In cella invece che in Rems: l’ennesimo suicidio e il dramma delle liste d’attesa di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 marzo 2024 L’ultimo a Torino, ma sono tanti i casi come quello di Valerio Guerrieri, impiccatosi a Regina Coeli mentre attendeva di andare in una Residenza. Situazione che è stata affrontata già dalla Corte Europea e dalla Consulta. Il ventisettesimo suicidio, giunto al terzo mese dell’anno, riaccende i fari sul dramma delle persone in lista d’attesa, quelle recluse illegalmente in carcere, in attesa di essere trasferite presso le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Alvaro Nunez Sanchez, un 31enne ecuadoriano detenuto dall’estate scorsa nel carcere di Torino per tentato omicidio del padre, era in attesa di essere ospitato presso le strutture. È già accaduto che un ragazzo, trattenuto illegalmente in carcere, si sia suicidato. Pensiamo al caso di Valerio Guerrieri, impiccatosi il 24 febbraio del 2018 - a soli 22 anni - nella cella di Regina Coeli. Il dramma delle persone in lista d’attesa in carcere è stato affrontato più volte anche dalla Corte Europea di Strasburgo. Come già riportato da Il Dubbio, pensiamo alla storia di Preuschoff, un ragazzo tedesco che all’epoca aveva 31 anni, di fatto trattenuto a Regina Coeli, nonostante la magistratura di sorveglianza gli avesse disposto una misura di sicurezza presso la Rems. Era un senza fissa dimora, tratto in arresto a maggio del 2019 per resistenza a pubblico ufficiale e lesioni giudicate guaribili in un giorno. Ad agosto 2019, all’esito del giudizio, viene dichiarato con sentenza del Tribunale di Roma incapace di intendere e di volere al momento del fatto e, in quanto ritenuto socialmente pericoloso, gli viene applicata, in via provvisoria, la misura di sicurezza della Rems per la durata di due anni. Senza soluzione di continuità, il Tribunale dispone, in attesa dell’individuazione di una Rems disponibile, la sua traduzione al carcere di Regina Coeli. “Il ragazzo - aveva spiegato a Il Dubbio l’avvocata Sonia Santopietro - è affetto da una grave psicosi per la quale il carcere non rappresenta un luogo adeguato ove possa ricevere le cure necessarie. Seguito anche dal dipartimento di salute mentale, alterna alti e bassi e anche la sua “collocazione” inframuraria viene determinata dall’andamento della patologia: “repartino”, sorveglianza a vista e non è mancato un ricovero presso il Servizio psichiatrico di diagnosi e cura a causa di un episodio di acuzie e a seguito del quale viene riportato in carcere”. Nel frattempo si fa istanza per chiedere una valutazione della pericolosità sociale, ma soprattutto per la revoca della misura di sicurezza detentiva essendo inadeguata la struttura carceraria. Arriviamo a giugno 2020 e il magistrato di sorveglianza ritiene attuale la pericolosità sociale del ragazzo. Ma sempre nell’ordinanza scrive: “Risulta che è in lista di attesa per l’individuazione della Rems dallo scorso agosto, tempo francamente lungo e assolutamente non adeguato alla gravità del disturbo che necessita di urgente trattamento psichiatrico”. Ma non solo. Ricordiamo che il ragazzo non ha nessun legame nel nostro Paese, i familiari infatti vivono in Germania. Quindi non deve essere per forza ospitato in una struttura della regione Lazio, ma anche nel nord dove i familiari lo potrebbero raggiungere più facilmente. Ma nulla. A quel punto, a settembre del 2020, l’avvocata Santopietro trasmette un ricorso alla Corte Europea dei diritti umani chiedendo l’applicazione di una misura provvisoria ai sensi dell’art. 39 del Regolamento Cedu e assumendo violati una serie di diritti (art. 2 Cedu diritto alla vita, art. 3 Cedu divieto dei trattamenti inumani e degradanti, art. 5 Cedu diritto alla libertà ed alla sicurezza personale e diritto ad un’equa riparazione ed art. 13 diritto ad un ricorso effettivo). Il governo italiano ha ammesso le violazioni contestate riconoscendo un risarcimento di 35mila euro e il 10 novembre scorso la Cedu ha concluso il caso per l’accordo raggiunto tra le parti. Ma di casi così, ce ne sono centinaia. Secondo i dati risalenti al 2022, un numero di persone almeno pari a quelle ospitate nelle 36 Rems allo stato attive - più in particolare un numero compreso tra le circa 670 (secondo i calcoli del ministero della Salute e della Conferenza delle Regioni e della Province autonome) e le 750 persone (secondo i calcoli del ministero della Giustizia) - è in attesa di trovare una collocazione in una Rems, nella propria regione o altrove. La permanenza media in una lista d’attesa è pari a circa dieci mesi; ma in alcune Regioni i tempi per l’inserimento in una Rems possono essere assai più lunghi. Le persone che si trovano in lista d’attesa sono spesso accusate, o risultano ormai in via definitiva essere autrici, di reati assai gravi - tra gli altri, maltrattamenti in famiglia, atti persecutori, violenza sessuale, rapina, estorsione, lesioni personali e persino omicidi, tentati e consumati. La Consulta, tramite la sentenza del 2022 redatta dal giudice Francesco Viganò, rivela che ci sono due linee di pensiero circa la risoluzione del problema. In sostanza da una parte c’è il ministero della Giustizia che ascrive l’esistenza di lunghe liste d’attesa principalmente all’insufficienza complessiva dei posti letto disponibili e all’assenza di soluzioni alternative sul territorio in grado di salvaguardare assieme le esigenze di salute del singolo e di sicurezza pubblica. Mentre c’è il ministero della Salute, unitamente alla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, che ascrive il problema a un eccesso di provvedimenti di assegnazione alle Rems da parte dell’autorità giudiziaria in conseguenza di una diffusa mancata adesione al nuovo approccio culturale sotteso alla riforma. Resta il fatto che la lista d’attesa crea un deficit di tutela dei diritti fondamentali. Per la Consulta risulta chiaro che la soluzione non può essere quella dell’assegnazione in soprannumero delle persone in lista d’attesa alle Rems esistenti: un simile rimedio - secondo la Corte Costituzionale - finirebbe soltanto per creare una situazione di sovraffollamento di queste strutture, snaturandone la funzione e minandone in radice la funzionalità rispetto ai propri scopi terapeutico-riabilitativi. Dalla sentenza della Corte costituzionale emerge il fatto che va completata la riforma che ha superato gli ex ospedali psichiatrici giudiziari. Non a caso indica anche di potenziare delle alternative terapeutiche per la salute mentale esistenti sul territorio, in maniera tale da contenere il più possibile il ricorso dei giudici alle Rems. Però c’è da segnalare un problema: si rischia che il Parlamento opti per la soluzione più “semplice”, ovvero quella di costruire più Rems. Così si finisce come il discorso delle carceri: risolvere il sovraffollamento puntando esclusivamente sull’edilizia. Ciò è fallimentare. Come è stato sempre ribadito su queste pagine de Il Dubbio, le Rems sono state concepite per essere l’ultima soluzione. Una soluzione c’è. Ricordiamo che da qualche anno fa è stata presentata una proposta di legge a firma del deputato di + Europa Riccardo Magi, la quale prevede una riforma radicale dove l’idea centrale è quella del riconoscimento di una piena dignità al malato di mente, anche attraverso l’attribuzione della responsabilità per i propri atti. Tutto ciò, accompagnato dal superamento del doppio binario, residuo del codice fascista Rocco. Com’è possibile che un malato psichiatrico grave si uccida in carcere? di Lorenzo Montanaro Famiglia Cristiana, 28 marzo 2024 Le riflessioni di Alessio Scandurra dell’associazione Antigone dopo il suicidio a Torino del 31enne Alvaro Nuñez Sanchez: “Se il carcere diventa una specie di “deposito di esseri umani”, in cui tutti stanno rinchiusi in pochi metri, anche i comportamenti che dovrebbero allarmare passano inosservati”. Si chiamava Alvaro Nuñez Sanchez. Aveva 31 anni ed era originario dell’Ecuador. Si è tolto la vita nel carcere “Lorusso e Cutugno” di Torino, impiccandosi con un lenzuolo. Aveva gravi patologie psichiatriche. E non avrebbe dovuto trovarsi lì. Dichiarato non in grado di intendere e di volere, era in attesa di essere trasferito in una Rems (Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza). Ma le liste d’attesa interminabili rendevano difficile immaginare il futuro. E a un certo punto la disperazione ha prevalso. Quello del giovane ecuadoriano è il 27esimo caso di suicidio nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno. “Oltre alla tragicità dell’accaduto in sé, va purtroppo detto che questi fenomeni estremi sono la punta di un iceberg” sottolinea Alessio Scandurra, coordinatore dell’osservatorio sulle condizioni di detenzione istituito dall’associazione Antigone, da sempre impegnata per i diritti e le garanzie nel sistema penale. “È uno di quei casi che non si è riusciti a bloccare. Ma i tentati suicidi nelle carceri italiane sono frequenti. E gli atti di autolesionismo sono all’ordine del giorno. Tutto ciò è indice di elevati livelli di sofferenza, fisica e mentale. Il malessere è molto diffuso e molto forte. Ma le risposte sono del tutto inadeguate”. Possibile che una persona evidentemente malata, affetta da una grave forma di schizofrenia, debba trascorrere settimane e mesi rinchiusa in una cella, con tutti i rischi che questo comporta? Tristemente, il binomio fragilità psichica e detenzione è una ferita aperta. “Molte persone arrivano in carcere senza un quadro chiaro e in alcuni casi ci si accorge della patologia solo durante il periodo di pena”. Chi viene riconosciuto non in grado di intendere e volere al momento del reato, dovrebbe poter accedere a trattamenti specifici, ma spesso, anche a causa delle poche risorse disponibili, il sistema si inceppa e, come nel caso di Alvaro Nuñez, i tempi si allungano. Di sicuro, fa notare Scandurra “un ambiente malsano come quello del carcere non fa che peggiorare la situazione. Le fragilità psichiche tendono ad acuirsi e diventa anche più difficile leggerne i sintomi. Pensiamo a una situazione detentiva in cui tutti fanno attività, vanno a lavorare o a scuola. Se uno, ad esempio, se ne sta tutto il giorno rintanato nel letto e non esce dalla cella, la cosa si nota immediatamente. Ma se il carcere diventa una specie di “deposito di esseri umani”, in cui tutti stanno rinchiusi in pochi metri, anche i comportamenti che dovrebbero allarmare passano inosservati”. Tanto più se la presenza di personale sanitario rivela gravi insufficienze. “Nel quadro generale di carenza di medici, si fatica a trovare psichiatri disposti a lavorare in un ambiente difficile come quello carcerario. In pochi accettano e stabilire una continuità è quasi impossibile” spiega ancora il referente dell’associazione Antigone. “La sproporzione tra disagio e presa in carico è evidente. Dalle nostre 99 visite condotte nel 2023, è emerso che, in media, ogni 100 detenuti vengono erogate appena 10 ore di servizi psichiatrici. In sostanza, il più delle volte, il medico fa appena in tempo a prescrivere i farmaci e avanti il prossimo”. A proposito “il consumo di psicofarmaci tra i detenuti è esorbitante”. Da uno studio condotto dalla rivista Altreconomia, al quale ha collaborato anche l’associazione Antigone, emerge che la somministrazione di antipsicotici, usati per gravi patologie come schizofrenia e disturbo bipolare, è, nelle carceri, cinque volte superiore rispetto all’esterno. La ricerca ha rilevato, tra l’altro, “un dato particolarmente inquietante” spiega ancora Scandurra. “Il consumo di psicofarmaci negli istituti minorili è paragonabile a quello che si osserva nelle strutture per adulti. Possiamo immaginare quali conseguenze abbiano questi medicinali, già di per sé da maneggiare con estrema attenzione, su organismi molto giovani, che ancora si stanno formando”. In generale, dunque, la situazione è incredibilmente complessa. Basta poco perché sfugga di mano. “Ma il problema inizia fuori dal carcere. I detenuti con problemi psichiatrici sono persone che i servizi territoriali non sono riusciti a intercettare. Oppure a un certo punto si sono perse. E i servizi non hanno avuto le risorse per seguirle come sarebbe stato necessario. Il più delle volte, ci sono storie di carenze di cura che partono da fuori”. Un quadro difficile, dunque. “Ma non tutto è così fosco” conclude Scandurra. “Ci sono anche percorsi che funzionano, avviati magari grazie agli enti locali o alle Asl. Dove c’è una risposta organica e strutturata, i risultati arrivano. Non si tratta di inventare qualcosa da zero, ma solo di estendere quanto già esiste. E attrezzarsi prima che diventi, definitivamente, troppo tardi”. Gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari non esistono più, ma le Rems rischiano di implodere di Enrica Riera Il Domani, 28 marzo 2024 Non più prigionieri ma pazienti. Viaggio nelle due Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza di Subiaco, nel Lazio. Dove il percorso di “rinascita” degli autori di reato con disturbi mentali è sostenuto da un’équipe di operatori specializzati. Ma potrebbe bloccarsi a causa di liste d’attesa troppo lunghe, scelte discrezionali da parte della sanità privata e ricoveri impropri. Senza parlare dei pregiudizi, che ancora esistono verso chi è in attesa della libertà. Settanta chilometri separano la vita frenetica di Roma da quella silenziosa di Subiaco. Non più pini marittimi ma mandorli lungo la strada che porta dritto alla cittadina dei monasteri. Dal 2015 la sua popolazione è aumentata. Alle circa 8mila anime che vivono nel paese si sono aggiunti i venti ospiti della Rems Castore e da febbraio gli altri venti della Rems Polluce. Quando arriviamo davanti all’ospedale Angelucci, dove le due residenze per le misure di sicurezza hanno sede, inizia a piovere. Nel campetto di calcio, separato dal mondo di fuori da un cancello di ferro, non c’è nessuno. Sono tutti nelle loro camere. Come Fabio che, seduto, sta scrivendo qualcosa su un foglio in attesa che il brutto tempo passi. “Oggi va così - dice col suo accento romano - Ma di solito ho un calendario fitto di attività. Il teatro, lo sport, il corso di inglese, la cura della biblioteca”. Proprio in quella biblioteca Fabio trascorre molte ore. “Abbiamo 700 volumi - ricorda - spero di uscire prima che li finisca tutti”. Le Rems hanno sostituto gli ospedali psichiatrici giudiziari, cancellati con la legge 81 del 2014. Una chiusura avvenuta quasi 35 anni dopo quella dei manicomi civili, soppressi dalla più celebre riforma Basaglia. Affidate alla sanità pubblica regionale, le Rems in Italia sono in totale 32, mentre nel Lazio, dove si trovano Castore e Polluce, 7. Accolgono gli autori di reato con disturbo mentale - pazienti, non più prigionieri da legare a un letto - e dovrebbero rappresentare l’extrema ratio: lo strumento utilizzabile dal magistrato soltanto se le misure di sicurezza non detentive non siano praticabili. Fabio, che vi ha fatto ingresso, è “fortunato”. In tutta Italia sono 700 le persone in lista d’attesa per entrare in una residenza: il 24 marzo uno di loro, 31enne ecuadoriano, si è impiccato nel carcere Lorusso e Cotugno di Torino dove era detenuto. Era un soggetto psichiatrico e stava appunto aspettando di essere trasferito in una Rems. Il suo è il 27esimo suicidio, all’interno dei penitenziari, dall’inizio dell’anno. Pregiudizio - “In ogni Rems, composta da un modulo di venti posti letto, si punta al reinserimento nella società del paziente tramite il lavoro di operatori specializzati”, spiega Alessia D’Andrea, psichiatra e psicoterapeuta, nonché referente della Castore. “Si tratta di realtà positive - continua la dottoressa - che però oggi, se non si eliminano alcune criticità, rischiano di implodere”. Tra le problematiche ce n’è una che riguarda il futuro. Cosa succede, infatti, se il percorso in residenza si conclude, se si conquista la libertà vigilata? “In questi casi il paziente deve procedere nel suo percorso riabilitativo, individuato dal servizio territoriale competente che lo ha in carico. Di frequente ciò prevede l’inserimento in una struttura residenziale territoriale non detentiva - dice D’Andrea -. Tuttavia spesso riscontriamo scarsa disponibilità da parte delle strutture che, pur essendo private e accreditate con la regione Lazio, molte volte negano il posto letto: il paziente che proviene dalla Rems viene considerato difficile. Ci sono ancora troppi pregiudizi”. Il risultato è un cortocircuito burocratico. “Se la struttura privata accreditata nega l’accoglienza, di certo in Rems il paziente non può continuare a stare: i suoi diritti verrebbero violati. Quindi in dati casi, in collaborazione col Centro di salute mentale, tentiamo di trovare una struttura alternativa, sempre sul territorio, per dare una risposta adeguata: a Palombara