Carceri, un sistema indegno per uno Stato civile di Mauro Palma La Stampa, 26 marzo 2024 Un suicidio in carcere; un altro. Evitiamo di ripetere stancamente il computo delle vite perse all’interno di questa Istituzione della nostra collettività; riflettiamo piuttosto sulla responsabilità della continua oscillazione tra i due poli dell’efficace risposta alla commissione di un reato e dell’assoluta tutela dei diritti che la nostra Costituzione afferma per tutti, incluso il diritto a che la sanzione sia finalizzata a ciò che la Carta indica. La debolezza della risposta sociale e istituzionale è proprio nell’incapacità di tenere insieme queste polarità e di considerarle invece separate, aderendo più all’una o all’altra a seconda del periodo e del ciclo politico. La difficoltà individuale si colloca all’interno della percezione di questa oscillazione. Un suicidio in un contesto istituzionale è l’espressione del linguaggio estremo dell’insopportabilità di una situazione; indica la prevalenza di questa sensazione, se non la sua unicità, tale da portare a preferire il non esserci piuttosto che vivere il presente. Non è un linguaggio afasico, esprime piuttosto un urlo e interroga su quali siano i fondamenti di quell’insopportabilità che rendono il proprio sé stesso, il proprio corpo e, infine, la propria esistenza, unica voce udibile. Quando si ha la responsabilità del bene fondamentale di una persona - la sua libertà personale, bene altrimenti inviolabile - esiste un oggettivo dovere di interrogarsi per valutare quanto si è inciso su tale percezione di inutilità della propria vita e quanto tutto ciò avvenga oggettivamente, al di là dell’impegno delle singole persone che hanno avuto compiti diretti rispetto alla persona che ha rinunciato a vivere. Lo sguardo va allora a come la collettività vede il mondo del carcere: esterno, non appartenente al contesto collettivo se non per il desiderio di prevenire e punire. Una collettività che non sembra affrontare come urgente l’impossibile vita all’interno di un luogo chiuso, denso di minorità sociale, che ha meno di 49 mila posti regolamentari e che oggi contiene 61.198 persone ristrette - e qui l’aggettivo “ristrette” ha il duplice significato - dove in periodi recenti, anche a causa del sovraffollamento, la chiusura per molte ore nelle celle è divenuta sempre più prassi ordinaria. Eppure il tema sembra destinato ai pochi tecnici, a chi ha persone care detenute, a chi per spirito generosità o per studio ha familiarità con questi luoghi, a chi ne è amministrativamente responsabile, a chi vi lavora in una situazione sempre più difficile e tesa. Non tocca il confronto politico, se non per tenere il tema distante dal rischio di scarso consenso. Questo sguardo che non vede, forse perché assuefatto, la morte di un giovane, la cui fragilità era nota, senza essere riusciti a trovare per lui un posto meno inidoneo ad affrontare il suo bisogno; un posto a lui legalmente spettante. L’attesa talvolta uccide; non solo perché è anch’essa fattore determinante di quella insopportabilità, ma anche perché è indicativa di quella incapacità oltre quelle mura di prendere seriamente il proprio star male. E allora rimarrà solo l’urlo, suo o di altri, se non troveremo la forza di urlare che questo tema non è altro da noi perché attiene al significato profondo del definirci società civile. Carceri, l’amnistia non sia un tabù di Luigi Manconi La Repubblica, 26 marzo 2024 I suicidi di guardie e detenuti ci dicono che la prigione si rivela un luogo di iniquità e disumanità. La classe politica non si rende conto del livello di crisi raggiunto dall’istituzione penitenziaria. Quando a suicidarsi sono i poliziotti penitenziari, la stessa sopravvivenza dell’istituzione appare gravemente compromessa. L’istituzione in questione è il sistema penitenziario italiano, la cui crisi risulta ormai irreversibile. Qualche settimana fa il sindacato della polizia penitenziaria Uilpa enumerava i suicidi avvenuti in carcere nell’anno in corso: allora erano ventisei (aumentati nel frattempo di due unità), dal momento che - molto opportunamente - venivano sommati quelli registrati tra i detenuti a quelli degli appartenenti alla stessa polizia penitenziaria: tre nei primi due mesi e mezzo del 2024. Giustamente si è considerato il fenomeno dell’autolesionismo come avviene complessivamente in quella che Marco Pannella chiamava la “comunità penitenziaria”, in quanto - pur nella radicale differenza dei ruoli e talvolta nella reciproca ostilità degli stessi - la prigione tende ad avvicinare le condizioni di esistenza e di sofferenza di custodi e custoditi. Dunque, quel semplice calcolo aritmetico dice una cosa assai importante: è il carcere, la sua natura e la sua struttura e, in particolare, le sue attuali condizioni a rivelarsi un luogo di iniquità e disumanità. Attualmente, a quanto è dato sapere sono più di una quindicina i procedimenti giudiziari già avviati, o in via di conclusione, sulle violenze a danno dei reclusi e su trattamenti che, in più casi, configurano la fattispecie penale della tortura. I dati sui suicidi vanno collegati a questo clima generalizzato di autoritarismo, e tendenzialmente, di esercizio della violenza. Il numero di detenuti che si tolgono la vita all’interno delle prigioni italiane è 17-19 volte superiore al numero di quanti lo fanno all’interno della popolazione nazionale, tra le persone libere. E secondo una stima attendibile di fonte sindacale, tra il 2010 e il 2020, circa cento poliziotti penitenziari si sono suicidati (il numero maggiore rispetto agli altri corpi di polizia). Altri dati, riportati da Milena Gabanelli e Andrea Priante sul Corriere della Sera, parlano di 26 appartenenti alla penitenziaria che si sono tolti la vita tra il 2019 e il 2023. Questo mi rafforza nella convinzione che il carcere, com’è organizzato e com’è degradato, costituisca un sistema patogeno e criminogeno: ovvero un dispositivo che riproduce all’infinito i meccanismi della sopraffazione e che alimenta dipendenze, patologie, psicosi, depressione, autolesionismo e morte. È la stessa forma del carcere, la sua ingegneria e la sua architettura, il suo peso e la sua immanenza, il suo connotato concentrazionario a costituire quel blocco chiuso e immobile che è l’istituzione totale detta carcere. Oggi, il sovraffollamento ha raggiunto le 60.637 unità a fronte di una capienza reale stimata intorno ai 47.000 posti effettivamente disponibili. E tale addensarsi e congestionarsi di corpi in spazi chiusi e ristretti ha effetti di privazione e di mortificazione della dignità sui reclusi, ma anche sugli agenti, limitandone i movimenti, esasperandone i comportamenti, acuendone lo stress. Di tutto ciò sembra avere scarsa consapevolezza la direzione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e ancor meno la classe politica, fatte salve alcune eccezioni. Non ci si rende conto, evidentemente, del livello di crisi raggiunto da questa delicatissima istituzione. Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha parlato del tema con grande vigore, ma non si è registrata alcuna significativa reazione da parte della politica. Non è una novità, ahinoi. Nell’ottobre del 2013 l’allora Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, inviò un messaggio alle Camere: un formidabile documento interamente dedicato alle condizioni del sistema penitenziario. Napolitano richiamava la sentenza della Corte europea dei diritti umani (Cedu), che aveva accertato la violazione, a opera dello Stato italiano e dei suoi apparati, dell’articolo 3 della Convenzione europea, che vieta trattamenti disumani e degradanti, e chiedeva al Parlamento provvedimenti urgenti. Poi andava oltre. Pur riconoscendo che le misure di clemenza nei confronti dei reclusi possono suscitare grande ostilità nell’opinione pubblica, Napolitano, di fronte a precisi obblighi di natura costituzionale e “all’imperativo morale e giuridico di assicurare un civile stato di governo della realtà carceraria”, riteneva giusto valutare l’opportunità di provvedimenti come l’amnistia e l’indulto. Quel messaggio presidenziale non ebbe nemmeno il bene di una discussione parlamentare. E ora siamo dove siamo. Passato un decennio da allora, per misurare come la situazione sia cambiata solo in peggio, basti osservare che quelle due parole - amnistia e indulto - sono diventate un tabù assoluto. Un indicibile da censurare e rimuovere. Carceri da suicidio di Guido Ruotolo terzogiornale.it, 26 marzo 2024 Intervista a Samuele Ciambriello, Garante in Campania delle persone private della libertà personale. “È chiaro a tutti che il sistema carcerario italiano non funziona. Non solo non riabilita i detenuti, ma li rende più fragili e vulnerabili. È necessario un cambiamento radicale, che punti a migliorare le condizioni di vita nelle carceri, a investire sulla salute mentale dei detenuti e a fornire loro un adeguato sostegno psicologico e sociale”. Samuele Ciambriello, fa impressione la vita nelle carceri in Italia… I dati sono davvero preoccupanti e confermano una triste realtà: il sistema carcerario italiano non solo non assolve il suo mandato costituzionale, ma rappresenta un luogo di sofferenza e di morte. 14.840 tentati suicidi in venti anni sono un numero drammatico, che evidenzia come la vita nelle carceri sia spesso insostenibile. Il tasso di 148 tentati suicidi ogni diecimila detenuti è quasi tre volte superiore a quello della popolazione generale, e questo di per sé è un dato inaccettabile. Ancora più sconvolgente è il numero di suicidi portati a termine, che supera i dieci ogni diecimila detenuti. Si tratta di una vera e propria emergenza, che richiede un intervento urgente da parte delle istituzioni. È chiaro che il sistema carcerario italiano non funziona. Non solo non riabilita i detenuti, ma li rende più fragili e vulnerabili. È necessario un cambiamento radicale, che punti a migliorare le condizioni di vita nelle carceri, a investire sulla salute mentale dei detenuti e a fornire loro un adeguato sostegno psicologico e sociale. Si possono prevenire gli atti di autolesionismo nelle celle? La prevenzione dell’autolesionismo nelle carceri è un problema complesso e sfaccettato, ma non impossibile da affrontare. Diversi interventi possono essere attuati per ridurre il rischio di tali atti, ed è fondamentale un approccio multilivello che coinvolga diversi attori. Migliorare le condizioni di detenzione riducendo il sovraffollamento, migliorare l’accesso a cure mediche e psicologiche adeguate, e creare un ambiente più sicuro, che garantisca un adeguato supporto: tutto ciò può contribuire a ridurre il disagio e la frustrazione che possono portare all’autolesionismo. Inoltre, bisogna fornire al personale penitenziario una formazione specifica sulla gestione del rischio di autolesionismo, sulle tecniche di de-escalation e sul riconoscimento dei segni premonitori di un comportamento autolesivo: questo è fondamentale per un intervento tempestivo ed efficace. Infine, si devono stabilire protocolli chiari e standardizzati per la valutazione del rischio di autolesionismo, la gestione dei casi a rischio e l’accesso a interventi di supporto. La Campania registra un numero alto di suicidi. Cosa spinge i detenuti al gesto estremo? Il numero di suicidi nelle carceri campane è purtroppo un problema serio e complesso, con diverse concause che spingono i detenuti al gesto estremo. Le carceri campane sono spesso sovraffollate, con un numero di detenuti superiore alla capienza regolamentare. Questo può portare a condizioni di vita difficili, con scarsa igiene, spazi ristretti e mancanza di privacy, che possono contribuire al senso di disagio e frustrazione dei detenuti. La carenza di personale medico e psicologico rende difficile l’accesso a cure adeguate per i detenuti con problemi di salute mentale, tra cui la depressione, l’ansia e i disturbi di personalità, che sono fattori di rischio per il suicidio. Le carceri campane versano spesso in condizioni di degrado, con infrastrutture fatiscenti, scarsa manutenzione e mancanza di spazi per attività ricreative o formative. Questo può contribuire a un senso di abbandono e di perdita di speranza nei detenuti. La difficoltà nel mantenere relazioni significative e il senso di solitudine possono essere fattori di stress molto pesanti per i detenuti. La preoccupazione per la propria situazione economica, e per il futuro della propria famiglia, genera ansia e depressione, soprattutto in caso di difficoltà nel trovare lavoro o a reinserirsi nella società dopo la detenzione. I detenuti che hanno vissuto esperienze traumatiche in passato, come abusi o violenze, sono più a rischio di sviluppare problemi di salute mentale e di compiere atti di autolesionismo o suicidio. L’ultimo suicidio nel carcere di Secondigliano è stato quello di un cittadino ucraino, che aveva tentato di evadere mentre si trovava nel carcere di Poggioreale... La notizia del suicidio di un cittadino ucraino nel carcere di Secondigliano è tragica, sconvolgente. Le circostanze che hanno portato al gesto estremo sono ancora oggetto di indagine, e non è possibile trarre conclusioni a breve. Tuttavia, questo evento ci porta a riflettere sulle numerose criticità che affliggono il sistema carcerario italiano, in particolare la carenza di personale, le condizioni di sovraffollamento e la mancanza di adeguati supporti psicologici per i detenuti. L’età media delle vittime in Italia è inferiore ai quarant’anni. Cosa ci dice questa statistica? È un dato preoccupante che ci dice diverse cose, che i giovani sono particolarmente vulnerabili e sono più a