Quale rieducazione? Lo scandalo dei suicidi in carcere: l’inaccettabile contabilità di Giorgio Paolucci Avvenire, 29 marzo 2024 “Ogni giorno qui dentro è un venerdì di passione. Ci sarà la resurrezione?”. La domanda di un detenuto incontrato in questi giorni in carcere è un pugno nello stomaco. Conosciamo bene le condizioni di vita dei nostri penitenziari (e questo giornale se ne fa eco da tempo). Il numero dei suicidi - già ventotto quest’anno, l’ultimo solo due giorni fa nel carcere di Sassari-Bancari - è solo la punta di un gigantesco iceberg che parla di sovraffollamento, violenze, precarietà, scarse occasioni di lavoro e di studio. Per molti, per troppi, l’articolo 27 della Costituzione - in base al quale le pene devono tendere alla rieducazione del condannato - rimane un miraggio. C’è dunque più di un motivo per cedere alla disperazione. Eppure la speranza può rimanere testardamente accesa. Hannah Arendt scriveva che “gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire ma per ricominciare”. Cosa permette di ricominciare, anche quando tutto intorno sembra congiurare contro questa possibilità? In questi giorni riviviamo la memoria di un fatto che è all’origine di una inesauribile speranza: il sacrificio di Chi ha condiviso il nostro dolore, il dolore di tutti, e ha offerto la vita per redimere il male che abita in ciascuno di noi. Morire per amore sembra qualcosa di inconcepibile nella cultura che respiriamo e che noi stessi alimentiamo, eppure è il lascito che Cristo ha consegnato all’umanità. E il suo sacrificio - bisogna avere il coraggio di dirlo senza mezzi termini e senza il timore di turbare chi non ci crede - è l’unica fonte di speranza, l’unica risorsa che permette di non restare inchiodati alla fragilità che accompagna ogni umana esistenza. Vale per tutti, e in maniera più bruciante per quanti scontano in carcere la pena per il male commesso. L’uomo non è riducibile al suo errore, nel cuore di ogni persona abita un anelito alla felicità che nessuna situazione avversa - neppure il buio di una cella - riesce a spegnere, perché questo anelito è qualcosa di inestirpabile, è insito nella natura di ogni persona. E a questo anelito viene incontro l’abbraccio di un Dio che condivide la condizione umana fin nelle sue intime pieghe, per dare un senso a ogni momento dell’esistenza, anche al dolore. Lo esprime in maniera diretta ed efficace papa Francesco: “All’uomo che soffre, Dio non dona un ragionamento che spieghi tutto, ma offre la sua risposta nella forma di una presenza che accompagna, di una storia di bene che si unisce ad ogni storia di sofferenza per aprire in essa un varco di luce. In Cristo, Dio stesso ha voluto condividere con noi questa strada e offrirci il suo sguardo per vedere in essa la luce”. Se Gesù, nel giorno della sua morte, ha promesso il Paradiso al buon ladrone crocifisso accanto a lui, c’è una speranza per tutti i detenuti. Ed è la medesima speranza che può alimentare l’esistenza di ognuno di noi. Bernardini: “Aumentare la liberazione anticipata, contro sovraffollamento e suicidi” di Valentina Stella Il Dubbio, 29 marzo 2024 Ieri mattina la Commissione Giustizia della Camera, nell’ambito dell’esame della proposta di legge in materia di concessione della liberazione anticipata, presentata da Roberto Giachetti (Iv), ha svolto l’audizione di Rita Bernardini, presidente di “Nessuno Tocchi Caino”. “I dati forniti dal ministero della Giustizia ci dicono che siamo a quasi 61mila detenuti e i posti regolamentari effettivi sono poco più di 47mila, quindi abbiamo un sovraffollamento che è intorno al 128%”, ha detto l’ex parlamentare radicale. Ha aggiunto anche che “da uno studio di Nessuno tocchi Caino sui dati alla fine di dicembre dello scorso anno, emergeva già che sono almeno 106 gli istituti penitenziari con un sovraffollamento medio del 150%, e ci sono istituti che toccano o superano il 240% come il carcere di San Vittore”. Rita Bernardini ha sottolineato che “gli agenti di polizia penitenziaria sono in sofferenza per 18mila unità. Come sono pochi gli educatori, gli psicologi nonché il personale amministrativo e addirittura i direttori delle carceri, nonostante l’ultimo concorso abbia portato nuove energie ma non sufficienti. Agli psicologici previsti dall’ordinamento penitenziario hanno aumentato gli stipendi, che erano inferiori a quelli di una colf, ma essendo restato immutato il budget paradossalmente le ore già insufficienti sono diminuite. Una comunità penitenziaria sofferente, ieri (due giorni fa, ndr) ennesimo suicidio, siamo arrivati a 28 e se si mantenesse questo trend arriveremmo alla fine dell’anno con oltre 100 suicidi, battendo il record del 2022 quando furono 84. Non dimentichiamo anche il suicidio di tre agenti penitenziari. E ancora la popolazione carceraria, come detto dal capo del Dap, Giovanni Russo, sale di 400 detenuti al mese; alla fine dell’anno arriveremo ad oltre 65mila detenuti e non possiamo permettercelo”. La presidente di “Nessuno Tocchi Caino” ha ricordato poi la manifestazione dell’Unione Camere Penali di qualche giorno fa “Non c’è più tempo” sull’emergenza suicidi: “Direi che “non c’è più tempo da troppo tempo”, tenendo conto che il problema, qualunque sia stata la maggioranza di governo, non si è voluto affrontarlo”. Sollecitata poi dalle domande dei commissari Roberto Giachetti e Debora Serracchiani del Pd Rita Bernardini ha concluso: “In teoria le soluzioni da intraprendere non potrebbero che essere quelle dell’indulto e dell’amnistia, ma manca la praticabilità politica. Le soluzioni invece che si possono attuare sono quelle della “liberazione anticipata” su due versanti: aumentare per il futuro i giorni di liberazione anticipata da 45 a 60 giorni ogni semestre, e portare a 75 giorni la premialità sempre per ogni semestre di pena scontata nel passato. Sarebbero misure non certo risolutrici del sovraffollamento carcerario, ma potrebbero rappresentare un piccolo ristoro alla situazione attuale di grande sofferenza e illegalità”. Carcere, non è (solo) questione di spazi di Andrea Oleandri* lavialibera.it, 29 marzo 2024 Il sovraffollamento non è l’unica motivazione per cui i tribunali riconoscono trattamenti disumani e degradanti negli istituti penitenziari. Anche sporcizia, umidità, servizi igienici inadeguati e ritardi nelle cure mediche violano i diritti dei detenuti. Lo scorso gennaio, un uomo che era stato detenuto a lungo nel carcere di Sollicciano a Firenze ha ricevuto uno sconto di pena di circa 300 giorni per il prolungato trattamento inumano e degradante da lui subito durante la detenzione. Aveva denunciato di essere stato recluso in celle invase da insetti, umidità e sporcizia. Non si tratta di un evento raro: nel 2022 - in attesa dei dati del 2023 - i tribunali di sorveglianza hanno accolto oltre 4mila ricorsi, riconoscendo altrettanti sconti di pena (per chi era ancora in carcere) o ristori economici (per chi era già uscito). Nella maggior parte dei casi, però, il motivo del ricorso era l’assenza dello spazio minimo vitale di 3 metri quadrati a persona. Questa volta, invece, il riconoscimento del trattamento inumano e degradante si è basato su considerazioni che non riguardano solamente il sovraffollamento. Il rimedio compensativo previsto in questi casi, regolato dall’articolo 35 ter dell’ordinamento penitenziario, è stato introdotto subito dopo il caso Torreggiani del 2013, quando il Paese fu condannato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per trattamenti degradanti generalizzati nelle carceri a causa di tassi di sovraffollamento drammatici. All’epoca oltre 4mila ricorsi erano giunti alla Corte di Strasburgo che, invece di accoglierli tutti, si era pronunciata in una sentenza pilota intimando all’Italia di adottare entro 12 mesi una serie di riforme. Tra queste anche l’introduzione di un rimedio compensativo che desse la possibilità a chi è privato della libertà personale di veder riconosciuta dai tribunali nazionali la violazione dei propri diritti. E così, nella prassi, il principale motivo dei ricorsi e dell’accettazione degli stessi resta ancora la mancanza di spazio. Il sovraffollamento, del resto, è uno degli indici più evidenti dello stato di difficoltà in cui versa il sistema penitenziario italiano, e di conseguenza anche il più discusso a livello politico e mediatico. Niente bagni separati - Eppure, la presenza o meno di trattamento inumano e degradante in carcere non dipende solo dalla disponibilità dello spazio minimo. Questa estate, nell’ambito dell’attività dell’osservatorio sulle condizioni di detenzione di Antigone, ho visitato due carceri in provincia di Foggia, quello di Lucera e quello di San Severo. Due istituti piccoli, collocati al centro delle rispettive città e, come spesso avviene in questi casi, dotati di spazi estremamente ridotti. Entrambi avevano una caratteristica che, fortunatamente, non si ritrova ovunque: i bagni non erano collocati in un ambiente separato, ma nella stessa stanza dove si dorme, si mangia, si passa il tempo. Nel carcere di Lucera, per evitare che i detenuti potessero essere visti da chi passa per i corridoi o dai compagni di cella, attorno al wc era stata posta una tenda per doccia. A San Severo, invece, dei divisori in legno o metallo. In entrambi i casi, se la soluzione garantiva un minimo di privacy, allo stesso modo non impediva la fuoriuscita di odori che si spandevano per tutta la cella. Una condizione evidentemente non dignitosa. E, almeno per il carcere di San Severo, senza soluzione: i lavori per creare bagni in ambienti separati, infatti, porterebbero a ridurre il numero di celle e di detenuti, rendendo di fatto antieconomico il mantenimento in vita di quell’istituto, che continuerà dunque a versare in questa condizione. Sempre in una visita dell’osservatorio di Antigone, effettuata nell’ottobre scorso nel carcere di Pavia, erano state trovate cimici nei letti dei detenuti. Una persona reclusa mostrava addirittura un nido tra i capelli e molti altri avevano sul corpo i segni delle punture. Ancora, durante un’altra visita che avevo svolto personalmente in un altro carcere un detenuto aveva lamentato problemi ai denti (peraltro ben visibili) e un ritardo enorme nel ricevere cure. La questione della tutela della salute è uno dei punti di principale difficoltà nelle carceri, come dimostrano anche le numerose richieste di sostegno che arrivano al difensore civico di Antigone in questo senso. Un argomento sul quale, solo pochi giorni fa, è tornato anche il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che ha sottolineato come “l’esigenza di assistenza sanitaria nelle prigioni, che è una esigenza diffusa, ampia, indispensabile” vada affrontata con sollecitudine. Nessuno si prende cura della sofferenza psichica nelle carceri - Questi sono solo alcuni esempi delle decine di casi che emergono dal monitoraggio di Antigone sulle condizioni di detenzione e dalle denunce che arrivano direttamente dalle persone interessate. Su lavialibera abbiamo già scritto delle difficili condizioni di vita in carcere durante l’estate per il caldo e durante l’inverno per il freddo, condizioni che possono incidere fortemente sui diritti delle persone detenute. Così come possono incidere la presenza di muffa e di infiltrazioni alle pareti o l’assenza di docce nelle camere di pernottamento, che limita la possibilità di lavarsi a poche ore al giorno. Non basta la disponibilità dello spazio minimo perché sia garantita la qualità della vita in carcere e l’assenza di trattamenti inumani e degradanti. Conta anche ciò che la persona ha attorno a sé, e conta il rispetto di tutti i diritti esigibili e inalienabili che anche chi è detenuto deve vedere garantiti. *Responsabile comunicazione dell’Associazione Antigone “Si parla di un detenuto, a chi volete che interessi?” di Natalia Distefano Corriere della Sera, 29 marzo 2024 Ieri in Senato, sui social pubblicata la foto dell’aula deserta. La denuncia via “X” del senatore Filippo Sensi (Pd): “Non voglio gettare discredito sull’istituzione ma va registrata la mancata partecipazione a un’interrogazione su un tema urgente come la situazione delle carceri”. Il colpo d’occhio è disarmante: l’Aula del Senato - con le poltrone vuote - che somiglia a un “deserto rosso. Quasi fosse una foto istituzionale, di quelle da brochure o da libro di scuola. Invece lo scatto è di ieri mattina, 28 marzo, mentre a Palazzo Madama era in corso un’interrogazione della vicepresidente dem del Senato Anna Rossomando. E a pubblicarlo sul suo profilo X è stato il senatore Filippo Sensi (Pd), commentando: “Si, è giovedì. Si, è quasi Pasqua. Si, è il Senato della Repubblica. Si, si parla di un detenuto, che volete che sia, a chi volete che interessi”. Sensi: “Un deserto rosso” -Non è la prima volta che Sensi si trova a fotografare e condividere via social quello che lui chiama “il deserto rosso”, ovvero i banchi vuoti della maggioranza, in occasione di sedute che affrontano “temi urgenti del nostro tempo”. “Nella giornata di Ilaria Salis, e mentre si registrano quasi all’ordine del giorno problemi nelle strutture carcerarie italiane, se non addirittura suicidi - dice Sensi al Corriere - sembrerebbe che per la maggioranza il caso di un detenuto in sciopero della fame da settimane non sia un argomento da seguire in aula”. L’interrogazione di Rossomando riguardava il mancato rimpatrio di un albanese detenuto nella casa circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino, che ha chiesto di scontare la pena nel suo Paese, dove ha due figli, in virtù degli accordi Italia-Albania. A risponderle in Senato c’era il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari (Lega). “Nessun discredito sul Senato” - “La mia non è antipolitica. Non voglio assolutamente gettare discredito sul lavoro del Senato e sulle istituzioni della Repubblica - precisa Sensi - e so perfettamente che, trattandosi di un sindacato ispettivo, la partecipazione dei senatori non era strettamente necessaria. A richiedere una presenza era però la questione in sé: la vita di un uomo, la situazione di un carcere dove appena pochi giorni fa un detenuto con gravi problemi psichici si è tolto la vita. Ecco, quello che ho voluto denunciare non è tanto l’assenza, ma il non partecipare a una seduta di lavoro che ha affrontato un tema per nulla accessorio”. Ma chi c’era in aula? Sensi fa la conta: “Della maggioranza nessuno, oltre a Ostellari. Solo quando l’interrogazione era già iniziata da parecchio, e il mio post già era online, ho visto qualcuno sedersi nei banchi di Fratelli d’Italia. Della minoranza, insieme a me, c’erano Antonio Nicita, Graziano del Rio, Enza Rando, poi quattro senatori M5S, tra cui Stefano Patuanelli ed Elisa Pirro, che preparavano un intervento di fine seduta”. Una decina di presenti in tutto. “Difficile non notarlo - conclude - e anche farlo notare agli italiani va letto come il segno che al Senato si lavora”. Il detenuto (gravemente malato) è albanese e il carcere è quello italiano? Interesse politico: zero di Iuri Maria Prado L’Unità, 29 marzo 2024 È condivisibile lo sdegno per i ferri ai polsi di Ilaria Salis ed è condivisibile la protesta contro il regime ungherese, tronfio