Sabina, ad esempio, aprirà una struttura sperimentale per la libertà vigilata, che potrà esserci d’aiuto nella gestione di questo problema”. A volte del resto c’è il rischio che il paziente torni a casa propria, e in quella casa può darsi viva la persona vittima del reato per cui si è stati condannati. Percorso ad ostacoli - La dottoressa D’Andrea a un certo punto si interrompe. È il telefono che squilla. Guarda caso a un paziente è stata appena notificata la revisione della misura di sicurezza: la sua esperienza in Rems è terminata. Ma ora il percorso da affrontare è tutt’altro che in discesa. Vale lo stesso per Alberto. I suoi sogni potrebbero scontrarsi con la realtà. Classe 1993, una schizofrenia paranoide, Alberto sta compiendo un percorso di “rinascita”. “In attesa dell’udienza per la revisione della misura, la valutazione che ne faremo al magistrato sarà positiva”, dice ancora D’Andrea. Poi si metterà in moto tutto quel sistema che si spera non diventi un inciampo nei passi di un ragazzo che si prepara a brillare come suggeriscono i nomi delle residenze di Subiaco. Lungo il corridoio dai colori pastello ci imbattiamo anche in Mario. “Qui seguo un corso di informatica. Una volta libero, voglio lavorare coi computer: sono il futuro”, dice sulla soglia della sua stanza singola e ordinatissima. Mario è arrivato da poco, col gruppo di pazienti trasferiti dall’ex Rems Merope di Palombara, individuata nel 2015 dalla regione Lazio come struttura transitoria: per gli spazi poco ariosi sarebbe dovuta restare attiva per breve tempo, fino alla conclusione dei lavori alla Polluce diretta da Corrado Villella. Sono passati 9 anni. Ma torniamo a Mario. Un po’ più in là della sua camera c’è la sala ricreativa, si gioca a dama sotto l’occhio delle videocamere di sorveglianza. Poi altre sale, dalla mensa fino alla palestra. Un capannello di ragazzi di età e nazionalità varie, alcuni iscritti ai corsi di laurea convenzionati con gli atenei romani, fuma in uno spazio esterno. “Dottorè, ciao”, è il saluto che viene rivolto a D’Andrea. Insieme alla psichiatra c’è Vittorio Fasulo, 32 anni, dirigente medico alla Castore. Il dottore annuisce quando D’Andrea parla delle altre criticità. “Ci sono i ricoveri impropri - dichiara la psichiatra -. Il magistrato ci manda utenti dai comportamenti antisociali, ma l’antisocialità non è un disturbo. Le Rems devono accogliere persone che hanno compiuto un reato, ma hanno patologie psichiche primarie. Se ci sono persone che nella struttura mettono in atto comportamenti predatori, che cercano di fare entrare sostanze, si compromette il progetto di recupero degli altri”. Alla Castore, come in molte Rems, questi casi non sono rari. “Abbiamo avuto per due anni e mezzo un 80enne condannato per il reato di resistenza a pubblico ufficiale. Pur presentando disturbi comportamentali che necessitavano di un trattamento specialistico, questo avrebbe potuto essere offerto da strutture diverse dalle Rems, ultima ratio”, conclude la dottoressa. Attesa - Dai ricoveri impropri dipende anche il problema delle liste d’attesa. Giuseppe Nicolò, direttore del dipartimento di salute mentale dell’Asl Roma 5 all’interno della quale si trovano tre Rems, tra cui Castore e Polluce, dichiara che “i posti letto nelle residenze in tutta Italia sono 360; 700 - come si diceva - le persone in attesa. Per le Rems di Subiaco ci sono liste fino a 70 persone”. La soluzione? “Non costruire nuove strutture, ma far accedere alle Rems persone che necessitano di cura, altrimenti la riforma che le ha introdotte è fallimentare”. Sul punto è critico anche Michele Miravalle di Antigone: “Nel nostro Paese una 30ina di persone in lista d’attesa per le Rems sta in carcere senza titolo detentivo. Bisogna cambiare qualcosa perché le Rems non sono gli Opg”. Se in questo senso, nonostante gli aspetti critici, il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari c’è stato, non si può dire che lo stesso abbia fatto la comunità. “C’era molto pregiudizio verso i pazienti - afferma Marco Lombardi, tecnico della riabilitazione psichiatrica a Subiaco - Poi, grazie anche al mondo associazionistico, c’è stata più apertura”. Resta il fatto che le Rems abbiano una collocazione periferica. “Un problema - commenta D’Andrea - che scoraggia nuovi operatori nella scelta della sede lavorativa e crea difficoltà ai familiari per raggiungere i pazienti”. Pazienti che, se autorizzati a uscire, restano sempre lì, lontano da dove accadono le cose, in attesa di essere liberi due volte. La prima quando andranno via, la seconda quando incontreranno lo sguardo degli altri. Il ministro tentenna e le carceri che chiedono risposte subito di Angela Stella L’Unità, 28 marzo 2024 Dai suicidi al diritto all’affettività dei detenuti, nulla di nuovo: al question time toni drammatici e dichiarazioni d’intenti. Impegni concreti zero. Chi si aspettava grandi novità dalle risposte del Ministro della Giustizia Carlo Nordio ieri al Question Time alla Camera rimarrà deluso. Partiamo da un tema molto caro a questo giornale, quello delle carceri. Azione, giunti al 27esimo suicidio negli istituti di pena (l’ultimo ieri a Sassari), lo ha interrogato su quali iniziative urgenti intenda adottare per combattere il fenomeno. L’ex magistrato ha ripetuto come sempre: “è un fardello di dolore, che si è sedimentato negli anni. Non è facile porre un rimedio rapido a un fenomeno sedimentato però stiamo portando avanti molteplici attività per garantire un maggiore innalzamento dei livelli di presidi. Si è avviato un percorso nazionale di intervento continuo, attraverso questo Dipartimento, i provveditorati e gli istituti penitenziari. Sono tutti organismi coinvolti in una prospettiva di rete nella prevenzione di questi eventi drammatici”. Insoddisfatto l’interrogante perché “lei, Ministro, ha risposto come se il fenomeno non fosse una emergenza”. Poi Riccardo Magi, deputato di +Europa, gli ha chiesto quali disposizioni abbia dato il Ministro a seguito della recente decisione della Corte Costituzionale “di rendere pienamente e direttamente esercitabile il diritto all’affettività in carcere”. Il Ministro della Giustizia ha specificato: “questo diritto è sancito dall’etica, dal buon senso e dalla sentenza della Consulta. Converremo però che si tratta di dare esecuzione a un principio, che io condivido, ma nella pratica non è facile da realizzare per varie ragioni, logistiche e di sicurezza” aggiungendo che sul tema si sta lavorando ed è stato “istituito un gruppo di lavoro interdisciplinare. Bisognerà tenere conto del comportamento della persona detenuta in carcere, dovranno essere creati, negli istituti penitenziari, appositi spazi, e anche il personale deve essere addestrato. Questo ministero è perfettamente consapevole della questione ed è deciso a dare pienissima attuazione alla sentenza della Consulta”. Magi ha suggerito a Nordio di portare in visita la Commissione nei Paesi dove già il diritto è attuato. Nulla di nuovo, anzi, sulla separazione delle carriere, sul quale è stato interpellato dalla Lega per conoscere le tempistiche per l’adozione e l’approvazione in Consiglio dei ministri della riforma della separazione delle carriere e modifiche dell’assetto del Csm. Il Guardasigilli ha detto quello che va ribadendo da giorni: “è nel programma di governo e sarà presentata entro il mese di aprile, al massimo di maggio di questo stesso anno. Sarà consustanziale alla riforma del Csm per le ovvie ragioni che una separazione delle carriere comporta, quindi due Csm separati. Per fare una riforma radicale occorre cambiare la Costituzione, trattandosi di una revisione costituzionale l’iter sarà ovviamente più lungo e intersecandosi con la riforma del premierato avrà determinati tempi”. Forza Italia invece ha posto in evidenzia la “discrasia” sulla legge Severino: “contempla l’incandidabilità e il divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo quale conseguenza di una condanna definitiva”, mentre amministratori regionali e locali possono essere sospesi a seguito di sentenze non definitive”. Il Guardasigilli ha replicato: “Per quanto riguarda la legge Severino, noi riteniamo che sia necessaria una rimessa a punto. Non è all’ordine del giorno ma sicuramente fa parte del nostro interesse”. Nordio: “Ridurre la recidiva per diminuire il sovraffollamento delle carceri” varesenews.it, 28 marzo 2024 Gadda (Iv): “Belle parole, ma i fatti? I Consigli d’aiuto sociale sono rimasti sulla carta”. Il vice-presidente del gruppo di Italia Viva alla Camera: “È un peccato che non si vogliano trovare soluzioni serie e risorse ben finalizzate”. “Sono anche apprezzabili le parole e la sensibilità del ministro Nordio sulla necessità di migliorare la condizione nelle carceri e ridurre la recidiva, ma sulle misure necessarie da mettere in campo mancano i fatti e i risultati”. Lo ha detto Maria Chiara Gadda, vice-presidente del gruppo di Italia Viva alla Camera, nel corso del question time con il ministro della Giustizia Nordio. “I Consigli d’aiuto sociale sono stati istituiti per legge con lo scopo di coordinare l’assistenza in carcere e post detenzione, ma sono rimasti sulla carta. Potrebbero accelerare l’organizzazione di attività lavorative e formative all’interno del carcere. Ma, soprattutto, sarebbero fondamentali per farsi carico di situazioni di povertà estrema, disagio sociale e psichico, costruendo percorsi già durante la detenzione e poi nella successiva fase di scarcerazione attraverso il coinvolgimento di istituzioni, assistenti sociali, Terzo settore e imprese. Di certo, non sarà il Cnel - come ha risposto il ministro - a trovare lavoro alle persone detenute. E tantomeno burocratiche cabine di regia a trovare soluzioni abitative per chi si trova sprovvisto di legami familiari. Ridurre la recidiva dei reati è nell’interesse pubblico, in termini di costi economici e sociali. È un peccato che non si vogliano trovare soluzioni serie e risorse ben finalizzate. Di sicuro non ha senso lasciare i consigli di aiuto sociale inattuati. Perché non cogliere l’opportunità dell’amministrazione condivisa introdotta con la riforma del Terzo settore per dare nuovo rilancio a questo istituto. Oggi un nuovo suicidio in carcere, che si aggiunge ai 27 detenuti e 3 agenti che da inizio anno si sono tolti la vita. Il sovraffollamento sta raggiungendo limiti ingestibili. Che altro si deve aspettare?”, ha concluso. Nordio accelera: “La riforma della giustizia pronta ad aprile” di Francesco Grignetti La Stampa, 28 marzo 2024 Il piano del guardasigilli: “Dopo la separazione delle carriere serviranno anche due Csm”. Ma c’è lo scoglio referendum. Il governo accelera sulla giustizia. E punta sulla separazione delle carriere con sdoppiamento del Consiglio superiore della magistratura: ci sarà un Consiglio per la magistratura giudicante e un altro per l’inquirente. Ciò che era stato deciso in una riunione a palazzo Chigi di qualche giorno fa, è stato ribadito solennemente dal ministro Carlo Nordio ieri in Parlamento. “Il testo di riforma sarà presentato con ragionevole probabilità e quasi certezza entro il mese di aprile o al massimo di maggio”. Dopo i test psico-attitudinali, vissuti malissimo dalla magistratura associata (il presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia, ribadisce: “Se si vuole controllare una personalità che non piace, è arbitrio. Questi test non servono a nulla. È solamente propaganda”), ecco dunque l’attacco finale. Arriva la separazione delle carriere, che i magistrati italiani assolutamente non vogliono. Tanto più che dopo la riforma Cartabia, è rimasta la possibilità di un solo passaggio da una parte all’altra nel corso di una intera carriera. Ma alla maggioranza di destra-centro non basta, pungolata da Lega e Forza Italia, spronata da Italia Viva e Azione. Spiega dunque il ministro Nordio: “La separazione delle carriere è nel programma di governo e sarà presentata. Aggiungo che la separazione delle carriere è consustanziale a una riforma, forse ancora più importante, che è quella del Consiglio superiore della magistratura. Per ovvie ragioni una separazione delle carriere comporta due Consigli superiori della magistratura separati, sulla cui formazione e criterio di elezione vi sarà un dibattito successivo”. Il ministro ne fa una questione di logica di sistema. “Si tratta di attuare in pieno quello che è il principio fondamentale del codice accusatorio, voluto a suo tempo da un eroe della Resistenza pluridecorato, il senatore Vassalli”. Con il codice all’anglosassone del 1989, dice Nordio che si sarebbe dovuto trasformare anche l’ordinamento giudiziario. Ora ci penserà il destra-centro. “Senza separazione delle carriere e senza composizione diversa del Consiglio superiore della magistratura, questo codice, che noi intendiamo ricostruire, non avrebbe significato”. Non sarà un percorso facile. La magistratura associata alzerà le barricate. Le opposizioni faranno di tutto per rallentare il cammino della riforma in Parlamento. Dice Alessandro Cattaneo, Forza Italia, ospite di Metropolis, il web talk del gruppo Gedi: “Non vogliamo si inneschi di nuovo una guerra santa tra magistratura e politica, proprio perché vogliamo arrivare ad una riforma che vada dalla separazione delle carriere alla responsabilità civile dei magistrati”. Il governo stesso si rende conto che non sarà facile portare a compimento due distinte riforme di rango costituzionale, superando due referendum confermativi. “L’iter sarà ovviamente lungo, per di più intersecandosi con quello sulla riforma del premierato…”, conclude Nordio. Nordio alla Camera: presto separazione carriere e interventi su affettività in carcere di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 28 marzo 2024 Il Ministro della Giustizia parla a tutto campo rispondendo alla Camera a sei interrogazioni. Separazione delle carriere dei magistrati ad aprile, “al massimo a maggio”; “rimessa a punto” della legge Severino dopo la rimodulazione del traffico di influenze, e interventi a tutto campo per rendere meno gravose le condizioni dei detenuti: dagli interventi di prevenzione contro i suicidi, agli spazi per l’affettività in carcere ma anche percorsi per facilitare la ricerca di un lavoro e la formazione: sono 39 i detenuti laureati nell’anno. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio parla a tutto campo alla Camera rispondendo a sei interrogazioni. Separazione carriere - “La separazione delle carriere dei magistrati - afferma rispondendo all’on. Bisa della Lega- è nel programma di governo e sarà presentata entro il mese di aprile, al massimo di maggio di questo stesso anno. Sarà consustanziale alla riforma del Csm per ovvie ragioni che una separazione delle carriere comporta, quindi due Csm separati. Per fare una riforma radicale occorre cambiare la Costituzione, trattandosi di una revisione costituzionale l’iter sarà ovviamente più lungo e intersecandosi con la riforma del premierato avrà determinati tempi”. Legge Severino - In merito alla modifica della cosiddetta legge Severino, in relazione alle fattispecie di sospensione di amministratori regionali e locali a seguito di sentenze non definitive, Nordio (in risposta all’on. Pittalis - FI-PPE) ha affermato che “è all’esame di questa Camera, e speriamo che abbia una sollecita approvazione, la riforma per l’abolizione del reato di abuso di atti di ufficio, la rimodulazione del traffico di influenze e anche (diciamo) l’enfatizzazione della presunzione di innocenza attraverso la privacy dell’informazione di garanzia. Certo, anche per quanto riguarda la legge Severino, noi riteniamo che sia necessaria una rimessa a punto. Non è all’ordine del giorno ma sicuramente fa parte del nostro interesse”. Detenuti, affettività - Quattro le interrogazioni sul tema delle carceri. Partendo dalla questione della affettività sulla quale c’è stata una recente apertura da parte della Corte costituzionale, il Guardasigilli (interrogazione dell’on. Magi, Misto-+Europa) ha affermato che “bisogna tener conto innanzitutto del comportamento della persona detenuta in carcere, delle ragioni di sicurezza, ovviamente, e delle esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina”. “Dovranno essere create - e stiamo già iniziando a farlo, ma non è una cosa che si possa fare dall’oggi al domani - all’interno degli istituti penitenziari degli appositi spazi. Ovviamente anche il personale deve essere addestrato su questo, perché anche questa è una novità”. “Quello che posso dire - ha aggiunto - è che il governo, e chiaramente questo ministero, è perfettamente consapevole dell’importanza della questione ed è deciso a dare pienissima attuazione a quella che è la sentenza della Corte costituzionale. Nordio ha poi spiegato che è stato “istituito un gruppo di lavoro multidisciplinare, che prevede come componenti degli appartenenti del