalle stesse persone che stabiliscono le linee da seguire e pagano le rette è paradossale. Anche sulla sua persona le indicazioni non mancavano: risultava segnalato per lesioni personali, violenza e minaccia a pubblico ufficiale, danneggiamento, violazione degli obblighi di assistenza familiare, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e furto aggravato. “Per quanto riguarda le lesioni personali e le minacce a pubblico ufficiale - aveva sottolineato - è un fatto che risale a 22 anni, quando chiamai un medico, allora pubblico ufficiale, che venne ubriaco a casa mia ed io lo scaraventai fuori con violenza. Non ci fu denuncia di nessun tipo ma evidentemente rimane tutto, anche se ero io quello che voleva denunciarlo all’ordine dei medici. Per quanto riguarda il resto delle segnalazioni sono stato assolto da ogni accusa sempre perché il fatto non sussiste. Parlano le sentenze”. Ma nemmeno quelle bastano. L’Italia alla rovescia della lotta alla mafia di Attilio Bolzoni Il Domani, 30 marzo 2024 Chi sale e chi scende nella Sicilia sottosopra che dimentica le sue ferite, chi comanda e chi viene messo sotto il tacco, bastonato, nell’Italia dove il tempo confonde i ricordi e cancella macchie che sembravano indelebili? Chi è passato da un carcere o affogato in qualche vergogna oggi è cercato, protetto, ossequiato. Chi ha inseguito verità per trent’anni è diventato preda, braccato da ex imputati eccellenti e commissioni parlamentari, da senatori rancorosi, dileggiato ogni giorno, costretto a difendersi da tutto e da niente. Continuando così, in questo clima infame di riscrittura dei fatti e della nostra storia, fra poco qualcuno arriverà con naturalezza a chiamare la strage di Capaci “la disgrazia”, come ha fatto con me una volta Antonina Brusca, dama di San Vincenzo e madre di quel Giovanni che sulla collinetta ha premuto il pulsante che ha scatenato l’inferno. È un’Italia meschina, vendicativa, che ci riserva sorprese che proprio non ci aspettavamo. Ci sono due casi recenti che raccontano questo mondo capovolto, due vicende che si sono incrociate in questi ultimi giorni fra Palermo e Roma. La “punizione” per Nino Di Matteo - Una è quella di Totò Cuffaro, l’ex presidente della Sicilia condannato per favoreggiamento alla mafia, che ha conquistato il palcoscenico incontrando l’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi per correre insieme a lui verso l’Europa. E poi quella di Nino Di Matteo, il magistrato della famosa trattativa stato-mafia che vogliono “punire” per ciò che pensa e ciò che dice sulle contorsioni della Cassazione. Uno sale e l’altro scende, uno dà carte e l’altro è sotto attacco, il primo guida un partito (la nuova Democrazia cristiana), il secondo è guardato come un appestato anche da qualche suo collega. L’ex presidente è sempre protagonista della politica siciliana e a quanto pare conta qualcosa anche in quella italiana, il sostituto procuratore è bersaglio permanente dell’astio di raffinati giuristi per le sue inchieste sui patti indicibili. Per l’appunto, il mondo alla rovescia. Tanto chi protesta più? Tanto chi si scandalizza più? E meno male che Totò Cuffaro non doveva fare più politica, che avrebbe trascorso il resto della sua esistenza nell’Africa più lontana. E invece rieccolo qui, promotore di incontri ad alto livello dopo avere consigliato come sindaco alla città di Palermo il suo fedelissimo Roberto Lagalla con il concorso di Marcello Dell’Utri e riallungato le mani sulla regione siciliana in compagnia di Renato Schifani. E meno male anche che Luca Tescaroli non è più procuratore aggiunto a Firenze ma procuratore a Prato perché chissà che fine avrebbe fatto, un anno fa, dopo l’interrogazione presentata da Maurizio Gasparri al ministro della Giustizia Carlo Nordio. Chiedeva di mandare gli ispettori negli uffici della procura che stavano indagando sui suoi compagni di partito, Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. Indagini sulle stragi del 1993. Per fortuna del senatore Gasparri c’è ancora in giro il sostituto procuratore nazionale antimafia Nino Di Matteo. Così ha riproposto un’altra interrogazione a Nordio per sapere “quali iniziative intenda assumere per verificare l’eventuale sussistenza di responsabilità disciplinari e a tutela della magistratura, della Corte di cassazione e dei suoi componenti”. Di Matteo è colpevole di avere scritto un libro con il giornalista Saverio Lodato proprio sulla trattativa stato-mafia, sostenendo che la sentenza della Suprema corte “contribuisce ad alimentare un pericoloso vento di restaurazione che soffia nel nostro paese e che riguarda purtroppo anche l’ambito giudiziario e della magistratura”. Aria di rappresaglia - C’è aria di regolamento di conti, di rappresaglia contro tutti coloro che per una lunga stagione hanno rappresentato pur in mezzo a contraddizioni una voce altra. Oggi è toccato a Di Matteo, ieri ai magistrati che hanno valutato il famigerato dossier “mafia e appalti” per quello che era, cioè niente di rilevante per spiegare l’uccisione di Paolo Borsellino. Eppure ritornano personaggi che sembravano definitivamente fuori scena e ritornano improbabili piste sui massacri del 1992, ulteriori deviazioni che si aggiungono ai tantissimi depistaggi già consumati. Ci avviciniamo così, fra meno di due mesi, al trentaduesimo anniversario di Capaci. Il 2022 ci ha lasciato il ricordo della sedia vuota del sindaco Lagalla alle celebrazioni ufficiali, il 2023 ci ha fatto vedere la carica di polizia contro il corteo antimafia. Chissà cosa di brutto ci riserverà il 2024 dell’Italia sottosopra? La cocaina ai politici e l’Italia nuova Africa del Nord: le sortite di Gratteri incendiano la politica di Aldo Torchiaro Il Riformista, 30 marzo 2024 “Noli me tangere”. Non mi toccare. In questo periodo pasquale si può ricorrere alle parole con cui Gesù, risorto dopo tre giorni, ferma la mano di Maria Maddalena che ne lambiva le vesti, appena fuori dal sepolcro. Intoccabili, intangibili oggi sono i magistrati che con Anm si trincerano dietro la sacra inviolabilità della toga: il loro niet ai test psicoattitudinali è insindacabile, assoluto. A farsene portavoce, al di là dei fermi comunicati dell’Anm, è un magistrato su tutti: Nicola Gratteri. Il Procuratore capo di Napoli mercoledì, dopo una lunga serie di dichiarazioni e interviste, ne ha concessa una particolarmente forte al Tg1. “Sono contrario ai test se limitati ai magistrati. Oppure facciamolo per tutta la Pubblica Amministrazione, per chi fa politica. E facciamo anche gli alcoltest e i narcotest”. La provocazione non sfugge. Da capire cosa c’entra il test antidroga, e poi per chi, in quale sede? Le parole del Procuratore non sembrano dal sen fuggite, sottintendono qualcosa. Gratteri è andato oltre: “Una persona sotto l’effetto di stupefacenti può fare dei ragionamenti sbagliati”. Accenna alle decisioni politiche, in questi giorni in cui vengono messi in votazione i test per i magistrati? Poi Gratteri affonda il colpo: “Una persona può essere ricattato se viene fotografato, se è stato fotografato vicino a della cocaina”. Qui non c’è iperbole che tenga, Gratteri sembra descrivere una foto precisa, tanto che la foto cui accenna riguarda non il generico consumo di droga ma un frame più dettagliato, una “foto vicino alla cocaina”. Ha in mente una fotografia ben precisa? Si accorge dell’enormità dell’accenno l’inviata Tg1, Roberta Ferrari. “Questa è una affermazione forte”. “Sono allenato”, le risponde Gratteri. Ma a chi si rivolge? “Mi rivolgo a chi ha fatto questa legge, è ovvio”. Dunque alla maggioranza. Segue un ulteriore precisazione: “Perché non fare i test per chi amministra una Regione o per chi fa il ministro?”. Suona come un messaggio in codice. Gratteri, viene spontaneo domandarsi, ha un elemento preciso in mano o sta accennando a qualcosa che gli è stato riferito? C’è un esponente della maggioranza che sarebbe ricattabile per vicende di cocaina? A chi ha guardato il servizio del Tg1 sorgono più dubbi che risposte. Il messaggio in bottiglia di Gratteri sembra avere un destinatario specifico, forse più d’uno. Anche ieri mattina il Procuratore era un fiume in piena. Lo chiama Radio24: “Dobbiamo cercare di essere più seri, più efficienti ed efficaci, perché purtroppo ormai da decenni c’è un declino in Italia. Stiamo diventando sempre più l’Africa del Nord, la verità è che stiamo diventando molto marginali anche sul piano europeo”, dice. Se la prende con via Arenula, con Palazzo Chigi? Se Gratteri ha dato il via a un susseguirsi di voci e di frecciate sulle chat dei parlamentari, la risposta della politica è rimasta prudentemente sottotraccia. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, non si è tirato indietro: “Il test psico attitudinale l’ho già a fatto a suo tempo e per quanto riguarda gli altri sono perfettamente disponibile”. A breve distanza lo ha emulato il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, che per rispondere a tono finge di stare al gioco: “Test per i politici? Concordo, assolutamente”. A prendere sul serio Gratteri ci pensa Angelo Bonelli, co-portavoce di Europa Verde e deputato di Alleanza Verdi e Sinistra: “Noi avevamo proposto già da tempo quello che oggi suggerisce Gratteri, che fossero sottoposti a tali test coloro che hanno ruoli decisionali critici nel nostro Paese, come membri del governo e parlamentari. Noi siamo pronti”. Per la maggioranza risponde, in modo più articolato, il presidente di Noi Moderati, Maurizio Lupi: “Ricordo al procuratore di Napoli Gratteri che i test psicoattitudinali non sono fatti contro la magistratura, ma sono anzi a favore del futuro magistrato, che come altri dipendenti pubblici, come ad esempio quelli delle Forze Armate e della Polizia, deve dimostrare la propria idoneità a esercitare una funzione così importante e delicata. Il vero test per un politico è il voto dei cittadini, che lo eleggono’’. Che Gratteri sia fuori da ogni mandato rappresentativo lo dice lui stesso, in una intervista radiofonica: “Io rispondo per me, non faccio parte di nessuna corrente, mi sono costruito una vita libera e posso permettermi il lusso di dire quello che penso nei confronti di chiunque. Non rispondo per gli altri”. A rispondere invece viene chiamato il direttore di RaiNews24, Paolo Petrecca, che avrebbe deciso mercoledì di non mandare in onda le parole del Procuratore di Napoli. Il Pd e i 5 Stelle ne hanno chiesto le dimissioni. “Non si capisce come mai Paolo Petrecca stia ancora alla direzione di Rainews. O meglio capiamo che è lì perché è il più meloniano dei meloniani in Rai, che sono davvero molti, forse troppi, però non possiamo accettare che Petrecca utilizzi Rainews 24 come se fosse di proprietà della Meloni. “Far sparire il commento del procuratore Gratteri sui test psicoattitudinali ai magistrati del duo Nordio-Meloni