nello sbattere in faccia al mondo quelle immagini di gratuito maltrattamento. Forse è da condividere con meno convinzione il tono indignato che insiste sull’italianità di quell’indagata, come se reclamare il rispetto di minimi criteri di decenza di un sistema giudiziario dipendesse dalla nazionalità di chi vi è sottoposto. Ma ammettiamo pure che queste siano trascurabili sottigliezze. Non è invece una sottigliezza, e non è trascurabile, il fatto che l’Italia ha in realtà molto poco da insegnare agli altri in questa materia. La gente portata in vincoli fuori e dentro le aule di tribunale fa spettacolo tutti i giorni anche qui da noi: e non si vorrà sostenere che la differenza stia nelle misure più o meno generose delle catene o nel fatto che esse lambiscono solo i polsi anziché pure le caviglie. Ma schiavettoni a parte. Può davvero il nostro Paese, che sequestra decine di migliaia di persone in condizioni invivibili, che amministra carceri ridotte a fabbriche di impiccati, che dispensa orgogliosamente durezze detentive che giudicheremmo infami se ne fossero destinatari dei cani o dei maiali, può davvero un simile Paese tirarsi su scandalizzato davanti a quelle immagini ungheresi? Ieri se ne discuteva ancora, tra i giusti reclami di tanti, mentre circolava un’altra immagine. Ma italianissima, questa volta. L’immagine di un Senato deserto per un’interrogazione fatta dalla senatrice Pd Anna Rossomando sul caso di un altro detenuto. Ma detenuto da noi, a Torino, un albanese, non un italiano che eccita i nostri sentimenti compassionevoli. Un detenuto in gravissime condizioni di salute, ridotto in carrozzella e a trenta chili di peso in un carcere che potrebbe ospitare mille persone e invece ne imprigiona cinquecento in più, un carcere che l’altro giorno ha regalato all’orgoglio italiano l’ennesimo suicida. E il caso ha ricevuto l’attenzione senatoriale che evidentemente merita: nessuna. È da simili consessi che possono venire credibili indignazioni per le catene di Ilaria Salis? Le carceri italiane? Per la Cedu sono più incivili di quelle ungheresi di Ermes Antonucci Il Foglio, 29 marzo 2024 Sovraffollamento, suicidi, condizioni degradanti. Per la Corte europea dei diritti dell’uomo e per il Consiglio d’Europa, le prigioni italiane sono più incivili di quelle in Ungheria. Condanne e statistiche impietose. Per paradosso, a Ilaria Salis converrebbe restare in Ungheria ad affrontare il processo. Lì la trattano meglio. A suggerirlo sono i numeri impietosi relativi alle condanne ricevute dall’Italia dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) per le condizioni delle carceri e la violazione di alcuni diritti umani basilari, così come le statistiche del Consiglio d’Europa sulla situazione disastrosa del nostro sistema penitenziario. Partiamo dalla Cedu: da quando la Corte è stata istituita, nel 1959, fino al 2021 l’Italia è il terzo paese ad aver ricevuto più condanne (2.466), dopo Turchia e Russia. L’Ungheria ne ha ricevute 614. L’Italia è stata condannata 9 volte per tortura (l’Ungheria mai), 297 volte per violazione del diritto al giusto processo (21 l’Ungheria), 33 volte per trattamento inumano e degradante (38 l’Ungheria), addirittura 1.203 volte per la durata eccessiva dei processi (344 l’Ungheria). Quest’ultimo è un primato incontrastato per l’Italia. Insomma se Salis fosse stata processata da noi avremmo dovuto aspettare anni prima di vederla in tribunale. Non l’avremmo vista, come è avvenuto di nuovo ieri a Budapest, ammanettata e trattenuta da un agente con una catena legata alla cintura, ma considerata l’accusa a lei rivolta (aggressione a due militanti di destra) Salis sarebbe stata trasferita dal carcere in manette e poi collocata in aula in un gabbiotto con sbarre metalliche, come avviene solitamente in Italia. Entrambi casi di trattamento contrario alla dignità della persona. Per questo non siamo in grado di dare lezioni a nessuno. Ancor di più se si guardano i dati del Consiglio d’Europa. In una lettera Salis ha denunciato le condizioni indegne del carcere in cui si ritrova reclusa, con “cimici nel letto, scarafaggi e topi”. La denuncia ha generato la giusta indignazione di molti esponenti politici italiani. Ma guardiamo a cosa succede nelle carceri italiane, paragonandole a quelle ungheresi, prendendo in esame l’ultimo rapporto del Consiglio d’Europa, Space I, aggiornato al 31 gennaio 2022. All’epoca le nostre carceri erano tra le più sovraffollate d’Europa. Gli istituti di pena italiani ospitavano 54.372 detenuti a fronte di 50.862 posti. La densità penitenziaria in rapporto con la capacità ufficiale delle carceri era quindi del 106,9 per cento. Tradotto: ogni cento posti disponibili in carcere venivano ospitati quasi 107 detenuti. Al contrario, in Ungheria erano reclusi 18.619 detenuti, a fronte di 18.713 posti, per una densità penitenziaria del 99,5 per cento. Proseguiamo. Il rapporto sottolinea come in Italia su 54.372 detenuti, ben 16.339 (cioè il 30 per cento) erano ancora in attesa di sentenza definitiva. La percentuale in Ungheria era del 23,7 per cento. E ancora: nel 2021 in Italia si sono suicidati 57 detenuti in carcere (10,5 per cento ogni 10 mila detenuti). Nello stesso periodo in Ungheria si sono tolti la vita 8 detenuti (4,3 per cento ogni 10 mila detenuti). Infine, il rapporto Space I riportava che in Italia erano detenute 15 madri insieme ai propri figli di pochi anni (in Ungheria tre). Purtroppo le statistiche comparative si fermano al 2022. Sarebbe interessante infatti sapere come la situazione delle carceri in Ungheria si è evoluta da allora, visto che in Italia ha conosciuto un peggioramento evidente e drammatico. Oggi le carceri italiane ospitano 60.924 detenuti, a fronte di 51.187 posti, per un sovraffollamento del 119 per cento. Numeri indegni di un paese civile, non lontani da quelli che nel 2013 portarono l’Italia a essere condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per trattamento inumano e degradante dei detenuti dovuto al sovraffollamento carcerario. La Cedu condannò l’Italia con una sentenza pilota: non solo accertò la violazione del diritto nel caso concreto, ma riconobbe l’esistenza di un problema strutturale nel nostro paese, che causava una violazione sistematica della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. All’Italia venne dato un anno di tempo per ridurre il sovraffollamento carcerario, cosa che effettivamente avvenne. Dopo aver soddisfatto le richieste della Cedu, però, le istituzioni sono tornate ad abbandonare le carceri al loro destino infernale. Risultato: mentre il sovraffollamento non accenna a fermarsi, nel 2022 si è registrato il record storico di suicidi in carcere. Addirittura 84, uno ogni quattro giorni. Il dato è di poco sceso l’anno seguente (69). Ma da gennaio 2024 sono già 27 i detenuti che si sono tolti la vita in carcere. Anche le condizioni di detenzione rimangono critiche. Lo conferma l’ultimo rapporto pubblicato dall’associazione Antigone: “Nel 35 per cento degli istituti visitati c’erano celle in cui non erano garantiti 3 mq calpestabili per ogni persona detenuta, cosa che spiega gli oltre 4.000 ricorsi accolti ogni anno in Italia per condizioni di detenzione inumane e degradanti. Nel 12,4 per cento c’erano celle in cui il riscaldamento non era funzionante. Nel 45,4 per cento degli istituti visitati c’erano celle senza acqua calda e nel 56,7 per cento celle senza doccia”. Per quanto riguarda le modalità di gestione degli imputati nelle aule di giustizia, sarà pur vero che in Italia i detenuti non vengono trattenuti con delle catene legate alla cintura, ma quando si tratta di processi per reati di particolare gravità è molto frequente l’uso di gabbiotti con sbarre di metallo, anche questi contrari all’articolo 3 della Convenzione, che vieta che un cittadino possa essere sottoposto a pene o trattamenti inumani o degradanti. Considerato tutto questo, paradossalmente a Ilaria Salis conviene restare nelle carceri ungheresi, piuttosto che conoscere l’inferno di quelle italiane. Dall’abuso d’ufficio al ruolo del Gip: i procuratori attaccano il ministro Nordio di Fabrizio Caccia Corriere della Sera, 29 marzo 2024 Le “valutazioni” su un’eventuale mobilitazione dell’Associazione nazionale magistrati, il sindacato delle toghe, contro i test psicoattitudinali introdotti dal governo (entreranno in vigore nel 2026) saranno al centro del prossimo Comitato direttivo centrale dell’Anm, in programma sabato 6 e domenica 7 aprile a Roma. Al termine delle “valutazioni”, potrebbe essere indetto uno sciopero. La polemica da giorni è rovente: “Un provvedimento sfregiante - attacca Salvatore Casciaro, segretario generale dell’Anm - perché dà un messaggio ai cittadini secondo cui i magistrati hanno bisogno di essere controllati psichicamente”. Non solo. Casciaro lo definisce “un provvedimento anche demagogico perché i magistrati vengono controllati sotto il piano dell’equilibrio lungo tutto l’arco della carriera. E infine è pure di dubbia costituzionalità”. Ma ieri in commissione Giustizia della Camera, durante le audizioni sul ddl Nordio di riforma del codice penale, già approvato dal Senato, sono arrivate critiche al governo anche dal presidente dell’Anac Giuseppe Busia e dai procuratori Raffaele Cantone (Perugia) e Maurizio De Lucia (Palermo) nonché dall’aggiunto di Milano, Eugenio Fusco. Per esempio sull’abolizione del reato di abuso d’ufficio: anche se il ddl ha “l’intendimento condivisibile che è quello di fare chiarezza, evitare ambiguità e avere tassatività”, c’è il rischio di una “minore certezza delle regole”, secondo Busia. E Cantone: “L’abrogazione dell’abuso d’ufficio rappresenta un arretramento significativo nel contrasto ai reati contro la PA ma soprattutto ai fatti corruttivi. Renderà più complesse le indagini”. De Lucia, dal canto suo, ha sottolineato”tutta una serie di disfunzioni che creeranno un notevole appesantimento di una macchina che già stenta a funzionare”. D’accordo anche il procuratore aggiunto di Milano Fusco. “Un errore abrogare totalmente il reato di abuso d’ufficio. Forse è un intervento disperato quello che sto facendo, perché forse tutto è già deciso, ma una riflessione varrebbe la pena di farla”. Cantone poi si è scagliato anche contro “l’introduzione del gip collegiale, che comunque non sarà a breve, perché c’è il termine di due anni dall’entrata in vigore, ma creerà problemi per la gestione del quotidiano”. E De Lucia: “Immaginare un gip collegiale che decida sulla libertà dei cittadini e poi un tribunale del Riesame come quello che noi abbiamo che nei 10 giorni successivi debba nuovamente rivedere gli elementi è oggettivamente uno spreco. Nella migliore della ipotesi, per decidere il procedimento impieghiamo 13 giudici”. Ma è polemica anche sulle parole del procuratore di Napoli, Nicola Gratteri (“Estendiamo i test a politici e ministri”). La maggioranza contrattacca con Maurizio Lupi di Noi moderati (“Per i politici il vero test è il voto”) e Maurizio Gasparri di FI (“Nessun timore, mi sottoporrò spontaneamente a tutti i test che vuole Gratteri”). Intanto, ieri, con la sentenza 51, la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima l’automatica rimozione dalla magistratura in caso di condanna del magistrato a una pena detentiva non sospesa. L’annuncio del forzista Pittalis: “Il ddl penale in Aula ad aprile” di Valentina Stella Il Dubbio, 29 marzo 2024 Ieri le audizioni in commissione Giustizia alla Camera: l’Anm ancora contro l’abolizione dell’abuso d’ufficio, critico pure Cantone. Il Ddl Nordio, quello che in primis prevede l’abolizione dell’abuso di ufficio, dovrebbe arrivare in Aula ad aprile per l’approvazione finale in seconda lettura: questa la time-line prospettata dalla Commissione Giustizia della Camera, ieri presieduta dal forzista Pietro Pittalis, dove si sono svolte ben diciannove audizioni. Otto delle persone ascoltate erano tra i trentaquattro già auditi nella medesima commissione di Palazzo Madama: da qui erano arrivate le critiche del responsabile giustizia Enrico Costa che punta all’accelerazione del via libera alla legge. Ora i gruppi avranno tempo fino alle 15 di mercoledì 10 aprile per presentare emendamenti. Complessivamente può dirsi che numerose sono state le critiche al ddl che porta il nome del Ministro della Giustizia. Il primo ad intervenire è stato Enrico Infante, neo membro della Giunta dell’Anm, che ha ribadito i “toni prevalentemente critici” del “sindacato” delle toghe. “Una abolizione secca dell’abuso di ufficio - ha lamentato - lascia scoperti troppi settori che invece avrebbero bisogno di sanzione: il sindaco che aiuta qualcuno nei quiz per un concorso, o il sindaco che toglie incarichi a chi si vuole presentare alle elezioni ed è un suo “concorrente”, o il primario che esclude un ‘ avversario’ politico dalla sala operatoria, sono tutte condotte sanzionate in passato e che ora sarebbero depenalizzate”, ha fatto presente Infante. Quanto alle obiezioni sulla grande mole di archiviazioni dei processi per abuso d’ufficio che raramente si concludono con una condanna, il magistrato di MI ha rilevato che le archiviazioni “sono dovute al fatto che nel corso degli anni si sono introdotti più requisiti per la punibilità, come quello della intenzionalità, per cui alla fine il reato di abuso di ufficio si è “sterilizzato”“. Intervenuto anche il Procuratore di Perugia Raffaele Cantone che ha fatto le seguenti considerazioni: “Esprimo particolari perplessità sull’abolizione del reato di abuso d’ufficio” fatto che comporterà “un arretramento significativo soprattutto verso i fatti corruttivi e renderà più difficile le indagini in questo settore”. A suo avviso, dalla riforma “la lotta ai colletti bianchi che delinquono è indebolita”. Quanto alla previsione della collegialità della decisione sugli arresti, Cantone ha fatto presente che, ad esempio, a Perugia “ci sono solo 5 gip e le incompatibilità renderanno difficile far funzionare i gip collegiali e si creeranno problemi nella gestione del quotidiano”. Mentre per il Procuratore capo di Palermo Maurizio De Lucia “l’introduzione dell’interrogatorio preventivo e del gip collegiale previsti dal ddl Nordio non considera che i nostri processi, quelli per intenderci ai “colletti bianchi”, non riguardano mai un solo imputato, invece la riforma sembra pensare solo a processi con un solo imputato” con la conseguenza che “se io ti dico cinque giorni prima che sarai interrogato per una misura cautelare, non solo cresce il rischio che siano distrutti documenti e fonti di prova, oltre che il rischio di fuga, ma avvisare i coindagati significa creare un serio rischio di danno alle indagini”. Francesco Petrelli, Presidente dell’Unione Camere Penali Italiane, ha sottolineato invece: “gli altri auditi, in merito all’abuso di ufficio, hanno fatto riferimento agli obblighi internazionali e la Convenzione di Merida e anche una raccomandazione dell’Europa che ancora non è giunta in forma di direttiva secondo cui non esiste l’obbligo di prevedere nel sistema giuridico il reato di abuso d’ufficio, ma solo un invito”. Altra questione “di grande interesse per l’avvocatura penale è quella relativa alle garanzie del difensore ed in