rischio di subire violenze. Possono essere più esposti a situazioni di pericolo o avere meno strumenti per difendersi. La violenza non è mai accettabile, in nessuna forma e in nessun contesto. È necessario un cambiamento culturale, che ponga al centro il valore della vita e della dignità umana. Solo con un impegno collettivo possiamo cambiare questa situazione inaccettabile. Negli anni Settanta la rivolta nelle carceri era sempre all’ordine del giorno. Oggi anche i detenuti subiscono passivamente il clima di violenza e di degrado che si vive nell’universo penitenziario. Perché? È vero che negli anni Settanta le rivolte nelle carceri erano molto più frequenti di oggi. All’epoca, le condizioni di detenzione erano spesso disumane, con sovraffollamento, scarsa igiene, cibo insufficiente e violenze da parte delle guardie. I detenuti, spinti dalla disperazione e dalla rabbia, si ribellavano e protestavano contro queste condizioni, rivendicando i loro diritti. Oggi le condizioni nelle carceri italiane sono migliorate, anche se rimangono ancora molte criticità. Il sovraffollamento è ancora un problema serio, e le risorse per la riabilitazione e il reinserimento sociale dei detenuti sono spesso scarse. Tuttavia, la violenza e il degrado che si vivevano negli anni Settanta sono per lo più scomparsi. È importante però sottolineare che la passività dei detenuti non significa necessariamente che siano rassegnati al loro destino. Molti detenuti oggi si impegnano in forme di protesta pacifica, come gli scioperi della fame o la presentazione di ricorsi legali, per denunciare le condizioni carcerarie e per chiedere miglioramenti. La politica sembra voltarsi dall’altra parte. Solo il presidente Mattarella e papa Francesco denunciano le condizioni di vita nelle carceri... È vero che la politica, in generale, sembra disinteressarsi alle condizioni di vita nelle carceri italiane. Sono poche le voci che si levano a denunciare le numerose criticità del sistema penitenziario italiano. Il presidente Mattarella e papa Francesco sono due figure di grande rilievo che hanno più volte richiamato l’attenzione sulla necessità di migliorare le condizioni delle carceri e di tutelare i diritti dei detenuti. Purtroppo, le loro parole non sono sempre sufficienti a smuovere le coscienze e a portare a un cambiamento concreto. È necessario un impegno più forte da parte di tutte le istituzioni, a partire dal parlamento e dal governo, per attuare riforme strutturali del sistema penitenziario italiano, e per garantire ai detenuti il rispetto dei loro diritti e una vita dignitosa. Il Coa di Bologna: misure straordinarie per l’allarme suicidi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 marzo 2024 Dopo l’ultimo triste episodio alla Dozza, il ventiseiesimo (27 con quello a Torino) solo dall’inizio dell’anno, l’Ordine degli Avvocati felsineo chiede interventi rapidi e concreti. Giovedì scorso un’altra vita si è spenta silenziosamente all’interno delle fredde mura della casa circondariale di Bologna. Una donna, già provata dalla durezza della detenzione, ha deciso di porre fine al suo calvario togliendosi la vita. Questo triste episodio, il ventiseiesimo (nel frattempo siamo arrivati a 27 con il suicidio a Torino) solo dall’inizio dell’anno, ha turbato la comunità e sollevato gli ennesimi interrogativi sulla situazione delle carceri italiane. In particolar modo, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Bologna ha denunciato con forza le inaccettabili condizioni in cui versano gli oltre 850 detenuti, in una struttura originariamente progettata per metà degli attuali ospiti. Si tratta di individui vulnerabili, spesso afflitti da patologie psichiatriche e tossicodipendenze, lasciati senza alcun supporto né speranza di una vita migliore, né dentro né fuori dal carcere. Una denuncia che il Coa bolognese ha diffuso attraverso un comunicato rivolto a tutte le autorità, dalla magistratura di sorveglianza al ministero della giustizia, evidenziando l’urgente necessità di un intervento concreto per affrontare la crisi umanitaria nelle carceri. Al Sindaco di Bologna viene rivolto un appello affinché prenda coscienza della triste realtà che affligge la sua città: un luogo dove le vite sembrano valere meno e la speranza svanisce a causa della mancanza di sostegno. Il Coa propone un incontro per esaminare insieme come l’amministrazione comunale possa contribuire a migliorare questa situazione. Rivolgendosi alla Magistratura di sorveglianza, si chiede di non restare inattiva di fronte a questa emergenza. È fondamentale che i magistrati visitino le carceri e vedano con i propri occhi le condizioni in cui vivono i detenuti. In particolare, la magistratura di sorveglianza ha il dovere di garantire i diritti fondamentali dei detenuti. Ai rappresentanti della Politica viene richiesto un intervento urgente per porre fine a questa tragica realtà. Il sovraffollamento, la carenza di personale e le condizioni disumane delle carceri sono semplicemente inaccettabili e richiedono azioni immediate. Il Coa sostiene la necessità di adottare misure straordinarie come l’amnistia e l’indulto, non come forme di impunità, ma come gesti di equità e clemenza. Di fronte a questa strage silenziosa, lo Stato deve assumersi la responsabilità di garantire la dignità di tutti i cittadini, compresi quelli detenuti. La vera vergogna risiede nel fatto che lo Stato non sia in grado di assicurare condizioni umane all’interno delle sue carceri. L’ordine degli avvocati di Bologna si impegna quindi a vigilare costantemente sulla situazione e a promuovere azioni concrete volte a migliorare le condizioni del penitenziario. Sempre il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Bologna, assieme all’osservatorio carceri della Camera Penali, proprio qualche giorno prima del suicidio, ha effettuato la visita al carcere la Dozza di Bologna, portando luce le criticità del penitenziario. I dati raccolti durante la visita rivelano un quadro desolante: sovraffollamento dilagante, scarsità di personale penitenziario e sanitario, mancanza di programmi educativi e formativi, condizioni igieniche precarie e una gestione carente delle emergenze legate alla salute mentale dei detenuti. Le sezioni visitate, dai reparti di alta sicurezza alle aree destinate alla salute mentale, sono apparse come luoghi dove la dignità umana è un concetto estraneo. Topi, muffa, docce in condizioni disastrose e l’assenza di offerte educative sono solo alcune delle aberrazioni riscontrate. Inoltre, la situazione dei detenuti stranieri e dei giovani neo-maggiorenni, entrati in Italia come minori non accompagnati, aggiunge ulteriori sfide a un sistema già al collasso. Sebbene siano in corso sforzi per migliorare la situazione, come il progetto di rilancio del caseificio con Granarolo e l’officina metalmeccanica gestita dalla Fare Impresa in Dozza, questi sforzi appaiono come gocce in un mare di disperazione. Il suicidio della donna - e come se non bastasse ieri un’altra detenuta della medesima sezione ha tentato di togliersi la vita -, fa anche comprendere che non sempre il sovraffollamento è la causa principale dei suicidi in carcere. La vera causa è un sistema della giustizia e delle carceri che è sostanzialmente incostituzionale, che non serve al reinserimento, alla rieducazione, che non dà speranza, produce solo isolamento, solitudine, criminalità, sofferenza, disperazione, morte. A tal proposito, l’avvocato Ettore Grenci, referente della commissione diritti umani del Coa di Bologna, condivide con Il Dubbio tale prospettiva: “Gli ultimi tragici eventi riguardanti le detenute nel carcere di Bologna ci fanno capire che attribuire la colpa esclusivamente al sovraffollamento è riduttivo. Nella sezione femminile, infatti, il numero delle detenute è limitato. Il problema, in questo contesto, risiede nella mancanza di progetti lavorativi, nell’approccio quasi inesistente al disagio mentale e nell’eccessivo ricorso agli psicofarmaci. Questa situazione determina un totale assenza di supporto e di speranza, il che, associato a problemi psichici, purtroppo può condurre a gesti estremi”. No, le carceri minorili non sono “Mare fuori” di Silvia Perdichizzi L’Espresso, 26 marzo 2024 Gli Istituti penali per minorenni sono, per la prima volta, sovraffollati. E l’impennata degli ingressi non è dovuta all’aumento dei reati, ma alla stretta repressiva del governo. Ma le storie romanzate della fiction che spopola tra i più giovani creano un falso mito. “Le storie romanzate di “Mare fuori”? Ma per favore! I ragazzi non sappiamo più dove metterli, il sistema della giustizia minorile non è attrezzato per gestire questi numeri”. Dal Piemonte alla Sicilia è un grido di allarme che unisce Nord e Sud, un coro unanime che si alza da chiunque lavori negli Istituti penali per i minorenni (Ipm): una verità ben diversa da quella evocata dalla famosissima serie televisiva, ambientata idealmente nell’Ipm di Nisida (Napoli) e divenuta fenomeno cult tra i giovani. In una realtà negletta come questa, in Italia pochissimi hanno lo sguardo lungo di Antigone, l’associazione che sin dal 1991 si occupa dei diritti dei detenuti e che affida in esclusiva a L’Espresso un dato recentissimo: al 15 febbraio 2024, i ragazzi dentro le carceri minorili erano ben 519. Un numero record che supera quello che la stessa Antigone aveva diffuso nel recente rapporto “Prospettive minori”. In cui aveva riscontrato un fenomeno nuovo e doloroso: per la prima volta anche i penitenziari minorili soffrono per il sovraffollamento, che finora era una poco invidiabile caratteristica delle carceri per adulti. Si potrebbe pensare, quindi, che i giovani commettano più reati oggi che ieri, ma i dati sulla criminalità minorile raccontano di una tendenza che resta più o meno stabile. E allora a che cosa si deve quest’impennata? “Sono gli effetti del decreto Caivano”, spiega Alessio Scandurra, coordinatore dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione di Antigone, a proposito del testo varato all’indomani dello stupro di gruppo del settembre scorso nella cittadina campana. L’analisi dell’Osservatorio è severa: “Con questo provvedimento il governo Meloni ha scelto la linea dura del “punire per educare”, rendendo molto più facile il ricorso al carcere”, sacrificando così un modello basato sulla rieducazione e sul recupero “che è stato un vanto per il Paese a livello internazionale”. E le conseguenze non si sono fatte attendere. “Gli Ipm scoppiano”, racconta Giuseppe Chiodo, direttore del carcere per minori di Roma. Con effetti distruttivi sui giovani che delinquono “e che molto probabilmente torneranno a farlo, perché non conoscono alternative”. A pagare il prezzo più alto è chi non ha attorno una rete sociale e familiare: “In altre parole i ragazzi delle periferie delle grandi città e gli stranieri, per lo più minori non accompagnati”. Un contesto martoriato, nel quale nessuno pensa alle strutture, ormai inadeguate, non si potenziano gli organici e il personale fa fatica perché costretto sempre a rincorrere l’emergenza. Con l’unico rimedio che si ripete in molti, troppi settori fondamentali della vita pubblica italiana: sono i singoli, le associazioni di volontariato e le loro sinergie a mettere le toppe a un buco tutto istituzionale. A gennaio 2024, secondo il rapporto “Prospettive minori” di Antigone, erano 500 i detenuti nei 17 Istituti penali per i minorenni italiani. A febbraio, come detto, già 519. Una cifra che non si toccava da un decennio e che viaggia in parallelo con l’aumento degli ingressi: circa 800 nel 2021, più di 1.100 due anni dopo. “Dall’entrata in vigore del decreto Caivano, poi, l’incremento ha subito una forte accelerazione”, si legge nel rapporto. E non per un aumento della criminalità minorile, che, stando all’Istat e al ministero dell’Interno, è cresciuta rispetto al 2020 (anno del Covid) ma è uguale ai livelli del 2015. “La causa - continua il documento - è da ricercare nella scelta assunta dal governo come risposta ai fatti accaduti nel rione Parco Verde”. Ovvero quella di stringere le maglie della giustizia minorile, estendendo l’applicazione della custodia cautelare in carcere, che viene disposta anche per i reati di più lieve entità e preferita a misure meno pesanti e a percorsi di recupero. A dirlo sono ancora i numeri di “Prospettive minori”: oggi più di due terzi dei ragazzi sono detenuti in attesa di giudizio e si registra un’impennata di presenze legate alla violazione della legge sugli stupefacenti, più del 37% in un solo anno. Tra i reati più frequenti, i furti. Non solo, nelle comunità sono ospitati poco meno del doppio dei giovani reclusi. “Con il decreto Caivano - la dura conclusione di Antigone - la strada del “punire per educare” prevale sulla logica “educare è preferibile a punire” che l’Italia aveva scelto nel 1988”, quando aveva adottato un procedimento penale specifico per minorenni, basato su recupero e rieducazione. “Un fiore all’occhiello a livello internazionale” che oggi rischia di essere smantellato con un “effetto devastante sulla vita del minore”, dice don Domenico Cambareri, cappellano dell’Ipm di Bologna: “A me sembra che ci si stia arrendendo all’idea che ci siano giovani perdibili, mentre nessuno di loro lo è. Sono tutti una risorsa, solo che non lo sanno”, aggiunge. Bisogna tenere a mente, infatti, che negli Ipm finiscono molto spesso ragazzi che hanno alle spalle un passato di violenze e che sono cresciuti di solito in un ambiente malavitoso, in cui è normale delinquere. E in cui è difficilissimo emanciparsi. Per provare a cambiare questa mentalità servono