Amnistia e indulto. Perché no? di Paola Balducci La Discussione, 2 marzo 2024 Il fenomeno del sovraffollamento carcerario rimane una delle sfide più urgenti e complesse che il sistema penitenziario italiano è costretto ad affrontare quotidianamente. Con una popolazione detenuta che continua a crescere - siamo quasi a quota 60.000 persone private della libertà personale - e limitate risorse a disposizione, risulta fondamentale esplorare soluzioni efficaci e anche poco popolari per ridurre la pressione sulle carceri e garantire condizioni di detenzione umane e dignitose. Da fin troppo tempo si spera in una riforma organica del sistema penitenziario e mentre il dibattito sul tema rimane vivo ed acceso, i dati che continuano ad arrivare dalle carceri non sembrano rappresentare una situazione in grado di poter ancora aspettare. In particolare, ciò che colpisce e fa sentire sconfitti tutti noi è l’emblematico dato relativo all’aumento dei casi di suicidio in carcere. Il detenuto sembra trovarsi in una situazione di isolamento, sentendosi fin troppo lontano sia dalle Istituzioni, non sempre disponibili a guardare con occhi attenti la realtà carceraria, che dall’affetto della propria famiglia, che magari non vede da tempo. E poi vi è anche la paura del futuro, di ciò che sarà della propria vita una volta conclusa la detenzione, di non poter trovare un lavoro, non riuscendo a reinserirsi in società. In questo contesto, anche alla luce del principio della finalità rieducativa della pena sancito dall’art. 27 comma 3 della nostra Costituzione, non si comprende come non possano essere utilizzati istituti quali l’amnistia e l’indulto. Tali istituti sarebbero fondamentali per affrontare il problema del sovraffollamento carcerario e per promuovere un sistema penitenziario più umano ed efficiente, che possa anche porsi in contrasto con il fenomeno del panpenalismo che sembra ispirare il legislatore da fin troppo tempo. Divenuti quasi un tabù nel nostro ordinamento - nonostante, è bene ricordare, siano previsti anche dalla nostra Carta Costituzionale all’art. 79 -tali provvedimenti potrebbero rappresentare una soluzione di certo non definitiva, ma rapida ed efficiente, al fine di ridurre la popolazione carceraria e di concedere al sistema esecutivo italiano una boccata d’aria. Spesso presentati come un’endiadi, in realtà amnistia e indulto possiedono dei caratteri ben differenti. L’amnistia è volta ad estinguere il reato, facendo cessare anche l’esecuzione della condanna e delle pene accessorie, mentre l’indulto si presenta come un provvedimento di indulgenza a carattere generale volto ad estinguere in tutto o in parte la pena principale, che viene condonata oppure commutata in altra specie di pena consentita dalla legge. Eppure, il “mostro a due teste” amnistia e indulto nel nostro ordinamento è stato relegato al passato, cercando quasi di chiuderlo nel dimenticatoio: si pensi solo che l’ultimo provvedimento di amnistia è stato concesso nel 1990, mentre l’indulto non è applicato dal 2006. Da un lato, l’iter legislativo al fine della loro approvazione non è né agevole né di breve durata: come ci ricorda la nostra Carta Costituzionale, essi sono concessi con legge deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale. Se a ciò poi si aggiunge che indubbiamente amnistia e indulto non godano di particolare fascino nella maggior parte dell’opinione pubblica e non siano argomenti politicamente popolari, la strada verso la loro concessione appare sempre più in salita e tortuosa. Tuttavia, sarebbe necessario un forte coraggio del legislatore volto proprio a percorrere questa strada, a ridare dignità e speranza a quanti si trovano in condizioni precarie e drammatiche negli istituti penitenziari, magari dopo essere stati condannati solo per reati minori o di scarsissimo allarme sociale. Occorrerebbe difatti un approccio bilanciato, che tenga conto delle diverse implicazioni legali, sociali ed etiche coinvolte. Ciò richiederebbe un attento esame dei criteri e delle procedure per l’applicazione di tali misure, nonché un impegno continuo per garantire che i detenuti rilasciati siano adeguatamente supportati nel loro reinserimento nella società. Non dunque un “liberi tutti”, come gli oppositori all’applicazione di tali istituti potrebbero obiettare, bensì dei provvedimenti calibrati, studiati, attentamente regolati, al fine di permettere al sistema carcerario italiano di svolgere la vera funzione che la Carta Costituzionale gli ha brillantemente attribuito: non unicamente di afflizione e pena, ma di rieducazione e recupero sociale, che in un contesto complicato come quello delle carceri italiane, sembra oramai essere perduto e compresso come i 60.000 detenuti che lo popolano. Minori, erano 10 anni che non si raggiungeva quota 500 detenuti. Cosa è successo? di Davide Madeddu Il Sole 24 Ore, 2 marzo 2024 Due dati ci dicono chiaramente quale sia l’approccio del nostro governo alla criminalità giovanile: da quando è entrato in vigore il decreto Caivano a settembre 2023 ci sono più minori nelle carceri, anche se il numero di reati è il medesimo dell’anno precedente, e più ragazzi appena maggiorenni stanno “scontando” la misura cautelare nelle carceri per adulti. La crescita delle presenze negli ultimi 12 mesi è fatta quasi interamente di ragazze e ragazzi in misura cautelare. Le misure cautelari personali consistono in limitazioni della libertà personale; sono disposte da un giudice nella fase delle indagini preliminari o nella fase processuale. Erano 10 anni che non si raggiungeva quota 500 minori detenuti nei 17 Istituti penali per minorenni italiani. Gli ingressi sono in netto aumento: erano stati 835 nel 2021, saliti a 1.143 nel 2023, la cifra più alta degli ultimi quindici anni. I ragazzi presenti negli IPM, gli Istituti Penali per i Minorenni in misura cautelare erano 340 nel gennaio 2024, contro i 243 del gennaio 2023. Sono i numeri di “Prospettive minori”, il VII Rapporto di Antigone sulla giustizia minorile, pubblicato a metà febbraio 2024. Che cosa è accaduto? I ragazzi improvvisamente si sono messi a delinquere di più? Sono arrivate onde di migranti a deliquere nel nostro belpaese? No. La criminalità minorile è più o meno stabile. I dati forniti dall’Istat e dal Ministero dell’Interno relativi ai minorenni arrestati e/o indagati nel periodo 2010-2022, mostrano un picco nel 2015 seguito da un costante decremento. È successo che a settembre 2023 è entrato in vigore il Decreto Caivano, con lo scopo di introdurre “misure urgenti di contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa e alla criminalità minorile.” Di particolare rilievo sono le novità in materia di misure cautelari per minori, DASPO urbano, foglio di via, misure di contrasto alle ‘baby gang’, ammonimento, misure sul processo penale a carico di imputati minorenni e istituti penali per minorenni. Il decreto Caivano ha esteso l’applicazione della custodia cautelare in carcere e ha previsto di disporre la custodia cautelare anche per i fatti di lieve entità legati alle sostanze stupefacenti. Da qui la notevole crescita degli ingressi in IPM per reati legati alle droghe, con un aumento del 37,4% in un solo anno. Aumenti dei numeri che non trovano riscontro nell’aumento dei reati. In altre parole: raddrizzarli da giovani, far capire subito come funziona la legge e quanto costa aver sbagliato. Un approccio in contrasto con il nuovo codice di procedura penale entrato in vigore nel 1988, fondato sull’interesse superiore del minore. Interesse superiore del minore significa che in ogni legge, provvedimento, iniziativa pubblica o privata e in ogni situazione problematica, l’interesse del bambino/adolescente deve avere una considerazione preminente. Il Decreto Caivano affronta un problema serio, quello della delinquenza giovanile. Uno studio dal titolo “Le gang giovanili in Italia”, pubblicato a ottobre 2022 ha mostrato che le gang giovanili rilevate sono principalmente composte da meno di 10 individui, in prevalenza maschi e con un’età compresa fra i 15 e i 17 anni. Nella maggior parte dei casi i membri sono italiani e in molti casi non si tratta di ragazzini svantaggiati. I crimini più spesso attribuiti alle gang giovanili sono reati violenti (come risse, percosse e lesioni), atti di bullismo, disturbo della quiete pubblica e atti vandalici. In realtà però sono meno frequenti e di solito commessi da gruppi più strutturati sono lo spaccio di stupefacenti o furti. Dare un’opportunità con la messa alla prova funziona - Alla fine del 2023, il 18,8% dei giovani si trovava in messa alla prova, un istituto usato sempre di più negli ultimi 30 anni e che porta a un’alta percentuale di buon risultato. Tra il 1992 e il 2023 le concessioni di messa alla prova sono passate da 788 a 6.592, anche se solo il 20% del totale - hanno riguardato ragazzi e ragazze stranieri, che pure sono poco più della metà dei ragazzi. Oggi la percentuale di esiti positivi si attestava intorno all’85%, in linea con gli anni passati. “Nella maggior parte dei casi, i giovani che ricevono fiducia e supporto tramite percorsi strutturati siano poi in grado di restituire questa fiducia, superando con successo la prova a cui sono sottoposti” scrivono gli esperti di Antigone. “Invece di intervenire sui servizi per la tossicodipendenza e sull’educazione nelle scuole si va a inasprire una figura di reato che porterà a maggiori arresti di minori che consumano sostanze psicotrope anche leggere e sono spesso coinvolti solo occasionalmente con lo spaccio” scrivono gli esperti di Antigone nel rapporto. “L’introduzione del “percorso di rieducazione del minore” stravolge l’idea di valutazione individuale volta al superiore interesse del minore propria della giustizia minorile. La sua proposizione è infatti obbligatoria nei casi previsti e il rifiuto da parte del giovane o la mancata riuscita del percorso va a determinare l’impossibilità di accesso alla messa alla prova. A differenza di quest’ultima, tuttavia, il percorso di rieducazione prevede obbligatoriamente che il giovane svolga lavori socialmente utili o altre attività a titolo gratuito, impedendo così la valutazione caso per caso del magistrato rispetto a come sia meglio per lui o per lei impiegare il proprio tempo. Meno opportunità= più recidive - “Il problema è che con il decreto Caivano, che ha fortemente ampliato la possibilità di trasferire i ragazzi maggiorenni, che sono in IPM in quanto avevano compiuto il reato compiuto da minorenni, nelle carceri per adulti si assiste a una ulteriore torsione del sistema” spiega Alessio Scandurra, coordinatore dell’osservatorio di Antigone sulle carceri per adulti. Un sistema adulti che nei primi quarantacinque giorni del 2024 ha già contato 20 suicidi. Ricordiamo che negli IPM possono esserci anche i ragazzi tra i 18 e i 25 anni che hanno commesso il reato da minorenni e hanno raggiunto la maggiore età successivamente. “Queste persone devono confrontarsi con tipo di detenzione più dura, limitata, in luoghi dove i loro bisogni, anche a fronte del grande sovraffollamento e quindi della scarsità di opportunità di studio, lavoro e ricreative, non vengono tenuti nel giusto peso, lasciandoli invece in un sistema che, ad oggi, produce criminalità a causa di tassi di recidiva molto alti. Capita allora che il ragazzo entri in carcere con l’accusa di un singolo reato e ne collezioni molti altri (oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale, danneggiamento, rissa, rivolta), in un circolo vizioso che se non verrà interrotto dall’ascolto e dal sostegno porterà solamente a incancrenire le situazioni e far perdere ogni speranza a questi giovani. Vengono trasferiti di continuo da IPM ad IPM, rendendo impossibile una loro adeguata presa in carico”. Una Giustizia che vuole rieducare almeno i più giovani di Carla Forcolin* Ristretti Orizzonti, 2 marzo 2024 Ieri, primo marzo, c’è stato un evento presso il Tribunale per i Minorenni di Venezia, di cui vale la pena parlare: è stata inaugurata la mostra fotografica “Sguardi verso l’alto. Dalla cella alla vetta”, che illustra, attraverso le belle foto di Federico Sutera, un progetto dell’APS “La gabbianella”, a favore dei giovani affidati all’Ufficio del Servizio Sociale per i Minorenni (USSM). Non è stato possibile invitare la stampa e far arrivare troppe persone oltre agli operatori del settore, su precisa e motivata volontà della Procura della Repubblica, e per questo è opportuno parlarne almeno dopo. Si è abituati ad associare il Tribunale ad un luogo in cui si somministrano pene e nell’immaginario comune il Tribunale per i Minorenni deve “punire” bande di crudeli teppisti in erba. In realtà i minorenni affidati all’USSM compiono soprattutto reati legati al furto e i reati contro la persona, che pure ci sono, sono una minoranza. Molto spesso i giovani, che si macchiano di colpe tali, per cui si deve impegnare il Ministero di Giustizia, sono ragazzi che hanno alle spalle vite difficili, dove ben poca cura è stata posta alla loro educazione. Ha senso quindi che essi possano essere educati - finalmente - nello svolgimento di esperienze significative, che riescano a coinvolgerli con la mente e con il corpo. L’attività di arrampicare è senz’altro una di queste, perché è un po’ un gioco, ma un gioco serissimo, nel quale si può cadere e farsi male, se non si seguono gli insegnamenti della guida alpina. Qui la posta in gioco è alta, com’è alta la soddisfazione di riuscire. E quando si riesce, ci si sente finalmente “bravi”, finalmente l’autostima cresce, finalmente si può pensare ad impegnarsi in qualcosa di costruttivo nella vita. Il progetto “Arrampicare”, che nel 2024 e nel 2025 si ripeterà, con un finanziamento della Regione del Veneto e di Cassa delle Ammende, prevede anche che il superamento della paura del vuoto possa portare a fare un corso del Centro edili Venezia, per imparare l’edilizia in sospensione. Cioè apra la strada a un lavoro onesto e discretamente pagato. Di questo si è parlato ieri con il dottor Tenaglia e la dottoressa Sinigaglia, perché il Tribunale per i Minorenni è in realtà il luogo dove si prova a recuperare i ragazzi che hanno preso strade di abbruttimento, per portarli metaforicamente - e non solo - “dalla cella alla vetta”. Le fotografie di Federico Sutera non sono state valorizzate, appese come si poteva a cavalletti acquistati appositamente, ma rimangono belle. La guida alpina Alessio Nardellotto, che oggi è stato con noi, non è stato ringraziato adeguatamente per il suo fondamentale contributo, ma sa bene quanto gli siamo grati. Dodici fotografie hanno permesso di fare un calendario, grazie ad un finanziamento del CAI e di altri amici. Ora esso funge da “catalogo”: chi lo volesse può chiederne una copia all’associazione “La gabbianella” al n. 0412412649 o via mail (info@lagabbianella.org). La mostra rimane aperta fino alla fine di marzo, poi si trasferisce a Bassano del Grappa. *Responsabile del progetto “Arrampicare” Riforma della giustizia, Fdi frena Tajani: arriva lo stop sulla separazione delle carriere di Federico Capurso La Stampa, 2 marzo 2024 A ogni leader la sua bandiera. Giorgia Meloni ha il premierato, Matteo Salvini l’autonomia differenziata. E Antonio Tajani? Dopo il congresso di Forza Italia, il leader azzurro si è reso conto di non avere in mano ancora nulla da sventolare. Un problema non da poco, nel pieno della campagna elettorale perle Europee di giugno. E così, ecco che un vecchio pallino berlusconiano rispunta improvvisamente fuori dal cassetto in cui era stato chiuso: la proposta di riforma costituzionale per la separazione delle carriere dei magistrati arriverà in Aula, alla Camera, il prossimo 25 marzo. La decisione è stata presa giovedì sera dall’ufficio di presidenza di Montecitorio. “Forza Italia vuole accelerare l’approvazione di una riforma fondamentale”, dice il capogruppo alla Camera dei forzisti, Paolo Barelli. I forzisti sembrano però prevedere le obiezioni che arriveranno, soprattutto dagli alleati. Barelli ricorda quindi che la separazione tra giudici e pubblici