Il carcere è un campo di battaglia dove perdono tutti di Luigi Mastrodonato Internazionale, 27 marzo 2024 Quando il 17 febbraio 2021 l’agente penitenziario Umberto Paolillo, 56 anni, si è presentato alla portineria del carcere di Bari per chiedere l’arma di servizio, gli hanno detto di aspettare. Dalla portineria hanno chiamato un superiore per segnalargli la cosa, non era mai successo che Paolillo facesse questa richiesta fuori servizio. Il superiore ha detto che non c’erano problemi e così l’arma è stata consegnata. Poche ore dopo il corpo di Paolillo è stato trovato senza vita a bordo della sua auto. Si era ucciso con un colpo alla testa. Paolillo diceva di essere vittima di bullismo da parte dei suoi colleghi a causa di suoi presunti problemi psichici. Aveva ricevuto sanzioni disciplinari per alcuni problemi sul lavoro. “Il carcere lo aveva stancato psicologicamente”, ha scritto Laura Lieggi, avvocata che ha seguito il caso. Oggi c’è ancora un fascicolo aperto sulla sua morte per istigazione al suicidio e la famiglia non ha mai smesso di ripetere che l’agente è stato abbandonato dalle istituzioni. Quella di Paolillo, però, non è una storia isolata. Il corpo di polizia penitenziaria ha il tasso più alto di suicidi in Italia tra le forze dell’ordine: dal 2011 al 2022 si sono tolti la vita 78 agenti. La letteratura scientifica sull’argomento è molto poca, c’è una certa ritrosia ad affrontare il tema dei disturbi mentali nei corpi di polizia. Secondo alcune indagini, i carichi di lavoro eccessivi, le paghe basse, la poca formazione, lo scarso riconoscimento da parte dei superiori e la costante gestione di eventi critici contribuiscono a un alto tasso di burnout tra gli agenti. Di sicuro c’è che tutto questo poi si riflette sui detenuti. Vittime delle pessime condizioni strutturali delle carceri e dello stress di chi li ha in custodia. Gli eventi critici - In Italia gli agenti di polizia penitenziaria sono 31.546. Come sottolinea l’associazione Antigone, “manca il 15 per cento delle unità previste in pianta organica” e il rapporto detenuti-agenti è pari a 1,8, “a fronte di una previsione di 1,5”. Lo stipendio medio di un agente è di circa 1.300 euro al mese, le ore di straordinario possono arrivare a settanta a settimana e a essere sacrificato a volte è anche il giorno di riposo. Il contesto in cui si trovano a lavorare gli agenti penitenziari è complesso. Oggi in Italia ci sono poco più di 60mila detenuti, ma i posti disponibili sono circa 47mila. Nelle celle visitate dall’associazione Antigone nel 2023 nel 35 per cento dei casi non era rispettata la regola dei tre metri quadri a persona. Nel 45 per cento delle docce non c’era l’acqua calda e in una struttura su otto non c’era nemmeno il riscaldamento. In molti istituti le attività trattamentali sono ridotte all’osso perché mancano gli educatori e il resto del personale. Le giornate passano senza fare nulla, e la noia presto diventa disperazione. L’Italia è stata più volte condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) per i trattamenti inumani e degradanti che riserva ai suoi detenuti. Come ha scritto Carmelo Musumeci, che in cella ci ha passato parecchi anni, “il carcere è l’inferno in terra”. E questo inferno plasma le esistenze e i comportamenti della sua popolazione. Oggi nelle carceri italiane il 10 per cento dei detenuti ha problemi psichiatrici gravi e circa uno su tre fa uso di antipsicotici o antidepressivi. Gli ultimi dati disponibili del 2021 parlano di circa 33mila eventi critici segnalati negli istituti: suicidi, atti di autolesionismo e aggressioni che mettono a repentaglio la sicurezza delle persone detenute, del personale o la sicurezza all’interno della prigione. Nel 2024 finora ci sono già stati 26 suicidi tra i detenuti, nel 2023 erano stati 69. Secondo l’associazione Antigone l’anno scorso ogni cento detenuti ci sono stati circa sedici atti di autolesionismo e due tentati suicidi. Come scrive in un’indagine sulla polizia penitenziaria lombarda del 2022 Roberto Cornelli, professore di criminologia all’Università degli studi di Milano, in carcere ci sono emergenze che “potenzialmente sono sempre in agguato, inducendo gli agenti a vivere la quotidianità nella consapevolezza che qualcosa di grave possa succedere da un momento all’altro”. Un inferno per chi ci vive, cioè i detenuti, e anche per chi ci lavora. Secondo i dati del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), nel 2023 sono state registrate 1.612 aggressioni di detenuti agenti della penitenziaria. Antigone ha calcolato una media di 2,3 aggressioni ogni cento detenuti. “Quando attacchiamo il turno è come andare in un campo di battaglia”. Anna F., che preferisce non rivelare per intero il suo nome, ha 61 anni, presto andrà in pensione e di istituti penitenziari ne ha visti molti. In ognuno ha trovato un elemento comune: si sa quando comincia il turno, ma non quando finisce, perché ogni emergenza cambia le carte in tavola. “Ci sono giornate in cui nello stesso momento bisogna gestire un tentativo di suicidio, un atto di autolesionismo, un principio di rivolta, un’aggressione. Sono situazioni lavorativamente e psicologicamente molto pesanti, è come stare in guerra”, ammette. Quando mi capita di girare tra le celle d’isolamento dell’istituto in cui lavoro mi vengono i brividi - L’agente è critica verso il carcere così per com’è concepito oggi in Italia. “Vediamo tutti i giorni le disfunzioni che ci sono negli istituti. È un luogo di sofferenza in cui ai detenuti sono negate molte cose”, spiega. “Quando mi capita di girare tra le celle d’isolamento dell’istituto in cui lavoro mi vengono i brividi. Ci sono escrementi sui muri, c’è sangue, è qualcosa di inimmaginabile e raccapricciante. Tortura è anche tenere un detenuto in condizioni del genere”. Gli eventi critici che caratterizzano la quotidianità nelle prigioni italiane sono anche conseguenza di questa situazione. “Mi è capitato di dire ai detenuti che io per prima non sarei una brava reclusa”, continua l’agente. “Le violenze ce le dobbiamo aspettare, finiamo per accettarle se questo è il contesto in cui i detenuti si trovano a vivere. Le prigioni in questo stato sono un problema per tutti, per chi ci vive e di conseguenza per chi ci lavora”. La comunicazione è un tema critico nelle carceri. Gli agenti che lavorano nei reparti, quei sottoposti che sono alla base della scala gerarchica della polizia penitenziaria, spesso faticano a parlare con i vertici, a fargli arrivare segnalazioni e reclami. La letteratura scientifica la chiama “distanza relazionale” e il risultato per molti agenti è un senso di spaesamento, causato anche dai continui conflitti tra direzione del carcere e comando di polizia sulle decisioni da prendere. Un contesto così complesso necessiterebbe poi di una profonda formazione del personale, che al momento non è sufficiente. Secondo l’indagine di Cornelli sulla polizia penitenziaria lombarda, quasi il 62 per cento del personale chiede più formazione per gestire eventi critici e persone problematiche. Il 56 per cento si sente impreparato ad affrontare una rivolta nell’istituto in cui lavora e più di un agente su tre dice di non sapere come gestire una rissa tra detenuti o un’aggressione a un collega. Il burnout negli agenti - Nel 2018 il sindacato Uilpa ha diffuso i risultati di uno studio sullo “stress lavoro correlato nel personale della polizia penitenziaria”. Secondo la ricerca, più di un terzo degli agenti ha sofferto di sintomi di depressione, ansia, alterazione delle capacità sociali e diversi disturbi somatici. I fattori che causano stress sono stati identificati nell’alto carico di lavoro, nel mancato sostegno da parte dei dirigenti di polizia e della direzione, nella scarsa formazione ricevuta per gestire gli eventi critici e nelle condizioni fatiscenti delle strutture in cui si lavora. Strutture che poi sono le stesse in cui, spesso, molti vivono. Molti degli agenti dormono infatti nella foresteria, un edificio all’interno del complesso penitenziario. “Io ho una stanzetta tipo quelle degli ospedali, con un letto, un armadio, un tavolino e un bagno”, spiega l’agente Anna F. “Per cucinarci abbiamo un fornelletto oppure possiamo mangiare alla mensa interna. Vivere nella foresteria è una soluzione economica e anche comoda, visto che in caso d’emergenza dobbiamo sempre essere pronti. Certo però significa restare sempre nell’ambiente lavorativo, che poi è un carcere”. Nel 2019 nel carcere di Montorio, a Verona, ha aperto il primo sportello italiano di sostegno psicologico per gli agenti in servizio nell’istituto. Poi ne sono arrivati altri a Varese, Bari e Civitavecchia. In tutti si è registrata una scarsa affluenza del personale penitenziario. L’ex ministra della giustizia, Marta Cartabia, a inizio 2022 aveva richiesto di destinare risorse a progetti di aiuto psicologico degli agenti della penitenziaria. Un’iniziativa definita “offensiva” da alcuni sindacati di polizia e che è rimasta perlopiù lettera morta, nonostante lo stanziamento di un fondo da un milione di euro. “Anche dopo il diretto coinvolgimento in un evento critico come il suicidio o il tentato suicidio di un detenuto, una buona parte degli agenti minimizza o nega un eventuale impatto sulla propria salute mentale”, sottolinea il Cornelli. “Sembra che l’atteggiamento della maggioranza di loro sia quello di evitare di mostrarsi fragili di fronte a eventi critici. Richiedere un aiuto psicologico potrebbe creare uno stigma”. In Italia, a parte le indagini sul burnout degli stessi sindacati che respingono le iniziative di supporto psicologico e che strumentalizzano la questione per chiedere nuove assunzioni, non c’è molto altro. Mancano anche studi approfonditi sull’eventuale correlazione tra il burnout e il fatto che il corpo di polizia penitenziaria abbia il tasso più alto di suicidi tra le forze dell’ordine, conuna media di 7,4 persone all’anno, secondo una ricerca che ha analizzato i dati tra il 2008 e il 2017. L’ultimo caso si è verificato il 5 marzo in provincia di Avellino, quando un agente penitenziario del carcere di Ariano Irpino si è tolto la vita. Il terzo suicidio di questo tipo dall’inizio del 2024. Tutto questo ha chiaramente conseguenze sulla vita dei detenuti. Leggi anche Sempre più ragazzi dentro, sempre più indifferenza fuori - “Nel corso della mia detenzione mi è capitato più volte di vedere scene di ispettori che trattavano i loro sottoposti peggio di un cane. Questa frustrazione poi devono sfogarla in qualche modo. E a rimetterci siamo sempre noi detenuti”. Fernando G., 44 anni, è in regime di semilibertà ed è convinto che gran parte dei problemi nel corpo di polizia penitenziaria derivino dalla sua struttura verticistica e dalle direttive imposte dall’alto da chi non vive in stretto contatto con i detenuti e impone un approccio securitario, basato sulla mortificazione del condannato più che sulla rieducazione. Un ruolo lo gioca anche il degrado strutturale e culturale delle prigioni. “Il carcere oggi si basa su una pena di tipo psicologico, che ha conseguenze sulla mente prima ancora che sul fisico”, sottolinea Emanuel H. F., 33 anni, detenuto autorizzato al lavoro all’esterno. “Questo vale per i reclusi, ma si riflette anche sulla condizione degli agenti penitenziari e in particolare dei sottoposti, quelli che stanno in reparto con noi”. Qualcuno resiste pochi mesi in queste condizioni e decide di cambiare lavoro, altri si adeguano. C’è chi si ammala, chi si sfoga con la violenza. L’articolo 41 della legge sull’ordinamento penitenziario riconosce agli agenti della penitenziaria una sorta di discrezionalità nell’uso della forza, stabilendo che può essere impiegata per prevenire o impedire atti di violenza, per impedire tentativi di evasione e per vincere la resistenza, anche passiva dei detenuti contro gli ordini. “In che situazione usare la forza diventa una scelta soggettiva, su cui incidono fattori come la frustrazione, la sensazione di abbandono istituzionale e lo spaesamento provocato dalla mancata formazione sulla gestione degli eventi critici”, spiega ancora Cornelli. Non tutto però va ridotto all’emotività e anzi, i gesti violenti sono spesso di origine culturale, il risultato di una strategia di controllo sociale per ristabilire l’ordine. “Un ordine diverso da carcere a carcere, perfino da reparto a reparto, e che può essere anche molto lontano da ciò che l’ordinamento giuridico indica. Soprattutto se chi deve chi le carceri in modo democratico e costituzionale cede alla logica della sottomissione violenta come unica modalità di relazione con le persone rinchiuse”, continua Cornelli. Da quando nel 2017 in Italia c’è una legge sulla tortura sono già stati condannati agenti della penitenziaria, come a Ferrara, San Gimignano e a Bari. Centinaia di poliziotti coinvolti nelle presunte violenze denunciate negli istituti di Santa Maria Capua Vetere, Torino, Cuneo e molti altri sono sotto processo o indagine per tortura. In passato però la presidente del consiglio Giorgia Meloni ha chiesto l’abolizione del reato di tortura, “perché impedisce agli agenti di fare il proprio lavoro”. “Il peggioramento delle condizioni di lavoro degli agenti incide sulla vita dei detenuti, che peggiorando peggiora il lavoro degli agenti: è una spirale continua”, sottolinea Cornelli. “Nonostante questo, oggi i discorsi che vanno per la maggiore anche tra chi difende le forze dell’ordine continuano a essere sempre gli stessi: far marcire i detenuti in carcere, buttare via le chiave, ignorare i diritti violati. Ma a uscirne sconfitti così sono tutti”. Lo scorso autunno a un detenuto del carcere di Salerno è stato permesso di vedere per qualche minuto il suo cane nell’area verde dell’istituto. Il sindacato di polizia ha polemizzato con la direzione, sottolineando che le priorità del sistema penitenziario dovrebbero essere altre. L’ennesima sottovalutazione del diritto all’affettività per i detenuti, un tema su cui a fine gennaio si è pronunciata anche la corte costituzionale, evidenziando la necessità di una legge sul tema. “Si vuole creare un solco tra il lavoro degli agenti penitenziari e le condizioni di vita dei detenuti”, conclude Cornelli. “La realtà è che il benessere degli agenti di polizia penitenziaria è strettamente correlato a quello dei detenuti. Un miglioramento dello stato delle carceri italiane dovrebbe essere nell’interesse di tutti”. Un altro ragazzo si impicca in cella: era schizofrenico. È omicidio di Stato di Piero Sansonetti L’Unità, 27 marzo 2024 Si sapeva che soffriva di schizofrenia, si sapeva che era incompatibile col carcere. Ma allo Stato italiano interessa una cosa sola: chiudere in cella emarginati, disadattati e rompiscatole. Un ragazzo di 31 anni si è ucciso, impiccandosi, in una cella del carcere Le Vallette di Torino. Era solo in cella. Era schizofrenico. Il Pm da tempo aveva chiesto che fosse scarcerato e trasferito in una struttura adatta. Il Gip aveva dato il via libera. Ma Fabrizio Alvaro Nunez non è stato trasferito perché non si trovava un posto. Gli hanno detto: aspetta, mettiti in fila. Lui non ha aspettato e invece di mettersi in fila s’è appeso con un lenzuolo al collo alla grata della finestra. La Procura ha avviato una inchiesta ipotizzando il reato di istigazione al suicidio. Sicuro che si debba parlare di suicidio? Se prendo un ragazzo schizofrenico, che già ha tentato il suicidio 10 anni fa, lo chiudo in una cella, solo, sapendo che gli psichiatri hanno detto che è incompatibile col carcere, lo so o no che quello può uccidersi? No, non è suicidio. È omicidio di Stato. Nelle carceri italiane dal 1 gennaio ci sono già stati 27 omicidi di stato. Un ragazzo di 31 anni si è suicidato nel carcere delle Vallette a Torino. S’è impiccato con un lenzuolo. È il suicidio numero 27 dall’inizio dell’anno. 10 al mese. Se qualcuno non interviene, alla fine dell’anno supereremo largamente quota cento. Ecatombe. Non gliene frega niente a nessuno: ogni tanto qualche bella parola delle autorità, poi niente. Solo decreti e decreti per aumentare numero dei carcerati e anni di prigione. Questo ragazzo si chiamava Fabrizio Alvaro Nunez, era latino americano ed era schizofrenico. Non era un fatto privato la schizofrenia grave, era accertato, lo sapevano le autorità, i magistrati, i carcerieri. Aveva già cercato una volta di uccidersi, 10 anni fa. Il Pm stavolta aveva chiesto che fosse trasferito in una struttura psichiatrica sorvegliata, il Gip aveva detto di si. E Allora? In Piemonte non c’è posto, hanno messo il suo nome in coda. Appena si fosse liberato un posto lo avrebbero preso. Non si è liberato in tempo e Fabrizio, che era solo in cella - era solo in cella - ha preso il lenzuolo del suo lettino, lo ha strappato con le mani, lo ha ridotto a strisce, ha annodato le strisce, ha fatto un nodo scorsoio e ha fissato il cappio alla grata della bocca di lupo. In alto. Poi è salito su un panchetto, ha messo il collo nel cappio e ha scalciato via il panchetto. Se ne è accorto un infermiere, non sappiamo quanti minuti dopo. Lo ha tirato giù, ha iniziato le manovre per la rianimazione. Cinque minuti, dieci, venti. Massaggio cardiaco. Poi è arrivata l’ambulanza. C’era un medico. Ha detto solo due parole: è morto. Fabrizio era stato in carcere qualche anno fa, per dodici mesi, perché aveva aggredito la madre. Il padre oggi racconta che fu solo uno spintone. Chissà. L’aveva aggredita durante una crisi schizofrenica. Gli succedeva spesso di perdere la ragione. In genere se ne accorgeva un po’ prima che la crisi esplodesse. Il padre - Edmundo, 63 anni, disperato - racconta che quasi sempre faceva in tempo ad avvertire. Diceva: “papà, sto male…”. E i genitori sapevano come comportarsi: una puntura di un medicinale che era sempre pronto. In genere la cosa funzionava. Poi la scorsa estate è successo che una crisi è arrivata senza avvertire. Edmundo, il papà, dormiva, e Fabrizio gli è saltato addosso e lo ha colpito con un coltello. Lo ha ferito. Lui si è divincolato, ha chiamato aiuto. Fabrizio è stato portato via dalla polizia e messo in prigione. Il padre oggi racconta di avere chiesto in tutti i modi che fosse scarcerato. Parla di Fabrizio come di un ragazzo buonissimo, che lui amava e dal quale era amato. Racconta di avere in questi anni chiesto cento volte aiuti allo Stato. Silenzi, burocrazia, rimandi. Domenica