tempo, spazio, strumenti, operatori qualificati. E percorsi. Un sistema che si basa solo sulla sanzione “abdica alla sua funzione educativa in favore di una contenitiva e genera quel fenomeno di sovraffollamento, che finora era stato una caratteristica del carcere per adulti”, conclude il cappellano. E a pagarla sono i più vulnerabili: i giovani ai margini delle periferie e i migranti. Alla fine del 2023, tre ragazzi stranieri su quattro presenti negli Ipm erano in custodia cautelare: perlopiù minori non accompagnati che finiscono dentro - tendenzialmente al Nord Ovest - con disturbi psichici, problemi di dipendenze, storie di maltrattamenti. Sono i più difficili da trattare e allo stesso tempo, non avendo punti di riferimento, i più facili da trasferire continuamente nei momenti di criticità. Si sposta il “problema” da una parte all’altra anziché risolverlo con un’adeguata presa in carico. “Noi cerchiamo di riempire di significato il tempo che passano qui - dice Giuseppe Carro, direttore dell’Ipm di Torino che ha dovuto mettere dei materassi a terra per ospitare tutti i detenuti - ma spesso non abbiamo modo di farlo e finiamo con l’essere una sorta di pronto soccorso educativo”. Uno schema che, seppure con peculiarità diverse, si ripete lungo tutto lo Stivale, dove all’aumento dei numeri non è seguito un miglioramento delle strutture e un potenziamento del personale. A Quartucciu, in Sardegna, è arrivata da poco l’acqua calda e l’impianto elettrico non è a norma. A Milano si vive in perenne stato di ristrutturazione. Ad Airola, in provincia di Benevento, la direttrice Eleonora Cinque aspetta con ansia i lavori necessari per rendere agibile una parte dell’Istituto chiusa per problemi agli impianti, “in nome della sicurezza di tutti”, spiega. Qui infatti si sono registrati parecchi casi di aggressioni, autolesionismo e tentati suicidi “superati grazie allo sforzo enorme degli operatori”. Perché questo accade oggi: se gli Ipm reggono è grazie all’impegno dei singoli e al prezioso lavoro del volontariato. Che nel welfare italiano è un costante balsamo alle mancanze istituzionali. Crisi Come Opportunità è un’associazione che lavora con laboratori di rap e teatro. Il suo punto di forza è la presenza permanente nelle strutture, il che consente di stabilire una relazione con i ragazzi per farli riflettere su argomenti importanti e far conoscere loro percorsi diversi da quelli da cui provengono. Un approccio che a oggi ha portato alla produzione di una serie web, sette video musicali e tre spettacoli teatrali. “Amore Amaro” è l’ultima creazione dell’Ipm di Acireale: un pezzo corale in cui Natalia, Alex, Ami, Serena e gli altri cantano cos’è l’amore per loro. “L’amore per me è una cosa bella”, la frase che apre il brano. La loro risposta, aperta e semplice, alle tremende violenze di Caivano. Custodia cautelare, la riforma da difendere di Eriberto Rosso Il Riformista, 26 marzo 2024 Il confronto tra tre giudici è una garanzia per l’imputato di fronte a una privazione della libertà personale e non risulta in contraddizione con il fatto che il rinvio a giudizio sia adottato da un gip monocratico. Già approvato al Senato, toccherà ora alla Camera dare il via libera definitivo al “pacchetto giustizia” voluto dal Governo, in particolare dal Ministro Nordio. Oltre alla abrogazione dell’abuso di ufficio si interviene sulla disciplina della custodia cautelare, introducendo l’interrogatorio preventivo e - a fronte della richiesta della misura del carcere - la competenza collegiale. Dei temi processuali si è già occupato PQM nello scorso numero, soppesandone prospettive e limiti. Eppure c’è ancora spazio per qualche incursione. Sul piano generale, la previsione del contraddittorio anche nella fase cautelare è conforme ai principi del sistema accusatorio; la competenza collegiale (che troverà pratica attuazione solo dopo due anni dalla promulgazione della legge, solo per la ipotesi della misura in carcere e solo per i reati di minore allarme sociale) esprime l’intendimento di rafforzare l’autonomia del controllo di giurisdizione - notoriamente passaggio critico - del giudice per le indagini preliminari sulle posizioni delle Procure richiedenti. Affidare a tre giudici, e dunque al confronto della camera di consiglio, la decisione sulla libertà personale, è cosa buona perché garanzia dell’autonomia e della maggior ponderazione del giudizio. Inquietanti alcune delle critiche mosse dalla Magistratura associata, per la quale la riforma metterebbe in difficoltà i piccoli tribunali, che sarebbero travolti dalle incompatibilità: come dire, la scelta è giusta ma non c’è personale. La prima obiezione è che la richiesta della misura di extrema ratio dovrebbe essere residuale e presentarsi in un numero limitato di casi; la seconda è che una garanzia è una garanzia: mandare la gente in galera non è proprio l’erogazione di un servizio che in tempi di magra può essere ridotto nel numero degli addetti. Suggestivo è un altro profilo della critica, e cioè se per una decisione provvisoria come la cautela si prevede un giudice collegiale è contraddittorio che poi sia affidata al monocratico la decisione di responsabilità. Giusto. Potremo intanto prevedere che, per tutti i reati per i quali è consentita la cattura, anche la cognizione sia collegiale. Ciò che invece deve essere ben chiaro è che davanti a quel giudice collegiale non si formerà alcuna prova ma si svilupperà un contraddittorio attenuato, che consentirà alla persona sottoposta all’indagine di rappresentare le sue ragioni, peraltro dinanzi al solo componente del collegio delegato, e di misurarsi con il materiale raccolto dal Pubblico Ministero e posto a fondamento della richiesta della più grave misura detentiva. La nuova garanzia determina che la decisione sia frutto del confronto tra i tre giudici. Nulla a che vedere con la realizzazione del contraddittorio nel momento della formazione della prova, che necessariamente si svolgerà solo davanti al giudice del dibattimento. Precisazioni queste forse scontate ma necessarie poiché già si sentono i tamburi giustizialisti, per i quali ogni garanzia è un lusso, che iniziano a dire della conseguente inutilità - o quantomeno della ridondanza - dei rimedi cautelari; se un giudice collegiale ha appena accolto la richiesta del carcere da parte del Pubblico Ministero, che senso ha un giudizio di riesame? Ed invece la valutazione collegiale non potrà mai travolgere il diritto dell’imputato a richiedere la rivalutazione di quel provvedimento, non solo perché ciò è garantito dalle convenzioni internazionali ma perché rappresenta l’essenza dell’habeas corpus: un secondo giudice è chiamato, su richiesta dell’arrestato, a valutare la giustizia e la regolarità di quel provvedimento, addirittura oltre quanto dedotto dalla difesa. È una garanzia per l’imputato ma è anche una garanzia per il sistema che, a fronte della privazione della libertà personale consente nell’immediatezza un nuovo controllo. Pensare di superare questo, a fronte della previsione della collegialità, sarebbe tradire una scelta di civiltà più antica del nostro codice. *Avvocato penalista In Cdm i test per i magistrati, e l’Anm si prepara alla battaglia di Valentina Stella Il Dubbio, 26 marzo 2024 In Cdm gli schemi di decreto attuativo sull’ordinamento giudiziario e sui magistrati fuori ruolo, ultimo step prima che la norma diventi legge. Oggi alle 17:30 il Consiglio dei Ministri approverà, tra gli altri, gli schemi di decreto attuativo sull’ordinamento giudiziario e sui magistrati fuori ruolo, ultimo step prima che la norma diventi legge, dopo un parto durato molto mesi e che ha sforato anche i tempi previsti inizialmente dalla Cartabia. E già sono iniziate le polemiche da parte dell’Associazione Nazionale Magistrati su un punto specifico, ossia quello dei test psicoattitudinali. Come leggiamo nella relazione introduttiva al provvedimento, aggiornata al week end, l’articolo 5 inserisce i test psicoattitudinali per gli aspiranti magistrati. Si tratta del nuovo comma 6-bis dell’articolo 1 del decreto legislativo n. 160 del 2006, che prevede “che terminate le prove orali debbano essere designati degli esperti qualificati per la verifica della idoneità psico-attitudinale allo svolgimento delle funzioni giudiziarie. Si prevede, poi, che tanto le linee di indirizzo, quanto le procedure per lo svolgimento dei relativi accertamenti siano determinati dal Csm d’intesa con il Ministro della giustizia, in considerazione delle garanzie costituzionali di autonomia e indipendenza della magistratura e delle prerogative che la Carta riconosce al Consiglio e al Ministro della giustizia stesso”. In una nota di due giorni fa l’Anm ha già espresso “sconcerto” per questa previsione del Guardasigilli, stigmatizzandone la “superficialità”, l’eccesso di delega di materia, l’aver “frustrato ogni aspettativa di rispetto della cornice costituzionale” e la vaghezza: non sappiamo “quali le conseguenze di un eventuale risultato negativo, quali le figure professionali che li effettueranno e li valuteranno”. Sulla questione è tornato il vertice del “sindacato” delle toghe, Giuseppe Santalucia, intervenendo a margine di un evento dell’Anm a Messina: “Il governo sta introducendo i test eludendo la volontà parlamentare e lo fa con una norma talmente generica che elude un altro principio che governa la giurisdizione, la riserva di legge. Cosa sono questi test, a cosa servano, non ce lo ha spiegato nessuno: così diventa un proclama contro i magistrati, per far pensare che hanno bisogno di essere controllati dal punto di vista psichico o psichiatrico”. Alcuni magistrati poi temono che in modo subdolo si possano anche selezionare i futuri colleghi in base al loro orientamento religioso, politico, culturale. E questo aprirebbe ad una strada di incostituzionalità della norma. Intanto oggi il consigliere laico del Csm Ernesto Carbone (Iv), sostenuto da tutti i consiglieri togati e dai laici Romboli e Papa, ha chiesto una “apertura urgente di una pratica in Sesta Commissione avente ad oggetto “la verifica dell’idoneità psicoattitudinale”, verifica non contemplata nello schema di dl e sulla quale, quindi, il Csm non ha avuto modo di esprimersi”. Critiche sono arrivate anche da una nota di Magistratura Indipendente, che sembra voler, paradossalmente, segnare una distanza dal Governo, proprio come per il concorso straordinario. Ma lo schema scontenta anche chi fino ad ora ha fatto dall’opposizione stampella al Governo, ossia Azione, in particolare con il responsabile giustizia Enrico Costa che dice: “Nordio demolisce il fascicolo per la valutazione del magistrato contro la cui istituzione Anm scioperò. Non conterrà l’esito di tutti gli atti del magistrato, ma solo una selezione “a campione”. Esattamente come prima. Voglio proprio vedere come voterà Salvini in Cdm, lui che ripete come un mantra che i magistrati che sbagliano devono pagare per i loro errori. Questo passaggio ci porta anche a trarre delle conclusioni definitive nei confronti del ministro Nordio, verso le cui dichiarazioni programmatiche avevamo mostrato grande fiducia. Ci sta deludendo molto, perché ha sacrificato l’identità garantista”. Su questo punto si legge nella relazione: “Al riguardo le Commissioni Giustizia della Camera e del Senato nei rispettivi pareri hanno evidenziato l’opportunità che siano inseriti nel fascicolo personale tutti gli atti e i provvedimenti redatti da ciascun magistrato e non soltanto quelli scelti a campione. L’accoglimento integrale di questa osservazione è stato ritenuto impraticabile, perché non sarebbe gestibile il travaso nel fascicolo di tutti i numerosissimi provvedimenti che un magistrato adotta nel corso del quadriennio”. Si tratta, infatti, di centinaia e centinaia di fascicoli all’anno per toga. Anche la “grave anomalia” concernente l’esito degli affari nelle successive fasi e gradi del procedimento e del giudizio dovrebbe essere valutata su un campione. Ma su questo l’Anm espresse in audizione serie perplessità: “le gravi anomalie possono essere date da una valutazione complessiva dell’esito degli affari. Se io su un numero ampio di esito nei gradi successivi ho un dato numerico particolarmente importante allora la grave anomalia c’è. Ma non posso valutare la grave anomalia su una singola campionatura. Nella definizione di grave anomalia devi comunque tener conto dell’andamento statistico. È l’andamento statistico anomalo che può significare la spia per cui il Consiglio giudiziario e il Csm devono attivarsi a verificare cosa c’è dietro”. Altrimenti il rischio è di continui ricorsi al Tar da parte dei magistrati che riterranno quella presunta anomalia un incidente di percorso rispetto ad una carriera senza macchia. Tra le toghe alberga ancora la speranza che sino ad oggi pomeriggio questa previsione salti, come saltò qualche settimana fa quella sul concorso straordinario per entrare in magistratura destinato agli avvocati e come saltarono a novembre sempre i test perché il capo del legislativo Mura si oppose al Sottosegretario Mantovano. Ma questa volta sembra che il Governo faccia sul serio e questo non rasserena gli animi con la magistratura associata, considerando anche che dopo Pasqua dovrebbe arrivare una proposta dell’Esecutivo sulla separazione delle carriere. Sta di fatto che l’Anm non vuole una guerra con la politica: rispetto alle ricostruzioni giornalistiche, ha concluso Santalucia, “non c’è nessuna guerra e nessun contrasto”, con la politica “solo ragioni tecniche assolutamente fruibili da parte di tutti”. Nordio sfida le toghe sui test psicoattitudinali