ministeri “è parte del programma di governo e ha già scontato un lungo percorso di audizioni in commissione Affari costituzionali”. Insomma, inizia a metter giù i sacchi di sabbia. E non è una cattiva idea, perché infatti, puntualissimi, arrivano gli “amici” leghisti con una buona dose di perplessità: “Non è nemmeno finito il lavoro in commissione - fa notare un fedelissimo di Salvini. Sarebbe più prudente terminare il percorso”. Nella Lega preoccupa il possibile sorpasso di Forza Italia alle Europee; figurarsi se vogliono dare benzina alla campagna elettorale di Tajani. Dentro Fratelli d’Italia sono ancora più netti: “La separazione delle carriere non arriverà mai in Aula a marzo”, scommettono dal partito, con il piglio di chi sa di avere in mano il bastone del comando. D’altronde, fanno notare, “il patto è che venga approvata prima la riforma per il premierato, poi quella per la separazione delle carriere”. Si respira un certo nervosismo. Anche dalle parti di Palazzo Chigi, perché il premierato dovrebbe essere approvato in Senato in prima lettura prima di giugno, ma al momento l’obiettivo è piuttosto lontano: “Andando avanti così, rischiamo di chiudere dopo l’estate, forse persino a dicembre”, ammette il presidente della commissione Affari costituzionali, Alberto Balboni, un fedelissimo di Meloni. Nella sua commissione, dove è in discussione il testo, è rimasto tutto fermo in queste ultime settimane e i lavori riprenderanno solo martedì, “ma il Pd e l’Alleanza verdi-sinistra stanno facendo ostruzionismo, hanno presentato una valanga di emendamenti. Alcuni li ho giudicati inammissibili, ma ne restano un migliaio da votare”. Per Fratelli d’Italia va quindi trovata una via d’uscita, e anche presto. “La soluzione - propone Balboni - potrebbe essere quella di chiudere qui il lavoro in commissione e portare il testo direttamente in Aula, dove i tempi sono contingentati”. Una tattica che, di consueto, non viene utilizzata per un provvedimento delicato come una riforma costituzionale, “ma se l’ostruzionismo è legittimo, ha anche un suo limite: non può trasformarsi nella dittatura della minoranza, che impone la sua volontà sulla maggioranza”, si difende il senatore di FdI. Qualche problema lo sta incontrando anche la legge sull’autonomia differenziata, che è invece in discussione in commissione alla Camera. Le opposizioni, qui, hanno presentato la richiesta di centinaia di audizioni e i Cinque stelle promettono battaglia. Per lo meno Forza Italia, che aveva lanciato dichiarazioni guerresche durante il congresso nazionale del partito, la scorsa settimana, non sembra intenzionata a mettere bastoni tra le ruote al provvedimento leghista. In fondo, “se anche venisse approvato il testo, l’autonomia sarà inattuabile per molto tempo. Forse, con tutte le clausole inserite già in Senato, non arriverà mai”. Basterebbe però una piccola modifica per rinviare il testo in Senato per un ulteriore passaggio e mandare in fumo, così, il progetto di Salvini di brandire la bandiera identitaria leghista in campagna elettorale. In fondo, finora le riforme dell’autonomia e del premierato sono andate avanti perché mosse da un “ricatto” reciproco: senza l’una, non può esserci l’altra. Adesso però anche Forza Italia vuole la separazione delle carriere dei magistrati, il suo vessillo da mostrare agli elettori. L’ultimo equilibrio rimasto nella maggioranza, così, rischia di saltare. Nordio ci pensa: test psicologici ma solo sui futuri magistrati di Errico Novi Il Dubbio, 2 marzo 2024 Martedì Montecitorio voterà un parere favorevole sui controlli analogo a quello di Zanettin. Oggi parla l’Anm, pronta a fare muro anche sulle carriere separate. Lo ha approvato la commissione Giustizia di Palazzo Madama, grazie all’iniziativa di Pierantonio Zanettin, capogruppo azzurro nell’organismo presieduto dalla leghista Giulia Bongiorno. La settimana prossima, entro martedì, dovrebbe arrivare un analogo via libera dall’altra commissione Giustizia, quella di Montecitorio, dove un documento simile a quello di Zanettin sarà proposto dal presidente Ciro Maschio, di FdI. Anche dalla Camera sarà rivolto al governo un invito a “valutare la possibilità” di introdurre i test per i magistrati, almeno per chi affronta il concorso in vista della carriera togata. Sarà poi una partita da giocare tutta in Consiglio dei ministri. Con Nordio a dare le carte. C’è una possibilità che sembra farsi strada e che in effetti è suggerita proprio dalla formula scelta, con successo, da Zanettin: non considerare i test come una novità da “somministrare” alla magistratura all’improvviso, ma ricorrervi per il futuro. Sebbene sia difficile non condividere il principio per cui ai magistrati dovrebbe essere riservato un trattamento non diverso da quanto avviene per qualsiasi altro dipendente pubblico, Nordio sa anche che applicare a chi ha vinto un concorso, ed esercita già da anni le funzioni giurisdizionali, le verifiche sulla tenuta psicologica sarebbe problematico. È una soluzione che, pur non irragionevole, presenterebbe controindicazioni sia sul piano politico che in termini operativi. “Cosa succederebbe”, è la riflessione proposta da una fonte parlamentare di centrodestra, “se i testi psicoattitudinali facessero emergere una non confortante predisposizione all’equilibrio di un certo giudice? Tutte le sentenze da lui emesse fino a quel momento potrebbero essere oggetto di contestazione: è una mina che rischia di far saltare l’intero sistema giustizia”. Obiezione tutt’altro che peregrina. Ma sono anche più tranchant quelle già avanzate dall’Anm e destinate a risuonare oggi, quando il presidente del “sindacato” dei giudici, Giuseppe Santalucia, terrà una conferenza stampa al termine del “parlamentino” dell’associazione. In attesa che la magistratura associata faccia capire fino a che punto la questione dei test rischia di compromettere i rapporti col governo, Nordio è impegnato in una valutazione più generale. Di tipo politico. E anzi mai come stavolta, le scelte sulla giustizia, in capo al guardasigilli, possono riverberarsi in maniera forte sull’intero orizzonte della maggioranza. Il ministro sa cioè che la questione dei test psicoattitudinali è un tassello, al quale se ne aggiungono altri di pari importanza. Ad esempio, lo sgraditissimo, all’Anm, concorso straordinario in magistratura riservato ad avvocati, toghe onorarie e accademici. L’ipotesi però sembra evaporata: è rimasta fuori anche dall’ultima bozza (circolata ieri) del decreto Pnrr che sarà varato lunedì a Palazzo Chigi. Poi c’è la separazione delle carriere. Anche lì c’è in gioco una sfida alla linea conservativa dell’associazionismo giudiziario. Eppure la riforma procede. Sarà il 25 marzo in Aula, secondo il calendario della Camera. E due giorni fa, il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto ne ha parlato in questi termini: “È cambiato il rapporto tra magistratura e politica: siamo lontani anni luce dai tempi in cui Csm e Anm cercavano di condizionare le logiche parlamentari”. Ma è proprio così? Il punto è che una “guerra” con la magistratura potrebbe innescare un effetto incontrollabile, nell’opinione pubblica, che dalla giustizia potrebbe riverberarsi, ad esempio, sul referendum per il premierato. Ecco la linea sottile sulla quale Nordio sa di dover mantenere l’equilibrio. Ed ecco perché resta in bilico non solo il dossier più immediato, quello sui test psicologici, ma lo stesso “divorzio” tra giudici e pm. Ne è consapevole l’Unione Camere penali, che ha il merito di aver promosso la legge sulle carriere separate da cui tutto è partito: “È ora necessario che la politica non si faccia condizionare dalla costante azione di contrasto della magistratura, da sempre contraria a ogni forma di rinnovamento, e sostenga con impegno l’iter del ddl fino alla sua approvazione”, ha avvertito ieri l’associazione presieduta da Francesco Petrelli. Si tratta di scegliere fra ineluttabilità dello status quo e cambiamento, senza far finta che la seconda opzione sia priva di rischi. Strage di Erba, rinviata l’udienza per la revisione del processo di Giulia Merlo Il Domani, 2 marzo 2024 La corte d’appello di Brescia ha deciso di rinviare l’udienza per discutere l’istanza di revisione del processo al prossimo 16 aprile, dopo la richiesta formulata dalla difesa dei coniugi imputati, Rosa Bazzi e Olindo Romano. In questo modo, chiariscono i giudici, le parti avranno la possibilità di leggere tutti i documenti depositati dalla procura generale e dalle parti civili. “Va valutato che la memoria di parte civile richiede uno studio” ha affermato Antonio Minervini, presidente del collegio della Corte d’Appello di Brescia. Ci sarà quindi ancora da attendere per sapere se esistono effettivamente nuovi elementi sopraggiunti che possano determinare l’innocenza dei coniugi per l’omicidio di quattro persone - Raffaella Castagna, il figlio Youssef, la madre Paola Galli e la vicina di casa Valeria Cherubini - e per il tentato omicidio di Mario Frigerio, marito della Cherubini, rimasto a terra sgozzato ma vivo. L’udienza - “La soddisfazione è che la casa di Erba non era un luogo di spaccio, come hanno sempre fatto credere”. Sono queste le parole che Azouz Marzouk, marito di Castagna e padre del bimbo uccisi, ha detto uscendo dal palazzo di giustizia di Brescia, dopo la decisione della corte di rinviare l’udienza. “Lo ha detto anche il procuratore generale di Brescia che in quello che è accaduto non c’entra niente il mondo dello spaccio”, ha affermato. “L’importante è fare chiarezza e avere giustizia, che finora non è stata fatta”. Marzouk sostiene l’innocenza dei coniugi romano. Entrando in aula stamattina aveva dichiarato: “Non sono stati loro, per me sono innocenti”. L’avvocato generale dello Stato Domenico Chiaro, che rappresenta l’accusa insieme al pg di Brescia Guido Rispoli, prima dell’udienza, aveva chiesto che l’istanza fosse dichiarata “inammissibile” perché “priva di motivazioni”. Chiaro ha parlato di “Un can can mediatico, incontri pubblici e in tv. Il popolo ha diritto ha essere informato, ma credo che si siano superati determinati limiti”. Poi ha spiegato che “non è vero che la condanna si basa solo su tre prove. Plurimi sono gli indizi che gravano sugli imputati” e “ci sono tre rilevanti prove ma non le uniche, la ferita, la manomissione dei contatori, le ecchimosi di Olindo”. Secondo Chiaro, “non ci sono fatti nuovi dal punto di vista probatorio” e le intercettazioni “non assurgono a dignità di prove”. Inoltre, non ci fu “nessun falso” ricordo nella testimonianza di Mario Frigerio che per primo fece il nome di Olindo Romano e “Lo disse tre volte”. Sulla stessa linea il pg di Brescia, che ha contestato che nelle consulenze scientifiche sulla scena del delitto della difesa della criminologa Roberta Bruzzone siano state usate metodologie che all’epoca dei fatti non esistevano: “Le macchie di sangue e la scena del crimine sono elementi già in possesso dei giudici precedenti ed erano già stati analizzati compiutamente”. Secondo l’accusa le prove sopraggiunte sono inammissibili e viene smentita la ricostruzione della difesa: le confessioni della coppia non sono state estorte; Mario Frigerio, unico sopravvissuto al massacro, riconosce subito nel vicino di casa Olindo; la macchia di sangue della vittima Valeria Cherubini trovata sul battitacco dell’auto della coppia è stato portato dall’ex netturbino. Secondo Fabio Schembri, uno dei legali dei coniugi Romano, il fatto che il pg e l’avvocato dello Stato di Brescia siano “entrati nel merito delle prove” per sostenerne l’inammissibilità “significa che tanto inammissibili non sono”. Llo dimostreremo il 16 aprile”, ha aggiunto Schembri. Cosa è la revisione - Il giudizio di revisione è una forma di impugnazione straordinaria, perché avviene su una sentenza già passata in giudicato. In questo caso, la sentenza di cassazione del 2011 che ha condannato in via definitiva all’ergastolo Olindo e Rosa. Proprio per la sua straordinarietà, la revisione può essere richiesta solo in casi eccezionali: nel caso di condanna basata su falsità negli atti o in giudizio, nel caso in cui i fatti su cui si basa la condanna siano inconciliabili con quelli stabiliti in un’altra sentenza e - questo è il caso dei coniugi Romano - nel caso in cui dopo la condanna siano sopravvenute o si scoprano nuove prove che “dimostrano che il condannato deve essere prosciolto”. In altre parole, le nuove prove da produrre in giudizio devono portare all’assoluzione dei condannati e non possono essere solo prove che ne riducano la responsabilità. La richiesta di revisione può essere presentata dagli stessi condannati o dai loro prossimi congiunti oppure dal procuratore generale presso la corte d’appello nel cui distretto è stata pronunciata la sentenza di condanna. Le nuove prove portate da Tarfusser e dalla difesa si basano su tre perizie, che sono state frutto di tecnologie più moderne rispetto a quelle disponibili al momento degli omicidi. Il procedimento contro Tarfusser - Collateralmente alla richiesta di revisione, è emerso anche un caso tutto interno alla corte d’appello di Milano. Il sostituto pg Tarfusser, infatti, è stato condannato disciplinarmente dal Csm alla “censura” proprio per aver presentato l’istanza di revisione. La sezione disciplinare ha dato ragione alla procuratrice generale Francesca Nanni, secondo cui l’iniziativa sarebbe avvenuta non rispettando le linee guida dell’ufficio, che prevedevano che la richiesta passasse dal vertice. Tarfusser ha fatto sapere che impugnerà la condanna e ha usato parole molto dure in una lettera aperta. Il Csm “mi ha inflitto la sanzione della ‘censura’“ che verrà impugnata, per avere studiato degli atti processuali, avere scritto un atto giudiziario ed averlo depositato nella segreteria della Procura generale di Milano. Insomma, per avere fatto il magistrato”, scrive. “Il 24 marzo 2023 perfettamente consapevole delle norme, dei ruoli, della gerarchia e consapevole della delicatezza della vicenda ho chiesto al ‘capo’ un incontro urgente per discutere ‘diffusamente’ di una cosa tanto delicata quanto importante su cui stavo lavorando”. Incontro atteso per una settimana intera e mai avvenuto. Quindi “ho esercitato la mia funzione di magistrato, autonomo e indipendente, soggetto solo alla Costituzione, alla legge, agli atti processuali e alla mia coscienza e il 31 marzo 2023 ho depositato l’atto. Domanda: chi è venuto meno ai propri doveri?”