Edmundo ha sentito il figlio al telefono. Si sono parlati. L’ultima volta. Lui lo chiamava papi, un po’ l’ha rassicurato, gli ha detto che stava bene, un po’ gli ha chiesto aiuto, perché non ce la faceva più. Ma l’atteggiamento dello Stato, e di gran parte dell’opinione pubblica, di fronte ai carcerati è sempre la stessa. Mica questi possono pretendere troppi diritti: hanno commesso reati. Paghino. Nessuno se ne preoccupa se uno è schizofrenico. Ti dicono: “mettiti in fila, non esisti solo tu”. In fondo cos’è un detenuto? Un numero, un’entità astratta, un colpevole, o comunque un sospetto. Non c’è nessun bisogno di riconoscergli diritti. I diritti si possono riconoscere ai cittadini per bene, non a chi ha violato le leggi. “Hai sbagliato? E ora cosa pretendi?” - La Procura di Torino ha avviato un procedimento contro ignoti e il reato ipotizzato è induzione al suicidio. La Procura in alcuni casi è abbastanza indulgente, specialmente quando immagina che ci possano finire in mezzo dei magistrati. Perché parlare di istigazione o induzione al suicidio? Questo è un omicidio. Capito: o-mi-ci-dio. E il colpevole è ben identificato, senza bisogno di troppe indagini, e non è una persona fisica: è lo Stato. È lo Stato che usa le prigioni come luogo dove internare i disperati, gli emarginati, i reietti, come ha scritto benissimo qualche giorno fa Susanna Marietti, di Antigone, in uno splendido articolo su questo giornale. Tanto più i fuori di testa pericolosi. È lo Stato che li costringe in condizioni insopportabili: provate voi ad immaginarvi per una settimana, un mese, un anno, dieci anni, chiusi in una stanza, con le sbarre, o soli o con troppo compagni in pochi metri quadrati, senza un filo di libertà senza poter lavorare, senza affetti, senza relazioni…provate, ditemi: non impazzireste? Potreste resistere senza tranquillanti, medicine, farmaci, droghe? Io no, se solo penso al carcere mi tremano le mani e le ginocchia. Non riesco proprio a capire come sia possibile che la maggioranza degli italiani ritenga che il carcere sia qualcosa di compatibile con la modernità e con un briciolo di morale. Sì: morale, lasciatemi usare per una volta questa parola. Il carcere è una grande questione morale. Vedete il caso di Fabrizio. Non c’era posto in una struttura adatta. E perché? Perché si investe in un carcere, in repressione, si risolve tutto con le prigioni, non si investe un euro per organizzare strutture e formare personale adatto ad occuparsi del disagio psichico, della emarginazione, dell’estrema povertà, della tossicodipendenza o addirittura della follia. Lo Stato se ne infischia di tutto ciò. Risolve con un paio di manette e con le inferriate e le porte blindate delle celle. Per questo lo Stato è colpevole. Lo Stato chi? Il suo apparato, i suoi funzionari, i partiti politici che, a turno, lo governano. Quando sentite dire “contro il sovraffollamento costruiamo nuove carceri”, sappiate che quella è una istigazione al suicidio. Quella sì. Le carceri non vanno costituite: vanno rase al suolo. Serve assistenza. Servono strutture. Serve personale per la rieducazione. Non sbarre. La “certezza della pena” è una frase orrenda, che tutti ripetono e si fanno belli. Troppo spesso la certezza della pena è certezza della morte. E quelli non sono suicidi. Smettetela di dire: suicidi. Sono omicidi. Perché chi non è capace di intendere e volere non deve stare in carcere anche se ha commesso un delitto? di Raphael Zanotti La Stampa, 27 marzo 2024 Cerchiamo di capire meglio cosa non ha funzionato nel caso di Alvaro Nuñes Gomez, morto suicida in carcere quando non doveva starci. Il caso di Alvaro Nuñes Gomez, schizofrenico che si è suicidato in carcere, ha portato allo scoperto un problema diffuso: il fenomeno dei malati psichiatrici rinchiusi dietro le sbarre perché non ci sono posti nelle Rems. Ma tutto questo è sbagliato, vediamo perché. Perché chi è dichiarato incapace di intende e volere non deve stare in carcere? Perché secondo il diritto penale, art. 85 del codice penale, l’imputabilità è un requisito fondamentale per la punibilità di un individuo. Se una persona non è imputabile non può essere nemmeno punita. Perché chi è in questa condizione non è responsabile? Perché manca la capacità di comprendere il significato del proprio comportamento e/o controllare i propri impulsi. È per lo stesso motivo che chi ha meno di 14 anni non è imputabile. Come ci si comporta allora con una persona incapace di intendere e volere che ha commesso un delitto? Invece di essere imprigionata una persona dichiarata incapace di intendere e volere perché malata psichiatricamente possono essere applicate misure di sicurezza come il ricovero in un ospedale giudiziario oppure l’assegnazione in una casa di cura o di custodia a seconda della gravità della sua incapacità. Come si stabilisce se una persona è incapace di intendere e volere? L’incapacità si accerta attraverso una perizia psichiatrica nel corso della quale uno psichiatra incaricato dal giudice esamina il soggetto con una serie di incontri e test al termine dei quali esprime il suo parere professionale. Quali sono le cause dell’incapacità di intendere e volere? Vizio totale di mente, è una condizione che dipende da infermità psichica o fisica che esclude completamente la capacità di intendere e volere al momento del reato. Vizio parziale di mente: è un’infermità che riduce molto, senza escluderla, la capacità. Di solito porta a una riduzione della pena in caso di condanna. Minore età: le persone con meno di 14 anni sono dichiarate incapaci di intendere e volere per legge. Alcol e droga: in caso di intossicazione cronica da alcol o droga l’imputabilità può essere esclusa. Sordomutismo: quando è tale da determinare l’incapacità di intendere e volere può essere causa di non imputabilità. Disturbi della personalità: in presenza di problemi specifici che influenzano in modo significativo la capacità di intendere e volere. Cosa sono le Rems? Rems è l’acronimo di residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Sono strutture destinate all’esecuzione di misure di sicurezza per soggetti che sono stati dichiarati incapaci di intendere e volere a causa della loro infermità mentale. Queste strutture rappresentano un’alternativa alla detenzione carceraria per coloro che necessitano di cure e assistenza specifiche a causa delle loro condizioni mentali. Sono luoghi dove vengono attuate misure sanzionatorie non detentive offrendo un ambiente più adatto alle esigenze terapeutiche e riabilitative dei soggetti affetti da disturbi mentali che li rendono incapaci di assumersi la responsabilità dei loro atti. Le riforme della giustizia: un po’ di fumo negli occhi e un regalo all’Anm di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 27 marzo 2024 Le riforme varate ieri dal Consiglio dei Ministri danno la misura esatta di quali siano il segno e la qualità della politica della giustizia di questo Governo e di questo Ministro. Un po’ di fumo negli occhi con la nebulosa introduzione dei test psico-attitudinali per i magistrati, mentre viene demolita, in ossequio ai perentori desiderata dell’A.N.M., la decisiva innovazione del fascicolo delle performance coraggiosamente introdotta dalla Riforma Cartabia. Partiamo dai test psico-attitudinali. Io non ho mai ben compreso, in verità, cosa esattamente questi test dovrebbero accertare. La ragione per la quale vadano somministrati, chessò, ai poliziotti o ai piloti di aereo è immediatamente intuitiva; per le toghe un po’ meno, ed infatti nessuno dei suoi sostenitori ce ne spiega con precisione l’oggetto. Quale test sarebbe somministrato, e per accertare cosa, esattamente? Quali i parametri, quali gli esiti che dovrebbero risultare impeditivi della messa in ruolo per un concorrente che abbia vinto il concorso? Se proprio dobbiamo appassionarci al tema, verrebbe da dire che la somministrazione di un test psico-attitudinale potrebbe avere un senso, semmai, ad un certo punto della carriera, per esempio quando le performance professionali di quel magistrato fossero tali da far dubitare del suo equilibrio. In ogni caso, si tratta di una riformetta incerta nei contenuti, discutibile negli obiettivi, inutilmente destinata a scatenare polemiche feroci e contenziosi infiniti, in cambio, diciamocelo, di un po’ di fuffa. Di enorme gravità è invece la scelta del Governo di svuotare di ogni significato la riforma che aveva introdotto il c.d. “fascicolo delle performance”. Detto più semplicemente, la riforma Cartabia aveva finalmente posto le basi per una valutazione effettiva della professionalità del singolo magistrato, e della meritevolezza del suo avanzare in carriera, fino ad oggi, come è noto, del tutto automatico. Si è obiettato che tale riforma si fondasse su un presupposto impossibile da realizzare, cioè la raccolta in un solo fascicolo di tutti i provvedimenti adottati da quel giudice, e dell’esito delle relative impugnazioni. Una obiezione invero sensata, ma che doveva e poteva essere affrontata e risolta. Per esempio, limitando il fascicolo alle sole statistiche dell’attività del magistrato, in base alle quali poi eventualmente procedere ad approfondimenti. Se il magistrato Tizio si vede annullare in appello il 70% delle sue sentenze, o assolvere il 50% delle persone delle quali ha chiesto o disposto l’arresto, questo segnala un problema, che andrà approfondito alla scadenza valutativa quadriennale. E lo stesso vale per la produttività, i tempi delle decisioni, lo smaltimento degli arretrati. Ma la scelta del Governo di riaffermare il principio del controllo “a campione” equivale né più né meno che alla abrogazione della riforma, per ragioni a tal punto evidenti da non dover essere nemmeno illustrate. Viene di nuovo garantita, insomma, la totale irresponsabilità professionale del magistrato, il cui concreto operato non avrà mai nessuna occasione per essere vagliato e giudicato ai fini dell’avanzamento in carriera. In tal modo si alimenta ancora una volta la vera ragione dello squilibrio democratico che da trent’anni affligge il nostro Paese. Dei tre poteri dello Stato -legislativo, esecutivo, giudiziario- solo quest’ultimo non risponde a nessuno del proprio agire. Non disciplinarmente, garantito come è da una giustizia domestica e correntizia; non patrimonialmente, come attestato dal naufragio delle norme sulla responsabilità civile del magistrato; non professionalmente, grazie ad una progressione automatica in carriera che il Ministro Nordio e l’intera maggioranza si sono preoccupati di salvaguardare ancora, neutralizzando la riforma Cartabia che aveva osato metterla in discussione. Ancora una volta, un po’ di fumo negli occhi, e tanta premurosa accondiscendenza verso le richieste della Magistratura associata sulle questioni che contano davvero. Test psicoattitudinali, il Cdm ha detto sì. L’Anm: vogliono colpirci di Valentina Stella Il Dubbio, 27 marzo 2024 Le valutazioni psicologiche per l’accesso in magistratura saranno nelle mani del Csm che nominerà i docenti specialisti. Un Consiglio dei ministri durato circa tre ore. Cinque i provvedimenti all’ordine del giorno, tutti di facile gestione tranne quello sui test psicoattitudinali per l’accesso alla professione di magistrato che ha allungato i tempi della discussione. Alla fine il Cdm ha approvato la vecchia bozza circolata nelle ultime ore che ha subìto però delle modifiche. In pratica, ecco cosa prevede: sarà il Consiglio Superiore della Magistratura a nominare i docenti universitari in materie psicologiche - su indicazione del Consiglio universitario nazionale, organo indipendente dell’università - che costituiranno la commissione giudicante per i test psicoattitudinali per i magistrati. Il colloquio psicoattitudinale si svolgerà durante la prova orale e chi avrà superato la prova scritta, prima dell’orale riceverà dei test scritti individuati dal Csm, sul modello di quelli utilizzati per quelli effettuati agli agenti di polizia. Questi ultimi costituiranno la base per il futuro colloquio psicoattitudinale. Il colloquio orale sarà comunque diretto dal presidente della commissione esaminatrice, e non da uno psicologo, che sarà presente solo come ausilio. Infine la commissione esaminatrice, che valuta collegialmente, formulerà il giudizio conclusivo sulla totalità delle prove. Non ci sarà dunque una valutazione specifica sul colloquio attitudinale - come emergeva dalla prima bozza circolata nel week end - ma il giudizio sarà globale. Ci sarà dunque un doppio livello di garanzia: il Csm disciplinerà i test in via generale e poi la commissione esaminatrice deciderà. La nuova norma si applicherà al primo bando 2026, stessa scadenza del fuori ruolo. Al termine del Cdm c’è stata la conferenza stampa alla quale ha partecipato anche il Ministro Nordio che ha esordito con il “rammarico” per le polemiche di questi giorni. Il riferimento è ai testi licenziati dall’Anm e dalle dichiarazioni dei suoi vertici. Come per il concorso ai soli giudici onorari quando si è assistito a critiche “senza leggere la bozza di un testo ancora in fieri”, adesso abbiamo raccolto “polemiche sterili, vuote astrazioni polemiche, nessuno ha mai pensato di introdurre valutazioni periodiche dell’attitudine e della psiche dei magistrati”. Parlare di “oltraggio all’indipendenza della magistratura è, secondo noi, assolutamente improprio”, ha detto il Guardasigilli che ha aggiunto: “l’esame è previsto per tutti coloro che ricoprono funzioni importanti come i medici, i piloti, le forze dell’ordine. Il pm è il capo della polizia giudiziaria” a cui vengono somministrati i test, “perché non dovrebbe farli anche chi li comanda? Quello dei carabinieri dura tre giorni”. Il Guardasigilli ha poi ribadito: “Sui test non c’è un’invasione di campo da parte del governo nei confronti della magistratura. Non vi sono interferenze da parte del governo. Non c’è nessun vulnus, nessuna lesa maestà. Tutta la procedura di questo test è affidata al Consiglio superiore della magistratura”. Ha concluso così sul tema: “Mi sono sottoposto ai test psicologici del Minnesota, che è quello che vorremmo introdurre qui. Non c’è nulla di male se una persona cerca di capire com’è fatta e magari può cercare di correggersi, si tratta di persone che hanno in mano le vite degli altri, come i medici”. “E se il candidato non superasse il test?” gli ha chiesto un giornalista: “L’esame di accesso alla magistratura si potrà ripetere non più tre ma quattro volte”, ha ricordato Nordio. Il presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia, intanto era in diretta su La7 ospite della Gruber e ha replicato: “Le polemiche sono più che fondate, altro che sterili: i controlli sui magistrati ci sono già” e il ministro Nordio “lo vorremmo più attento sul piano delle risorse per la giustizia”. Sul merito della nuova disposizione il vertice del sindacato delle toghe ha precisato: “I test? Il fatto che il presidente di commissione, in sede di esame, debba tenere un colloquio è un modo per annacquare il provvedimento ed evitare le risposte. Più che una sciagura, è una norma simbolo, lo scopo era creare una suggestione nell’opinione pubblica: questi magistrati hanno bisogno di un controllo psichico. È un messaggio simbolico per gettare ombra sulla magistratura”. Il presidente ha poi ricordato, come nei giorni passati, che “il governo non aveva la delega per introdurre i test”. Sulla eventualità di uno sciopero Santalucia ha risposto: “Ne parleremo di nuovo, siamo tutti uniti. È una norma irrazionale, entrerà in vigore nel 2026, c’è spazio per convincere” ad eliminarla ha aggiunto il Consigliere di Cassazione, ricordando che i test sono stati aboliti in Francia dopo essere stati in vigore per pochi anni. Nel pomeriggio l’Ansa aveva fatto circolare l’ipotesi di una legge che avrebbe fatto da cornice a una futura norma dove solo in seguito sarebbero state specificate le modalità di svolgimento dei test stessi. Si era pensato che dietro questa modifica fosse intervenuto il Quirinale per due motivi: eccesso di delega, in quanto i test psico-attitudinali non erano previsti, e per presunti profili di incostituzionalità. Infatti l’articolo 106 della Costituzione prevede quale unico criterio di accesso alla magistratura professionale quello tecnico come sottolineato due giorni fa da tutti i consiglieri togati del Csm in una richiesta di apertura di una pratica avente ad oggetto proprio questa questione perché l’organo di governo autonomo non era stato investito della materia. Ma poi tale previsione è stata accantonata a favore della vecchia bozza circolata nelle ultime ore con delle modifiche. Durante il Cdm sono stati approvati in via definitiva anche i due schemi di decreto legislativo dell’ordinamento giudiziario, dove è contenuta la norma sui test, e dei magistrati fuori ruolo. Su quest’ultimo punto era noto che il taglio sarebbe stato rimandato al 31 dicembre 2025. Niente pagelle ma solo test attitudinali: la protesta dell’Anm induce il governo a introdurre misure blande di Paolo Pandolfini Il Riformista, 27 marzo 2024 I provvedimenti dei magistrati continueranno a essere valutati a campione svuotando le indicazioni della riforma Cartabia. Dopo la proposta di separare le carriere fra pm e giudici, lo scontro fra toghe e governo si accende sulla decisione di prevedere i test psicoattitudinali per accedere in magistratura. Una vecchia idea di Silvio Berlusconi, fanno sapere dal centro destra. Di Licio Gelli nel piano di Rinascita democratica, sottolineano invece le opposizioni. “Cosa sono questi test, a cosa servano, non ce lo ha spiegato nessuno: così diventa un proclama contro i magistrati, per far pensare che hanno bisogno di essere controllati dal punto di vista psichico o psichiatrico”, ha affermato il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia. “I magistrati italiani sono costantemente valutati sul campo per il loro equilibrio. Ma come si fa a stabilire qual è il tipo ideale di magistrato. E spetta al ministro farlo?”, ha aggiunto il segretario generale Salvatore Casciaro. Timori, va detto, infondati in quanto viene demandato, tramite successivi decreti, ad esperti qualificati il compito di verificare l’idoneità psicoattitudinale allo svolgimento delle funzioni giudiziarie. La legge, in altre parole, si limita ad introdurre esclusivamente il principio: la decisione sui contenuti dei test e