di Ermes Antonucci Il Foglio, 26 marzo 2024 Il ministro della Giustizia propone l’introduzione di test psicoattitudinali per l’accesso in magistratura. L’Associazione magistrati insorge: “Incostituzionale”. Oggi il Consiglio dei ministri. Resta il nodo valutazioni. Test psicoattitudinali per i magistrati, valutazione della professionalità, collocamento fuori ruolo. Sono i tre aspetti principali su cui si concentreranno i decreti legislativi che saranno approvati oggi pomeriggio dal Consiglio dei ministri. Tre questioni che rischiano di riaccendere lo scontro fra governo e magistratura, come dimostra la presa di posizione preventiva dell’Associazione nazionale magistrati, che, riunitasi sabato, ha definito “contrari alla Costituzione” i test psicoattitudinali per l’accesso in magistratura. Intanto Enrico Costa (Azione) attacca il ministro Nordio sulla valutazione delle toghe: “Grazie a lui i magistrati che sbagliano non pagheranno”. Stando all’ultima bozza del decreto legislativo sull’ordinamento giudiziario, terminate le prove orali per l’accesso in magistratura saranno “designati degli esperti qualificati per la verifica della idoneità psicoattitudinale allo svolgimento delle funzioni giudiziarie”. Il provvedimento specifica che sia “le linee di indirizzo, quanto le procedure per lo svolgimento dei relativi accertamenti” saranno determinati dal Consiglio superiore della magistratura d’intesa con il ministro della Giustizia. “Il governo sta introducendo i test eludendo la volontà parlamentare e lo fa con una norma talmente generica che elude un altro principio che governa la giurisdizione, la riserva di legge”, ha attaccato ieri Giuseppe Santalucia, presidente dell’Anm, sostenendo dunque che il governo sia andato oltre i princìpi stabiliti dalla legge delega approvata ormai nel giugno 2022. “Cosa sono questi test, a cosa servano, non ce lo ha spiegato nessuno - ha aggiunto Santalucia -. Così diventa un proclama contro i magistrati, per far pensare che hanno bisogno di essere controllati dal punto di vista psichico o psichiatrico”. In realtà, come già evidenziato in passato su queste pagine, i test psicoattitudinali sono già previsti per una moltitudine di categorie di funzionari pubblici (dalle forze dell’ordine a quelle armate). Se sull’introduzione dei test il governo sembra intenzionato ad andare fino in fondo, fonti vicine a Palazzo Chigi fanno sapere che sulla valutazione dei magistrati sono ancora in corso discussioni fra i partiti di maggioranza. A far scoppiare il caso è stato il deputato di Azione, Enrico Costa, che ha accusato il Guardasigilli Carlo Nordio di aver tradito l’intento della legge delega. Quest’ultima, infatti, ha previsto l’istituzione del “fascicolo per la valutazione del magistrato”, cioè un fascicolo che contiene gli esiti dell’attività di ciascuna toga (dalle inchieste flop, alle sentenze ribaltate, fino gli arresti ingiusti). “Un’innovazione di portata storica”, ricorda Costa, perché oggi, pur essendo previsto dalla legge che le valutazioni di professionalità debbano tenere conto dell’esito degli atti del magistrato, questa analisi è inattuata, proprio per la mancanza di un fascicolo che racchiuda tutta l’attività. Risultato: il 99,6 per cento delle valutazioni di professionalità ha esito “positivo”. Il governo, però, ha di fatto annullato questa innovazione in fase di attuazione: “Nordio, anziché scrivere che nel fascicolo ci sono tutti gli esiti degli atti del magistrato, prevede che ci rientrino esiti ‘a campione’, così facendo ha reso la valutazione una farsa, esattamente come oggi”, sottolinea Costa. A quanto risulta al Foglio, su questo punto sarebbero ancora in corso trattative fra i partiti di governo (e lo stesso Nordio). Per quanto la norma cerchi di risolvere un problema serio, tuttavia, risulta difficile immaginare che il sistema giudiziario sia capace di gestire il travaso nei vari fascicoli di tutte le centinaia di provvedimenti adottati da un magistrato nel corso del quadriennio, più i relativi esiti nelle fasi successive, e che a questo travaso segua l’esame di tutti gli atti per valutare la professionalità del pm o del giudice da parte dei consigli giudiziari e poi del Csm. Andrebbe forse trovata un’altra soluzione più fattibile. Un altro decreto legislativo sarà dedicato al collocamento fuori ruolo dei magistrati. Il testo quasi sicuramente confermerà il passo indietro sulla riduzione delle toghe fuori ruolo: dopo aver proposto di ridurle da 200 a 180, ora si è deciso di rinviare il taglio al 2026 con la scusa del Pnrr. “Vi racconto i miei sette anni di calvario. Il Pd? O è garantista o non è” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 26 marzo 2024 Chiacchiericcio, uccellini che cantano, il vociare di alcuni bambini in sottofondo. Quando Luca Lotti risponde al telefono si scusa per non averlo fatto prima, ma, dice, “ho avuto bisogno di staccare per godermi i miei figli”. Poi ci dedica mezz’ora in cui ripercorre sette anni di processo “strano e assurdo”, fa le pulci al Pd che “o è garantista o non è” e non chiude del tutto a un ritorno in politica. “Quello che sarà il futuro si vedrà”, commenta, “ma non ho bramosia di incarichi”. Come ha vissuto gli ultimi sette anni e mezzo, prima dell’assoluzione? Sette anni e mezzo sono lunghi per qualsiasi cosa, figurarsi per un processo. Tutto nasce nel dicembre 2016: da sottosegretario divento ministro e sette giorni dopo il giuramento nasce l’inchiesta che, di per sé, è piuttosto assurda. Mi ritrovo infatti accusato di due reati, cioè favoreggiamento e rivelazione, che sono “strani”. Nel senso che mi si accusa di aver rivelato qualcosa che non è competenza del mio ufficio e di aver favorito uno che non era indagato. Alla stranezza di tutto ciò si aggiunge il fatto che due anni dopo, nel 2018, ritrovo al fianco, nello stesso processo, quelli che hanno fatto le indagini, accusati di falso e altri reati. Ora loro sono stati condannati, io assolto. Cosa ha provato nel momento in cui si è reso conto dell’indagine? Ha pensato qualcosa del tipo “mi hanno fregato”? In quei momenti non ti rendi conto di nulla. Peraltro non ho mai ricevuto un avviso di garanzia. Ho ricevuto solo una chiamata dal Fatto quotidiano il 21 dicembre in cui mi davano notizia dell’indagine e il giorno dopo mi sono presentato di mia spontanea volontà per chiarire tutto. E pensavo che finisse così. Ma dal giorno dopo mi sono accorto che l’obiettivo non era colpire me, ma distruggere una storia politica. Volevano smontare anni di governo che legittimamente possono essere contestati, ma non opponendo alla politica le inchieste giudiziarie. Subito dopo si è susseguita una mozione di sfiducia, poi due elezioni politiche, il litigio con Letta: cosa le è rimasto di quegli anni? Ho affrontato la mozione di sfiducia in Parlamento a testa alta e ho fatto il ministro per un anno e mezzo, da indagato, facendo quello che credevo fosse giusto per lo sport nel nostro Paese. Poi ci sono state le elezioni politiche del 2018 ma la seconda legislatura l’ho vissuta in maniera più pesante perché soffrivo il rinvio a giudizio e il processo stesso, fino ad arrivare alla non ricandidatura con Letta. Arriviamo anche a quello, prima però mi dica: quando ha capito che forse il castello di carte si stava smontando? Non ho mai saputo come sarebbe andata a finire fino all’una e mezzo dell’undici marzo, quando sono stato assolto. Ma da quando le udienze cominciavano a diradarsi ho capito che nessuno ci credeva più, in primis i pm. D’altronde ho partecipato a tutte le udienze, compresa quella fissata nel giorno della rielezione di Mattarella. Tuttavia il mio timore era quello di vedere la prescrizione portare via tutto. È stata la presidente del tribunale, la dottoressa Roia, a dare un’enorme lezione a tutti. Anziché dichiarare il reato prescritto ha comunque emesso sentenza. Poteva tranquillamente dichiarare prescritto il reato e finiva lì, e invece ha voluto comunque dichiarare l’assoluzione. Un fatto che mi ha colpito molto. Crede anche lei, come molti, che la sua vicenda, così come tante altre che si sono susseguite in questi anni, faccia parte della cosiddetta “guerra dei trent’anni” tra magistratura e politica? Il tema del rapporto tra politica e magistratura è molto largo e vorrei affrontarlo seguendo due tronconi diversi. Il primo: che ci debba essere un confronto tra politica e magistratura lo dice la Costituzione. D’altronde il Csm per una parte è composto da laici eletti dal Parlamento. È vero, come ho detto, che la vicenda dell’hotel Champagne non ci sarebbe stata se non ci fosse stato il caso Consip, ma è altrettanto vero che avrei comunque parlato con dei magistrati così come lo fanno oggi tanti miei colleghi, prima, durante, o dopo cena. Che i politici facciano delle scelte per le nomine dei procuratori, tramite le persone che sono nel Csm, è palese. Il secondo: non so se esista o sia esistita una guerra tra politica e magistratura ma un conto è che i magistrati aiutino a fare le leggi, altro conto è se si pensa di far fuori degli avversari politici tramite i magistrati. Che ruolo ha la Magistratura in tutto questo? I magistrati devono rendersi conto che quando fanno un’inchiesta hanno un grande potere mediatico. Quando si indaga su un ministro potenzialmente si possono cambiare le sorti di un governo, e questo non vuol dire che non lo devono fare ma che devono avere maggiore attenzione. Non si può dire, come fa Rosy Bindi, che le inchieste sui politici devono essere fatte più in fretta. I politici hanno gli stessi diritti dei cittadini: io da un giorno all’altro mi sono visto crollare il mondo addosso salvo essere considerato innocente dopo sette anni, cosa che succede ad esempio a molti imprenditori che finiscono sul lastrico e poi faticano a ripartire, magari dopo anni di calvario giudiziario. A proposito di calvario, come ha vissuto dal punto di vista personale la vicenda che l’ha coinvolto? Ricordo che in quei giorni mi colpì in negativo non tanto la mozione di sfiducia in Parlamento dei Cinque Stelle quanto il fatto che alcuni membri del mio partito, prima ancora di capire di cosa fossi accusato, si siano affrettati a chiedere un mio passo di lato. Tutta gente, tra l’altro, che non si è fatta sentire nemmeno due settimane fa, quando è finito tutto. Pensa che il Pd sia ancora quel partito che faceva del garantismo uno dei suoi punti fermi, almeno all’inizio del proprio percorso politico? Tanti colleghi mi hanno sostenuto, ma il problema è che un partito che si definisce democratico, che ha sempre fatto del garantismo uno dei suoi capisaldi e che si ispira a quella Costituzione frutto della Resistenza, non può non essere garantista, e non solo a favore dei propri membri, ma con tutti. In questi anni mi riempiva il cuore affrontare questi argomenti con alcuni fiorentini che io reputo dei maestri, persone iscritte all’Anpi, che hanno fatto la Resistenza e che mi dicevano di andare avanti a testa alta, lasciando perdere chi la voleva buttare solo in politica, anche nel mio partito. Già, il partito…Schlein l’ha chiamata dopo l’assoluzione: non è che sta facendo pensando di dedicarsi ancora alla politica? Guardi, ho ricostruito la mia vita, sto facendo l’advisor per varie aziende e seguo il gruppo riformista del Pd. Quello che sarà il futuro si vedrà ma non ho bramosia di incarichi. Provo a raccontare quel che è successo perché il mio partito faccia tesoro di quanto accaduto e perché si sconfigga la destra su un campo diverso dalla giustizia. Certo la politica è stata la mia vita, ma ora mi godo il presente. Un’ultima domanda: se le faccio due nomi, Matteo Renzi ed Enrico Letta, cosa le viene in mente? Uno preferisco non sentirlo nemmeno, e non è Matteo Renzi. Con il quale ci siamo divisi dal punto di vista politico perché non ho condiviso la scelta che ha fatto. Ma ci parliamo, siamo rimasti amici, non è mai mancato il rispetto e rifarei tutto quello che ho fatto. Su Letta…mi lasci tornare dai miei figli, che sono molto più importanti. Torino. Ucciso dal carcere: Alvaro Fabrizio Nuñez Sanchez si è suicidato in cella di Irene Famà e Gianni Giacomino La Stampa, 26 marzo 2024 Aveva problemi psichiatrici e da novembre doveva essere trasferito in una Rems. La sua legale: “Attese troppo lunghe”. E la garante Gallo attacca Nordio. Alvaro Fabrizio Nuñez Sanchez aveva trentuno anni. Ed era affetto da gravissimi problemi psichici. Schizofrenico, paranoico. Quei demoni nella testa non li riusciva a controllare. Lo scorso agosto aveva tentato di uccidere il padre ed era finito in carcere. Ma lui, nel penitenziario di Torino, non avrebbe dovuto stare così a lungo. Da novembre attendeva di essere trasferito in una Rems (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza), una di quelle strutture che accolgono i detenuti dalla mente fragile. Rinvii continui. Lì, per lui, non c’era posto. Così Alvaro è rimasto al Lorusso e Cutugno di Torino per sette mesi. E domenica sera, intorno alle 20.30, si è suicidato. Ha preso un lenzuolo di quelli dati in dotazione a chi è recluso, l’ha legato intorno alle sbarre della cella e poi l’ha stretto intorno al collo. E ora si torna a parlare dell’emergenza carceri. Sempre più affollate. Sempre più complesse da gestire. C’è carenza di agenti penitenziari, come denuncia da tempo il sindacato Osapp. E i numeri degli educatori e dei medici sono sempre più esigui. Nel carcere di Torino, gli psichiatri sono cinque. Trattano 3.500 casi l’anno. Alvaro, nato in Ecuador, era arrivato in Italia all’età di cinque anni. Appassionato di calcio, le sue giornate le passava al campetto vicino