. La conclusione è molto aspra nei confronti del Csm. “Mi sembra evidente che il ‘buffetto’ della censura ben poco abbia a che fare con il diritto e la Giustizia, ma sia una decisione di ‘politica giudiziaria per via disciplinare’ volta a tutelare un sistema giudiziario ormai in decomposizione”. “Assolvermi avrebbe delegittimato non solo i vertici del suo ufficio ma anche messo in pericolo la fallimentare politica delle nomine dominata dalla perversa correntocrazia che il cosiddetto ‘scandalo Palamara’ non ha minimamente scalfito”. Infine, “rifarei esattamente quello che ho fatto, orgoglioso di avere, anche in questo caso, esercitato il ministero di magistrato autonomo e indipendente, innanzitutto verso l’interno, prima ancora che verso l’esterno” e “tra pochi mesi andrò in pensione ci andrò senza nostalgia per un mondo che non sento più mio” in quanto “impregnato da invidie e gelosie” mentre “il successo non viene perdonato e il merito non viene riconosciuto”. Da Rosa e Olindo a Garlasco ad Avetrana: siamo ossessionati dai “fantasmi” dei delitti di Stefania Parmeggiani La Repubblica, 2 marzo 2024 Processi da rifare. Indagini chiuse e poi riaperte. Commissioni parlamentari. Errori giudiziari, colpi di scena e depistaggi. Ecco perché certi fantasmi non ci lasciano mai. Non finisce mai. Non in Italia, non con certe storie. Prendete Rosa e Olindo: la foto che li ritrae dietro le sbarre, sorridenti, un attimo prima della condanna all’ergastolo, è tornata sui giornali, in televisione, online. Dappertutto. Ha ricominciato a circolare un anno fa, quando un magistrato di Milano ha presentato istanza di revisione del processo contro il parere del procuratore generale. “Per una questione di coscienza”, ha detto, e subito quella foto è rimbalzata dagli archivi della cronaca alle nuove trasmissioni di crime. Qualcuno ha ricordato le parole del vecchio avvocato dei due coniugi: “Osservate le espressioni, semplici come le loro menti”. Diciassette anni dopo la strage di Erba, siamo tornati a guardarli in faccia e quindi a chiederci: possibile che dietro il massacro con spranga, coltello e fuoco di tre adulti e un bambino vi siano veramente loro, quei vicini di casa dallo sguardo vuoto? Pazienza se nel frattempo ci sono stati tre gradi di giudizio e ventuno giudici che li hanno dichiarati colpevoli, una confessione ritrattata dieci mesi dopo e un testimone oculare sopravvissuto per miracolo. In attesa che la Corte d’Appello di Brescia, oggi la prima udienza, decida se ci sono nuove prove e se queste siano sufficienti alla revisione del processo, il racconto di Erba può ricominciare. Non è l’unico. Anche ad Avetrana sono tornate le telecamere. Michele Misseri, che ha finito di scontare otto anni di carcere per aver gettato nel 2010 il corpo della nipote quindicenne Sarah Scazzi in fondo a un pozzo, va giurando di essere l’assassino. Dopo averlo detto alla Giustizia, che non gli ha mai creduto, lo ripete a “Farwest”, il programma di Rai Tre condotto da Salvo Sottile: “L’ho ammazzata io e volevo suicidarmi”. Sua figlia Sabrina e la moglie Cosima, condannate all’ergastolo perché considerate le uniche responsabili, hanno fatto ricorso alla Corte europea: sostengono che i diritti della difesa sono stati violati. E chissà se torneremo a parlare di Alberto Stasi, l’ex bocconiano condannato a sedici anni per l’omicidio della fidanzata Chiara Poggi, a Garlasco, 13 agosto 2007. Le indagini sono state riaperte già due volte, ma l’ipotesi alternativa, quella che metteva sotto accusa Andrea Sempio, amico del fratello della vittima, si è sempre risolta in un nulla di fatto: il Dna maschile rinvenuto sotto le unghie di Chiara è troppo degradato per permettere confronti. I legali di Stasi non demordono, parlano di una scena del crimine inquinata e anche loro si rivolgono a Strasburgo. Certi fantasmi non hanno mai pace. Alcuni poi, ci tormentano da decenni. Simonetta Cesaroni, Emanuela Orlandi, le otto coppie uccise dal “mostro di Firenze” continuano a ossessionarci: non c’è un colpevole, o quando la sentenza c’è, come nel caso dei “compagni di merenda” di Pacciani, si porta appresso una serie di misteri, concatenati uno all’altro, che fanno dubitare della verità giudiziaria non solo i mostrologi che affollano Internet, ma anche i famigliari delle vittime. Le indagini promettono svolte che non arrivano mai, accendono i riflettori su presunti colpevoli, si perdono tra perizie, lettere anonime, mezze verità, ritrattazioni, testimoni che riacquistano la memoria e prove che scompaiono dagli archivi giudiziari. Un pentolone che ribolle in continuazione e chissà alla fine di chi parla veramente: delle vittime, degli assassini, o di noi spettatori che chiediamo sempre nuovi enigmi e colpi di scena? Contabilità omicida - Un passo alla volta. Gli omicidi in Italia non sono frequenti. Invasi da notizie di cronaca nera ci sentiamo sotto assedio, ma non è vero: in Europa siamo tra i Paesi con meno morti ammazzati. Nel 2021 la Lettonia aveva un tasso di 5,8 omicidi per 100 mila abitanti. Noi eravamo fermi a 0,51, ben al di sotto della media europea di 0,83, peggio solo di Lussemburgo, Irlanda, Repubblica Ceca, Slovenia e Malta. Nel 2022 siamo arrivati a un tasso dello 0,55: vale a dire 322 persone morte ammazzate, 196 uomini e 126 donne, delle quali 106 vittime di violenza di genere. La contabilità invita a più di una riflessione, ma lascia pochi margini al mistero: il presunto colpevole, nel 93,7 per cento dei casi, è un uomo che agisce per futili motivi e rancori personali (53,1) oppure spinto da un movente economico, rapina compresa (14). A distanza di un anno, secondo il rapporto dell’Istat pubblicato lo scorso novembre, restavano avvolti dalle ombre 37 casi, tre con vittima una donna. Le indagini sono in corso, difficile dire quanti si trasformeranno in cold case, ma di sicuro la percentuale è drasticamente inferiore a quella che si registrava una decina di anni fa: nel 2012 i delitti irrisolti sfioravano il 40 per cento e perlopiù avevano una chiara matrice di stampo mafioso. “Il delitto perfetto appartiene al passato”, spiega Antonio Del Greco, ex funzionario della squadra mobile di Roma che nel 1990 diresse le indagini di via Poma e oggi direttore operativo Italpol. Di quel caso non si è mai liberato. Qualche anno fa scrisse un libro con il giornalista Massimo Lugli e finì sommerso da nuove segnalazioni. Tra le tante, una sembrava promettente: smentiva l’alibi di Francesco Caracciolo di Sarno, ex presidente dell’Associazione italiana alberghi della gioventù, l’ufficio dove Simonetta lavorava. Solo che nel frattempo l’uomo, molestatore seriale secondo una vecchia informativa della Digos, era morto. L’inchiesta si fermò lì dove doveva iniziare e anche adesso, che è stata riaperta per la terza volta, si parla di archiviazione: nel radar c’è Mario Vanacore, figlio del portiere che morì suicida durante il processo all’ex fidanzato di Simonetta. La procura ha già detto che sono solo suggestioni, finirà in niente. “Oggi, per risolvere un delitto come quello di via Poma, basta visionare le telecamere di sorveglianza”, dice Del Greco, “ma allora non c’erano. Stiamo parlando di un’altra epoca con una tecnologia e protocolli operativi diversi”. Non c’erano cellulari a inchiodare un indagato sulla scena del crimine e tantomeno sofisticate analisi delle tracce biologiche. Il Dna era entrato per la prima volta in un’aula di tribunale solo quattro anni prima, ma in Inghilterra. In Italia le indagini erano ancora deduttive, si mettevano assieme gli indizi, si puntava a una confessione, non si parlava di “prova regina”. La firma dell’assassino - Questione di poco. Nel 1998 l’impronta genetica inchioda il serial killer Donato Bilancia, diciassette omicidi in sei mesi tra Liguria e Piemonte, e ben presto si rivela fondamentale per risolvere vecchi casi, dall’omicidio di Elisa Claps al delitto dell’Olgiata, anche se è con l’omicidio di Yara Gambirasio che arriva la svolta. Sui leggins e sugli slip della tredicenne, uccisa il 26 novembre 2010 a Brembate di Sopra (Bergamo), viene trovata una traccia biologica mista - Dna della vittima e Ignoto 1: un’indagine a tappeto porta a un muratore di Mapello, Massimo Bossetti. Considerata determinante in tre gradi di giudizio, quella traccia ancora oggi scatena gli innocentisti: pochi giorni fa la Cassazione ha ribadito che nessun nuovo esame è ammesso, la difesa non potrà fare le controanalisi su cui puntava per riaprire il processo. Anche se il Dna è considerato un testimone silenzioso infallibile, i problemi non mancano. Lo dimostra l’omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher a Perugia, nel 2007. Gli investigatori rilevano quello di Amanda Knox su un coltello da cucina e quello di Raffaele Sollecito su un gancetto del reggiseno della vittima. Pensano che il caso sia risolto e invece si sbagliano: i periti dimostrano violazioni nelle procedure dei sopralluoghi e nel campionamento dei reperti, la Cassazione assolve i fidanzati. Del resto “la prova regina” non sempre si trova. È il caso di Serena Mollicone, la diciottenne di Arce abbandonata nel 2001 in un boschetto del frusinate, le mani e i piedi legati da scotch e fil di ferro, la testa chiusa in un sacchetto. Per la sua morte è indagato l’ex maresciallo Franco Mottola in concorso con la moglie e il figlio Marco. L’accusa pensa che Serena sia entrata in caserma per denunciare come spacciatore proprio il figlio del carabiniere, che sia stata colpita e poi lasciata agonizzare per cinque ore, ma sul suo corpo e sul nastro adesivo utilizzato per immobilizzarla non ci sono tracce biologiche dei Mottola. Anche i microframmenti di legno rinvenuti tra i suoi capelli, quelli che secondo i Ris confermerebbero luogo e dinamica dell’aggressione, in primo grado non sono stati sufficienti a condannarli. Ora c’è l’appello e chissà se, dopo anni di depistaggi e un suicidio misterioso, si riuscirà a fare chiarezza. Quanti sbagli - Non è facile. In Italia la verità sembra spesso provvisoria. Non ci sono solo indagini pasticciate e dietrologie un tanto al chilo, ma anche errori giudiziari. “E non sono pochi” dice Valentino Maimone, giornalista che insieme al collega Benedetto Lattanzi ha fondato l’associazione “Errorigiudiziari.com” con il relativo archivio online degli innocenti: centinaia di uomini e donne finiti in carcere ingiustamente. Si è dato un codice di condotta: non commentare i casi mediatici, non prima che il rumore si traduca in qualcosa di concreto. Per la contabilità si attiene alla definizione tecnica di errore giudiziario: persone condannate con sentenza definitiva e assolte dopo la revisione del processo. Negli ultimi trent’anni sono state 222, sette all’anno. “L’ultimo è il pastore sardo Beniamino Zuncheddu: quasi 33 anni in carcere per un triplice omicidio che non ha commesso. Un caso che ha fatto quasi impallidire altre clamorose ingiustizie come quella subita da Angelo Massaro, condannato per via di un’intercettazione mal interpretata: nel 1996 lo accusano di avere ucciso un amico fraterno. Non c’è corpo, arma del delitto o movente, solo una telefonata alla moglie. Una mattina, trainando un bobcat per lavori edilizi, le dice in dialetto: tengo nu muers. Lui intende che sta trasportando “un coso ingombrante”, chi ascolta capisce muert, un morto”. È l’inizio di una vicenda kafkiana, che si conclude solo nel 2017 quando viene dichiarato innocente. Era stato condannato a 24 anni, ne ha trascorsi 21 in cella. “I contorni dell’emergenza si vedono meglio dai numeri dell’ingiusta detenzione: 985 casi all’anno, da oltre trent’anni”. Ma perché accade? “Per errori nelle intercettazioni, come sa bene Massaro, per testimonianze e riconoscimenti sbagliati, per accuse false formulate per vendetta, ripicca o convenienza, per le dichiarazioni di collaboratori di giustizia inaffidabili che vogliono fare un favore alla cosca, vendicarsi o trarne qualche vantaggio personale come è accaduto con Enzo Tortora. Infine, per scambi di persona, alcuni clamorosi”. Tiro al piccione - Certo, i media non aiutano. Spiega Maimone: “Per Tortora si mise in piedi un ignobile tiro al piccione: fu fatto sfilare, schiavettoni ai polsi, davanti a frotte di fotoreporter e telecamere convocati per l’occasione. Oggi vediamo paginate di intercettazioni irrilevanti, oltraggiose e umilianti non solo per l’indagato, ma anche per chi gli è vicino”. È la cronaca che diventa show, i plastici della villetta di Cogne, i dettagli della vita privata di Amanda, le illazioni sulla famiglia Castagna, le troupe televisive che trasformano Avetrana in Hollywood… Il circo mediatico-giudiziario che non ha rispetto per nessuno: né per gli indagati, né per i famigliari delle vittime. Valter Biscotti, avvocato penalista, protagonista di processi della cronaca nera più profonda, ha visto cambiare negli anni la narrazione. “L’attrazione morbosa per certi delitti c’è sempre stata. Una volta i giornali facevano edizioni straordinarie, le piazze davanti ai tribunali si riempivano di gente, ma a un certo punto, con la televisione, il racconto è deflagrato”. A Perugia, dove difendeva Rudy Guede, c’erano torri davanti al tribunale per permettere ai cameramen di inquadrare l’ingresso di colpevoli e testimoni. Ad Avetrana, poi, erano tutti impazziti: “Assistevo i familiari di Sarah Scazzi e per raggiungere la casa della madre dovevo superare il muro delle troupe televisive. Non va bene, certi eccessi rischiano di influenzare le indagini e a volte trasformano una persona nel colpevole perfetto”. Ricorda Salvatore Parolisi, l’assassino di Melania Rea. Lo ha difeso fino all’ultimo grado di giudizio dove è stato condannato a vent’anni. “Una pena che per un delitto così orribile è poca cosa, ma allora che senso ha? Non c’era quasi nulla che lo collegasse alla scena del delitto, solo una minuscola traccia di Dna nella bocca di Melania, sua moglie. In un delitto d’impeto, con 35 coltellate, le tracce sono ben altre, ma lui in quel momento era l’uomo più odiato d’Italia. Sembra quasi che in alcuni tribunali aleggi il detto “poche prove, poca pena”. Il che è terribile, una negazione del diritto”. I detective del web - Per lui il colpevole ideale è anche Pietro Pacciani: “Cercavano una persona spregevole, hanno trovato un contadino ignorante e privo di freni inibitori, che aveva già ucciso un rivale d’amore, maltrattato la moglie e abusato delle figlie. Gli hanno attribuito otto duplici omicidi premeditati e mutilazioni eseguite con precisione chirurgica”. Ecco, alla fine si torna sempre lì, al caso dei casi, l’eterno mistero italiano: il “mostro di Firenze”. “Esistono anche i processi farsa” dice l’avvocato “e io ho deciso di dedicare gli ultimi anni della mia professione a smascherarli. Nelle carte dell’inchiesta c’è sempre la verità”. Sperava di dare un’occhiata alle foto scattate dalla coppia di francesi massacrata nel bosco degli Scopeti. “Giancarlo Lotti disse che la loro tenda era stata squarciata da Mario Vanni la notte del delitto. Io ritengo che fosse un vecchio strappo e dimostrarlo avrebbe invalidato quella testimonianza”. Poche settimane fa gli scatoloni con i reperti sono stati riaperti, ma sorpresa: i rullini erano scomparsi. Il “mostro di Firenze” è destinato a tenerci compagnia ancora a lungo. Così come l’ombra di pedofili in clergyman, criminali romani, agenti segreti bulgari e terroristi di destra, sempre presenti sullo sfondo del caso Orlandi. Più di 40 anni dopo, ci sono tre inchieste aperte: quella vaticana, quella della Procura di Roma e quella della Commissione parlamentare. Il fratello Pietro, che cerca la verità dal 22 giugno 1983, quando Emanuela uscì da una lezione di musica e scomparve nel nulla, ha incontrato un uomo che all’epoca era vicino ai Nar, in contatto con la Banda della Magliana e con il cardinale Poletti. Dice che la quindicenne è stata portata a Londra e lì segregata per alcuni anni. Come prova gli consegna una foto: si vede la mano di un uomo con una collanina di fili intrecciati. Chissà se è quella di Emanuela o se siamo davanti all’ennesimo depistaggio. Di certo è un particolare utile a fiction, talk, film e serie tv. Giancarlo De Cataldo, ex magistrato e romanziere, spiega: “L’Italia è un Paese ossessionato dalla cronaca nera. A inizio Novecento i bestseller erano i resoconti dei processi, in pratica dei libretti di true-crime. Poi è arrivata la televisione, con i primi casi mediatici. La svolta si ha nel 1953 con il delitto di Wilma Montesi e l’opinione pubblica divisa tra opposte tifoserie: innocentisti e colpevolisti. Allora il dubbio si nutriva della sensazione che qualcosa fosse stato occultato, oggi di un sentimento di sfiducia che investe le sentenze in quanto tali”. Del resto, sulla scena del crimine non si muovono più solo poliziotti, magistrati o giornalisti. Ci sono i famigliari delle vittime che non restano più alla finestra ma, come Pietro Orlandi, svolgono indagini in proprio. Ci sono i detective del web, ossessionati dalle incongruenze: nelle loro mani qualsiasi caso (non per forza cold) viene messo in discussione. E ci sono i criminologi, figure a metà strada tra Clarice Starling del “Silenzio degli innocenti” e lo psicologo di famiglia. “Certo, esistono domande legittime e vittime che ancora attendono giustizia” precisa De Cataldo “ma esiste anche un uso strumentale della cronaca nera, la sua trasformazione in arma di distrazione di massa”. Nulla di inedito? “La sopravvivenza ciclica di alcuni misteri, anche quando misteri non sono più”. Insomma, giocheremo ad Agatha Christie ancora un po’: con il fiato sospeso fino al prossimo omicidio. La Procura calunniò l’avvocato. Ma non è reato di Piero Sansonetti L’Unità, 