nostro ministero, del Garante nazionale per i detenuti, della magistratura di sorveglianza, dell’architettura penitenziaria. E questa direi che è più importante di tutti perché senza strutture, dovremmo convenire che questa novità sarebbe ancora più difficile realizzare. Ci saranno anche appartenenti del consiglio nazionale forense e del consiglio nazionale dell’ordine degli psicologi, anche questa è una presenza estremamente importante”. Carceri, suicidi - In merito al problema dell’aumento del fenomeno dei suicidi in carcere, Nordio (in risposta all’on. Benzoni - AZ-PER-RE) ha detto che i provveditorati dovranno verificare “se nei distretti di competenza siano stati stipulati i piani regionali di prevenzione, anche al fine di sollecitarne la pronta approvazione attraverso le interlocuzioni con le rispettive autorità sanitarie. Inoltre “si è avviato un percorso nazionale di intervento continuo, attraverso il Dap, i provveditorati e gli istituti penitenziari”. “Il 20 ottobre 2022 - ha aggiunto Nordio - è stato sottoscritto un protocollo d’intesa tra il Consiglio nazionale degli psicologi e il dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, per definire un diverso e più strutturato coinvolgimento degli esperti. Sono stati coinvolti il Consiglio nazionale dell’ordine degli psicologi, il gruppo di lavoro per lo studio degli eventi suicidari e un gruppo di lavoro che ha già reso una relazione finale”. Carceri, aiuto sociale - Riguardo poi le iniziative urgenti per la costituzione dei consigli di aiuto sociale nell’ambito del settore dell’assistenza penitenziaria e post-penitenziaria, si è prevista l’istituzione di una cabina di regia interistituzionale presso ciascuna regione, per realizzare la programmazione triennale integrata e condivisa. “Sono stati approvati e sono in corso di realizzazione otto piani triennali per un importo complessivo di oltre 22 milioni e i destinati che si prevede di raggiungere nel triennio sono circa 12.500”. “Stiamo lavorando, e molto, alacremente per portare il lavoro in carcere e soprattutto per trovare degli accordi con delle benemerite associazioni per trovare il lavoro ai detenuti una volta liberati - ha aggiunto Nordio (rispondendo all’on. Gadda IV-C-RE). Non è sufficiente che imparino un lavoro in carcere, occorre che una volta liberati si liberino a loro volta, scusate il bisticcio, del marchio di Caino del detenuto. Che vengano assorbiti nella società civile possibilmente attraverso un lavoro che già hanno appreso in carcere”. Carceri, laureati 39 detenuti - “Sono stati organizzati 952 corsi scolastici di primo livello cui hanno partecipato 11.025 detenuti. Sono stati promossi alla classe successiva 4.140 detenuti. Sempre nell’anno scolastico 2022-2023, sono stati attivati 808 corsi di secondo livello cui hanno partecipato 8.347 detenuti. Sono stati promossi alla classe successiva 5.115 detenuti”. Così il ministro della Giustizia Nordio (in replica a Lupi - NM(N-C-U-I-M) ha poi spiegato che “il numero complessivo dei detenuti coinvolti in percorsi di istruzione nell’anno scolastico 2022-2023 è quindi di 19.372, con un incremento, rispetto all’anno scolastico precedente, di oltre 2.000 unità. Per ciò che concerne gli studi universitari, nell’anno 2022, negli istituti sede di Poli universitari, 608 detenuti risultavano iscritti a corsi universitari. Negli istituti non sede di Poli universitari, 602 detenuti risultavano iscritti a corsi universitari. Nel 2022 hanno conseguito la laurea 39 detenuti. Per quanto riguarda i corsi di formazione professionale segnalo che, nel primo semestre del 2023, sono stati attivati 274 corsi professionali, cui sono stati iscritti 3.359 detenuti. I detenuti impiegati alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria risultano essere 17.042, mentre i detenuti impiegati non alle dipendenze risultano essere 2.848. I fondi assegnati per le retribuzioni e i detenuti lavoranti sono 123 milioni di euro”. Test, pagelle e carcere: la giustizia e le riforme del “vorrei ma non oso” di Alessandro Barbano e Roberto Zilletti Il Riformista, 28 marzo 2024 Più reati, più carcere, qualche garanzia, ma separazione delle carriere nel limbo. Gratteri senza freni: “Test? Al governo facciamoli per alcol e droga”. A un terzo di legislatura facciamo un bilancio al programma sulla giustizia del guardasigilli Nordio e del governo Meloni: tanti nuovi reati, pene inasprite, qualche buona garanzia in via di approvazione ma le vere riforme sono ancora sulla carta. Il dileggio di Nicola Gratteri al governo dice in controluce quanto alto sia il prezzo politico di una strategia riformatrice del tipo “vorrei, ma non oso”, qual è quella praticata in questo anno e mezzo di legislatura. Il guardasigilli ha appena varato i test per l’accesso alla toga, una misura bandiera che nessun impatto concreto avrà nel migliorare la giustizia. Allo stesso tempo, cedendo alle pressioni della magistratura associata, ha rinunciato alle cosiddette pagelle, cioè a una valutazione di merito sui provvedimenti di pm e giudici, la sola che potrebbe introdurre una qualche forma di responsabilità in un sistema che si percepisce legibus solutus. E il procuratore di Napoli, anziché ringraziare, attacca i test, suggerendo di estendere quelli dell’alcol e della cocaina ai rappresentanti del governo. È stato appena nominato al vertice di una delle più importanti istituzioni giudiziarie del Paese e già parla con il piglio di un antipotere. Oggi censura i ministri per una misura che pure esiste in tutti i sistemi giudiziari d’Europa, ieri bacchetta il rettore di Napoli, che ha osato accogliere un incontro tra gli studenti e Geolier, l’altro ieri se la prende con il Ponte sullo Stretto, discettando dall’alto di un podio morale che i media gli riconoscono. Nessuno dei giornalisti, che gli alzano vicendevolmente la palla, lo interrogherà sui governatori, sindaci, uomini delle istituzioni e delle professioni che in Calabria ha indagato, arrestato, dimissionato e portato a giudizio per poi vederli assolvere dopo anni, con una percentuale di innocenti processati che, per le sue principali inchieste, supera i due terzi. Meno che mai gli chiederà conto il governo, che ha rinunciato a introdurre una reale responsabilità professionale - quella civile è inesistente, quella disciplinare è una farsa - per impedire che i magistrati possano scalare i vertici a colpi di flop giudiziari. Perché, al netto delle migliori intenzioni del guardasigilli, sulla giustizia il bilancio di un terzo di legislatura per la maggioranza di destra-centro è molto al di sotto della sufficienza. Come documenta Lorenzo Zilletti nella nostra inchiesta all’interno, la coalizione dei “garantisti” ha fin qui confermato la vergogna dell’ergastolo ostativo, introdotto una miriade di reati e inasprito una parte rilevante di quelli già esistenti, rafforzato la legislazione antimafia, e da ultimo tentato di far approvare alcuni benemeriti cambiamenti che però galleggiano ancora in Parlamento. Il riferimento è all’interrogatorio preventivo e al tribunale collegiale per l’adozione delle misure cautelari, all’abolizione dell’abuso d’ufficio e alla tipizzazione del traffico di influenze, all’inappellabilità parziale da parte del pm delle sentenze di assoluzione, ai timidi limiti introdotti all’abnorme uso delle intercettazioni. Aggiungi a questo che la vera riforma di sistema, quella sulla separazione delle carriere e sul Csm, ancorché dichiarata come prioritaria, è stata già messa temporalmente in coda. Nonostante il governo abbia annunciato un disegno di legge postpasquale, l’iter del testo costituzionale già presente in Parlamento è stato azzoppato. C’è da chiedersi come una maggioranza che si arrende ai veti sulle pagelle possa spuntarla sulle carriere. Tra chi lo ha conosciuto in tempi in cui si presentava come un bastione del diritto penale liberale, il credito di fiducia di cui gode il guardasigilli è ridotto al lumicino. Ci vorrebbe uno scatto di reni e un coraggio che non si vedono, mentre cresce la sensazione che la maggioranza di destra-centro non sia immune alle paure e alle contiguità della sinistra giudiziaria che l’ha preceduta per anni a Palazzo. Il caso Bari ne è un esempio eloquente: l’uso spregiudicato dell’Antimafia per ribaltare l’egemonia progressista in Puglia ha come prezzo la subalternità della politica alle frange più politicizzate della magistratura e della burocrazia. Le stesse che si coalizzano contro ogni tentativo concreto di riformare il sistema. Dall’ergastolo alla resistenza passiva, una vera stretta - È l’ossessione del governo Meloni, sin dal primo vagito: il provvedimento passato alla “storia” come decreto Rave, contiene anche la risposta alla Consulta sulla concedibilità dei benefici penitenziari ai detenuti cd. ostativi (non solo ergastolani). Benché la legge di conversione abbia rimediato a qualche obbrobrio (cancellando la parte della cd. leggespazzacorrotti che inseriva i delitti contro la pubblica amministrazione tra le ostatività), il risultato complessivo è desolante: se legati da nesso teleologico, vengono inghiottiti nell’ostatività anche reati “comuni” che nulla hanno a che fare con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva; sparisce la distinzione tra chi vorrebbe collaborare ma non può e chi potrebbe collaborare ma non vuole; si rende più difficile la procedura di accesso ai benefici. La tenace difesa del 41 bis e la proposta di punire con l’inedito reato di rivolta in carcere perfino la resistenza passiva, confermano il giudizio iniziale. Più pene più aggravanti un sostanziale inasprimento - L’ossessione manettara si disvela anche nella iperproduzione di nuove fattispecie criminose, alcune già vigenti; altre in fase di approvazione. E nel continuo incremento delle pene già esistenti, direttamente o prevedendo nuove aggravanti. In questo, il governo Meloni porta allo zenit la politica securitaria già praticata da precedenti e diverse maggioranze. Agli occhi di vasta parte dell’elettorato, introdurre un reato equivale ad aver debellato il fenomeno che si intende contrastare. In più, costa zero. Via, dunque, con l’omicidio nautico; la detenzione e diffusione di istruzioni per la preparazione di esplosivi; truffe agli anziani; reato universale di gestazione per altri; aggravanti speciali per l’incendio boschivo; nuovo reato di occupazione arbitraria di immobili; Daspo urbano anche per i denunciati per delitti contro il patrimonio; incremento di pena per i reati di resistenza e violenza a pubblico ufficiale, ecc., ecc., ecc. Con una battuta, più che riflettere una politica criminale quest’attività normativa assomiglia a un gigantesco Rave-party. Interrogatorio e collegio due garanzie ancora in fieri - Il progetto di riforma, approvato dal Senato, attende ancora il voto della Camera. Lo spirito appare sinceramente garantista: sensato che si interroghi l’indagato prima di privarlo della libertà personale e che a decidere sulla misura carceraria sia un collegio di giudici. Se definitivamente adottata, la novità troverà però attuazione soltanto dopo due anni dalla promulgazione ed è comunque circoscritta all’ ipotesi di una richiesta di custodia in carcere e per reati di minore allarme sociale (resiste, anche nelle iniziative sorrette dai migliori intendimenti, la logica securitaria dei doppi e tripli binari). Per valutarne la bontà, occorrerà verificare se la collegialità delle decisioni non sia una finzione, come purtroppo già oggi accade frequentemente per i giudizi d’impugnazione; tanto quelli dei tribunali del riesame, quanto quelli chiamati a confermare o annullare le sentenze emesse nei gradi precedenti. E comprendere quale sia il destino, in termini di utilizzabilità successiva, delle dichiarazioni rese dall’indagato o dell’esercizio del diritto al silenzio. Intervento necessario per evitare gli abusi - L’intervento sulle due fattispecie è ancora in itinere, essendosi per adesso pronunciato soltanto il Senato. Della cancellazione (più che opinabile sul piano teorico) dell’abuso d’ufficio, porta la responsabilità l’ostinazione con cui la giurisprudenza ha interpretato il significato dell’espressione “violazione di legge”. Norme generalissime di comportamento e perfino l’art. 97 della Costituzione hanno continuato a far da base a molte incriminazioni e condanne, anche dopo che -reiteramente - il legislatore era intervenuto a modificare il testo dell’art. 323 c.p. Si perde quello che nella tradizione liberale doveva essere un baluardo contro i soprusi della pubblica autorità, per la smania di sconfinamento soprattutto di molti pubblici ministeri in territori riservati all’esercizio di discrezionalità amministrativa. Quanto al traffico di influenze illecite, è difficile piangere per la riscrittura in termini restrittivi di una delle fattispecie di reato più indeterminate e flou che siano mai uscite dalla penna dei precedenti legislatori. Giusto limite al potere di chi accusa: è garantismo - Di garantismo timido, potrebbe parlarsi per la proposta governativa di abrogare il potere di appello del pubblico ministero contro le assoluzioni dai reati a citazione diretta (quelli, cioè, di minor allarme sociale). Le ragioni che giustificano l’amputazione dell’appello dell’accusa (cui resta sempre il potere di ricorrere in cassazione) valgono a prescindere dal tipo di reato per cui si è processato l’imputato. Esse risiedono nella garanzia, assicurata da norme sovranazionali, per cui ogni condannato ha diritto che l’accertamento della sua colpevolezza sia riesaminato nel merito da un tribunale di seconda istanza. Oggi l’assolto in primo grado, se condannato in appello a seguito d’impugnazione del PM, è ingiustificatamente privo di questa garanzia: potrà, infatti, soltanto ricorrere in cassazione per motivi di legittimità e non di merito. Resiste, anche in questa proposta di Nordio, l’assurdo presupposto che le garanzie debbano diminuire col crescere della gravità del reato. Invece di frenarle il governo le ha estese - Dopo aver proclamato che sarebbe intervenuto per limitare l’uso delle intercettazioni, il ministro Nordio ha dovuto digerire l’intervento con cui il governo Meloni ha esteso ulteriormente il potere di usare questo strumento investigativo (trojan incluso) quando si indaghi per l’ipotesi di associazione mafiosa e reati connessi, nonché per reati comuni ma posti in essere con modalità mafiose. Si afferma così per via legislativa ciò che la Cassazione aveva escluso in sede giurisprudenziale: chi è accusato di un reato comune aggravato dal metodo mafioso potrà essere trattato nello stesso modo di chi è accusato di un reato di mafia. A questo provvedimento si è aggiunto quello varato dal Parlamento per porre freni al processo mediatico, vietando ai giornalisti la pubblicazione per intero o per estratto delle ordinanze di custodia cautelare e lasciando salva la possibilità di descriverne il contenuto per riassunto. La norma, ispirata da un giusto spirito, non è tuttavia priva di controindicazioni. Valutazioni a campione un’occasione sciupata - Il decreto legislativo che contiene anche le norme su quelle che vengono definite le “pagelle” riguarda regole che dovrebbero presiedere alle valutazioni di professionalità necessarie per l’avanzamento in carriera. E che dovrebbero costituire utile base anche nel momento in cui il CSM attribuisce gli incarichi direttivi. Il testo compie un passo indietro rispetto a quanto il governo Draghi aveva azzardato, scatenando la protesta di ANM culminata addirittura in uno sciopero. Pietra dello scandalo era aver messo da parte gli automatismi e aver creato un “fascicolo delle performance”, in cui sarebbero dovuti confluire tutti i provvedimenti adottati dal magistrato. Il governo Meloni pare aver assecondato i desiderata di ANM, garantendo che i controlli sull’attività dei magistrati (non solo la “tenuta” dei provvedimenti, ma la produttività, i tempi delle decisioni, il disbrigo degli arretrati, ecc.) saranno effettuati a campione. Questa tipologia di controllo è per sua natura poco efficace e scarsamente rispondente al reale profilo del valutato. Si è così frustrata anche la possibilità di ricorrere a valutazioni statistiche, di per sé non onnicomprensive ma più idonee. Misura doverosa ma perché solo all’accesso? - L’ANM è già in rivolta e grida all’incostituzionalità. Lo stesso decreto legislativo di riforma dell’ordinamento giudiziario introduce per la prima volta i test psicoattitudinali per i magistrati, al momento del loro reclutamento, nel quadro delle prove orali di concorso. L’individuazione deitest sarà opera del CSM, mentre la formulazione del giudizio finale compete alla commissione esaminatrice. È difficile comprendere, data la genericità della previsione, se la novità riuscirà a garantire una migliore qualità delle decisioni giuridiche. Qualche