a casa. Si era diplomato all’istituto Sommeiller: ragioniere perito commerciale. Il suo sogno sarebbe stato iscriversi all’università. Studiare economia, diventare, chissà, un manager. Ma i demoni della sua mente hanno deciso altro. Rabbia, violenza. Mamma e papà lo sapevano bene. Nel 2014, Alvaro aveva già tentato di togliersi la vita: si era lanciato dalla finestra di casa, dal quarto piano di un palazzo in centro città. Poi, nel 2018, è finito sul banco degli imputati per maltrattamenti alla madre. Una perizia l’aveva dichiarato incapace di intendere e di volere. Un ricovero dopo l’altro in ospedale e in strutture specializzate. Una serie di Tso. Poi cure e medicine. Ma per il giovane Alvaro il futuro era sempre più incerto. Il 26 agosto 2023, mentre papà Edmundo dormiva, il trentunenne l’ha assalito con un coltello. “Sono i demoni”, aveva detto durante l’arresto. Vaneggiando. Ostaggio della sua patologia. Le manette, il carcere. Una perizia che registra, nero su bianco: Alvaro non è capace di intendere e di volere. Ed è socialmente pericoloso. Il pubblico ministero dispone la detenzione in una Rems. In Piemonte, di strutture di questo tipo ce ne sono solo due. “Liste d’attesa troppo lunghe. È stato impossibile trovare posto per lui”, dice la sua avvocata, la penalista Francesca D’Urzo. Sulla morte di Alvaro, la procura di Torino ha aperto un’inchiesta affidata al pubblico ministero Valeria Sottosanti. E gli inquirenti hanno sequestrato cartelle cliniche e documentazione. E ora tutti si chiedono se questa tragedia si sarebbe potuta evitare. La garante comunale dei detenuti Monica Gallo attacca il Governo: “Dal ministro della Giustizia ci sono state solo parole, nessuna azione mirata. È un atteggiamento non più accettabile”. Ricorda una data: l’11 agosto 2023. Azzurra Campari, 28 anni, si era impiccata in carcere. Susan John, 43 anni, era morta in cella dopo tre settimane di digiuno. Anche loro avevano problemi psichici. Anche su queste vicende le indagini sono in corso. Da inizio 2023, in tutta Italia, 27 persone si sono suicidate in carcere. Nel 2022 erano state 57. Numeri allarmanti. Eppure il problema dei posti nelle Rems, di cui si parla da anni, continua a restare tale. Torino. Il padre del detenuto suicida: “Fabrizio vittima di un’ingiustizia, hanno imprigionato un malato” di Elisa Sola La Repubblica, 26 marzo 2024 Edmundo Nunez era stato accoltellato dal figlio: “Era una persona buona, quando stava per avere una crisi mi avvisava. In sei anni ha fatto 5-6 visite psichiatriche ma nessuno lo ha mai preso in carico”. “Mi sento impotente. Milioni di volte mi sono chiesto come fosse possibile che con una cartella clinica del genere, mio figlio stesse in prigione. Mi hanno insegnato da bambino che la giustizia è una bilancia. Dovrebbe essere uguale per tutti, ma invece non è così. Per mio figlio non è andata così. Se non c’era posto in Rems, dovevano metterlo in una casa di cura. Non farlo morire”. Non si dà pace Edmundo Nunez, 63 anni, dopo avere saputo che il figlio Fabrizio Alvaro Nunez Sanchez, arrestato per tentato omicidio nei suoi confronti alla fine di agosto, si è ucciso in carcere. “Lo avevo sentito proprio domenica. Mi rassicurava, diceva che andava tutto bene. Ha chiesto di me, della mamma e dei fratelli. Non riesco a crederci. Piango, ma sono anche arrabbiato. Non dovevano tenerlo lì. Come si fa a lasciare in una cella una persona malata?”. Edmundo Nunez conviveva con il figlio dal 2018. Non aveva paura di lui. “Ci volevamo molto bene. Non temevo nulla. Lui era gentile, dolce, studioso. Se sentiva che stava per venirgli una crisi, mi avvisava. Diceva papi, non sto bene. E allora gli facevamo una puntura. Lo abbiamo sempre seguito. Abbiamo dato tutti i documenti della Asl al tribunale. Come mai era in galera? Come hanno potuto metterlo dentro fin dall’inizio?”. Il fatto che indigna, e fa più male, al padre dell’ennesimo detenuto suicida del nostro Paese, è che nessuno, nel sistema di chi amministra la giustizia, avrebbe imparato “la lezione”. E per Edmundo, “la lezione” è un concetto semplice. Significa imparare dagli errori passati. “Fabrizio è sempre stato un bravo figlio. Lo hanno ammanettato nel 2018 perché un giorno ha dato uno spintone alla madre. E già allora avrebbero dovuto capire che il carcere non era la soluzione. All’epoca ho pensato, gli farà bene, magari è come una punizione. Ma credevo durasse un mese. Invece lo hanno tenuto dentro un anno. Quando è uscito era peggio di prima”. Il Covid ha quasi bloccato del tutto il percorso di cura di Fabrizio, di cui il padre non è mai comunque stato soddisfatto. “Sono andato, di persona, decine di volte alla Asl in via San Secondo. Chiedevo aiuto. Tra il 2016 e il 2022 mio figlio ha fatto cinque o sei visite psichiatriche. Non sono poche? Speravo che se lo prendessero a carico, affiancandogli qualcuno, più spesso, per più volte. Anche perché da quando si era buttato giù dal balcone era peggiorato molto. Era anche finito in un reparto psichiatrico. Ma era scappato dall’ospedale. Per lui era adatta la casa di cura, perché aveva bisogno di essere sorvegliato. Se invece di metterlo di nuovo in carcere, dopo che mi ha dato quelle coltellate, lo avessero trasferito in una casa di cura, sono sicuro che sarebbe stato meglio. Mio figlio aveva voglia di guarire. E magari un giorno avrebbe potuto continuare a vivere con me, a casa mia. Io gli volevo un sacco di bene. E lui a me”. Torino. L’allarme dei pm: “Poche Rems e sempre piene, così i malati psichiatrici restano in carcere” di Elisa Sola La Repubblica, 26 marzo 2024 Dopo il suicidio di un giovane al carcere Lorusso e Cutugno di Torino, torna di tragica attualità il nodo delle residenze per carcerati con problemi di salute mentale. L’allarme sulle condizioni dei detenuti che hanno problemi psichiatrici è stato lanciato non soltanto dalle associazioni, dai garanti e, più volte, dagli avvocati, ma anche dai magistrati. Alcuni mesi fa, al Palagiustizia di Torino, giudici e pm hanno organizzato un convegno per ribadire un concetto fondamentale: “I malati psichiatrici in carcere non dovrebbero nemmeno entrarci”. Lo avevano spiegato, con queste parole, le giudici Immacolata Iadeluca e Giulia Maccari, ricordando che dentro gli istituti penitenziari accade anche che, persone soltanto “semi” inferme, “sviluppino vere patologie” stando dietro le sbarre. Susanna Marietti dell’associazione Antigone aveva ricordato: “Quello che ho visto dentro al carcere di Torino è la violazione della dignità delle persone e la creazione della disperazione. C’è una responsabilità di sistema, e non solo. Meno del 3 percento del budget del sistema sanitario nazionale è destinato alla salute mentale. E se c’è’ stata una sentenza della corte costituzionale che ha salvato il sistema delle Rems, le ha salvate soltanto perché altrimenti non c’era altro di meglio”. Ma le Rems, le Residenze per le misure di sicurezza, che ospitano i detenuti con problemi psichiatrici, in Piemonte sono solo due (a Bra e a San Maurizio Canavese) e comunque sono piene. “Ci sono centinaia di persone che aspettano di essere ricoverate in Italia, dai 200 ai mille”, aveva stimato Marietti. Continuano ad aspettare. Se la Costituzione e le leggi stabiliscono che nessuna persona incapace di intendere e di volere, e bisognosa di cure, debba essere reclusa, come mai accade il contrario? Lo aveva spiegato la pm Lisa Bergamasco, dopo avere premesso: “Carcere e malati psichici sembrano un ossimoro, perché a rigore e in teoria i malati psichici in carcere, nella maggior parte dei casi, non dovrebbero starci”. “I malati psichiatrici entrano in carcere perché c’è stato un arresto o è stata chiesta una misura”, aveva precisato ricordando cosa prevede la procedura. “Dopo la consulenza psichiatrica - aveva detto - se la valutazione del consulente va nel senso della sussistenza di profili di pericolosità sociale contenibile solo con una misura di sicurezza detentiva, si apre il baratro delle Rems, perché i mesi di lista d’attesa sono incompatibili con l’urgenza di contenere la pericolosità sociale”. A rendere tutto ancora più complicato è il fatto che spesso gli arrestati malati vengono da contesti familiari fragili. “Molte volte i maltrattamenti sono commessi da figli con problemi psichici o psichiatrici a danno dei dintorni, che magari da tutta la vita se ne fanno carico”, aveva detto Bergamasco. Ed è esattamente il caso di Fabrizio Nunez Sanchez, l’ennesimo detenuto suicida in carcere. Le Rems, che sono amministrate dal Dap, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, hanno sostituito i manicomi giudiziari. Vengono chieste nel caso di vizio totale di mente e della “elevata pericolosità, contenibile solo attraverso una misura detentiva”. Non costituiscono, secondo quanto emerso al convegno, la soluzione ideale per chi ha un problema di salute mentale. Ma sono quanto meno la soluzione che fa meno male a chi soffre di patologie gravi, e al tempo stesso sono in grado di salvaguardare la comunità dai detenuti socialmente pericolosi. Ma le Rems, poche e sempre piene, sono un’utopia. “Quindi - aveva concluso la pm Bergamasco - va a finire, spesso, che l’indagato resta in carcere come un internato, sino a che non si libera un posto”. Torino. La Garante dei detenuti dopo l’ennesimo suicidio: “Il ministro Nordio è sparito” di Irene Famà La Stampa, 26 marzo 2024 L’accusa al governo di Monica Gallo: “Dopo gli incontri non c’è stato nessun provvedimento, solo parole e mai un’azione mirata”. “Dal ministro della Giustizia ci sono state solo parole, nessuna azione mirata. È un atteggiamento non più accettabile”. La garante dei detenuti Monica Gallo non utilizza mezzi termini. E davanti all’ennesimo caso di suicidio nelle carceri italiane chiama in causa direttamente il Guardasigilli Carlo Nordio. Accusa il Governo di essere silente. Come mai? “Il 13 agosto scorso, dopo che due donne si erano tolte la vita in cella, il ministro Nordio, con tutti i vertici dell’Amministrazione penitenziaria, aveva fatto immediatamente visita a Torino”. Al Lorusso e Cutugno? “Certo. Con lui anche il suo capo di gabinetto e il capo del Dap. E c’erano tutte le istituzioni cittadine”. Cosa si era deciso? “Di istituire un tavolo di lavoro sull’emergenza carcere. Tutte le criticità erano state illustrate”. Poi? “A settembre siamo stati convocati a Roma per dare continuità al tavolo”. Incontri successivi? “Nessuno. Nessun incontro, nessun contatto. E soprattutto nessuna iniziativa intrapresa. E i problemi del carcere restano lì”. Di quali criticità parla? “Inizierei dal sovraffollamento”. Può fornirci qualche dato? “Da mesi a Torino il numero dei detenuti si aggira sempre intorno ai 1450 su 1064 posti regolamentari”. Si era parlato di utilizzare le caserme dismesse per risolvere il problema. “Non ho mai condiviso questa proposta, per ristrutturare una caserma ci vuole tempo, risorse e organizzazione. Però nemmeno su quello si è più saputo nulla. C’è poi un altro aspetto”. Quale? “Quello della riduzione dei circuiti”. Ovvero? “Al Lorusso e Cutugno ci sono tutti i circuiti, tranne il 41bis. Si era avanzata l’ipotesi di spostare i collaboratori di giustizia e i detenuti di alta sicurezza, che rischiano di essere ghettizzati”. Riscontri? “Nessuno. C’è poi la questione del personale”. È insufficiente? “Ora la direttrice è a tempo pieno, ma la vice continua ad essere anche titolare di un altro istituto”. I sindacati della polizia penitenziaria denunciano carenza di organico. “Hanno ragione. E le faccio altri esempi. Un solo mediatore culturale, sedici educatori, di cui due arrivati in questi giorni, quando ne sarebbero previsti 18. Numeri insufficienti”. Alvaro, Azzurra, Susan sono i nomi dei detenuti suicidi in cella. Tutti avevano problemi psichici. C’è un’emergenza? “Sì, sempre più detenuti soffrono di fragilità psichiche. È un aspetto sempre più diffuso e preponderante”. Quanti sono gli psichiatri in carcere? “Cinque. Di nuovo troppo pochi. Un numero irrisorio. E in un anno fanno oltre 3500 prestazioni. C’è poi un altro aspetto da raccontare”. Mi dica. “Si continuano a non fare colloqui di primo ingresso con gli psicologi dell’Asl, richiedendo a quelli dell’amministrazione penitenziaria di svolgere un compito che non spetta a loro”. E nelle Rems, quelle strutture che accolgono autori di reati con disturbi mentali, non c’è più posto. È vero? “E i tempi d’attesa sono lunghissimi”. Stesse fragilità e stessi problemi vengono riscontrati anche nella sezione femminile? “Sì. E lo racconta la storia delle due donne suicide la scorsa estate, Azzurra Campari e Susan John. Nel 2023, i detenuti che si sono tolti la vita sono stati 57. Da inizio anno, in tutta Italia, sono 27. Lo ricordo al ministro Nordio”. Un appello? “Basta stare in silenzio, non c’è più tempo”. Catania. Il boss scrive al giudice: “Ho scelto di pentirmi per salvare i miei nipotini” di Salvo Palazzolo La Repubblica, 26 marzo 2024 I provvedimenti di Roberto Di Bella, presidente del tribunale per i minorenni, convincono altri esponenti dei clan mafiosi a rompere il muro dell’omertà. Intanto i clan coinvolgono sempre più bambini nelle attività di spaccio. “Pusher anche a sette anni”. La lettera era un po’ sgrammaticata, ma i toni molto accorati: “Signor giudice Di Bella, grazie per i provvedimenti che ha preso nei confronti dei miei nipotini dopo l’arresto della nostra famiglia. Mi sono reso conto che i bambini non possono fare la vita che ho fatto io, entrando e uscendo dal carcere. Loro hanno diritto a un destino migliore. Per questo ho scelto di iniziare a collaborare con la