2 marzo 2024 Armando Veneto è un signore di 88 anni, un grande avvocato, una persona che con notevole autorevolezza si occupa di politica, un uomo molto colto, gentile, elegante. Lo ho conosciuto negli anni nei quali ho lavorato in Calabria. E ho potuto stimarlo, come lo stimava chiunque lo conoscesse. Quattro anni fa l’avvocato Veneto ha subito una ferita che difficilmente si può rimarginare. La Procura di Catanzaro lo ha accusato di concorso in associazione mafiosa e di aver corrotto un giudice. Il tribunale gli ha rifilato 9 anni di prigione. Chi lo frequenta e gli vuole bene mi dice che lui è stato distrutto da quel processo. La sua vecchiaia sbriciolata. Ieri finalmente la Corte d’appello lo ha assolto. Gli avvocati Maiello e Migliucci, che lo difendono, hanno assai sobriamente dichiarato. “È stata ristabilita la verità”. Con quale motivazione è stato assolto Armando Veneto? È stato assolto perché non ha commesso il fatto. Cioè? Semplice dirlo in italiano: l’accusa era una clamorosa balla, una calunnia gravissima. La calunnia, nel codice penale, è un reato molto grave. Ricopio qui l’articolo 368 che è chiarissimo: “Chiunque, con denunzia querela… o istanza diretta all’Autorità giudiziaria… incolpa di un reato taluno che egli sa innocente è punito con la reclusione da due a sei anni… La pena è aumentata se si incolpa taluno di un reato pel quale la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a dieci anni, o un’altra pena più grave…La reclusione è da quattro a dodici anni, se dal fatto deriva una condanna alla reclusione superiore a cinque anni…” Vuol dire che, per esempio, se fossi stato io ad accusare l’avvocato Veneto di essere un amico dei mafiosi, ora finirei sotto processo rischiando 12 anni di prigione. Dovrei dimostrare che io non sapevo che lui fosse innocente. Cioè dovrei dimostrare che la calunnia contro l’avvocato non era dovuta a malafede ma a semplice incompetenza… Già, incompetenza. Perché tutto è nato, come spesso succede, dal superficiale ascolto di un’intercettazione che ha prodotto la confusione di un nome con un altro. Nessuno aveva pronunciato la parola “Veneto”. Capita abbastanza frequentemente. Specialmente in Calabria. Le intercettazioni sono il più pericoloso strumento di indagine che mai sia stato inventato. Nessuno mai saprà con precisione quante ingiustizie creano e quanti innocenti triturano. E in Calabria capita anche un’altra cosa. Che la procura abbia pochissima simpatia per gli avvocati. Una volta un procuratore sostenne che “tra alcuni avvocati e alcuni clienti l’ampiezza della scrivania si è ridotta. Permettere questo, soprattutto in ambito penale, è molto pericoloso.” Cioè, il Procuratore riteneva che gli avvocati fossero troppo appassionati alle ragioni degli imputati, e che questo mettesse a rischio le condanne, creasse una strada alle assoluzioni, e dunque danneggiasse la giustizia. Temo che il processo all’avvocato Veneto sia stato costruito un po’ per questa ragione. Per impartire una lezione all’avvocatura calabrese. Posso dire: per intimidire? Temo che se poi lo dico salta su qualche magistrato che come al solito mi querela. E allora solo un grande abbraccio a Veneto. E ai pochi che l’hanno sostenuto. Dopo mezzo secolo vogliono processare Curcio e Moretti di Frank Cimini L’Unità, 2 marzo 2024 La Procura di Torino ha chiuso l’indagine per l’omicidio del brigadiere D’Alfonso alla Cascina Spiotta nel 1975, riaperta dopo un esposto. Era stata archiviata ma la sentenza è andata persa in una alluvione. E quindi i giudici l’hanno revocata senza leggerla. In questo Paese esiste una struttura di antiterrorismo militante di cui fanno sicuramente parte i pm di Torino che hanno chiuso le indagini sui fatti del 5 giugno 1975 a Cascina Spiotta nell’Alessandrino quando venne uccisa Mara Cagol durante la liberazione dell’imprenditore Vallarino Gancia. La Procura vuole processare Renato Curcio, Mario Moretti, Lauro Azzolini e Pierluigi Zuffada per l’omicidio del brigadiere Giovanni d’Alfonso. Per la procura avrebbero avuto ruoli diversi, tra il sequestro dell’imprenditore e il conflitto a fuoco. Azzolini risponde per l’omicidio D’Alfonso. Moretti e Curcio avrebbero avuto un ruolo di concorso nell’organizzazione del sequestro di Gancia. Le impronte di Zuffada oltre a quelle di Azzolini sarebbero state trovate nella relazione in cui si spiegavano ai militanti del gruppo le fasi del blitz. Giusto per le famose impronte era stato condannato, l’unico, Massimo Maraschi. L’indagine era stata riaperta dopo un esposto presentato dagli eredi di D’Alfonso. In precedenza era stata archiviata. Questa sentenza venne revocata nonostante pm e gip non avessero potuto leggerla perché una alluvione l’aveva portata via. E in questo modo arriviamo adesso alla chiusura dell’indagine nuova che prelude alla richiesta di processo. Ovviamente nel corso degli anni mai si è tentato di accertare se Mara Cagol fosse stata “finita” con un colpo di grazia mentre era a terra inerme. La giustizia su quegli anni va in una sola direzione. Del resto la storia la raccontano i vincitori e i vinti non hanno diritto di parola. Si tratta della famosa memoria condivisa, appunto la verità raccontata da chi prevalse con i “pentiti”, le leggi speciali, la tortura a conclusione di un durissimo scontro sociale e politico sfociato in una guerra civile a bassa intensità e nemmeno troppo bassa. L’avvocato Davide Steccanella difensore di Azzolini e Zuffada si limita a commentare: “Voglio sapere se in Italia è possibile revocare una sentenza di proscioglimento senza averla letta. È questa l’eccezione che riproporrò nel corso del procedimento dopo che la Cassazione l’aveva definita intempestiva”. Curcio interrogato mesi fa come indagato aveva chiesto di essere illuminato sulla morte di sua moglie Mara. Il magistrato promise che si sarebbero messi in moto. Parole al vento. La sensazione è quella di andare verso la celebrazione di un processo per fatti di cinquant’anni fa con indizi molto labili considerando che c’era stato un non luogo a procedere. Ma i Torquemada manco una alluvione li ferma. “L’intelligenza artificiale può aiutare la giustizia” di Simone D’Ambrosio dire.it, 2 marzo 2024 Per la Corte dei conti ligure il tempo di “Minority report” si avvicina. La presidente Emma Rosati guarda al futuro: “La giustizia predittiva diminuisce la discrezionalità”. Ma avverte: “Impostare bene gli algoritmi”. “Minority report” è già in mezzo a noi. La giustizia predittiva, se già non è realtà, poco ci manca, grazie all’intelligenza artificiale che può aiutare non poco i magistrati. Parola della presidente della sezione giurisdizionale della Corte dei conti della Liguria, Emma Rosati. L’intervento stamattina nella relazione che ha aperto l’anno giudiziario, a Genova. Per la magistrata contabile, l’intelligenza artificiale “ha dimostrato di avere un enorme potenziale. L’adozione della giustizia predittiva presenta numerosi benefici potenziali: innanzitutto, può contribuire a ridurre la discrezionalità delle decisioni giudiziarie, garantendo maggiore coerenza nell’applicazione della legge”. Algoritmi e analisi dei dati potrebbero dare una mano a trattare nello stesso modo casi simili, riducendo di gran lunga i tempi della giustizia. “Un sistema di giustizia predittiva- spiega- può essere addestrato su un vasto insieme di decisioni giudiziarie passate, consentendo di formulare previsioni sugli esiti futuri”. Il tutto senza incappare in errori perché, dice ancora, le innovazioni digitali “possono offrire vantaggi, quali una maggiore certezza del diritto e l’uniformità nelle interpretazioni legali”. Ma non è tutto rosa e fiori. La presidente, infatti, invita a prestare attenzione ai rischi e alla trasparenza delle decisioni basate su algoritmi. Rosati mette in guardia: “Se i dati utilizzati per l’addestramento dei modelli predittivi contenessero pregiudizi o discriminazioni, questi potrebbero essere amplificati dagli algoritmi di apprendimento automatico, portando a decisioni ingiuste o sbagliate”. Insomma, “è fondamentale garantire la qualità, l’imparzialità e la trasparenza dei dati utilizzati nei sistemi di giustizia predittiva e provvedere a regolamentarla in modo serio e approfondito”. Anche perché, ne è convinta, nel futuro “avrà un utilizzo sicuramente massiccio nel futuro”. L’introduzione della tecnologia, però, non deve far calare l’attenzione sulla necessità di garantire “trasparenza, imparzialità e tutela dei diritti fondamentali”. Ma soprattutto, conclude, “queste nuove frontiere devono trovare un necessario equilibrio con il ruolo umano nel processo decisionale, che non potrà mai venire meno, pena un prodotto robotico, freddo, asettico e privo di sensibilità. Il diritto dei detenuti di conoscere le manifestazioni di pensiero che circolano nella società esterna di Giuseppe Molfese latribuna.it, 2 marzo 2024 Con sentenza n. 9044 del 13 dicembre 2023-1° marzo 2024, la prima sezione penale della Corte di Cassazione ha ricordato che la circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria n. 8845 del 16 novembre 2011 (e, in seguito, l’analoga circolare del 2 ottobre 2017), emessa con riferimento ai detenuti sottoposti al regime di cui all’art. 41-bis Ord. pen., dispone che qualsiasi tipo di stampa autorizzata (quotidiani, riviste, libri) deve essere acquistato esclusivamente nell’ambito dell’istituto penitenziario tramite l’impresa di mantenimento ovvero direttamente in libreria tramite personale delegato dai Direttori degli Istituti Penitenziari; parimenti, eventuali abbonamenti a giornali e riviste autorizzate dovranno essere sottoscritti direttamente dalla Direzione o dall’impresa di mantenimento per la successiva distribuzione ai detenuti che ne abbiano fatto richiesta. Viene vietato anche l’ingresso di libri o riviste ricevuti dall’esterno dai familiari anche tramite pacco colloquio o postale. Viene fatto divieto di consegnare tale materiale all’esterno. La Circolare ribadisce la necessità di evitare scambi di riviste o libri tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità. In linea generale, anche la potestà di normazione secondaria dell’autorità amministrativa si deve inserire nella prospettiva di un equilibrio tra i valori in campo. Peraltro la categoria dei detenuti soggetti al regime previsto dall’art. 41-bis Ord. pen., si segnala, per i presupposti stessi di tale sottoposizione (sempre ricorribile al Magistrato), per aspetti di particolare pericolosità, trattandosi di persone inquisite o condannate per gravissimi reati legati alla criminalità organizzata. Ciò posto, deve aggiungersi la considerazione, derivante dalla pluriennale esperienza delle concrete vicende di tale specifico settore, che libri, giornali e stampa in genere siano molto spesso usati dai ristretti quali veicoli per comunicare illecitamente con l’esterno, così ricevendo o inviando messaggi in codice (ma anche in chiaro: come conoscere i fatti criminali riportati dai giornali specie del territorio di provenienza) che da un lato non interrompono (ma possono anche alimentare) le comunicazioni di tipo criminale, dall’altro costituiscono concreti pericoli per l’ordine interno degli istituti. Sul punto va rammentato che la Corte Costituzionale, con sentenza n. 122 del 2017 ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lett. a) e c), della legge n. 354 del 1975 - in riferimento agli artt. 21, 33 e 34 Cost. - nella parte in cui, secondo il “diritto vivente”, consente all’amministrazione penitenziaria (anziché nei singoli casi all’autorità giudiziaria, nelle forme e in base ai presupposti di cui all’art. 18-ter Ord. Pen.) di adottare, nei confronti dei detenuti in regime speciale, il divieto di ricevere dall’esterno e di spedire all’esterno libri e riviste a stampa. Ciò perché l’adozione di tale misura non viola la libertà di manifestazione del pensiero (intesa nel suo significato passivo di diritto di essere informati) né il diritto allo studio, poiché non limita il diritto dei detenuti in regime speciale a ricevere e a tenere con sé le pubblicazioni di propria scelta, ma incide soltanto sulle modalità attraverso le quali dette pubblicazioni possono essere acquisite, imponendo di servirsi esclusivamente del carcere, onde evitare che il libro o la rivista si trasformi in un veicolo di comunicazioni occulte con l’esterno, di problematica rilevazione da parte del personale addetto al controllo. Né gli eventuali inconvenienti che potrebbero derivare dalla “burocratizzazione” del canale di acquisizione delle pubblicazioni compromettono in misura costituzionalmente apprezzabile i diritti in questione, trovando in ogni caso ragionevole giustificazione alla luce delle esigenze poste a base del regime speciale. Ovviamente, in ordine al diritto dei detenuti di conoscere liberamente le manifestazioni di pensiero che circolano nella società esterna, la sua tutela - tanto costituzionale (art. 21 Cost.) quanto legislativa (artt. 18, sesto comma, e 18-ter, comma 1, lett. a, Ord. pen.) - è riferita alla facoltà del detenuto di scegliere con piena libertà i testi con i quali informarsi, senza che l’autorità amministrativa possa esercitare su di essi una censura. Tanto premesso e considerato che i libri sono stati acquistati all’interno dell’istituto ove è ristretto il detenuto, il provvedimento impugnato non ha spiegato (se non in modo apodittico) le concrete e specifiche ragioni per le quali, dall’utilizzo di essi, deriverebbe un concreto pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica avendo soltanto effettuato un generico riferimento alla possibilità di acquisire informazioni e notizie sulle vicende trattate che potrebbero essere utilizzate per elaborare strategie ed impartire disposizioni nell’ambito del contesto mafioso di appartenenza senza alcuna specifica indicazione al riguardo, considerato anche lo speciale regime al quale è sottoposto l’uomo. In sostanza, nella materia de qua la norma regolamentare deve essere meramente attuativa delle restrizioni previste dalla legge e dal provvedimento ministeriale e non deve imporre limitazioni che appaiano inutili rispetto allo scopo del regime detentivo speciale e quindi la circolare sopra citata non può diventare strumento di negazione di fatto del diritto (Cass. pen., sez. I, 17 febbraio 2015, n. 6889). Padova. Muore un detenuto e nel carcere scoppia la rivolta. di Michela Nicolussi Moro Corriere del Veneto, 2 marzo 2024 Piano del ministero di Giustizia per le carceri venete: in arrivo educatori e agenti. Team anti-suicidi. L’ennesima protesta scoppiata ieri al Due Palazzi di Padova (580 reclusi a fronte di 308 poliziotti) dopo la morte nel sonno di un detenuto, riaccende i riflettori sulla difficile situazione delle carceri del Veneto. Dopo i 5 suicidi avvenuti a Montorio in cinque mesi il 18 febbraio gli avvocati della camera penale veronese hanno proclamato lo sciopero della fame a staffetta. Il 19 febbraio un 23enne recluso nel carcere di Santa Maria Maggiore, a Venezia, per rapina a mano armata ha dato fuoco ad alcuni fogli di giornale nella sua cella e ha accusato la Polizia penitenziaria di averlo picchiato, causandogli un’emorragia interna che lo ha portato al ricovero d’urgenza e al trasferimento a Montorio. La Procura ha aperto un’inchiesta per lesioni. L’autorità giudiziaria di Padova ha invece disposto l’autopsia sul trentenne colto da morte naturale al Due Palazzi, dove sarebbe dovuto restare fino al 2028 per reati collegati allo spaccio di stupefacenti. Evento al quale è seguita, alle 10, la contestazione di alcuni magrebini, rientrata per l’intervento dei poliziotti e altri detenuti. Nuovi focolai di rivolta nel pomeriggio. “Alle 16.30 nel IV Blocco - denuncia Donato Capece, segretario generale del Sappe (Sindacato di Polizia penitenziaria) - prima una colluttazione tra detenuti, poi l’aggressione agli agenti, due dei quali finiti al Pronto Soccorso. Alle 18.30 disordini nel II Blocco, dove un detenuto, urlando “Allah è grande” e brandendo una bomboletta di gas, minacciava di far saltare tutti. La polizia ha risolto