perplessità nasce dal fatto che i test siano previsti soltanto in ingresso e non anche al momento delle verifiche periodiche di professionalità. Certo non sembra così scandaloso e oltraggioso nei riguardi della magistratura che l’Italia si doti di uno strumento di cui si avvalgono da tempo altri paesi dell’Europa occidentale. Magistrati legislatori una partita persa - Un bel rinvio al 2026 segna il dibattito attorno alla questione dei magistrati distaccati nei ministeri. Eppure la vicenda investe lo stesso principio della separazione dei poteri. È anomalo che da una parte si reclami autonomia e indipendenza della magistratura e dall’altra si consenta che una quota di appartenenti all’ordine giudiziario vada ad occupare gangli decisivi nell’ambito del potere esecutivo. Restando dalle parti di via Arenula, Capo di gabinetto, Capo dell’ufficio legislativo, vertici di DOG, DAP e DAG sono tutti magistrati. E quegli stessi uffici vedono magistrati tra i loro componenti. Quando si lamenta, e giustamente, la perdita di centralità del Parlamento, bisognerebbe prima interrogarsi su chi sia il legislatore reale. Anche i più ingenui scoprirebbero che in molti casi è la magistratura che interpreta le leggi che un minuto prima ha finito di scrivere. Progetto a maggio: è una corsa a ostacoli - La prossima legge sulla separazione delle carriere dei magistrati (giudicante e requirente) “sarà presentata entro il mese di aprile, al massimo a maggio - ha detto ieri il guardasigilli Nordio - e sarà consustanziale alla riforma del Consiglio superiore della magistratura per ovvie ragioni, quindi ci saranno due Csm separati”. Si tratterà di “una riforma radicale per la quale occorre cambiare la Costituzione e l’iter sarà ovviamente più lungo”. Non solo. “Anche per quanto riguarda la legge Severino - ha aggiunto il Guardasigilli - noi riteniamo che sia necessaria una rimessa a punto. Non è all’ordine del giorno ma sicuramente fa parte del nostro interesse”. Non si può che condividere e insieme dubitare. Perché la separazione delle carriere si fa con una legge costituzionale, che viene posposta all’approvazione del Premierato e che rappresenta per il governo una prova molto difficile. Non solo per le resistenze nella magistratura, associata e non solo (anche la Presidente della Cassazione Cassano ha espresso sul tema le sue perplessità), ma per le divisioni che esistono anche nella maggioranza. Non resta che dire: se son rose fioriranno. “La legge Severino va rimessa a punto. I suicidi in carcere? Un fardello” di Valentina Stella Il Dubbio, 28 marzo 2024 Il ministro della Giustizia Carlo Nordio rilancia la separazione delle carriere al Question time. Ma sulle carceri non ha soluzioni. Nulla di nuovo sotto il cielo di Montecitorio, potremmo dire dopo aver ascoltato le risposte date ieri dal ministro Nordio a varie interrogazioni. La Lega, partito della sua maggioranza, gli ha chiesto quali siano tempistiche per l’adozione e l’approvazione in Consiglio dei ministri della riforma della separazione delle carriere e modifiche dell’assetto del Csm. Il Guardasigilli ha detto quello che va ripetendo da giorni: “È nel programma di governo e sarà presentata entro il mese di aprile, al massimo di maggio di questo stesso anno. Sarà consustanziale alla riforma del Csm per le ovvie ragioni che una separazione delle carriere comporta, quindi due Csm separati. Per fare una riforma radicale occorre cambiare la Costituzione, trattandosi di una revisione costituzionale l’iter sarà ovviamente più lungo e intersecandosi con la riforma del premierato avrà determinati tempi”. Azione invece, giunti al 27esimo suicidio in carcere, lo ha interrogato su quali iniziative urgenti intenda adottare per combattere il fenomeno. L’ex magistrato, come un mantra, ha ripetuto: “È un fardello di dolore, che si è sedimentato negli anni. Non è facile porre un rimedio rapido a un fenomeno sedimentato però stiamo portando avanti molteplici attività per garantire un maggiore innalzamento dei livelli di presidi. Si è avviato un percorso nazionale di intervento continuo, attraverso questo Dipartimento, i provveditorati e gli istituti penitenziari. Sono tutti organismi coinvolti in una prospettiva di rete nella prevenzione di questi eventi drammatici”. Insoddisfatto l’interrogante, perché “lei, ministro, ha risposto come se il fenomeno non fosse una emergenza”. Forza Italia invece ha posto in evidenza la “discrasia” sulla legge Severino: essa “contempla l’incandidabilità e il divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo quale conseguenza di una condanna definitiva, mentre gli articoli 8 e 11 prevedono la sospensione di amministratori regionali e locali a seguito di sentenze non definitive e, dunque, suscettibili di cambiamento nel corso dell’iter processuale”; tuttavia “numerosi sono stati nel corso degli anni i casi di amministratori locali condannati in primo grado e poi assolti”; quindi “è evidente che tale meccanismo debba essere rivisto, al fine di allineare alle disposizioni previste dalla legge Severino per gli incarichi di Governo nazionali quelli locali e regionali, collegando la sanzione della sospensione ad una condanna definitiva, così come imposto dalla Costituzione”. Il Guardasigilli ha replicato: “Sapete che è all’esame di questa Camera, e speriamo che abbia una sollecita approvazione, la riforma per l’abolizione del reato di abuso di atti di ufficio, la rimodulazione del traffico di influenze e anche (diciamo) l’enfatizzazione della presunzione di innocenza attraverso la privacy dell’informazione di garanzia. Certo, anche per quanto riguarda la legge Severino, noi riteniamo che sia necessaria una rimessa a punto. Non è all’ordine del giorno ma sicuramente fa parte del nostro interesse”. Ha concluso sul punto: “Non possiamo certo sottacere che l’attuale disciplina normativa necessita di una rimeditazione che sia finalizzata alla ricerca di un miglior punto di equilibrio tra i valori di pari dignità. Come avete opportunamente ricordato voi negli ultimi anni sono stati numerosi casi di amministratori che sono stati messi alla gogna mediatica prima ancora che quella giudiziaria attraverso la diffusione pilotata dell’informazione di garanzia, magari rivolta per reati inconsistenti”. L’ultima interrogazione è stata quella di Riccardo Magi, di + Europa su quali disposizioni abbia dato il ministro a seguito della decisione della Corte costituzionale “di rendere pienamente e direttamente esercitabile il diritto all’affettività in carcere”. Il ministro della Giustizia ha terminato: “Questo diritto è sancito dall’etica, dal buon senso e dalla sentenza della Consulta. Converremo però che si tratta di dare esecuzione a un principio, che io condivido, ma nella pratica non è facile da realizzare per varie ragioni, logistiche e di sicurezza”, aggiungendo che sul tema si sta lavorando ed è stato “istituito un gruppo di lavoro interdisciplinare. Bisognerà tenere conto del comportamento della persona detenuta in carcere, dovranno essere creati, negli istituti penitenziari, appositi spazi, e anche il personale deve essere addestrato. Questo ministero è perfettamente consapevole della questione ed è deciso a dare pienissima attuazione alla sentenza della Consulta”. Magi ha suggerito a Nordio di portare in visita la Commissione nei Paesi dove già il diritto è attuato. Nordio valuta ancora modifiche sui test psicoattitudinali ai magistrati di Ermes Antonucci Il Foglio, 28 marzo 2024 Il testo del decreto legislativo approvato martedì sarebbe ancora aperto ad aggiustamenti. Lo scopo è evitare lo scontro frontale con le toghe. Carbone (Csm): “Svolgere i test prima del concorso”. Come era prevedibile, la decisione del governo di introdurre i test psicoattitudinali per l’ingresso in magistratura ha scatenato la dura reazione del mondo togato. L’Anm ha parlato di “ingerenza del governo” e ha paventato uno sciopero. Fonti vicine a Via Arenula, però, fanno sapere che il testo del decreto legislativo è ancora aperto ad aggiustamenti. Lo scopo sarebbe evitare lo scontro frontale con le toghe. In questo contesto si inserisce la proposta che Ernesto Carbone, membro laico del Csm, avanza al Foglio: “Sottoporre i magistrati ai test psicoattitudinali già previsti per le forze dell’ordine, ma prima dell’esame scritto e orale, quindi prima del concorso, così da rispettare la Costituzione”. Facciamo un passo indietro. La prima bozza del decreto legislativo predisposta dal Guardasigilli Carlo Nordio prevedeva che, terminate le prove orali per l’accesso in magistratura, sarebbero stati “designati degli esperti qualificati per la verifica dell’idoneità psicoattitudinale allo svolgimento delle funzioni giudiziarie”. Le procedure di verifica sarebbero state determinate dal Consiglio superiore della magistratura d’intesa con il ministro della Giustizia. Il provvedimento, immediatamente criticato dall’Associazione nazionale magistrati, tanto da essere definito “incostituzionale”, è stato poi cambiato nei giorni successivi, fino ad arrivare al testo approvato mercoledì sera in Consiglio dei ministri. Il decreto legislativo, stando a quanto dichiarato in conferenza stampa da Nordio, ora prevede che la valutazione psicoattitudinale avvenga in forma di colloquio, da svolgersi prima dell’orale sulla base di test scritti che non è ancora ben chiaro dove e quando verrebbero effettuati dai candidati. Il colloquio orale sarà comunque diretto dal presidente della commissione esaminatrice (quindi da un magistrato), e non da uno psicologo, che sarà presente solo come ausilio. Infine la commissione esaminatrice, che valuta collegialmente, formulerà il giudizio conclusivo sulla totalità delle prove. Nonostante la vaghezza delle disposizioni, anche stavolta la misura ha scatenato l’indignazione dell’Anm, che ha avanzato l’ipotesi di uno sciopero (si deciderà fra dieci giorni). In questo contesto nasce la proposta di Ernesto Carbone, membro laico del Csm: “Propongo di effettuare i test psicoattitudinali prima dell’esame scritto e orale. Il test, in altre parole, servirebbe per accedere al concorso. In questo modo verrebbe rispettata la disposizione costituzionale secondo cui le nomine dei magistrati hanno luogo per concorso”, spiega Carbone al Foglio. “Questa modalità potrebbe rappresentare una giusta mediazione fra le posizioni del governo e quelle dell’Anm”, aggiunge Carbone. “Dopodiché magari si potrebbe cominciare a parlare dei veri problemi della giustizia, che sono altri, come i tempi eccessivamente lunghi, le quasi 130 mila prescrizioni all’anno, i 27 mila innocenti finiti in carcere dal 1992 al 2018 (più di mille all’anno, tre al giorno)”, conclude Carbone. Intanto ieri, sempre al Csm, i consiglieri laici di centrodestra Enrico Aimi, Isabella Bertolini, Daniela Bianchini, Claudia Eccher, Felice Giuffrè e Rosanna Natoli hanno chiesto che il Consiglio superiore promuova uno studio comparato “per analizzare l’eventuale utilizzo e le modalità attuative dei test psicoattitudinali per l’accesso alla magistratura dei principali paesi europei ed extraeuropei”. “Ritengo ingiustificato tutto questo clamore attorno a una misura che è fatta anche a tutela della magistratura, perché ci sono magistrati che danno un’immagine della categoria inaccettabile e dimostrano di non essere adatti a giudicare a tempo indeterminato i cittadini”, dichiara al Foglio Gaetano Pecorella, giurista ed ex parlamentare di Forza Italia. “Ho sempre detto che se un pilota d’aereo, come è accaduto, può uccidere duecento persone perché preso da un momento di follia, un magistrato nel corso della sua vita può fare di peggio se non ha equilibrio e ha deviazioni psicologiche”, aggiunge, ricordando come i test psicoattitudinali per le toghe vennero introdotti per la prima volta con la riforma dell’ordinamento giudiziario del 2005, salvo poi essere subito rimossi dal successivo governo di centrosinistra: “I test psicoattitudinali sono già stati legge dello stato, seppur per pochissimo tempo. Inoltre si prevedeva che questi test venissero svolti periodicamente, essendo quello del magistrato un lavoro estremamente rilevante, visto che si passa la vita a giudicare gli altri”. Perdere il potere totale sui concorsi, il vero “terrore” delle toghe di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 28 marzo 2024 In gioco i posti nelle commissioni d’esame, che dovranno accogliere psichiatri e psicologi. Ma non è che dietro la levata di scudi contro i test psicoattitudinali ci sia il timore da parte delle toghe di perdere il “controllo” sulle procedure concorsuali? L’introduzione dei test, infatti, comporterebbe per la prima volta la partecipazione di psichiatri o psicologi, gli unici che attualmente sono abilitati ad effettuarli, alle Commissioni d’esame. Le Commissioni oggi sono composte per la quasi totalità da magistrati, a cui si affiancano qualche avvocato e qualche professore universitario. Sui 28 componenti mediamente previsti, le toghe sono 20, di cui una è poi il presidente della Commissione. Far parte della Commissione di concorso è molto ambito per i magistrati. Ed infatti le domande per farne parte sono quasi sempre centinaia. Il Csm, dall’alto della sua discrezionalità, effettua allora una loro cernita, definendo due “panieri”: uno di penalisti e l’altro di civilisti. È prevista anche una quota di genere e una distribuzione territoriale dei componenti in relazione al numero dei magistrati in servizio nelle varie sedi. L’obiettivo sarebbe quello di favorire il “pluralismo’ nell’ambito della formazione delle Commissioni stesse. La scelta di chi farà parte di questi due panieri attiene al percorso professionale, all’esperienza in altre Commissioni d’esame, nell’esclusione dei magistrati che abbiano invece già fatto parte di quella per il concorso in magistratura, a non avere un incarico direttivo o semi direttivo. Vengono anche valutate le percentuali di scopertura per alcuni uffici, altre funzioni esercitate, e non è possibile indicare più di un magistrato per Ufficio (salvo per gli uffici più grandi). Da questi panieri vengono quindi selezionati i 20 titolari e i 20 supplenti, con il tanto bistrattato sorteggio a cui, però, nessuno ha mai avuto modo di presenziare. “Vengono sistematicamente nominati quali componenti, per lo più, magistrati non molto conosciuti”, affermò uno che se ne intende, l’ex giudice di Cassazione Antonio Esposito, sottolineando che i componenti di solito sono “più conosciuti in ambito correntizio”. “Tale operazione - aggiunse - è stata agevolata da una normativa, varata anni orsono con il placet dell’Associazione nazionale magistrati, che ha drasticamente ridotto il numero dei più qualificati magistrati di Cassazione”. Il concorso in magistratura dovrebbe puntare a scegliere i migliori. Ed infatti da concorso di “primo grado”, aperto ai neo laureati, si passò ad un concorso sostanzialmente di secondo grado, con i candidati che dovevano possedere dei titoli maturati in un percorso post universitario per essere ammessi alle prove. Ora con la riforma Cartabia si torna al passato. La domanda da porsi, in conclusione, è se non sia il caso di rivedere anche le norme che regolano la composizione della Commissione di concorso, appannaggio esclusivo delle toghe. Se si vuole una selezione adeguata, la Commissione di concorso non può non essere di elevato livello. I primi ad esserne consapevoli dovrebbero essere i magistrati stessi che, invece, sembrano considerare psichiatri e psicologi come intrusi e non come portatori di un contributo specialistico nella scelta delle toghe del futuro. Test ai magistrati, la battaglia ora si sposta al Csm di Valentina Stella Il Dubbio, 28 marzo 2024 Togati uniti a Palazzo dei Marescialli, mentre i laici si spaccano. Sisto: “Io non sono un fan dei test”. E Gratteri: “Fateli pure ai politici, assieme al narcotest”. Ora scende ufficialmente in campo anche il Csm in merito ai test psicoattitudinali per l’accesso in magistratura introdotti dal Governo, approvati ieri in Cdm all’interno dello schema di decreto attuativo sull’ordinamento giudiziario. Oggi il Comitato di Presidenza ha autorizzato l’apertura di una pratica avente ad oggetto la disamina della questione relativa all’annunciata introduzione “della verifica dell’idoneità psicoattitudinale di coloro che abbiano superato le prove scritte e orali del concorso in magistratura; verifica non contemplata nello schema di decreto legislativo e sulla quale, quindi, il Csm non ha avuto modo di esprimersi”, sottoscritta da tutti i togati e dai laici Carbone (Iv), Romboli (Pd), Papa (M5S). Diverse le posizioni di Enrico Aimi (Fi) - “L’introduzione dei test psicoattitudinali per l’accesso in magistratura non va visto né come uno strumento punitivo per i magistrati, né come una camicia di forza all’ordine giudiziario, ma come il riconoscimento della fondamentale