giustizia”. E di seguito la firma di un influente boss catanese specializzato nel narcotraffico che nei mesi scorsi è tornato in carcere, assieme ad alcuni suoi familiari. “Queste lettere sono sempre un’emozione grande”, racconta Roberto Di Bella, il presidente del tribunale per i minorenni di Catania, che da anni si impegna per dare un futuro migliore ai figli di mafia: quando lavorava in Calabria ha inventato il progetto “Liberi di scegliere”. “Inizialmente - spiega - alcuni nipoti del capomafia che mi ha scritto erano stati allontanati dalla famiglia, erano andati in comunità con la madre, che intanto stava scontando gli arresti domiciliari, lontano da Catania”. Il destino dei figli di mafia continua a essere cruciale per le sorti dei padrini e dei clan. “Un capomafia, al 41 bis, mi ha chiesto di tenere lontano suo figlio dal quartiere - racconta Roberto Di Bella - in altri casi sono state le mamme a farsi avanti, chiedendo di essere aiutate ad andare via assieme ai figli”. Nel percorso di Roberto Di Bella, fra Reggio Calabria e Catania, ci sono più di 30 donne andate via dalle loro famiglie di appartenenza: sette sono diventate collaboratrici di giustizia. E oggi il protocollo “Liberi di scegliere” verrà firmato a Roma anche dai magistrati di Palermo e Napoli, da cinque ministeri (Giustizia, Interni, Istruzione, Università e Famiglia), dalla Direzione nazionale antimafia e dalla Conferenza episcopale italiana. Un protocollo che assicurerà più risorse per offrire ai figli di mafia un percorso di riscatto, lontano dalle regioni di origine e soprattutto dalle famiglie criminali. “I mafiosi continuano a scrivermi dal carcere - racconta Roberto Di Bella - segno che abbiamo aperto una breccia nel muro dell’omertà”. Di recente, gli ha scritto un ex boss della ‘ndrangheta. Anche lui per ringraziarlo del progetto “Liberi di scegliere”. “Quando sono stati inseriti i miei figli - ha scritto - ho capito che pure io dovevo fare qualcosa per cambiare vita”. E ha iniziato a collaborare con la giustizia. Anche Papa Francesco ha avuto parole di apprezzamento per il protocollo “Liberi di scegliere” in un incontro con il giudice Di Bella, don Luigi Ciotti e alcune donne catanesi che hanno spezzato il legame con le famiglie di mafia. “Davvero questo protocollo può segnare un percorso importantissimo per la lotta ai clan”, dice ancora il presidente del tribunale, che continua a vivere sotto scorta. “Deve passare il messaggio che i provvedimenti adottati dal tribunale per i minorenni non sono punitivi per i genitori, ma sono a tutela dei ragazzi”. E ai mafiosi si rivolge, ancora una volta, Roberto Di Bella: “Aiutateci a evitare ai vostri figli la sofferenza che state provando voi in carcere”. Per la prima volta si è fatto avanti un nonno, l’ultimo collaboratore di giustizia della Direzione distrettuale antimafia di Catania, che ha già contribuito a far arrestare decine di boss e trafficanti di droga. Una scelta che ha messo in crisi altri uomini e donne delle cosche. “È un momento determinante per la lotta alla mafia”, spiega il presidente del tribunale per i minorenni. È il momento in cui Cosa nostra si riorganizza, nonostante i colpi subiti per il lavoro della magistratura e delle forze dell’ordine. Intanto, la droga invade Catania e l’intera Sicilia: “Vengono utilizzati anche bambini di sette anni per spacciare, quelli più piccoli nei passeggini vengono invece usati come scudo durante le attività criminali”, spiega il magistrato. Il protocollo “Liberi di scegliere” è anche una sollecitazione alle istituzioni politiche e sociali a essere sempre più presenti sul territorio. Perché non ci siano più ghetti. “Di recente, la commissione parlamentare Antimafia ha creato anche un gruppo di lavoro perché il protocollo diventi presto un disegno di legge bipartisan”, spiega Di Bella. A guidare il percorso è la senatrice del Pd Enza Rando, fino a qualche tempo fa vicepresidente di Libera, l’associazione che si prende cura dei figli di mafia e dei genitori in cerca di riscatto. Milano. Indagate altre due psicologhe di San Vittore accusate di aver manipolato Alessia Pifferi di Rosario Di Raimondo La Repubblica, 26 marzo 2024 Indagate altre due psicologhe del carcere di San Vittore accusate di aver manipolato Alessia Pifferi. Salgono a quattro le psicologhe indagate nell’ambito dell’inchiesta “bis” su Alessia Pifferi. Due professioniste di San Vittore già da tempo erano coinvolte nel fascicolo per falso e favoreggiamento aperto dal pm Francesco De Tommasi. Per altre due, gli avvisi di garanzia, con le stesse accuse, sono stati consegnati tra il pomeriggio e la sera di ieri. Gli indagati in tutto sono cinque: tra i nomi c’è anche quello di Alessia Pontenani, l’avvocata della donna a processo per aver lasciato morire la figlia. Ma se il procedimento penale sulla 38 enne davanti alla Corte d’assise è ormai alle battute finali - Pifferi rischia l’ergastolo - l’inchiesta parallela che scava sul ruolo di chi l’ha seguita durante la detenzione va avanti e si allarga. L’impianto accusatorio della procura, che coordina il lavoro della polizia penitenziaria, si fonda su queste basi: le psicologhe avrebbero “manipolato” Pifferi in carcere al fine di farle ottenere “l’agognata perizia psichiatrica”, come scritto negli atti del pm, che parla anche di una “rete criminale”. Oltre alle due esperte di San Vittore già indagate, emerge il ruolo - secondo l’accusa - di altre due persone. Nel primo caso si tratta di una psicologa che alterna il lavoro all’Asst Santi Paolo e Carlo alle ore di servizio nella casa circondariale. Avrebbe partecipato alla somministrazione del famoso test di Wais a Pifferi, l’esame (bollato come inattendibile dal perito nominato dal giudice) che certificò il quoziente intellettivo della detenuta pari a quello di una bambina. Senza però firmare la conseguente relazione. La quarta professionista è esterna al carcere ma lavora per la stessa azienda sanitaria della collega. Avrebbe ricevuto, corretto e modificato la relazione sullo stato di salute della donna, non è chiaro a che titolo. Durante il processo sono state dure le valutazioni del pm riguardo al ruolo delle psicologhe nel caso Pifferi: “L’imputata ha reso, nei colloqui con il perito, affermazioni che son state precostituite, imbeccate da altri”. Il confronto sullo stato di salute mentale dell’imputata ha provocato anche scintille in aula. Marco Garbarini, psichiatra e consulente della difesa, ha detto: “Guardando la sua vita (di Pifferi, ndr), come si fa a di che non ci sia stata una compromissione del suo funzionamento in tutte le aree? C’è un disturbo dello sviluppo intellettivo, e quindi una patologia psichiatrica”. E lui non ha ritenuto inattendibile il test somministrato in cella. Allo stesso tempo ieri si respirava preoccupazione tra chi conosce le psicologhe indagate, dopo la notizia dei nuovi avvisi di garanzia. Qualcuno ricordava la lettera firmata da decine di personalità del mondo del carcere, della politica e della società civile e inviata alla procuratrice generale Francesca Nanni e alla presidente del tribunale di sorveglianza Giovanna Di Rosa, nella quale si parlava di “intimidazione” degli operatori. Gli avvocati penalisti milanesi, a inizio mese, hanno anche indetto una giornata di astensione (cioè di sciopero) per protesta. Milano. I detenuti perdono la casa popolare perché non l’hanno “occupata” per sei mesi di Massimiliano Melley milanotoday.it, 26 marzo 2024 Il caso in Consiglio comunale. Giungi (Pd): “Per i detenuti di breve durata è ingiusto”. L’assessore Maran promette che si arriverà a una soluzione. Chi va in carcere rischia di perdere la casa popolare, e di trovarsi per strada quando esce. Decade infatti dall’assegnazione chi non utilizza l’alloggio per sei mesi continuativi. E i detenuti, per definizione, non utilizzano il proprio alloggio mentre sono in carcere. Un paradosso, visto che il rischio di recidiva aumenta parecchio per coloro che escono dal carcere e si trovano a non avere una ‘base’ sociale di ripartenza per la propria vita, che si riassume in due parole: lavoro e, appunto, casa. La questione è stata portata in consiglio comunale a Milano, lunedì 25 marzo, da Alessandro Giungi del Partito democratico, vice presidente della sottocommissione carceri. E, per quel che può fare il Comune, visto che in realtà la normativa è regionale, l’assessore alla casa Pierfrancesco Maran si è impegnato a studiare soluzioni. Per il momento, ha detto Maran, il Comune di Milano, in quanto soggetto che assegna le case popolari, sta cercando di trovare un altro alloggio per la persona, quando questa viene scarcerata. Ma è un rimedio che va meglio strutturato. Il problema riguarda solo i single, perché altrimenti l’alloggio è, anche qui per definizione, occupato dai familiari. L’inghippo nasce dalla legge regionale (del 2016) sull’edilizia residenziale pubblica, che rimanda al regolamento la definizione della “decadenza nei casi di (...) mancata occupazione” (articolo 23, comma 9, lettera g). E il regolamento (del 2017) dice appunto che decade chi “non abbia utilizzato l’alloggio assegnato per un periodo superiore a sei mesi continuativi, salvo che ciò sia stato motivatamente comunicato all’ente proprietario o gestore” (articolo 25, comma 1, lettera c). A leggere bene, dunque, il rimedio sarebbe previsto: bisogna “comunicare motivatamente” al Comune o ad Aler l’impossibilità a occupare l’alloggio, e in ogni caso la decadenza (come si legge sempre nel regolamento, all’inizio dell’articolo 25) “è disposta previo esperimento del contraddittorio”. Ma il risultato è spesso che il detenuto, una volta uscito dal carcere, si trova con la dichiarazione di decadenza, e non ha più una casa. Giungi, nella sua domanda a Maran, ha portato un caso realmente successo di recente, al quartiere Lorenteggio. “Formalmente si prevede la possibilità di motivare, ma di fatto ci sono stati casi in cui il Tar ha dato ragione all’ente”, ha aggiunto il consigliere del Pd a margine della seduta: “Capisco che per i detenuti che stanno in carcere a lungo non si possa tenere ferma la casa, magari per 10 anni, e per loro si troverà un’altra soluzione, ma per chi sta in carcere ad esempio per meno di un anno è ingiusto”. L’assessore Maran ha promesso che, con gli uffici comunali, si sta studiando un “percorso che ci porti a una prassi per la quale, tenendo conto di quel che dice il legislatore, il detenuto sia accompagnato, tramite l’edilizia residenziale pubblica o altre soluzioni, in modo che, all’uscita dal carcere, non si trovi per strada”. Brindisi. Detenuto ha tentato il suicidio in carcere: presentata denuncia in Procura di Emmanuele Lentini brindisireport.it, 26 marzo 2024 L’estremo gesto a Foggia. Il 36enne di San Vito Dei Normanni è attualmente ai domiciliari: nell’atto ha raccontato di aver necessità, in seguito a un intervento chirurgico, di una dieta adeguata. E ha spiegato di aver assunto ansiolitici contro la propria volontà. Dopo aver tentato il gesto estremo, in carcere, ha presentato una denuncia-querela presso la procura di Brindisi, per far luce sul’episodio. Proprio perché, stando al suo racconto, ci potrebbe essere il coinvolgimento o la responsabilità di terzi. Le parole di Leonardo Cisaria, 36enne di San Vito Dei Normanni, vanno vagliate e riscontrate, com’è ovvio, ma la sua storia è già in parte nota: arrestato nell’ottobre 2023, ha girato per le carceri di Brindisi, Lucera e Foggia e alcuni ospedali. Ha avuto alcuni “problemi” relativi all’alimentazione - anni fa ha sostenuto un intervento chirurgico e i postumi implicano anche una dieta particolare -, ha denunciato di aver assunto un ansiolitico senza averne cognizione e, infine, ha tentato il suicidio. Adesso è stato scarcerato e si trova a casa sua, in regime di arresti domiciliari. La denuncia-querela è stata presentata dal suo legale, Andrea D’Agostino, il 18 marzo scorso. Il racconto di Leonardo Cisaria comincia il 28 ottobre 2023, quando i carabinieri della compagnia di San Vito Dei Normanni lo arrestano per vicende risalenti nel tempo. Ora Cisaria sta cercando di archiviare il suo passato, di cambiare registro. Intanto, però, c’è il conto con la giustizia da saldare. Cisaria spiega ai militari un dettaglio, non di poco conto: ha sostenuto un intervento chirurgico. La sua dieta è differente: per motivi di salute, gli occorrono prodotti freschi e frullati e altro. I carabinieri si dimostrano comprensivi e gli dicono di spiegare tutto non appena giunto in carcere. E così sarà. Eppure nel racconto di Cesaria si parla di disinteresse nei confronti della sua condizione alimentare. Dopo il digiuno forzato, Cisaria viene trasportato in ospedale a causa di episodi di vomito e sanguinamento dalla bocca. La sua situazione è precaria e anche la moglie si preoccupa. L’uomo dice di aver avuto inoltre un tracollo psicologico. Non basta, nel racconto di Cisaria ci sono altri episodi che, se riscontrati, sarebbero molto gravi. Per esempio, il 36enne sanvitese racconta che, in una delle sue peregrinazioni tra le tre carceri e alcuni ospedali, ha rifiutato l’assunzione di ansiolitici. Poi, però, questi farmaci gli sarebbero stati somministrati “a sua insaputa”, dicendogli che erano vitamina B12. Nella denuncia-querela vengono quindi tirate in ballo terze persone anche per altri episodi. Toccherà ora alla magistratura trovare riscontri a questo racconto. Ed eventualmente procedere nei confronti di eventuali responsabili. Roma. Giustizia riparativa: una grande sfida culturale e politica di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 26 marzo 2024 Si è svolto