la situazione dopo una lunga mediazione, ma sono violenze inaudite e inaccettabili. Il quadro nelle carceri è sempre più critico - chiude Capece, che sollecita i sottosegretari alla Giustizia, Andrea Delmastro e Andrea Ostellari, a vedere di persona cosa accade - da decenni chiediamo l’espulsione dei detenuti stranieri, un terzo di quelli presenti in Italia, per fare scontare le loro pene nei Paesi d’origine. E la riapertura degli ospedali psichiatrici giudiziari, per accogliere i detenuti con disturbi mentali, sempre più numerosi”. Il sistema Giustizia non sta a guardare. Tutte gli istituti di pena del Veneto hanno un direttore, il 5 marzo riceveranno un contingente di nuovi educatori (4 solo a Montorio) e hanno attivato protocolli e team anti-suicidio insieme alle Usl. Educatori, agenti e personale medico degli istituti di pena collaborano con psicologi e psichiatri delle Usl per seguire con programmi personalizzati i detenuti con gravi disagi. Inoltre per il Due Palazzi e Montorio sono stati nominati due nuovi comandanti della polizia penitenziaria (a Verona ne è stato assegnato uno proveniente dalla Lombardia), incaricati di progettare con i vertici delle strutture una riorganizzazione interna e intanto, per affrontare in tutta Italia la carenza di personale, sono stati indetti nuovi concorsi per funzionari contabili e poliziotti. Il governo ha previsto l’assunzione straordinaria di mille agenti: i primi 250 entrano in servizio in aprile. Altri 5100 saranno pronti entro l’anno e ulteriori 2500 nel 2025. Quanto a Ostellari nell’ultimo anno e mezzo ha visitato il Due Palazzi cinque volte e in tutto il Veneto sta potenziando il numero di educatori e personale sanitario, infatti dieci giorni fa ha incontrato l’assessore alla Sanità, Manuela Lanzarin. Sul tavolo pure l’incremento dei posti di lavoro per i detenuti: ministero della Giustizia e Cnel hanno avviato una cabina di regia per favorire l’ingresso di aziende nei penitenziari e un mese fa il sottosegretario ha incontrato i vertici della Camera di Commercio di Padova. Al Due Palazzi è disponibile uno spazio di 300 metri quadri in ristrutturazione. Si è visto che i detenuti occupati non creano problemi e una volta usciti di cella non tornano a delinquere (i recidivi sono il 40%). Infine una nuova circolare impone ai reclusi protagonisti di disordini il trasferimento fuori regione. Venezia. “A Santa Maria Maggiore poca luce, niente psicologi e ottanta detenuti in più” di Alberto Zorzi Corriere del Veneto, 2 marzo 2024 Visita al carcere di Venezia delle associazioni, spunta un cappio. Ticozzi: intervenga il Consiglio. Lettera dei detenuti. Più di 230 persone sono detenute al carcere di Santa Maria Maggiore a Venezia, su una capienza di posti disponibili di 146. E rispetto a luglio dell’anno scorso nel penitenziario lagunare ci sono settanta reclusi in più. “La situazione è grave: un’impennata di sovraffollamento”, denuncia Rita Bernardini, presidente nazionale dell’associazione “Nessuno tocchi Caino” dopo la visita al carcere veneziano assieme a una delegazione della sua associazione, al Movimento Forense, a Radicali Venezia e al consigliere dem Paolo Ticozzi. Un detenuto 23enne finito in terapia intensiva a Verona ha raccontato di essere stato ridotto in fin di vita da tre guardie e un gruppo di carcerati ha voluto scrivere una lettera denunciando la condizione “disumana e la mancanza di sicurezza nell’istituto”. “Abbiamo visitato le sezioni dove nelle stanze singole concepite per una persona ci sono due file di letti a castello a tre piani - sottolinea Bernardini -. Non c’è luce, mancano gli arredi e nelle sezioni al primo piano, a regime chiuso, in otto metri quadri stanno in tre”. Tanti i malati psichiatrici, denuncia la presidente di “Nessuno tocchi Caino”, e numerosi i dipendenti da droghe. “Le guardie sono costrette a fare straordinari, con turni di otto ore anziché di sei, perché non c’è personale. Non si respira. La mancanza di spazio crea tensione e trattamenti degradanti”. In consiglio comunale, commenta Ticozzi, “il tema del carcere che non è mai stato affrontato meriterebbe una discussione. Ora c’è stato un episodio grave: un pestaggio con una persona che ha rischiato la vita che è una cosa intollerabile”. Il tema della mancanza di spazi, di attività per i detenuti e di personale specializzato era parte della lettera con la quale una rappresentanza dei reclusi ha chiesto di sensibilizzare l’opinione pubblica. “Abbiamo visto che mancano psicologi, educatori, progetti e tutto questo aumenta le tensioni”, dice Laura Massaro presidente di Movimento Forense a Rovigo. È addirittura spuntato un cappio durante la visita, ha raccontato Bernardini, mostrato da un carcerato che voleva chiamare la madre in Senegal e se non glielo avessero concesso (poi ha potuto telefonare) minacciava il suicidio. Alla visita hanno partecipato anche alcuni architetti, per denunciare “il fallimento delle strutture, concepite per privare della libertà, al limite della pena corporale”, ha detto Sergio D’Elia, segretario nazionale di Nessuno tocchi Caino. “A Venezia ci sono celle dove a malapena i tre metri quadrati previsti per ogni persona vengono rispettati”, precisa. Ne consegue che al Santa Maria Maggiore la malattia mentale è all’ordine del 60 per cento dei reclusi. “Serve tutta l’attenzione dell’opinione pubblica - conclude Samuele Vianello dei Radicali Venezia. Metteremo tutto il nostro impegno per trovare qualsiasi strada per migliorare la vita dei detenuti e di coloro che detengono”. Verona. Il Garante dei detenuti: “In carcere pochi possono lavorare” cronacadiverona.com, 2 marzo 2024 Funzionano due laboratori di Quid, una falegnameria, il forno e la produzione di marmellate. Aumento della popolazione carceraria, aumento del numero dei suicidi e anche del disagio psichico. Una progressione preoccupante che non riguarda solo Verona ma che si registra a livello nazionale. È quanto emerso dalla relazione annuale del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale Don Carlo Vinco, nel corso dell’illustrazione in aula della sua relazione annuale in merito alla situazione carceraria alla Casa Circondariale di Montorio. In positivo a Verona è emersa la riapertura della dell’infermeria del carcere di Verona, con alcune stanze per l’accoglienza di detenuti per un periodo di osservazione psichiatrica là dove se ne evidenzia la necessità; e il cambio dell’orario di apertura o chiusura delle celle per far uscire dalle stanze di reclusione per più ore chi è impegnato in attività lavorative e scolastiche. “Il 2023 si è chiuso con la presenza a Motorio di 537 persone - nel 2022 erano 530, nel 2021 invece 482 - ha precisato Don Carlo Vinco -. L’incremento costante di persone va naturalmente a gravare sul numero sempre più in esubero rispetto ai 338 posti disponibili della struttura. La tendenza al sovraffollamento è un fenomeno nazionale con una progressione preoccupante rispetto agli anni precedenti: se alla fine del 2022 la popolazione detenuta in Italia era aumentata di circa 2000 unità rispetto a dicembre del 2021, l’aumento registrato al 30 dicembre 2023 è esattamente del doppio, con circa 4000 persone detenute in più. L’indice attuale dell’affollamento delle carceri italiane è del 127%”. Novità 2023. La prima - cambio di direzione: dopo 10 anni la direttrice dottoressa Bregoli è stata trasferita al carcere femminile di Venezia e al suo posto è subentrata la dottoressa Francesca Gioieni proveniente da varie esperienze di direzione (Brescia, Trento, Bolzano). La dott.ssa Gioieni sta avviando un cambiamento importante soprattutto in ambito formativo, sia per supplire alla mancanza di attività lavorative e sia per preparare molti detenuti a possibilità lavorative qualificate dentro il carcere e per dopo la detenzione. A metà anno il Cappellano Frà Alberto è stato sostituito da Frà Paolo. Ruolo, quello del Cappellano, storicamente molto significativo in un carcere come Montorio per la conoscenza dei detenuti e per le relazioni che riesce a creare. Una seconda novità è stata la riapertura della sezione VI. Quella deputata alla prima accoglienza dei detenuti per le visite sanitarie e le prime osservazioni, è l’infermeria del carcere e ha alcune stanze per l’accoglienza di persone per un periodo di osservazione psichiatrica (provenienti anche da altre carceri per un periodo normalmente di un mese) è adiacente agli ambulatori medici. Versava in uno stato di grave degrado e ora è completamente rinnovata. La terza novità è stata la nuova regolamentazione delle sezioni per quanto riguarda l’orario di apertura o chiusura delle celle secondo il principio di far uscire dalle stanze di reclusione per più ore chi è impegnato in attività lavorative e scolastiche, mantenendo però un regime di maggior chiusura delle celle evitando il trascorrere per varie ore nel solo spazio del corridoio, come avveniva fino a pochi mesi fa. Bologna. Alla Dozza troppi detenuti: rischiamo di avere 3 persone in ogni cella “singola” di Andreina Baccaro Corriere di Bologna, 2 marzo 2024 Il Comune torna a lanciare un allarme sulle condizioni dei detenuti della Dozza. “Da mesi le presenze sono superiori a 800, a fronte di una capienza di 498”, segnala l’assessore al Welfare Luca Rizzo Nervo in question time che prefigura anche uno scenario con tre detenuti per cella. “Risulta evidente - sono le parole di Rizzo Nervo lette in aula dal collega di giunta Massimo Bugani - che il problema del sovraffollamento stia tornando a presentarsi in maniera assai severa. Se il trend in crescita dovesse confermarsi non possono escludersi in prospettiva anche estreme conseguenze, nel senso dell’allocazione per singola cella di tre persone, condizione che sarebbe ancora più pregiudizievole dei diritti delle persone detenute”. Queste “crescenti preoccupazioni” sono al centro di un confronto con la direzione del carcere. Di qui la richiesta al governo e al ministero “perché affronti in termini urgenti il tema del sovraffollamento carcerario e dei deficit strutturali e di risorse umane che lo aggravano. Solo così - avverte Rizzo Nervo - si potranno mettere in campo soluzioni protettive di chi lavora in carcere, dei detenuti, ed evitare e prevenire episodi” come l’incendio provocato da un detenuto alla base della domanda del consigliere comunale Gian Marco De Biase. Milano. Caso Pifferi, il pm chiede altri 6 mesi di indagine sulle psicologhe del carcere di Giorgia Venturini fanpage.it, 2 marzo 2024 “C’è una rete criminale”. Le due psicologhe e l’avvocata di Alessia Pifferi, Alessia Pontenani, sono indagate per falso ideologico e le due dottoresse anche per favoreggiamento. Il pubblico ministero chiede ora il prolungamento di altri sei mesi nelle indagini nei loro confronti per “delineare la rete criminale nel cui ambito si collocano i fatti”. Il pubblico ministero Francesco De Tommasi ha chiesto un rinvio delle indagini sulle due psicologhe che hanno seguito in carcere Alessia Pifferi, accusata di aver abbandonato la sua bambina di 18 mesi morta poi di stenti in casa. E per questo rinvio il magistrato parla di “rete criminale”: il sostituto procuratore infatti sostiene che durante il corso delle indagini su Alessia Pifferi ci sia stato un accordo per spingere il procedimento penale verso l’incapacità mentale dell’imputata. Per questo le due psicologhe sono indagate per falso ideologico e per favoreggiamento e l’avvocata Alessia Pontenani per il solo falso ideologico. Ora, dagli atti del rinvio, emerge che una delle due psicologhe è accusata di favoreggiamento aggravato in quanto sarebbe stato commesso il fatto “in epoca antecedente e prossima al 28 luglio 2022”, ossia circa una settimana dopo l’arresto di Pifferi, “con condotte in atto”. Perché per il pubblico ministero si parla di “rete criminale” - Per De Tommasi l’indagine è un “procedimento complesso di criminalità organizzata” e quindi servono “ulteriori accertamenti” per “individuare altre persone coinvolte” e “delineare la rete criminale nel cui ambito si collocano i fatti”. Per il pubblico ministero quindi servono altri sei mesi e ha chiesto anche che la proroga non dovesse essere notificata agli indagati. Alla fine, però, gli avvisi sono stati fatti: il giudice per le indagini preliminari ha rilevato che “non sussistono ipotesi di reato” in questo caso che prevedono una deroga alle notifiche, come prevista nei procedimenti di criminalità organizzata. La richiesta di proroga riguarderebbe però la sola imputazione di favoreggiamento personale, a cui si aggiungono ora due aggravanti: ovvero quella dell’aver voluto assicurare l’impunità e l’abuso di poteri. Tutto questo, secondo il pubblico ministero, sarebbe stato fatto per cercare di ottenere la perizia psichiatrica durante il processo. Alla fine la perizia è stata eseguita e depositata: Alessia Pifferi è stata ritenuta capace di intendere e di volere. Come rispondono a queste accuse le indagate - In difesa delle professioniste stanno insorgendo gli avvocati delle psicologhe e la stessa Pontenani, oltre che l’Ordine degli avvocati milanesi e la Camera Penale. Lunedì 4 marzo l’ordine degli avvocati ha indetto uno sciopero in solidarietà della collega. La procuratrice generale Francesca Nanni ha richiesto al procuratore Marcello Viola una relazione sul caso, che ha visto l’altro pm, Rosaria Stagnaro, lasciare il processo, spiegando di non essere stata informata e di non condividere la linea di De Tommasi. L’avvocata Alessia Pontenani a Fanpage.it ha precisato l’assurdità, per lei, di questo rinvio delle indagini per criminalità organizzata: “Per questo lunedì 4 marzo chiederò il rinvio dell’udienza su Alessia Pifferi. Ci sarà da ridere, lunedì discuteremo animatamente del comportamento del pubblico ministero. Perché io essere messa alla gogna per aver svolto un lavoro difensivo nei confronti di Alessia Pifferi proprio non ci sto. Non mi faccio prendere in giro”. Favignana (Tp). Detenuto da dieci anni, Mirko a Roma in permesso premio dal Papa di Domenico Agasso La Stampa, 2 marzo 2024 Lo ha accompagnato don Francesco Pirrera, cappellano di due carceri siciliane. Il giovane recluso: “Un’esperienza da brivido. Dio c’è, nella vita si può cambiare”. È in prigione da un decennio. Deve scontare altri quattro anni di reclusione. Ma oggi Mirko vive una giornata di gioia. Ed emozioni positive forti. Detenuto nel carcere siciliano a Favignana, incontra il Papa in Vaticano grazie a un permesso premio. Lo accompagna don Francesco Pirrera, cappellano di due istituti di pena siciliani: in Vaticano sono con i partecipanti alla seconda edizione della “Cattedra dell’accoglienza”. Il giovane recluso può così abbracciare il Pontefice, a cui chiede l’assoluzione dai peccati: “Un’esperienza da brivido, proprio pazzesca - racconterà ai Media vaticani - Posso dire che Dio c’è e che nella vita si può cambiare”. Riporta il sito della Santa Sede: “Mirko è un detenuto a Favignana, ha già scontato dieci anni e prima di uscire ne passeranno altri quattro. Per lui don Francesco è un padre, e infatti lo chiama così: padre. “La prima volta che sono uscito dal carcere dal 2013 è stato lo scorso 29 agosto e posso dire solo grazie a padre Francesco”, afferma a Vatican News, “spero che quest’estate potrò andare in affidamento da lui. Per me questa qua è una nuova famiglia, una ripartenza, una nuova vita”. E un nuovo progetto di vita, infatti, Mirko ce l’ha: “Sono arrivato solo al terzo anno del liceo artistico, ora il mio obiettivo è prendere finalmente il diploma con un istituto serale e di giorno iniziare a lavorare”. E l’energia di un “progetto di vita concreto gli ha dato la forza di chiedere oggi al Pontefice di essere assolto dai suoi peccati: “Una cosa da brividi, proprio pazzesca”. Si emoziona, Mirko, e sente particolarmente vicino il messaggio che ha lanciato Papa Francesco all’udienza a cui ha partecipato grazie a un permesso premio, della reazione chimica tra la vulnerabilità e l’accoglienza: “Un messaggio veramente importante, soprattutto per me e per tutti i detenuti. Parlando di vulnerabilità