funzione che la Magistratura esercita in un Paese di elevata cultura democratica come il nostro” - e di Claudia Eccher (Lega) e Isabella Bertolini (Fi) - “L’introduzione di test psicologici per accedere alla magistratura è una misura necessaria per migliorare la qualità della nostra giustizia”. Il Consigliere del Csm in quota Area Dg, Marcello Basilico, presidente della VI Commissione che si occuperà della questione, ci ha precisato invece: “La commissione e, di conseguenza, il Csm non sono stati in condizione di esprimere il parere sulla norma relativa ai test psicoattitudinali, che non si trovava ancora nel testo trasmesso dal Ministro. Valuteremo ora se e in che misura il Consiglio potrà fare valere le sue attribuzioni in materia almeno di proposta di modifica legislativa”. A maggior ragione che il Ministro Nordio in conferenza stampa, mentre spiegava il provvedimento, ha dichiarato: “Non vi sono interferenze da parte del governo. Non c’è nessun vulnus, nessuna lesa maestà. Tutta la procedura di questo test è affidata al Consiglio superiore della magistratura”, rispondendo alle critiche arrivate dall’Anm che proprio oggi è tornata a parlare tramite il suo presidente Giuseppe Santalucia: “È una legge che entrerà in vigore dal 2026, abbiamo tutto il tempo per convincere che questa legge così non serve a niente, decideremo nel comitato direttivo centrale” che si terrà il 6 e 7 aprile. Ha provato a raffreddare i toni il vice ministro alla Giustizia Francesco Paolo Sisto, di Forza Italia, proprio il partito che più di tutti, ha preteso questa riforma: “Io non sono un fan dei test, lo dico sinceramente. Non sono convinto che siano decisivi”. Al contrario, il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Luca Ciriani, ospite ad Agorà su Rai3, ha difeso pienamente il provvedimento: “Mi dispiace che l’Anm giudichi tutto in maniera preventiva e sia contraria pregiudizialmente a un’iniziativa del governo. Io dico che se fossi candidato a fare il carabiniere, il vigile del fuoco, il militare e mi chiedessero, come è già previsto, un test psicoattitudinale, non mi sottrarrei. Ma non mi sottrarrei neanche se me lo chiedessero per candidarmi alle elezioni politiche o comunali perché lo ritengo un atto di trasparenza”. Per il M5S i test invece sono “la prova lampante che questo governo vuole delegittimare la magistratura all’interno del più ampio disegno di demolizione della sua autonomia e indipendenza. Lo scopo è esclusivamente politico e comunicativo: si vuole far credere che si debba intervenire sullo squilibrio di coloro che indossano la toga. Abusano così degli attuali rapporti di forza politica per regolare i conti con una magistratura che, per avere osato esercitare l’azione penale anche nei confronti di tanti potenti considerati intoccabili, venne testualmente definita come composta da ‘matti’, da persone che per fare quel lavoro erano ‘mentalmente disturbati’ e ‘antropologicamente diversi dal resto della razza umana’. È inaccettabile”. Critiche sono arrivate da Pd con il membro della Commissione giustizia della Camera, Federico Gianassi: “I test non erano contenuti nella legge delega, né nello schema di decreto approvato in prima battuta dal governo. Csm, organo costituzionale, scavalcato e tanti dubbi su procedure, tipologie di domande, obiettivi perseguiti. In materia di Giustizia servono investimenti e assunzioni, non continue prove di forza dettate da settarismo ideologico che alimentano scontri, suscitano preoccupazioni e dimenticano cittadini e imprese, ai quali invece il sistema dovrebbe dedicare ogni energia”. Mentre a far polemica ci ha pensato il Procuratore capo di Napoli, Nicola Gratteri: “Test attitudinali? Se la politica ritiene che siano indispensabili e utili i test per i magistrati, io aggiungo facciamoli per tutte le strutture apicali della pubblica amministrazione di questa nazione e quindi anche nei confronti dei politici, soprattutto quelli che hanno incarichi di responsabilità e di governo, incarichi regionali e comunali”. Ai test psicoattitudinali, Gratteri affiancherebbe anche il narco-test e l’alcol-test, perché, spiega, “chi è sotto effetto di droga non solo può fare ragionamenti alterati ma è anche ricattabile”. Al magistrato ha replicato il ministro per gli Affari Esteri, Antonio Tajani: “Non capisco l’agitazione, non si fanno test a un magistrato che è già magistrato ma si fa a chi vuole fare magistrato. Come l’esame di inglese e di diritto amministrativo, faranno anche quello psicoattitudinale”. E ancora: “Non andiamo a cercare il matto”. E infine: “Non c’è violazione dell’autonomia della magistratura, ci sarebbe interferenza se si facessero ai magistrati. È nell’interesse della magistratura che non ci siano persone con problemi psicologici, se sei narcisista puoi peccare di protagonismo”. Storia dell’Antimafia: l’emergenza s’è fatta regime di Sergio D’Elia* L’Unità, 28 marzo 2024 Negli ultimi trent’anni abbiamo assistito al degrado dalla Costituzione formale alla costituzione materiale. E il passaggio degradante è stato dall’ordine giudiziario al potere giudiziario, dall’ordine democratico al potere burocratico, dallo Stato di Diritto allo Stato dei Prefetti. Lo scioglimento dei comuni per mafia marchia e umilia per sempre le istituzioni rappresentative. Il Consiglio comunale di Africo è stato sciolto per mafia nel dicembre del 2019. Era composto da 12 ragazzi incensurati e da un sindaco studente universitario. La loro colpa? L’identità anagrafica, il rapporto di parentela, l’appartenenza a una comunità di poche anime nata col segno di Caino sulla fronte marchiato fino all’ultima discendenza di nomi e cognomi della stessa stirpe. Nessun delitto di sangue, nessuna appartenenza alla mafia. La colpa dei ragazzi del consiglio di Africo era di essere nati ad Africo. Il comune di Siderno è stato sciolto da un Prefetto che appena lasciata la Calabria ha pubblicato un libro dal titolo “Prefetto in terra di ‘ndrangheta”. Quasi fosse il capo militare di una spedizione coloniale in una terra barbara da liberare dal male e condurre alla civiltà. Quel Prefetto “sceso” in Calabria con le armi e i bagagli dell’antimafia ha travolto anche un Sindaco, Pietro Fuda, che in tutta la sua vita, da militante comunista, sindacalista, senatore della Repubblica, la mafia l’aveva davvero combattuta. Con le armi del diritto e della coscienza e non con la terribilità di leggi speciali e d’emergenza. Nell’aprile del 2017 questura e prefettura avevano delegato all’Amministrazione guidata da Paolo Mascaro l’organizzazione della Festa Provinciale della Polizia di Stato sino ad allora mai tenutasi in città. A novembre, su proposta della prefettura, il Consiglio Comunale di Lamezia Terme è stato sciolto. La colpa? Tra l’altro, aver assegnato alla Caritas per trent’anni, previo bando pubblico, un bene confiscato alla criminalità organizzata. L’anomalia? La durata temporale della concessione: trent’anni erano troppi. Il consiglio comunale di Sinopoli è stato sciolto per decreto il 1° agosto del 2019. Il pericolo mafioso consisteva nelle relazioni di parentela, affinità, frequentazioni tra amministratori e soggetti “controindicati” abitanti in un borgo di duemila anime in cui tutti sono parenti di tutti e amici di tutti. Il Comune di Mezzojuso è stato sciolto in diretta TV. Nel corso dell’ennesima puntata trasmessa dalla piazza del paese di una delle telenovele più lunghe dei talk-show italiani, il conduttore Massimo Giletti chiese all’allora Ministro degli Interni Matteo Salvini l’invio degli ispettori per una verifica di infiltrazioni mafiose. Come un imperatore al Colosseo che con il pollice decide la vita o la morte secondo il volere del popolo, il Ministro inviò i commissari prefettizi e qualche mese dopo il Comune fu sciolto. Il consiglio comunale di Monte Sant’Angelo è stato sciolto nel luglio del 2015 con la formula di rito: “condizionamenti della criminalità organizzata tali da alterare il libero esercizio delle funzioni politiche e amministrative”. Il Sindaco Antonio Di Iasio, una persona per bene lontana anni luce da logiche e pratiche criminali, non credeva a suoi occhi e ha subito pensato “avranno sbagliato Comune”, visto che una memoria dell’Avvocatura dello Stato scritta per Monte Sant’Angelo, che è in provincia di Foggia, veniva presentata a firma della prefettura di Reggio Calabria. L’eventuale scioglimento del Comune di Bari sarebbe l’ennesimo capitolo di una storia tutta italiana segnata tragicamente dal braccio violento della legge: la Giustizia che, nella sua raffigurazione classica, è personificata da Dike, la dea che in una mano brandisce una spada e con l’altra regge una bilancia. L’arma è in alto e incute timore, incombe minacciosa ed è pronta a colpire. La bilancia è in basso, i piatti a volte sono in perfetto equilibrio di bene e male, a volte sono impari e il torto predomina sulla ragione e, letteralmente, “torce” il “diritto”. E quando la giustizia tortura il diritto, inevitabilmente, tortura persone, violenta non solo la loro libertà e dignità, ma anche la loro vita. Gli ultimi trent’anni di storia italiana possono essere autenticamente testimoniati solo da chi li ha vissuti nei luoghi deputati, giudiziari ed extragiudiziari, del potere di Dike: le questure, i tribunali e le carceri, ma anche le commissioni parlamentari e le prefetture del nostro Paese, che un tempo era detto “culla del Diritto” e che oggi ne è divenuto, ormai, la tomba. Se apriamo le pagine di cronaca di un giornale o le pagine di un libro di Storia, non troveremo mai raccontate le vicende di un Paese alla luce dello stato del diritto, l’unico lume che può fare luce davvero su quanto è accaduto e continua ad accadere in Italia. Meno che mai sono raccontate le storie delle vittime - gli imprenditori espropriati dei loro beni, gli interdetti dai pubblici affari, i sindaci, gli assessori e i consiglieri comunali derubati del voto popolare - che hanno vissuto sulla propria pelle la morte del diritto. Negli ultimi trent’anni, abbiamo assistito al degrado dalla Costituzione formale, scritta dai nostri padri costituenti, alla costituzione materiale, riscritta e interpretata dai nostri governanti. A ben vedere, il passaggio degradante è stato dall’ordine giudiziario al potere giudiziario, dall’ordine democratico al potere burocratico, dallo Stato di Diritto allo Stato dei Prefetti. Ordine e potere non sono compagni, sono nemici. “Ordine” è sinonimo di “diritto”, legge fondamentale, armonia, equilibrio, insieme di cose diverse. Non “legge e ordine”, occorre assecondare la legge che è - voce del verbo essere - ordine, il principio d’ordine da cui tutto origina, che tutto lega e a cui tutto tende. La “guerra dei trent’anni” dichiarata dall’Italia alla mafia non è ancora finita. Se la mafia non è più quella di una volta, criminale e stragista, se i capi dei capi sono morti o sepolti nelle carceri, il cimitero dei vivi, permane la setta religiosa che quella guerra ha ispirato e alimentato alimentandosene. La professione di fede antimafiosa non ammette tregua, deroga giuridica, tentennamento politico, eresia garantistica. Lo stato di guerra non può essere dichiarato finito. L’armamentario emergenzialista di leggi, misure, procedure e apparati speciali non può essere smantellato. Questo stato di cose non è più un sistema, è un regime. Sì, di questo si tratta e così va chiamato: regime. Perché quando uno stato di guerra e di emergenza dura da così tanto tempo, essendo la durata la forma delle cose, questa forma di stato - illiberale, antidemocratico e violento - diventa, tecnicamente, un regime. Così abbiamo definito, giustamente, il regime fascista, che è durato un ventennio. Il nostro regime democratico di emergenza antimafia dura ormai da oltre un trentennio. Eppure, pochi si scandalizzano, quasi nessuno ne chiede la fine. In questo trentennio di guerra di religione contro la mafia sono stati traditi i principi sacri, le norme universali, le regole fondamentali dello Stato di diritto, del giusto processo, della presunzione di innocenza. Ai processi e ai castighi penali sono stati affiancati e spesso preferiti processi sommari e castighi immediati e più distruttivi. Quelli delle misure di prevenzione, dei sequestri e delle confische personali e patrimoniali, che hanno minato la libertà di impresa e il diritto al lavoro, hanno spogliato della proprietà le imprese e a volte dei beni minimi essenziali intere famiglie. Quelli delle informazioni interdittive antimafia, delle black e delle white list prefettizie, che hanno stravolto il sistema di trasparenza e libera concorrenza e imposto il controllo di fatto sull’economia degli organi di governo sul territorio. E quelli dello scioglimento dei Comuni per mafia che umilia e marchia per sempre le istituzioni rappresentative di base. Pochi si rendono conto che l’annullamento per decreto del potere centrale della vita democratica di base - la competizione politica, la partecipazione popolare, le elezioni - trasmette un messaggio devastante: cioè, che la democrazia è un sistema superato, le istituzioni più vicine ai cittadini sono forme anacronistiche della vita politica. Quasi nessuno considera che lo scioglimento di un Comune per mafia ha il significato anche di infliggere, non solo al suo sindaco, alla giunta e al consiglio comunale, ma all’intera comunità, la “pena di infamia”, una pena che veniva comminata solo nel Medioevo. Con quel marchio, i dignitari perdevano la loro dignitas, venivano degradati al rango degli “infami”, di cittadini senza cittadinanza. Vige in Italia un sistema di potere arbitrario, pieno e incontrollato di cui sarebbe ora di liberarsi. La giustificazione al suo permanere è sempre la stessa: la mafia è il male assoluto e il fine di combatterlo giustifica ogni mezzo. Anche se i mezzi che lo Stato usa a fin di bene assomigliano molto ai mezzi usati dall’anti-Stato a fin di male. Anche se segnano la fine dello Stato di diritto e il trionfo dello Stato di sospetto, il ritorno allo Stato dei Prefetti d’epoca fascista. In nome dell’emergenza e del pericolo mafioso, il Prefetto è diventato il dominus assoluto e incontrastato sulla vita politica, economica, sociale e amministrativa a livello locale. Di fatto decide sull’esercizio dei diritti civili e politici di una comunità, sulla libertà di fare impresa, sul diritto al lavoro, sulla vita di imprenditori e lavoratori. In definitiva, sulla vita del diritto e sul diritto alla vita nel nostro Paese. “Abolire i Prefetti!”