è francamente clamoroso”, aggiunge Dario Carotenuto, capogruppo 5 Stelle in commissione di Vigilanza Rai. “L’ennesimo episodio che avvicina la rete all news della RAI più a un organo di propaganda che a un vero strumento di informazione”. Le valutazioni su una eventuale mobilitazione dell’Associazione nazionale magistrati su questo tema saranno al centro del prossimo Comitato direttivo centrale dell’Anm, in programma sabato 6 e domenica 7 aprile. Spese legali rimborsate agli assolti: i soldi ci sono ma (quasi) nessuno li chiede di Errico Novi Il Dubbio, 30 marzo 2024 Incredibile ma vero: scarseggiano le domande per accedere al beneficio introdotto nel 2020 grazie a Enrico Costa e potenziato nel 2022 da Nordio. L’anno scorso erogati meno di 3 milioni sui 15 disponibili. E ora il rischio è che il fondo venga “tagliato”. La battaglia era stata dura, durissima. Ottenere che la legge di Bilancio per il 2021 prevedesse - per la prima volta dopo anni di insistenze del Cnf - un fondo per restituire almeno parzialmente agli assolti le spese legali sostenute fu un’impresa. Ci volle tutta la tenacia di Enrico Costa, già all’epoca responsabile Giustizia di Azione. Ebbene, l’ultima Manovra firmata Giuseppe Conte assegnò a via Arenula uno stanziamento di 8 milioni. Poi ci vollero mesi perché i tecnici del ministero individuassero una soluzione applicativa, visto che, a fronte di qualcosa come 125mila potenziali beneficiari, la somma disponibile sembrava irrisoria. Marta Cartabia emanò a fine novembre 2021 il decreto attuativo, poi “convalidato” dal Mef, che fissava i criteri di priorità, in modo da “privilegiare” alcuni assolti a scapito di altri. Se si fosse semplicemente ripartito il fondo fra tutti gli aventi diritto, il ristoro sarebbe consistito nella ridicola cifra di 63 euro a testa, spiegò, in un question time, l’allora sottosegretario Francesco Paolo Sisto. Ormai è storia. Nel frattempo ci sono state le Politiche di settembre 2022, la nascita del governo Meloni e l’arrivo, a via Arenula, di un nuovo guardasigilli, Carlo Nordio. Il quale ha creduto fortemente nel risarcimento delle spese legali per chi sia stato prosciolto con una delle formule “ampiamente liberatorie” previste dalla legge. Tanto è vero che il ministro della Giustizia, appena insediato (e prima ancora che gli uffici elaborassero i dati sull’impatto iniziale del beneficio), ottenne che la prima “finanziaria” del suo Esecutivo incrementasse da 8 a 15 milioni lo stanziamento. Un successo raggiunto grazie anche all’impulso del solito, encomiabile Costa. Ebbene: tanto impegno per un risultato sorprendentemente modesto. Nel senso che le domande sono poche. Assai meno di quanto se ne potrebbero soddisfare. E tra le istanze, una parte notevole non rientra nei parametri fissati, nel senso che non fanno riferimento ad assoluzioni pronunciate con le formule previste dalla norma. Parliamo di numeri davvero deludenti, rispetto ai timori di 3 anni fa, quando il rischio sembrava di doversi trovare a elargire un’elemosina. E invece: appena 362 domande, di cui solo la metà (182 per l’esattezza) accolte nell’anno 2022, il primo in cui il rimborso è stato disponibile, per un’erogazione complessiva pari a 950.948 euro, cioè a meno di un ottavo del fondo (che all’epoca era, come detto, di 8 milioni). L’anno scorso è andata un po’ meglio, ma la domanda è ancora incredibilmente bassa: sono state presentate in tutto 703 istanze di rimborso delle spese legali, ne è stata scartata una percentuale decisamente inferiore all’anno prima (198, con 505 domande accolte), ma la cifra erogata resta lontanissima dal pieno utilizzo del fondo: 2 milioni e 844.525 euro a fronte di una disponibilità arrivata come detto, grazie a Nordio e a Costa, a ben 15 milioni. Dati che vanno letti, certo, anche alla luce di una clausola: la norma di legge, quella inserita nella Manovra per il 2021, fissa un “limite pro capite” per i rimborsi pari a 10mila 500 euro. Soglia che, alla luce delle previsioni iniziali, aveva assolutamente senso. E che oggi, per certi versi, verrebbe voglia di innalzare un bel po’. Non è solo il rammarico per tante vittime di processi ingiusti rimaste prive di un ristoro sacrosanto. C’è questo, come c’è un segnale per i penalisti, che alla luce delle statistiche, saranno certamente motivati a prospettare ai loro assistiti la possibilità di recuperare, se assolti, almeno una parte delle spese sostenute. Ma il punto, spiegano da via Arenula, è che se la tendenza non si inverte, se per l’anno in corso non arriverà un numero assai superiore di domande, e se quindi il fondo per gli assolti non verrà utilizzato in una percentuale assai più elevata, ci si esporrà al rischio che, con la prossima legge di Bilancio, via Arenula perda gran parte di quella disponibilità. È il fatale meccanismo dei conti pubblici: se un fondo resta inutilizzato o sottoutilizzato, lo si estingue o lo si riduce. Il ministro e la sua squadra ne sono perfettamente consapevoli. Alcuni aspetti della disciplina secondaria, definita dal decreto ministeriale che ogni anno indica le modalità per l’assegnazione del beneficio, potrà essere limata, in modo da allargare alcune maglie. È il caso, per esempio, in cui si è trovato un 27enne di Latina, M. L., che ha segnalato la propria vicenda in una lettera pubblicata da questo giornale lo scorso 26 agosto: secondo le “Faq”, cioè le indicazioni pubblicate sul sito di via Arenula, chi come lui ha pagato il difensore con l’aiuto della famiglia, con un bonifico effettuato da un genitore, non ha diritto a essere risarcito, giacché, ha previsto il ministero, la persona assolta e il contribuente che ha materialmente sostenuto le spese legali non coincidono. È una rigidità che poteva forse giustificarsi se si fosse presentato il problema opposto, cioè un’incapienza del fondo rispetto alle domande. Ma almeno per ora, si potrà forse rimborsare anche qualche giovane ex imputato che, vista l’età, non poteva ancora permettersi di pagare l’avvocato e la cui famiglia ha dovuto affrontare la pena, e il peso economico, di un’accusa ingiusta. Sono dettagli a fronte del problema generale. Che è l’accesso a un beneficio prezioso, per il quale l’avvocatura, e il Consiglio nazionale forense in testa, si è battuta per anni. Anche perché si tratta di una legge dall’alto valore simbolico: vincolare lo Stato a risarcire chi è stato sottoposto ingiustamente al calvario di un processo serve anche a ricordare che la potestà pubblica non è illimitata, che inciamparvi non è una sorta di incidente a cui il malcapitato deve piegarsi con rassegnazione. E certo, restringere il fondo previsto per affermare un così indiscutibile principio, scalfirebbe un po’ quel valore simbolico. Calabria. “Sulle criticità del sistema carcerario occorrono interventi tempestivi” Corriere della Calabria, 30 marzo 2024 Il presidente del Consiglio regionale Mancuso e il Garante dei diritti dei detenuti Muglia scrivono al ministro Nordio e al capo del Dap Russo. Il progressivo sovraffollamento, le gravi carenze di organico e il moltiplicarsi di eventi critici nei 12 istituti penitenziari della Calabria, costituiscono il contenuto di una lettera - firmata dal presidente del Consiglio regionale della Calabria Filippo Mancuso e dal Garante regionale dei diritti delle persone detenute Luca Muglia - inviata al ministro della Giustizia Carlo Nordio e al capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Giovanni Russo. Nella lettera (per conoscenza trasmessa anche al vice ministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto, ai sottosegretari del Ministero Andrea Ostellari e Andrea Del Mastro delle Vedove e al Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà Felice Maurizio D’Ettore) si richiede un intervento tempestivo sulla condizione del sistema carcerario calabrese. La missiva - Mancuso e Muglia rilevano che “allo stato, quasi tutti i 12 istituti penitenziari registrano fenomeni di progressivo sovraffollamento, con valori elevati nella Casa circondariale di Reggio Calabria Arghillà (+ 98), Cosenza (+ 57), Crotone (+ 44) e la Casa di reclusione di Rossano (+ 52). In alcuni istituti, peraltro, sono presenti camere detentive (dotate di letti a castello) che ospitano fino a 6/8 persone detenute”. Richiedono attenzione sulle “condizioni strutturali di alcuni istituti, datati nel tempo e privi di manutenzione, sull’inadeguatezza di molte camere detentive (con schermature di pannelli opachi in plexiglass alle finestre o, addirittura, prive di docce) e sull’insufficienza delle aree adibite alla socialità, ai passeggi ed ai colloqui”. Inoltre: “Le carenze di organico riscontrate nei 12 istituti penitenziari calabresi sono assai pesanti. Il deficit del personale di Polizia penitenziaria - scrivono Mancuso e Muglia - raggiunge in alcuni casi livelli allarmanti (-100 Catanzaro; -70 Vibo Valentia; -42 Rossano; -37 Palmi; -36 Reggio C. Arghillà). L’assenza di un numero adeguato di Polizia penitenziaria genera effetti a catena che recano danno all’intero sistema, oltre a causare problemi di sicurezza ed a richiedere sforzi sovrumani del personale in servizio”. Si sottolinea inoltre la “carenza complessiva di funzionari giuridico -pedagogici che è pari a 10 unità (al momento gli istituti di Paola e Palmi hanno solo 1/2 educatori in servizio). In pratica, è presente mediamente un educatore ogni 100 detenuti. Tale pesante carenza riverbera, evidentemente conseguenze negative sia sotto il profilo trattamentale e rieducativo sia sul fronte dell’accesso alle misure alternative”. Non mancano riferimenti “all’elevata percentuale di detenuti stranieri, che in alcune carceri calabresi appartengono a 20 nazionalità diverse, mentre i mediatori linguistico-culturali presenti sono pochissimi (solo in 3 istituti). Si considerino, a titolo esemplificativo, le difficoltà che incontrano le Aree sanitarie in occasione della visita medica di primo ingresso dei detenuti extracomunitari”. Il Presidente dell’Assemblea legislativa e il Garante regionale segnalano che “nel corso del 2023 in Calabria si sono verificati 150 tentativi di suicidi e 4 suicidi. Nel 2024 c’è già stato un nuovo decesso per suicidio. Tra l’ultimo dello scorso anno e il primo di quello in corso è trascorso solo un mese. Ma v’è di più! Dal 1 gennaio 2024 al 20 marzo 2024 (in soli due mesi e mezzo) si sono registrati in Calabria 2.219 eventi critici, 26 tentativi di suicidio, 110 atti di autolesionismo e 25 aggressioni ai danni della Polizia penitenziaria. Sono dati - scrivono - davvero inquietanti. Per cui, alla luce di tutto ciò, “corre l’obbligo di chiedere un tempestivo intervento del Ministro e del Capo del Dipartimento, consapevoli che la tutela dei diritti delle persone detenute o private della libertà e il benessere dell’intera comunità penitenziaria necessitano in