parliamo di debolezza e in carcere ce n’è tanta: ci sono i suicidi, c’è chi fa uso di psicofarmaci... Siamo considerati lo scarto della società insomma”. Uno scarto che i due Francesco, il Papa e il “padre”, hanno accolto con amore: “Posso dire che Dio c’è e che nella vita si può cambiare”, conclude Mirko. E sorride”. Dare notizie vere è un lavoro sempre più difficile di Emiliano Fittipaldi* Il Domani, 2 marzo 2024 Il pool dei giornalisti investigativi di Domani è finito, quasi al gran completo, sotto inchiesta. Giovanni Tizian, Nello Trocchia e Stefano Vergine sono tutti indagati dai magistrati della procura di Perugia, che di fatto imputa loro - a leggere le carte dell’accusa - una sola cosa: aver fatto bene il proprio lavoro. Che è quello di trovare buone fonti, ottenere notizie segrete sui potenti di pubblico interesse, verificarle e infine pubblicarle. A beneficio unico dei lettori e della pubblica opinione. Senza mai tenere informazioni rilevanti nel cassetto, come troppe volte capita nella nostra professione. A Domani non accade mai: la regola aurea in redazione è pubblicare sempre, e pubblicare tutto. Secondo i pm guidati da Raffaele Cantone, però, realizzare inchieste giornalistiche con l’ausilio di carte vere ottenute da fonti giudiziarie è un reato, da condannare severamente: per le fughe di notizie i giornalisti di Domani rischiano ora fino a cinque anni di carcere. Gli inchiestisti indagati - Un fatto grave: mai era accaduto che fosse indagato l’intero pool d’inchiesta di uno dei pochi giornali d’opposizione del paese. Accusato non di aver diffamato politici, faccendieri o mafiosi, né di aver spacciato notizie fasulle, ma incriminato per aver scritto la verità sui tesorieri della Lega nord, sui prestiti e gli affari di Matteo Renzi, sui soldi alle fondazioni politiche, sulla distrazione di fondi pubblici, sui finanziamenti illeciti ai partiti, sui circuiti di riciclaggio dei capitali mafiosi. Decine e decine di inchieste giornalistiche che hanno caratterizzato la storia del nostro giovane quotidiano, finite ora nel mirino dei giudici e di alcuni giornali (che pure quelle notizie hanno rilanciato, e che infinite altre volte sono stati protagonisti di fughe di notizie riservate) che ventilano nientemeno l’ipotesi di “spionaggio e dossieraggio”. Parole infamanti per chi fa il proprio lavoro con la schiena dritta, senza abbeverarsi alle fontane (e veline) dei potenti di turno, ma provando sempre a informare in maniera indipendente, talvolta a rischio della propria pelle (Tizian ha vissuto per lustri sotto scorta a causa delle minacce della ‘ndrangheta). In questo attacco alla libertà di stampa - voluto o meno è indifferente: il risultato è questo - c’è un’aggravante. Le indagini sui giornalisti sono partite grazie a un esposto del ministro Guido Crosetto, fedelissimo della premier Giorgia Meloni, a cui non sono piaciuti alcuni articoli di Domani che segnalavano il suo palese conflitto di interessi al tempo della nomina alla Difesa: consulente per poco meno di un milione di euro l’anno di Leonardo prima, titolare del ministero preposto all’acquisto di armi dalla medesima società dopo. La mossa a sorpresa - Impossibilitato a depositare querela per diffamazione, visto che i dati sui suoi business erano veri (lo stesso ministro aveva spiegato qualche mese prima che non avrebbe potuto per questioni di opportunità sedersi sulla poltrona di palazzo Baracchini), Crosetto ha preferito fare una mossa a sorpresa, e ha chiesto ai magistrati di scovare la fonte dei giornalisti. I pm e la guardia di finanza si sono messi al lavoro e, una volta individuato il pubblico ufficiale sospetto, hanno deciso di iscrivere nel registro degli indagati non solo il presunto whistleblower (l’indiziato è il finanziere Pasquale Striano, accusato anche di altre fattispecie in cui Domani nulla c’entra), ma anche i nostri cronisti. Nulla è più noioso e sterile di un giornale che si parla addosso guardandosi il buco dell’ombelico. Ne avremmo fatto volentieri a meno. Un clima cupo - L’episodio però è simbolico di un clima sempre più cupo che avvolge il libero giornalismo italiano: dalle leggi bavaglio che impediscono ai media di riportare le ordinanze di arresto alle querele sistemiche di membri del governo contro la stampa non allineata; dall’acquisizione dei tabulati telefonici ordinati dalla procura di Roma sui cellulari di giornalisti di Report (per individuare le fonti dello scoop dell’incontro tra Matteo Renzi e la spia Marco Mancini) fino all’intercettazione dei reporter da parte dei pm che indagavano sulle ong. Dare notizie di rilievo su politici, aziende di Stato e criminali è diventato un lavoro a rischio. Ma promettiamo ai nostri lettori, unici nostri padroni, di continuare a farlo. Anche a costo di infrangere le regole continueremo a onorare l’articolo 21 della Costituzione, tentando di illuminare il buio dentro il quale pezzi del potere amano muoversi lontano da occhi indiscreti. *Direttore de Il Domani Manganellate a Pisa, i poliziotti si sono autoidentificati di Fabrizio Caccia Corriere della Sera, 2 marzo 2024 Attesi nuovi cortei pro Gaza a Firenze, Torino e Roma: si temono tensioni. Ieri a Bologna vernice sulla prefettura, bruciate le foto dei politici. Bullizzati i figli di una dozzina di agenti in Toscana. Intanto proseguono le indagini sulle cariche dei poliziotti a Pisa il 23 febbraio: le autoidentificazioni per favorire l’accertamento della verità. Nei primi due mesi del 2024 - sono dati del Viminale - in Italia si sono già tenute 2.822 manifestazioni “di spiccato interesse per l’ordine pubblico”. Quasi mille in più rispetto allo stesso periodo (i mesi di gennaio e febbraio) dell’anno scorso, quando furono 1.994. Ebbene - fa notare il ministero dell’Interno - malgrado l’aumento notevole di eventi di piazza, “le criticità” quest’anno si sono manifestate solo nell’1,6 per cento dei casi. L’anno scorso, invece, la percentuale delle “criticità” in due mesi di cortei raggiunse il 3,5 per cento. Insomma, si verificarono più incidenti tra poliziotti e manifestanti. E questa statistica conforta un po’, oggi, all’alba di un altro weekend complicato, con nuove marce pro Gaza non solo a Pisa e Firenze, dove il 23 febbraio scorso ci furono le cariche e le manganellate della polizia contro gli studenti, ma anche a Torino e Roma, dove il sito Rivoluzione anarchica annuncia per oggi alle 15 un corteo in partenza da piazza Vittorio al grido di “Stop al genocidio” e l’organizzazione giovanile comunista Cambiare rotta proclama l’inizio di una “campagna nazionale contro la repressione” delle forze dell’ordine. Ieri sera a Bologna circa 400 studenti hanno gettato vernice rossa contro i muri della Prefettura e un uovo pieno di colore ha colpito anche il capo della Digos, Antonio Marotta. Bruciate in piazza le foto di Giorgia Meloni, Matteo Salvini, Enrico Letta e Bibi Netanyahu. Domani pomeriggio, poi, a Milano è in programma in piazza Fontana una manifestazione degli universitari “per il diritto al dissenso”. La tensione, insomma, è alta. Il sindacato di polizia Coisp ha denunciato una dozzina di casi in Toscana di figli di poliziotti bullizzati a scuola e sui social. A Genova, dove lunedì arriveranno i ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e delle Infrastrutture Matteo Salvini, girano volantini dei collettivi studenteschi (“Cacciamo la banda dei manganelli”). Salvini su Instagram ha risposto: “L’odio dei centri sociali. Non ci fate paura”.Intanto, però, si cerca di svelenire il clima. Il Dipartimento della pubblica sicurezza ieri ha fatto sapere che i poliziotti che a Pisa il 23 febbraio scorso erano in piazza in divisa e con il casco si sono già auto-identificati, proprio per favorire l’accertamento della verità da parte della magistratura su quella mattinata difficile, che ha indignato per primo il capo dello Stato, Sergio Mattarella (“Un fallimento i manganelli contro gli studenti”). Ma le polemiche continuano: “Le parole di Mattarella sono volte a unire il Paese, non a dividere, come sta cercando di fare la presidente Meloni”, dice Maria Elena Boschi di Iv. E ancora: “Stupisce il silenzio di Meloni che non ha espresso una sola parola di solidarietà verso gli studenti manganellati”, accusa la segretaria dem Elly Schlein. Le manganellate sono un “messaggio d’intimidazione”, secondo il leader della Cgil, Maurizio Landini. Ma il sottosegretario all’Interno, il leghista Nicola Molteni, non ci sta: “La criminalizzazione della polizia è indecorosa”. Il capogruppo di FdI alla Camera, Tommaso Foti, attacca: “Dopo quanto accaduto a Bologna la Schlein da che parte starà, con i facinorosi o con chi serve lo Stato?”. E una delegazione di FdI ieri sera ha raggiunto la Questura di Milano per “portare solidarietà alle forze dell’ordine”. “Quelli degli anarchici sono raid squadristi, ma sullo sfondo c’è lo sfascio della giustizia” di Sarah Martinenghi La Repubblica, 2 marzo 2024 Gian Carlo Caselli, ex magistrato antiterrorismo e antimafia, come valuta quello che è successo a Torino? Ad aggredire la volante della polizia è stato un gruppo di esponenti dell’area anarchica, mentre il corteo e la protesta hanno visto la partecipazione di autonomi di Askatasuna. Che lettura si può dare: c’è stata compartecipazione o una divisione dei ruoli? “È un fatto grave e la ricostruzione parte ovviamente dalle immagini e dalle cronache, ma disegnare una linea di demarcazione fra compartecipazione e divisione dei ruoli, con la conseguente attribuzione di responsabilità personali, è compito dell’autorità giudiziaria: a inchiesta appena iniziata mi sembra doveroso attendere gli sviluppi”. C’è un filo conduttore, secondo lei, nella violenza accaduta a Torino e quella di Pisa e Firenze? “I fatti di Pisa-Firenze e quelli di Torino appartengono a due mondi diversi. In un caso giovani che manifestavano per delle idee e la polizia che sembra aver disatteso il principio di proporzione fra offesa (temuta) e difesa, con il pericolo che sulla polizia tutta si riversi - ingiustamente - un danno di immagine e di credibilità. A Torino, poliziotti che stavano adempiendo un atto di servizio sottoposti ad un’aggressione di tipo squadristico per impedire quell’atto dovuto” La trattativa tra Askatasuna e il Comune per il rilascio del centro sociale ha creato polemiche e divisioni nette tra favorevoli e contrari: alla luce di quello che si è verificato ieri ha ragione chi dice che c’era da aspettarselo? “Se risulterà davvero un qualche contributo di militanti di Askatasuna le polemiche e le divisioni sono inesorabilmente destinate ad aumentare. Nel qual caso sarebbe utile anche una presa di posizione dei cosiddetti garanti”. La tensione con la polizia si è alzata di livello? C’è chi ha parlato addirittura di un rischio di eversione: lei lo intravede? “Se per rischio di eversione intendiamo un rigurgito degli anni di piombo direi di no. Ma senza mai dimenticare l’insegnamento, che ho già più volte citato, del cardinal Martini in un discorso pronunciato a Milano alla vigilia della festa di Sant’Ambrogio, il 6 dicembre 2001: “Chi di noi ha l’età per ricordare i primi tempi della contestazione sa che la noncuranza e la leggerezza ostentata anche da chi avrebbe avuto la responsabilità di giudicare e di punire, rispetto ad atti minori di vandalismo e disprezzo del bene pubblico, ha aperto la via a gesti ben più gravi e mortiferi. Chi getta oggi il sasso e si sente impunito, domani potrà impugnare la pistola”“. L’uomo di origine marocchina a bordo della volante della polizia, del quale volevano bloccare il rimpatrio, aveva 13 condanne alle spalle di cui una per violenza sessuale ed era stato fermato mentre faceva scritte contro la polizia, e anche “Palestina free”. In queste proteste può esserci una saldatura tra gli anarchici e i movimenti pro-Gaza? “Il tentativo di saldatura con qualche “movimento” rientra nella logica di chi le pensa tutte per provare a nascondere o far dimenticare le sue “colpe”. Qui però c’è anche un problema di malfunzionamento della giustizia che Nordio e compagnia, invece di risolvere, aggravano in ogni modo a colpi di bavagli, meccanismi barocchi per le intercettazioni, procedure ancor più lunghe di quelle eterne già vigenti e via con altre pensate del genere. Per la serie: chi la dura, a sfasciare la giustizia, la vince”. Scuola. Caro Valditara, aiutiamo così gli stranieri di Chiara Saraceno La Stampa, 2 marzo 2024 Il problema è reale e va affrontato: i bambini e ragazzi di origine straniera fanno in media più fatica dei nativi a scuola ed hanno tassi di abbandono più alto, soprattutto quando non sono nati in Italia, non hanno frequentato nido e scuola dell’infanzia in Italia e sono arrivati in Italia già grandicelli. C’è sicuramente un problema linguistico, ma anche più in generale di adattamento a un contesto di vita, di norme e relazioni, nuovo ed insieme di perdita di ciò che invece era noto e familiare. Il “lavoro” di questo adattamento e il bisogno di comprensione e accompagnamento sono troppo spesso sottovalutati, nella fatica mentale ed emotiva che comportano, ma anche nella loro potenzialità educativa per i bambini e ragazzi coinvolti direttamente, ma anche per i loro compagni e gli stessi insegnanti. Non va, inoltre, ignorato, che i bambini e ragazzi di origine straniera spesso condividono le condizioni di svantaggio educativo dei loro coetanei nativi più poveri. La povertà educativa, con le sue conseguenze in termini di apprendimenti e di abbandono scolastico, infatti, è particolarmente concentrata tra chi nasce e cresce in povertà, una condizione che riguarda in Italia oltre il 14 per cento di tutti i minorenni residenti, ma tocca il 30% nel caso degli stranieri. Accanto ai problemi linguistici e di adattamento, quindi, c’è un problema più generale di scarsità di risorse per sviluppare appieno le proprie capacità, una scarsità che dovrebbe venire compensata da una scuola accogliente, ricca di stimoli, attenta alle circostanze e capacità individuali e capace di valorizzarle, anche tramite una didattica e attività educative diversificate nei modi e negli strumenti. Lungi dal rallentare, come denuncia il ministro Valditara, gli apprendimenti degli studenti con meno difficoltà, una scuola e una didattica accoglienti non per “buonismo”, ma perché tesi a costruire contesti fisici, relazionali, e di apprendimento aperti e diversificati (anche con l’uso delle nuove tecnologie) che sollecitino le capacità di ciascuno, avrebbero un impatto positivo sugli apprendimenti di tutti. Ciò non significa che non si debbano anche approntare laboratori linguistici per coloro per i quali l’Italiano non è la lingua madre (ma anche per i nativi che hanno problemi con questa lingua), così come corsi di potenziamento per la matematica e altre materie fondamentali per chi ha qualche difficoltà, straniero o non straniero che sia. Per altro, già la legge 40 del 1998 prevede che il Collegio dei docenti, valutato il livello di competenza linguistica dell’alunno straniero all’atto della prima iscrizione, possa organizzare specifici interventi individualizzati o per gruppi di alunni, per facilitare l’apprendimento della lingua italiana, da realizzarsi in orario scolastico o extrascolastico, anche nell’ambito delle attività aggiuntive di insegnamento per l’arricchimento dell’offerta formativa. Un orientamento ribadito nelle linee guida del 2009 del Ministero per l’integrazione degli studenti stranieri. Che queste indicazioni non siano sempre applicate, e che non siano state fornite alle scuole adeguate risorse per applicarle, non giustifica un ritorno alle classi differenziali del buon tempo antico, questa volta sulla base della provenienza migratoria, sia pure intese in modo transitorio. Non solo per evitare effetti di stigma e di esclusione sociale, ma perché tutte le ricerche mostrano che l’apprendimento linguistico di tipo comunicativo avviene meglio e più in fretta tra pari, nella relazione quotidiana con i propri compagni. È positivo che il Ministro si renda conto che l’integrazione scolastica degli studenti