. Sarebbe ora di riprendere la battaglia che fu di Luigi Einaudi, e dopo di lui anche di Marco Pannella, volta a superare questo retaggio del centralismo napoleonico, questa protesi del potere centrale di occupazione dello Stato sulla più periferica forma di vita democratica, politica e civile. *Segretario di Nessuno tocchi Caino Orfini: “La legge sullo scioglimento dei Comuni per mafia va rivista, ora è inutile” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 28 marzo 2024 Parla il dirigente nazionale dem, già presidente del Partito democratico. “Ci sono Comuni sciolti anche tre volte consecutivamente, a dimostrazione che quello strumento non risolve il problema”. Matteo Orfini, già presidente del Pd e uomo di punta del partito, dà il proprio parere sulla legge che scioglie i Comuni per mafia, precisando che “serve una discussione laica e a mente fredda su come rendere più efficace l’intervento in caso di infiltrazioni”. Onorevole Orfini, che idea si è fatto su quanto accaduto in questi giorni a Bari? Secondo me è tutto abbastanza lineare. C’è stata una forzatura grave da parte del ministro Piantedosi, perché non è assolutamente vera la sciocchezza che stanno ripetendo anche in queste ore alcuni ministri ed esponenti del centrodestra, secondo i quali la nomina della commissione sarebbe un atto dovuto. Non è vero. È un atto discrezionale e tra l’altro di solito è il prefetto che si muove, mentre qui è successo tutto a livello di Viminale. Il punto è che il centrodestra voleva fare campagna elettorale, e ha fatto benissimo Decaro a denunciare la strumentalità di quanto deciso da Piantedosi. Sul merito della vicenda, pensa ci siano stati errori, anche di comunicazione, da parte dell’amministrazione? Sul merito della questione c’è molta tranquillità. Nel senso che se uno conosce Bari sa che certe zone che prima delle giunte di centrosinistra erano in mano alla criminalità organizzata oggi sono tra le più belle della città. Noi la lotta alla malavita l’abbiamo fatta davvero. In passato il centrosinistra si è dimostrato giustizialista rispetto a casi analoghi che coinvolgevano sindaci di destra, come del resto sta facendo oggi la destra con voi: come si è arrivati a questo cortocircuito? Personalmente non ho mai cambiato la mia posizione. Penso che in questi casi si debba guardare al merito delle vicende. Mi capitò di gestire da commissario del Pd il fenomeno di Mafia capitale e non ebbi nulla da eccepire rispetto ai dovuti approfondimenti perché si parlava di fatti motivati e molto gravi. In casi così delicati si deve avere misura, equilibrio e senso delle istituzioni. Che Piantedosi e il centrodestra hanno dimostrato di non avere. C’è una proposta Pd, a firma Enza Bruno Bossio, di riforma della legge sullo scioglimento per mafia che giace in un cassetto: pensa sia ora di mettere mano a quella normativa? La legge su scioglimento e commissariamento nasce in un periodo in cui il fenomeno coinvolgeva piccoli e spesso piccolissimi Comuni. Oggi le infiltrazioni mafiose riguardano anche città di grandi dimensioni, e non è detto che quella norma sia ancora la più adatta a contrastare la criminalità organizzata. A volte sciogliendo un grande Comune e sostituendo tutti gli organi politici con un commissario si rischia, paradossalmente, di avere meno controllo. Ci sono Comuni sciolti anche tre volte consecutivamente, a dimostrazione di come quello strumento non risolva il problema. Serve una discussione laica e a mente fredda su come rendere più efficace l’intervento in caso di infiltrazioni. Tornando a Bari, come giudica le parole del presidente della Puglia Michele Emiliano? Penso che Emiliano abbia detto una frase sbagliata e anche un po’ confusa. Parliamo di una vicenda vecchia di vent’anni e probabilmente anche lui ha dei ricordi sbiaditi. Decaro, per la parte che lo riguarda, ha ampiamente chiarito, e anche qui mi concentrerei sui fatti. Ci sono sindaco e un’intera stagione politica in cui la lotta alla mafia è stata messa in campo con i fatti, non nei convegni. Come in queste ore, tra l’altro, hanno riconosciuto anche i nostri avversari. Venendo al Pd, pare ci sia subbuglio per le liste alle Europee, con la candidatura di Schlein ancora in bilico: come la vede? Fare le liste è un complesso lavoro di composizione, ma dobbiamo tenere insieme tre punti di forza: la leadership di una segretaria che, se in campo, aiuta a crescere il Pd; la necessità di apertura delle nostre liste a forze civiche e soggetti che aiutino nel voto d’opinione; la valorizzazione dei nostri dirigenti, che qualitativamente offrono ampie garanzie. Quindi è favorevole alla candidatura di Schlein? La segretaria in campo sarebbe una spinta in più per l’intero partito. Non si deve lasciare indietro la minoranza, ancor più in campagna elettorale, ma mi sembra che questa volontà ci sia. La discussione è normale in un partito che si dice democratico, e resta aperta con l’obiettivo di coinvolgere l’intero partito in vista della sfida elettorale. Pensa che le Europee, visto che si vota con il proporzionale, metteranno in difficoltà il percorso di avvicinamento tra Pd e M5S? È vero che si vota con il proporzionale ma nello stesso giorno si vota in tantissimi comuni anche importanti come Firenze, Bari e Perugia. Stiamo cercando di costruire la coalizione più ampia possibile e se è vero che alle Europee ciascuno valorizzerà il proprio partito non credo che questo spezzerà il lavoro di costruzione di un’alternativa alla destra. In quei giorni si vota anche in Piemonte, dove invece l’accordo con il M5S non si farà... In Piemonte stiamo facendo fatica e a oggi non abbiamo un accordo. Penso ci sia ancora tempo per lavorarci ed è un dovere provarci. Poi è chiaro che contano anche le storie territoriali e gli scontri in passato su Torino rendono tutto molto complicato. Ma attenzione: l’alleanza è uno strumento, non un fine, e quindi si deve prima costruire un progetto politico e poi attorno a quello aggregare le forze che vi si riconoscono. Sassari. Detenuto suicida a Bancali, Irene Testa: “Una strage senza fine” L’Unione Sarda, 28 marzo 2024 “La vita in carcere? Vale meno che all’esterno”: la riflessione della Garante dei detenuti dopo l’ennesimo suicidio. Il sistema penitenziario italiano è “in una condizione di emergenza”. Dall’inizio dell’anno si sono uccisi anche tre agenti. “Nelle carceri si continua a morire col cappio al collo. È una strage che sembra non avere fine”. Irene Testa, Garante regionale dei detenuti, commenta il suicidio del 52enne nel carcere di Bancali, il 27esimo dall’inizio dell’anno: “Questo dato è un campanello dell’allarme che indica che il sistema penitenziario è in una condizione di emergenza. A togliersi la vita sono anche gli agenti di polizia penitenziaria, tre dall’inizio dell’anno”. “Possibile - si chiede - che tutto il sistema carcere debba ricadere su chi lavora in quei luoghi e si fa finta di non vedere cosa accade? Fino a quando si pensa di poter contenere il malessere all’interno degli istituti nascondendo il problema. Il Presidente della Repubblica sproni Governo e Parlamento a intervenire”. Il 52enne si è impiccato al cancello della cella con il laccio dei pantaloni ed è stato trovato morto ieri mattina alle 6 dagli agenti penitenziari all’apertura per la conta. “Siamo costernati e affranti: un detenuto che si toglie la vita in carcere è una sconfitta per lo Stato e per tutti noi che lavoriamo in prima linea”, le parole di Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria. “Era rientrato la sera prima da un ricovero in ospedale - spiega il delegato nazionale per la Sardegna del Sappe, Antonio Cannas - Pare che soffrisse di problemi suicidari. Il detenuto era italiano. In cella con lui c’era un altro detenuto che pare non si sia accorto di niente perché dormiva. All’apertura del blindo della cella, l’uomo è stato trovato appeso al cancello”. Viterbo. Suicidio in cella di Hassan Sharaf, condannato il direttore del carcere di Angela Stella L’Unità, 28 marzo 2024 Il direttore della Casa circondariale di Viterbo è stato condannato (con pena sospesa) per omissione di atti d’ufficio nell’ambito del procedimento che sta accertando le responsabilità sulla morte di Hassan Sharaf, un ragazzo di 21 anni che si era tolto la vita il 23 luglio del 2018, impiccandosi con un lenzuolo nella cella di isolamento di questo istituto. A darne notizia è l’Associazione Antigone, che dopo aver presentato un esposto sul caso si era costituita parte civile nel procedimento. “La responsabilità del direttore, riconosciuta dal Tribunale di Viterbo, è quella di non aver trasferito il ragazzo in un Istituto Penale per Minorenni. Infatti Sharaf aveva commesso il reato da minorenne e avrebbe dovuto scontare la sua pena in un carcere minorile e non in quello per adulti dove si trovava”, ha spiegato sapere Simona Filippi, avvocata di Antigone. Assolti due agenti che, insieme al direttore dell’istituto, avevano scelto il rito abbreviato. Altri poliziotti e medici indagati nel procedimento hanno invece optato per il rito ordinario. “Questo processo -ricorda Antigone - si inserisce in una vicenda ben più ampia riguardo alla morte di Hasan Sharaf. Infatti qualche tempo prima del suo suicidio il ragazzo aveva mostrato ad una delegazione del Garante Regionale del Lazio per i diritti dei detenuti dei segni che, aveva dichiarato, essere frutto di un pestaggio subito da parte di alcuni agenti. Da qui erano nati una serie di esposti a cui aveva fatto seguito la richiesta di archiviazione da parte del Tribunale di Viterbo. È stata poi la Procura Generale presso la Corte d’Appello di Roma a dare nuovo sviluppo a questo filone dell’inchiesta avocandola a sé” “In quei mesi come Antigone avevamo presentato numerosi esposti in riferimento a presunti casi di violenze su cui, a poca distanza di tempo, avevamo ricevuto molte lettere di detenuti che raccontavano, in modo molto uniforme, di abusi. Ci auguriamo quindi che presto si faccia chiarezza totale sulla vicenda di Hasan Sharaf”, ha affermato il presidente dell’associazione Patrizio Gonnella. Gorizia. Visita dell’Osservatorio nazionale Aiga alla Casa circondariale di Daniele Tibaldi ilgoriziano.it, 28 marzo 2024 La visita di ieri dei legali si è svolta nell’ambito dell’iniziativa dell’Osservatorio nazionale Aiga sulle carceri, per verificare la situazione dei detenuti. La Casa circondariale “Angiolo Bigazzi” di Gorizia ha delle caratteristiche piuttosto rare, nel panorama nazionale, sotto più profili. Il primo, forse più noto, è di tipo storico-architettonico. L’edificio, costruito dall’architetto polacco Josef Wujtechowsky tra il 1899 e il 1902, si trova nel più ampio complesso del Palazzo di Giustizia. L’adiacenza al Tribunale - voluta dal ministero di Grazia e Giustizia di Vienna - è tipica solo di quelle carceri la cui edificazione risale all’epoca austro-ungarica: un caso simile, fuori dai confini dell’odierna Austria, è quello di Trieste. Il secondo aspetto è relativo alle condizioni in cui versa la struttura. Infatti, se la situazione del sistema penitenziario nazionale è notoriamente drammatica - al punto da portare gli avvocati penalisti a bloccare già due volte, dall’inizio dell’anno, le attività giudiziarie dei tribunali - quella nella struttura di via Barzellini è ben diversa. A testimoniarlo è la delegazione della sezione goriziana di Aiga (Associazione italiana giovani avvocati), che ieri ha visitato l’istituto di pena isontino. La visita si è svolta nell’ambito dell’iniziativa promossa dall’Osservatorio nazionale Aiga sulle carceri (Onac) in tutta Italia. A varcarne la soglia, ieri mattina, è stata l’avvocata Chiara Russo, presidente della sezione locale di Aiga, insieme ai colleghi Marco Nicolai (segretario di Aiga Gorizia e referente Onac per Aiga Gorizia), Sara Milazzo e la praticante Giorgia Persi. Ad accompagnarli c’era anche l’avvocata udinese Elisa Guerra, membro del Dipartimento nazionale di Onac. La situazione nel carcere - “Il quadro generale che abbiamo riscontrato è molto positivo - commenta a caldo Russo, subito dopo la visita - e se dovessimo dare un voto, da uno a dieci, sarebbe tra il sette e l’otto”. Continua sempre la legale goriziana: “Le condizioni igienico-sanitarie delle celle sono dignitose e la pena è sostanzialmente rieducativa per i detenuti presenti. Durante la nostra visita si svolgevano lezioni nelle varie aule presenti, per ottenere la possibilità di ottenere la licenza media e anche corsi di alfabetizzazione e professionalizzanti, come il corso di sanificazione, di serigrafia e di disegno tecnico”. A dimostrazione del fatto che il tempo, in carcere, viene utilizzato proficuamente, sono dieci le persone attualmente detenute che hanno completato con successo il corso di scuola media. Va specificato che, a differenza delle case di reclusione, l’istituto goriziano - attualmente diretto da Caterina Leva - ospita, oltre alle persone in attesa di giudizio, solo quelle condannate a pene inferiori ai cinque anni o con un residuo di pena inferiore ai cinque anni. Dei 78 ospiti della Bigazzi, 59 sono “protetti”, così chiamati perché autori di condotte contrarie all’etica della maggioranza della popolazione carceraria, come i collaboratori di giustizia e i condannati per reati di natura sessuale, altri 11 stanno scontando una pena per reati comuni e gli ultimi 8 sono in regime di semilibertà. Attualmente, 30 detenuti sono di origine straniera: “Ma - ci tiene a sottolineare Milazzo - si tratta di un dato non indicativo, perché caratterizzato da un alto tasso di variabilità nel tempo”. “I luoghi ci sono sembrati adeguati, con spazio a sufficienza in linea con i parametri di legge”, aggiunge Russo. Niente sovraffollamento, quindi, a differenza di quanto registrato a livello nazionale con livelli simili al 2013, anno della sentenza “Torreggiani” con cui la Corte europea dei diritti dell’uomo condannò l’Italia per la persistente violazione del divieto di infliggere pene o trattamenti inumani ai detenuti. “Le celle contengono da un minimo di due detenuti a un massimo di otto - continua l’avvocata - e tutte sono dotate di servizi igienici, doccia inclusa, oltre che di un’area giorno dove consumare i pasti”. L’ultimo tentato suicidio, in via Barzellini, risale a cinque anni fa. Un dato relativamente confortante se si considera che, secondo quanto riportato dalla Giunta dell’Unione delle Camere penali italiane, nei primi due mesi del 2024 si è registrato un suicidio ogni due giorni. Certamente aiuta la presenza continua di due educatrici, un medico e, a cadenza quindicinale o su chiamata, di psicologi. Anche la genitorialità è risultata essere molto assecondata, con progetti specifici dedicati a padri e figli. Non mancano occasioni di ritrovo per le famiglie all’interno della struttura: l’ultima è stata organizzata per il carnevale, mentre la prossima, la festa di primavera, è fissata per il 6 aprile. Sono consentiti anche festeggiamenti privati, come in occasione di compleanni, per i quali viene messa generalmente a disposizione la sala colloqui dei difensori, adeguatamente decorata con festoni e palloncini. Per i musulmani presenti, inoltre, è stato adeguato il servizio delle cucine, con la possibilità di usufruire di menu e orari conformi alle prescrizioni del loro credo e del Ramadan. L’80% dei detenuti, inoltre, risulta impegnato nelle varie attività offerte dall’istituto di pena e, di questi, 15 hanno anche un’occupazione stipendiata. Si tratta principalmente dei cosiddetti “casermieri”, ossia di coloro che si occupano dei servizi di sanificazione, e dei cuochi. I punti deboli - Ma non mancano anche degli aspetti critici. Il primo è il mancato adeguamento alla sentenza della Corte costituzionale con cui è stato riconosciuto il diritto all’affettività del detenuto. La sentenza, va detto, è molto recente. La decisione della Consulta risale al 26 gennaio scorso e implica la necessità di predisporre “luoghi appropriati” all’esercizio “dell’affettività intramuraria del detenuto […] in modo non sporadico”, così da garantire la riservatezza dell’incontro con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lui stabilmente convivente. Il carcere di via Barzellini è già stato oggetto di un’importante ristrutturazione tra il 2020 e il 2021 che ha interessato i locali per il pernottamento, mentre è ora in fase di progettazione un intervento nell’area dedicata ai semiliberi. Ma niente è ancora previsto per garantire uno spazio per l’affettività, a differenza di quanto sta avvenendo nell’omologa struttura di Udine. L’altro problema emerso, infine, è legato alla carenza di personale, specialmente nell’ufficio contabilità. Una criticità, questa, che riguarda in generale tutto il Palazzo di Giustizia, con gli uffici del Tribunale che faticano da anni a risolvere la grave carenza di personale amministrativo. Vicenza. Il vescovo Brugnotto: “Il carcere non è una discarica di persone” Corriere del Veneto, 28 marzo 2024 Il vescovo Giuliano Brugnotto, dopo una visita al “Filippo Del Papa”, ha voluto ricordare la realtà del carcere nel suo messaggio per la Pasqua. “Quando mi sono avvicinato al carcere mi è apparso con una struttura davvero grande nella nostra città: un “macigno” chiuso e inavvicinabile - afferma - Ma è una casa, e all’interno ci vivono persone come me, come ciascuno di noi, con storie personali uniche, spesso ferite, e con i loro legami familiari. Le persone che vivono in carcere ci ricordano una realtà fondamentale della nostra esistenza: siamo un’umanità fragile. E chi di noi può dire: io non ho mai sbagliato nulla nella vita?”