Calabria di energie e risorse urgenti al fine di poter essere garantiti ed attuati”. Reggio Emilia. Il caso del carcere tra malati psichici, abusi e violenze di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 marzo 2024 Nel recente rapporto pubblicato dall’osservatorio di Antigone Emilia-Romagna sulle condizioni carcerarie nella regione, emergono dati critici che richiamano l’attenzione su una realtà urgente e complessa. L’analisi dettagliata condotta dall’associazione rivela una serie di problematiche che necessitano di interventi immediati e mirati per garantire il rispetto dei diritti fondamentali dei detenuti e migliorare il sistema penitenziario. Uno dei punti focali del rapporto riguarda l’incremento dell’autolesionismo e dei casi di suicidio all’interno delle carceri, fenomeni che non possono essere ridotti in modo lineare ma richiedono approcci multidimensionali e interventi mirati a supporto della salute mentale dei detenuti. noltre, si evidenzia un aumento della conflittualità interna e delle sanzioni disciplinari, segnali di tensioni e criticità che necessitano di essere affrontate con strategie preventive e di gestione efficaci. Un’altra questione rilevante riguarda le condizioni di detenzione, che non dipendono solo dal numero di detenuti e dalle caratteristiche individuali, ma anche dal modo in cui vengono gestiti gli spazi e le risorse all’interno delle carceri. Si sottolinea la varietà di approcci presenti negli istituti, con alcune prigioni che stanno virando verso un irrigidimento delle condizioni detentive, mentre altre mostrano segnali di apertura e orientamento trattamentale. In particolare, l’istituto penitenziario di Reggio Emilia emerge come un caso complesso che include servizi dedicati alla salute mentale e sezioni speciali per persone transgender e detenute particolari. Il sovraffollamento rimane una criticità, con un numero di detenuti superiore alla capienza regolamentare e una carenza di personale che compromette la qualità dei progetti educativi e trattamentali offerti agli internati. Il rapporto evidenzia inoltre casi di abusi e violenze da parte del personale penitenziario, con segnalazioni di torture, lesioni e comportamenti non conformi alla legalità. Antigone si è attivata per denunciare tali episodi e ha sottolineato l’importanza di un monitoraggio costante e attento per garantire il rispetto dei diritti umani all’interno delle carceri. Poi c’è il carcere ‘Dozza’ di Bologna, una delle istituzioni penitenziarie più rilevanti della regione Emilia- Romagna, che si trova al centro di una serie di criticità e sfide che richiedono un intervento immediato e mirato per migliorare le condizioni di detenzione e garantire il rispetto dei diritti fondamentali dei detenuti. Sempre secondo il recente rapporto di Antigone Emilia- Romagna, al momento della visita il carcere bolognese conteneva 810 persone detenute, superando di gran lunga la capienza regolamentare di 500 posti. Di queste, 535 hanno una condanna definitiva e ben 409 sono straniere, evidenziando una complessa eterogeneità della popolazione detenuta. Una delle criticità maggiori riguarda la sezione femminile del carcere, dove risultavano presenti 73 donne. Le condizioni strutturali dell’istituto destano preoccupazione, con segnalazioni di problemi all’impianto di riscaldamento che hanno causato disagi ai detenuti, come la mancanza di acqua calda e temperature rigide negli spazi detentivi. Anche le condizioni igieniche e di vivibilità delle celle sono state descritte come precarie, con segnalazioni di umidità e scarsa qualità dei materiali. Inoltre, il rapporto mette in luce la carenza di personale medico nel carcere di Bologna, che impedisce una copertura sanitaria adeguata e continua per i detenuti con problemi di salute cronici. La situazione dell’area sanitaria rimane delicata, con la necessità di garantire un’assistenza medica costante e di qualità per tutti i detenuti. Parma. La protesta del detenuto al 41 bis in gravi condizioni di salute di Christian Donelli parmatoday.it, 30 marzo 2024 Leone Soriano, un detenuto di 57 anni con diverse patologie, che si trova rinchiuso nella sezione 41 bis del carcere di Parma, è stato ricoverato d’urgenza nei giorni scorsi all’Ospedale di Parma, in condizioni critiche. L’avvocato Diego Brancia, penalista del Foto di Vibo Valentia, che sta seguendo la vicenda insieme alla moglie di Soriano, ha denunciato le forti difficoltà a mettersi in contatto con il detenuto e a conoscere le sue condizioni di salute. “L’Ospedale di Parma ci dice che le risposte potranno essere date solo dal carcere” sottolinea il legale. “Il silenzio della Direzione della Casa Circondariale di Parma sulle ragioni del ricovero d’urgenza del detenuto Soriano Leone - prosegue Diego Brancia - ci preoccupa. Il regime detentivo differenziato non deve procurare corto circuiti di questa natura che procurano indicibili sofferenze durante l’esecuzione delle misure”. Secondo quanto riferito dal legale infatti i parenti non sarebbero riusciti ad ottenere una visita straordinaria presso il carcere di Parma. Secondo quanto ricostruito il detenuto sarebbe caduto e, per questo motivo, ricoverato poi in ospedale a Parma. Il detenuto ha inviato un telegramma dove riferiva delle sue condizioni di salute. Da quel momento in poi la moglie non avrebbe avuto più nessuna notizia. In particolare all’interno del telegramma, depositato presso la Corte di Appello di Catanzaro, il detenuto sottolinea di essere “caduto per mancanza di ossigeno alla testa. Ora forse lo dovrò usare 24 ore ma spero di poterlo usare solo la notte. Ho rischiato grosso”. Il detenuto, sottolinea l’avvocato, ha “patologie cardiovascolari, diabete scompensato e difficoltà respiratorie tanto che deve utilizzare un supporto respiratorio con una macchina”. Dopo varie richieste e mail certificate la donna si sarebbe recata in via Burla per chiedere un incontro ma non sarebbe riuscita ad ottenerlo. Un lungo viaggio dalla Calabria a Parma senza poterlo vedere e senza avere informazioni sulle sue condizioni di salute. Mancherebbe infatti l’autorizzazione del Dap, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e del Ministro Leone Soriani, condannato a vent’anni di reclusione per la sua presunta affiliazione all’Ndrangheta nella zona di Vibo Valentia, è in attesa delle motivazioni della sentenza della Corte di Appello di Catanzaro. L’uomo è stato coinvolto nel noto processo Rinascita Scott. Milano. Nel carcere di San Vittore l’assistenza psicologica è quasi ferma di Isaia Invernizzi ilpost.it, 30 marzo 2024 Una contestata indagine su due psicologhe ha generato un clima di timore tra i pochi operatori rimasti, con conseguenze sulla salute mentale di centinaia di persone detenute. Negli ultimi due mesi nel carcere di San Vittore, a Milano, gli psicologi e le psicologhe a disposizione degli oltre mille detenuti sono quasi dimezzati: erano in nove, sono rimasti in cinque, e in alcuni giorni capita che gli operatori in servizio siano soltanto due. A San Vittore sono detenute oltre 200 persone con diagnosi di disturbi psichici, e diverse altre centinaia di persone hanno disturbi mentali legati alla dipendenza da sostanze stupefacenti. È tra le carceri più sovraffollate in Italia: nelle celle pensate per due persone ce ne sono spesso cinque. Il tasso di detenuti stranieri è molto alto e i ricorsi contro “trattamenti inumani e degradanti” in violazione dell’articolo 3 della convenzione europea dei diritti umani sulle condizioni dei detenuti sono aumentati in modo significativo dall’inizio dell’anno. Nonostante tutti questi problemi, l’assistenza psicologica è quasi ferma. Secondo gli stessi psicologi e diverse associazioni che tutelano i diritti delle persone detenute, questa grave mancanza - che già ora compromette la salute di centinaia di persone - è conseguenza della paura e dell’incertezza generate da una recente indagine avviata dal magistrato Francesco De Tommasi. L’indagine riguarda quattro psicologhe che hanno assistito in diversi modi Alessia Pifferi, accusata di aver lasciato morire di stenti la figlia di 18 mesi nel luglio del 2022. De Tommasi è pubblico ministero nel processo principale nei confronti di Pifferi, ma ha aperto un’inchiesta parallela sulle quattro psicologhe e sull’avvocata della donna, Alessia Pontenani, accusandole di aver manipolato Pifferi con l’obiettivo di accertare la sua incapacità di intendere e di volere e quindi evitarle la detenzione in carcere. È un’indagine anomala soprattutto per le modalità, contestate dalla camera penale di Milano, l’associazione degli avvocati penalisti che lo scorso 4 marzo ha organizzato un giorno di astensione dal lavoro per protesta. Due delle psicologhe indagate hanno chiesto il trasferimento, una terza si alternava tra il carcere e l’azienda socio sanitaria Santi Paolo e Carlo, la quarta psicologa indagata lavora esclusivamente per l’azienda socio sanitaria e non ha mai incontrato Pifferi. Sia l’avvocata di Pifferi che le due psicologhe in servizio a San Vittore sostengono di aver fatto semplicemente il loro lavoro applicando le prassi corrette, senza alcun tipo di manipolazione. È una tesi sostenuta anche da altri psicologi. All’inizio di febbraio hanno scritto una lettera alla procuratrice generale di Milano Francesca Nanni e alla presidente del tribunale di sorveglianza Giovanna Di Rosa per denunciare le modalità di indagine e il conseguente clima di tensione in cui sono costretti a lavorare: il pubblico ministero De Tommasi, infatti, ha chiesto e ottenuto intercettazioni ambientali in carcere e la perquisizione degli uffici. “Oltre a essere quasi dimezzati rispetto a prima, noi che siamo rimasti lavoriamo con paura”, dice Alberto Astesano, psicologo e psicoterapeuta che lavora a San Vittore. “Lavoro con il timore di evidenziare una vulnerabilità psichica, per paura che la segnalazione sia etichettata come una forma di manipolazione. Anche per questo è tutto più lento e faticoso”. A San Vittore, come nelle altre carceri italiane, l’assistenza psicologica si divide grosso modo in tre ambiti: il colloquio all’ingresso, le situazioni di emergenza, la prevenzione costante del rischio di suicidi. Il colloquio all’ingresso è molto importante, soprattutto per le persone che non sono mai state in carcere: a San Vittore sono molte perché lì vengono portate le persone in attesa di giudizio. Durante il colloquio viene chiesto quale tipo di reato hanno commesso, se in passato avevano avuto psicopatologie, se avevano avuto ricoveri e se si erano trovate nella condizione di pensare di farsi del male o suicidarsi. Le risposte servono per identificare il possibile rischio di suicidio a cui segue una prima indicazione di terapia, che sarà poi valutata da uno dei cinque psichiatri che si alternano in carcere. La prevenzione dei