su chi ne valuterà i risultati avverrà in un secondo momento, con atti subordinati, e spetterà come sempre al Csm. Le toghe possono quindi continuare a dormire sonni tranquilli. Il Consiglio dei ministri, a parte i test, ha dato ieri il via libera alla riforma dell’Ordinamento giudiziario. Una riforma quanto mai blanda che ha deluso le aspettative di chi si aspettava qualcosa di veramente incisivo. Ne sono una prova il “fascicolo delle performance”, voluto dal deputato di Azione Enrico Costa, dove sarebbero dovute confluire, ai fini della valutazione di professionalità, tutte le attività svolte dai magistrati e quindi anche le indagini concluse con un nulla di fatto, i flop investigativi, gli arresti ingiusti. Una pagella che avrebbe quindi valorizzato i più bravi, permettendogli in questo modo di fare carriera senza ricorrere ai soliti aiuti correntizi. “Nel fascicolo del magistrato saranno scelti provvedimenti a campione sulla base di criteri oggetti stabiliti dal Csm”, si legge nel testo. Praticamente identico a quello vigente che prevede l’inserimento nel fascicolo di “eventuali significative anomalie esistenti fra provvedimenti emessi o richiesti e provvedimenti non confermati o rigettati, in relazione all’esito, nelle successive fasi e gradi del procedimento”. La legge Cartabia del 2022 aveva conferito la delega al governo “per la riforma dell’ordinamento giudiziario e per l’adeguamento dell’ordinamento giudiziario militare, nonché disposizioni in materia ordinamentale, organizzativa e disciplinare, di eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati e di costituzione e funzionamento del Csm”. Il ddl, approvato ieri dal Consiglio dei ministri, recependo le indicazioni di Carlo Nordio, è allora intervenuto sull’accesso in magistratura, sulle valutazioni di professionalità delle toghe, sulle regole per il conferimento delle funzioni direttive e semidirettive e sulla loro conferma. Un separato decreto legislativo è invece dedicato all’attuazione della delega in materia di collocamento “fuori ruolo” dei magistrati. In tema di accesso in magistratura si torna al passato: sarà sufficiente il possesso della laurea in giurisprudenza per partecipare al concorso, con lo stop alle scuole di specialità ed ai tirocini formativi. Per le valutazioni professionalità, a parte le “finte pagelle”, si segnala il diritto di partecipare e di assistere alla deliberazione da parte degli avvocati nei Consigli giudiziari, i “piccoli Csm” nei distretti giudiziari. Attribuendo, però, ai soli componenti avvocati il diritto di esprimere un voto in conformità alle indicazioni in tal senso provenienti dal Consiglio nazionale forense o dal Consiglio dell’ordine degli avvocati. Quindi poco o nulla avendo i magistrati da sempre la maggioranza assoluta all’interno dei Consigli giudiziari. Le regole per andare in Cassazione dovranno invece connotate da “trasparenza” e “efficienza”. Un dato che si dava per scontato. I parametri di valutazione dei requisiti specifici (attitudini, m e - rito e anzianità) dovranno essere funzionali ad assicurare “l’obiettività nella verifica delle competenze degli aspiranti, pur nel doveroso rispetto della discrezionalità valutativa del Consiglio superiore della magistratura e delle sue prerogative regolamentari”. Accanto alle disposizioni dirette a preservare l’imparzialità della selezione, ve ne sono altre che disegnano, per così dire, il volto dell’aspirante alle funzioni di legittimità: una lunga esperienza al servizio della giurisdizione sulla quale, in primo luogo, deve appuntarsi la valutazione della sua competenza professionale; l’inclinazione allo studio e la capacità scientifica coniugate, tuttavia, alla capacità di confrontarsi con gli indirizzi giurisprudenziali consolidati, nella consapevolezza che la principale funzione attribuita alla Corte di cassazione è quella di assicurare “l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni”. Anche in questo caso è il minimo sindacale. E poi il conferimento delle funzioni direttive e semidirettive, materia da sempre incandescente. La norma introduce due punti rivoluzionari: “trasparenza” e “valorizzazione del merito”. “Emerge un’avvertita esigenza di maggiori “trasparenza”, “pubblicità”, “partecipazione”, “procedimentalizzazione”, “oggettivizzazione” e “certezza dei tempi” dell’azione amministrativa, oltre che arricchimento del patrimonio conoscitivo sul magistrato in valutazione”, si legge nel testo, ingenerando così nel cittadino la convinzione che fino ad oggi gli incarichi fossero veramente assegnati con il metodo spartitorio by Palamara. “Bene l’introduzione dei test per le toghe”. Parla l’ex ministro Nitto Palma di Ermes Antonucci Il Foglio, 27 marzo 2024 “I test non sono un attacco all’immagine del magistrato, ma una tutela per il cittadino”, dice l’ex ministro della Giustizia, che auspica una valutazione effettiva dell’attività dei pm: “Lei si farebbe operare da un medico che ha sbagliato 80 interventi su 100?”. “Sono favorevole ai test psicoattitudinali per l’accesso in magistratura. Non credo che si possa dire che si tratta di un attacco all’immagine del magistrato. E’ semplicemente una cautela rispetto a una professione che incide direttamente sulla vita delle persone. Io posso essere un genio del diritto, ma se non sto a posto con la testa non sarò mai un buon magistrato”. Lo dichiara al Foglio Nitto Palma, ex magistrato ed ex ministro della Giustizia nel quarto governo Berlusconi. Proprio ieri sera, sfidando l’Associazione nazionale magistrati che aveva già annunciato battaglia, il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto legislativo predisposto dal ministro Nordio che introduce i test psicoattitudinali per le toghe. “Cinquant’anni fa feci il concorso per il commissario di pubblica sicurezza - racconta Palma -. Tra gli scritti e gli orali venni sottoposto, come tutti gli altri candidati, ai test psicoattitudinali. Non mi sentii per nulla offeso. Ritenevo che fosse una cosa corretta, perché il lavoro che si sarebbe dovuti andare a svolgere in caso di vittoria del concorso era molto delicato, destinato a incidere sulla vita delle persone. Ritengo che anche per l’entrata in magistratura il test psicoattitudinale, collocato prima degli esami orali e non dopo, sarebbe una cosa positiva, a garanzia dei cittadini”. L’altro tema al centro dei decreti legislativi approvati dal governo è la valutazione della professionalità dei magistrati. In molti casi si è assistito a centinaia di arresti poi annullati dal tribunale del Riesame, così come a lunghi processi poi conclusi con la piena assoluzione degli imputati. Eppure il 99,6 per cento delle valutazioni di professionalità delle toghe ha esito positivo. “I magistrati risultano tutti dei geni. Tutto ciò, poiché sotto il profilo statistico non può corrispondere al vero, dimostra in maniera inequivocabile che il sistema di valutazione dei magistrati attuato fino a oggi è errato”, dice Palma, che spiega: “La valutazione del pubblico ministero è forse la cosa più semplice. Se il pubblico ministero Tizio fa cento indagini e ottiene il 98 per cento di condanne, mentre il pubblico ministero Caio ne ottiene solo il 10 per cento, possiamo tranquillamente dire che Tizio è più bravo di Caio. Non perché lo diciamo noi, ma perché lo hanno detto i giudici, che nei vari gradi di giudizio hanno confermato la linea investigativa del pm”. “Ritengo auspicabile quindi - prosegue Palma - immaginare un sistema che possa consentire un controllo dell’attività del pubblico ministero. Il pm o lo sai fare o non lo sai fare. Tutto qua. Anche in questo caso, il beneficiario della situazione è il cittadino. Lei si farebbe operare di appendicite da un medico che ha sbagliato 80 interventi su 100?”. “Per i giudici il discorso è molto più complesso”, dichiara l’ex Guardasigilli. “Non è pensabile effettuare una valutazione sulla base dei risultati, cioè su quante sentenze di condanna sono state confermate o meno. Si pensi solo ai giudici collegiali: come valutarli?”, si chiede Palma. “Sul piano ordinamentale la valutazione dell’errore è già prevista attraverso le sentenze dei giudici d’appello e poi della Cassazione”. Altro tema caldo riguarda i criteri con cui il Csm conferisce gli incarichi direttivi e semidirettivi negli uffici giudiziari. “Queste nomine dovrebbero basarsi sulla valutazione della vita professionale del magistrato. Sappiamo benissimo che nella pratica non è così e le procedure subiscono l’influenza delle correnti”, dice Palma. “Nella magistratura amministrativa il conferimento degli incarichi direttivi avviene sulla base del criterio dell’anzianità senza demerito. Se si adottasse questo criterio nella magistratura ordinaria, il peso delle correnti sarebbe nullo”, spiega. Ma per l’ex ministro Palma, il sistema di valutazione delle toghe è solo uno dei tanti aspetti da riformare: “Qui si tratta di ricondurre a ragione una categoria che mi sembra che negli ultimi venti-trent’anni abbia esondato dalle proprie attribuzioni. Parlare di politicizzazione in senso lato della magistratura non è una bestemmia. Insomma, se si volesse cambiare veramente il sistema, la riforma della magistratura dovrebbe essere molto più radicale”. Test psico-attitudinali, da sempre contrari giuristi e psichiatri: è irrealizzabile di Edmondo Bruti Liberati La Stampa, 27 marzo 2024 Dopo preannunci e smentite il governo ha deciso di introdurli nel decreto legislativo sull’ordinamento giudiziario, nonostante le severe critiche da più parti avanzate. I giuristi contestano questa innovazione come del tutto estranea ed incompatibile con i principi dettati dalla legge delega n. 71/2022, cui il governo è tenuto ad attenersi. Gli specialisti del settore contestano l’ipotesi che sia possibile la presupposizione di valutare scientificamente, attraverso test e colloqui, la idoneità psicoattitudinale dei magistrati. “È doveroso chiarire che nessun tecnico, anche soltanto minimamente competente in materia, saprebbe in coscienza avallare una simile supposizione o presunzione; e questo non per un’attuale insufficienza dei nostri strumenti di indagine, ma in ragione di più cogenti criteri metodologici, che impediscono la costruzione di griglie riduttive attendibili, atte a testare funzioni così complesse, che coinvolgono ideali, motivazioni, passioni, interessi, come se si trattasse di mere capacità oggettivamente standardizzabili”. Così si esprimeva un appello del novembre 2004 sottoscritto da decine di autorevoli psichiatri e psicologi della Società psicoanalitica italiana e della Società italiana di psicoterapia psicoanalitica. Si può poi discutere della concreta praticabilità della ipotesi che un candidato, che ha superato le molto selettive prove scritte ed orali del concorso in magistratura, venga poi “eliminato” dopo un colloquio psico-attitudinale. Si può anche evocare il cattivo sapore di una proposta che ha avuto come primo proponente Licio Gelli nel Piano di Rinascita Nazionale. Ma occorre andare al nodo della questione, quale è stato posto nitidamente dall’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi in un’intervista pubblicata il 3 settembre 2003 dalla rivista inglese The Spectator. Non una gazzetta qualunque, ma, pubblicato la prima volta il 6 luglio 1828, è il settimanale più antico al mondo e certamente tra i più autorevoli. Non un intervistatore qualunque perché era lo stesso direttore Boris Johnson, futuro primo ministro del Regno Unito. “Questi giudici sono doppiamente matti! Per prima cosa, perché lo sono politicamente, e secondo sono matti comunque. Per fare quel lavoro devi essere mentalmente disturbato, devi avere delle turbe psichiche. Se fanno quel lavoro è perché sono antropologicamente diversi dal resto della razza umana”. Così il primo ministro italiano al futuro primo ministro inglese. Spesso viene citata solo la più impressiva seconda parte, ma si tratta di una analisi articolata di cui essenziale è la prima parte. I giudici sono “politicamente matti”: infatti pensano che la magistratura debba essere indipendente dagli altri poteri. E poi sono matti una seconda volta perché, “antropologicamente diversi dalla razza umana”, pensano di voler fare quel lavoro. Proviamo a metterci nei panni del povero psicologo o collegio di psicologi che deve valutare quella persona che ha appena superato le difficili prove di concorso. In quanto “antropologicamente diverso dalla razza umana” non dovrebbe essere ammesso a svolgere il delicatissimo compito del giudicare. Ma solo questi “matti” pensano di voler fare quel lavoro e tutti matti sono dunque quelli che hanno superato il concorso. Questione non nuova e tuttora insolubile come sappiamo dal romanzo e dal film Comma 22: “Chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo”. Intercettazioni, un limite alla durata: “Stop dopo 45 giorni”. In arrivo il freno agli ascolti di Francesco Bechis e Francesco Malfetano Il Messaggero, 27 marzo 2024 Una durata massima di un mese e mezzo per le intercettazioni. Ovvero addio alla possibilità per il gip di rinnovare di quindici giorni in quindici giorni la disposizione per arrivare sino al termine delle indagini o quasi, aggirando l’attuale vincolo. In attesa dell’annunciata rivoluzione a firma del Guardasigilli Carlo Nordio, è la Commissione Giustizia del Senato ad intervenire sugli ascolti. E lo fa con un emendamento a firma della relatrice della maggioranza Erika Stefani (Lega) su un provvedimento di Pierantonio Zanettin (Forza Italia) che mira a riscrivere parte dell’articolo 267 del codice di procedura penale istituendo, appunto, il vincolo a 45 giorni per le intercettazioni. Intanto il governo bollina la riforma della magistratura. Oltre alla stretta sui giudici fuori ruolo, il Cdm ieri ha approvato il “fascicolo dei magistrati”, le “pagelle” delle toghe previste dalla legge Cartabia. E il via libera è arrivato anche per i discussi test psicoattitudinali per gli aspiranti magistrati: scatteranno dal 2026 e a condurli sarà un team di professori universitari di psicologia selezionato dal Csm, ha annunciato ieri il Guardasigilli Carlo Nordio anticipando i dettagli della nuova prova: “Io stesso mi sono sottoposto ai test psicologico del Minnesota, che è quello che vorremmo introdurre qui”. Agenda piena, dunque, di un dossier che il centrodestra marca stretto e vuole cavalcare per le elezioni europee di giugno. La nuova stretta sulle intercettazioni, si diceva, slitta solo di qualche giorno. Il testo sarebbe dovuto essere approvato ieri pomeriggio solo che, dopo una discussione imposta dal capogruppo dem in Commissione Alfredo Bazoli, si è deciso di rinviare alla prossima settimana per una “piccola” riformulazione. L’oggetto della contesa è rappresentato dalle eccezioni da includere all’interno del testo, esplicitando la possibilità di una deroga in caso di indagini relative al terrorismo. Al momento infatti si specifica che il vincolo a un mese e mezzo può essere superato solo in due occasioni. In primis qualora venga disposto nei casi in cui “l’assoluta indispensabilità delle operazioni” per un periodo di tempo più lungo “sia giustificata dall’emergere di elementi specifici e concreti, che devono essere oggetto di espressa motivazione” da parte del magistrato. In secondo luogo nei procedimenti relativi alla criminalità organizzata. “Una formulazione che, è vero, non contempla espressamente le organizzazioni terroristiche. Ma per noi quella del terrorismo è una motivazione già ricompresa nella dicitura “criminalità organizzata” spiega Zanettin. Fatto sta che l’emendamento rinviato ieri sarà votato la prossima settimana per evitare fraintendimenti e tener fede proprio alle indicazioni del Guardasigilli che sottolineò come “Nessuno vuole toccare le intercettazioni per reati di mafia e terrorismo a anche per reati satelliti di questi fenomeni perniciosi”. Fin qui le intercettazioni, punto caldissimo del cronoprogramma della giustizia targato Meloni. Poi c’è la riforma delle toghe, altro tasto delicato. Ieri il semaforo verde del Csm. Che ha approvato fra l’altro l’introduzione dei test psicoattitudinali per gli aspiranti giudici, novità che vede sul piede di guerra tanto l’Anm che il Consiglio superiore della magistratura. In verità, dopo ventiquattro ore di ritocchi, il compromesso finale è più soft del previsto. Sarà il Csm a designare gli esperti che condurranno i test, scelti fra “docenti universitari titolari insegnamenti materie psicologiche”. Ma il voto finale sull’esame spetterà alla Commissione composta di giudici che valuta anche lo scritto e l’orale. Insomma, “nessuna invasione di campo della magistratura”, assicura l’ex pm Nordio provando a chetare le acque, “si tratta di persone che hanno in mano le vite degli altri, come i medici, nulla di male se possono correggersi”. I test partiranno dai concorsi del 2026 e seguiranno il modello Minnesota già in uso per tanti concorsi della Pa: 567 domande a quiz, risposte a crocette. La prossima fermata? La separazione delle carriere tra giudici e pm cara a Forza Italia. Nordio detta già i tempi: “La riforma fa parte del programma, la faremo quanto prima, probabilmente entro la primavera”. “Abbiamo sottratto 150 bambini e 30 donne alle mafie. Ma adesso la politica ci dia una legge” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 27 marzo 2024 L’appello del presidente del tribunale dei minori di Catania Roberto Di Bella che da 12 anni, insieme a don Luigi Ciotti, offre una vita alternativa ai figli dei boss. “È il nostro Erasmus della legalità”. Dodici anni tutti in salita, un percorso a ostacolo, portato avanti per buona parte in solitaria. Ma quello che Roberto Di Bella, giudice dei minori da 25 anni, oggi definisce “Erasmus della legalità” ha prodotto un risultato su cui forse neanche lui all’inizio avrebbe scommesso: “Abbiamo sottratto alle mafie 150 bambini e ragazzi, abbiamo aiutato 30 donne a salvare i loro figli e sé stesse, 7 poi sono anche diventate collaboratrici di giustizia. È un risultato che mi ripaga di sforzi e amarezze”. Dottor Di Bella, all’inizio l’hanno presa per un visionario, l’hanno accusata quasi di abuso di potere e lei lo chiama Erasmus della legalità? “Sì, quella contro le mafie è una battaglia innanzitutto culturale. Portandoli via da contesti nei quali sono condannati ad un unico destino, li dotiamo di strumenti culturali che li mettono in