particolare alla modifica dell’articolo 103. L’interruzione dell’intercettazione della conversazione tra avvocato e proprio assistito pone anche un problema di natura tecnica. Innanzitutto bisognerebbe comprendere in che modo l’operante possa venire a conoscenza che il dialogo intercorre effettivamente tra difensore e cliente. Bisogna poi comprendere se sotto un profilo tecnico sia possibile l’interruzione di una intercettazione. Le informazioni tecniche a disposizione ci dicono che il sistema dei server non consentirebbe all’operante una discrezionalità in ordine all’attivazione o disattivazione. Spesso poi l’operante non è in ascolto delle intercettazioni mentre esse si svolgono”. Infine è intervenuto il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia: “se il ddl Nordio venisse approvato, sarebbe importante intervenire tempestivamente per il rafforzamento delle misure anticorruzione” perché si creerebbero dei “vuoti di tutela”. Adesso la Consulta rifletta anche sulla ferocia della legge Severino di Simona Musco Il Dubbio, 29 marzo 2024 La Corte boccia la rimozione automatica dei magistrati per una condanna penale. Bene così: e i politici? La condanna penale non basta, da sola, a distruggere una carriera. Si può riassumere così la sentenza depositata dalla Corte costituzionale, che, giustamente, considera eccessivo l’automatismo che porta alla rimozione di un magistrato per una condanna con pena non sospesa, senza valutare la proporzionalità della sanzione rispetto al reato commesso e spogliando della propria discrezionalità l’organo disciplinare. Il ragionamento, dice ancora la Corte, si può estendere a tutti i funzionari pubblici. E anche se la vicenda in questione affronta una conseguenza perenne, proporre un parallelismo con la legge Severino - che impone una conseguenza momentanea alla condanna, ovvero la sospensione - non sembra un esercizio vuoto. Per una semplice ragione: l’interruzione del mandato elettivo a seguito di una condanna - che spesso viene poi ribaltata e cancellata dopo anni e anni di processi elefantiaci - equivale nella maggior parte dei casi ad un’espulsione definitiva dalla vita politica. Certo, la cosa non è scientifica. C’è chi ce la fa a riprendersi ciò di cui è stato ingiustamente privato e c’è chi non ne ha la forza. La verità, dunque, è semplice: è necessario aprire una riflessione sugli effetti di una norma che mette tra parentesi la presunzione d’innocenza. Una riflessione che la Consulta ha già fatto, ne siamo consapevoli, dando ragione al legislatore. Ma la posta in gioco è altissima. Con la sua sentenza, la Corte costituzionale non fa che chiedere prudenza e misura quando vengono applicate le conseguenze secondarie di una condanna penale. Ed è su questa prudenza e questa misura che la politica dovrebbe riflettere, bilanciando l’esigenza di garantire l’integrità del processo democratico, la trasparenza e la tutela dell’immagine dell’amministrazione con l’esigenza costituzionale di considerare tutti gli individui uguali davanti alla legge. Una legge che, fino a sentenza definitiva, ci vuole anche tutti presunti innocenti. Intercettazioni consentite per non più di 45 giorni: il limite proposto coincide con i dati degli Usa di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 29 marzo 2024 L’ipotesi, all’esame del Senato, di dare un tempo più contenuto per le intercettazioni è avvalorata dalla media americana, che è esattamente di un mese e mezzo. Continua l’attività di revisione in materia di intercettazioni volta a rafforzare la tutela del terzo estraneo al procedimento rispetto alla circolazione delle comunicazioni intercettate: è dei giorni scorsi un emendamento a firma della senatrice Erika Stefani (Lega), relatrice in commissione Giustizia per la proposta di legge di Pierantonio Zanettin (Forza Italia), in merito al quale chi scrive era già intervenuto su queste pagine. Viene riscritto l’articolo 267 del codice di procedura penale, istituendo il vincolo temporale “fisso” di un mese e mezzo (45 giorni per l’esattezza, congruo, per chi scrive, alla realtà giudiziaria) per lo svolgimento delle intercettazioni; termine entro il quale l’Ufficio di Procura deve portare al Giudice un risultato investigativo. Se assente, nel corso di due periodi di intercettazioni, nessuna proroga. D’altra parte perché accanirsi se non emergono elementi utili all’indagine? D’altra parte l’emendamento risulta in linea anche con la legislazione di Paesi come gli Stati Uniti, all’avanguardia in materia di raccolta delle prove. Si abbia a riguardo la durata delle intercettazioni e i relativi rinnovi. Nel 2021 sono stati autorizzati, negli Usa, 1.437 rinnovi rispetto ai 30 giorni delle autorizzazioni iniziali. La durata media, perciò, è stata di quarantaquattro giorni. I rinnovi sono diminuiti del 4% in confronto al 2020. Solo per certi reati è possibile, oltreoceano, intercettare per più tempo: se si indaga per narcotraffico, ad esempio. In un caso simile c’è stata un’attività di intercettazione, autorizzata da un giudice statale a Nassau, New York, che, in forza di quattordici rinnovi, è durata 383 giorni. Anche in Francia, il novellato articolo 100- 2 del c. p. p. stabilisce che la durata non può essere superiore a quattro mesi e che la decisione è rinnovabile alle stesse condizioni di forma e di tempo, senza che la durata complessiva dell’intercettazione possa superare un anno o due anni in casi molto particolari: ciò al fine di evitare che la misura possa prolungarsi a tempo indeterminato sulla base della decisione iniziale, senza che il giudice ne controlli regolarmente i risultati e ne apprezzi l’utilità. I due articoli del codice di rito per i quali, oltralpe, il tempo massimo per le intercettazioni è raddoppiato disciplinano la procedura applicabile ai reati compiuti dalla criminalità organizzata (omicidio commesso in associazione organizzata, tortura e atti di barbarie compiuti in associazione, stupro, sequestro, tratta di esseri umani, traffico di stupefacenti, terrorismo, riciclaggio, associazione a delinquere, ecc.). Il procedimento nostrano che oggi permette di disporre ed eseguire le intercettazioni è un vero e proprio sotto- procedimento gestito parallelamente alle investigazioni “tradizionali” operate mediante gli strumenti classici delle perquisizioni, delle ispezioni e dei sequestri. In relazione a quanto proposto dalla senatrice Stefani, si discute sulle eccezioni da prevedere per il limite di cui sopra: sicuramente la soglia di 45 giorni non può valere per reati a stampo mafioso e di terrorismo, come spiegava lo stesso Guardasigilli in sede di presentazione della riforma. La materia delle intercettazioni risente dello scontro tra vari interessi, vistosamente in conflitto. Da un lato occorre disciplinare le condizioni che legittimano la compressione del diritto alla segretezza della corrispondenza, dall’altro occorre porre dei presidi di carattere temporale per evitare che un soggetto venga attenzionato sine die; fare altrimenti significa scommettere sulla legge dei “grandi numeri”, sulla probabilità che, prima o poi, emergerà uno spunto sul quale indagare. Una logica sostanzialmente “a strascico”. La problematica, come si può evincere anche dalle numerose proposte degli ultimi tempi, costituisce da sempre motivo di attenzione e polemiche. Ed è proprio a tutela di quei diritti cari alla Costituzione che la proposta di apporre un limite massimo entro il quale il soggetto possa essere intercettato sterilizza il rischio, non così remoto, di innescare un meccanismo inquirente pigro, in attesa che il soggetto controllato prima o poi cada in fallo ed esprima - con una dizione sospetta - un concetto che possa generare la sua iscrizione al registro degli indagati. Le intercettazioni, in ogni loro tipologia - telefonica, telematica, ambientale -, indubbiamente comportano una compressione del diritto fondamentale al rispetto della vita privata e alla riservatezza delle comunicazioni. Ciò implica quindi la necessità di una rigorosa osservanza del principio di proporzionalità e una riflessione sull’obbligatorietà dell’azione penale. Sull’annunciata riforma delle intercettazioni, nessun dubbio, dunque, che una modifica in termini più garantistici sia necessaria. Ciò che però desta perplessità è l’aver annunciato una riforma su un tema così sensibile in termini estremamente generici e soprattutto appellandosi a motivi di opportunità: le intercettazioni sono veramente strumento “micidiale di delegittimazione personale e spesso politica”? Unum facere ed aliud non omittere. Nordio: “Test sui magistrati per verificare l’attitudine a certe funzioni” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 29 marzo 2024 Il Guardasigilli: “Io sono un patofobico evitante ma l’avrei fatto”. “Ilaria Salis? Sono vicino, ma la giurisdizione di un Paese è sovrana”. Domiciliari respinti per Ilaria Salis. Ministro Nordio uno “schiaffo”? “Umanamente mi dispiace e rinnovo la mia vicinanza. Ma la giurisdizione di un Paese è sovrana, e le polemiche politiche non aiutano”. Il padre Salis dice che dovrebbe chiedere scusa... “Il nostro governo ha fatto e farà il possibile per far mitigare le condizioni di detenzione. Per il resto continueremo a lavorare, preferibilmente in silenzio”. Perché ha voluto il test psicoattitudinale? “L’iniziativa è partita dalle commissioni Giustizia che hanno invitato il governo a introdurlo entro il 30 marzo, termine stabilito dalla legge delega. Il testo da noi elaborato ha avuto l’unanimità in Consiglio dei ministri”. L’Anm dice che avete aggirato il Parlamento. “Mi stupisce la grossolana assurdità. Le commissioni sono la sintesi della composizione parlamentare. Impensabile che decidano in modo difforme dalla maggioranza. L’Anm sa che è un po’ come al Csm”. Avete cambiato il testo dopo un’interlocuzione con il Quirinale? “Si dicono cose anche inesatte. L’Anm aveva criticato il testo senza conoscerlo, come quello sui giudici onorari. Preferirei maggiore prudenza nei rapporti di leale collaborazione. Sul Quirinale, noi siamo sempre rispettosamente attenti e sensibili ai messaggi che Mattarella ha più volte indirizzato sia al Parlamento che alla magistratura”. E i dissidi con il sottosegretario Mantovano? “Frottola colossale. Assoluta sintonia. Nel mio primo libro sulla giustizia nel 1997 avevo evocato anche l’esame psichiatrico. Fui chiamato dai probiviri dell’Anm a render conto delle mie idee. Naturalmente li mandai al diavolo”. Ma da pm dove ha visto la necessità di un simile test? “Credo che tutti i magistrati abbiano assistito ad atteggiamenti quantomeno eccentrici di qualche collega. Molti casi sono finiti al Csm, e potrei rievocarli, sia pure con il dolore di un ex magistrato. Altri sono stati coperti da verecondo riserbo”. Il test però non è diventato un’arma a chi dopo le “toghe rosse” ha iniziato una caccia a presunte “toghe pazze”? “Espressione impropria e bizzarra. A differenza di test psichiatrici non mira a rivelare patologie specifiche, ma l’attitudine a certe funzioni. È obbligatorio per il porto d’armi che ai magistrati è concesso per legge, sarebbe assurdo non vi fossero sottoposti”. Dica la verità, se da pm del caso Mose le avessero fatto il test Minnesota come l’avrebbe presa? “L’avevo fatto per mia curiosità qualche anno prima. L’avrei rifatto con piacere. Io sono un patofobico evitante, e temo gli esami del corpo. Su quelli della mente mi sento abbastanza tranquillo”. Il test connoterà questo governo. Non snatura l’immagine di FdI che l’ha voluta ministro? “Al contrario. Il nostro programma è incentrato sul garantismo come enfatizzazione della presunzione di innocenza e al contempo di certezza della pena. Ora aggiungiamo la garanzia di essere giudicati da magistrati equilibrati, idonei, anche psicologicamente, al loro delicatissimo ruolo”. Gratteri dice di farlo anche a politici aggiungendo alcol e narcotest. Lei si è detto disponibile. Ma a quale? “Nel 2021 Giorgia Meloni ha sottoposto tutti i suoi parlamentari al test antidroga, auspicandone l’estensione ai colleghi. Io sono pronto a farlo anche domani. Ma sull’alcol andiamoci piano. Una cosa è guidare ubriachi, una cosa è concederci uno spritz. Vengo dalla terra del prosecco. Mi fosse vietato potrei dimettermi: Churchill salvò l’Europa pasteggiando a champagne e con brandy come dopocena”. Per l’Anm il Csm è usato come “foglia di fico” perché al concorso giudicheranno i professori di psicologia. “Il dl prevede che gli psicologi siano scelti tra i cattedratici, il meglio del meglio. Che la procedura sia affidata al Csm dimostra il nostro rispetto verso l’indipendenza di questo organismo, e della magistratura in generale”. I procuratori lanciano l’allarme su abolizione dell’abuso d’ufficio e giudizio collegiale per gli arresti. Non le vengono dubbi? “Spesso i pm vedono le cose dalla loro sola prospettiva, trascurando quella del cittadino che viene imprigionato ingiustamente. Il giudice collegiale interviene già adesso, ma dopo una carcerazione spesso ritenuta infondata. Per questo i procuratori saranno più prudenti nel chiedere misure cautelari. Anche il sovraffollamento carcerario diminuirà. Lo stesso vale per l’abrogazione del reato di abuso di ufficio. Ogni anno 5.000 processi finiscono nel nulla. Il lavoro dei procuratori sarà snellito, non ostacolato”. Dopo il dl Nordio la separazione delle carriere. State andando verso il controllo del governo sul pm? “No, mai e poi mai. Il pm deve restare e resterà indipendente. Ma ciò deve comportare una limitazione dei suoi poteri sulla polizia giudiziaria, come in Gran Bretagna. Altrimenti continueremmo nell’eresia, che nessun Paese al mondo conosce, di un capo della polizia che, godendo delle guarentigie del giudice, non risponde a nessuno. Un potere senza responsabilità è inconcepibile in un ordinamento democratico”. Bruti Liberati: “I test psicologici alle toghe sono inutili e il governo lo sa. Ma Gratteri sbaglia” di Giulia Merlo Il Domani, 29 marzo 2024 L’ex procuratore capo di Milano sui test psicoattitudinali alle toghe: “Posticiparli al 2026 mostra che anche il governo non ci crede. Ma delegittimare la politica è pessimo”. I test psicoattitudinali per i magistrati hanno fatto esplodere un nuovo scontro tra toghe e politica, con toni molto alti da entrambe le parti. L’ex procuratore capo di Milano, Edmondo Bruti Liberati, li censura anche se a usarli è stato un suo ex collega, anche se “il clima è quello di una delegittimazione della magistratura, perché è chiaro che nemmeno il governo crede all’attuabilità di questi test”. Cominciamo dal principio, i test psicoattitudinali per i magistrati servirebbero? L’iniziativa dei test ha una sua suggestione, il problema è che per la professione specifica del magistrato non ne esistono di attendibili. Non lo dico io, ma lo hanno spiegato già vent’anni fa autorevoli psichiatri italiani. La ragione è semplice: nessun test può misurare ciò a cui il decreto punta, ovvero l’equilibrio del magistrato. L’equilibrio, infatti, si può valutare solo sul campo, esaminando i provvedimenti e i comportamenti del magistrato nell’esercizio delle sue funzioni. Sarebbe bello se ci fosse un metro, ma non esiste. Così il governo sta