suicidi dovrebbe essere fatta costantemente durante la detenzione, attraverso l’osservazione dei segnali di rischio. “Siamo rimasti in quattro e con così tante persone da assistere è impossibile fare prevenzione”, continua Astesano. “Non riusciamo a far fronte alla domanda di assistenza psicologica, che è enorme. Siamo in totale emergenza e per di più lavoriamo in un clima di intimidazione pesante”. Antonella Calcaterra, esperta di diritto penitenziario e della gestione dei pazienti psichiatrici in carcere, usa l’aggettivo “paralizzata” per definire la situazione dell’assistenza psicologica a San Vittore. “Dopo un’inchiesta che è entrata in modo così deciso nel merito dell’assistenza, molti operatori si chiedono cosa possono fare e cosa no”, dice Calcaterra. “Già in condizioni normali ci sarebbe stato bisogno di aumentare gli interventi sanitari e psichiatrici, che invece sono diminuiti”. Secondo i dati del ministero della Giustizia aggiornati al 29 febbraio, a San Vittore sono detenute 1.146 persone, il 151 per cento della capienza consentita che è di 754 persone. Oltre 200 hanno avuto una diagnosi di disturbi psichici, mentre moltissimi altri hanno problemi di salute mentale dovuti ai loro trascorsi: dipendenza da sostanze stupefacenti, percorsi migratori traumatici, situazioni familiari compromesse, periodi passati per strada. “La situazione è grave anche perché il numero degli operatori sanitari viene stabilito sulla base della capienza regolamentare, non del numero di detenuti effettivi: lo denuncio da anni”, dice Francesco Maisto, garante dei detenuti del comune di Milano. “L’inchiesta ha alterato l’ambiente e ha un impatto notevole. Gli operatori si chiedono in continuazione se le loro azioni siano legittime. Nella paura di poter far qualcosa di sbagliato limitano il loro lavoro. Le conseguenze le pagano i detenuti: c’è il rischio di sottovalutare i problemi psichiatrici”. Dall’inizio dell’anno il tribunale di sorveglianza di Milano ha ricevuto 555 ricorsi contro “trattamenti inumani e degradanti” presentati dai detenuti di tutte le carceri della Lombardia, compreso San Vittore. In tutti i dodici mesi del 2023 erano stati 477. Molti di questi ricorsi sono conseguenza delle nuove regole che hanno limitato la cosiddetta custodia aperta, cioè la possibilità per i detenuti di muoversi all’interno della sezione - tra i corridoi, nelle altre celle e nelle sale di socialità, dove ci sono - per più di otto ore al giorno. In seguito alla circolare firmata nel 2022 dall’allora capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP) Carlo Renoldi, questa possibilità è stata fortemente limitata: dall’ottobre scorso, quando la circolare è diventata operativa, le celle sono molto più chiuse rispetto agli ultimi anni e i detenuti hanno meno possibilità di muoversi. Quando i ricorsi vengono accolti, cioè nella maggior parte dei casi, i detenuti hanno diritto a ottenere una riduzione della pena da scontare pari a un giorno per ogni dieci di detenzione. Se nel frattempo i detenuti hanno scontato la pena hanno diritto a un risarcimento di 8 euro per ogni giorno di detenzione in condizioni degradanti. La chiusura delle celle e la convivenza in spazi stretti hanno conseguenze sulla salute mentale dei detenuti, con prevedibili rischi anche per la sicurezza. “La più grande casa circondariale della Lombardia si trova scoperta sull’assistenza psicologica nel momento in cui ha la popolazione più fragile di tutta la sua storia, in una situazione di sovraffollamento, dopo molti suicidi compiuti negli ultimi anni”, dice Valeria Verdolini, presidente della sezione lombarda dell’associazione Antigone, che si occupa della tutela delle persone detenute. In questo momento San Vittore è il carcere dove l’assistenza psicologica è più carente, ma anche nelle altre strutture italiane la tutela della salute mentale dei detenuti ha i suoi problemi e in alcuni casi è piuttosto scarsa. Secondo i dati diffusi da Antigone, nel 2022 nelle carceri italiane il 9,2 per cento dei detenuti aveva una diagnosi psichiatrica grave. Il 20 per cento dei detenuti assumeva stabilizzanti dell’umore, antipsicotici o antidepressivi, e il 40,3 per cento sedativi o ipnotici. Le ore di servizio degli psichiatri erano in media 8,75 ogni 100 detenuti, quelle degli psicologi 18,5 ogni 100 detenuti. Solo 247 persone - 232 uomini e 15 donne - erano ospitate nelle ATSM (Articolazione per la tutela della salute mentale), sezioni del carcere pensate per accogliere pazienti con problemi psichici. Dall’inizio dell’anno in Italia 28 persone si sono suicidate in carcere. Altre 38 sono morte per altre cause: malattia, overdose, omicidio. In tutto il 2023 si erano suicidate 69 persone e ne erano morte 88 per altre cause. Latina. Carcere a rischio suicidi, riparte il tavolo sulla sanità penitenziaria latinatoday.it, 30 marzo 2024 Incontro tra il Garante regionale dei detenuti e i vertici della Asl di Latina per arginare il fenomeno di chi si toglie la vita in cella. Sistema carcerario ancora sotto i riflettori nel Lazio alla luce di nuove e vecchie difficoltà. Strutture inadeguate, sovraffollamento, carenza di personale sanitario, disagio psichico diffuso e suicidi sono le criticità che caratterizzano gli istituti penitenziari della nostra regione dove sono detenute quasi 6.700 persone con un tasso di affollamento effettivo del 141%. La denuncia arriva ancora una volta dal Garante dei detenuti Stefano Anastasia che numeri alla mano parla di una vera e propria emergenza e sottolinea la necessità di interventi drastici in tempi brevi. Le condizioni di vita all’interno degli istituti di pena hanno prodotto dall’inizio dell’anno 27 suicidi in Italia uno dei quali si è verificato nel carcere di Latina. E proprio nei giorni scorsi il Garante ha partecipato presso la Asl di Latina ad una riunione per la predisposizione del nuovo piano di prevenzione del rischio suicidario. A sollecitare la riunione del cosiddetto tavolo sulla sanità penitenziaria lo stesso Anastasìa allo scopo di rinnovare i rapporti di collaborazione tra la direzione della casa circondariale del capoluogo pontino e l’Azienda sanitaria. All’incontro hanno partecipato oltre allo stesso Anastasìa, il direttore generale facente funzioni della Asl Sergio Parrocchia, il direttore della casa circondariale Pia Paola Palmeri, il responsabile medico per conto della Asl Antonio Ciurleo, il responsabile delle attività educative di via Aspromonte Rodolfo Craia, e il dirigente del Dipartimento salute mentale. Su questo fronte nel Lazio, grazie ai tavoli tecnici interistituzionali sulla sanità penitenziaria, si sta lavorando puntando a un aggiornamento di tutte le misure di prevenzione del rischio suicidario. L’impegno assunto per Latina comunque quello di procedere nel giro di qualche mese a rivedere il piano di prevenzione dei suicidi che risale al 2019, strumento fondamentale per verificare lo stato dei detenuti da un punto di vista psicologico. E’ inoltre in atto un aggiornamento del protocollo siglato dalla Asl con Procura e Tribunale finalizzato a individuare soluzioni alternative alla detenzione, ove ciò sia possibile, nei casi di persone che presentino disturbi mentali. Verona. Caso torture, poliziotto torna in servizio di Laura Tedesco Corriere di Verona, 30 marzo 2024 Il Riesame azzera l’interdizione di 10 mesi: l’agente rimette subito la divisa. “Interdizione annullata con effetto immediato, può tornare in servizio e in divisa subito, già da domani “. Quando le sue avvocate Anastasia Righetti e Giuliasofia Aldegheri gli hanno dato un annuncio tanto importante, lui si è ammutolito per la commozione: “Non trovo le parole...”. Un mese e tre settimane: tanto è durata la sospensione del servizio dell’agente Andrea Provolo, coinvolto nell’inchiesta sulle presunte violenze in Questura a Verona. Quando le sue avvocate Anastasia Righetti e Giuliasofia Aldegheri gli hanno dato nelle scorse ore un annuncio tanto importante, lui si è ammutolito per la commozione: “Non trovo le parole...”. Un mese e tre settimane: tanto è durata la sospensione del servizio dell’agente Andrea Provolo, coinvolto nell’inchiesta sulle presunte violenze in Questura a Verona: a febbraio era stato sospeso per dieci mesi dal servizio per effetto di una ordinanza firmata dalla giudice delle indagini preliminari Livia Magri ma nelle scorse ore, proprio alla vigilia di Pasqua, i magistrati del Riesame di Venezia hanno accolto il ricorso della difesa annullando l’interdizione dal servizio di Provolo. Quest’ultimo, che stava già scontando il provvedimento da quasi due mesi, può dunque fin da subito al lavoro: le motivazioni saranno rese note dal Tribunale della Libertà tra un mese, ma nell’arringa la difesa ha puntato “soprattutto sull’assoluta mancanza di credibilità di Mohamed Dridi (ora detenuto in carcere per rapina, è il tunisino che accusava l’agente Provolo di presunte violenze, ndr), smentito dai testimoni, dai periti, dagli estratti delle web-cam, perfino dalle dichiarazioni di sua moglie”. È l’ultima, importante svolta nell’ambito dell’inchiestascandalo ma che ha portato il 6 giugno 2023 la Questura scaligera sulle prime pagine dei giornali e cinque agenti della squadra Volanti ai domiciliari (Alessandro Migliore, 24 anni, di Torre del Greco; Loris Colpini, veronese di Bussolengo, 51 anni; Federico Tomaselli, nato a Catania 30 anni fa; Filippo Failla Rifici, originario di Melzo, nel Milanese, 36 anni; Roberto Da Rold, nativo di Belluno, 44 anni) per mano dei colleghi della Mobile, a cui la Procura scaligera con i pm Carlo Boranga e Chiara Bisso ha affidato la delicatissima indagine sui presunti soprusi di cui si sarebbero macchiati alcuni esponenti delle forze dell’ordine ai danni di alcuni fermati. Dopo aver già sospeso a ottobre 12 agenti per un anno (misura poi tolta a un indagato dal Riesame, che l’ha invece “limata” ad alcuni colleghi), a febbraio di quest’anno restavano da definire le sole posizioni di Provolo e del collega Marco De Angelis: anche quest’ultimo, su richiesta dei pm, rischiava lo stop temporaneo dalla divisa, ma nei suoi confronti l’istanza della Procura fu stata rigettata dalla gip Magri. Due mesi fa, quindi, al contrario di Provolo che venne sospeso per 10 mesi, non era invece scattata alcuna misura interdittiva per De Angelis. Entrambi erano accusati di abuso di autorità su Dridi: ma perché Provolo è stato sospeso e De Angelis invece no? Il gip scrisse che “le posizioni vanno differenziate. Provolo, più alto in grado rispetto a De Angelis, ha assunto un negativo comportamento rendendo, nel corso del suo interrogatorio, dichiarazioni non veritiere, finalizzate a screditare l’intero racconto di Dridi... - si leggeva nell’ordinanza del gip scaligero - arrivando ad escludere di aver notato un malessere fisico di Dridi e fornendo una