condizione di scegliere. Per anni ci hanno accusato di fare confische dei figli. Ma noi non abbiamo mai agito con pregiudizio, abbiamo degli obblighi di legge da rispettare”. Prima, però, non lo faceva nessuno. È una strada che lei ha deciso di intraprendere nel 2012 da presidente del tribunale dei minori di Reggio Calabria... “Sì, è vero. Le spiego. Ma non si poteva chiudere gli occhi davanti a un’evidenza. Ho processato diverse generazioni di mafiosi e ‘ndranghetisti delle stesse famiglie, padri e figli. Ho visto bambini di 8 anni portati a sparare, utilizzati come vivandieri dei latitanti, come postini di messaggi, pusher nelle piazze. Ho visto ragazzini uccidere le loro madri per punire, secondo un presunto codice d’onore un tradimento coniugale. Mi pare che in casi come questi non possa esserci alcun dubbio sulla responsabilità genitoriale dei boss. Se i giudici dei minori intervengono per sottrarre dei minori a genitori che li maltrattano o che non se ne curano, a maggior ragione hanno l’obbligo di intervenire per portarli via da contesti mafiosi. Non siamo certo avventurieri del diritto”. Prima in Calabria e adesso in Sicilia, oltre ai figli state salvando anche tante donne che stanno trovando il coraggio di andar via... “Sono sempre di più le madri che hanno capito che oltre ad un futuro diverso per i loro figli c’è una vita nuova anche per loro. Ci hanno chiesto di portarle via, alcune sono diventate collaboratrici di giustizia ma ci sono anche quelle che non hanno reati da confessare. E adesso sono anche loro che dobbiamo sostenere. Fino ad ora lo abbiamo fatto con il progetto “Liberi di scegliere” con il ruolo fondamentale di Libera di don Luigi Ciotti e della Cei ma c’è un vuoto legislativo che bisogna urgentemente colmare. Un protocollo, come quello che abbiamo rinnovato ieri al ministero di Grazia e giustizia non basta”. Cosa serve? “Serve un quadro normativo che dia delle risposte e consenta a queste donne e a questi bambini di ripartire con una nuova vita. Per tenere al sicuro una madre e un figlio ci vogliono almeno cento euro al giorno. Senza una nuova identità queste donne non possono lavorare, il loro sostegno, in questo momento, è assicurato solo dalla rete di assistenza di Libera e dai fondi dell’8 per mille della Cei”. E alla fine persino dalle carceri vi arriva un “grazie”... “È un meccanismo virtuoso da cui stanno persino nascendo collaborazioni: un boss a Catania, e tutta la sua famiglia, ha accettato di parlare per salvare i suoi nipotini. Riuscire a cambiare traiettorie di vita ineluttabili è quanto di più appagante per chi fa il mio lavoro”. Regime del 41-bis, il magistrato di sorveglianza non può sindacare l’organizzazione dei servizi di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 27 marzo 2024 Il diritto all’igiene personale dei detenuti è “organizzato” dall’amministrazione penitenziaria le cui scelte sono soggette alla giurisdizione solo se incidono su posizioni soggettive costituzionalmente garantite. Sussiste la giurisdizione del tribunale di sorveglianza sulle disposizioni organizzative dell’amministrazione penitenziaria solo quando queste sono atte a incidere sull’esplicazione in concreto dei diritti soggettivi dei detenuti. Non sussiste invece la legittimità del vaglio del giudice sulle scelte concrete, relative alle modalità di esercizio di tali diritti, effettuate dall’amministrazione. Ciò costituirebbe un’illegittima ingerenza nelle facoltà di scelta con cui si esprime in concreto il potere amministrativo. La tutela della dignità umana è sicuramente assicurata dall’ordinamento anche alla popolazione detenuta e certamente si esplica anche con il diritto garantito all’igiene personale che va contornato solo dalle limitazioni che si rendano necessarie per tenere conto dello stato di reclusione e del suo specifico regime. E anche a chi soggiace alle regole dure dell’articolo 41 bis dell’Ordinamento penitenziario ha diritto al rispetto di ogni diritto soggettivo della persona a meno delle imprescindibili limitazioni connesse allo sconto della pena. E, la pena non può mai perdere il suo scopo principale che è quello della rieducazione del condannato. La Cassazione penale ha deciso un caso sul servizio di barberia all’interno del braccio carcerario sottoposto al regime cosiddetto del carcere duro. La decisione n. 12362/2024 boccia l’ordinanza del giudice di sorveglianza che su reclamo di un detenuto aveva dettato disposizioni su servizi, utensili e arredi da offrire all’uso destinato allo svolgimento del compito interno di barbiere e alla prestazione del servizio in generale. Il fatto che la decisione si occupi di decisioni di dettaglio pratico all’interno della vita carceraria ha costituito per la Cassazione un’illegittima interferenza del potere giurisdizionale in quello amministrativo. Perciò l’annullamento è stato disposto senza rinvio in quanto la decisione è stata giudicata in radice “fuori fuoco”. La Cassazione coglie però l’occasione di affermare la linea rossa tra giurisdizione e amministrazione in materia di diritti soggettivi. E fondamentalmente chiarisce che il giudice è legittimato giudicare le scelte amministrative quando seppur nell’apparenza siano norme di puro dettaglio in realtà incidono i diritti soggettivi impedendone il rispetto e il godimento. Parma. Morto nel carcere di il boss della ‘ndrangheta Lanzino Gazzetta di Parma, 27 marzo 2024 Ettore Lanzino, di 69 anni, boss della ‘ndrangheta cosentina, è morto stamani nel carcere di Parma dove era detenuto in regime di 41bis dopo la condanna definitiva emessa nel 2016 al termine del processo “Terminator IV”. Lanzino, secondo quanto riferito da uno dei suoi legali, l’avvocato Marcello Manna, era cardiopatico e aveva avuto un infarto alcuni anni fa quando si trovava nel carcere di Sassari. A seguito di quel malore, i legali chiesero la sospensione della pena, ma ottennero il trasferimento a Parma, struttura carceraria ritenuta adeguata alle cure. Questa mattina Lanzino è deceduto presumibilmente a causa di un altro infarto. “Abbiamo chiesto copia della cartella clinica e appena avremo riscontro sapremo cosa è successo” ha riferito all’Ansa l’avvocato Manna. Intanto, secondo quanto si apprende, i familiari stanno raggiungendo Parma per portare la salma a Cosenza dove saranno celebrati i funerali. Foggia. “Dal carcere uscirai in un sacco nero”: detenuto denuncia le minacce ricevute di Francesco Oliva La Repubblica, 27 marzo 2024 “Ho tentato il suicidio prima che mi uccidessero loro”. L’uomo di 36 anni di San Vito dei Normanni, nel Brindisino, ha depositato una denuncia querela in cui ricostruisce il clima di paura culminato nel tentativo di impiccarsi: episodi scaturiti dal procedimento disciplinare nei confronti di un poliziotto a causa di una sua dichiarazione. Un tentativo di suicidio in cella dopo le minacce delle guardie carcerarie, a seguito di un procedimento disciplinare di cui lo incolpavano. “Dal carcere uscirai in un sacco nero”, gli avrebbe detto un poliziotto mentre con alcuni complici studiava un piano per ammazzarlo. Mentre lui, un detenuto, era imbottito di ansiolitici fino a perdere lucidità e a non riconoscere neppure i suoi stessi familiari durante i colloqui. Una lunga odissea in più carceri ricostruita nella denuncia-querela depositata da Leonardo C., 36enne di San Vito Dei Normanni, con piccoli guai con la giustizia, ma soprattutto con più di qualche problema di salute. Continui ricoveri, trasferimenti da un penitenziario all’altro e una gestione delle sue patologie su cui sono stati chiesti approfondimenti. Una vicenda, tutta da ricostruire e che, per il momento, si fonda sul racconto del 36enne assistito dall’avvocato Andrea D’Agostino. È il 23 ottobre del 2023 quando l’uomo viene arrestato nel suo paese: un cumulo definitivo per alcune truffe. In caserma informa dei suoi problemi di salute: operato allo stomaco di sleeve gastrectomy (una riduzione dello stomaco), deve seguire una dieta rigorosa, a base di frullati e proteine sia in polvere che in pastiglie e mangiare cibo fresco non in scatola privo di conservanti. Giunto nel carcere di Brindisi, il detenuto viene visitato da un dottore ma nonostante le rassicurazioni gli viene fornito il pasto comune che non può consumare. Dopo alcuni giorni, finisce in ospedale. È in pericolo di vita: vomita e sanguina dalla bocca. Rientrato in carcere, “vengo visitato dallo psichiatra che mi chiede se avessi mai fatto uso di terapia ansiolitica - riporta il 36enne in denuncia - rispondo negativamente e rifiuto la terapia. La terapia mi viene comunque somministrata, facendola passare per vitamina b12 (circa 60 gocce al giorno)”, racconta. Le sue condizioni psicologiche, però, precipitano. Non riconosce più neppure i familiari a colloquio ed è così debole da essere trasportato su una sedia a rotelle. Il 21 novembre del 2023 viene trasferito presso il carcere di Lucera (in provincia di Foggia) dove il medico gli comunica che non può essere curato come vorrebbe. Lentamente smette di utilizzare le gocce di ansiolitico da cui era diventato dipendente, ma non riesce a risolvere i problemi alimentari. “Sono quindi stato posto in isolamento - ripercorre in denuncia - poiché la polizia penitenziaria voleva comprendere esattamente come mi alimentavo, indagando su cosa mia moglie mi portasse come cibo e su cosa comprassi. Mia moglie aveva acquistato anche dei prodotti per un mio compagno, anch’egli detenuto in isolamento: dopo la perquisizione delle celle, tali prodotti (registrati a mio nome), venivano rinvenuti nella cella del mio compagno e, pertanto, venivo richiamato dalla direttrice che mi chiedeva come avessi fatto a fornire tali prodotti al mio amico”. Il detenuto risponde dicendo la verità: “Uno degli agenti mi aveva aperto la cella per andare a portare i prodotti introdotti da mia moglie al mio compagno”. Tale “confessione” à la stura ad un rapporto disciplinare a carico dell’agente. “E da quel momento sono iniziati i problemi - è il fulcro della denuncia - il 20 dicembre del 2023, uno degli agenti è venuto da me e mi ha detto che sarei stato trasferito a Foggia e che lì c’erano parenti ed amici ad aspettarmi e che da quel carcere sarei uscito in un sacco nero, perché rappresentavo il primo caso in Italia in cui, per colpa di un detenuto, il rapporto disciplinare era stato indirizzato ad un agente. Mi invitava altresì ad impiccarmi da solo senza che fossero costretti loro a farlo”. Dal penitenziario di Lucera l’uomo viene trasferito nel carcere di Foggia “dove sono rimasto dodici ore nelle celle di smistamento, senza bere e mangiare”. Il 36enne viene nuovamente visitato dai medici ma, ancora una volta, la sua patologia non è degna di essere considerata e approfondita. “Il 24 dicembre 2023, vedo un agente parlare con alcuni detenuti: riesco, di nascosto, ad ascoltare la conversazione perché capisco che stava parlando di me; l’agente racconta di ciò che è accaduto a Lucera ed afferma “deve morire, vedete voi come fare, ci sono io, tranquilli, nessuno saprà nulla. Con una scusa, riesco a farmi spostare di sezione. Ma la notte del 31 dicembre 2023, sento che stanno organizzando la mia punizione: una infermiera bionda stava fornendo ad un detenuto delle garze per chiudermi la bocca. A quel punto, ho tentato di impiccarmi”. E la sua vicenda, tutta da verificare, è ora oggetto di un’indagine. Milano. I penalisti: “Noi avvocati ospiti sgraditi per alcuni pm” di Simona Musco Il Dubbio, 27 marzo 2024 Gli avvocati milanesi chiedono un confronto al procuratore Viola e denunciano: “Inaccettabili i cartelli affissi fuori dalle stanze che vietano di “disturbare”“. E il pm del caso Pifferi indaga altre due psicologhe. Si respira aria di tensione negli uffici giudiziari di Milano. Con gli avvocati, da un lato, che chiedono di poter discutere con il procuratore Marcello Viola dei rischi corsi dal giusto processo e dalla funzione difensiva e alcuni magistrati, dall’altro, che chiedono ai difensori di non disturbare, con appositi cartelli esposti sulle porte dei loro. Un clima esacerbato dal caso Alessia Pifferi, la scintilla che ha innescato la miccia che ora rischia di far deflagrare il Palazzo di Giustizia. Altre due psicologhe indagate - I fronti aperti sono due. Da una parte il pm Francesco De Tommasi, che rappresenta la pubblica accusa nel processo contro la madre accusata di aver lasciato morire di stenti la piccola Diana, la figlia di soli 18 mesi, ha aggiunto altri due nomi al fascicolo parallelo. Sono quattro, ora, gli psicologi indagati, tutti coinvolti nella somministrazione del test di Wais a Pifferi, che sarebbe risultata in possesso di un Qi pari a 40, quello di una bambina. Assieme a loro, è indagata anche Alessia Pontenani, difensore di Pifferi. Una scelta che ha spinto la pm Rosaria Stagnaro, inizialmente titolare del fascicolo sulla morte della piccola Diana, a lasciare il processo: il collega De Tommasi, infatti, non l’aveva informata dalla sua indagine. Oltre alle due psicologhe coinvolte inizialmente - che verranno sentite il 4 aprile e che, stando all’accusa, avrebbero inserito i risultati prima della somministrazione del test -, lunedì hanno ricevuto l’avviso di garanzia una psicologa che alterna il lavoro all’Asst Santi Paolo e Carlo alle ore di servizio nella casa circondariale, che avrebbe partecipato alla somministrazione del test di Wais senza firmare la relazione, e un’altra professionista esterna al carcere, che avrebbe ricevuto, corretto e modificato la relazione sullo stato di salute della donna. Insomma, una vera e propria “rete criminale”, come sostenuto in aula dal pm, secondo cui le psicologhe avrebbero “manipolato” Pifferi in carcere per farle ottenere “l’agognata perizia psichiatrica” che avrebbe dovuto dimostrare la sua incapacità di intendere e di volere, smentita dal perito del Tribunale in aula. La protesta dell’avvocatura - Ma l’atteggiamento di De Tommasi, contestato dall’avvocatura milanese con uno sciopero indetto dalla Camera penale e messo in atto il 4 marzo, mentre era in corso l’udienza del caso Pifferi, ha spinto i penalisti a scrivere a Viola. Col quale avrebbero voluto affrontare le proprie preoccupazioni, al fine “di tutelare il corretto equilibrio tra le parti, i principi del giusto processo e, in fin dei conti, il corretto esercizio dell’attività giurisdizionale”. Con una lettera accorata, il consiglio direttivo della Camera penale guidata da Valentina Alberta rilancia la propria riflessione “sulla sacralità del processo come luogo di accertamento dei fatti, sulla delicatezza dei rapporti tra Procura e stampa, sulle conseguenze che azioni come quelle verificatesi hanno comportato sulle attività del personale sanitario che opera all’interno degli istituti penitenziari, in un momento peraltro di grave sovraffollamento carcerario, nonché sul tema relativo alle regole che governano le iscrizioni delle notizie di reato e le modalità attraverso cui avvengono le assegnazioni dei fascicoli”. Alla giornata di protesta del 4 marzo erano presenti diversi magistrati milanesi, che hanno dunque risposto alla richiesta di un confronto. Resosi ormai necessario. E ancora più necessario, per l’avvocatura, è che l’interlocutore principale sia il procuratore della Repubblica, che al momento non ha preso iniziative su quanto accaduto nel caso Pifferi, “nemmeno dopo quella che è stata definita una “requisitoria anticipata” posta in essere nell’udienza celebratasi lo stesso giorno dell’assemblea”. Durante l’udienza del 4 marzo, infatti, De Tommasi ha aperto una parentesi sull’indagine parallela, ancora agli inizi, anticipando una discussione senza le parti, tanto da spingere uno dei legali delle psicologhe indagate, Mirko Mazzali, a “minacciare” di abbandonare la difesa, di fatto “inutile” in assenza di contraddittorio. I temi messi sul piatto dai penalisti - I temi che i penalisti vorrebbero affrontare con Viola riguardano le scelte organizzative, le modalità e le tempistiche delle iscrizioni delle notizie di reato, i criteri di assegnazione dei fascicoli, i controlli esercitati dal procuratore e dai suoi aggiunti. Temi che “hanno ricadute dirette sui diritti degli indagati, sulle prerogative difensive e sull’imparzialità dell’organo che rappresenta l’accusa”. Per quanto riguarda le iscrizioni delle notizie di reato, affermano i penalisti, “auspichiamo che vi siano direttive chiare e uniformi, che limitino la discrezionalità in fase d’iscrizione e che siano ispirate alla garanzia per gli indagati (e per i soggetti indagabili)”. Direttive chiare “che consentano, anche a posteriori, un controllo circa il rispetto delle regole che debbono, come detto, garantire i principi oggi formalizzati anche nella legge processuale”. A preoccupare sono i cosiddetti fascicoli “contenitore”, una situazione “patologica” che consente di convogliare, in un unico fascicolo, “notizie di reato diverse a carico di una pluralità di soggetti e in cui sono operate iscrizioni anche a distanza di anni dall’iscrizione originaria, che di fatto comportano lo svolgimento d’indagini prolungate nel tempo”, spesso per reati privi di alcun legame e con mezzi di ricerca della prova “consentiti solo per alcuni dei reati iscritti”, come intercettazioni e trojan. Fascicoli in mano ad un unico pm - o ad un unico pool - con deleghe a un’unica polizia giudiziaria e un solo gip. Tale prassi, secondo la Camera penale, è frutto “di forzature che rischiano di attribuire una sorta di competenza funzionale extra ordinem al singolo magistrato (o a quel pool), con tutti i pericoli che ne possono derivare in ordine alla concentrazione di “potere” nonché alla perdita di obiettività, che pure deve caratterizzare l’attività della “parte pubblica”“. Discorso estendibile anche agli “stralci”, che possono rappresentare “un altro strumento attraverso cui garantire la concentrazione di un “filone” d’indagine in capo al medesimo sostituto”. Il rischio è quello di creare “eterni indagabili” e “riserve di caccia”, punti sui quali i penalisti vogliono vederci chiaro. Altro tema è quello dei possibili “conflitti d’interesse” del singolo pm. Partendo dal caso Pifferi, il rischio è di creare un campo di battaglia, “in una situazione di forze impari, anche sul piano delle garanzie ordinamentali”. Il problema, in termini generali, riguarda il divieto di auto-assegnazione, rispetto al quale “dovrebbe