stranieri richiede di investirvi risorse di tempo, persone, perciò anche finanziarie. Ma, oltre a far attuare ciò che sulla carta è già previsto da tempo, sarebbe opportuno che facesse tesoro delle molte esperienze di scuola inclusiva e “capacitante” che ci sono in giro per l’Italia, anche in contesti difficili e non limitati alla sola presenza di studenti stranieri, spesso in collaborazione - non delega - con il terzo settore, nel quadro di patti educativi integrati. Erri De Luca: “Sui migranti destra e sinistra si inseguono” di Graziella Balestrieri L’Unità, 2 marzo 2024 Sono passati sette anni, sette lunghissimi anni, prima che la procura di Trapani chiedesse il “non luogo a procedere” nell’udienza preliminare contro quattro volontari dell’equipaggio della Iuventa. Imbarcazione che per sette anni, essendo sotto sequestro, non ha potuto operare in mare e salvare altre vite. Morti su morti, anni su anni, sinistra come la destra. Anni su anni, come il primo anno già trascorso dalla tragedia immane di Cutro. I deboli spinti verso il fondo, respinti, picchiati anche, e per altre strade, per altri versi cercando la pace dove pace non c’è. Ogni diritto, da quello a vivere fino a quello a manifestare, scompaiono tra le mani dei potenti, dei forti e dei manganelli. “Vigliaccherie di forti contro i deboli”, così Erri De Luca, scrittore, poeta e mente illuminata del nostro paese e non solo, si rivolge ai fatti di Pisa, ergo ai manganelli strumenti di violenza da parte della polizia contro giovani minorenni, che a volto scoperto e senza armi andavano nella direzione giusta, quella della pace e non come tv e robe varie vogliono far credere. Ci sono voluti sette anni perché una procura decidesse che salvare vite umane in mare non è reato: è normale tutto questo, quando si sta parlando di neonati, donne…? La lentezza della nostra macchina giudiziaria avvantaggia i colpevoli abbienti che con buoni avvocati ottengono dilazioni e infine prescrizioni di reato. La lentezza nell’amministrazione della giustizia è una volontà politica. Poi questa sentenza dimostra che la magistratura comunque mantiene un’indipendenza dai governi di turno e non si lascia condizionare in materia di flussi migratori. Quando si avviano questa sorta di inchieste, per altro lunghissime, c’è sempre la volontà di voler dimostrare il legame tra trafficanti e ONG: perché secondo lei? Per facile discarico di responsabilità di chi dovrebbe gestire il regolare fenomeno delle migrazioni nel Mediterraneo. Ecco lì a dare colpa agli avidi scafisti, non a chi è incapace di gestire. Ma gli scafisti ormai neanche s’imbarcano sui battelli, affidando il timone a uno dei passeggeri. Quanto alle navi di soccorso, l’intralcio alle loro operazioni non si è interrotto sotto nessun governo. Quest’ultimo ha scoperto la geografia d’Italia e impone alle navi di portare i salvati nei porti più lontani possibile. La ONG Iuventa avrebbe potuto salvare in questi sette anni, altre persone: chi si fa carico, chi si prende le responsabilità di questi morti ora? Nessun responsabile della catena di comando si fa carico di responsabilità. Del resto, abbiamo un parlamento che rinnova ogni anno fondi alla pirateria libica, spacciata per guardia costiera, perché acciuffi e riporti indietro le imbarcazioni con il loro carico di vite da respingere. Ora la sinistra sbraita contro la destra sul tema dei migranti… però l’inchiesta allora venne avviata mentre era in carica il governo Gentiloni, ed era stato appena varato il codice anti-Ong preparato dal ministro dell’Interno Minniti… stiamo parlando di sinistra: che cosa c’è che non va nei migranti, mi spiego: le persone che cercano di salvarsi e scappano sono davvero solo numeri per alzare o abbassare l’asticella nelle elezioni? Ho smesso da tempo di usare la parola sinistra per le formazioni politiche in Italia. In Italia ci sono molte persone di sinistra e nessun organismo che le rappresenti. Da qui l’allargamento dell’astensione dal voto, che non è indifferenza ma attesa di una figura nuova. Ministri hanno pagato bande di contrabbandieri libici per delegare a loro respingimenti che sono fuorilegge e particolarmente infami nel caso di minori. Di sinistra hanno solo tasche di giacche e pantaloni. Siamo davvero arrivati al punto che non ci si riconosce più tra persone? Non esiste più la solidarietà? Esistono eccome la solidarietà e la fraternità nel nostro paese che ha il maggior numero di persone che si dedicano al volontariato. Esiste un’economia del gratis che tiene insieme le fibre sociali di questa nostra comunità. Non esiste invece in nessuna sede ufficiale. Le tv, i giornali: in questo momento i migranti sono poca roba, (nonostante questa notizia clamorosa della Iuventa) non occupano certo le prime pagine. La comunicazione quanto pesa in Italia riguardo a questa tematica? L’informazione è ondivaga per natura, passa da una guerra all’altra, da un naufragio all’altro se particolarmente massiccio come quello di Cutro. Fa eccezione nella stampa solo il quotidiano Avvenire che ha più spesso degli altri una pagina sulle migrazioni e informazioni di prima mano. Poi c’è l’informazione indipendente in rete che mantiene l’attenzione attraverso le cronache dei salvataggi. È passato un anno dalla strage di Cutro. Lo Stato non si è proprio visto, dopo un anno, nessun rappresentante delle istituzioni che fosse venuto in Calabria a posare un fiore… Lo Stato e la sua attuale e scomposta maggioranza governativa sono complici di omissioni di soccorso con le loro miserabili leggi d’intralcio ai salvataggi. Dunque, hanno fatto bene a tenersi alla larga da un luogo del loro delitto. Migrante uguale a clandestino uguale a delinquente uguale a trafficante uguale a stupratore uguale a gente che ruba il lavoro agli italiani: perché, secondo lei, siamo arrivati a questo punto? Questa è propaganda da quattro soldi. La forza lavoro manca in Italia in ogni settore e puoi attingerla solo dai flussi migratori. Ma la quota ammessa è insufficiente. Quello che fa da attrazione per gli sbarchi in Italia è la possibilità di trovare un lavoro senza contratto e la geografia che permette di raggiungere altri paesi europei attraverso le nostre articolate frontiere. Quando il ministro Salvini e la destra parlano di “difesa dei confini”, secondo lei di quali confini stanno parlando? Ha un senso dire “difesa dei confini”... La difesa dei confini ha un senso molto preciso in Ucraina. Ma questa propaganda di destra usa la parola invasione, termine specificamente militare, per nominare l’arrivo alla spicciolata di persone disarmate, donne e bambini compresi. Questa destra spaccia vocabolario falso per suscitare sentimenti di paura. È da spaventapasseri lo spauracchio dei confini da difendere. La Chiesa potrebbe avere un ruolo più importante o non può fare di più? La Chiesa, attraverso la Comunità di sant’Egidio per esempio, organizza ingressi legali. La diffusa macchina delle chiese pratica accoglienza di pronto soccorso alimentare, applica con qualche reticenza le direttive del suo pontefice che inaugurò il suo servizio con un pellegrinaggio a Lampedusa. La chiesa fa opera di supplenza dimostrando che la buona volontà corregge i torti. “Sono nato e ho lavorato in ogni paese e ho difeso con fatica la mia dignità. Sono nato e sono morto in ogni paese e ho camminato in ogni strada del mondo che vedi. mio fratello che guardi il mondo ma il mondo non somiglia a te, mio fratello che guardi il cielo e il cielo non ti guarda”(è un testo di Ivano Fossati): secondo lei dov’è la dignità per una persona che rischia la propria vita e quella dei suoi cari? La dignità si manifesta in molti modi. In condizioni di emergenza, per fornire un sostegno alla propria famiglia, gli emigranti affrontano ogni specie di pericolo e di umiliazione. In questa missione individuale riconosco la grandezza della parola dignità. Quando vediamo in tv immagini di bambini morti, sembra che tutti siano assaliti da un senso si vergogna e orrore, però poi…? La televisione significa visione da lontano. Anche quando usa lo zoom per avvicinarsi resta il doppio vetro divisorio dell’obiettivo che riprende e dello schermo che trasmette. Quello che si vede in televisione è un dettaglio governato dai limiti dell’inquadratura. Perciò l’emozione arriva filtrata e dura il tempo del servizio messo in onda. Per conoscere bisogna stare sul posto oppure sentire le voci di chi è presente. La trasmissione di Marco Damilano per l’anniversario del naufragio di Cutro è stata uno di quei rari casi di prossimità. Vuole aggiungere qualcosa a tutto questo? Chiudo col verso di un poeta brasiliano Ledo Ivo: “Occupano i nostri posti pure quando/ loro viaggiano in piedi e noi siamo seduti”. Migranti. “La sentenza Iuventa deve restituire l’onore ai soccorsi delle Ong” di Giansandro Merli Il Manifesto, 2 marzo 2024 Il legale ha tenuto ieri la sua arringa conclusiva: “Accuse senza fondamento che hanno fatto il gioco delle destre. Ragazzi che si sono esposti in prima persona sono stati trattati come criminali”. L’avvocato Alessandro Gamberini di processi che hanno segnato la storia italiana ne ha seguiti tanti, da quelli per le stragi di Ustica e di Bologna fino alle vicende della Uno Bianca. Ieri ha tenuto la sua arringa conclusiva a difesa di Iuventa, dopo quelle dei colleghi Francesca Cancellaro e Nicola Canestrini. “Sin dall’inizio l’inchiesta contro le Ong era basata su manipolazioni. Avrebbero dovuto archiviarla quattro anni fa. C’è da chiedersi perché non sia avvenuto”, dice. Avvocato, l’accusa ha parlato dell’udienza preliminare “più lunga della storia repubblicana”, quasi due anni e oltre 30 appuntamenti. Perché? Andavano risolti dei problemi procedurali e delle difficoltà con le traduzioni, ma è stata così lunga soprattutto perché bisognava acquisire tutta la documentazione che non era stata raccolta durante le indagini. Questa ha dimostrato al di sopra di ogni ragionevole dubbio che i ragazzi facevano soccorso in mare sotto la direzione della guardia costiera italiana. Null’altro. A monte di tutta questa storia c’è un’informativa dei carabinieri costruita come novella accusatoria che arrivava persino a dire che il centro nazionale del soccorso marittimo della guardia costiera era stato ingannato e non aveva compreso quello che succedeva. Un documento che ha suggestionato perfino i magistrati anti-mafia, che poi hanno dato legittimazione al procedimento. Come il giudice che ha disposto il sequestro della Iuventa. La guardia costiera come si è posta? È singolare che non abbia sentito il dovere di dire: accusate i ragazzi di Iuventa ma noi li abbiamo sempre coordinati. Quando sono state prodotte conversazioni e chat questo è diventato evidente. Ho ringraziato la procura per essersi arresa all’evidenza, ma il caso andava chiuso quattro anni fa, quando abbiamo presentato una ricca memoria per ottenere l’archiviazione. C’è da dire che il merito di aver smontato tutta la costruzione è stato del giudice per l’udienza preliminare che ha studiato e approfondito i fatti, fino a capire cos’era davvero successo. Ma allora come è potuta durare così tanto? Perché tutta la vicenda è stata costruita in modo suggestivo ribaltando la realtà. Per esempio sono stati messi in contrapposizione i trasbordi con i soccorsi, quando i primi sono pratiche normalissime nelle operazioni di salvataggio. Soprattutto quando hai centinaia di persone a bordo. Da lì ha avuto origine l’orrenda espressione di “taxi del mare” usata da Luigi Di Maio. Tutto parte dall’informativa di polizia deformata: chi l’ha scritta da un lato non conosceva le regole del soccorso in mare, ma dall’altro voleva esporre al linciaggio le Ong. Questa criminalizzazione ha fatto il gioco di partiti come Lega e Fratelli d’Italia, sebbene tutto nasca prima: dal delirio di potenza dell’ex ministro dell’Interno Pd Marco Minniti che pensava di fermare un fenomeno epocale come le migrazioni facendo accordi con i libici e trasformando i soccorritori in poliziotti attraverso un codice di condotta inutile e inapplicabile. Ma in questo processo c’erano dei testimoni oculari... Personaggi screditati sin dall’inizio. Due su tre cacciati dalle forze di polizia. Le loro non erano testimonianze ma suggestioni. Intercettati definivano i migranti come “animali”. Come è stato possibile credere loro? Oltre che con Salvini, che all’inizio gli ha dato retta, e Meloni si sono messi in contatto anche con i servizi segreti. Dicono attraverso un indirizzo trovato in rete, sebbene sia lecito dubitarne. Comunque il foglietto che hanno consegnato, che oggi sarebbe preso e buttato nella spazzatura, è stato la base su cui il procuratore capo di Catania diceva: ho le prove dei rapporti Ong-trafficanti ma non posso mostrarle. La decisione del giudice, comunque, arriverà solo il 19 aprile... Mi sento di dire che il magistrato proscioglierà. Ma noi ci attendiamo una sentenza che rimetta sui giusti binari tutta la vicenda, che restituisca a Iuventa e alle altre Ong l’onore delle attività che hanno svolto. Uno dei capitani finito nel procedimento prendeva le ferie per guidare quella nave: abbiamo ragazzi che si sono esposti in prima persona trattati come criminali. Migranti. In carcere perché considerato uno “scafista”, ma la lista dei testimoni non c’è di Federica Rossi Il Manifesto, 2 marzo 2024 Alaji Diouf vuole la revisione del processo. Ha chiesto la lista delle persone sbarcate con lui ma la prefettura ha comunicato: “Non sono stati rinvenuti gli atti”. Il Tribunale di Trapani dice di aver perso i documenti che avrebbero aiutato Alaji Diouf a smontare l’accusa di essere uno scafista, accusa che lo ha costretto in carcere per 7 anni. Il giovane senegalese è arrivato in Italia nel 2015 con un barcone con oltre 100 persone a bordo. Una volta approdati, un uomo, che non aveva viaggiato nello stesso gommone di Alaji né lo conosceva, gli punta il dito su richiesta delle forze dell’ordine. Un gesto che basta alla magistratura per riconoscerlo come la persona che ha guidato l’imbarcazione, lo scafista. E questo equivale all’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (art. 12 del Testo Unico sull’Immigrazione), aggravata nel suo caso per la morte a bordo di 8 persone e per aver agito “per profitto”. Al momento dell’interrogatorio Alaji parla la lingua mandinga, ma su indicazione del giudice, l’interprete traduce solo in inglese, francese e arabo. “Se avessi parlato l’italiano che parlo adesso, non sarei finito in carcere” dice il giovane che ora, dopo aver scontato 7 anni con un’accusa non verificata e basata sulla testimonianza di una singola persona, vuole giustizia. È tra le voci della campagna Capitani Coraggiosi, un’iniziativa dell’organizzazione Baobab che punta i riflettori sulle accuse di favoreggiamento all’immigrazione clandestina e le conseguenti condanne per aprire un dibattito sulla figura dello scafista. Insieme all’organizzazione, Alaji vuole tentare una revisione della condanna. Dalla scorsa estate Baobab sta provando a ricostruire i fatti chiedendo alla Questura e al Prefetto di Taranto un elenco delle persone sbarcate e dei rispettivi centri di accoglienza. La Prefettura di Taranto ha replicato che la richiesta è “poco efficace” in luce degli otto anni trascorsi dall’evento, una risposta che inizia a insospettire l’avvocato Francesco Romeo e Alice Basiglini, responsabile della campagna, due figure che seguono Alaji in questo percorso. Il prefetto ha poi interpellato il Garante per la Privacy e l’avvocatura Distrettuale di Lecce in merito alle corrette modalità di condivisione della lista richiesta dall’Ong, per verificare un possibile mancato rispetto del diritto alla riservatezza dei testimoni se la lista fosse condivisa. “Ma il diritto alla privacy non può mai prevalere sul diritto di tutte e tutti alla difesa, ovvero sul diritto di Alaji di chiedere l’annullamento della sua condanna” la replica degli attivisti di Baobab. Poi è accaduto l’inaspettato: la prefettura ha risposto che “a seguito di ripetute ricerche anche negli archivi di deposito di questa