ricostruzione falsa, evidentemente studiata a tavolino... neppure dopo l’instaurazione del protornare cedimento penale ha preso le distanze rispetto all’operato di chi ha materialmente percosso Dridi in Questura e gli ha urinato addosso, anzi, ha dato manforte ai colleghi autori materiali di queste azioni, mostrando piena adesione morale. Non è cosi per De Angelis.. che si è distinto positivamente, rispetto a molti dei coindagati, per non aver preso in giro l’autorità giudiziaria con dichiarazioni non veritiere, avendo optato per avvalersi della facoltà di non rispondere. Non si tratterà di una scelta particolarmente apprezzabile... ma molto più dignitosa e rispettosa di quella adottata dai suoi colleghi”. Parole, quelle dell’ordinanza, su cui era intervenuto l’onorevole di Forza Italia Flavio Tosi con un comunicato sferzante: “L’ultima ordinanza del gip a nostro avviso conferma il pregiudizio ideologico di una parte della magistratura contro le forze dell’ordine”. Nuoro. Dopo 19 anni lascia lo storico cappellano di Badu e Carros: “Grande perdita” di Fabio Ledda L’Unione Sarda, 30 marzo 2024 Don Giampaolo Muresi, cagliaritano classe 1941, lascia un importante vuoto nell’istituto penitenziario: “Non ha mai trascurato il suo mandato di uomo della Chiesa”. Da 19 anni è il punto di riferimento dei detenuti del carcere nuorese di Badu e Carros ma lo è anche dei loro familiari e di tutti gli operatori penitenziari. Don Giampaolo Muresu, classe 1941, con alle spalle 58 anni di sacerdozio, è in procinto di lasciare l’incarico. “Una grande perdita per tutti”, dice Maria Grazia Caligaris dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme ODV” che ha ricevuto la segnalazione da alcuni familiari di detenuti dell’Istituto nuorese molto dispiaciuti per l’imminente cessazione del servizio del Cappellano. Cagliaritano di nascita, Don Muresu, che è coordinatore dei cappellani penitenziari della Sardegna da diversi anni, è cresciuto nel Ministero in Cile. Partito nel 1969, ha rivestito l’incarico di formatore nella Scuola Parrocchiale con circa 1.300 iscritti. Il periodo dei Colonnelli ha segnato profondamente la sua vita e dopo aver curato per 10 anni un programma in una radio privata, ha dovuto interrompere la collaborazione il seguito alla feroce repressione. Rientrato in Italia, dopo 14 anni, ha approfondito gli studi di Teologia Morale. Richiamato in Cile, con la dispensa dell’allora Vescovo di Nuoro Pietro Meloni, è tornato nel Paese sudamericano dove è rimasto per altri 9 anni. Al rientro in Sardegna ha assunto l’incarico di Cappellano a Badu ‘e Carros dove ha conosciuto, tra gli altri, i Direttori Gianfranco Pala, Paolo Sanna, Carla Ciavarella e Patrizia Incollu. “Don Muresu - sottolinea Caligaris - ha svolto un compito particolarmente delicato in un ambiente caratterizzato dalla presenza di persone detenute di alto profilo criminale senza mai trascurare il suo mandato di uomo della Chiesa, con una forte matrice umanitaria. Per Socialismo diritti e riforme è stato un esempio di equilibrio e forte senso del dovere civile. A lui vanno gli auguri per una lunga e buona vita e un ringraziamento sentito per quanto ha dato alla società”. Il Premio letterario Città di Castello aggiunge una sezione speciale dedicata ai detenuti Corriere della Sera, 30 marzo 2024 “Destinazione Altrove” è il nome della nuova sezione del riconoscimento letterario: è la prima categoria permanente in Italia riservata alle recluse e ai reclusi dei penitenziari. Il Premio letterario Città di Castello ha una nuova sezione speciale. Si chiama “Destinazione Altrove. La scrittura come esplorazione di mondi senza tempo”, sarà permanente ed esclusivamente riservata alle recluse e ai reclusi nei penitenziari italiani: la prima categoria del genere in Italia. Il varo della nuova sezione arriverà con la 18ª edizione del Premio destinato ad opere inedite, che sta prendendo forma in questi giorni (il bando generale per le sezioni Narrativa, Poesia e Saggistica è aperto fino al 30 giugno). La nascita della sezione è stata avviata con la firma a Roma, nella sede del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, del protocollo d’intesa fra lo stesso dipartimento, la Società Dante Alighieri e l’associazione culturale “Tracciati Virtuali” che organizza il premio. Il progetto ha come obiettivo “sollecitare, tramite la scrittura, le persone in esecuzione pena a dar voce ai propri sentimenti, alle proprie riflessioni sul “prima, durante, dopo” il periodo di reclusione” e di coinvolgere la società civile con eventi di sensibilizzazione sul mondo carcerario. Per Giovanni Russo, capo del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria: “Si tratta di un ulteriore e significativo passo in avanti per i che ci poniamo l’obiettivo di modificare l’esecuzione della pena negli istituti penitenziari del nostro Paese”. Alessandro Masi, segretario generale della Società Dante Alighieri, ha dichiarato che “si tratta di un progetto di grande importanza, un’esplorazione nell’abisso di sentimenti di persone costrette, loro malgrado, a vivere una condizione diversa. In tal senso il linguaggio subisce variazioni e mutamenti che vale la pena di registrare”. E Antonio Vella, promotore della manifestazione letteraria ha aggiunto: “Se il periodo di detenzione nelle carceri, secondo l’ordinamento legislativo, deve essere soprattutto propedeutico al reinserimento dei detenuti nella società, il progetto va proprio in questa direzione”. Anche il sindaco di Città di Castello, Luca Secondi, ha sottolineato l’importanza ed il prestigio del protocollo d’intesa sottoscritto a Roma: “Le istituzioni, il Comune in testa, proseguiranno con rinnovato entusiasmo e determinazione a sostenere un progetto culturale e sociale che si è ritagliato un ruolo di primissimo piano nel panorama nazionale”. Alunni stranieri, la propaganda del ministro fuori dalla realtà di Luciana Cimino Il Manifesto, 30 marzo 2024 La Lega difende la proposta sgrammaticata di Valditara, opposizioni all’attacco. Separare costa. Ma la demagogia sulle spalle dei bambini con background migratorio costa di più. Anche questa volta il ministro all’Istruzione (e merito) Giuseppe Valditara, con la sua proposta sul tetto agli studenti con famiglie di origine straniera, scivola sul razzismo istituzionale e dimostra di non avere piena conoscenza dei meccanismi che regolano il ministero che occupa. Nell’ansia di assecondare il capo del suo partito (Matteo Salvini che, ospite da Vespa, aveva ripreso un suo vecchio cavallo di battaglia per continuare a fruttare elettoralmente la vicenda della scuola di Pioltello), Valditara si è prodotto nell’ennesima gaffe. Al cubo, dato che con un solo post ha fatto capire di essere in difficoltà con la Costituzione (sulla quale ha giurato) e con la sintassi. Quello che il leader della Lega non sa, ma che il titolare del dicastero dovrebbe conoscere, è che la legge italiana prevede già un tetto per gli studenti stranieri. Lo ha introdotto il governo Berlusconi nel 2010. La circolare firmata dalla ministra di allora, Mariastella Gelmini, tutt’ora in vigore, prevede che non si debba superare il 30% di alunni stranieri “con una ridotta conoscenza della lingua” per classe. Ma concede delle deroghe che escludono, naturalmente, i bambini nati in Italia e quindi di madrelingua anche se con genitori immigrati. Un recente rapporto di viale Trastevere, pubblicato quando il governo Meloni si era già insediato da otto mesi, ma che forse il ministro non ha avuto ancora modo di consultare, specifica che “in nessun caso, comunque, le scuole possono rifiutare l’iscrizione di un minore in ragione del superamento di una determinata percentuale di iscritti di origine migratoria”. Il tetto quindi c’è e se oggi sembra non più funzionale è a causa di due questioni che la destra si ostina a non prendere in considerazione, preferendo la propaganda: risorse e diritti. “È una cosa che non ha senso: sempre la stessa polemica che già 15 anni fa era datata - sbuffa Angela che da 20 anni insegna italiano per stranieri a Bologna - anche oggi non sanno di cosa parlano: di ragazzi di prima generazione o di seconda? Come al solito queste boutade hanno un sottotesto che ruota intorno al loro ipocrita concetto di italianità”. Per la docente “il problema della scuola non sono i ragazzi non italofoni ma il numero di studenti per classe”. Inoltre, nota la professoressa, “nelle città grandi è già molto difficile cambiare scuola o trovarla vicino casa, figuriamoci con un tetto rigido: questi ragazzi sarebbero ulteriormente dislocati nello spazio. Il vero problema è l’accesso all’istruzione, se guardiamo alle scuole secondarie il rapporto cambia notevolmente, ci sono classi senza un ragazzo di origine straniera perché è difficile continuare gli studi”. “Peraltro - sottolinea Angela - forse il ministro non ricorda che esiste la classe 023, italiano per stranieri, scarsamente utilizzata, che dovrebbe essere estesa a tutti i cicli ma non ci sono le risorse. È inutile citare gli altri sistemi europei: non si può prendere una strategia e importarla senza conoscere il contesto”. Anche la dirigente Rosanna Labalestra dell’istituto Pisacane di Roma è perplessa sulla proposta del ministro: “Non potrei mandare via le famiglie per mantenere una rigida percentuale: hanno diritto a una scuola di prossimità ed è quello che anche la Costituzione e il ministero ci dicono di fare: accogliere”. La scuola di Torpignattara al momento è frequentata al 50% da bambini ancora senza la cittadinanza italiana e registra un costante incremento delle iscrizioni di studenti nativi dovuti all’encomiabile lavoro che fa dalle sette del mattino alle dieci di sera nel quartiere multiculturale alla semiperiferia della Capitale. “È ora che Valditara tragga le conseguenze di ciò che dice: se in aula la maggioranza degli alunni deve essere italiana, va riformata la legge sulla cittadinanza, in modo tale che chi nasce e cresce in Italia sia italiano, incredibile come ai livelli più alti delle istituzioni si continui a parlare di un Paese immaginario, che non esiste” chiosa Marwa Mahmoud, responsabile partecipazione e formazione politica della segreteria nazionale Pd. Mentre altri, come il presidente Anief Marcello Pacifico, ricordano che grazie agli alunni di origine straniera “alcune scuole continuano a essere aperte dal momento che l’Italia fa i conti con una altissima denatalità”. Se opposizione e sindacati sono compatti nel definire quella di Valditara “un’idea fuori dal tempo e anticostituzionale”, come ha sintetizzato Gianna Fracassi, segretaria generale Flc Cgil, è dalla maggioranza che arriva la sorpresa per il duo leghista. Fratelli d’Italia ha affossato l’intera operazione: dalla sottosegretaria all’Istruzione Paola Frassinetti a Ella Bucalo, componente della Commissione