essere introdotta una regola che eviti il rischio di potenziali conflitti e che ponga il processo al riparo da possibili interferenze derivanti dalla titolarità d’indagini parallele”. Ma al netto del caso Pifferi, la sensazione, denunciano i penalisti, è che si sia ormai creata una frattura tra avvocati e uffici di procura. “Difficoltà, sintomatiche di un disinteresse - se non un malcelato fastidio - nei confronti del ruolo del difensore”, che trova riscontro anche nello scarso utilizzo dell’agenda elettronica per gli appuntamenti. “Siamo infatti convinti che il confronto già durante le indagini preliminari con la difesa sia sempre utile e che possa spesso condurre alla definizione di fascicoli con maggiore celerità e completezza, nell’interesse di tutte le parti processuali e dell’esercizio della giurisdizione e riteniamo inaccettabile che vi siano sostituti che ci fanno sentire ospiti sgraditi nei corridoi della Procura - ne sono prova alcuni cartelli affissi fuori dalle stanze che vietano di “disturbare” - mostrando così di non rispettare e non comprendere il ruolo del difensore”. Ma le difficoltà sono legate anche al sistema di caricamento degli atti sul Tiap: “Sono numerosi i casi in cui il contenuto del fascicolo “informatizzato” non corrisponde esattamente a quello cartaceo, con gravissime ripercussioni sulla serenità dell’esercizio del diritto di difesa”, denuncia la Camera penale. Mentre permangono criticità “in merito alle modalità di accettazione dei mandati difensivi a mezzo portale e ai certificati ex art. 335 c.p.p., che spesso risultano “nulli”“. La carne al fuoco è tanta. Ora tocca al procuratore Viola accettare l’invito al confronto. Verona. Carcere di Montorio, avviato il tavolo interistituzionale L’Arena, 27 marzo 2024 “Lavoro, percorsi antiviolenza e giovanissimi le prime priorità”. L’Amministrazione ha chiamato a raccolta le istituzioni e i soggetti che a vario titolo si occupano della Casa Circondariale di Verona e dei suoi detenuti con la volontà di trovare soluzioni che garantiscano la dignità delle persone. Il lavoro, come strumento indispensabile per formare i detenuti e per favorire il loro reinserimento nella comunità; l’istituzione di centri antiviolenza e percorsi ad hoc per i detenuti che si macchiano di reati sessuali; infine, l’aumento in carcere di detenuti giovanissimi, con problematiche specifiche da affrontare. Sono questi i primi temi affrontati dal tavolo di lavoro promosso dal Comune per trovare soluzioni condivise alle problematiche che negli ultimi mesi hanno interessato la casa Circondariale di Verona ma che si riscontrano medesime nelle carceri delle altre città italiane. E’ la prima volta che si affronta il tema del carcere come comunità, con il Comune che ha chiamato a raccolta le istituzioni e i soggetti che a vario titolo si occupano della Casa Circondariale di Verona e dei suoi detenuti con la volontà di trovare soluzioni che garantiscano la dignità delle persone. “L’impegno attraverso questo tavolo è quello di lavorare affinché non si perdano occasioni di recupero sia dal punto di vista umano che sociale”, si legge in una nota dell’Amministrazione, “ciò in virtù anche della considerazione che per la maggior parte di coloro che entrano in carcere, la detenzione è un’esperienza transitoria, terminata la quale tornano ad essere cittadini a tutti gli effetti. Un reinserimento nel territorio che non può prescindere dal territorio stesso, considerato anche che molti dei detenuti nel carcere di Verona sono residenti del comune”. All’incontro in sala Arazzi c’erano l’assessora alle Politiche sociali Luisa Ceni e l’assessora alla Sicurezza Stefania Zivelonghi, il dirigente del Terzo settore Paolo Martini in rappresentanza dell’assessore Italo Sandrini, in collegamento la direttrice della Casa Circondariale di Montorio Francesca Gioieni, il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale don Carlo Vinco, il direttore dell’Ufficio distrettuale di esecuzione penale esterna di Verona Enrico Santi, il Presidente Camera Penale Veronese Paolo Mastropasqua, i magistrati dell’Ufficio di Sorveglianza di Verona Michele Bianchi, Maddalena De Leo, Margherita Amitrano Zingale e due educatori del carcere. Assenti, senza aver delegato alcuno, il Capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria Giovanni Russo, invitato oltre un mese fa, e il Garante Nazionale dei Detenuti Felice Maurizio D’Ettore, che solo ieri ha segnalato l’impossibilità a partecipare, anche da remoto. “Un confronto molto utile, che ha confermato quanto sia importante un coordinamento delle realtà che a vario titolo si occupano del carcere e di come la casa circondariale sia percepita come una realtà distante dalla comunità, ciò penalizza soprattutto il reinserimento lavorativo dei detenuti per il quale sono previsti diversi meccanismi normati a livello nazionale - ha affermato l’assessora alla Sicurezza Stefania Zivelonghi. Si è scelto di partire con queste tre tematiche ma non sono certamente le uniche che verranno affrontate, penso ad esempio a quella sanitaria che è già all’ordine del giorno del prossimo tavolo Ora si entra nella fase operativa di ciascuna problematica, ci aspettiamo dei passi avanti a breve”. “È stato un momento importante perché ci si è confrontati con le diverse sensibilità e i diversi approcci ad un tema che coinvolge e riguarda tutta la comunità- ha affermato l’assessora alle Politiche sociali Luisa Ceni-. Ora che le criticità e i problemi sono emersi in modo chiaro, siamo pronti ad affrontarli con determinazione, forti del supporto di tutti i soggetti coinvolti”. “In questo primo tavolo ci siamo soffermati sul tema del lavoro e sulla differenziazione delle presenze, ma già dal prossimo affronteremo anche il tema dell’assistenza sanitaria, legata ai recenti episodi di autolesionismo - ha detto il garante dei detenuti don Carlo Vinco-. Grazie alla sensibilità di questa Amministrazione siamo stati coinvolti per la prima volta in modo sistematico per dare voce ai più fragili e fornire risposte concrete alle tematiche del carcere”. I temi affrontati: lavoro, centri antiviolenza, detenuti - Lavoro. Tutti d’accordo nel considerare il lavoro uno strumento fondamentale non solo per formare i detenuti all’interno del carcere ma anche per favorire il loro reinserimento nella comunità una volta scontata la pena o anche come misura durante la detenzione. Sono solo una ventina i detenuti che in carcere hanno la possibilità di lavorare, su un totale di oltre 530, ancora troppo pochi per favorire formazione, integrazione e dignità. Attualmente funzionano due laboratori di sartoria, una falegnameria, il forno per la produzione di dolci e il laboratorio al femminile per la produzione di marmellate, attività che coinvolgono un numero esiguo di persone impegnate rispetto alle necessità. L’impegno del tavolo di lavoro è mettere in campo azioni efficaci per promuovere una maggiore integrazione tra carcere e territorio. Centri antiviolenza. La Legge nota come Codice Rosso prevede, tra le altre cose, percorsi specifici per il recupero e l’accompagnamento dei detenuti colpevoli di reati di violenza sessuale attraverso centri antiviolenza da attivarsi sui territori. Uno strumento sul quale l’amministrazione ha chiesto approfondimenti, se non altro per capire con quali risorse poter contribuire, considerato anche che i sex offender sono i detenuti che per la tipologia di reato e per la solitudine in cui si trovano sono i più esposti ai fenomeni di suicidio. Giovani detenuti. Cresce il numero di carcerati giovanissimi, una cinquantina quelli attualmente presenti nella casa Circondariale di Verone tra i 19 e 20 anni, con problematiche specifiche e per alcuni versi nuove che vanno affrontate in modo adeguato. Firenze. “Ora un Cpr a Sollicciano”. E il caso diventa politico di Monica Pieraccini La Nazione, 27 marzo 2024 La proposta di Draghi (FdI) fa infuriare Nardella: “Il governo non ha mosso un dito”. Sovraffollamento, condizioni igieniche precarie, atti di autolesionismo e continue scintille fra detenuti e guardie penitenziarie. L’ultima due giorni fa con una guardia sequestrata da un detenuto che gli ha puntato un punteruolo alla gola, come denunciato dal sindacato Uilpa. La bomba orologeria di Sollicciano non sembra destinata a disinnescarsi, anzi il suo timer corre sempre più velocemente verso l’esplosione. E stavolta quel ticchettio entra di prepotenza nel dibattito pubblico dopo l’ennesimo episodio di violenza. A ruggire sono i sindacati degli agenti di polizia penitenziaria, dal Sappe, al Siulp, passando per l’Spp. Il loro messaggio: “Quel carcere è diventato come un inferno dantesco, il governo deve intervenire”. Il tema è stato affrontato anche ieri in consiglio comunale con la proposta del consigliere comunale di FdI, Alessandro Draghi. La proposta: “Costruire un cpr per i migranti nell’area di Sollicciano”. L’accostamento carcere e cpr, però, non è piaciuta affatto al sindaco, Dario Nardella, che ha preso la parola in aula per rintuzzare Draghi e tuonare sul governo Meloni. Così, sottolinea, i suicidi dei detenuti e le aggressioni agli agenti della polizia penitenziaria “sono le facce di una stessa medaglia. Sono la vergogna di un Paese civile”. E su questo “scandalo - ha detto - il governo non ha mosso un dito, non ha fatto niente per il sistema carcerario italiano: lascia che i detenuti muoiano perché tanto non esistono, perché sono i fantasmi della società”. Il governo, inoltre, “non ha messo un euro per la rieducazione e il reinserimento lavorativo e sociale: escono più arrabbiati di prima e tornano a delinquere. Perché al governo serve, per la propaganda populista, denunciare l’insicurezza e il crimine”. Draghi ha difeso però la sua iniziativa: “Il carcere di Sollicciano è da rifare, perché è stato fatto male in anni in cui si costruiva male. Però, urbanisticamente, io lì individuo un’area dove è più comodo mettere il cpr. Bene, quindi, l’unione della città al carcere, penso agli spazi dedicati ai laboratori per i detenuti. Però c’è spazio anche per il cpr. E’ l’area più idonea”. Il caso è rimbalzato anche in Regione dove il capogruppo di FdI, Francesco Torselli è intervenuto in solidarietà alla guardia ferita. “Esprimiamo tutta la nostra solidarietà all’agente sequestrato e ferito. La situazione del carcere è sempre più una bomba ad orologeria: la struttura è nata male e difficilissima da gestire, oltre ad avere circa il 70% di popolazione carceraria straniera. Inutile che la sinistra continui ad affrontare ideologicamente il macro problema del mondo penitenziario interpretandolo solo dal punto di vista dei detenuti”. Da qui la bordata a sinistra. “In Toscana, abbiamo un Garante dei detenuti che continua ad avere una visione escludente e non includente, contrapponendo i detenuti agli agenti. Così non va. Per fortuna il Governo Meloni sta iniziando ad affrontare i numerosi problemi della polizia penitenziaria e del mondo carcerario ma il lavoro è davvero tanto di fronte a decenni di totale immobilismo”. Piacenza. Convegno con Mauro Palma: “Investire sui detenuti è una speranza per la società” di Marcello Tassi Libertà, 27 marzo 2024 “Di che cosa parliamo quando parliamo di diritti in carcere?”. A questa e ad altre domande ha dato risposta il convengo “Il tempo del carcere”, ospitato martedì 26 marzo all’Open Space 360° di via Scalabrini e organizzato da Comune con Asp Città di Piacenza. Un pianeta sconosciuto ai più, un luogo che - troppo spesso - preferiamo mantenere nell’ombra. I cittadini non conoscono realmente il carcere: la vita del tenuto, la sua rieducazione e formazione, il lavoro che non sempre - per varie ragioni - è presente nelle strutture carcerarie italiane. Tematiche finite al centro del convegno, dove tra performance teatrali e interventi di numerosi esperti e realtà che lavorano a stretto contatto con il mondo delle strutture carcerarie, si è arrivati al tema portante dell’incontro: far luce su quelle persone aventi il peso della pena da scontare, ma che al tempo stesso hanno diritti da far valere. “Queste due polarità, la pena e i diritti dei detenuti, vanno tenute insieme” ha spiegato durante il suo intervento Mauro Palma, ex garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà. “La Costituzione ci dice che la pena è un atto dovuto da parte dello Stato, ma al tempo stesso ci dice che le pene non devono essere offensive della dignità delle persone e che devono tendere al reinserimento sociale dei detenuti. Al momento in Italia le carceri contengono circa 61mila detenuti e le pene inferiori ai cinque anni sono più della metà. Questo significa che entro cinque anni tali persone torneranno alla società: è interesse loro, ma anche della società stessa che esse ritornino ‘alla vita di tutti i giorni’ in modo diverso. È un investimento positivo pensare che la pena non sia soltanto privazione, ma che abbia un aspetto di riaccompagnamento”. “Tornando ai numeri - ha quindi proseguito l’ex garante dei diritti dei detenuti - anche se, come detto, i detenuti attuali in Italia sono circa 61mila, i posti regolamentari realmente disponibili sarebbe meno di 49mila. Un carcere avente meno attività per problemi di mantenimento della sicurezza tende a contenere le persone nei loro ambienti, restituendo un mondo sovraffollato e chiuso, che spesso equivale ad un mondo di disperazione: di poco investimento sul proprio futuro e di forte stress per chi in carcere lavora”. Busto Arsizio. Il Garante in Consiglio comunale: “Troppi detenuti e poco personale” di Andrea Della Bella malpensa24.it, 27 marzo 2024 Sovraffollamento, carenza di personale i problemi. Ma anche molti aspetti positivi sul complicato ma non impossibile percorso di riabilitazione e reintegrazione sociale, soprattutto attraverso il riscatto lavorativo. In queste poche righe è condensato il “male” e il “bene” “di una realtà complessa come quella del carcere di Busto Arsizio”, ha spiegato Pietro Roncari, garante dei detenuti della casa circondariale di via per Cassano, che questa sera (martedì 26 marzo) è intervenuto in apertura di Consiglio comunale. Un presidio sanitario dentro il carcere - E negli interventi da segnalare quanto richiesto dall’assessore leghista Paola Reguzzoni: “Occorre costituire un presidio sanitario dentro il carcere per ridurre e in molti casi evitare i continui spostamenti dalla casa circondariale al pronto soccorso cittadino”. Va poi sottolineato l’intervento dell’assessore Manuela Maffioli che ha messo in luce l’impegno dell’amministrazione comunale all’interno del carcere ribandendo che la cultura non è solo un motivo per passare il tempo, ma anche uno strumento di sostegno al reale reinserimento dei detenuti”. La consigliera Valentina Verga (PD) ha invece ricordato come “momenti di conoscenza e confronto su una realtà complessa come il carcera siano importanti. Oltre al fatto che non si dovrebbero limitare ad un’unica seduta consigliare”. Il complesso mondo dietro le porte blindate - “Non è facile rappresentare una realtà così complessa e problematica - ha detto Roncari - Quando varco le porte blindate del carcere, e lo faccio quasi tutti i giorni, ho la consapevolezza di rappresentare la città di Busto e questo consiglio comunale con le sue diverse sensibilità culturali e politiche. La finalità è di tutelare i diritti dei detenuti, migliorare le condizioni di vita in carcere, rispondere ai problemi, agevolare il reinserimento operando con istituzioni pubbliche e terzo settore, associazioni e volontariato, realtà economiche, culturali, sindacali ed ecclesiali”. I problemi - “Il sovraffollamento è la maggiore criticità - ha continuato il garante - Non è un caso che la legge Torreggiani sia nata da una denuncia fatta nel carcere cittadino. Celle stipate, letti a castello anche su tre piani, spazi ristretti, contatti difficili se non impossibili con le famiglie, lentezze burocratiche esasperanti, senso di abbandono. Tanti davvero i disagi degli ospiti sempre oltre 430 unità”.Oltre alla cronica è la carenza di personale. “Polizia penitenziaria, assistenti sociali, personale nei servizi e negli uffici sotto organico da anni. Eppure gli uomini in divisa e gli operatori professionali non si risparmiano, pur sottoposti a turni pesanti e compiti in aumento, sostenuti dalla Direttrice Maria Pitaniello succeduta a Orazio Sorrentino”. I servizi da introdurre - L’Attività scolastica è una grossa risorsa, un investimento sul futuro per molti detenuti. Sono attivi 3 cicli: Alfabetizzazione e Licenza media condotte dal Cpia, Scuola superiore di Agraria sostenuta dall’ipc Verri. Altri corsi di cucina, falegnameria, inglese, diritto, teatro, musica e attività fisica completano la proposta formativa. Collaborano da anni con il carcere l’Enaip, la Cooperativa Intrecci, associazioni formative, professionisti molto motivati. “Ecco poi alcune richieste fatte dai detenuti e dagli Uffici. Sulle quali - ha proseguito Roncari - peraltro già si sta lavorando in sinergia tra l’amministrazione comunale e quella carceraria. Uno sportello Anagrafe, perché i detenuti possano svolgere le pratiche di rilevanza sociale. Uno sportello delle Poste Italiane, perché i detenuti possano operare sui loro depositi. E siano rinnovati i permessi di soggiorno in scadenza. Buono il servizio di Autobus per i familiari dei detenuti in difficoltà a raggiungere il carcere. Chiedono di aggiornare gli orari del Bus, nel periodo estivo, per adeguarli alle loro esigenze. Forte è la pressione per rendere operativo il Protocollo tra Carcere, Provincia, Comuni, Sindacato ed enti formativi per raccogliere e impostare le pratiche di disoccupazione, invalidità, patenti scadute, aggiornamenti fiscali le incombenze di Patronato. Chiedono alloggi per il dopo carcere, anche se è già stata migliorata laccoglienza nei dormitori pubblici, compreso quello di Sant’Anna. Il bisogno della casa incide molto su un buon reinserimento sociale”. Il lavoro, via del ritorno in società - Il lavoro è un’altra priorità, una risorsa decisiva per il dopo carcere. “Qualcosa si sta facendo ma il bisogno è tanto. Meritevole è la sensibilità del cappellano don David Maria Riboldi che creando l’associazione la Valle di Ezechiele ha avviato un’attività produttiva a Fagnano Olona dove in pochi anni hanno trovato lavoro una ventina di detenuti. Il lavoro fa crollare la recidiva