delegittimando la magistratura? Il clima è assolutamente questo, e si esprime in molte dichiarazioni di questi giorni. E questo mi sorprende: tutti dovremmo adoperarci per migliorare il funzionamento della giustizia e professionalità della magistratura. Gratteri ha risposto che allora i test andrebbero fatti anche ai politici, e non solo i test psicoattitudinali ma anche quelli per alcool e droghe... Non so se sia stata una provocazione. Constato però che, quando si è molto protagonisti sui media, rischia di sfuggire la frizione. Condivido che è in atto una delegittimazione della magistratura, ma la replica è pessima: la risposta non può essere la delegittimazione della politica, evocando addirittura i narcotest. In un paese con il 50 per cento di astensionismo, è compito di tutti promuovere la fiducia nei confronti delle istituzioni tutte, politica non meno che giustizia. Non è possibile che il governo sia davvero convinto che i test servano? Guardi, io sono convinto che anche chi ha promosso il decreto sa che è inutile e inattuabile. Lo tradisce un aspetto: si prevede che i test entrino in vigore nel 2026, nonostante il ministro Nordio abbia già detto che i test saranno sulla falsariga dello sperimentato test Minnesota. Ma allora se l’obiettivo è che i “matti” non entrino in magistratura, perché aspettare altri due anni e quindi l’assunzione di 1500 nuovi “matti”? La realtà è che nessuno crede che questa strada sia praticabile. L’obiettivo, quindi, era solo quello di creare contrapposizione? Nel merito del decreto, anche il viceministro Francesco Paolo Sisto ha dichiarato di non essere convinto che questi test siano decisivi. Non vedo allora altri obiettivi se non quello di aprire nuove polemiche con la magistratura. Eppure il ministero avrebbe molto altro da fare, penso per esempio alla messa in funzione del processo penale telematico che continua ad avere enormi problemi operativi. Il ministro ha detto che non c’è alcuna ingerenza dell’esecutivo, perché i test saranno gestiti dal Csm. La rassicura? Il problema non è chi gestisce lo strumento, ma che lo strumento è insensato. E lo è sia che lo gestisca il Csm, sia che lo faccia il ministero. Inoltre, voglio vedere quale commissario si sentirebbe di escludere un candidato sulla base di un test psicoattitudinale che non dà risposte oggettive, dopo che ha superato una selezione così dura come quella delle prove scritte e orali della magistratura. Questione parallela è quella delle valutazioni dei magistrati, le cosiddette “pagelle”. La magistratura associata le ha criticate, lei cosa ne pensa? Io sono da sempre favorevole, ma solo se queste “pagelle” servono a migliorare le valutazioni in corso di carriera sulla qualità complessiva dell’esercizio della funzione. Ma quando sento dire dall’onorevole Enrico Costa che dentro il fascicolo non vanno presi solo procedimenti a campione ma tutti, mi viene da sorridere perché è fuori dalla realtà. Se noi mettessimo quattro anni di procedimenti in un file, il risultato è che nessuno riuscirebbe a controllarli tutti. Inoltre, penso che i numeri delle revisioni delle sentenze non possano essere un criterio: il sistema delle impugnazioni, infatti, si fonda sul presupposto della possibilità che ci siano errori, dato che accertare la verità giudiziaria è un processo molto difficile. Molto più rilevante, invece, sarebbe valutare altri aspetti della professionalità dei magistrati: la loro capacità nel relazionarsi con le parti e gli avvocati, ma anche il loro narcisismo, per esempio. Gratteri: “Sulla giustizia stiamo diventando come l’Africa del Nord” di Dario Del Porto La Repubblica, 29 marzo 2024 Il procuratore di Napoli: “Se nelle fiction c’è solo violenza è inutile poi andare in televisione a parlare di legalità. Non faccio parte di correnti, mi sono costruito una vita libera e posso dire quello che penso”. “Dobbiamo cercare di essere più seri, più efficienti ed efficaci, perché purtroppo ormai da decenni c’è un declino in Italia. Stiamo diventando sempre più l’Africa del Nord, la verità è che stiamo diventando molto marginali anche sul piano europeo”. Ai microfoni del talk “Uno, nessuno e 100 Milan” su Radio24, il procuratore Nicola Gratteri torna ad affrontare i temi più caldi del dibattito giudiziario, dalla proposta del governo di introdurre i test psico-attitudinali per i magistrati alle fiction televisive che parlano di mafia, fino alla polemica sull’invito rivolto dall’Università Federico II al cantante Geolier. Gratteri è preoccupato per la situazione degli uffici giudiziari. “Noi avevamo - sottolinea - la polizia giudiziaria leader nel mondo per contrasto, tecniche d’indagine e per tecnologia utilizzata. Ora paesi che venivano da noi a scuola guida ci mandano migliaia di file audio perché sono riusciti a bucare le piattaforme criptate dei narcos del mondo e noi no”. Sui test, Gratteri rimarca: “Non ho detto di non farli, ho detto che, se è così importante farli per il buon funzionamento della Pubblica amministrazione, facciamoli anche per chi ha responsabilità più alte dei magistrati”. Poi sottolinea: “Rispondo per me, non faccio parte di nessuna corrente, mi sono costruito una vita libera e posso permettermi il lusso di dire quello che penso nei confronti di chiunque. Non rispondo per gli altri”. Afferma poi il procuratore: “Se ci preoccupiamo della salute psichica dei magistrati, preoccupiamoci anche di chi sta sopra o ha responsabilità enormi. Siamo disponibili anche a controlli periodici ma facciamolo per tutti. Quello che posso dire è che si sta discutendo di tutto tranne che di ciò che serve per velocizzare i processi e rendere qualitativamente migliore il sistema processuale penale e detentivo. Di ciò che serve per rendere più efficiente e performante il sistema detentivo non si sta più discutendo, soprattutto dalla Cartabia in poi”. Sollecitato dai conduttori Gratteri ha ricordato le sue proposte per rendere migliori i processi: “A costo zero si potrebbe fare il tribunale distrettuale o rivedere le piante organiche dei magistrati, ridurre più del 50% i magistrati fuori ruolo che anziché scrivere sentenze sono nei ministeri a fare i consulenti. Al ministero degli Esteri - ha concluso - anziché un magistrato si potrebbe prendere un professore associato di Diritto Internazionale o Diritto Europeo”. Sulle fiction che parlano di mafia, Gratteri argomenta: “Se in un’ora c’è solo violenza e non ci sono cinque minuti in cui si vede un poliziotto, un magistrato, un insegnante, mi spiegate quel è il messaggio? E poi se il giorno dopo vedo il ragazzino di scuola che si veste o si muove o riporta le frasi del killer visto la sera prima in tv è di quello che mi devo preoccupare. Poi è inutile strapparsi i capelli - la riflessione di Gratteri - andare in tv a fare i moralisti a parlare di legalità, di Falcone e Borsellino se poi avalliamo certi prodotti cinematografici”. Quanto al caso Geolier Gratteri ribadisce: “La storia è stata questa: due o tre sere prima andando in una periferia di Napoli un genitore mi ha chiesto cosa ne pensassi dell’università che invita un rapper che si fa vedere nei video su Tik Tok con pistole e mitra, e ho detto il peggio che si possa pensare, mi spiace per l’università che manda messaggi negativi perché uno che si fa vedere con il mitra mentre canta a me pare un messaggio negativo. Poi i giornalisti hanno fatto il nome di Geolier ma io non sono contro nessuno...”. E sull’invito del rettore della Federico II Matteo Lorito, il procuratore rimarca: “Io non do legittimazione, decido io quando andare o non andare in un posto e nessuno mi invita attraverso un articolo di giornale. Ho 66 anni e per caso faccio anche il procuratore di Napoli”. Costa: “La politica utilizza la giustizia per fini elettorali” di Vincenzo Rubano La Repubblica, 29 marzo 2024 Il parlamentare di Azione alla giornata di studio alla Federico II di Napoli. “Mai più conferenze stampa dai toni giustizialisti dei procuratori. La separazione delle carriere non risolverà tutti i problemi della giustizia ma chiarirà bene i ruoli dei pubblici ministeri e dei giudici”. Il parlamentare di Azione Enrico Costa, ospite alla giornata di studio organizzata dal professore Francesco Forzati e dal Dipartimento di Giurisprudenza della Federico II dal tema “La separazione delle carriere: superamento di un dogma o attacco alla separazione dei poteri?”, è un fiume in piena. “La separazione delle carriere - ha ribadito durante l’incontro al quale hanno preso parte anche il presidente della Camera Penale di Napoli Marco Campora, i professori Stefano Prezioni e Carlo Longobardo e i magistrati Giuseppe Sassone e Gaetano Bono - chiarirà bene il ruolo del pubblico ministero che rappresenta una sorta di “avvocato” dell’accusa e che le sentenze vengono emesse dai giudici. Quando i cittadini vedranno un pubblico ministero annunciare in conferenza stampa degli arresti sapranno che si tratta solo di contestazioni che potranno essere ribaltate da un giudice”. Poi bacchetta la politica. “È responsabile perché ha sempre utilizzato la giustizia per i suoi fini elettorali e propagandistici. Utilizza la giustizia come scorciatoia, come clava per colpire l’avversario politico. Questo è avvenuto anche a Bari”. E non risparmia critiche nei confronti del governatore della Puglia, l’ex magistrato Michele Emiliano. “Io penso che i magistrati debbano fare i magistrati, che le porte girevoli non ci debbano essere. Si proclamano tutti contro le porte girevoli ma poi, quando c’è l’utilità elettorale, vengono candidati i magistrati dagli stessi partiti che propongono le leggi contro le porte girevoli”. I test psicoattitudinali per i magistrati? “Solo fumo negli occhi, sono solo propaganda. È necessario avere una seria valutazione sull’esito dell’attività dei magistrati. In molti casi abbiamo inchieste flop sulle quali nessuno paga. Paga solo lo Stato per i risarcimenti. Su questo il governo non ha fatto nulla”. E sulle ultime dichiarazioni del procuratore Gratteri ironizza. “Apprezzo che ci sia qualcuno che ogni norma che fa il parlamento la commenta… anche quelle in itinere. Ma riusciremo ad avere un giorno una separazione: che la politica non commenti le sentenze e i magistrati non commentino le norme?”. A difendere le toghe è toccato al magistrato Gaetano Bono, il più giovane sostituto procuratore generale d’Italia, attualmente in servizio a Caltanissetta, autore del libro “Meglio Separate”. “Purtroppo - ha spiegato Bono - devo registrare che, nonostante le dichiarazioni dei proponenti dicano il contrario, gli attuali disegni di legge, porteranno inevitabilmente alla limitazione dell’autonomia della magistratura, alla sottoposizione del Pm all’Esecutivo e all’annichilimento della sua cultura della giurisdizione. Ecco perché, tenendo anche conto del fatto che la separazione delle carriere non è la panacea per i mali della giustizia e non c’è nemmeno urgenza di intervenire, si possono e si devono ponderare al meglio i connotati dell’eventuale riforma”. A fargli eco il magistrato Giuseppe Sassone, sostituto procuratore generale in Cassazione. “Di fatto la separazione delle carriere esiste già dal 2006. I magistrati che cambiano funzione sono lo 0,6%. Mi domando a cosa serve questa riforma. È proprio necessaria?”. Torino. Detenuto suicida alle Vallette, la denuncia dei penalisti di Angela Stella L’Unità, 29 marzo 2024 La Camera Penale del Piemonte Occidentale e Valle d’Aosta “Vittorio Chiusano” ha presentato un esposto alla Procura della Repubblica del Tribunale di Torino in merito al suicidio in carcere avvenuto lo scorso 24 marzo di Alvaro Fabricio Nunez Sanchez, un 31enne ecuadoriano. L’uomo “non doveva essere in carcere perché, già a fine novembre 2023 avrebbe dovuto, su ordine di un Magistrato, essere collocato in una Rems a causa delle condizioni psichiatriche che hanno contribuito al suo gesto anticonservativo”. Il Gip il 27 novembre 2023 applicava la misura detentiva in una Rems. Nell’attesa di un posto disponibile disponeva l’immediata collocazione provvisoria in ATSM - Articolazione Tutela Salute Mentale. “Orbene - scrivono i legali - dal novembre 2023, non ha mai trovato applicazione l’ordinanza del gip”. Pertanto la situazione “impone di verificare la motivazione per le quali non sia stata data esecuzione al provvedimento di collocazione in REMS e quindi se siano ascrivibili a chi aveva l’obbligo di adempiere condotte di natura omissiva penalmente rilevanti”. Inoltre occorre “accertare se e quali condotte abbiano determinato la mancanza di disponibilità di posti nelle strutture idonee” soprattutto perché “pare a chi scrive che le condotte omissive che hanno avuto incidenza sulla permanenza del sig. Nunez Sanchez in carcere potrebbero aver rivestito un profilo concausale nel suicidio di persona con gravi disturbi mentali”. Parma. È al 41 bis: finisce in ospedale ma nessuno dà notizie alla famiglia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 marzo 2024 Una storia di presunte violazioni dei diritti umani e del trattamento dignitoso dei detenuti al 41 bis emerge dal carcere di Parma, con particolare riferimento al detenuto Leone Soriano. Le denunce vengono mosse dall’avvocato Diego Brancia, difensore di Soriano, e dalla figlia del detenuto, che cercano disperatamente risposte sulla sua salute, in condizioni critiche e ricoverato d’urgenza in ospedale. Hanno ricevuto solo un telegramma da parte di Soriano in cui ci diceva che ha avuto una brutta caduta e ha rischiato grosso e che ora non sa se dovrà tenere l’ossigeno per sempre. Ma niente più, non riescono ad ottenere una visita per poter vedere come sono realmente le sue condizioni. Leone Soriano, coinvolto nel processo “Rinascita Scott”, poi riunito per lui e altri imputati al processo denominato operazione “Nemea”, è stato condannato a vent’anni di reclusione per presunte attività connesse alla criminalità organizzata in provincia di Vibo Valentia. Ora è in attesa in attesa della motivazione della sentenza di appello (Corte di Appello di Catanzaro). Di recente il Tribunale di Sorveglianza di Roma ha confermato la proposta di proroga della sottoposizione al 41 bis rigettando il reclamo difensivo. La situazione di Soriano diventa drammatica il 20 marzo, quando la moglie viene informata del ricovero d’urgenza del marito presso l’Ospedale Universitario di Parma. La donna, però, non riceve alcuna spiegazione sulle ragioni del ricovero né sulle sue condizioni di salute. Anche l’avvocato Brancia si scontra con un muro di silenzio da parte delle autorità carcerarie, che negano informazioni sulla situazione del suo assistito. Le richieste di accesso e di informazioni da parte della famiglia e del legale di Leone si scontrano con una serie di impedimenti burocratici e rinvii da parte delle autorità penitenziarie. Nonostante le innumerevoli pec inviate, né i familiari né l’avvocato ricevono alcuna notizia sulle condizioni di salute del detenuto. La figlia di Soriano lamenta che le comunicazioni si limitino a notificare il ricovero d’urgenza, senza fornire alcun aggiornamento successivo. La situazione si complica ulteriormente quando la moglie di Leone si reca al carcere di Parma per ottenere l’autorizzazione