istruzione del Senato, sono arrivati commenti tiepidi quando non direttamente contrari. L’attacco diretto di Salvini al presidente della Repubblica, che aveva encomiato pubblicamente l’istituto Iqbal Masih, non deve essere stato gradito dalla premier. In Lombardia una scuola su dieci ha più del 30 per cento di alunni stranieri di Orsola Riva Corriere della Sera, 30 marzo 2024 La soglia fissata per legge di fatto risulta inapplicabile. Solo a Milano, una scuola su 5 supera il tetto. Il fenomeno “white flight”: la fuga degli italiani dalle scuole con tanti stranieri. Nessun “favore” alla comunità araba, ha provato a spiegare il preside della scuola di Pioltello che quest’anno ha deciso di sospendere le lezioni il 10 aprile in coincidenza con la festa di Eid-El-Fitr: la fine del Ramadan. La decisione, presa all’unanimità, nasce dalla semplice constatazione della “specificità del contesto”: nell’istituto comprensivo Iqbal Masih, due scuole dell’infanzia, tre primarie, due medie, su 1.300 alunni, il 43 per cento non ha la nazionalità italiana. Piuttosto che tenere aperta la scuola mezza vuota, si è preferito chiuderla anticipando di un giorno il rientro dalle vacanze estive. Con lo stesso spirito pragmatico con cui tante altre scuole lombarde restano chiuse il 2 novembre per consentire ai bidelli, in maggioranza meridionali, di tornare a casa per il Ponte di Ognissanti. Del resto per legge ogni istituto ha a disposizione cinque giorni di flessibilità didattica che può giocarsi come meglio ritiene nel corso dell’anno. Tutto inutile: dopo le polemiche sollevate da diversi rappresentanti del suo partito, Matteo Salvini in primis, il ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara ha deciso di chiedere comunque “agli uffici competenti” di avviare una verifica sulle “motivazioni didattiche” dietro la scelta della scuola milanese. Ma quante sono in Lombardia le scuole con percentuali di studenti superiori al 30 per cento fissato per decreto? Oltre il dieci per cento. Nella provincia di Milano sono una su cinque. Era stata la ministra Mariastella Gelmini a consigliare, in una circolare ministeriale del 2010, che di norma la composizione delle classi rispettasse un rapporto di uno a tre, come limite massimo fra alunni stranieri e italiani, ma in realtà le deroghe sono sempre state la norma. La misura, del resto, fin dall’origine non era pensata per chi è già in possesso di “adeguate competenze linguistiche”, cioè la stragrande maggioranza dei nati in Italia, ma per tutti quei bambini e adolescenti che arrivano qui dopo. E comunque nei fatti si tratta di una disposizione inapplicabile, perché nelle aree ad alta concentrazione di migranti non si può certo pensare di “spostare” gli alunni non italiani in altri plessi. Fenomeno “white flight” - Capita semmai il contrario, come denunciato qualche tempo fa dal Politecnico di Milano in una ricerca intitolata significativamente “White flight, la segregazione sociale ed etnica nelle scuole”. Lo studio metteva in evidenza il fenomeno della “fuga degli italiani” che, abitando in periferia o comunque in contesti a più alta densità di alunni senza la cittadinanza italiana, preferiscono iscrivere i propri figli in scuole magari più lontane da casa ma frequentate in maggioranza da connazionali, nel timore che troppi stranieri rallentino l’apprendimento di tutta la classe. Un caso emblematico è quello dell’Istituto comprensivo Cadorna di via Dolci a Milano, per anni considerato un modello di integrazione. Da tempo, ormai, la situazione si è cristallizzata in questo modo: il primo plesso è frequentato in maggioranza da alunni immigrati, mentre gli italiani hanno scelto di mandare i propri figli nel secondo plesso, per ironia della sorte intitolato a Martin Luther King. In tutta la provincia ci sono almeno una decina di scuole in cui gli alunni non italiani sono più della metà degli iscritti: il record assoluto lo detiene la Rodari di Baranzate: 73 per cento (così almeno risulta dagli ultimi dati sulla complessità delle scuole lombarde pubblicati dall’Ufficio scolastico regionale nel 2023). A livello nazionale, secondo i dati dell’ultimo rapporto Ismu sulle migrazioni presentato il mese scorso, le scuole in deroga al tetto del 30 per cento di alunni senza la cittadinanza italiana sono il 7,2 per cento del totale, mentre quelle “non toccate” dal fenomeno migratorio sono il 18 per cento. Classi di “transizione” o classi separate? - Di recente ha suscitato un vespaio di polemiche la proposta di classi separate per gli stranieri lanciata dal ministro Giuseppe Valditara nel corso di un’intervista a Libero. Citando altri sistemi scolastici europei, il ministro ha detto che ogni scuola dovrebbe verificare all’atto dell’iscrizione il livello di competenze degli alunni stranieri in modo da decidere se attivare o menodelle “classi di accoglienza” o “classi di transizione” per una parte dell’orario scolastico o proprio per tutta la giornata. Va detto che in generale le scuole si trovano spesso a dover combattere a mani nude per rendere effettiva l’integrazione degli alunni stranieri. Basti pensare al paradosso degli insegnanti di italiano L2 pensati dalla Buona Scuola di Renzi per essere formati specificamente nell’insegnamento dell’italiano a chi non è madrelingua. Peccato che, a otto anni dalla riforma, queste figure siano più rare dei panda: anche nel concorso che si sta svolgendo in questi giorni per 44 mila posti, quelli riservati all’insegnamento di italiano per “alloglotti” sono in tutto 51. Il problema è che siccome questa disciplina non è prevista dai piani orari delle scuole non è possibile conteggiarla nel fabbisogno scolastico. In mancanza di meglio spesso i presidi consigliano, soprattutto nel caso di bambini e ragazzi arrivati in corso d’anno o comunque alle prime armi con l’italiano, di farsi fare una diagnosi di disabilità, in modo almeno da avere diritto all’insegnante di sostegno. Un alunno su dieci - Dopo il calo registrato nel 2020/21 in piena emergenza Covid, nel 2021/22 il numero degli alunni con background migratorio si è attestato a 872.360 presenze (quasi +7.000), pari al 10,6% del totale degli iscritti nelle scuole italiane. Ad aprile dell’anno scorso il Ministero dell’Istruzione e del Merito ha certificato la presenza di 888.880 alunni con entrambi i genitori stranieri per l’anno scolastico 2022/23. Se si mantenesse un tale ritmo di crescita - osservano gli esperti dell’Ismu (e non è affatto detto, visto che anche gli immigrati iniziano a fare meno figli) - in dieci anni si potrebbe arrivare a un milione di alunni con background migratorio. Nel frattempo, le scuole italiane, proprio a causa dell’inverno demografico, perderanno più di un milione di alunni, passando da 7,2 a 6 milioni di iscritti. Primi i romeni - Attualmente la fetta più consistente di alunni stranieri - il 44 per cento - è rappresentata dagli europei, primi i romeni con 151mila studenti, seguiti dagli albanesi (117 mila). Più di un quarto è di origine africana (soprattutto marocchini, terza nazionalità in assoluto con 111 mila studenti), il 20 per cento di origine asiatica e quasi l’8 per cento viene dall’America latina. Un caso a parte è rappresentato dai profughi ucraini che a giugno del primo anno di guerra ammontavano a 27 mila, un quinto dei quali in Lombardia. Il record di Milano e della Lombardia - In generale la Regione - che da sola rappresenta un settimo della popolazione scolastica italiana (più di un milione di alunni su un totale di 7,2 milioni) - accoglie circa un quarto degli alunni con cittadinanza non italiana, fra prime e seconde generazioni. Questi ultimi, che ormai rappresentano due terzi del totale (67,5 per cento), sono alunni nati in Italia, che in Paesi come gli Stati Uniti dove vige lo ius soli sarebbero considerati italiani a tutti gli effetti. In tutto parliamo di 222.364 alunni stranieri in Lombardia. Al secondo posto c’è l’Emilia-Romagna (106.280), al terzo il Veneto (96.105). La provincia con il più alto numero di studenti non italiani è Milano (80.189), seguita da Roma (63.946) e Torino (39.184). Troppi bocciati - Gli studenti stranieri sono i più colpiti dalle bocciature: circa un alunno su quattro contro una media nazionale dell’8,1 per cento. Nelle scuole superiori la percentuale di alunni in ritardo di uno o più anni sfiora il 50 per cento (48,4%). E le bocciature sono l’anticamera dell’abbandono scolastico: il 28,7% dei 18-24enni stranieri non riesce a diplomarsi, il triplo degli autoctoni, che sono scesi sotto il dieci per cento (9,7%). A livello di risultati scolastici, sia gli alunni di prima che quelli di seconda generazione, ottengono risultati significativamente più bassi della media nei test Invalsi di italiano e matematica; in inglese però si prendono una rivincita andando decisamente meglio degli italiani. Ungheria. Caso Salis: spezzare le catene ai polsi, ma anche quelle dell’ipocrisia di Claudio Cerasa Il Foglio, 30 marzo 2024 I due cortocircuiti che mostrano le posizioni ridicole di destra e sinistra. Spezzare le catene di Ilaria Salis è ovviamente importante, ma non è meno importante di spezzare le catene delle ipocrisie che si sono andate a intrecciare in modo perverso sul caso della maestra detenuta in Ungheria. Riavvolgiamo il nastro e proviamo a fare chiarezza. Le immagini di Ilaria Salis in ceppi sono un pugno in un occhio per chiunque ami lo stato di diritto. Ma di fronte a quelle immagini vergognose, il circo mediatico e politico è impazzito, è uscito fuori di testa, è andato in tilt ed è riuscito con una certa costanza e poco senso del ridicolo a mostrare il peggio di sé. E’ andata in tilt la sinistra, come ha raccontato bene ieri sulle nostre pagine Salvatore Merlo, la quale sinistra tradendo la sua stessa identità ha trasformato in un’eroina un’attivista (con manganello) che meriterebbe di essere valutata non solo per quello che sta patendo nelle carceri ungheresi ma anche per quello che ha fatto prima di finire nelle carceri (spiace per Zerocalcare, ma picchiare i propri avversari politici con un manganello non è antifascismo: è solo violenza). Il cortocircuito della sinistra, però, riguarda anche altro e riguarda una serie di ipocrisie che si indovinano con facilità osservando la postura assunta dall’opposizione di fronte al caso Salis. Non si può essere a favore delle garanzie dei carcerati ungheresi ed essere indifferenti rispetto alle non garanzie dei carcerati italiani. Ma soprattutto non si può essere a favore delle garanzie per le Salis ungheresi ed essere indifferenti rispetto al mancato e sistematico rispetto delle garanzie per tutti coloro che in Italia si trovano ad affrontare un sistema giudiziario che tratta gli indagati, i sospettati e gli imputati con metodi che forse farebbero rabbrividire anche gli stessi ungheresi. Essere