dal 70% al 2%, a tutto vantaggio anche della sicurezza sociale. Evento singolare è la decisione della diocesi Ambrosiana di sostenere un progetto lavorativo elaborato dalla Valle di Ezechiele, condiviso anche dall’amministrazione cittadina. L’annuncio è stato fatto domenica al meeting dei Cresimandi con l’arcivescovo allo stadio di San Siro. Non è un caso che accanto al vescovo Delpini ci fosse il nostro infaticabile don David. Una iniziativa molto promettente sono le Conferenze promosse dal Prefetto Salvatore Pasquariello con Associazioni imprenditoriali, Camera di commercio, Rotary e Lyons, enti locali, cooperative, per creare opportunità lavorative a detenuti o ex detenuti. Il successo della consultazione è notevole ed alcune iniziative iniziano a prendere corpo”. Il carcere vanta una esperienza professionale ed umana oltre che economica singolare: è la Cioccolateria che da 15 anni dà lavoro ad una quarantina di detenuti. Altre opportunità di lavoro per i detenuti sono attive nei servizi interni al carcere. Chiusura sul valore dei volontari - Una parola sul Volontariato, soggetto silenzioso ma preziosissimo, un valore specifico del nostro territorio. La Valle di Ezechiele ha appena terminato un corso di formazione per nuovi volontari in carcere. Un’ottantina di persone si sono prese questo impegno. “A istruirli - ha concluso Roncari - si sono mossi magistrati e avvocati, assistenti sociali, associazioni zonali e responsabili delle carceri con la Direttrice stessa e don David che l’ha promosso. I nuovi volontari, insieme ad altri che operano da anni, stanno studiando come migliorare i servizi, l’aiuto ai detenuti e alle loro famiglie. Sono i volontari i “testimonial” di una città intelligente e generosa”. Sassari. Il Polo universitario penitenziario compie dieci anni di Paolo Ardovino La Nuova Sardegna, 27 marzo 2024 Nuovo protocollo d’intesa per il potenziamento del Polo universitario penitenziario. Nel giorno in cui il Pup compie dieci anni, viene rinnovato per un altro triennio con la firma tra Università di Sassari, Provveditorato per l’amministrazione penitenziaria, Ufficio Uiepe Sardegna, Centro giustizia minorile di Cagliari e per la prima volta entra nel partenariato Ersu Sassari. Questo terzo protocollo sancisce inoltre la costituzione di un testo, una carta di servizi, “che tra le altre cose prevede ben 36 posti per tirocini nei luoghi di detenzione e all’esterno”, annuncia il professore Emmanuele Farris, delegato del Pup. “Il mondo delle carceri è particolare e ha le sue difficoltà, noi cerchiamo di difendere il diritto allo studio”, dice il rettore di Uniss, Gavino Mariotti, in un’aula magna gremita. Al delegato del polo, Emanuele Farris, il compito di snocciolare i numeri. In questi anni il Pup è cresciuto fino a triplicare, oggi, la percentuale nazionale di detenuti che hanno avviato percorsi di studi universitari (6% contro il 2%) con un picco importante nella casa di reclusione di Nuchis (17%). Al momento gli studenti del Pup (negli istituti penitenziari di Sassari, Alghero, Nuoro e Tempio) sono 70 e si contano 20 laureati nell’ultimo quinquennio. Agraria, Storia e Scienze dell’uomo e della formazione, Scienze umanistiche e sociali, Giurisprudenza: questi i corsi più frequentati. Napoli. “Il carcere in aula”, al Suor Orsola l’insegnamento dedicato agli interventi educativi Il Riformista, 27 marzo 2024 La valenza pedagogica e formativa dell’esperienza detentiva e il valore intrinseco del nuovo approccio della giustizia riparativa. Sono alcuni degli obiettivi didattici della cattedra di “Interventi educativi nei contesti carceri” che l’Università Suor Orsola Benincasa ha inaugurato nello scorso anno accademico all’interno del corso di laurea triennale in Scienze dell’educazione, del corso di laurea in Lingue e culture moderne e del Corso di laurea magistrale in Programmazione, amministrazione e gestione delle politiche e dei servizi sociali. “Si tratta di una novità che colma un vuoto culturale ancora presente in molte delle nostre accademie - racconta la professoressa Monja Taraschi, pedagogista esperta di consulenza giuspedagogica per le situazioni di disagio, devianza e marginalità - perché si istituisce, difatti, un insegnamento autonomo sui grandi temi della pena del carcere e del suo alto tasso di recidiva, con un focus speciale anche sugli episodi di autolesionismo e di suicidi che rappresentano un gigantesco mondo di dolore purtroppo in espansione “. Un insegnamento che viene svolto, come evidenzia la Taraschi, “portando le carceri in aula”, anche attraverso il confronto con gli operatori pedagogici che ci lavorano quotidianamente. “In un contesto antinomico alla speranza, qual è il carcere, - sottolinea la Taraschi - il compito dei pedagogisti è ancora più importante affinché si compia l’obiettivo della nostra Costituzione della funzione rieducativa della pena e del reinserimento sociale dei detenuti”. La figura dell’operatore pedagogico nelle carceri chiama in causa anche la grande novità della giustizia riparativa, che come sottolinea la Taraschi “rappresenta una nuova frontiera, finalmente varcata, rispetto alla quale grandissima rilevanza assume proprio la formazione del funzionario della professionalità giuridico-pedagogica, nel suo concorrere a dare la parola a un paradigma di giustizia diverso”. Un paradigma legato ad una nuova cultura che riconosca forme di risposta penale il cui contenuto pedagogico sia prevalente su quello afflittivo. Un ambito nel quale l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, anche in questo caso in maniera pionieristica, ha istituito il Master di II livello in Mediazione penale e giustizia riparativa in collaborazione didattica con Rete Dafne Italia e Fondazione Don Calabria per il sociale E.T.S. “L’incontro con l’educatore - spiega Monja Taraschi, coordinatore didattico del Master, insieme con Marialaura Cunzio - può rappresentare un’opportunità per informare e sensibilizzare i detenuti sulla possibilità di accedere a un percorso di giustizia riparativa, sul significato e le potenzialità di un simile percorso, creando anche momenti di alfabetizzazione etica ed emotiva, affinché la pena non retribuisca ma educhi”. Da questo punto di vista appare evidente che affinché negli educatori maturi uno stimolo per la riforma del sistema penale e rieducativo occorre che la formazione faccia sempre più ricorso a strumenti utili a raccogliere dati esperienziali su cui riflettere, radicandosi nei contesti professionali. Ed è proprio questo il lavoro intrapreso dal Dipartimento di Scienze formative, psicologiche e della comunicazione dell’Università Suor Orsola Benincasa. Milano. Ristorante in carcere aperto al pubblico: la storia raccontata in un podcast di Chiara Amati Corriere della Sera, 27 marzo 2024 Si trova dentro alla Seconda Casa di Reclusione di Bollate, in provincia di Milano, il solo ristorante in Italia aperto al pubblico, che dà occupazione a detenuti regolarmente pagati. Obiettivo: permettere loro di apprendere la cultura del lavoro o riappropriarsene. E far sì che possano tornare in società a fine pena. Oggi la storia di “InGalera”, questa l’insegna del locale, è raccontata in una serie podcast completa. Ha suscitato rinnovata curiosità il progetto del ristorante “InGalera”, nato nel 2015 da un’idea di ABC La Sapienza in tavola, cooperativa che fin dal 2003 si occupa di servizi di catering gestiti con lavoratori detenuti ammessi alle misure alternative alla carcerazione. Ha suscitato rinnovata curiosità perché su Spotify e sulle principali piattaforme streaming è ora disponibile una serie podcast - “InGalera” appunto - realizzata dalle giornaliste Francesca Mineo e Chiara Collalti e prodotta da Officina del Podcast, che racconta la genesi, le difficoltà e il successo umano di un esperimento che non ha uguali. Quello, cioè, di un locale gourmet all’interno della IIª Casa di Reclusione di Bollate, carcere di media sicurezza alla periferia nord-ovest di Milano. Un locale raffinato in una prigione aperto, però, agli esterni. “InGalera”, storia di una insegna rivoluzionaria - “Vent’anni fa accettai la proposta “indecente” di Lucia Castellano, l’allora direttrice del carcere che mi portò a fondare ABC La Sapienza in tavola - spiega Silvia Polleri che della cooperativa è presidente -. “Signora, vorrebbe aprire un catering con i detenuti a prestare servizio e portarli fuori a lavorare?”, mi chiese. Bellissimo, pensai tra me. Uscivamo dal carcere con la scorta e andavamo, come in missione, a dispensare momenti di felicità a committenti di banchetti vari e ai rispettivi ospiti. Una volta portammo un rapinatore di banche, condannato, a servire ai tavoli di un ricevimento in banca”. Nel 2015 la situazione si ribalta: “Fui io a formulare una proposta alla direzione: “Mi permettereste di aprire un vero ristorante dentro al carcere, che sia però gestito da detenuti e aperto al pubblico?”“. Un azzardo. “Il più bello della mia vita perché frutto di vent’anni di appassionato lavoro - tiene a sottolineare Polleri -. Sono stata al servizio della Milano Bene per una vita. Poi, d’un tratto, mi sono trovata a gestire dei detenuti. Un salto non facilissimo. Ma la sfida era esaltante. Ho raccolto il guanto a una condizione. Anzi due: doveva a essere per un anno soltanto, il tempo necessario a portare il bon ton in prigione con tutte le attrezzature necessarie. Missione complicata considerato che per entrare in una casa circondariale ci sono regole ferree. Ma avevo chiarissimo un concetto: nel portare avanti il progetto, non volevo che il nostro catering fosse quello della misericordia. E poi desideravo che l’attività si trasformasse in un lavoro vero e proprio, quindi regolarmente retribuito, per ogni detenuto. Questione di dignità”. Detto, fatto. Dalla scuola alberghiera al ristorante - Il progetto si avvia. Nel 2012 la svolta: all’interno del carcere di Bollate si insedia una sede staccata dell’Istituto alberghiero Paolo Frisi. Obiettivo: formare i detenuti al lavoro in previsione di una nuova vita dopo la pena. Non potevo immaginare nulla di meglio”. Eppure il meglio doveva ancora arrivare. L’annus mirabilis è il 2014 quando Polleri riceve una proposta da PWC, società di consulenza e revisione legale e fiscale. “Mi chiesero di aprire insieme un ristorante, ma serviva una location: in dodici mesi non riuscirono a identificarne una. Così rilanciai: “Perché non dentro al carcere? Avevo anche già pensato al nome: InGalera, ça va sans dire. Lo ammetto, ricordo ancora oggi certi sguardi di chi, con tutta probabilità, era convinto che fossi matta. Massimo Parisi, che nel frattempo era diventato direttore, non si scompose e accettò di buon grado. Pronti, via: anche grazie al sostegno di privati, della Fondazione Cariplo e della Fondazione Peppino Vismara, la prigione di Bollate ebbe il suo ristorante gourmet. Con l’insegna che avevo pensato, ben sapendo che sarebbe stato rischioso. D’altra parte, chi poteva andare a mangiare in una prigione? Ma quello delle carceri è un mondo a sé, sconosciuto ai più e che la gente, se ne ha la facoltà, visita. Così è stato: s’è creato un interesse che dura ancora oggi”. Cosa si mangia “InGalera” - Inaugurato nel 2015 al piano terra dei dormitori delle guardie carcerarie, in uno spazio che può contenere da 50 a 70 posti, “InGalera” da allora ha servito 100mila pasti circa e dato lavoro a un centinaio di detenuti da 30 a 50 anni, a pranzo e a cena. Maître e chef sono professionisti: lo chef arriva dalla scuola di cucina Alma di Gualtiero Marchesi, mentre nella brigata ci sono persone che avevano esperienza nella lavorazione dei cibi, altre invece partite da zero. Le mansioni di sala ed esecuzione del menu affidate ai detenuti - si legge nella Guida Michelin che cita il ristorante - sono allineate, per modalità e risultati, a quelle di altri professionisti del settore. Il menu è gourmand: tra le portate più gettonate per lo più a pranzo ci sono, a titolo di esempio, risotto al nero, moscardini alla luciana e polvere di tarallo; fish and chips di ombrina in porchetta; bavareisa o bicerin all’amaretto. E poi, ravioli di zucca con burro alla nocciola, guanciale e mostarda di mele; tournados di maialino su torretta di patate, salsa al Cortefranca e pere Williams; semifreddo ai cachi. A cena si comincia con una tartara di blonde d’Aquitaine, uovo, acciuga, cappero, senape, worchester sauce. Gli amanti dei primi piatti possono scegliere tra pappardelle al ragù di capriolo o gnocchi di polenta di storo su crema di gorgonzola e gustarsi poi un filetto di manzo alla Voronoff con carote alla parigina. Il tutto da degustare con una delle tante bottiglie di vino - rossi, bianchi, rosé, bollicine - da ogni regione d’Italia. Chi si è seduto a mangiare, di InGalera ha elogiato la cucina: “Eccellente”. Il personale? “Gentile e preparato”. I clienti vengono trattati con i guanti bianchi, accolti da un cameriere in livrea, seguiti per tutto il tempo con garbo e attenzione. Silvia Polleri, una vita spesa per gli altri - Ha la voce fiera Polleri. Di chi ne ha viste tante, ma non abbastanza e per questo sa ancora stupirsi. A 73 anni, due figli e tre nipoti, ha vissuto molte vite: è stata educatrice in una scuola materna prima, ha prestato servizio civile in Uganda insieme al marito medico e ai due bambini, poi ha supportato famiglie in difficoltà nei quartieri più malfamati di Milano e, infine, si è reinventata nella ristorazione, il suo primo amore. “Cucino da che avevo 9 anni. Da quando cioè mia nonna mi pose tra le mani un chilogrammo di moscardini grossi quanto un pollice dicendomi: “Me li puliresti, nanìn?”. Una vera ossessione per me perché il cibo è creatività e fornisce gli strumenti per esaltare la vita. Questa esperienza mi ha insegnato che la ristorazione è un mezzo potentissimo: impone il rispetto delle regole, ma soprattutto insegna ad accogliere. L’accoglienza è la funzione più alta dell’essere umano”. Una rivoluzione gentile quella di Silvia Polleri, Ambrogino d’Oro 2015 “che ho sempre condiviso con tutti perché da sola non avrei fatto nulla”, tiene a puntualizzare lei. Ma anche un rovesciamento della prospettiva che dimostra come i detenuti possano tornare a essere cittadini responsabilmente proattivi all’interno della società. Con un rischio di reiterazione del reato inferiore alla media, proprio grazie a progetti come questo. “Serve consapevolezza, la stiamo generando - conclude Polleri -. Quando guardo dentro la sala da pranzo quel che più mi colpisce è la sorpresa dei commensali: la maggior parte di loro non sapeva neppure dove fosse il carcere. Ora ci torna con piacere. E con la certezza che qui si respira aria di libertà. È una rinascita doppia: dagli errori e dai pregiudizi”. Turi (Ba). In palestra, per vincere il tempo che non passa mai di Veronica Rossi vita.it, 27 marzo 2024 Continua la serie sugli allenatori e le allenatrici del Csi in occasione degli 80 anni dalla sua fondazione, con una seconda intervista a Roberto Carbone, istruttore di fitness che entra nel penitenziario di Turi, a Bari, per aiutare i detenuti a svolgere attività sportiva. In molte carceri italiane mancano attività, servizi e prospettive, questo è un dato di fatto. Spesso i detenuti si trovano a cercare di ammazzare un tempo che non passa mai, giornate sempre uguali passate nelle celle - a volte anche sovraffollate - e nei cortili, approfittando delle troppo brevi ore d’aria. Eppure, c’è chi si impegna per cercare di rompere questa monotonia e per portare delle abitudini sane tra le mura delle carceri. A questo è volto il progetto “Oltre la Siepe”, dell’Asd San Giorgio e del Centro sportivo italiano - Csi, che ha l’obiettivo di offrire ai detenuti dell’istituto penitenziario - casa di reclusione di Turi (in privincia di Bari) un sereno reinserimento sociale attraverso lo sport e attività di inclusione. Tra le iniziative, anche un corso di fitness, il cui allenatore è Roberto Carbone, la cui affiliazione al Csi è un valore che si tramanda di padre in figlio. In che cosa consiste il suo coinvolgimento all’interno del Csi? Collaboro con il Csi da tanto tempo e mio padre prima di me. Abbiamo un’associazione sportiva che è affiliata e, in più, ogni tanto quando ci sono progetti come quello che viene svolto in carcere, per il quale cercavano un istruttore laureato in scienze motorie, collaboro in prima persona. Cosa offre in più, in termini materiali ma anche valoriali, far parte di questa associazione? È un ente di promozione molto organizzato e molto presente sul territorio, quindi anche per noi farne parte è un punto di vantaggio: se un corso è organizzato dal Csi, sicuramente è sinonimo di qualità. Qual è il lavoro che svolge in carcere? Csi e Asd San Giorgio hanno vinto un bando regionale per far svolgere attività sportiva ai detenuti del carcere di Turi, che avevano già a disposizione una piccola palestra con alcuni attrezzi. Il Csi ha impiegato dei fondi per poterla ampliare, prendendo nuove attrezzature. Serviva una figura per fare fare attività in sicurezza a tutti i detenuti che avevano deciso di partecipare al corso; così sono stato scelto io. Entro per due gruppi, il martedì e il giovedì, che si alternano per un’ora e mezza ciascuno. Fuori dal penitenziario io mi alleno, faccio Crossfit e allenamento funzionale, quindi ho cercato di riportare all’interno questo tipo di allenamento. Facciamo una prima parte di forza e poi un circuito. L’obiettivo finale è avere un responsabile di palestra - come accade fuori - per dare la possibilità ai detenuti di prenotarsi in vari orari della giornata e allenarsi in autonomia, mantenendo però sempre una figura che possa supportarli. Cosa le hanno detto i detenuti? Mi hanno detto che per loro è molto meglio potersi allenare con una figura competente, con attrezzature che di solito non hanno a disposizione quando sono da soli o in cella. Un valore aggiunto di cui mi parlano è la bellezza di sapere di avere un impegno, per far passare più velocemente la giornata, il martedì e il giovedì. C’è un valore riabilitativo nello sport? Sicuramente chi partecipa a questo corso è attento alla propria salute, a sé stesso e al proprio benessere. Sono persone che di solito fanno attenzione anche all’alimentazione; quando si riesce a fare sport di squadra, ovviamente, il valore sociale è ancora maggiore. C’è l’intenzione di