a un colloquio straordinario con il marito ricoverato, ma si scontra con ulteriori ostacoli burocratici e mancanza di collaborazione da parte delle autorità penitenziarie. Nonostante l’autorizzazione concessa dal giudice per un colloquio straordinario, l’accesso le viene negato. “La casa circondariale - spiega a Il Dubbio Maria, la figlia di Soriano - le dice di non poterla autorizzare al colloquio perché manca l’autorizzazione del Dap”. L’avvocato Diego Brancia sottolinea che Soriano è “da tempo gravemente ammalato e le patologie metaboliche e cardio- vascolari che lo affliggono sono, in parte, connesse agli abusi di sostanza stupefacente del tipo cocaina durante la pregressa libertà”. L’avvocato denuncia un “trattamento inumano” che i familiari dei detenuti al 41 bis sovente devono tollerare, sia per le limitazioni ai colloqui, sia per la chiusura informativa che le direzioni delle Case circondariali adottano in maniera del tutto illegittima. La mancanza di trasparenza e di comunicazione da parte delle autorità carcerarie e sanitarie alimenta l’ansia e la disperazione della famiglia di Soriano, che teme il peggio per le sue condizioni di salute già precarie. La situazione di Soriano evidenzia una serie di criticità nel sistema carcerario italiano, con particolare riferimento al trattamento dei detenuti sottoposti al 41 bis. Le denunce di violazioni dei diritti umani, di mancanza di trasparenza e di comunicazione appaiono gravi e richiederebbero un’azione risolutiva. Nel caso specifico, emerge anche l’antico problema del carcere di Parma, ovvero quello di avere un centro clinico problematico, situazione più volte segnalata nel corso degli anni. Milano. Caso Pifferi, la difesa: “Alessia aveva un handicap certificato dalla scuola” di Simona Musco Il Dubbio, 29 marzo 2024 Chiesta un’integrazione della perizia super partes secondo cui la donna, che ha lasciato morire di stenti la figlia di soli 18 mesi, sarebbe capace di intendere e di volere. “Dalle carte di tutto il percorso scolastico di Alessia Pifferi sono evidenti tutti i problemi che aveva a scuola. Problemi seri, ovviamente, che si desumono dalle pagelle e da quanto scritto dagli insegnanti. Visto che Pirfo (Elvezio, psichiatra forense e perito super partes nominato dal Tribunale di Milano, ndr) aveva detto che se ci fossero stati i documenti lui avrebbe potuto e dovuto prenderli in considerazione, io ho chiesto una integrazione di perizia”. Alessia Pontenani, avvocato della donna a processo per aver lasciato morire di stenti la figlia di soli 18 mesi, aveva promesso di poter dimostrare quanto in aula pm, familiari e perito hanno negato. Ovvero che la sua assistita - che per l’accusa è perfettamente capace di intendere e di volere, così come lo era quando lasciò la figlia sola in casa per giorni, provocandone la morte -, è tutt’altro che una persona presente a se stessa. Pontenani ha recuperato le pagelle e gli appunti degli insegnanti che hanno seguito Pifferi, dalle elementari al primo anno di scuole superiori. E dai documenti depositati ieri in Tribunale arriva la conferma che la donna è stata seguita da un’insegnante di sostegno, durante tutta la durata del percorso scolastico. Sostegno infine negato durante il primo anno di scuole superiori. In quei documenti, le insegnanti hanno scritto, nero su bianco, come l’alunna fosse portatrice di handicap, una difficoltà dimostrata anche dalle continue insufficienze e dalle assenze, che le sono costate anche la bocciatura. L’esatto contrario di quanto affermato da Pirfo nella sua perizia, che pur riconoscendo a Pifferi un disturbo di alessitimia e, dunque, una “mancanza di capacità empatica” e una forma di “dipendenza”, ha sostenuto di trovarsi di fronte ad una donna dalla capacità intellettiva “nella normalità” e, dunque, perfettamente capace di intendere e di volere al momento del fatto. Per lo psichiatra, ci sono tratti depressivi, ma si tratta di elementi psicopatologici che “non raggiungono - a suo dire - quel livello di qualità clinica necessario per diagnosticare un disturbo di personalità”. La perizia, aveva commentato Pontenani dopo l’udienza dello scorso 4 marzo, “delinea per 120 pagine un quadro tragico. Nelle ultime pagine, però, la signora diventa incredibilmente sana. Questo mi lascia un po’ basita”. A sostenere la disabilità intellettiva della donna non è stata solo la difesa. Le prime a certificarlo sono state le psicologhe del carcere, che hanno sottoposto la donna al test di Wais, in base al quale avrebbe un Quoziente intellettivo pari a 40, quello di una bambina. Un test psicodiagnostico fortemente contestato dall’accusa e che secondo l’analisi di Pirfo risulterebbe “non appropriato” e “parziale”, mancando “l’analisi qualitativa” delle risposte. Quel test è però costato caro a quattro psicologhe, ora indagate dal pm Francesco De Tommasi per falso e favoreggiamento, con l’accusa di aver “manipolato” la donna per farla passare come incapace di comprendere le proprie azioni. Un’accusa che il pm, lo stesso che chiede la condanna di Pifferi, ha rivolto anche all’avvocato Pontenani, di fatto scatenando la reazione dell’intera avvocatura milanese. D’accordo con le psicologhe è anche il parroco che ha celebrato il matrimonio di Pifferi, che ha scritto una lettera in sua difesa - depositata nel corso del processo -, nella quale la descrive come una bambina fragile e isolata. E c’è poi una consulenza di parte, a firma di Marco Garbarini e Alessandra Bramante, secondo la quale Pifferi avrebbe una “menomazione del funzionamento che da sempre ha evidenziato nella sua vita”, tant’è che avrebbe risposto ai test a cui è stata sottoposta “come un disco rotto”. Al punto da affermare che “se le sue risposte fossero simulate sarebbero quelle di una persona che ha un dottorato in neuroscienze”. I nuovi documenti depositati da Pontenani, ora, potrebbero avvalorare questa tesi, confermando elementi finora tenacemente negati dalla pubblica accusa. Ma non solo: Pontenani ha scoperto che Pifferi frequentava un istituto professionale per diventare operatrice socio sanitaria, con sbocchi lavorativi nelle Rems. Una circostanza che offre una risposta alla contestazione del pm, secondo cui Pifferi non avrebbe potuto sapere, in condizioni di disabilità intellettiva, cosa fosse una residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza, consapevolezza che invece aveva dimostrato di fronte ai periti che stavano valutando le sue condizioni. “Nelle carte dell’esame di terza media - spiega l’avvocato - i docenti scrivono addirittura che Pifferi è portatrice di handicap”. E nella valutazione di storia gli insegnanti appuntano le sue “difficoltà con il susseguirsi degli eventi”. Una incapacità di apprendimento che per la difesa è legata al deficit cognitivo di cui sarebbe portatrice. Insomma, come aveva già spiegato in aula dopo la testimonianza di Pirfo, per Pontenani il processo è tutt’altro che finito. E l’ergastolo - la pena che il pm invoca sin dall’inizio e che sicuramente chiederà ad aprile con la sua requisitoria - non sarebbe così scontato. Pontenani sta ora cercando un altro documento, quello fondamentale: si tratta del fascicolo sanitario originale di Pifferi, originariamente in possesso del reparto di neuropsichiatria infantile. Fascicolo che sarebbe stato però trasferito nell’archivio centrale del Policlinico. Un certificato fondamentale per dimostrare il suo disturbo, che secondo i consulenti della difesa avrebbe origine sin dall’infanzia. Torino. Allarme giustizia minorile: “Senza posti in comunità e sostegno psicologico” di Massimiliano Nerozzi Corriere Torino, 29 marzo 2024 Il Procuratore dei minori: “Il carcere resti l’extrema ratio” E il direttore pensa a un Consiglio comunale al Ferrante Aporti. Parlando delle “liste infinite per i ragazzi che chiedono un intervento psicologico” e, prima, della mancanza di posti nelle comunità, il Procuratore dei minori, Emma Avezzù, sintetizza la scarsità di risorse come meglio non si può: “Siamo alla frutta”. Succede infatti - racconta - che ci siano “ragazzi al centro di prima accoglienza, per i quali il giudice abbia disposto il trasferimento in comunità, che restano in attesa per giorni, perché non ci sono posti”. Lo spiega durante il dibattito organizzato dall’associazione italiana giovani avvocati (Aiga) alla fondazione “Fulvio Croce”, per discutere della giustizia minorile alla luce del decreto Caivano. Non tutte le comunità paiono però in grado di garantire il loro ruolo nel delicato percorso rieducativo: “In alcune non vediamo l’investimento educativo - aggiunge Avezzù - come, per esempio, l’inserimento in attività sportive di gruppo”. E di ragazzi da aiutare, ce ne sarebbero: “Sono aumentate le segnalazioni per violazione dell’obbligo scolastico - ragiona il Procuratore - un fenomeno dietro al quale ci sono pure patologie di fobia, cresciute dopo la pandemia”. Dopodiché, il decreto Caivano - considerando quale fu l’innesco - dedica parecchia attenzione agli interventi repressivi”, con un conseguente aumento delle possibilità di “custodia cautelare”; anche nei casi di “resistenza e violenza a pubblico ufficiale”. Intervento non infondato, secondo Avezzù: “Ci sono stati fatti di resistenza gravi, e allora non penso sia una modifica così negativa, anche se la custodia cautelare e l’istituto minorile devono restare l’extrema ratio”. Anche il resto del panorama resta desolante, per il piglio dei giovanissimi: “C’è chi fa il video in cui brucia il 415 bis (l’avviso di fine indagini, ndr), chi si filma tra le grate di un cancello, fingendo di essere arrivato in carcere”. E poi, “c’è un fenomeno sempre più precoce: ragazzine, sui 12-13 anni, che si fotografano in pose intime, e le mandano al fidanzatino del momento. Solo che poi, finito il rapporto, capita che il ragazzino mandi in giro quelle immagini, per ripicca”. Tratteggia la situazione anche Antonio Pappalardo, dirigente del Centro per la giustizia minorile di Piemonte, Valle d’aosta e Liguria: “C’è un aumento qualitativo, non quantitativo, dell’entità dei reati, perché è in crescita la componente violenta e aggressiva, nei confronti delle vittime, anche contro le forze dell’ordine”. Pure per questo si ritrova con un compito complicato Giuseppe Carro, da ottobre direttore dell’istituto di penale per i minorenni: “Siamo in un luogo in cui dobbiamo rieducare e punire - premette, con un background da avvocato che farà comodo - attraverso tre parole: sofferenza, riflessione, revisione”. Nell’istituto di Torino ci sono una cinquantina di ragazzi, “l’8090 per cento dei quali sottoposto a custodia cautelare”. Morale: “Siamo un pronto soccorso educativo, per giovani che vedono il primo banco di scuola in carcere”. Visitato ieri da una delegazione dell’aiga, guidata dal presidente nazionale Carlo Foglieni e da quello della sezione torinese, Raffaella Pratticò: “Il tema di cui abbiamo parlato con i ragazzi - racconta Foglieni - è quello legato al futuro: il direttore vorrebbe realizzare un piccolo teatro, con un legame all’esterno. Anche con l’idea di far svolgere un consiglio comunale all’interno del carcere”. Come dire: là fuori, c’è un mondo che vi aspetta. Torino. Progetto Ue. “Capacità e competenza come alternative al carcere” di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 29 marzo 2024 Fra’ Beppe Giunti, francescano conventuale della comunità Madonna della Guardia di Torino, da alcuni anni opera come volontario presso le carceri di Alessandria e di Torino, nella sezione dei collaboratori di giustizia. È appena tornato dalla Bulgaria dove ha partecipato al viaggio di studio sul tema “Capacità e competenza come alternative al carcere” promosso dal progetto cofinanziato dalla Unione Europea Escape Erasmus Ka2. “Sono stato inserito nella componente italiana del progetto” spiega fra’ Giunti “Tra i partecipanti la Uisp di Alessandria; Silta ong finlandese con sede a Tampere; Orby agency impresa sociale bulgara di Sofia e la fondazione italo-bulgara Courage con sede a Plovdiv”. Si trattava del terzo viaggio di scambio, dopo Finlandia e in Italia. “La realtà carceraria che abbiamo visitato presenta due aspetti apparentemente contraddittori dal nostro punto di vista. Gli edifici sono dell’epoca del regime comunista, con torrette per le sentinelle, filo spinato, cani da guardia di notte, vigilanza armata e severa” prosegue fra’ Beppe che evidenzia come però le proposte offerte ai detenuti siano molteplici e stimolanti. “La vita è quasi normale, ci sono uno spaccio dove si possono acquistare generi di prima necessità, sono in atto piani rieducativi che collegano scuola e lavoro, come avviene anche in alcune carceri italiane. Laboratorio di falegnameria, biblioteca, scuola di teatro e anche un gruppo di alcolisti anonimi, il cui riferimento di questa realtà ha sede a Roma. Abbiamo incontrato numerosi operatori e volontari, tra i quali un animatore di yoga. Significativa la presenza della chiesa ortodossa, non cappelline all’interno della struttura, ma costruite nel verde del giardino. Ho potuto conoscere un sacerdote, entusiasta di incontrare un ‘collega’, con esperienza analoga che mi ha regalato una bellissima icona e una corona del rosario in stile ortodosso”. Il viaggio è stata anche l’occasione di conoscere la storia e l’arte della Bulgaria. “Ci siamo spostati in auto solo per le lunghe distanze. In particolare abbiamo ammirato il centro storico della città di Plovdiv, un’incredibile stratificazione di storia romana, di arte e fede cristiana ortodossa e anche della Macedonia del Nord (chiese con dipinti straordinari), di occupazione ottomano-turca (palazzi, mura, moschee), di edilizia stile regime comunismo reale con periferie anonime”. Uno scambio culturale che, secondo il francescano, aiuta a consolidare alcuni principi fondamentali sulla detenzione. “Senza dubbio la necessità e l’importanza di un progetto globale orientato alla rieducazione dei condannati. D’altra parte, è quanto viene affermato in modo esplicito nell’articolo 27 della nostra Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. La giustizia vendicativa o soltanto punitiva è un danno per la società e non garantisce affatto la sicurezza, della quale tanto si parla. Ogni euro speso per la scuola, per la formazione, non è in realtà una spesa, ma è un investimento”. L’esempio più evidente conclude fra’ Giunti è quello del Polo Universitario per detenuti, il primo aperto nel carcere di Torino nel 1998. “La recidiva dei ristretti che hanno conseguito il titolo di studio universitario è pari a zero! Vuol dire che non costano più nulla alla collettività, ma che tornano ad essere cittadini attivi come tutti”. Bari. Made in carcere. Per Pasqua i ragazzi del minorile cuciono il futuro di Nicola Lavacca Famiglia Cristiana, 29 marzo 2024 I detenuti del carcere minorile realizzano “Il grembiule del servizio”: “E’ stato un intenso percorso di riflessione e di lavoro collettivo, permeato dalle parole del vescovo Tonino Bello e dalla sua interpretazione della sera del Giovedì Santo”, spiega il cappellano don Even Ninivaggi. I ragazzi del carcere minorile “Fornelli” di Bari vivono la Quaresima e la Santa Pasqua nella speranza di un futuro migliore. Dopo