davvero sensibili rispetto alle garanzie di un imputato durante un processo significa esserlo sempre, non solo quando quell’indagato è rilevante per questioni politiche, perché aiuta cioè una parte politica a dimostrare quanto sia malvagio un alleato del proprio nemico politico, e per essere davvero a favore delle garanzie, quando si parla di giustizia, bisognerebbe esserlo anche su tutto ciò che gli adoratori di Ilaria Salis scelgono sistematicamente di non vedere. Si può essere preoccupati per la gogna in aula subita da Salis e non essere preoccupati per la gogna quotidiana inflitta a chi subisce un processo in Italia? Si può essere preoccupati per l’immagine terribile delle catene ai polsi di Salis e non essere preoccupati per l’immagine terribile di un sistema giudiziario che crea infinite occasioni per distruggere la vita dei sospettati con mezzi ben più letali di un guinzaglio? Si può essere preoccupati per le condizioni delle carceri ungheresi e non essere preoccupati per le condizioni di quelle italiane che come documentato ieri da Ermes Antonucci sul Foglio versano in uno stato più drammatico di quello ungherese (da quando la Corte europea dei diritti dell’uomo è stata istituita, nel 1959, fino al 2021 l’italia è il terzo paese ad aver ricevuto più condanne, 2.466, dopo Turchia e Russia, l’ungheria ne ha ricevute 614; l’italia è stata condannata 9 volte per tortura, l’ungheria mai; 297 volte per violazione del diritto al giusto processo, 21 l’ungheria; 33 volte per trattamento inumano e degradante, 38 l’ungheria). Le catene dell’ipocrisia da spezzare non sono ovviamente solo a sinistra ma sono anche a destra. Alcuni esponenti del governo hanno rimproverato l’opposizione per aver strumentalizzato il caso Salis (lo ha detto Antonio Tajani) e per aver cercato di costringere il governo italiano a intromettersi nella giurisdizione di un altro paese (lo ha detto Carlo Nordio). Ma quello di cui il centrodestra non si è accorto, in modo goffo, è che ad aver politicizzato la storia di Ilaria Salis non è stata solo l’opposizione: è stata anche la maggioranza. Provate a rispondere a questa domanda: se il governo in questione non fosse guidato da un beniamino di Meloni e Salvini, l’esecutivo italiano avrebbe utilizzato lo stesso approccio timido, prudente e poco muscolare come quello mostrato oggi? Se il paese in questione non fosse l’ungheria di Orbán, e se fosse stato un paese guidato da un leader di sinistra, il governo di destra non avrebbe usato un caso del genere per dimostrare quanto siano pericolosi e illiberali gli amici della sinistra? Matteo Renzi ha colto maliziosamente il punto quando ha detto, due giorni fa, che Giorgia Meloni dovrebbe essere realmente patriota e spiegare a Viktor Orbán che o l’ungheria rispetta la regole dello stato di diritto o nessun euro delle tasse degli italiani deve finire a Budapest come invece accade oggi. Ma in questa storia c’è evidentemente di più e c’è la volontà del governo di non forzare la mano per non dover fare i conti con alcuni dati di realtà che non si possono evidenziare se si vuole trasformare un paese guidato da un leader illiberale in un proprio alleato strategico. Il dato di realtà riguarda il fatto che il caso Salis non è rilevante in sé ma è rilevante in quanto è la punta di un iceberg più grande, che riguarda non solo lo stato di diritto delle carceri in Ungheria. Quel che il governo italiano non vuole vedere non è dunque il singolo caso dell’attivista in catene ma è il caso più grande di una democrazia incatenata che i finti amici della libertà non vogliono denunciare. Non si può essere difensori del garantismo solo quando fa comodo, solo quando cioè i diritti violati riguardano soggetti che hanno idee simili alle proprie. Non si può essere difensori della libertà solo quando gli atti illiberali da combattere sono quelli che si manifestano nel mondo della sinistra. Non si può essere nemici dei regimi illiberali e poi chiudere gli occhi di fronte agli alleati politici che sulla libertà ci passano sopra con la ruspa. Non si può chiedere all’europa di fare di più, di essere più forte, di essere più credibile e farsela poi addosso quando si tratta di dover alzare la voce con chi, come Orbán, l’europa fa di tutto per disgregarla. Non si può accusare la sinistra di essere nemica della libertà quando alimenta il politicamente corretto della cultura woke e poi abbassare lo sguardo quando i valori non negoziabili della libertà vengono violati quotidianamente da un leader amico. Spezzare le catene di Ilaria Salis è importante, giusto, e quei ceppi ai polsi fanno indignare a prescindere da ciò che Salis rappresenta e a prescindere da ciò che Salis ha combinato. Ma spezzare le catene dell’ipocrisia, sul caso Salis, significa ammettere due verità. Alla sinistra interessa la maestra con le catene solo perché quella maestra aiuta la sinistra a dimostrare che Meloni ama così tanto Orbán da non avere il coraggio di alzare la voce con il suo amico (in giro per il mondo ci sono 2.600 italiani detenuti da altri paesi, ma i detenuti che fanno gola alla sinistra sono solo quelli che aiutano a dimostrare quanto i propri avversari siano marci). Alla destra invece interessa molto buttarla in vacca sul caso Salis, accusando la sinistra di strumentalizzare la storia, perché non ha il coraggio di ammettere che il garantismo può difenderlo solo quando a finire alla gogna è qualche suo amico, perché non ha il coraggio di riconoscere che la destra nazionalista la libertà la difende solo se se a violarla sono i suoi avversari e perché non ha il coraggio di fare i conti con una verità dolorosa ma che comunque esiste: l’incapacità di rinunciare a un pezzo della propria identità sfascista denunciando con forza le oscenità commesse da un illiberale di nome Orbán. Medio Oriente. “Armi e processi, la Corte dell’Aja ha prodotto effetti a cascata” di Chiara Cruciati Il Manifesto, 30 marzo 2024 Intervista al giurista Mariniello: “La decisione della Corte internazionale influirà anche sulla Corte penale che nel 2021 ha aperto un’indagine sui crimini di guerra commessi nei Territori occupati”. “Mai visto un simile supporto popolare a uno strumento del diritto internazionale. Il 19 gennaio davanti alla Corte internazionale c’erano emittenti tv e testate giornalistiche di tutto il mondo, tantissime persone venute a seguire l’udienza. Avevi subito la percezione che si trattava di una giornata storica. I colleghi palestinesi me lo hanno detto: a prescindere dall’esito abbiamo già vinto. In diretta mondiale per la prima volta si parlava di genocidio contro persone che fino al giorno prima non avevano voce”. Racconta così il primo giorno di udienza del caso Sudafrica vs Israele all’Aja Triestino Mariniello, associato di diritto penale internazionale alla Liverpool John Moores University e parte del team legale che rappresenta le vittime palestinesi di fronte alla Corte penale internazionale (Cpi). Il 26 gennaio la Corte internazionale di Giustizia (Cig) ha emesso sei misure cautelari, disattese da Israele. Giovedì ha emesso nuovi ordini... La nuova ordinanza rappresenta un’ulteriore vittoria per il Sudafrica. Conferma che c’è ancora rischio di genocidio plausibile a Gaza e sottolinea che quello che il 26 gennaio era solo un rischio di carestia ora è realtà. Cita dati impressionanti: il 31% dei bambini sotto i 2 anni soffre di malnutrizione acuta e almeno 27 minori sono morti. Ma, sebbene noti che molte organizzazioni ritengono il cessate il fuoco l’unico modo per porre fine alla carestia, la Corte non lo impone come misura cautelare. Impone invece a Israele la garanzia immediata di aiuti umanitari e la prevenzione di atti genocidari. Infine dà altri 30 giorni a Israele per presentare un rapporto in merito. Da un lato si tratta di una decisione positiva perché conferma che Israele sta commettendo atti plausibilmente genocidari, dall’altro però manca l’imposizione esplicita del cessate il fuoco. In ogni caso sette giudici su 15 nelle loro opinioni allegate alla decisione fanno riferimento al cessate il fuoco e al fatto che la Corte avrebbe dovuto ordinarlo perché la distribuzione di beni può avvenire solo in un contesto di cessazione delle ostilità. Non c’è cessate il fuoco esplicito ma di effetti la decisione del 26 gennaio ne aveva prodotti... La decisione è storica perché pone fine per la prima volta all’impunità di Israele a livello internazionale e perché ha già prodotto effetti. Sul breve periodo paesi o tribunali hanno ordinato l’interruzione della vendita di armi a Israele. È una tendenza che crescerà e nel medio periodo inciderà sui rapporti economici e militari con Israele, anche di paesi occidentali. E non escludo sorprese nel futuro anche negli Stati uniti. Avrà poi effetti sui procedimenti penali per responsabilità individuale in commissione di atti di genocidio: in Germania c’è già un processo in corso contro Schulz per complicità, in Svizzera contro Herzog per crimini contro l’umanità. E prima o poi avrà effetti anche sul lavoro della Corte penale internazionale: è scandaloso che la Procura della Cpi ancora non abbia detto nulla. E sul fronte delle sanzioni internazionali? Non va escluso. Guardiamo alla storia: alla vigilia della caduta del regime di apartheid in Sudafrica nessuno si aspettava che potesse crollare. È stato possibile in presenza di una mobilitazione permanente della società civile: non saranno gli strumenti del diritto internazionale a portare alla liberazione del popolo palestinese. Ha citato la Corte penale. Il procuratore Khan può inserire l’ordinanza della Cig nella sua indagine? Sì, il procuratore ha ampia discrezionalità. C’è già un’indagine in corso alla Corte penale internazionale. La Palestina si è rivolta alla Cpi la prima volta nel 2009 dopo Piombo fuso. E dopo tre anni l’allora procuratore capo, l’argentino Luis Moreno Campo, decise di non decidere. Disse: non sappiamo se la Palestina è uno Stato ai sensi dello Statuto della Corte. Anche quando l’Assemblea generale dell’Onu riconobbe la Palestina come Stato osservatore, il procuratore non è mai tornato sui suoi passi: nessuna indagine su Piombo fuso e su crimini di guerra ampiamente documentati anche dalle Nazioni unite. Poi, nel 2015 dopo Margine protettivo, la Palestina si è rivolta di nuovo alla Corte penale. Cinque anni dopo, alla fine del 2019 la procuratrice Fatou Bensouda ha concluso l’indagine preliminare e nel marzo 2021 ha aperto le indagini. Pochi mesi dopo però è stato eletto Khan, che ha congelato l’indagine, alimentando seri dubbi sulla sua indipendenza. Fino a fine ottobre: il procuratore ha visitato il valico di Rafah, ha iniziato a intraprendere una serie di azioni e qualche settimana fa ha detto di stare indagando con utmost urgency, massima urgenza. I reati imputabili a cittadini israeliani che lui