Prefettura, non sono stati rinvenuti gli atti relativi allo sbarco di migranti avvenuto a Taranto in data 20/10/2015”. Una versione diversa rispetto alla prima volta in cui sono stati richiesti, ma soprattutto non ci sono tracce di sparizione di quei documenti nella data dello sbarco. Alaji e Baobab sono decisi a continuare il giudizio di revisione per annullare la sua sentenza di condanna, il primo in Italia. Stati Uniti. Chico Forti torna in Italia dopo 24 anni di carcere di Alberto Simoni La Stampa, 2 marzo 2024 Sconterà qui la pena dell’ergastolo. Chico Forti, il 65enne ex velista e produttore televisivo, condannato per omicidio in Florida sarà trasferito in Italia. Lo ha annunciato la premier italiana Giorgia Meloni con un video diffuso poco prima di arrivare alla Casa Bianca dove ha avuto un bilaterale con Joe Biden. “Sono felice di annunciare che dopo 24 anni di detenzione negli stati uniti è stata firmata l’autorizzazione al trasferimento in Italia di Chico Forti, un risultato frutto dell’impegno diplomatico di questo governo della collaborazione con lo Stato della Florida e con il governo degli Stati uniti che ringrazio. È un giorno di gioia per Chico per la sua famiglia per tutti noi lo avevamo promesso lo abbiamo fatto e ora lo aspettiamo in Italia”, ha detto Meloni. I dettagli tecnici dell’intesa non sono ancora noti. Nato a Trento nel 1959, Enrico Forti, detto Chico, era stato un ex surfista professionista ma nel1987 la sua parabola sportiva era malamente naufragata dopo un incidente e si era così dedicato a produrre documentari tv. Nel 1990 si era trasferito negli Stati Uniti. Forti era stato condannato nel 2000 all’ergastolo senza possibilità di condizionale per l’omicidio nel 1998 a Miami di Dale Pike, figlio di Anthony Pike dal quale l’imprenditore trentino stava acquistando il Pikes Hotel, a Ibiza. L’ipotesi era che qualcuno avesse informato Dale che suo padre, affetto da demenza senile, stava per essere raggirato da Forti. Venne condannato nel 2000 all’ergastolo che sta scontando a Miami. Forti ha sempre proclamato la sua innocenza e si è definito vittima di un errore giudiziario. Ha sempre chiesto - non solo la revisione del processo - ma almeno la possibilità di scontare la pena, sulla base della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo di Strasburgo, in Italia. Diversi governi italiani si sono attivati presso gli Usa per sbloccare la situazione. Nel 2020 con Di Maio alla guida della Farnesina i negoziati si erano intensificati e lo stesso ministro degli Esteri aveva annunciato che presto Chico Forti sarebbe potuto tornare in Italia. Ma la promessa è rimasta in sospeso sino ad oggi, per questioni burocratiche. Ieri il suo successore Antonio Tajani ha parlato di “straordinario risultato del Governo e della diplomazia italiana. Orgoglioso dei nostri funzionari. In silenzio continuiamo a raggiungere risultati importanti”. Per chiederne il trasferimento in Italia si erano mossi molti personaggi pubblici e nel 2021 anche l’allora Guardasigilli Marta Cartabia, ma l’ostacolo principale era che in Italia in teoria non potrebbe scontare la pena comminatagli, in quanto abilitato a usufruire della libertà condizionale e di altri benefici. Giorgia Meloni aveva assunto una posizione netta a favore del rimpatrio. Da leader di Fratelli d’Italia aveva parlato più volte con la madre di Chico Forti, Maria, e lo zio, Gianni. Prima di diffondere il video Meloni ha chiamato Gianni dandogli la lieta notizia. “In ogni incontro fatto con lei - ha raccontato all’Ansa - negli ultimi cinque anni me l’aveva sempre promesse. Ha mantenuto la parola”. Nel corso di una recente conversazione con La Stampa, lo zio che per anni ha guidato il fronte di coloro che chiedevano “giustizia per Chico”, aveva ammesso di essere ormai “un po’ sconfortato per i rinvii”, ma aveva promesso “che non si sarebbe mai arreso, anche se sono vecchio e qualcun altro dovrà portare avanti la battaglia”. A complicare lo scenario negoziale - dopo le aspettative create da Di Maio - era stata la discesa in campo per le primarie repubblicane del governatore della Florida Ron DeSantis. Fonti vicine al dossier avevano raccontato a La Stampa del “timore di DeSantis di dare il via libera al trasferimento di quello che per la legge della Florida è un condannato per assassinio”. Sarebbe apparso debole, la considerazione che una fonte diplomatica condivideva, dinanzi a un elettorato non sensibile alla questione. Non è un caso che nell’annuncio di Meloni sul trasferimento in un carcere italiano si ringrazi la Florida, lo Stato pienamente titolato a decidere e discutere con le autorità della vicenda. Russia. Funerali di Navalny: sfida alla paura. Tra la folla tornano i cori “Russia senza Putin” di Marco Imarisio Corriere della Sera, 2 marzo 2024 Alle esequie in migliaia, di generazioni diverse. Il messaggio della moglie Yulia: grazie per l’amore assoluto. All’inizio è un brusio quasi impercettibile. Il feretro viene portato fuori dalla chiesa in fretta, forse proprio per non concedere alcun tempo all’emotività, a quei gesti collettivi che rimangono nella memoria. Le voci diventano invece sempre più forti, salgono di tono, fino a formare un coro, diventano un canto collettivo. Navalny, Navalny. Nient’altro. Ma è già molto. “Rossiya bez Putina!” gridavano i manifestanti di piazza Bolotnaya nell’inverno del 2011, invocando una Russia senza Putin. Da allora, nella capitale furono proibiti i canti sul suolo pubblico, quindi ovunque, in qualunque strada. L’unica volta che il divieto venne infranto fu nel gennaio del 2021, subito dopo l’ultimo e definitivo arresto di Alexei Navalny, quando una piccola folla si radunò davanti a casa sua e intonò quei due cori che anche oggi uniscono lo zar e il suo nemico giurato. “Lo voglio solo ringraziare per avere vissuto in questo modo”. La signora che parla dalla diretta su YouTube ha 65 anni, tiene in mano i tradizionali garofani rossi e ovviamente non ha un nome, come tutti gli altri. Subito dopo parla una ragazza molto giovane sulla ventina. “Lui e Sakharov sono i miei cavalieri morali. Non riesco a spiegare perché sono qui, ma non potrei immaginare di essere altrove”. È un incontro tra generazioni diverse. Ci sono i maturi reduci di piazza Bolotnaya, che non accettavano di accantonare le speranze sorte dopo il crollo dell’Urss. Ci sono i giovanissimi che sognano una Russia pacifica e subito dopo l’invasione dell’Ucraina si ritrovavano nel McDonald’s di piazza Pushkin, riconoscendosi tra loro con un saluto identitario che oggi viene sussurrato per l’ultima volta dalle persone in coda. Privet, eto Navalny. Ciao, sono Navalny. La gente ha cominciato a radunarsi alla stazione della metropolitana Maryino tre ore prima dell’inizio della funzione religiosa nella chiesa dell’icona della Madre di Dio che risale al 1640 ed è ritenuta miracolosa. Ma è una copia, non si tengono reliquie di valore nell’estrema periferia di Mosca. L’originale si trova a pochi passi dalla piazza Rossa, a disposizione dei turisti, quando ancora ce n’erano. Tutto transennato, fin dalla notte. Poco importa. Presto si forma una coda che cresce lungo la via Liublinskaya, a poche centinaia di metri dalla casa della famiglia Navalny, dove l’ingresso dell’androne è sbarrato. La polizia blocca la via corta dalla metropolitana alla chiesa, imponendo ai nuovi arrivati un lungo giro da dietro, e obbligandoli a scavalcare cumuli di neve compressa. Un chilometro, calcolano i più diligenti che misurano a passi la lunghezza. Quanta gente? Difficile dire, in assenza di dati ufficiali. Duemila? Certamente sì. Decine di migliaia? Una esagerazione. Sempre tanti, dopo due anni di guerra e di pensiero unico sulla guerra, dopo i gentili inviti delle autorità a restare a casa, come sempre. Comunque, qualcosa che in questo Paese non si vedeva da almeno cinque anni. È stato un addio commosso, pacifico. E dopo quei primi canti che hanno rotto il ghiaccio e la paura, sono stati intonati altri cori. No alla guerra, L’amore è più forte della paura, Russia senza Putin, Grazie, Aleksei, Non dimenticheremo, fino a un commovente Gli ucraini sono gente perbene. All’improvviso è divenuto chiaro che grazie alla caparbietà della famiglia Navalny questo funerale è al tempo stesso una eccezione e una occasione, come dimostra il bilancio mite dei fermi, appena 128 in diciannove città. Come se tutti avessero capito che nel prossimo futuro non ci saranno molte altre possibilità di manifestare. Fino a 260 mila utenti si collegano con il canale YouTube dal quale i collaboratori di Navalny rifugiati all’estero trasmettono in diretta. Anche i suoi familiari assistono da lontano. “Grazie per questi 26 anni di assoluto amore” scrive la moglie Yulia. “Cercherò di renderti orgogliosa di me”. La figlia Dasha lo saluta così su Instagram: “Mio eroe, sei sempre stato e rimarrai un esempio per me”. La liturgia dura poco. Si dice che al parroco Anatolij Rodionov sia stato ordinato di non andare per le lunghe. Appena la madre si china sul corpo del figlio baciandolo sulla fronte come vuole la tradizione ortodossa, gli assistenti del servizio funerario chiudono subito la bara e la portano fuori in spalla. Quando i genitori di Navalny escono dalla chiesa sono avvicinati da parecchie persone: “Perdonateci di tutto”. In mattinata sul cancello del cimitero è apparso il cartello “Oggi chiuso alle visite”. L’ingresso è ancora sbarrato ma fuori ormai c’è una folla che preme. Gli slogan si fanno più duri. La bara viene posata dentro la tomba mentre risuona My way di Frank Sinatra. Pian piano, la polizia lascia passare la gente. Il cimitero doveva essere chiuso alle 17 ma le autorità, forse chissà con il benestare di chi non lo ha mai voluto nominare, annunciano che sarà aperto fino a tardi per accontentare tutti. Quando gli astanti lanciano nella tomba manciate di terra - un altro rito ortodosso - una tromba intona la melodia finale di Terminator 2, il suo film preferito. All’uscita, qualcuno ha appeso su un albero un grosso pezzo di stoffa con una scritta blu. “Putin lo ha ucciso ma non lo ha spezzato”. Solo il tempo dirà se questa giornata particolare, che in qualche modo soddisfa un bisogno di consolazione collettivo di noi occidentali, è stata anche l’inizio di una storia nuova. Intanto, questa terra gli farà da piuma, come dicono i russi. Lo sdegno del mondo per la “carneficina” a Gaza. L’Onu chiede un’inchiesta indipendente di Giovanni Legorano Il Domani, 2 marzo 2024 Cresce la pressione su Israele per fare luce sull’accaduto e arrivare a una tregua. Anche gli alleati più stretti chiedono un cambiamento. Secondo le brigate al Qassam, sette ostaggi israeliani sono rimasti uccisi in un raid dell’Idf. “Tregua necessaria”, dice Guterres. Lo sdegno della comunità internazionale per quella che da molti viene definita “la strage di Gaza” è stato pressoché unanime. “Sono profondamente turbata dalle immagini di Gaza. Occorre fare ogni sforzo per indagare sull’accaduto e garantire la trasparenza”, ha scritto ieri su X, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. E ancora: “Gli aiuti umanitari sono un’ancora di salvezza per chi ne ha bisogno e l’accesso a essi deve essere garantito. Siamo al fianco dei civili, sollecitiamo la loro protezione in linea con il diritto internazionale”. Secondo le autorità sanitarie palestinesi, almeno 112 persone sarebbero rimaste uccise e più di 280 ferite nella tragedia vicino a Gaza City di giovedì, dove si è registrato il numero più alto di vittime civili da settimane. L’Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione europea Josep Borrell non ha esitato a definirla una “carneficina”. Israele e Hamas hanno dato versioni contrastanti dell’accaduto. I miliziani sostengono che i soldati dell’esercito israeliano (Idf) hanno sparato contro la folla che aspettava la consegna di aiuti trasportati da un convoglio umanitario di camion, mentre l’Idf ha dichiarato che la stragrande maggioranza delle vittime sono state calpestate o travolte dai camion. Ieri il Consiglio di sicurezza dell’Onu si è riunito d’urgenza e a porte chiuse su richiesta dell’Algeria che aveva presentato una dichiarazione che esprimeva profonda preoccupazione per gli spari deliberatamente diretti alla folla. La mozione algerina non è stata approvata a causa del veto degli Stati Uniti, mentre invece ha ottenuto il sostegno degli altri 14 membri. “Il problema è che non conosciamo tutti i fatti”, ha dichiarato alla stampa il viceambasciatore statunitense presso le Nazioni unite Robert Wood, spiegando che il testo deve riflettere “l’analisi necessaria per quanto riguarda l’attribuzione delle responsabilità”. Sia il dipartimento di Stato americano che il ministero degli Esteri francese hanno fatto sapere di essersi attivati per cercare informazioni sull’accaduto. Gli aiuti - Il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres ha affermato di essere rimasto “scioccato” da quest’ultimo episodio della guerra tra Israele e Hamas, affermando la necessità di un’indagine indipendente che possa stabilire i fatti. Ha poi criticato il potere di veto al Consiglio di sicurezza, dicendo che si è trasformato in uno strumento di paralisi dell’azione dell’unico organo Onu dotato di poteri coercitivi nei confronti degli Stati. “Sono completamente convinto che una tregua umanitaria sia necessaria, come pure il rilascio immediato e incondizionato degli ostaggi, e dovremmo avere un Consiglio di sicurezza capace di ottenere tali risultati”, ha dichiarato Guterres. Non è chiaro se l’episodio possa rappresentare un prima o un dopo nella guerra di Gaza, come a caldo alcuni commentatori israeliani e internazionali hanno paventato. Tuttavia, la pressione internazionale esercitata su Israele sulla salvaguardia dei civili delle Striscia venerdì è diventata ancora più forte, come pure quella relativa agli aiuti umanitari che ormai da settimane faticano a essere distribuiti nelle zone di guerra. La Commissione europea ha fatto sapere nel pomeriggio di aver aumentato per un importo pari a 68 milioni di euro il totale degli aiuti umanitari a Gaza per quest’anno e di voler procedere al pagamento di 50 milioni di euro a Unrwa, quando il trasferimento di fondi previsto per il mese di febbraio era di 82 milioni. Il resto dei fondi sarà sbloccato una volta che Unrwa avrà chiarito la sua posizione in merito alle accuse di collusioni con Hamas formulate da Israele. Le autorità coinvolte nei negoziati sulla tregua continuano a nutrire caute speranze che un accordo possa essere raggiunto prima dell’inizio del mese di Ramadan il 10 marzo, festività sacra nel mondo islamico, malgrado i timori che le morti di giovedì potrebbero influenzare l’esito delle trattative o quantomeno ritardarne la conclusione. “Speriamo di poter ottenere una cessazione delle ostilità e lo scambio degli ostaggi. Tutti riconoscono che abbiamo una data limite per ottenere un risultato, l’inizio del Ramadan” ha dichiarato il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry. Le famiglie di ostaggi hanno manifestato fuori dal consolato americano di Tel Aviv ieri chiedendo al presidente americano Joe Biden di fare pressioni sul governo per accettare un accordo. “L’amministrazione è più impegnata sul tema degli ostaggi del governo israeliano, quindi le famiglie degli ostaggi, insieme ad altri attivisti, chiedono all’ “adulto responsabile” di fare pressione e salvare i rapiti da Hamas e da un governo estremista”, hanno dichiarato gli organizzatori delle proteste secondo i media israeliani. “Questi sono giorni critici, un accordo è sul tavolo, il Ramadan si avvicina e ogni ora deve essere usata per trovare una soluzione”. Verso sera Hamas ha comunicato per bocca del portavoce delle brigate al Qassam Abu Ubaida che sette ostaggi israeliani sono rimasti uccisi in un raid dell’Idf, secondo quanto riportato dall’agenzia Reuters. In uno stesso messaggio circolato su Telegram, le brigate al Qassam hanno dichiarato che 70 ostaggi sono rimasti uccisi sinora nella Striscia, vittime delle operazioni militari israeliane.