il primo laboratorio “Il profumo dell’amore”, incentrato sull’offerta delle essenze per il sacro crisma, e il secondo dal titolo “Il pane del perdono” con la realizzazione artigianale delle ostie, quest’anno hanno intessuto manualmente “Il grembiule del servizio”. Un lavoro certosino, fatto di piccoli ricami e cuciture, oltre ad un disegno colorato, che incarna l’essenza delle tre grandi dimensioni umane e spirituali che aiutano tutti a ritessere la trama sgranata della vita: amore, perdono e servizio. Per i giovani reclusi, che affrontano un cammino di vita difficile tra lacrime e sorrisi, tra errori e attese, la Settimana Santa diventa il simbolo della redenzione. “Con la loro creatività, a volte nascosta, hanno realizzato anche quest’anno un’opera-segno per ritrovare la strada smarrita e sentirsi più vicini non solo a Dio, ma anche alla comunità ecclesiale. Il grembiule bianco, sul quale è stata dipinta una croce luminosa e un catino con l’acqua, sarà offerto da alcuni dei ragazzi improvvisatisi artigiani, durante la Messa Crismale del Giovedì Santo celebrata nella cattedrale di Bari. Per ognuna delle 126 parrocchie della diocesi, il manufatto verrà poi usato nella messa in Coena Domini, al momento del rito della lavanda dei piedi”, sottolinea monsignor Giuseppe Satriano, arcivescovo di Bari-Bitonto. “Sono piccoli ma importanti segni che dimostrano come il mettersi in gioco valga più di tante parole. Così, si fa strada il grande sogno di poter avere fuori dal carcere una seconda possibilità per andare avanti. Uno dei ragazzi, che ha creato il grembiule usando anche i pennelli per il simbolico dipinto”, dice. “È stato un intenso percorso di riflessione e di lavoro collettivo, permeato dalle parole del vescovo Tonino Bello e dalla sua interpretazione della sera del Giovedì Santo. Leggendo i suoi scritti, i ragazzi hanno chiesto di voler realizzare per tutte le parrocchie dell’arcidiocesi di Bari-Bitonto questo “segno del potere perché si comprenda il potere di questo segno, per una chiesa del grembiule che si metta al servizio di tutti, perché si fida di tutti”, come recitava spesso don Tonino” dichiara don Even Ninivaggi, cappellano del carcere minorile. Roma. “Il carcere, il male altrove”, il 6 aprile presentazione del libro di Cavino comune.roma.it, 29 marzo 2024 Sabato 6 aprile, a Ostia, sarà presentato “Il Carcere, Il Male Altrove. L’evoluzione del modello rieducativo tra Giustizia riparativa e il coinvolgimento delle realtà locali, il nuovo libro di Gianluca Cavino, filosofo e pedagogista sociale, edito da Altramondo. Appuntamento alle 17 in Via Franco Mezzadra. La presentazione sarà a cura della giornalista Silvia Grassi, alla presenza di Barbara Funari, assessora alle Politiche Sociali e alla Salute, che ha scritto la prefazione. “Dobbiamo frequentare il mondo carcerario, fare in modo che quei confini non vengano percepiti dai detenuti come una gabbia e da chi è fuori come una sicurezza. È compito di ognuno di noi lavorare sulla prevenzione della devianza e, come invita Papa Francesco ‘dobbiamo essere Ponti tra carcere e società civile ‘, attivare progetti che uniscano sicurezza e umanità giustizia e speranza” sostiene l’assessora alle Politiche Sociali e alla Salute Barbara Funari. “Si tratta di un libro - spiega l’autore Gianluca Cavino - che ha l’obiettivo di stimolare una riflessione sul sistema giustizia e su come il carcere rappresenti un “non luogo”: uno spazio in cui non contano le identità personali e che identifica il male lontano da noi”. Una ricerca completa che presenta anche alcuni dati inediti raccolti in oltre 500 primi colloqui effettuati dall’autore nel carcere di Regina Coeli. Sovraffollamento, difficoltà di reinserimento sociale, solitudine, rappresentano il cocktail perfetto per l’aumento dei suicidi in carcere. Giustizia riparativa e mediazione penale potrebbero invece offrire alla nostra società un nuovo modello di gestione dei conflitti. Nel libro è presente anche una trattazione sulle figure professionali che operano dentro e fuori il carcere, evidenziando le difficoltà di risposte per la mancanza di strumenti e la mortificazione di alcune professioni, soprattutto educative, che stanno scomparendo. Firenze. Amleto a Sollicciano. I detenuti attori e quel dilemma eterno di Maurizio Costanzo La Nazione, 29 marzo 2024 Il 2 aprile al Cantiere Florida proiezione del documentario ‘Essere o non essere’. Seguirà l’incontro di approfondimento “Dalla parte di chi guarda”. Una giornata dedicata al lavoro della Compagnia di Sollicciano, formazione composta da attori detenuti della Casa Circondariale di Firenze, e a quello di Krill Teatro, che da anni con loro porta avanti progetti e realizza spettacoli. Martedì 2 aprile Materia Prima Festival, l’evento dedicato al panorama teatrale contemporaneo a cura di Murmuris, dedica il palcoscenico del Teatro Cantiere Florida di Firenze (via Pisana 111R) a un tema sempre attuale: quello del carcere. Si parte alle 19 con la proiezione del documentario “Essere o non essere, Amleto”: un gruppo di attori detenuti sta provando, a poche settimane dallo spettacolo, la celebre tragedia di Shakespeare. L’interprete principale comunica all’improvviso che intende smettere: anche lui come Amleto ha perso il padre da pochi mesi ed è ossessionato dai demoni. Il dramma si mescola alla realtà in una riscrittura dove la sfida è portare la bellezza della poesia e della lingua shakespeariana nella realtà chiusa della prigione, raccontando allo stesso tempo un dramma che esiste e di cui gli istituti penitenziari italiani godono purtroppo un triste primato: quello del suicidio in carcere. Seguirà l’incontro “Dalla parte di chi guarda”, con gli attori della Compagnia di Sollicciano, gli educatori e la regista Elisa Taddei. Materia Prima è sostenuta da Mic - Ministero della Cultura, Regione Toscana, Comune di Firenze, Fondazione CR Firenze, Unicoop Firenze (info e ingressi: www.materiaprimafestival.com). “Dopo aver lavorato a una riscrittura in forma di commedia del Don Chisciotte di Cervantes, in cui un detenuto thailandese come Don Chisciotte perdeva il senno e cominciava a vedere, nella miseria del carcere, una realtà immaginifica e fantastica, abbiamo pensato di riprendere la tematica della follia e di declinarla all’interno della realtà carceraria, mettendo al centro uno dei personaggi più interessanti, moderni e controversi del teatro classico, Amleto - spiega Elisa Taddei - Il nostro Amleto è un giovane detenuto di origine africana che ha perso il padre da pochi mesi e mostra i segni di un profondo disagio nel modo in cui si relaziona agli altri. Il disagio psichico dopo il covid è aumentato nelle carceri italiane, lo dicono le statistiche riguardo all’uso massiccio di psicofarmaci. Nel tratteggiare alcuni atteggiamenti di Amleto mi sono ispirata a un ragazzo conosciuto a Sollicciano anni fa”. Milano. “Musica e Parole”, oltre il carcere giornaledellamusica.it, 29 marzo 2024 L’11 aprile la Casa di Reclusione di Opera ospita il Doré Quartet per la conversazione-concerto ideata da Le Dimore del Quartetto e Associazione Culturale Cisproject. Giovedì 11 aprile la Casa di Reclusione di Opera ospita per il terzo anno consecutivo “Musica e Parole”, il format nato dalla collaborazione tra Le Dimore del Quartetto e l’Associazione Culturale Cisproject - progetti sviluppo e promozione umana. Il progetto, realizzato con il sostegno di Itsright Società Benefit, verrà proposto alle ore 20.00 nell’Auditorium della Casa di Reclusione di Milano-Opera. L’evento è aperto al pubblico e sarà la restituzione del lavoro sviluppato da volontari, ex-detenuti e persone recluse nell’ambito del progetto “Leggere Libera-Mente”, a cura dell’Associazione Culturale Cisproject. Pensieri ed emozioni sul tema del Sogno dialogheranno con brani musicali, dal repertorio cameristico scelto e interpretato per l’occasione dal Doré Quartet, nato nel 2021 dall’unione di giovani talenti provenienti da Italia e Spagna: Ilaria Taioli (violino), Samuele Di Gioia (violino), José Manuel Muriel López (viola) e Caterina Vannoni (violoncello). Una libera associazione fra parole e musica capace di evocare immagini e atmosfere da condividere con il pubblico. La ricerca sulla parola Sogno - come i lavori su Bellezza e Speranza delle precedenti edizioni - è strettamente collegata alla vita. Il sogno, come la musica, sono vita. Capitoli cruciali per chi vuole ricominciare. Questo concerto rientra nel progetto di sensibilizzazione sociale MetaFour, ideato da Le Dimore del Quartetto, sostenuto e promosso da Itsright Società Benefit, che utilizza la metafora del quartetto d’archi per promuovere il benessere delle persone, l’educazione, l’inclusione sociale attraverso la musica e i suoi valori. Un dialogo diretto tra i musicisti e i partecipanti volto a sensibilizzare studenti, giovani, adulti e persone fragili sull’importanza della collaborazione, dell’ascolto e dei valori fondamentali che guidano una società civile. Il progetto rientra anche nella progettualità di Cisproject, che ha tra i suoi obiettivi il reinserimento delle persone detenute ed ex detenute, nell’ambito delle attività ponte fuori- dentro il carcere per favorire il confronto tra le persone, l’apertura a nuovi scenari di pensiero nonché il superamento dei pregiudizi, di chi sta fuori verso chi sta dentro, e di chi sta dentro verso chi sta fuori. Per informazioni: www.ledimoredelquartetto.eu. Giustizia riparativa, il valore del linguaggio di Michela Di Biase* Il Dubbio, 29 marzo 2024 Franco Cordero scriveva che l’universo normativo è fatto di parole. Massimo Recalcati sostiene come la legge (in senso psicoanalitico) sia quella della parola: parola che è orizzonte e limite. Sull’uso e la dicotomia di parole piene e parole vuote, quelle che hanno il potere di risolvere le formazioni dell’inconscio e quelle prive di questo significato, si è interrogato Jacques Lacan. Non esiste una parola che non presupponga un dialogo, che non esiga una risposta, la parola è alla base della relazione intersoggettiva, attraverso questa avviene il riconoscimento dell’altro. Operare e vivere nel pianeta giustizia implica di per sé un uso accorto, sapiente e saggio delle parole ciascuna con il proprio significato auto riconoscibile, ma capace di costruire una trama o un ordito di pensieri e di pratiche. Quando si parla di giustizia riparativa, ci ricorda Grazia Mannozzi, un uso corretto del linguaggio è fondamentale: ci si muove sul terreno fatto di prassi, metodi vari e diversi principi, valori, garanzie. C’è la necessità di utilizzare le parole in modo responsabile e come sosteneva Calvino, anche soprattutto nella loro complessità, estirpando l’approssimazione. L’istituto della mediazione consente di giungere alla riparazione. Questa non sostituisce il processo ma lo completa, introducendo elementi estranei al dibattimento come collera e risentimento, dolore e smarrimento. Agnese Moro, descrive il suo stato d’animo attraverso l’immagine dell’”Urlo” di Munch, un dolore straziante e muto fissato per sempre nel passato e destinato a condizionare il futuro. (un urlo che non trova il modo di uscire) In uno dei suoi incontri, promossi dall’azione preziosa di Padre Antonio Bertagna, Adolfo Ceretti e Claudia Mazzucato, in dialogo con Adriana Faranda, dice: “La giustizia aveva fatto il suo corso ma le mie ferite erano rimaste uguali. Si dice: il tempo guarisce tutto. Non è vero. Il tempo incancrenisce, “solidifica” le cose, non permette loro di evolversi. Io soffrivo la dittatura del passato, quel passato che si ripeteva ogni giorno. La mia vita era come agganciata a un elastico. Andavo avanti, facevo molte cose, ma non sapevo mai in quale momento quell’elastico mi avrebbe riportato indietro, se si sarebbe allungato per sempre o se un giorno si sarebbe spezzato. Ero come un insetto in una goccia d’ambra, da dove non avevo modo di uscire”. Il perdono non è un sentimento ma una decisione che devi prendere per fermare il male. Perdonare è una scelta per stare bene, per riprenderti la tua vita”. Padre Occhetta, nel suo libro “Le radici della giustizia. Vie per risolvere i conflitti personali e sociali”, ci dice che la riparazione include qualcosa in più della rieducazione, scommette su una ricostruzione di relazione a partire da una restituzione causata dal reato, è come il lievito che fermenta la pasta del diritto. Evitando così che il dolore della vittima si trasformi in un fiume carsico. Avremmo potuto scegliere parole diverse per dialogare sulle parole della giustizia, avremmo potuto individuare altre parole per parlare di giustizia riparativa: dialogo, confronto, ascolto, mediazione, riparazione. Abbiamo scelto perdono, che è forse la parola più potente, quella che in questo nostro tempo si presta a maggiori strumentalizzazioni, quella più complessa da comprendere. Proviamo a partire da un’azione, quella del perdonare (l’altro o te stesso) per trovare un punto di approdo comune, su un altro possibile modo di amministrare la giustizia. Rimane la domanda se la società sia pronta per una nuova cultura della pena. Molto dipenderà dall’approfondimento e dal confronto, dipenderà dalle parole che sceglieremo. *Deputata, componente della commissione Giustizia, capogruppo Pd in commissione Bicamerale Infanzia e Adolescenza Aiutare gli altri a diventare uomini: il più bel colpo del “Milanese” di Fulvio Fulvi Avvenire, 29 marzo 2024 Redenzione e rinascita di Lorenzo, un ex rapinatore seriale ed ex carcerato diventato mediatore penale ed esperto in giustizia riparativa. Da rapinatore seriale - lo chiamavano “il bandito che veste Armani” - a presidente di una cooperativa sociale che a Padova si occupa di mediazione penale e giustizia riparativa. In pratica, Lorenzo Sciacca, 47 anni, di cui 30 trascorsi tra una patria galera e l’altra, oggi aiuta i detenuti a percorrere il suo stesso faticoso cammino di rinascita e redenzione che ha fatto lui. Perché dietro le sbarre la speranza può “respirare” fino a diventare una vita nuova anche per chi ha il destino segnato da una pena infinita, intesa non solo come condanna. Non è questione di testa e nemmeno solo di cuore: il vero cambiamento di sé avviene in un incontro vero con le persone giuste, nel tempo e nelle circostanze che si è chiamati a vivere. È un’apertura all’altro, al diverso da sé. Come ci insegna, appunto, la storia dolorosa ma a lieto fine di Lorenzo che l’attore e scrittore Mauro Pescio ha raccontato, con pathos, martedì scorso a Piacenza durante il convegno “Il tempo del carcere” promosso dall’Asp e dal Comune, in una performance nella quale si è avvalso della stessa voce registrata dell’ex galeotto. “Io ero il Milanese”: il titolo (che è quello di un podcast di successo su RaiPlay Sound e ora anche di un libro di Pescio edito da Mondadori) evoca l’epopea della “ligéra”, ricorda un personaggio alla Lutrig ma anche la meravigliosa metamorfosi umana di cui sopra. Commuove il mettersi a nudo di Lorenzo e il suo riconoscere umilmente errori, egoismi, fragilità. Ma lui non vuole apparire un eroe. Entra per la prima volta in carcere quando ha solo dieci mesi, portato dalla madre a San Vittore per farlo conoscere al papà, sbattuto dentro