continuare questo progetto e di dargli più ampio respiro? Il progetto dovrebbe durare un anno e mezzo. So già, però, che la notizia è arrivata ad altri penitenziari, che quindi sono interessati a sviluppare a loro volta iniziative di questo tipo. Il bando è di Sport e salute, ma so che il Csi è stato contattato direttamente e che qualcosa si sta muovendo: penso che l’attività sportiva verrò portata in altre carceri, come quello minorile di Bari. “Ogni prigione è un’isola”: il nuovo libro di Daria Bignardi sul carcere themapreport.com, 27 marzo 2024 Muove dagli episodi di rivolta nelle carceri di Milano e di Modena avvenute durante la pandemia, per arrivare a riflettere su altri tipi di solitudine e confinamento. Arriva oggi in libreria “Ogni prigione è un’isola” (Mondadori, 168 pagine), l’ultimo libro della giornalista e conduttrice televisiva Daria Bignardi. Difficilmente ascrivibile all’interno di un genere preciso - non è un romanzo e nemmeno un saggio - mette al centro la solitudine e l’isolamento, sia fisico che interiore, attraverso le storie di persone che hanno vissuto esperienze di reclusione. Si tratta di un lavoro frutto di trent’anni di incontri e conversazioni con detenuti, ex detenuti e persone che hanno vissuto in situazioni di marginalità. Con il tempo, infatti, il carcere è diventato parte integrante della vita dell’autrice, che ha lavorato presso il giornale di San Vittore, ha portato in televisione le sue conversazioni con i detenuti e accompagnato sua figlia in parlatorio per conoscere il nonno recluso, Adriano Sofri. Bignardi, che con alcuni detenuti ha costruito un rapporto duraturo, rimane ancora oggi un “articolo 78”, status che permette a persone esterne all’amministrazione carceraria di partecipare ad attività culturali e formative all’interno degli istituti penitenziari. “Ogni prigione è un’isola” prende il via dalla rivolta avvenuta nelle prime settimane della pandemia all’interno del carcere di San Vittore a Milano e prosegue con l’analoga vicenda verificatasi nello stesso periodo nel carcere di Modena. È quindi un libro politico, perché parlare di carcere implica confrontarsi con le scelte politiche che privilegiano i metodi repressivi o riabilitativi di una società. Nel nostro caso, significa confrontarsi con problemi come il sovraffollamento, la mancanza di igiene, la carenza di attività e di personale, casi di violenza e di tortura. Ma è anche un testo personale, attraversato da ricordi e riflessioni. Alcune di queste arrivano dalla piccolissima isola di Linosa, in Sicilia, dove l’autrice si è isolata per scrivere il suo libro. Gli incontri e la vita sull’isola trovano delle assonanze con le storie ascoltate in prigione, e che si connettono a ritratti, cronache, memorie. “Il carcere - scrive Bignardi - è come la giungla amazzonica, come un paese in guerra, un’isola remota, un luogo estremo dove la sopravvivenza è la priorità e i sentimenti primari sono nitidi”. Quei volti e quelle storie della giustizia riparativa tra cinema e realtà di Sergio Lorusso Gazzetta del Mezzogiorno, 27 marzo 2024 La giustizia riparativa non è strada comoda per sottrarsi a processo e pene tradizionali, ma qualcosa che si aggiunge per una “pacificazione” tra autore del reato e vittima. La giustizia riparativa approda sugli schermi, grazie al film Je verrai toujours vos visages (Vedrò sempre i vostri volti) proiettato nei giorni scorsi a Bari nella sezione Panorama Internazionale del Bif&st 2024. L’esperienza di restorative justice è nata in Francia nel 2014, con la Loi Toubira, ritenuta rivoluzionaria perché rivoluzionario è l’approccio al tema del reato che ispira tale modalità di giustizia: una modalità che, occorre sottolinearlo, non è sostitutiva della giustizia penale ma integrativa di questa, si affianca al processo che, anzi, può persino mancare (ad esempio nei casi di archiviazione o di intervenuta prescrizione). Non è, in altri termini, una strada comoda per sottrarsi al processo e alle pene tradizionali, ma qualcosa che si aggiunge, al fine di realizzare una “pacificazione” tra l’autore del reato e la vittima. Nessuno sconto di pena, insomma, ma un passo verso una differente direzione; un passo, va ricordato, del tutto volontario. Si è detto che l’essenza della giustizia riparativa è nell’incontro, un incontro dal quale - secondo la visione di chi l’ha teorizzata - traggono vantaggio sia chi ha commesso il reato che chi l’ha subito. Sicuramente è fondata sul dialogo, quant’anche coinvolga persone differenti. L’esperienza transalpina vanta dunque un background tale da poterla considerare sedimentata, un decennio è un tempo adeguato a formare le professionalità necessarie, in primis i cosiddetti “mediatori”, fondamentali per la riuscita del ravvicinamento tra chi, per opposte ragioni, sarebbe portato a “negare” l’esistenza stessa dell’altro. E per ispirare una regista, Jeanne Herry, che è una figlia d’arte (la madre è la nota attrice Miou-Miou, il padre è il cantante Julien Clerc) e che non ha realizzato un documentario sull’argomento ma un film in piena regola, nel quale si muovono vari personaggi, tra vittime e “carnefici”. Si parla di reati che vanno dallo scippo al furto con effrazione, dalla rapina alla violenza sessuale perpetrata in maniera incestuosa. È proprio quest’ultima vicenda, che coinvolge Chloé e suo fratello, a risultare di maggiore impatto emotivo e a mostrare - al contempo - le difficoltà cui si va incontro quando si tenta di ricomporre affrontando shock che hanno segnato le persone: la ragazza, sistematicamente violentata da bambina, rimane talmente traumatizzata da diventare a quindici anni una pornostar, per poi intraprendere un iter di “ricostruzione” della propria vita; il fratello, denunciato da Chloé tardivamente, processato e condannato, pretenderebbe che lei gli chiedesse scusa e sostiene che la stessa è stata consenziente. Due posizioni agli antipodi, due mondi inconciliabili, con cui si misurano gli addetti alla restorative justice. Non spoileriamo il finale, con l’auspicio che il film venga presto distribuito anche in Italia. Perché anche nel nostro Paese esiste una giustizia riparativa, anche se molto più giovane. È stata la “riforma Cartabia” ad introdurla nel 2021, con la legge 134 che ha ispirato nell’anno successivo la disciplina organica dell’istituto. E se nella formazione della promotrice della normativa, il guardasigilli dell’epoca Marta Cartabia, giurista cattolica, si possono cogliere chiari e coerenti segnali in armonia con i concetti alla base della restorative justice (il perdono, in fondo, non è una forma di riparazione e di ricomposizione?), le prime applicazioni sono esigue e deludenti, per molteplici ragioni: per resistenze culturali, per scarsa formazione del personale addetto, per una certa riluttanza della classe forense che teme immotivatamente di essere espropriata del proprio ruolo. Eppure la giustizia riparativa ha radici nell’antichità, basti pensare al sacrificio che era una forma di riparazione rivolta alla divinità; mentre nel mondo contemporaneo nasce a Kitchener, una città dell’Ontario a cavallo tra Canada e Stati Uniti, negli anni Settanta del secolo scorso, grazie all’iniziativa di due educatori che suggerirono al giudice per due minori responsabili di reati contro il patrimonio un programma di probation fondato su una serie di incontri con le vittime dei danneggiamenti e sull’impegno di risarcire con il lavoro i danni provocati. Per poi diffondersi in tutto il mondo. “La giustizia riparativa è uno sport da combattimento”, si dice all’inizio e alla fine del film, quasi a segnarne i confini. Ha delle regole precise, insomma, è fondata sulla lealtà, e lo scontro è in fondo solo un finto scontro, che mira a riequilibrare - quando ci riesce - un contesto seriamente lacerato. Tessere i diritti di Mauro Palma* Il Manifesto, 27 marzo 2024 Forse per colpa di Aracne e della sua sfida a Minerva, l’immagine della tela di ragno evoca insidia, trappola, rischio di rimanere prigionieri, appesi a un filo. Eppure quel filo è germe di costruzione: la precisa tessitura che un ragno da esso dipana è indicativa di capacità nel costruire legami che abbiano una solidità tale da mantenersi integri fino ad accogliere all’interno della propria rete insetti o altri corpuscoli di dimensione e peso non indifferente. Una costruzione paziente e solida nella sua apparente fragilità. La tela di ragno dovrebbe essere letta proprio attraverso questa prospettiva di rigore e sapienza nel connettere elementi anche distanti tra loro. La si può così prendere come metafora di una tessitura in grado di far dialogare aspetti e punti di vista differenti, convergenti però nel contribuire alla comune costruzione. Per questo credo che l’immagine vada rivisitata, guardandola attraverso la positività del tessere, del saper resistere, del saper conservare qualcosa al proprio interno. Spingendo la metafora, il qualcosa che viene conservato non è tanto l’insetto che vi rimane racchiuso, bensì la finalità dell’operazione stessa della tessitura, della ri-costituzione unitaria di aspetti slegati, filiformi che in tale connessione acquistano una fisionomia nuova e un valore specifico. In un sistema democratico, una Istituzione che voglia agire all’interno della complessità e della apparente indecifrabilità del contesto sociale deve avere questa caratteristica di tessuto: duttile e agile come una tela di ragno, solida altrettanto e in grado di mantenere al suo interno, come valore compreso, afferrato e conservato scrupolosamente, la propria ragione istitutiva. In particolare, se la sua ragione risiede nel contribuire alla pienezza dei diritti di persone che, per un variegato insieme di cause, sono più vulnerabili, l’Istituzione deve riconoscersi come soggetto pubblico, dialogante anche con soggetti privati, frutto spesso della ricchezza della partecipazione sociale, ma mantenendo le centralità della propria indipendenza, della propria finalità di contributo all’attuazione piena del disegno costituzionale, della propria capacità di dialogo con le altre Istituzioni. Solo da questo auto-riconoscimento e dalle sue conseguenze operative discende la possibilità di essere artefice di una tessitura. Con questa immagine si è costruito nei recenti otto anni il lavoro del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Istituzione nuova, anche se preparata da un dibattito che si era sviluppato almeno nei venti anni precedenti il suo avvio, ha fondato il proprio lavoro sulla capacità di connettere punti di vista diversi, ambiti di responsabilità anch’essi diversi, professioni articolate e situazioni di restrizione della libertà apparentemente distanti le une dalle altre, sia per la ragione della restrizione stessa, sia per la sua finalità, accumunate però da quella vulnerabilità accentuata della tutela dei diritti che rende simili le vite di chi non ha possibilità di decidere del proprio tempo, del proprio movimento, del colore della propria quotidianità. Al termine dell’esperienza del primo Collegio che ha costruito nel concreto il Garante nazionale come riconosciuta Autorità di garanzia, mi è stato da più parti richiesto un bilancio, soprattutto alla luce piuttosto fosca del dibattito attuale circa la capacità e la volontà di riconoscere come proprie anche le parti dolenti del corpo sociale. Il bilancio non è semplice nel frastuono di provvedimenti normativi che continuamente forzano verso il ricorso alla rigidità piuttosto che alla comprensione, al loro valore simbolico piuttosto che alla loro capacità di risolvere conflitti. Soprattutto non è agevole districarsi nella narrazione di un allarme, mai sostenuto dai numeri, che costruisce il crescente consenso sia al ricorso al diritto penale per problemi e conflitti che richiederebbero un’attenzione sociale diversa e non già l’elmetto del rigore punitivo, sia la parallela regressione a quelle logiche di esclusione che vorrebbero tornare a separare le diversità, fino a far percepire come utopica o addirittura erronea la parola inclusione e tutti i valori che essa rappresenta. Non è, quindi, attraverso la lettura dei dati del presente che è possibile dare significato al bilancio. Occorre invece cogliere l’aspetto positivo dell’avvenuto pieno riconoscimento - a livello istituzionale e di comunicazione - di una Autorità di garanzia, nuova, ancora giovane, chiaramente centrata sull’assicurare sempre maggior effettività ai diritti delle persone che vivono in luoghi spesso opachi o distanti dall’attenzione sociale. Una Istituzione che assicura un costante sguardo pubblico in tali luoghi e che trova la propria forza nelle sue connotazioni d’indipendenza e di intrusività in tutte le situazioni di privazione della libertà de iure, cioè in base a un provvedimento esplicito e come tale ricorribile, o de facto, cioè come risultante di una serie di concause che rendono impossibile alle persone di agire in libertà e autonomia. Ma proprio questa Istituzione deve, al contempo, saper dialogare con tutte le Amministrazioni coinvolte perché il suo fine non è esprimere sanzioni bensì individuare problemi e agire perché vengano risolti, così esplicitando il proprio ruolo preventivo. Così come deve dialogare con la Magistratura a cui è affidato il compito essenzialmente reattivo, di indagine e accertamento delle violazioni denunciate e di trarne le conseguenze sanzionatorie. Il duplice livello di protezione, preventivo e reattivo, e i fili che legano indissolubilmente queste due dimensioni sono alla base dell’impostazione del lavoro portato avanti in questi anni, in analogia con il dialogo a livello europeo tra la Corte europea per i diritti umani e il Comitato per la prevenzione della tortura e dei trattamenti o pene inumani o degradanti, organo di natura giurisdizionale il primo, preventivo invece il secondo che non emette sanzioni, ma raccomandazioni. Questi fili sono un lascito che rimarrà come punto di forza per la costruzione di una maggiore fiducia della collettività verso la capacità istituzionale di garantire per le persone private della libertà una tutela che abbia più dimensioni: quella della dignità e dell’integrità fisica e psichica di ogni persona, qualunque sia la ragione della restrizione a cui è sottoposta; quella dei diritti e del riconoscimento valoriale di chi lavora in questi contesti; quella della effettiva rispondenza della vita all’interno di questi luoghi a quella finalità che ha permesso, come misura estrema, la sottrazione del bene altrimenti inviolabile della libertà; quella, infine, della effettiva aderenza dell’azione dell’Amministrazione pubblica ai principi costituzionalmente affermati e agli impegni internazionalmente assunti. Credo che questo sia l’elemento di positivo bilancio che sintetizza i primi otto anni di vita del Garante nazionale. E credo che questa connotazione debba essere preservata come valore dal nuovo Collegio che da quasi due mesi si è insediato, indipendentemente dalle scelte specifiche che opererà relativamente ai singoli temi da affrontare. Perché in questo aspetto risiede la solidità della tela di ragno che si è andata costruendo. La tela è una struttura solida, ma è fragile se non viene alimentata ogni giorno dall’animaletto con la stessa logica costruttiva. Un ragno che si abbandonasse a contemplare il proprio lavoro, a guardarlo o farsi guardare o che non rinvigorisse con nuove e sempre più solide connessioni i suoi legami con i diversi rami che tengono assieme la rete finirebbe col trasformare la plasticità della rete nella sua debolezza. Non sarà così e comunque non dovrà esserlo perché la situazione attuale non lo permette. Infatti, il quadro attuale presenta difficoltà crescenti in tutte le aree di privazione della libertà personale. Il numero delle persone detenute in carcere è in aumento, ormai da quasi un anno, di circa quattrocento unità al mese e, superata ormai la soglia delle 61mila presenze - in meno di 48mila posti regolamentari, vale sempre la pena ricordarlo - tende a raggiunge quel valore che, poco più di dieci anni fa, caratterizzò la condanna del nostro paese per violazione dell’inderogabile articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani. Non solo, ma ì crescenti numeri registrati nei vari istituti, sono sempre più accompagnati dalla prevalenza della chiusura in cella come modalità ordinaria dello svolgersi della giornata per quella maggioranza di persone detenute che non sono classificate di “alta sicurezza”: persone che risentono fortemente della vacuità di un tempo trascorso senza una progettualità definita, per inazione o per impossibilità di spazi, e che proprio per tali assenze restano chiusi negli angusti ambienti impropriamente e pomposamente destinati anche nel nome al “pernottamento” e che invece rappresentano invece il micromondo possibile dello svolgersi delle giornate. In questo affollato e anonimo contesto, sono impietosi i numeri del disagio sociale, evidenziati dalle migliaia di persone detenute che sono in carcere per pene bassissime e restano là proprio perché prive di una rete di supporto legale, sociale, spesso di semplice tetto ove stare. Così come lo è il numero di coloro che rivolgono contro il proprio possibile residuale ben-essere anche corporeo la frustrazione di un tempo che trascorre inutilmente denso di una previsione ancor peggiore nel ritorno alla società: l’inizio di questo anno ha finora registrato circa un suicidio ogni due giorni. Numeri, chiusura, disattenzione rendono ridicole le foto che vengono fatte dopo rituali visite in carcere da parte di organizzazioni volontarie e volenterose e ancor più inaccettabili quelle di rappresentanti istituzionali che sembrano aver ristretto la propria osservazione di quel mondo, spesso difficile da decodificare, a qualche colloquio con chi dirige, coordina, spiega. Se questa è la fotografia grave del carcere, certamente non è migliore quella della detenzione amministrativa delle persone migranti, trattenute in Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr), per periodi recentemente fortemente allungati, in quel nulla che non è episodico, bensì la dimensione strutturale del trattenimento: il nulla degli ambienti, il nulla del contatto con il mondo esterno, il nulla dello scorrere della giornata, lasciano spazio solo alla disperazione del fallimento del proprio progetto migratorio che la stessa permanenza