cita sono l’affamare deliberatamente la popolazione civile di Gaza e la violenza commessa dai coloni, ma non fa riferimento agli altri crimini ampiamente documentati. Quali sono i contenuti dell’indagine aperta nel 2021? I crimini di guerra commessi nell’ambito di Margine protettivo, quelli commessi nell’ambito della Grande marcia del ritorno e le colonie. Ma non sappiamo se Khan stia procedendo. Non esiste un limite temporale, la Procura ha piena discrezionalità. Come valuta la nomina dell’avvocato Andrew Cayley, ex procuratore generale britannico, a capo coordinatore dell’indagine? La sua nomina è problematica. Innanzitutto Cayley è molto vicino ai conservatori britannici, che formalmente si oppongono all’indagine della Cpi in Palestina. In secondo luogo, da procuratore capo militare in Gran Bretagna ha chiuso tutte le indagini sui crimini di guerra commessi dalle truppe britanniche in Iraq, impedendo alla Cpi di indagare in merito perché ufficialmente lo avevano già fatto le autorità nazionali. In terzo luogo, non sono chiari gli standard di imparzialità e indipendenza adottati dalla Cpi in merito ai procuratori e allo staff della procura: qualcuno così vicino a un partito non soddisfa tali requisiti, di fatto la Corte adotta standard più bassi di quelli degli stessi stati membri. Quarto, il suo nome viene reso pubblico quando nessuno conosce le identità degli altri membri del team investigativo: credo sia un modo per rassicurare chi è contrario a tale indagine. Il file presentato alla Corte penale è aggiornabile con nuovi crimini di guerra? Il raggio di azione delle indagini si può restringere o allargare in qualsiasi momento. Anche perché le indagini effettive iniziano in una fase successiva: nella fase preliminare si usano solo le cosiddette prove indirette come i report di organizzazioni non governative o delle Nazioni unite. Poi con le indagini si attiva un procedimento penale che deve poter sostenere un processo. La società civile palestinese ha fatto un enorme lavoro di raccolta e documentazione in merito... Senza il lavoro della società civile palestinese non ci sarebbe mai stata un’indagine alla Corte penale internazionale. Siamo a marzo 2024 e nessun investigatore dell’ufficio della Procura ha mai messo piede a Gaza o in Cisgiordania. La società civile, per raccogliere le prove dei crimini, non poteva aspettare l’arrivo della Corte. Dieci, 15 anni dopo, come si fa a raccogliere prove di quanto successo nel 2009, nel 2014 o nel 2018? Dietro c’è un lavoro di documentazione delle organizzazioni della società civile, in particolar modo del Palestinian Center for Human Rights e al Mesan a Gaza, di Al Haq, Addameer, Defence for Children in Cisgiordania. Hanno pagato un prezzo molto alto: sei di queste organizzazioni sono state designate da Israele come terroriste nel novembre 2021, per la loro cooperazione con la Corte penale. È impressionante come non abbiano ricevuto nessun sostegno dalla stessa Corte, nemmeno una dichiarazione. Lei ha partecipato a questo lavoro... La documentazione viene raccolta dalle organizzazioni sul campo. Il nostro ruolo di giuristi è costruire la base legale, presentare memorie sulla base delle fonti primarie e delle prove raccolte, spiegare alla Procura ed eventualmente ai giudici in che modo queste prove dimostrino la commissione di crimini internazionali. Questo avverrà in modo più efficace quando si apriranno i processi. È quello che è mancato finora: l’apertura dei casi e l’identificazione di eventuali responsabili. L’assedio di Gaza, iniziato nel 2007, rientra in questo file? In termini giuridici l’assedio di per sé costituisce un attacco sistematico e su larga scala alla popolazione civile di Gaza. La sua radicalizzazione, oggi, pensiamo alle dichiarazioni di assedio totale di Gallant, rientra nella giurisdizione della Corte penale internazionale. Il diritto umanitario internazionale vieta in modo assoluto la privazione di beni essenziali come metodo di guerra. Non è ammissibile alcuna deroga. Rientra anche nel concetto di genocidio, che si esplica anche con l’imposizione di condizioni di vita volte a distruggere il gruppo protetto. Tra queste condizioni ci sono l’assedio totale e la privazione dei beni essenziali. Il Sudafrica ha citato questi aspetti di fronte alla Cig. Il grande gioco nel Sahelistan sulla pelle dei disperati in fuga di Domenico Quirico La Stampa, 30 marzo 2024 Nel duello fra Occidente e Russia i valori passano in secondo piano e i golpisti sono riabilitati. L’obiettivo è fermare l’avanzata della Wagner mentre i migranti pagano il pizzo e muoiono. Ah! Il Sahelistan... dove tutto sembra dissolversi nella incandescenza immobile del deserto; e il vento che quando si leva sembra avere una follia di vendetta contro le cose; un lampo verde e azzurro, il fiume il Niger nella sua pigra corsa verso il mare, vitalità fremente che fa fronte all’oceano di sabbia giallo fino al delirio... E ancora jihadisti, colonnelli ambiziosi fino alla rivolta, presidenti corrotti, migranti e passeur, mercanti d’armi e cercatori d’oro, mercenari russi intrighi traffici golpe... Le giunte militari qui mettono una tassa sulle chiamate dei telefonini per finanziare la “lotta anticoloniale” e gli aspiranti migranti indigeni, troppo poveri perfino per pagare la traversata del deserto, scappano in piroga verso il Benin. Ebbene sì: qui abbiamo individuato la nostra nuova Giarabub. La Quarta Sponda da oggi inizia sul fiume Niger tra coccodrilli e parchi tematici della povertà. Con popolazioni civili strette nella morsa di una guerriglia fanatica e di eserciti barbari e senza principi. Gente in uniforme o jallabia che non ha altro al mondo che il suo kalashnikov che una oscena diseguaglianza che uccide chi non ha nemmeno quello. Insomma una strage quotidiana degli innocenti diventati peggio che ostaggi, bersagli. Succedono davvero cose incredibili nelle capitali del Sahel, da sei mesi golpista e antifrancese. L’avvicendarsi dei colonialismi da queste parti non è scandito dalle visite, irrilevanti, di ministri e presidenti. Quelli vengono a saldare il salario dei satrapucci locali in società di affari, le tangenti qui si chiamano pudicamente contributi per lo sviluppo. Quello che scandisce le successioni alle leve di comando sono i passaggi di testimone tra i “barbouze”, tra le barbe finte dei Servizi. Bene. È fatta: cacciati i francesi, insopportabilmente molesti, dal loro “pré carré”, con le valigie pronte gli americani, in questa guerra di pezzenti e di scabbiosi ma che puzza di uranio, petrolio e di soldi di trafficanti, adesso tocca a noi. Finale di partita. Liquidazione. Ruolo perfetto per infiocchettare i doppi fondi del piano Mattei. Invece di fare penitenza, di contemplare i frutti dei loro loschi commerci, i Grandi lasciano il posto agli ascari italiani. Vediamo come se la cavano con i jihadisti del califfato d’Africa e con gli spicci liquidatori della Wagner. Incredibili i miracoli della realpolitik tropicale! Sei mesi fa maledivamo insieme all’Unione europea la perfidie dei golpisti saheliani, esigevamo il ritorno al potere dei presidenti legittimi, votavamo sanzioni implacabili per stritolare i tre Paesi più poveri del mondo. E invece… gli inviati del governo Meloni, con sorrisi un po’ imbarazzati, impalati e modesti davanti al colossale generale Abdurahamane, presidente del Consiglio per la salvezza della patria, il politburo del golpe, per chiedergli di poter collaborare, in nome dell’Occidente, a “rafforzare la sicurezza”. Che significa sconfiggere la Jihad e convincere la folle a non andare in piazza sventolando le bandiere putiniane. Nel Sahel la Storia ha fatto passi da gigante in pochi mesi: i golpisti riuniti in un patto d’acciaio hanno creato un esercito comune, hanno incassato la revoca (per ragioni umanitarie!) quasi totale delle inutili sanzioni imposte dall’Organizzazione dei Paesi dell’Africa occidentale a cui era stata affidata dalla Francia la punizione dei colpevoli, annunciano perfino la realizzazione di una moneta comune che sostituisca “il vincolo coloniale” del franco Cfa. Chissà se nella missione dei tre italiani è stata prevista una visita ad Agadez. Sì, “la porta del deserto” aprirebbe loro squarci forse ignoti. Una discesa dunque negli inferi del quartiere “Paesi bassi”, suggerirei al crepuscolo: lunghe code di pick-up senza targa, il contrassegno dei mezzi dei passeur che portano i migranti in Libia. Attorno un mercato vociante di venditori di turbanti, indispensabili quando si fila a cento allora sulle piste di sabbia, sacchetti di plastica con l’acqua, sigarette. Dal “ghetto”, un cespuglio di case, escono i candidati all’emigrazione, li chiamano così, che hanno atteso il giorno della partenza o il pagamento dei 450 euro, tariffa del passaggio. Si schiacciano nei cassoni, afferrano dei bastoni che servono per non essere rovesciati dai sobbalzi. Nessuno si ferma per loro, condannati a morire di sete o essere uccisi da jihadisti e briganti. Qualcuno si incolonna tranquillamente dietro i mezzi militari che una volta la settimana vanno a Nord. Se ci alleiamo ai golpisti per cercare di alzare uno sbarramento alle migrazioni forse dovremmo sapere che commettiamo un errore. La giunta militare ha appena abrogato la legge del 2015 che puniva come reato il traffico di esseri umani, negoziata in cambio di soldi con la Unione europea. I trafficanti in galera sono stati liberati. E sono tornati al lavoro. Ad Agadéz la gente ha applaudito, qui i migranti sono un lavoro, l’unico antidoto alla fame. Un’altra trasferta utile a rendere palpabili le cartine per gli strateghi della campagna d’Africa sarebbe nella cosiddetta area delle tre frontiere, all’incrocio tra i tre paesi saheliani: luogo impervio, zona proibita, lì comanda Al Qaeda. Uno dei buchi neri del mondo con una densità di violenza e di sofferenza per cui non sono più rovina, neppure guerra. Sono il Nulla. Sente levarsi voci di protesta: Ma insomma se non andiamo noi laggiù lasciamo via libera a Putin, alla sua occupazione dell’Africa che marcia a fianco di quella dell’Ucraina e dell’Europa! E se una volta invece di dar retta a strateghi da quattro soldi ci chiedessimo: i dannati del Niger, del Sahel che senso danno alla Storia che vivono, guerre innominate con decine di migliaia di morti, quotidianità di carestie, corruzioni e ladrocini? Il Grande Gioco mondiale ha lo stesso rilievo che gli diamo noi? O non è semmai il sopravvivere? Non sono loro i soli di cui, in definitiva, dovrebbe importarci il destino? Il loro punto di vista, semplicemente, nulla di più: per vedere i nostri grandi e nobili valori geopolitici ridursi a disordine, sarabanda di ombre tutte egualmente aberranti, un morire ogni giorno senza sapere perché. Chiederlo a loro, dico, invece di fare salotto con il golpista Abdourahamane Tiani.