prima che lui nascesse. E quando il genitore finisce di scontare la pena e decide di lasciare Milano per trasferirsi con tutta la famiglia a Catania, la sua città natale, il bambino frequentava già le elementari, si era integrato, parlava meneghino e aveva amici con cui giocare. All’ombra dell’Etna, nel popoloso rione Librino, il piccolo Lorenzo pratica cattive compagnie, non vuole più andare a scuola, disobbedisce alla mamma e allo zio che gli dicono di non seguire la facile via del crimine, di non distruggersi come ha fatto il padre. Ma lui non dà retta. Tra i palazzoni del quartiere di periferia, bande di ragazzini compiono scippi, violenze e furti. A 12 anni Lorenzo, ormai senza briglie, comincia a rubare e a 14 mette a segno la prima rapina. Viene preso e arrestato: è l’inizio di una carriera da malvivente, anzi, di una vita da fuorilegge. Cresce, e dal carcere minorile, prima di tutti il Beccaria di Milano, passa inevitabilmente alle Case circondariali: ne conosce parecchie. Esegue quasi sempre da solo colpi in banca ben congegnati, a volto scoperto, vestito elegante: con accento lombardo e una pistola che nasconde sotto la giacca minaccia cassieri, direttori e clienti, si fa riempire valigette di banconote, è sempre duro e determinato ma non spara mai. Attraversa l’Italia, rapina e viene preso, esce e torna ancora dentro. Quando è libero vive nel lusso più sfrenato: hotel a cinque stelle, viaggi (sotto falso nome), belle donne, auto fuoriserie. Conosce una ragazza, si sposa, fa un figlio che però vede poco, solo fra una rapina e mesi trascorsi in una stanza col sole a scacchi. Finché, un giorno, il piccolo si ammala e muore. Nemmeno una tragedia così grande, però, gli fa passare il vizio di svaligiare, a modo suo, gli istituti di credito. Sarà un compagno di cella, Maurizio, il primo a dimostrargli cos’è l’amicizia vera, quell’affetto incondizionato che lui non aveva mai conosciuto. I due si confidano, si aiutano a vivere, a capire le ragioni per cui stanno dentro, il male che hanno fatto a se stessi e agli altri. Mentre è detenuto ai Due Palazzi di Padova “il Milanese” comincia a scrivere per la rivista “Ristretti orizzonti”, studia, si confronta, si apre al mondo. Capisce. Si ravvede. E nel 2013 inizia a cambiare, a guardare avanti con la speranza nel cuore. Ma ha accumulato una sfilza di condanne e potrà uscire nel 2037, quasi un ergastolo. Però un avvocato rilegge le carte delle sentenze, presenta ricorso e in Cassazione finalmente la spunta: Sciacca viene liberato in via definitiva nel luglio del 2017. Gli è stato riconosciuto il “reato continuato” e ricalcolati gli anni di prigione. Il giorno prima del suo rilascio la direttrice di “Ristretti Orizzonti”, Ornella Favero, telefona a Mauro Pescio: “Sta per uscire, vieni subito qui, lo devi conoscere e farti raccontare la sua storia”. E così nasce un’altra amicizia. Rivolta del carcere di Alessandria, una docuserie per i 50 anni dalla strage di Adelia Pantano La Stampa, 29 marzo 2024 In occasione dei cinquant’anni dai due giorni di rivolta nel carcere Don Soria il 9 e 10 maggio 1974. Processi, indagini, teorie, verità da scoprire e il ricordo di una storia che la città di Alessandria sembra aver dimenticato. È la rivolta nel carcere Don Soria del 9 e 10 maggio 1974 che si trasformò in una strage con sette morti e 15 feriti. In occasione del cinquantesimo anniversario sarà pubblicata una docuserie per ripercorre quei due lunghi giorni con le interviste ai sopravvissuti e ai familiari delle vittime. L’hanno chiamata “Memoria dimentica” e vuole raccontare quella tragedia alle nuove generazioni. Non solo: è un racconto per tutti, per non dimenticare. L’idea è nata da Lav Comunicazione, la casa di produzione della Diocesi di Alessandria che ha realizzato le sei puntate di cui la prima sarà disponibile proprio dal 10 maggio sul sito. Il senso di questo lavoro, iniziato un anno fa, è racchiuso in una frase pronunciata da Luigi Gaeta, figlio dell’appuntato Sebastiano Gaeta: “Sembra quasi che Alessandria volesse dimenticare la storia della rivolta. Hanno intitolato il carcere a mio papà e a Cantiello, ma non si è più fatto niente per capire cosa sia successo veramente”. La vicenda in sintesi - Il giovedì 9 maggio di quell’anno nel carcere del Don Soria tre detenuti armati presero in ostaggio una ventina di persone per evadere. Due giorni di trattative che culminarono con un bilancio tragico: cinque morti tra gli ostaggi, due rivoltosi e decine di feriti. Morirono il dottor Roberto Gandolfi, il professor Pier Luigi Campi, l’appuntato Sebastiano Gaeta, il brigadiere Gennaro Cantiello e l’assistente sociale Graziella Vassallo Giarola. Tra i rivoltosi, Cesare Concu venne ucciso dalle forze dell’ordine, Domenico Di Bona si suicidò, mentre Everardo Levrero rimase illeso e venne processato poi nel 1978. Proprio la voce di Levrero è presente nella docuserie in cui parla anche l’allora sindaco Felice Borgoglio. Vive fuori Italia e finora non ha mai rilasciato dichiarazioni. L’ha rintracciato l’autore Alessandro Venticinque che si è fatto raccontare la sua versione. “Vogliamo provare a illuminare quei coni d’ombra che ancora ci impediscono di conoscere tutta la verità”, spiega Venticinque. A lavorare con lui anche Enzo Governale, direttore delle comunicazioni sociali della Diocesi. “Ho visto alcuni volti cambiare espressione durante le interviste - dice Governale -. Spero che molti di loro sia stata un’occasione per lenire quel dolore e provare a voltare pagina. E che lo faccia anche la città”. Scuola. Valditara: “La maggioranza degli alunni in classe sia italiana” di Gianna Fregonara e Orsola Riva Corriere della Sera, 29 marzo 2024 Il post con errore di grammatica del ministro. Il ministro su X parla delle percentuali di studenti stranieri nelle scuole. E inciampa sul congiuntivo. In classe “la maggioranza degli alunni deve essere di italiani”. All’indomani delle dichiarazioni di Matteo Salvini che, riaprendo la polemica sul Ramadan chiusa dal presidente Mattarella, ha auspicato un tetto del 20 per cento di stranieri in classe, il ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara interviene ritoccando la percentuale al rialzo. Lo fa con un post su X in cui spiega la strategia per far imparare l’italiano agli studenti stranieri, ma lui stesso - come fanno notare i deputati del Pd - inciampa nella scrittura del suo messaggio. La legge - In realtà una disposizione sulla composizione delle classi esiste già da quasi quindici anni e fissa il rapporto massimo consigliato al 30 per cento di studenti non madrelingua. Un’indicazione che però risulta di difficile applicazione nelle aree a più densa concentrazione di migranti, soprattutto nel Nord del Paese, dove ci sono scuole con più della metà di stranieri, anche a causa di un fenomeno noto come “white flight”, cioè la fuga degli studenti italiani. Gli alunni stranieri nelle scuole - Va detto che se nelle nostre scuole non ci fossero anche gli stranieri gli effetti dell’inverno demografico in corso - nei prossimi dieci anni si perderanno 1,3 milioni di studenti - sarebbero ancora più drammatici. Per questi 872 mila alunni non ancora italiani - tre su cinque sono nati qui da genitori stranieri, ma non hanno diritto al passaporto fino ai 18 anni - la ricetta di Valditara si condensa in una parola: “assimilazione”. “L’inclusione - ha scritto il ministro su X - può avvenire assimilando i nuovi arrivati sui valori fondamentali, quelli che sono racchiusi nella Costituzione e che appartengono alla identità di chi accoglie, oppure realizzando la società del melting pot dove ognuno pensa e fa ciò che vuole. La prima società ha un futuro ordinato e prospero, la seconda ha di fronte a sé la disgregazione e il caos”. “Sproloqui” - Immediata la reazione delle opposizioni. Irene Manzi del Pd parla di “sproloqui da parte del ministro e di Salvini”, per il M5S le loro dichiarazioni sono “propaganda” per di più inapplicabile. Per il capo del sindacato dei presidi Antonello Giannelli invece il discorso di Valditara è “abbastanza condivisibile”. Secondo l’ultimo rapporto Ismu sulle migrazioni le scuole con più di un alunno straniero su tre (cioè oltre la soglia prevista dalla legge) sono il 7,2 per cento. In Lombardia, regione che da sola accoglie un quarto degli studenti con cittadinanza non italiana, quasi il doppio, il 13,2 per cento: 150 istituti su 1.135; in 16 di questi i non italiani sono la maggioranza. Record assoluto a Baranzate dove all’Istituto Rodari tre studenti su quattro sono stranieri. Le soluzioni a portata di mano - Più che perdersi dietro le percentuali, però, bisognerebbe cercare di garantire alle scuole le condizioni anche materiali per poter realmente integrare gli alunni stranieri che, dati Invalsi alla mano, arrivano all’ultimo anno della scuola dell’obbligo (cioè in seconda superiore) con un ritardo nelle competenze di italiano pari a un anno per chi è nato qui e quasi a due per chi è arrivato dopo. Se proprio si vuole fissare un tetto, si potrebbe cominciare dal numero di alunni per classe: difficile immaginare una didattica su misura dei bisogni dei singoli in aule con 30 e più studenti. Inoltre, a otto anni dall’introduzione dell’insegnante di italiano per stranieri, queste figure sono più rare dei panda. Anche nell’ultimo concorso in via di svolgimento su 44 mila posti a disposizione quelli riservati ai docenti di italiano L2 sono soltanto 51. Questa disciplina infatti non è prevista dai piani orari delle scuole e per questa ragione non è possibile conteggiarla nel fabbisogno scolastico. Un circolo vizioso noto a tutti ma che nessuno vuole risolvere. In mancanza di meglio, spesso i presidi consigliano, soprattutto nel caso di alunni arrivati in corso d’anno, di farsi fare una diagnosi di disabilità, in modo da avere almeno diritto all’insegnante di sostegno. Un peccato visto che, come ha ricordato di recente lo stesso ministro Valditara, gli studenti stranieri ai test Invalsi di inglese vanno in media meglio degli italiani. Scuola. Valditara e Salvini, l’ossessione degli alunni di origine straniera di Adriana Pollice Il Manifesto, 29 marzo 2024 Sono circa un milione gli studenti con cittadinanza non italiana, la Lega vuole inserire un tetto del 20% in ogni classe. Flc Cgil: “Il contrario dell’inclusione”. “L’inclusione può avvenire assimilando i nuovi arrivati sui valori della Costituzione oppure realizzando la società del melting pot, dove ognuno fa ciò che vuole. Se si è d’accordo che gli stranieri si assimilino sui valori fondamentali della Costituzione, ciò avverrà più facilmente se nelle classi la maggioranza sarà di italiani”: è l’intervento di ieri del ministro dell’Istruzione Valditara. Il giorno prima il vicepremier leghista Salvini aveva chiesto di inserire un tetto massimo del 20% di studenti di origini straniere in ogni classe. Dal Pd la replica di Elly Schlein: “Valditara corre dietro al delirio di Salvini che vuole sbattere fuori dalle classi i bambini nati da genitori stranieri. Se approvassimo lo Ius Soli quelle bambine e quei bambini sarebbero già italiani. Il ministro parla di Costituzione ma evidentemente non l’ha letta e non ha nemmeno rinnovato il Protocollo con l’Anpi per farla studiare nelle aule. Le scuole pubbliche hanno bisogno di più risorse, non hanno bisogno di ideologia nazionalista. Non si è mai fatta inclusione sociale escludendo i bambini dalle classi”. Nelle scuole ci sono circa un milione di studenti con cittadinanza non italiana, l’11,3% degli iscritti pari a circa 8 milioni e mezzo. I dati, contenuti in un report della Uil, si riferiscono al 2022-2023. Il 32,7% (315.955) degli studenti stranieri, un terzo, frequenta la scuola primaria (6-11 anni). Con una percentuale del 21,3% (205.806) si trova la scuola secondaria di II grado (14-19 anni). A seguire, gli alunni iscritti alla scuola secondaria di I grado (11-14 anni) con una percentuale del 18,9% (182.479). Per quanto riguarda l’infanzia, la percentuale è dell’11,4%. Nelle scuole statali del Nord più della metà (62,7%), pari a 602.387 allievi. Nell’Italia centrale il 22,1%. Nel Sud il 15,62% del totale. “Dopo la proposta di Valditara di costituire classi differenziali, Salvini torna sulla questione di gelminiana memoria, riducendo dal 30 al 20% la percentuale massima di alunni migranti nelle classi - commenta Flc Cgil -. Un provvedimento che penalizzerebbe la provenienza da contesti migratori non tenendo in considerazione la composizione sociale e la funzione unificante della scuola. Per di più inapplicabile se non sradicando dal loro contesto di vita e di relazioni ragazze e ragazzi, che verrebbero dirottate in istituti scolastici lontani dalle loro abitazioni e dai loro compagni. Esattamente il contrario di quel che dovrebbe essere ogni processo di inclusione”. Le armi e la pace: la deterrenza non evita le guerre, lo dicono i numeri di Luca Liverani Avvenire, 29 marzo 2024 Gli ultimi dati disponibili del Sipri ci dicono che nel 2022 la spesa militare mondiale è stata di 2.200 miliardi di dollari. Il 55% li ha spesi la Nato, la Russia 86,4 miliardi. Ma davvero “la pace è soprattutto deterrenza”, come sostiene la presidente del Consiglio in visita in Libano? È proprio indispensabile spingere sugli investimenti militari sottraendo risorse a sanità, scuola, ambiente? Prima di esprimere un’opinione vale la pena di dare un’occhiata ai numeri. Gli ultimi dati disponibili del Sipri, ci dicono che nel 2022 la spesa militare mondiale è stata di 2.200 mld di dollari. Il 55% li ha spesi la Nato, cioè 1.230 mld, di cui 877 gli Stati Uniti (il 71%) e 355 gli altri Paesi Nato. E la Russia? 