ieri nella Sala Matteotti di Palazzo Theodoli il convegno dedicato alle “parole della giustizia” e organizzato dall’associazione “Fare” (Femminista, ambientalista, radicale, europeista). Il sodalizio è stato fondato dall’onorevole Michela Di Biase (Pd). Già in passato “Fare” ha promosso iniziative di confronto e approfondimento, potendo annoverare tra i relatori personalità del mondo politico e culturale come Lisa Clark (premio Nobel per la Pace), David Sassoli, gli scrittori Paolo Giordano e Alessandro Baricco. L’incontro ha avuto come filo conduttore il dialogo con al centro la parola perdono, elemento su cui si fonda anche la giustizia riparativa. I lavori sono stati aperti dal presidente della Camera dei deputati, Lorenzo Fontana. “Quello del perdono - ha detto Fontana - è un tema che si innesta bene in questa settimana di riflessione. Il perdono è una delle cose più difficili da realizzare. Nella giustizia è un atto che ci invita ad una visione alternativa del mondo”. Il presidente della Camera si è soffermato su una delle caratteristiche della giustizia riparativa, poiché mira a sanare il trauma e il dramma che vivono le vittime di reato e i suoi familiari. “La giustizia riparativa rappresenta una sfida culturale e la politica deve sfruttare tutte le sue potenzialità”, ha aggiunto Fontana. Michela Di Biase ha sottolineato il motivo per cui è stata realizzato il convegno sul perdono e sulla giustizia riparativa: “L’evento di oggi (ieri, ndr) nasce come un primo momento di riflessione sui temi della giustizia in vista del Giubileo 2025. Nel suo messaggio ai ragazzi della Giornata mondiale della gioventù Papa Francesco ha annunciato che il motto del Giubileo 2025 sarà “pellegrini di speranza”. A partire da questo concetto abbiamo voluto pensare ad un momento di approfondimento che con l’approssimarsi dell’anno giubilare sappia tenere insieme l’appello alla speranza, come cammino dell’umanità, e una riflessione sui temi della giustizia”. La parlamentare dem ha richiamato il pensiero di alcuni importanti giuristi e intellettuali. “Franco Cordero - ha commentato - scriveva che l’universo normativo è fatto di parole. Massimo Recalcati sostiene come la legge, in senso psicoanalitico, sia quella della parola: parola che è orizzonte e limite. Sull’uso e la dicotomia di parole piene e parole vuote, quelle che hanno il potere di risolvere le formazioni dell’inconscio e quelle prive di questo significato, si è interrogato Jacques Lacan. Non esiste una parola che non presupponga un dialogo, che non esiga una risposta, la parola è alla base della relazione intersoggettiva, attraverso questa avviene il riconoscimento dell’altro. Operare e vivere nel pianeta giustizia implica di per sé un uso accorto, sapiente e saggio delle parole ciascuna con il proprio significato auto- riconoscibile ma capace di costruire una trama o un ordito di pensieri e di pratiche. Quando si parla di giustizia riparativa, ci ricorda Grazia Mannozzi, un uso corretto del linguaggio è fondamentale: ci si muove sul terreno fatto di prassi, metodi vari e diversi principi, valori, garanzie. C’è la necessità di utilizzare le parole in modo responsabile e, come sosteneva Calvino, anche soprattutto nella loro complessità, estirpando l’approssimazione”. I lavori sono stati moderati dal giornalista Stefano Folli, che ha introdotto gli interventi di padre Francesco Occhetta (segretario generale della “Fondazione Fratelli tutti” e coordinatore della “Comunità di Connessioni”) e Anna Finocchiaro (già deputata, senatrice e ministra). “Bisogna attribuire - ha affermato padre Occhetta - alla parola perdono un significato eroico. Nel diritto assume forza se intesa come un atto creatore. Il perdono introduce una dinamica in grado di liberare le coscienze. Da questi presupposti deve partire la riflessione sulla dimensione culturale della parola perdono, che poi si ricollega alla giustizia alla quale possiamo, in un caso, collegare i concetti di vendetta e pena esemplare, in un altro caso il valore della ricomposizione delle fratture sociali e personali”. Secondo il gesuita, questo è il tempo di intendere la giustizia con la metafora dell’ago e del filo che si realizza con un lavoro paziente e con l’impegno di tutti, a partire dai giuristi e dal legislatore. Infine, Anna Finocchiaro ha parlato della giustizia riparativa proiettandola in una dimensione politica. “Oggi - ha affermato - questa visione della giustizia è una grande conquista, che, però, ha bisogno di abbattere una serie di timori. Da qui le grandi questioni che si ricollegano alla pena. Scommettere sulla giustizia riparativa significa abbattere il tasso di odio presente nella nostra società”. Roma. Il volto costituzionale della pena tra mito e realtà garantedetenutilazio.it, 26 marzo 2024 Convegno all’università di Tor Vergata, Anastasìa: “Si risponde con la pena a qualsiasi problematica sociale”. Il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive delle libertà personale, Stefano Anastasìa, è intervenuto al convegno “Il volto costituzionale della pena tra mito e realtà” che si è svolto nella facoltà di Economia dell’Università di Tor Vergata mercoledì 20 marzo. Al convegno, organizzato dall’associazione studentesca “Fare rete”, aderente alla rete nazionale “Primavera degli studenti”, oltre al Garante, hanno partecipato il consigliere regionale Claudio Marotta (Verdi e sinistra), l’ex consigliere regionale Alessandro Capriccioli, il magistrato di sorveglianza di Spoleto, Fabio Gianfilippi, Cristina Gobbi, cultrice della materia dell’Università Tor Vergata, e Marta Mengozzi, professoressa associata dell’ateneo. A condurre i lavori Cecilia Frezza, studentessa di Giurisprudenza e attivista dell’associazione “Fare rete”. Il consigliere regionale Marotta ha raccontato la propria esperienza nell’affrontare le problematiche relative alla detenzione negli istituti penitenziari del Lazio e la sua visita nel Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Ponte Galeria che, a suo avviso, dovrebbe essere chiuso. A tale proposito, Marotta ha ricordato la mozione approvata dal Consiglio regionale del Lazio, con la quale si impegna la Giunta al rinnovo del protocollo d’intesa con la Prefettura, per la riattivazione dello sportello del Garante dei detenuti all’interno del Cpr di Ponte Galeria. L’intervento di Stefano Anastasìa si è incentrato sulla situazione delle carceri e il ruolo dei Garanti territoriali. Anastasìa ha condiviso la sua esperienza per monitorare le condizioni delle persone detenute e ha criticato la tendenza a utilizzare il diritto penale come unico strumento per risolvere le problematiche sociali, sottolineando che il sovraffollamento è causato dall’eccessivo ricorso alla carcerazione, anche per pene brevi. La carenza di personale nelle strutture detentive è uno dei problemi critici. Per il Garante del Lazio è necessario intervenire anche nella sanità penitenziaria. Anastasìa ha anche parlato del ruolo dei Garanti territoriali nel monitorare le condizioni delle persone detenute e nel promuovere politiche di reinserimento sociale. L’ex consigliere regionale Capriccioli ha raccontato la propria esperienza di oltre 60 ispezioni nel corso dei cinque anni del proprio mandato, anche lui giungendo all’amara constatazione che il tentativo di sostegno al reinserimento e alla risocializzazione della persona detenuta troppo spesso neppure viene fatto. Il diritto agli incontri intimi con il proprio partner - Fabio Gianfilippi è il Magistrato di sorveglianza che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale su una norma dell’Ordinamento penitenziario che di fatto impedisce alle persone detenute di avere incontri intimi con il proprio partner. Con la sentenza n. 10 del 2024, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 della legge sull’ordinamento penitenziario, nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del suo comportamento in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né, riguardo all’imputato, ragioni giudiziarie. In attesa che intervenga il legislatore, ha spiegato Gianfilippi, l’amministrazione penitenziaria e la magistratura di sorveglianza dovranno adoperarsi, affinché tali incontri siano possibili. Milano. L’anteprima del film “La seconda vita” nel carcere di Bollate e il dibattito tra i detenuti sulla forza di ricominciare di Simona Spaventa La Repubblica, 26 marzo 2024 L’esperimento sociale di un tour tra i penitenziari per proporre a chi si trova recluso una storia nella quale ciascuno può sentirsi coinvolto. Mostrare un film prima che nei cinema nelle carceri, ai detenuti che possono trovare affinità e ispirazione in una storia che parla della difficoltà di tornare a una vita normale dopo aver scontato una pena. È il modello innovativo che la casa di distribuzione milanese Lo Scrittoio sta sperimentando con La seconda vita, il film di Vito Palmieri in uscita nelle sale il 4 aprile che ieri è stato proiettato nel carcere di Bollate, tappa milanese di un tour di anteprime con il regista negli istituti detentivi iniziato a Bologna e che toccherà anche Trento, Bolzano, Trani, Volterra e Rebibbia. Lasciati i cellulari e i documenti in guardiola, si varca la prima di tante porte blindate per entrare nel carcere. Accompagnati da secondini, si percorrono lunghissimi corridoi a piano terra, le sbarre alle finestre, fuori scorci di periferia o angoli di giardino circondato da mura invalicabili, dentro il bianco interrotto dai colori sgargianti dei murales del carcere modello. Nella zona industriale, quasi di fronte al call center in cui lavorano molti detenuti, nel cineteatro di duecento posti il regista, l’attore Giovanni Anzaldo e la produttrice Chiara Galloni di Articolture presentano il film alla platea di detenuti: le donne, una ventina, in prima fila, separate da due file di poltroncine dagli uomini molto più numerosi, una sessantina. “Il film - spiega il regista - nasce dopo un percorso di lezioni di cinema nel carcere di Bologna da cui sono nate diverse idee di cortometraggi. Mi ero molto legato ai detenuti, e dopo il corso mi sono chiesto: Che vita faranno dopo? Chissà se potranno avere una vita normale, una reintegrazione non solo sociale e lavorativa ma anche emotiva?”.Il tentativo di riconquistare una vita normale, e di innamorarsi, è al centro del film, dove Anna (l’attrice Marianna Fontana, protagonista nel 2018 di Capri-Revolution di Mario Martone dopo il folgorante esordio nel 2016 con Indivisibili di Edoardo De Angelis) trova lavoro in una biblioteca di un paesino dell’Appennino. Misteriosa e solitaria, cela a tutti il suo passato e stringe un legame affettivo con il timido Antonio (Giovanni Anzaldo). Quando la terribile verità verrà fuori, l’atteggiamento di tutti verso di lei cambierà: il giudizio degli altri, a differenza delle sentenze e delle condanne, sembra non finire mai. Ma Anna troverà la forza di andare avanti e di affrontare la persona che più teme, la madre.Brusio tra gli spettatori nei momenti clou, attenzione costante, interesse. Quando si riaccendono le luci in sala l’emozione è evidente. Catia Bianchi, la funzionaria del carcere che ha coordinato la proiezione, è la prima a intervenire: “È un film forte visto in un carcere. Sentivo un’aria pesante il sala, credo dovuta al coinvolgimento sulla propria pelle di quello che avete rappresentato, sono cose che toccano da vicino chi sta qui dentro. E avete affrontato il tema della giustizia riparativa, ossia il dialogo tra la vittima o il parente della vittima e l’autore del reato: credo sia una delle esperienze più alte che si possano fare”. Rotto il ghiaccio, sono parecchi i detenuti che chiedono la parola. “Un film forte - dice il primo con accento sudamericano -. Parte anche tanto dalla consapevolezza, dalla sofferenza e dal coraggio di chiedere aiuto. Se non siamo noi i primi a essere consapevoli di quello che vogliamo, non c’è poi la forza di chiedere aiuto”. “Qui si fanno dei corsi di mediazione di conflitto - dice un altro -. È complicato, difficile, ma con tutti i miei anni di carcere finalmente ho chiesto aiuto. Se hai un problema con l’alcol o con la droga, per cambiare devi chiedere aiuto, ma lo devi volere tu. Nel film i due si sono dati una mano a vicenda. E anche perdonare è un percorso lungo e doloroso, non è facile perdonare ma bisogna mettersi nei panni di chi ha commesso un reato, anche se immedesimarsi è difficile”. Arriva anche il direttore del carcere Giorgio Leggieri. C’è chi chiede se è una storia vera, chi riflette sul percorso che sta facendo, e chi, semplicemente, dice grazie: “Ringrazio per averci fatto partecipi di questo film - dice un detenuto - è molto bello, tante tematiche ci toccano dentro. Consapevolezza è una parola che sento molto spesso da quando sono qui, bisogna rifletterci sopra”. Taranto. Anche i libri possono riabilitare i detenuti tarantobuonasera.it, 26 marzo 2024 Nuovi spazi per la biblioteca della Casa circondariale. Una biblioteca con nuovi arredi, nuovi spazi e con numerosi libri a disposizione affinché si realizzi una serie di progettualità finalizzate alla diffusione della cultura tra la popolazione detenuta. Questo l’obiettivo della convenzione stipulata tra il Ministero della Giustizia, il Comune di Taranto e l’associazione “Noi e Voi” onlus che sabato scorso è stata ricordata in occasione dell’inaugurazione della sala di lettura realizzata nella casa circondariale del capoluogo jonico. Una cerimonia a cui hanno partecipato, fra gli altri, anche il sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, e l’assessore Angelica Lussoso che, nel portare i saluti