in tali luoghi nitidamente evidenzia. Carceri e Cpr sono le punte evidenti di un pensiero reclusorio che affronta le contraddizioni con la segregazione e che rischia di estendersi a tutte le forme di difficoltà, inclusa quella giovanile, spesso di non semplice decodifica e certamente aumentata nel recente periodo dopo l’esperienza di chiusura per la pandemia, ma che è comunque anche espressione di un bisogno che dovrebbe trovare altre risposte. Nel mondo della comunicazione e dei media le difficoltà giovanili non sono lette attraverso la lente dell’incertezza del futuro sul piano lavorativo, dell’impossibile autonomia, dell’opacità delle strutture sociali e il conseguente rischio della prevalenza di logiche neo-censitarie, della frequente inattuabilità della costruzione di un proprio nucleo di affetti, del ritorno della vicinanza delle guerre, bensì relegate in una indecifrabilità, espressa con soltanto con termini di negatività e di ricorso alla categoria indecifrata dell’agire delinquenziale. Anche i numeri di presenza negli Istituti penali per minori sono così in aumento considerevole negli ultimi mesi, dopo anni in cui il sistema penale minorile italiano aveva rappresentato un modello positivo nel contesto internazionale. Non è un panorama che possa permettere però di attenuare le costruzioni faticosamente realizzate in anni recenti: in particolare, quella della tela di ragno, come richiamo a una costruzione duttile e solida. Occorre continuare a trovare altri rami per la sua continua costruzione e consolidare quelle parti già tessute proprio perché esposte a un vento impetuoso. Ciò vale per il Garante nazionale e anche per le altre strutture intermedie di coesione, riflessione e garanzia costruite in questi anni: non è possibile renderle inerti e non alimentarle. È un compito che coinvolge tutti, a livelli diversi, sulla base di quel dettato di solidarietà che la nostra Carta richiama nel suo secondo articolo e che si esplicita nell’articolo successivo anche nel richiamo al compito della Repubblica - e, quindi, di ogni singolo ‘attore’ del suo impianto ordinamentale - di rimuovere gli ostacoli affinché sia assicurato il pieno sviluppo di ogni persona e la sua attiva partecipazione. Anche di chi ha sbagliato, anche di chi è irregolare, anche di chi esprime disagio e difficoltà nel misurarsi con il mondo circostante. Proprio la connotazione istituzionale porta con sé, del resto, la necessità e il valore della continuità, intesa come costante capacità di riaffermare il proprio mandato e di agire perché esso sia percepito come contributo alla soluzione delle difficoltà. Questo è il bilancio dell’Istituzione costruita, da me e dalle altre due componenti del Collegio del Garante nazionale, in questi otto anni. Ma questa continuità necessaria rappresenta altresì una indicazione che dovrà essere resa esplicita quanto prima a chi ha assunto ora il compito di proseguire: con attenzione e interesse ho visto il verificarsi di diversi incontri tra il nuovo Collegio e vari attori istituzionali, nonché responsabili di carceri o altre strutture; quasi tutti regolarmente registrati anche attraverso la foto dell’evento. A cinquanta giorni dal suo insediamento, forse è ora tempo che, dopo tutti gli altri, il nuovo Collegio voglia incontrare anche quello uscente, per avere opinioni, momenti di confronto, aspetti di una lunga esperienza. Un incontro che ancora non è mai avvenuto. Per questo una foto di simbolica continuità è tuttora mancante. *Presidente del Centro di ricerca European Penological Center dell’Università Roma Tre. È stato Presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale (2016 - 2024). I diritti sociali per l’umanità e per il pianeta di Vincenzo Scalia Il Manifesto, 27 marzo 2024 A partire dagli anni ottanta, in seguito all’incalzare del neo-liberismo, si è andata diffondendo una lettura dei diritti umani in chiave individuale. In particolare, prendendo come sfondo i regimi socialisti dell’Est, si è cominciato a porre l’accento sui diritti civili e politici, centrati prevalentemente sull’individuo, inteso come soggetto astorico e isolato dalla società. Dopo il 1989, questa lettura liberale dei diritti umani, ha fatto riferimento, in maniera spesso approssimata e non sufficientemente efficace, all’homo oeconomicus a cui si riferivano Von Hayek, Von Mises, Milton Friedman, Glucksmann, Henry-Levy e tutti gli aedi del pensiero neo-liberale/liberista. La declinazione neo-liberista dei diritti umani tralascia il fatto che la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, adottata dall’Onu il 10 dicembre del 1948, dedica una parte cospicua ai diritti sociali, ovvero il lavoro, l’alloggio, la sanità, l’istruzione. Non casualmente, Giorgio Agamben, focalizza parte del suo pensiero sulla differenza tra diritti umani e diritti dell’umanità. I primi rientrano nel novero dell’individualità e dell’individualismo, e vengono accuratamente filtrati e segmentati dal potere in funzione di una loro addomesticazione. Separare le sfere dei diritti, spezzettarne la fruizione, li rende governabili e plasmabili da parte del potere. Al contrario, leggere i diritti umani come diritti dell’umanità, declinandoli in modo collettivo, permette di coglierne la potenza trasformatrice e le potenzialità emancipatorie, nella prospettiva di un miglioramento delle condizioni di tutto il genere umano. Da venti anni, il Rapporto sui diritti globali, curato da Sergio Segio per conto dell’Associazione società in formazione (Edizioni Milieu), si muove nel solco agambeniano, arrivando anche a proporre due ulteriori articolazioni. La prima riguarda per l’appunto la dimensione globale dei diritti, in relazione ai processi di globalizzazione prodottisi nell’ultimo trentennio. In secondo luogo, in un’epoca caratterizzata sempre più frequentemente dai disastri ambientali e dai cambiamenti climatici, parlare di diritti equivale a discutere delle condizioni del pianeta. Per esempio, se una massa sempre più consistente di persone cerca di fruire dei propri diritti lontano dai luoghi di nascita, si tratta di un processo che ha senza dubbio a che fare con le dinamiche del capitalismo estrattivo, che, saccheggiando le risorse, oltre a impoverire le economie locali e a distruggere l’ecosistema, finisce per causare conflitti attorno alle risorse a disposizione. Fame, guerra, povertà, disastri ambientali, non possono che causare esodi in massa. Una massa che mette in crisi gli equilibri neoliberali dei paesi affluenti, basati sulla competizione e sul cosiddetto governo delle eccedenze, che si concreta nell’abuso delle strutture detentive e della risorsa penale, a giustificare un’emergenza permanente, attraverso la quale si mettono in atto l’esclusione e la marginalizzazione di larghi strati della popolazione. Un’umanità segmentata, catalogata, reclusa, obbligata a comportarsi in modo uniforme, diffidata dall’esprimere una soggettività. È in questo solco che si innestano le politiche proibizioniste sugli stupefacenti, le quali, oltre ad alimentare ulteriormente la macchina della repressione, rafforzano strutture di potere parallele, come le organizzazioni criminali. Processi globali, che richiedono, in termini di diritti, risposte globali. Il rapporto, da vent’anni, ce lo spiega. Sia analizzando pezzo per pezzo i vari aspetti dei diritti, per poi comporli in un quadro unitario, sia producendo numeri speciali, che ospitano (come quest’anno) riflessioni di esperti. La cronaca si abbina alla riflessione. Un doppio binario necessario per chi vuole parlare di diritti al giorno d’oggi. In Albania i migranti “costano” 100 euro al giorno di Giansandro Merli Il Manifesto, 27 marzo 2024 Protocollo Roma-Tirana. C’era una volta la destra che protestava contro i 35 euro quotidiani per l’accoglienza. Nel recente bando del Viminale per la gestione dei centri oltre Adriatico spese pazze: tariffe triplicate rispetto a quelle previste in Italia. C’era una volta la destra italiana che si scagliava contro i 35 euro al giorno per l’accoglienza dei migranti. Un numero che Giorgia Meloni e Matteo Salvini hanno ripetuto così tante volte da trasformarlo in un mantra, nel simbolo assoluto del business, vero o presunto, realizzato sulla pelle dei cittadini stranieri a scapito della spesa sociale per gli italiani. Ebbene il governo più a destra della storia repubblicana ha indetto una “manifestazione di interesse per l’affidamento dei servizi di accoglienza” che prevede un costo quasi triplo. Riguarda la gestione dei centri in Albania, ha la data del 21 marzo ed è stata pubblicata sul sito del Viminale in sordina. Senza comunicati né lanci di agenzia. Infatti se ne è accorto solo il quotidiano Domani con un articolo di Federica Borlizzi e Marika Ikonomu uscito sabato. I milioni previsti per l’ente gestore sono 34 l’anno, ma per capire quanto vale davvero quel numero bisogna dividerlo per i migranti coinvolti e confrontarlo con quello che si spende in Italia in casi analoghi. Partiamo dal testo ministeriale: “I corrispettivi riconosciuti pro-capite/pro-die, secondo la tipologia di centro ed il relativo numero degli ospiti presenti, ammontano presuntivamente a complessivi € 33.950.139 annui, dimensionati per l’accoglienza massima prevista”. Il passaggio è ambiguo perché dietro un’unica somma cela due situazioni diverse: quella di chi viene trattenuto nel centro per le procedure accelerate di frontiera (880 posti) e quella di chi finisce nel Cpr, centro di permanenza per i rimpatri (144 posti). Saranno entrambi ubicati a Gjader, ma con caratteristiche diverse: nella prima struttura si svolge l’iter per l’asilo e teoricamente si resta massimo quattro settimane; nella seconda si viene trasferiti in caso di diniego e si può rimanere fino a 18 mesi. Diversi sono anche alcuni servizi e quindi, in parte, i costi. In ogni caso dividendo la spesa complessiva per la capienza a pieno regime e i giorni che compongono un anno si arriva “presuntivamente” al costo quotidiano per migrante di 90 euro. A cui vanno sommate le spese che secondo il ministero dell’Interno non si possono calcolare in anticipo ma saranno comunque riconosciute all’ente gestore: servizi di trasporto; manutenzione ordinaria e straordinaria; presidi anti-incendio; assistenza medica. E perfino tutte le utenze: idriche, elettriche, per rifiuti e wifi. Un bel regalo al privato, che riceve in comodato d’uso gratuito anche la struttura. Scopriremo presto il destinatario di codesto trattamento: il bando si chiude domani e l’avvio dei centri è previsto entro il 20 maggio. Per avere un’idea di quanto si guadagna a trattenere i migranti in Albania basti pensare che per il 2024 il Viminale conta di spendere 31,47 euro al giorno per ogni migrante in hotspot (cui va aggiunta una tantum di 5,65 euro per il kit vestiti), mentre il nuovo capitolato d’appalto per i Centri di accoglienza straordinaria (Cas), in via di pubblicazione, ne prevede 38. E qui in genere l’ente gestore paga bollette e affitto e dovrebbe fornire anche i servizi per l’integrazione, visto che si tratta di accoglienza e non di trattenimento. Se guardiamo a quanto lo Stato spende per la detenzione amministrativa, comunque, i conti continuano a non tornare: i dati pubblicati dalla Coalizione italiana libertà e diritti civili (Cild) nel rapporto L’affare Cpr dicono che per il triennio 2021-2023 sono stati stanziati 56 milioni a favore dei privati che gestiscono le 10 strutture attive sul territorio nazionale. La “capienza teorica” complessiva è di 1.105 posti: con un numero di reclusi pressappoco uguale ai 1.024 d’oltre Adriatico, in Italia si spende la metà. “Perchè il Viminale considera la gestione dei servizi più cara in Albania dove il costo della vita è inferiore? L’unica risposta possibile è che vogliono pagare l’ente gestore in maniera sproporzionata. Comprarselo”, attacca Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano di solidarietà e membro dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). Secondo Schiavone il bando è “illegittimo” a causa delle voci di spesa indeterminate, che andavano previste a monte e a valle gonfieranno ulteriormente i costi. “Alla fine si supereranno i 100 euro per migrante al giorno”, afferma. “L’Italia, che accoglie meno di gran parte dei paesi Ue come mostrano i dati Eurostat, ha un sistema d’accoglienza nel caos. Migliaia di persone vivono per strada, mentre in Albania per uno straniero trasferito nei nuovi lager fuori confine spenderemo come in un hotel a 4 stelle”, afferma Filippo Miraglia, dirigente nazionale di Arci. La spesa pro-capite/pro-die va poi inserita nei costi complessivi del protocollo. Sommando le diverse voci presenti nella legge di ratifica venivano fuori 645 milioni di euro nei primi cinque anni di validità. Se nello stesso periodo all’ente gestore andassero 34 milioni ogni 12 mesi il totale darebbe 815 milioni. Ma Meloni ha ripetuto che la capienza dei centri sarà di 3mila persone: in quel caso anche i fondi per il privato andranno verosimilmente triplicati. E resta ancora un’altra importante casella da riempire: i costi del trasporto marittimo dei migranti dalle acque internazionali al porto di Shengjin. Nella speranza di avere un giorno tutti i numeri, si può intanto fare una stima sul primo anno: se le 880 persone del centro di trattenimento cambiassero ogni mese si avrebbe un totale di 10.560 (quelle trasferite nel Cpr vanno considerate un sottogruppo). Per tenere lontano dal territorio nazionale l’equivalente dello 0,017% della popolazione italiana, si spenderebbero così 15mila euro a migrante. Ma se, come probabile, le tempistiche ipotizzate dal governo non saranno rispettate, il rapporto percentuale con la popolazione italiana diminuirà mentre aumenterà la spesa pro capite. Forse è un po’ troppo, anche per uno spot elettorale. Gran Bretagna. Assange respira, Londra congela l’estradizione negli Stati Uniti di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 27 marzo 2024 Negli Usa negati i diritti fondamentali: il fondatore di Wikileaks può fare appello. Julian Assange può tornare a sperare. La procedura di estradizione verso gli Stati Uniti come richiesto dalle autorità d’oltreoceano è stata sospesa. Ieri l’Alta Corte della Gran Bretagna ha deciso di rimandare ulteriormente la sentenza da cui dipende la sorte del fondatore di Wikileaks, un esito insperato nell’entourage di Assange dove regnava il più cupo pessimismo. I giudici Victoria Dame e Sharp Johnson hanno infatti stabilito che gli Stati Uniti devono fornire diverse garanzie relative al trattamento del prigioniero, in caso contrario Assange potrebbe presentare appello alla medesima Corte. Questo il punto centrale della controversia: i togati inglesi vogliono che le autorità statunitensi forniscano l’assicurazione che il giornalista australiano, oggi 52enne, sarà protetto e autorizzato beneficiare del Primo Emendamento, che garantisce la libertà di parola negli Stati Uniti; che non venga considerato come un pregiudicato in un eventuale processo a causa della sua nazionalità; e che non rischierà la pena di morte nel caso in cui venga condannato. I giudici britannici hanno concesso tre settimane agli americani per rispondere, dopodiché tutto potrebbe essere deciso definitivamente con un’udienza finale da svolgersi presumibilmente il 20 maggio. “Se verranno fornite garanzie, daremo alle parti l’opportunità di presentare ulteriori osservazioni prima di prendere una decisione finale”, ha comunicato il giudice Dame, “se non verranno date garanzie, concederemo il permesso di ricorrere in appello (contro l’estradizione ndr.) senza un’ulteriore udienza”, si può leggere nella sentenza emessa dalla Corte. Tuttavia, i giudici hanno respinto alcune delle motivazioni alla base della richiesta di appello, tra cui le argomentazioni di Assange secondo cui sarebbe stato perseguito dal Dipartimento di Stato Usa a causa delle sue opinioni politiche. Se il suo ultimo tentativo di fermare il trasferimento negli Stati Uniti non venisse accolto, Assange avrà esaurito tutte le vie legali nel Regno Unito. L’unica opzione rimasta sarebbe a quel punto portare il suo caso davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo. La moglie di Assange, Stella Moris, ritiene in ogni caso “assurdo” che gli Usa debbano fornire garanzie che la stessa sentenza dei giudici londinesi ha indicato come assenti: “È un perseguitato politico e rischia la pena di morte. L’amministrazione Biden non dovrebbe fornire garanzie di nessun tipo. Dovrebbero al contrario abbandonare questo caso vergognoso, che non avrebbe mai dovuto essere portato avanti”. Le accuse nei confronti Assange sono note, gli Stati Uniti ritengono che la pubblicazione da parte di Wikileaks, tra il 2010 e il 2011, di centinaia di migliaia di documenti classificati, in particolare sulle operazioni militari in Afghanista e Iraq si configuri come un atto di spionaggio. Gli avvocati difensori sottolineano che per un simile reato (si è fatto ricorso all’obsoleto Espionage act) si rischiano fino a 175 anni di carcere. Ma alcune imprecisate fonti del governo di Washington ritengono più verosimile una condanna “leggera”, tra i quattro e i sei anni. I legali che rappresentano il governo americano hanno comunque richiesto l’estradizione per il reato di spionaggio, in quanto le azioni di Assange avrebbero messo in pericolo la vita di diversi collaboratori e informatori sotto copertura in teatri di crisi dove erano coinvolti gli Usa. Durante l’udienza di febbraio alla quale Assange non ha presenziato per motivi di salute, il team dei suoi difensori ha sostenuto invece che il giornalista è stato preso di mira per la rivelazione di crimini a livello statale e che la sua punizione è politicamente motivata. Nel 2021, l’Alta Corte ha stabilito che Assange poteva essere estradato, respingendo le affermazioni secondo cui la cattiva salute mentale lo avrebbe potuto indurre a togliersi la vita nelle carceri statunitensi. L’anno successivo la Corte Suprema del Regno Unito ha confermato la decisione, gli avvocati hanno così portato il caso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, ma è stato archiviato senza un’udienza. Intanto il parlamento australiano ha approvato una mozione che chiede al Regno Unito e agli Stati Uniti di rilasciare Assange, anche se questo atto non ha valenza legale per nessuno dei due governi.