. “La casa circondariale è, vorrei ribadirlo, una casa, non una discarica di cose che non servono più o di persone da eliminare dalla vista e dalla vita della città”, continua il vescovo, ricordando che sono detenute oltre 300 persone. “In mezzo a questi fratelli che stanno scontando una pena, meglio comprendiamo lo scandalo di ciò che ha vissuto Gesù - conclude - Non c’è carcere di massima sicurezza che non permetta di sperimentare quanto vale sempre e comunque la vita e quanto sia possibile rinascere a vita nuova anche dagli abissi più profondi del male compiuto. Con questi nostri fratelli, che vogliamo sentire vicini a noi, accogliamo la luce della risurrezione di Gesù che ci libera dalla paura e ci apre alla speranza di un mondo nuovo”. Catanzaro. Il “dolce lavoro” dei detenuti pasticceri, la solidarietà condivisa corrieredellacalabria.it, 28 marzo 2024 Camera Penale e associazioni presentano l’attività del laboratorio nato nell’istituto penitenziario del capoluogo e la rete con gli imprenditori. Un laboratorio di pasticceria nato in carcere per offrire un’opportunità di lavoro ai detenuti ma anche per testimoniare il valore dell’inclusione sociale e della solidarietà condivisa da una “rete” di soggetti. E’ questo il progetto attivato da alcuni anni al carcere di Catanzaro e messo in campo dalla società cooperativa “Mani in Libertà” con il sostegno della Camera penale “Alfredo Cantafora” di Catanzaro in collaborazione con alcuni imprenditori del capoluogo: il frutto di questo progetto, che si avvale della partnership della Direzione della Casa circondariale di Catanzaro, dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna, di “Promidea” e delle associazioni “Liberamente” e “Amici con il Cuore” che hanno aderito ad un bando indetto da “Fondazione con il Sud”, teso alla formazione professionale e all’assunzione dei detenuti, è la produzione di dolci particolarmente gustosi - in quest’occasione le colombe pasquali - che serviranno a fini sociali e soprattutto testimoniano l’importanza di dare dignità ai detenuti e di trasformare il carcere da luogo di emarginazione a luogo di inclusione. A fare il punto sull’attività del laboratorio di pasticceria, oggi, in una conferenza stampa i protagonisti del progetto radunati dalla Camera Penale di Catanzaro. “L’iniziativa - è stato spiegato nell’incontro con i giornalisti - ha determinato nel 2020 l’avvio di un laboratorio artigianale di pasticceria, che utilizza il marchio Dolci(C)reati”, e che si è subito distinto per la bontà dei prodotti dolciari, preparati attribuendo prevalenza alla qualità delle materie prime e alla professionalità dei pasticceri, rappresentando per gli interessati una straordinaria forma di riscatto e di recupero sociale anche attraverso il reinserimento nel mondo del lavoro”. Così il presidente della Camera Penale di Catanzaro Francesco Iacopino ha illustrato il progetto: “Abbiamo voluto cogliere questa sfida perché dopo l’avvio del laboratorio i primi a crederci è stato il mondo del volontariato perché è stata costituita una cooperativa per poter avviare questo percorso di produzione e vendita all’esterno. La direzione della casa circondariale ha approvato e sostenuto questo percorso, è chiaro che ci voleva un ponte con la società civile e di questo si è fatta carico la Camera Penale che con l’Unione delle Camere Penali è sempre molto attenta al mondo dell’esecuzione penale. Il nostro compito è stato quello di creare un collegamento tra il laboratorio costituito in carcere e le catene di distribuzione, gli imprenditori che si occupano di distribuzione, soprattutto di grande distribuzione, perché l’obiettivo non è quello di consentire occasionalmente la vendita, ma di stabilizzare questo percorso professionale perché anche Catanzaro possa avere una nicchia. Il carcere come luogo in cui si lavora e si produce e si riesce quindi a avviare quel percorso di recupero, di reinserimento sociale attraverso la dignità del lavoro che certamente non deve essere negata i detenuti. Anzi, questa rappresenta la formula migliore perché i tassi di recidiva, una volta terminato il percorso penitenziario, possono essere del tutto elisi. Ecco perché - ha aggiunto Iacopino - crediamo molto in questo progetto e ecco perché ringraziamo sinceramente gli imprenditori che hanno raccolto questa sfida e che grazie a questi iniziali percorsi di vendita permetteranno ai detenuti di far conoscere il loro prodotto ma soprattutto sono certo di stabilizzare questa attività in modo tale che possa rendersi autonoma e possa fare a meno di noi perché se farà a meno di noi vuol dire che avremo raggiunto l’obiettivo”. Secondo Orlando Sapia, segretario della Camera Penale di Catanzaro, “questa è un’iniziativa che vuole creare un ponte con la società e questi ponti dovrebbero essere tanti e dovrebbero essere in tutte le realtà penitenziarie. Le carceri molto spesso si trovano all’esterno delle società e non hanno nessun contatto. La situazione è allarmante negli istituti, quindi questa iniziativa che crea un ponte arriva nel momento opportuno”. Alla conferenza stampa hanno partecipato anche i rappresentanti di alcuni dei gruppi imprenditoriali di Catanzaro, titolari dei più importanti marchi della grande distribuzione, che hanno aderito al progetto, come il gruppo Noto e il gruppo Rotundo. Daria Bignardi: “Trent’anni di attività in carcere, condivido il mio viaggio” Samuele Govoni La Nuova Ferrara, 28 marzo 2024 La giornalista e scrittrice è tornata in libreria con “Ogni prigione è un’isola”. “Quello del carcere è un tema doloroso e respingente, se sono riuscita a parlarne scrivendo un libro vivo e interessante sono contenta”. A dirlo è Daria Bignardi, giornalista e scrittrice ferrarese, che oggi torna in libreria con “Ogni prigione è un’isola” (ed. Mondadori). L’opera affonda le radici indietro nel tempo, cuce insieme storie e vite diverse, racconta il volto umano di un mondo che troppo spesso viene relegato ai confini della società. In occasione dell’uscita ne abbiamo parlato con l’autrice. Bignardi, quando nasce questo libro? “Credo addirittura quando ero bambina e il pomeriggio andavo a giocare a casa di un’amica che abitava in via Piangipane, dove fino a qualche anno fa c’era il carcere di Ferrara. Il maestro ci aveva detto che ci era stato rinchiuso anche Giorgio Bassani. Qualche anno dopo, quando avevo 19 anni, ci finì per un paio di mesi anche il mio ragazzo. Da allora ho sempre avuto interesse per le carceri”. Quando è stato il suo primo approccio con il carcere? “Attorno al 1997 o ‘98 ho cominciato a seguire dei progetti con un gruppo di detenuti di San Vittore, uno degli istituti penitenziari di Milano. Li intervistavo su un tema diverso a settimana poi mandavo in onda le loro riposte nel programma che facevo allora, Tempi Moderni. Da allora non ho più smesso di andare in carcere, anche se non continuativamente perché ogni tanto mi prende la desolazione, visto che la situazione delle carceri invece di migliorare peggiora sempre. Quest’anno ci avviamo a un altro record di suicidi”. Nel corso del tempo si è imbattuta in detenuti diversi, ciascuno con la propria storia. Ce n’è una che le è rimasta impressa? “Tantissime: le racconto nel libro. Come quella di Tino Stefanini della banda Vallanzasca, che ha iniziato a rubacchiare a 13 anni per gioco e poi ha fatto “l’Università”, come dice lui, proprio a San Vittore. O quella di Marcello Ghiringhelli che abitava alla periferia di Torino in una famiglia molto semplice. Da ragazzino guidava la moto così bene che voleva prenderlo la Ducati ma la mamma non voleva che andasse a Bologna. Lo mandò a lavorare come apprendista. Lui scappò nella Legione Straniera poi diventò un rapinatore e poi un brigatista. È stato in carcere più di 40 anni. Ma racconto anche le storie degli agenti di polizia penitenziaria che ho incontrato. In carcere stanno male tutti: guardie e carcerati”. Per scrivere ha scelto di spostarti a Linosa, l’isolamento l’ha aiutata o è stato faticoso? “Le isole sono un po’ delle prigioni e le prigioni sono isole, ma isole senza bellezza”. In questo libro parla anche di “prigioni interiori”, cosa intende? “Ne abbiamo tante, tutti. Quelle che ci costruiamo da soli, altre che vengono da condizionamenti e traumi. Dogmi, dipendenze, rapporti simbiotici”. Com’è stato raccontare questa realtà da un punto di vista umano? “A un certo punto ho deciso di condividere le esperienze che ho fatto in questi 35 anni che frequento carceri, detenuti, ex detenuti, direttori, agenti. È un mondo parallelo al nostro. Nascosto eppure - per molti aspetti- identico alla vita vera, come se ne fosse un distillato”. Quando ha cominciato a scrivere non si è più fermata o è stato un viaggio che ha richiesto delle soste? “È stato molto difficile e stavo per rinunciare diverse volte perché è un tema molto spinoso e complesso e doloroso ma alla fine chi lo ha letto - come Sisto Rossi, uno dei detenuti di cui parlo- mi ha detto che leggerlo è stato come bere una birra fresca a Ferragosto. E il cardinale Zuppi mi ha scritto che il mio racconto rende il carcere meno isolato. È stata una grande emozione ricevere di questi messaggi. Mi hanno ripagato con gli interessi della fatica che ho fatto”. Il carcere è una matrioska di isolamenti di Daria Bignardi linkiesta.it, 28 marzo 2024 Ogni istituto penitenziario è un microcosmo a sé, ognuno con le sue regole, come se fossero isole separate e distanti tra loro. Lo spiega Daria Bignardi nel suo “Ogni prigione è un’isola”, in libreria per Mondadori. “Il carcere e? la cosa più stupida che esista” mi ha detto Michele. Fa l’ispettore di Polizia penitenziaria. L’ho incontrato un giorno di primavera profumato di viburno davanti a un bar a pochi chilometri dall’istituto. Non ha l’autorizzazione per parlarmi, ma il suo comandante garantisce per me. Sono consapevole che il comandante ha scelto di farmi parlare con uno di quelli bravi, ma non mi aspettavo un esordio cosi? radicale. Bevendo un caffe?, Michele racconta di essere lucano e di lavorare nella Polizia penitenziaria da trent’anni. “Dopo il servizio militare ho tentato il concorso perché cercavo un posto fisso, come facciamo noi terroni” dice ridacchiando. Poi aggiunge: “Mio padre faceva il contadino, era comunista, aveva la quinta elementare”. “Suo padre era contento quando ha iniziato a fare l’agente di polizia?” chiedo. E lui: “Era un comunista vero, aveva il senso dello Stato, certo che era contento. Sa che l’ho visto piangere per la prima volta quando avevo undici anni, il giorno che e? morto Berlinguer?”. Non chiedo se e? anche lui di sinistra. Riuscire ad avere quest’incontro e? stato complicato: molti agenti di polizia penitenziaria sono comprensibilmente diffidenti. Tante persone hanno pregiudizi nei loro confronti: pensano che siano ignoranti, violenti e che facciano un lavoro bruttissimo. In alcuni casi hanno ragione. Quando Michele dice: “Io servo lo Stato”, pero?, insisto: “Ma non ha detto che il carcere e? una cosa stupida? Perché lavorarci, se non per il posto fisso?”. E lui: “Finche? esiste, qualcuno se ne deve occupare”. Michele dice di avere cinquantatré anni, ma ne dimostra molti di meno. Mi fa vedere la foto di due gemelle bionde: “Ho fatto i figli dopo i cinquanta” spiega. L’accento di Matera mi ricorda quello di un mio vecchio professore di matematica, e glielo dico. “Io ho preso il diploma da geometra” risponde, “ma non capivo niente di calcoli”. “E poi?”. “Dopo il militare ho vinto il concorso e mi hanno mandato qui. A quei tempi i primi periodi ti mettevano di sentinella anche per otto ore di seguito, non capivo nemmeno dov’ero. E? stata dura. Poi ho cominciato a capire. Ho preso la tessera del sindacato, ma i sindacati facevano togliere me dalla sentinella per metterci altri, mica facevano lotte per tutti, e non mi sembrava giusto. Un po’ alla volta ho capito cosa avevo intorno: cinque anni, ci ho messo. Ho visto colleghi che facevano i duri per darsi un contegno, per timidezza, per paura, perché “si e? sempre fatto cosi?”. E altri, troppo buoni, che si caricavano tutti i problemi dei detenuti addosso e finivano con l’esaurimento nervoso. Ho capito che per dare un senso a questo lavoro dovevo farlo meglio che potevo, e che per farlo bene dovevo trovare una via di mezzo tra essere troppo distaccato ed essere troppo coinvolto. Ho studiato criminologia e partecipato a corsi di aggiornamento: da agente ho fatto tutto l’iter e ora sono ispettore responsabile di centinaia di detenuti e centinaia di agenti. Insegno. Li butto fuori dalla caserma, quando hanno finito i turni: “Non state in branda a spippolare sul telefono, fate una passeggiata, fate sport”. Questo lavoro può essere devastante: in carcere si soffre, e la sofferenza ti resta attaccata, se non sai proteggerti. Molti agenti in carcere ci vivono perché dormono in caserma. Gli affitti sono troppo costosi, molti sono di giù e all’inizio sperano di tornarci, a meno che non si sposino con qualcuno di su. Ogni tanto succede e alcuni giù non ci tornano, fanno famiglia al Nord, come me.” Michele sembra molto a contatto con la realtà “di fuori”, e glielo faccio notare. Risponde che il carcere e? un avamposto dove le cose succedono velocemente e prima, come penso anch’io. Non gli chiedo se i pestaggi di Santa Maria Capua Vetere si verificano anche nel suo istituto, ma mentre ci salutiamo dice: “Si ricordi che ogni istituto e? uno Stato a parte, e? come un’isola”. Anche Antonio, che da? il cambio a Michele al tavolino del bar, e? una persona brillante. Ha l’età di Michele, ma la dimostra. Alto, stempiato, viso aperto e terrigno che contrasta con la montatura degli occhiali da architetto milanese. E? all’”istituto” da piu? di vent’anni, anche lui ha iniziato a fare l’agente per caso, per il posto fisso, dopo il militare, e pensa che “ogni istituto fa un po’ a modo suo”. Ripete due o tre volte, in occasioni diverse, a proposito dei detenuti ma anche dei suoi agenti, l’espressione “diventare uomini”, guardandomi un po’ di traverso per vedere se gli faccio la paternale per quel concetto sessista. Non gliela faccio, ma dal momento che ha un atteggiamento piu? duro del suo collega gli chiedo come pensa che siano morti i tredici detenuti di Modena. Si toglie gli occhiali e li appoggia sul tavolo. “Intendiamoci” risponde, “i medici che lavorano in carcere non sono la crema dei medici, ma li? era pieno di disgraziati drogatissimi che hanno assalito le scorte e hanno distrutto tutto. Gente che entra col cervello già bruciato dai cristalli di coca, dall’Mdma, dalle droghe chimiche: sa quanti ne vedo continuamente? Gente che pensa solo alla terapia, che vive per quello”. “Quindi crede siano morti tutti di overdose?” dico. “Perché no?” risponde, rimettendosi gli occhiali e facendo il gesto di alzarsi. “E del 41 bis cosa pensa?” chiedo, intuendo che il mio tempo e? finito. “Che e? anacronistico. E poi, se i detenuti vogliono far sapere qualcosa a quelli di fuori, possono dirla all’avvocato, quindi oltretutto e? anche inutile. Adesso devo lasciarla.” Le fabbriche da chiudere sono quelle dei poveri di Rita Querze Corriere della Sera, 28 marzo 2024 I dati Istat dicono che il contrasto alla povertà non sta funzionando: nel 2023 le famiglie in povertà assoluta erano l’8,5% contro l’8,3% nel 2022. Solo le società che producono ricchezza hanno le risorse per farsi carico dei propri poveri. E soprattutto per investire a monte, cercando di chiudere le “fabbriche della povertà” che sfornano disagio a ciclo continuo. Pensiamo all’inadeguatezza, in alcuni contesti, della scuola e della formazione. Siamo il primo Paese in Europa per numero di Neet, cioè di giovani che non studiano né lavorano: investire sulla scuola significa ridurre i poveri del futuro. Certo, poi bisogna pensare a quelli di oggi. I dati Istat ci dicono che il contrasto alla povertà non sta funzionando: nel 2023 le famiglie in povertà assoluta erano l’8,5% contro l’8,3% nel 2022. Se guardiamo i singoli, gli italiani in povertà assoluta sono 5,7 milioni (il 9,8%, quota sostanzialmente stabile). Nel 2023 era ancora in vigore il reddito di cittadinanza, che evidentemente non è riuscito ad abolire la povertà. Ce la farà l’Adi, l’assegno di inclusione? Le domande accolte (550 mila) sono meno di quelle previste (737 mila). Inoltre i dati ci dicono che tra i poveri ci sono anche molti lavoratori, che l’Adi ignora. In questo scenario l’auspicio più sensato sembra venire dall’Alleanza contro le povertà: un tavolo maggioranza-opposizione per affrontare il problema prima che si aggravi, sgombrando in capo dalle ideologie. E magari intervenendo anche sulle “fabbriche della povertà” che stanno a monte. Migranti. Suicidio nel Cpr di Roma. “I problemi di mio fratello Ousmane non erano psichiatrici ma di ingiustizia” di Giansandro Merli Il Manifesto, 28 marzo 2024 Parla Djibril Sylla, venuto in Italia per identificare il corpo del ragazzo che il 4 febbraio scorso si è tolto la vita nella struttura detentiva per migranti alle porte di Roma. Djibril Sylla è arrivato qualche giorno fa in Italia dalla Francia, dove vive, con un compito: riconoscere il corpo del fratello Ousmane. Il 22enne della Guinea che si è tolto la vita nel Centro di permanenza per i rimpatri (Cpr) di Ponte Galeria il 4 febbraio scorso. Era sbarcato in Italia a luglio 2023, diversamente da quanto si era pensato nei primi tentativi di ricostruirne la storia. La sua morte ha fatto esplodere una rivolta nella struttura detentiva alle porte della capitale. I pm hanno aperto un’inchiesta con l’ipotesi di reato di istigazione al suicidio. Nei giorni scorsi la famiglia ha nominato dei legali perché vuole vederci chiaro, vuole capire cosa è successo. Quando ha parlato l’ultima volta con suo fratello? Il 27 settembre scorso. Mi ha telefonato da una stazione dei treni, senza dirmi quale. Era completamente nel panico perché lo aveva fermato la polizia. Mi chiedeva di trovargli un avvocato, temeva lo trattassero male. Da quel giorno è riuscita a parlarci solo mia sorella, un paio di volte. Io mai più. Perché Ousmane ha lasciato il suo paese? È difficile rispondere al posto suo. In Guinea i giovani non hanno lavoro, non hanno futuro. Lui voleva vivere i suoi sogni, amava la musica e sperava di riuscire a fare qualcosa per aiutare la nostra famiglia. Della partenza aveva detto a poche persone. Io l’ho saputo quando era già in Tunisia. Qualcuno ha detto che era pazzo... Chi dice che