86,4 mld. L’Alleanza Atlantica, insomma, investe in armi quasi 15 volte più dell’Orso russo. Un potenziale bellico soverchiante che però non sembra avere minimamente intimorito Putin. Ed è così da anni. Un recente rapporto di Greenpeace spiega che i paesi Nato dell’UE negli ultimi dieci anni hanno aumentato la spesa militare di quasi il 50%: da 145 mld di euro del 2014 a 215 del 2023. In un decennio la spesa pubblica degli stessi Paesi è aumentata del 35%, l’acquisto di armi del 168%. “La pace non si costruisce con i buoni sentimenti - avverte Giorgia Meloni - di chi sta comodamente seduto sul divano”. Sicuramente la premier non pensava alle carovane pacifiste della rete #StopTheWarNow che in due anni hanno portato cibo, farmaci e generatori agli ucraini. Ai volontari della Papa Giovanni XXIII nei campi profughi siriani o in Colombia. A “Un ponte per...” impegnato in Irak. Ai medici di Emergency che curano in Sudan le vittime della guerra. Di sicuro la “pace della deterrenza” è utile ai fatturati del comparto bellico. E ricorda parecchio quella “pax romana” che Tacito aveva spiegato bene: “Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant”, dove fanno il deserto, lo chiamano pace. Ecco, alla pace in negativo del terrore, che ha la sua massima espressione nel ricatto reciproco dell’apocalisse nucleare, è più che legittimo preferire la pace positiva costruita attivamente dalla politica, dalla diplomazia, dai popoli, dalle società civili e dalle comunità dei credenti. Ungheria. Caso Salis. L’indifferenza disumana e degradante di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 29 marzo 2024 Forse era difficile aspettarsi di meglio, sicuramente peggio di così l’udienza di ieri nel tribunale di Budapest per Ilaria Salis non poteva andare. Per lei che trascinata in catene davanti ai suoi giudici, ai familiari, agli amici e ai parlamentari venuti dall’Italia, è tornata rapidamente in carcere e ci dovrà restare, essendogli stata negata la possibilità di scontare la detenzione ai domiciliari. Ma non solo per lei, visto che l’ordine giudiziario ungherese e il suo governo - ormai impossibili da tenere distinti - hanno approfittato dell’occasione per esercitare una prova di forza nei confronti del governo italiano e della sua opinione pubblica. Prova tanto più vigliacca e miserevole perché fatta sulla pelle di una giovane donna già provata da oltre un anno di carcere in condizioni pesantissime. Pare che sia stata lei, Ilaria Salis, ad accettare di essere fotografata e ripresa mentre la trascinavano con i polsi stretti da una catena, legata a un guinzaglio di acciaio. Lo ha fatto per mostrare al mondo, ma innanzitutto al suo paese, a che punto di degrado è arrivata la cosiddetta giustizia ungherese nei suoi confronti. Le intenzioni di chi ha catturato e diffuso le immagini sono sicuramente queste: il desiderio di denunciare lo scandalo per provare a fermarlo. Eppure non si può non provare fastidio, persino prima che pietà, per l’esibizione ripetuta di questa prigioniera. Due mesi sono trascorsi invano, da quando la prima lugubre parata della prigioniera nel tribunale di Budapest aveva aperto gli occhi a chi aveva scelto di non vedere quello che stava subendo nelle carceri ungheresi (su queste pagine ne avevate letto dal novembre scorso). Innanzitutto dunque al governo italiano, completamente assente fin lì attraverso la sua rappresentanza diplomatica. E troppo impegnato in patria a inseguire un garantismo immaginario e un assai concreto populismo penale tarato sui giovani e gli avversari politici per spendere qualche energia in una causa dove la negazione dei diritti elementari dell’indagata non può essere più evidente. Eppure, dopo che lo scandalo era conclamato, il governo italiano è riuscito a fare anche peggio. Trattato con evidente fastidio dai nostri ministri - non essendo la protagonista un prete accusato di torture in Agentina, al quale concedere tutta la collaborazione, al punto da negare l’estradizione - il caso Salis è rimbalzato per anticamere governative, inseguito dalla raccomandazione dei titolari di giustizia ed esteri: “Non facciamone un caso politico”. Ma non essendo un caso sportivo e non peccando le autorità ungheresi di scarso fair play, la raccomandazione si è rivelata disastrosa. Né a nulla è valso il rapporto privilegiato o sono servite l’amicizia ostentata nei vertici europei e la ben nota affinità ideale tra Meloni e Orbán a favorire soluzioni meno disumane. Che sia stata incapacità diplomatica o scarsa attenzione a una vicenda che ha per protagonista una donna antifascista, o magari entrambe le cose insieme, il fallimento del nostro governo è totale. La soddisfazione di Orbán immaginiamo piena. La contemporanea decisione della Corte di appello di Milano di negare l’estradizione di Gabriele Marchesi, gravato dalle stesse accuse in Ungheria, per evitargli i trattamenti disumani e degradanti ai quali è sottoposta Ilaria Salis, è anche questa una condanna per l’inerzia del nostro governo. E i consigli che i nostri ministri si erano sentiti di rivolgere alla difesa di Salis, chiedere i domiciliari come strada per risolvere il caso, suonano adesso come una terribile beffa. L’Ungheria è in tutta evidenza uno Stato che non rispetta gli standard minimi di civiltà per stare nell’Unione europea. Ma è oggi una solida alleata della nostra maggioranza, ancor di più alla vigilia delle elezioni. E il problema in fondo è tutto qui. Ungheria. Il guinzaglio una provocazione politica. Fatti a pezzi i valori fondanti dell’Ue di Donatella Stasio La Stampa, 29 marzo 2024 “Beato un popolo che non ha bisogno di eroi” diceva Bertold Brecht. E certo non si può dire questo dell’Ungheria di Viktor Orban che continua a tenere Ilaria Salis in catene, ne umilia la dignità davanti al mondo intero, calpesta la presunzione di innocenza e, per quanto grave possa essere il reato contestatole, chiude ogni varco a un processo giusto e non politico. Beato il paese che non ha bisogno di atti di eroismo per dar corpo ai valori fondanti dell’Unione europea di cui fa parte - libertà, democrazia, uguaglianza, stato di diritto, rispetto della dignità e dei diritti umani - perché ha istituzioni di garanzia forti e indipendenti. E infine, beato il paese che non inganna i suoi cittadini, come fa il governo di Orban, sulla reale indipendenza dei giudici, così come beato è il paese che non finge di credere a quegli inganni per calcolo politico, come purtroppo ha fatto finora il governo di Giorgia Meloni. L’Ungheria ostenta la faccia feroce con Ilaria Salis e l’Italia sembra stare al gioco dell’autocrate magiaro, che rivendica di essere uno stato di diritto mentre ha più di un conto in sospeso con l’Unione europea proprio per la sua perseveranza nel violare lo stato di diritto, in particolare la separazione dei poteri. Quel che è accaduto ieri a Budapest ha tutta l’aria di una provocazione politica: la seconda udienza del processo si è svolta di nuovo con l’imputata al guinzaglio, alla quale sono stati poi negati gli arresti domiciliari. Orban ha fatto sapere che lui non interferisce nelle decisioni dei suoi giudici indipendenti e l’Italia finge di credergli per coprire le responsabilità del governo magiaro sia nel mantenere i ferri alle mani e ai piedi di Ilaria sia nel trattamento detentivo inumano e degradante. Ma il gioco è ormai sotto gli occhi dell’opinione pubblica mondiale. L’Italia, e persino l’Europa, non hanno più alibi per non esercitare una ferma, legittima pressione politica che garantisca a Ilaria un giusto processo e una carcerazione dignitosa. È significativo che, nello stesso giorno in cui a Budapest si consumava l’ennesima violazione dei principi dello stato di diritto, a Milano i giudici della Corte d’appello respingevano la richiesta di consegnare all’Ungheria Gabriele Marchesi, coimputato di Ilaria, per il rischio reale di violazione dei suoi diritti fondamentali e di trattamenti inumani e degradanti ma anche per la mancanza di proporzionalità tra la pena a cui il giovane rischierebbe di essere condannato e i fatti a lui contestati. Il nostro governo - che dice di essere garantista soprattutto “nel processo” - non può, quindi, non farsi carico di quel che dicono i “suoi” giudici. Ilaria ha diritto di difendersi in un processo e non “dal processo” ma per farlo deve poter contare su una giustizia realmente indipendente, che non subisca condizionamenti politici come invece accade in Ungheria, anche se la magistratura giudicante è formalmente indipendente. Ilaria non ha bisogno di atti di eroismo per salvarsi. Né ha bisogno dell’ombrello dell’immunità parlamentare (che il Pd starebbe valutando di offrirle candidandola alle elezioni europee, ma che non sarebbe affatto scontato). Ha bisogno che Ungheria, Italia, ed Europa le assicurino le condizioni per affrontare un processo con le garanzie proprie di uno stato di diritto. Corale, quindi, deve essere l’impegno in questa direzione. E Giorgia Meloni deve battere i pugni sul tavolo, come fa in altri casi, senza strizzatine d’occhio alla “democrazia illiberale” del suo amico Orban. I giudici ungheresi ci tengono a difendere quel poco che resta della loro indipendenza. Formalmente, a differenza dei Pm, non dipendono dall’esecutivo, ma di fatto sono sotto il suo controllo attraverso le nomine politiche dei vertici giudiziari, le sanzioni minacciate ad ogni passo falso che compiono e una precisa strategia di delegittimazione, che passa anche attraverso il divieto di parlare e di criticare il governo. Non hanno più una Corte costituzionale cui rivolgersi perché Orban se ne è appropriato, così come si è appropriato dei media. Dunque, anche se ci piacerebbe vedere maggiore reattività delle toghe magiare di fronte alla vergogna esibita ieri per la seconda volta, non si può chiedere al giudice di fare l’eroe in un contesto così politicizzato come quello ungherese. In Italia, fortunatamente, ancora non siamo arrivati al “bavaglio” ai giudici, ma assistiamo a una loro progressiva delegittimazione di fronte all’opinione pubblica. Di recente, Meloni ha detto che “i magistrati fanno perdere un sacco di tempo al governo”, riferendosi evidentemente sia ai giudici che, come Iolanda Apostolico, hanno disapplicato il decreto Cutro sul trattenimento dei migranti, sia ai giudici della Cassazione che hanno investito della questione la Corte Ue e forse, chissà, anche ai giudici di Lussemburgo che non hanno ritenuto di trattare con urgenza la questione. Se questo è il vento che tira in Italia, figuriamoci nella “democrazia illiberale” di Orban dove non sono tollerati limiti all’azione del governo e i “contrappesi” sono stati silenziati e normalizzati per lasciare l’uomo solo al comando. Tuttavia, proprio in questi giorni in cui, per giustificare i test psicoattitudinali imposti ai magistrati, sono stati evocati gli errori giudiziari e l’eccessivo ricorso alle misure cautelari, il caso di Ilaria Salis dovrebbe togliere il sonno al governo. Sarà anche questo un test, ma per misurare la credibilità di Giorgia Meloni. Francia. Le anomalie di un suicidio di Simone Alliva L’Espresso, 29 marzo 2024 Il lenzuolo sparito, gli abiti macchiati di sangue, la dinamica. L’indagine su Daniel Radosavljevic, il ventenne italiano trovato impiccato nel carcere francese di Grasse, è chiusa. Ma niente torna. Contraddizioni, misteri, anomalie, orrori. A distanza di un anno la morte di Daniel Radosavljevic, il cittadino italiano di 20 anni trovato impiccato nel carcere francese di Grasse, in Costa Azzurra, è un pozzo senza fondo. Ora l’indagine francese è stata chiusa e racconta una storia dove nulla torna al suo posto. Zoppicano le ricostruzioni fornite dalle autorità francesi e soprattutto spariscono le prove. Nella relazione, esaminata da L’Espresso, mancano il lenzuolo usato come cappio, i vestiti macchiati di sangue. Mancano soprattutto le registrazioni delle videocamere di sorveglianza. Cosa sia successo a Daniel in quelle ore, tra le decine e decine di agenti, pubblici ufficiali e dirigenti, medici, infermieri e portantini che hanno disposto del suo corpo, non lo sappiamo. Dalle carte non risulta. “Non è possibile che Daniel si sia suicidato”, è la convinzione della madre Branka Mikenkovic. È 1’8 ottobre del 2023 quando Daniel viene arrestato a Grasse, dopo un inseguimento dovuto al mancato rispetto di un ordine di fermata a un posto di blocco della gendarmeria nei pressi della città al Sud della Francia. Daniel, che ha un passato di reati contro il patrimonio commessi da minorenne ma nessuna condanna da maggiorenne, viene messo in custodia. Le accuse: inottemperanza all’alt e tentato omicidio per avere forzato il posto di blocco. Una ricostruzione contestata subito dall’indagato. Daniel scrive lettere e comunica con l’Italia. “La mia famiglia non è qui ma a casa, mi sta aspettando”, dice a compagni e personale. I115 gennaio successivo chiama per l’ultima volta la madre: notizie sui suoi cari e sui programmi per il futuro. Fiducia sul ritorno, speranza di poter riabbracciare le persone che ama: la madre, sua sorella Iris e suo fratello Braian. Manca poco al termine della custodia preventiva, la promessa del suo difensore francese regala la possibilità di ricostruirsi una nuova vita. Tre giorni dopo, il cellulare della madre squilla di nuovo. È la direzione del carcere: Daniel è morto in mattinata. “Si è suicidato per impiccagione durante il regime dell’isolamento”. Una versione che non trova conferma nelle voci dei detenuti riprese da L’Espresso che, attraverso un cellulare clandestino, suggeriscono un finale diverso. Daniel è morto mentre era nelle strutture di uno Stato straniero. Era stato picchiato dalle guardie. “Come?”. “Normalmente”, rispondono i detenuti, quasi a implicare che ci sia una “giusta quantità” di abusi che una persona può subire da parte di esponenti di uno Stato democratico. “Non ha appeso un lenzuolo alla finestra. A tre metri d’altezza? Impossibile”, ripetono. Dalla relazione si possono vedere le foto della cella di Daniel. Secondo gli inquirenti francesi, il ragazzo italiano avrebbe annodato le lenzuola alla fessura di una finestrella minuscola posta a pochi metri da un lavabo. Poi avrebbe formato un cappio e si sarebbe impiccato. Ma il colpo d’occhio è proprio sulla fessura: troppo stretta per far passare con facilità un lenzuolo. E poi il lavabo a un’altezza così irrisoria, gli spasmi e le convulsioni avrebbero costretto Daniel a poggiare i piedi e quindi a salvarsi. La finestrella, inoltre, difficilmente potrebbe reggere al peso di un corpo. Impossibile però fare degli esami. Non solo è sparito il drappo con cui il giovane si sarebbe impiccato, ma non risultano provvedimenti di sequestri. L’indagine francese non ha fornito la metrica dell’impiccagione né la dimensione della cella. Un’impiccagione atipica, dicono i medici legali di Grasse. Quelli italiani non si pronunciano proprio perché mancano i dati, hanno solo individuato come causa di morte l’asfissia. E ci sarebbero poi le immagini del corpo del ragazzo a restituire una dinamica insolita. Le autorità francesi affermano di aver effettuato le manovre di rianimazione nel corridoio; eppure, nelle foto visionate da L’Espresso il corpo è ancora dentro la cella. Se sono state scattate dopo l’intervento di soccorso perché riportarlo in cella? I vestiti, anche questi scomparsi, riportano macchie di sangue che non possono essere di Daniel. Ma sono spariti. Assieme alle registrazioni delle telecamere. L’indagine non ha tenuto conto di nove detenuti che mancano all’appello tra le testimonianze. Resta quella di Saad, che ha conosciuto in carcere il ventenne e negli ultimi mesi ha fatto di tutto per raccontare la sua versione: “Ho appreso della morte di Daniel dopo l’ora d’aria. Tutti nel blocco A sapevamo che il sergente Sebastien aveva detto a questi tre agenti di massacrare il ragazzo non appena sarebbe rientrato in cella. Appena abbiamo saputo della morte di Daniel abbiamo insultato lui, la direttrice Angélique Leveque. All’agente gli ho dato del figlio di puttana. “Lo hai ammazzato. Non hai un cuore. Non hai pensato che anche lui ha una famiglia. Figlio di puttana. Lo dirai tu a sua madre”. Non mi pento di averglielo detto”. Saad è stato minacciato e poi trasferito per la sua incolumità in un altro carcere. In Italia, dopo il lavoro de L’Espresso, Luigi Manconi, ex senatore e già presidente della Commissione straordinaria per la promozione e la tutela dei diritti umani, ha chiesto attenzione sul caso. In Parlamento la deputata Laura Boldrini ha presentato un’interrogazione al ministro degli Esteri, M Antonio Tajani. Ma il governo non ha mai risposto, né commentato la vicenda. Così come in Francia nessun dibattito, nessuna protesta o promessa: silenzio assoluto.