aveva problemi psichiatrici non l’ha mai conosciuto. Ousmane stava subendo una situazione di ingiustizia e provava a far valere i suoi diritti. Quando si lascia il proprio paese e si attraversa l’inferno è possibile trovarsi in grande difficoltà. Soprattutto se nessuno ti aiuta, se non hai un avvocato. Ma il problema non è psichiatrico, è di ingiustizia. Chi dice che era pazzo non si è mai trovato in una situazione simile. Il mio fratellino non aveva mai avuto disturbi psichiatrici, non era mai stato malato. Lei sapeva cos’è un Cpr prima di questa vicenda? No, non ne avevo idea. Ma dopo ho scoperto che Ousmane non è l’unico a essersi tolto la vita in centri di questo tipo. Quindi evidentemente c’è un problema serio. Uno straniero che si trova in una struttura detentiva deve comunque avere dei diritti. È chiaro che c’è una forte ingiustizia. Suo fratello aveva chiesto di essere riportato in Africa dopo la sua morte. Lo aveva scritto su un muro... Sì, vogliamo rimpatriare il corpo. L’ambasciata della Guinea non ci sta aiutando, non conosco i loro doveri ma non mi pare facciano abbastanza. Invece abbiamo il sostegno dell’associazione LasciateCIEntrare. Stiamo raccogliendo i soldi necessari a riportare a casa e seppellire il corpo di Ousmane. Ne servono tanti e noi non li abbiamo (in fondo i riferimenti per partecipare alla raccolta, ndr). Come famiglia cosa chiedete? Vogliamo capire quali ingiustizie ha subito. Vogliamo sapere cosa è successo. Per ora si sa soltanto che si è suicidato... Non è facile per me parlare di questo. Quello che posso dire è che il mio fratellino non avrebbe mai attraversato tutte le sofferenze che ha attraversato per suicidarsi in Europa. Se davvero lo ha fatto ci sono delle ragioni. Ragioni che vengono da quei centri e dalla situazione che ha vissuto. Noi come famiglia abbiamo diritto di sapere cosa gli è successo. Migranti. Rivolta nel Cpr di Macomer di Costantino Cossu Il Manifesto, 28 marzo 2024 I migranti hanno dato fuoco ai materassi per protestare contro le condizioni inumane all’interno del Centro nel nuorese. Gestito dalla Ekene Onlus, con sede legale in Veneto, versa in condizioni pietose. Nella notte tra domenica e lunedì scorsi, per protesta contro le condizioni di vita inaccettabili, i migranti detenuti nel Cpr di Macomer, in provincia di Nuoro, hanno dato fuoco ai materassi dei letti. L’intervento tempestivo dei Vigili del fuoco ha evitato il peggio. Secondo la prefettura di Nuoro, non ci sono ustionati o intossicati dal fumo. Un’intera ala dell’edificio è inagibile, tanto che per dare alloggio agli ospiti della struttura sono state piazzate alcune tende da campo messe a disposizione dalla Protezione civile, in attesa che le camere vengano rese di nuovo abitabili. Ma sapere come stanno veramente le cose è difficile. C’è una fitta cortina di riservatezza intorno alla vicenda. Far uscire informazioni dal Cpr è complicatissimo: ai migranti internati vengono sequestrati i telefoni portatili, mentre la comunicazione con l’esterno è possibile solo attraverso una cabina pubblica posta in uno spazio aperto e controllabile dal personale dell’ente gestore e dalle forze di pubblica sicurezza. Si sa che ci sono indagini della polizia e della magistratura per capire come sia nata la rivolta e quanti dei quarantotto ospiti del Cpr abbia coinvolto. Dalle poche informazioni che filtrano e che vengono riferite dal comitato No Cpr di Macomer pare che l’emergenza, nella notte tra domenica e lunedì, sia stata gestita in affanno. Non c’erano ancora le tende e le stanze erano semidistrutte dalle fiamme. Ci sono stati momenti di tensione. Poi l’intervento della Protezione civile ha consentito di dare ai migranti una sistemazione provvisoria. Di certo di sa che ieri mattina alcune delle persone trattenute nel Cpr sono state trasferite, con un aereo della Guardia di Finanza, in altri Cpr sulla penisola. Ma per ragioni di sicurezza dalla prefettura non viene detto dove esattamente. È presumibile che i migranti trasferiti siano quelli che la polizia ha individuato come i diretti responsabili della rivolta. Non è la prima volta che nel Cpr di Macomer si registrano proteste anche violente. Altri incendi si sono verificati in passato. Ma l’ultimo episodio è senz’altro il più grave. Il Cpr di Macomer è gestito dalla Ekene Onlus, che ha sede legale in Veneto. Nata nel 2017, è una diretta emanazione della cooperativa Edeco, già Ecofficina. Ecofficina nasce nel 2011 ed entra con successo nel business dell’accoglienza dei migranti; il suo bilancio passa dai 114 mila euro del 2011 ai quasi 10 milioni del 2015. Il suo modello di gestione è stato giudicato dai vertici della Confcooperative Veneto un sistema che “non risponde alle logiche della buona accoglienza” ma “a criteri che guardano soprattutto al business”. Ed è per queste ragioni che, nel settembre 2016, Confcooperative Veneto ha preso le distanze e ha sospeso Ecofficina dall’associazione. Edeco, invece, è nota per la gestione molto criticata di alcuni centri di accoglienza veneti, in particolare dell’hub nell’ex base militare di Cona (provincia di Venezia) e del Cpr di Bagnoli (provincia di Padova). Da più parti sono state denunciate le condizioni in cui versavano queste strutture, la cui tensione interna sfociava spesso in proteste e rivolte. Ieri il Comitato No Cpr, che a Macomer si batte per garantire la trasparenza della gestione del centro e per chiederne la chiusura, si è riunito in assemblea e ha annunciato una manifestazione di protesta. L’appuntamento è per il 6 aprile davanti ai cancelli del centro. “La situazione che c’è a Macomer - si legge nel documento approvato dall’assemblea - deriva dalle finalità stesse del centro, concepito per negare ogni dignità umana ai migranti”. “Da anni - prosegue il documento - denunciamo quanto sia violento e degradante ciò che avviene nei Cpr. Il clima di sopruso e di omertà è essenziale per il funzionamento di queste strutture. Conosciamo la disperazione delle persone che vengono rinchiuse in queste carceri, espropriate dei diritti fondamentali solo per il fatto di non possedere un documento amministrativo, un permesso di soggiorno difficilissimo da ottenere e facilissimo da perdere. Bisogna rompere la cortina di silenzio eretta intorno al Cpr di Macomer e denunciare l’assurdità e la violenza di ciò che vi succede”. Migranti. Prime brecce nel divieto di convertire i permessi per protezione speciale Il Manifesto, 28 marzo 2024 Grazie al sostegno della Camera del lavoro della Cgil di Bologna il lavoratore straniero M.S. può finalmente sperare di ottenere un permesso di soggiorno per lavoro, convertendo quello per protezione speciale. Nonostante gli ostacoli del decreto Cutro e delle relative circolari ministeriali che provano a negare questa opportunità. Il sindacato aveva atteso il rigetto da parte della questura della domanda di conversione per poi presentare il ricorso. Il giudice, con una decisione che risale allo scorso 7 marzo, ha sospeso il provvedimento di diniego. Bisognerà attendere la decisione di merito, ma leggendo i riferimenti dell’ordinanza è facile immaginare che la richiesta del lavoratore andrà a buon fine. Tra i principi richiamati dal tribunale il “diritto al rispetto della vita privata in Italia”, che ovviamente sarebbe pregiudicato in caso di rimpatrio. “Stiamo seguendo molte persone che sono in questa condizione. Lavoratori già inseriti in Italia che vogliono restare legalmente nel nostro paese. Continueremo a fare le impugnazioni per far valere i loro diritti, in termini collettivi”, afferma Annamaria Margutti, delegata immigrazione per la Camera del lavoro di Bologna. Nel 2022 M. S. si era trasferito a Bologna e a novembre aveva firmato un contratto di lavoro nel settore del turismo. Il contratto è stato poi prorogato fino all’ottobre di quest’anno. A fronte di questa stabilità lavorativa e abitativa, qualche mese fa ha chiesto la conversione del titolo di soggiorno. La questura, però, ha risposto con un provvedimento di irricevibilità, ora sospeso dal giudice. “Finalmente è stato accertato il diritto del signor M. S. alla presentazione dell’istanza di conversione del permesso di soggiorno per protezione speciale in permesso per motivi di lavoro, poiché sono sussistenti tutti i requisiti di legge - afferma la Cgil - Un precedente utile a proseguire nella tutela dei diritti e per una vita dignitosa”. Il permesso per protezione speciale del lavoratore risale a prima dell’entrata in vigore della legge Cutro che stabilisce un regime transitorio delle conversioni che lascia ampio spazio all’interpretazione. Sulla base di due successive circolari ministeriali, non proprio lineari da un punto di vista giuridico, le questure hanno iniziato a negare le conversioni. “Si è però affermata una giurisprudenza che ormai possiamo dire consolidata, sia nei tribunali ordinari che nei tribunali amministrativi regionali, che stabilisce la convertibilità dei permessi per protezione speciale precedenti al decreto Cutro”, afferma Nazzarena Zorzella, avvocata dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). Per quelli successivi, invece, bisognerà attendere un anno, un anno e mezzo. Solo a quel punto, a fronte di dinieghi praticamente scontati rispetto alle richieste di conversione, saranno presentati i primi ricorsi. I legali sono già a lavoro per stabilire una strategia che faccia valere i diritti dei cittadini stranieri che in Italia vivono e lavorano. Migranti. I veleni sulle Ong: chi è l’anonimo che scatena la macchina del fango su X di Nello Scavo Avvenire, 28 marzo 2024 Von der Leyen: “Le attività dell’account rimangono preoccupanti e deplorevoli”. La presidente della Commissione Ue chiede di fare luce. Il ministro Nordio aveva indicato un nome “collegato” a Frontex. “Le attività online dell’account rimangono preoccupanti e deplorevoli”. Se Ursula von der Leyen arriva a usare parole come queste per un profilo twitter, il caso deve essere perfino più serio di quanto si potesse immaginare. Il riferimento è a “@rgowans”, un utente anonimo sulla piattaforma che oggi si chiama “X”, finito sotto inchiesta di almeno un paio di procure italiane e su cui non ha smesso di svolgere approfondimenti la procura di Modena, dopo una iniziale richiesta di archiviazione poi respinta dal giudice delle indagini preliminari che ha ordinato nuove investigazioni. Perché la presidente della Commissione Ue arriva a preoccuparsi per una utenza virtuale? Negli anni, su Twitter prima e su “X” poi, il profilo ha pubblicato informazioni e documenti riservati delle autorità italiane ed europee impegnate in attività nel Mediterraneo centrale: foto dall’interno di aerei di sorveglianza, documenti del Comando delle Capitanerie di porto italiane, e soprattutto materiali di propaganda di alcune fazioni della cosiddetta guardia costiera libica. Nel mirino di @rgowans ci sono sempre le organizzazioni umanitarie, i giornalisti che realizzano inchieste, e soprattutto don Mattia Ferrari, il sacerdote della diocesi di Modena, cappellano di “Mediterranea Saving Humans”. Ma chi è @rgowans? Sulla sua vera identità ci sono molte ipotesi, le più accreditate arrivano da alcune inchieste giornalistiche, come quella di “Jl Project”, il collettivo italiano che ha tracciato per anni le attività sui social network dell’utenza sospetta, fino a individuare un soggetto che è stato segnalato all’autorità giudiziaria. Informazioni che sembrano collimare con quanto gli investigatori vanno raccogliendo. A quanto risulta anche ad Avvenire, l’autore dei post sarebbe un dirigente di una multinazionale dell’informatica che ha ottenuto incarichi dalla vecchia gestione di Frontex, all’epoca del direttore Fabrice Leggeri, l’ex prefetto francese che ha lasciato tra polemiche e inchieste interne l’agenzia europea per la protezione dei confini e attualmente candidato alle europee con la destra di Marine Le Pen. Il 23 giugno del 2023 il Guardasigilli Carlo Nordio, cui va riconosciuto d’essere stato l’unico tra i ministri degli ultimi cinque governi a parlare di “esponenti della mafia libica”, riferendosi a uomini delle autorità tripoline sottoposti a sanzioni dal Consiglio di sicurezza Onu, rispondendo a un’interrogazione del segretario di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni, aveva rivelato il nome di un sospettato: “Robert Brytan”, scriveva il ministro. Potrebbe essere proprio lui la persona su cui gli investigatori puntano con una indagine che richiede la cooperazione internazionale. “Il profilo di identità “virtuale” Robert Brytan - spiegava Nordio - risulterebbe quello di un cittadino canadese poliglotta, con trascorsi giovanili nella guardia costiera della marina canadese, appassionato di tematiche legate alla migrazione per mare, che ha vissuto in una città della Germania orientale, che ha parenti in Polonia, che ha avuto un pregresso periodo di impiego quale assistente di un europarlamentare polacco e che attualmente lavorerebbe per una società polacca che sviluppa software”. Il 14 marzo 2024 l’eurodeputato del gruppo dei “Socialisti e democratici” Massimo Smeriglio ha depositato una nuova interrogazione alla Commissione europea, nella quale precisa che il nome indicato da Nordio risulta essere uguale a quello del direttore del data center di Asseco, società fornitrice della piattaforma software utilizzata da Frontex, come ha rivelato il consorzio di giornalismo investigativo “Occrp”, e che ha schedato centinaia di migliaia di migranti e profughi. I contratti con Frontex sono ancora attivi. Fino a questo momento l’azienda non ha risposto alle richieste di Avvenire. La presidente della Commissione Ue era intervenuta rispondendo alle richieste di un gruppo di 16 europarlamentari italiani, tra cui la vicepresidente del Parlamento europeo, Pina Picierno. Con una nota del 22 dicembre scorso, Von Der Leyen ribadiva che “le attività online dell’account rimangono preoccupanti e deplorevoli, quindi ho letto con soddisfazione nella vostra lettera che le autorità italiane stanno indagando sulla questione e ci aspettiamo che venga assicurato il necessario seguito”. Von Der Leyen precisa anche che il profilo twitter indicato dagli interpellanti non risulta essere quello di un dipendente di Frontex. Circostanza confermata dalle diverse indagini, che tuttavia puntano su una figura collegata a Frontex ma non legata da un rapporto di impiego diretto. Più volte, infatti, @rgowans oltre a farsi portavoce degli esponenti delle conserterie libiche che gli ispettori delle Nazioni Unite indicano come una sorta di mafia dedita al traffico di esseri umani, petrolio, droga e armi, ha interagito con Neville Gafà, ex capo dello staff dell’allora premier maltese Muscatt, indicato dalla commissione pubblica d’inchiesta di Malta come uno dei fautori della “propaganda denigratoria” che nel 2017 ha preceduto l’uccisione della giornalista maltese Daphne Caruana Galizia, che non a caso indagava sulle trame a base di idrocarburi e altri affari sporchi nel Mediterraneo centrale. Per Assange c’è ancora una speranza. Fare giornalismo non è un reato, va ricordato agli Usa di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 28 marzo 2024 Oggi Julian Assange non sarà legato alla poltrona di un aereo diretto negli Usa. Questa è, a caldo, l’unica buona notizia, tutt’altro che scontata. L’Alta corte di Londra, chiamata a dare il via libera all’estradizione di Assange verso una prigione statunitense di massima sicurezza con la prospettiva di non uscirne più, ha ritenuto in parte fondato l’appello della difesa del giornalista. Però, in un verdetto che opportunamente Stefania Maurizi ha definito “chiaro come l’acqua torbida”, l’Alta Corte ha dato agli Usa tempo fino al 16 aprile per fornire assicurazioni che i diritti di Assange - quelli a rischio, secondo i giudici britannici: pieno diritto di appello, non discriminazione a causa della cittadinanza, no alla pena di morte - saranno rispettati. Il tutto sarà preso in considerazione il 20 maggio in una nuova udienza. A vederla con pessimismo, l’Alta corte non ha smentito l’intenzione di estradare Assange. Ha dato agli Usa un’opportunità in più di rassicurarla. Nelle democrazie il giornalismo non è un reato. Quando quell’avverbio di negazione manca, siamo altrove. Siamo nella caccia all’uomo, a chi ha reso note informazioni che dovevano rimanere segrete: quelle, rivelate da Wikileaks nel 2010, circa crimini di guerra commessi dalle forze statunitensi in Iraq e in Afghanistan. Siamo nell’impunità per chi quei crimini li ha commessi e ai processi e alle condanne di chi li ha resi noti. C’è però ancora tempo perché quell’avverbio sia scritto, nero su bianco, in una sentenza di un tribunale britannico. Più gli Usa s’incaponiscono a perseguitare Assange, più quel “non” dev’essere ribadito con forza. *Portavoce di Amnesty International Italia