dell’Amministrazione comunale, hanno sottolineato l’importanza dell’avvio di questa collaborazione finalizzata a rilanciare il servizio bibliotecario presente all’interno della struttura detentiva tarantina. L’iniziativa, che rientra nel più vasto programma stilato dal Comune per promuovere attività culturali in ogni contesto sociale, vede nella Biblioteca “Acclavio” uno degli elementi principali per l’attivazione dei processi rieducativi e riabilitativi in ambito carcerario. Allo scopo di garantire una fruibilità immediata e diretta del servizio, il personale della Biblioteca comunale, diretta dal dott. Gianluigi Pignatelli, ha provveduto a coordinare la catalogazione dei testi, messi a disposizione anche da parte di avvocati penalisti e magistrati di Taranto, gettando in tal modo le basi per la creazione di gruppi di lettura e per supportare i percorsi scolastici già in atto nella sede di detenzione. “Nel ringraziare il direttore della casa circondariale, dott. Luciano Mellone, per averci invitato all’inaugurazione dei nuovi spazi della sala lettura, siamo certi che queste lodevoli iniziative - ha affermato il sindaco Melucci - saranno sperimentazioni positive e concrete applicazioni dei principi della nostra Carta Costituzionale, la quale prevede come le pene debbano essere scontate in conformità al “senso di umanità e devono tendere alla rieducazione”. Come è stato ribadito sabato scorso è proprio attraverso la cultura che, nell’ambito della finalità rieducativa della pena, si possono migliorare le qualità e le risorse personali dell’individuo. Ed è proprio il principio di “umanizzazione” -ripreso anche della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea - l’elemento imprescindibile che deve rafforzare la tutela accordata al valore della persona, di cui vanno tutelati in ogni caso i diritti inviolabili, anche in caso di restrizione della libertà personale”. Napoli. Un canestro per ricominciare di Fabrizio Fabbri Corriere dello Sport, 26 marzo 2024 Il progetto realizzato insieme a “Fondazione Lottomatica” e “Seconda Chance” nel carcere campano il playground ristrutturato del carcere di Secondigliano. I detenuti del carcere di Secondigliano, in Campania, il canestro più bello lo segneranno quando vedranno spalancarsi le porte dell’istituto di pena per cominciare un nuovo percorso di vita. Intanto si alleneranno sul playground che da ieri è di nuovo a disposizione dopo la ristrutturazione voluta dalla FIP con la partecipazione di “Fondazione Lottomatica” e la collaborazione dell’Associazione non profit “Seconda Chance”. Visto dall’alto il playground colpisce con la sua colorazione: l’azzurro, quello delle Nazionali, e l’arancione, come la palla da basket. Il progetto è stato avviato lo scorso autunno e ha visto l’apertura del cantiere a metà febbraio per essere poi portato a termine la scorsa settimana. Si tratta di un contributo tangibile di Responsabilità Sociale realizzato a chilometri zero, grazie all’intervento di un’azienda di Napoli che in Campania si è già occupata della riqualificazione di altri playground. La prima parte dei lavori, quella che prevedeva la rimozione dal campo di detriti ed erbacce, è stata effettuata proprio da alcuni detenuti dell’istituto di pena di Secondigliano. “Voglio fare un saluto e un ringraziamento alla FIP e a tutti coloro che si sono resi protagonisti di questa opera - ha detto Giulia Russo, Direttrice del Centro Penitenziario Pasquale Mandato -. Si tratta di un importante traguardo raggiunto. Sono felice perché i nostri detenuti vedono che quanto promettiamo viene poi mantenuto. Il campo vivrà di tante attività, abbiamo già predisposto le turnazioni per l’utilizzo da parte dei detenuti di media sicurezza. Per noi questo è un giorno speciale”. La Serie A di basket è stata rappresentata da Alessandro Giuliani, general manager di Scafati, e dal presidente di Napoli Federico Grassi. Poi la scoperta della presenza di un inaspettato ex giocatore. “Ho vestito canottiera e pantaloncini - la rivelazione di Giovanni Russo, Capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria -, non un campione ma ci provavo. Voglio portare un dato: nel 2024 all’interno dei nostri Istituti si sono verificati 24 suicidi, e nessuno di questi detenuti praticava sport. Attraverso la pallacanestro, e quindi lo sport, si possono mettere in atto politiche atte a prevenire il disagio psicologico che poi può sfociare in atti estremi. Questo campo offrirà ai detenuti l’opportunità di imparare di nuovo a rispettare le regole attraverso le figure degli arbitri e degli allenatori, confrontandosi con energia ma sempre nell’ambito del rispetto”. È stata poi la volta di Lucia Castellano, Provveditrice dell’Amministrazione Penitenziaria della Regione Campania: “Noi abbiamo un mandato importante, visto che in Campania ci sono più di 7.000 detenuti, tutte persone che hanno diritto, che per noi è un dovere, di disporre di una giornata piena. Lo sport è certamente tra le attività che più insegna a fare squadra. Sono contenta e certa che Secondigliano utilizzerà al meglio questa nuova struttura”. Emozionato Gianni Petrucci, presidente della Fip. “Le parole del Capo del DAP Russo mi hanno colpito. Siamo noi che dobbiamo ringraziare voi per questa opportunità e non il contrario. Spesso i nostri pensieri, all’interno della Federazione, corrono al campo e al risultato sportivo da raggiungere come con le nostre Nazionali ma questa iniziativa di concreta responsabilità sociale la volevamo fortemente e siamo veramente felici di averla portata a termine insieme. Fateci vivere altre esperienze del genere e noi saremo con voi”. Chiusura per Gennaro Schettino della Lottomatica. “Sport e socialità sono le linee guida della nostra Fondazione. Aver partecipato è molto importante, mi auguro che nel prossimo futuro ci si possa incontrare di nuovo per vivere altre giornate come questa”. Quei 6 milioni di italiani sotto la soglia di povertà di Marianna Filandri La Stampa, 26 marzo 2024 La povertà nel nostro paese rimane ampiamente diffusa. Stando ai recenti dati Istat, nel 2023 in Italia quasi una persona su dieci è povera in termini assoluti. Cosa significa? Significa che una fetta rilevante di popolazione non raggiunge uno standard di vita minimo accettabile. Per intenderci sono famiglie che non hanno abbastanza risorse economiche per comprare da mangiare, avere un’abitazione, acquistare vestiti, prodotti per l’igiene personale, pagare un abbonamento telefonico. La povertà assoluta indica infatti una condizione di grave deprivazione che mette a rischio la salute sia fisica sia mentale. A questi dati drammatici fanno da contraltare quelli dell’aumento dell’occupazione. Sono in molti ad esultare per il numero record di occupati che ha superato i 23, 7 milioni. Cifra che non era mai stata raggiunta da quando esistono le serie storiche Istat dal 1977. Come è possibile allora che all’aumentare dell’occupazione non corrisponda una diminuzione della povertà assoluta? Le ragioni sono molte, qui possiamo ricordarne tre. La prima è relativa al fatto che l’aumento dell’occupazione non ha comportato la scomparsa della disoccupazione o dell’inattività. Detto altrimenti, in 12 mesi dal 2022 al 2023 l’aumento dell’occupazione è stato in media di 450mila unità, tuttavia i disoccupati sono diminuiti, sempre in media, di solo circa 90 mila persone. Il numero di inattivi si è ridotto, ma è rimasto altissimo con 12, 3 milioni a fine 2023. La seconda ragione riguarda il fatto che non sempre il lavoro basta per uscire dalla povertà. Da un lato infatti ci sono i buoni lavori, ben pagati, a tempo pieno e stabili. Dall’altro lato ci sono molti cattivi lavori, a basso salario, per poche ore e a tempo determinato. In quest’ultima circostanza essere occupati non basta per uscire dalla povertà e possiamo pensare sia il caso del recente aumento dell’occupazione. Secondo Istat, infatti, la povertà da lavoro è aumentata nell’ultimo anno e ha riguardato tra i nuclei con una lavoratrice o un lavoratore dipendente oltre un milione e 100mila famiglie, 150mila in più del 2022. La terza ragione ha a che fare con l’inflazione. I costi che deve affrontare una famiglia per soddisfare i bisogni primari che definiscono la povertà assoluta sono accresciuti per effetto dell’aumento dei prezzi. Istat calcola infatti un aumento della spesa per le famiglie, spesa che però diminuisce in termini reali. Cosa significa? Le persone povere spendono di più ma hanno meno. Inoltre, l’inflazione dei beni e dei servizi non ha riguardato i salari che sono calati in termini reali in misura marcata, soprattutto per chi già guadagnava poco. Di fronte a questo scenario ci sono allora almeno due linee di intervento da perseguire. La prima riguarda la regolazione del mercato del lavoro ed è relativa all’aumento dei salari - soprattutto più bassi - e a una limitazione del ricorso delle posizioni a termine. La seconda riguarda il contrasto diretto della povertà. È vero che non si può cancellare per decreto ma non serve alcuna innovazione tecnologica per sconfiggerla. I soldi sono facilissimi da trasferire: è sufficiente darli a chi non ne ha o ne ha pochi. Piuttosto serve la volontà politica. Le risorse pubbliche sono sempre limitate ma c’è una responsabilità nell’allocarle. Ridurre il sostegno ai nuclei in difficoltà indica che la povertà non è considerata un problema prioritario. Neppure lo è il garantire buone condizioni di lavoro. E l’assenza di questi due obiettivi è purtroppo resa evidente da questi dati. Dai musulmani “terroristi” agli italiani “mafiosi”: nella prigione dei luoghi comuni di Marco Erba* Avvenire, 26 marzo 2024 La chiave per superare il pregiudizio è l’incontro con l’altro, con la persona concreta, non con la categoria. La scuola può essere una palestra formidabile di inclusione. “Ma non lo sai? Tutti i musulmani sono terroristi!”. L’esclamazione fu pronunciata con tono indignato, occhi sgranati ed espressione scocciata da un bambino di otto anni, durante un incontro di catechismo. Scosse la testa, quasi compatendomi: evidentemente si chiedeva perché non riuscissi afferrare un concetto così semplice: c’erano appena stati gli attentati dell’Isis a Bruxelles, era per lui dunque ovvio che tutti i musulmani fossero terroristi che ci minacciavano. Il tema di quell’incontro era l’accoglienza. Avevo raccontato della mia famiglia e del mio lavoro di insegnante. Si era finiti a parlare di società multietnica, della necessità della tolleranza reciproca e del dialogo, e quel bambino se ne era uscito con quella frase perentoria. Mi domandai come a otto anni potesse avere quella granitica certezza. Poi gli chiesi: “Tu quanti musulmani conosci di persona? Perché tutti quelli che conosco io sono persone estremamente pacifiche e dicono che chi uccide in nome di Dio non ha capito cos’è la fede. Magari però tu hai un’esperienza diversa”. “Non ne conosco nessuno”, mi rispose, tranquillo e sicuro di sé. “Ma si sa che è così”. Si sa che è così: il pregiudizio incarnato in una frase. Di certo i miei amici musulmani non costituiscono un numero statistico rilevante, ma quel nessuno, accostato a quella affermazione perentoria sentita chissà dove, mi fece una impressione molto sgradevole. La stessa sgradevole impressione suscitatami da una discussione in Grecia, in un locale. Ero andato per qualche giorno con un amico, che lì aveva abitato, ad Atene. Trascorremmo la serata con alcuni suoi conoscenti: discutemmo piacevolmente di tutto. A notte fonda, uno di loro, giovane studioso di filologia, mi disse stupito: “Io non so davvero come tu faccia a lavorare con gli adolescenti”. All’inizio non capii. “In che senso?”, chiesi. “Nel senso che a loro non importa niente di nulla. Sono vuoti, superficiali, sguaiati e spavaldi. Con loro si perde tempo e basta”. Quella frase mi ferì. Nei miei anni da prof di lettere, in diverse scuole superiori e in diversi indirizzi, ho conosciuto tantissime ragazze e ragazzi: certo, c’è chi gioca male la sua libertà e spreca il suo tempo, c’è persino chi butta via la sua vita, o la distrugge, o distrugge quella degli altri. Ma, nella stragrande maggioranza dei casi, ho incontrato persone preziose, piene di desideri, curiose, capaci di lasciarsi sollecitare e di accogliere le sfide. Certo, a volte bisogna lottare contro la fragilità e le maschere per entrare davvero in relazione con loro, ma, quando una relazione educativa autentica nasce, si aprono prospettive spettacolari. Chiesi allo studioso: “Perché dici così?”, Si strinse nelle spalle: “Perché mia sorella è così”. Ero tanto disarmato da non sapere cosa rispondergli. Non pretendevo certo di conoscere la condizione universale degli adolescenti del mondo, ma la sua affermazione a partire da un singolo caso mi fece cadere le braccia. E poi davvero sua sorella era così? O il suo modo di fare era solo una delle tante corazze che a volte l’insicurezza spinge ad indossare? Il pregiudizio è subdolo, perché fa leva su un nostro legittimo desiderio: conoscere il mondo, interpretarlo, sapere come muoverci in esso. Il problema è che, per riuscirsi, tendiamo a inquadrare la realtà nelle nostre categorie mentali, spesso troppo rigide. Capita così di estendere a una intera categoria di persone le caratteristiche di alcuni, o di uno solo, o magari di qualcuno che ci immaginiamo solamente. Alcuni diventano tutti, le categorie imprigionano le persone. Ma le persone vengono sempre prima delle categorie. Ciascuno di noi desidera rivelarsi all’altro come volto e come storia: la rigida categoria che ci schiaccia fa male, brucia sulla pelle. Me ne accorsi in prima persona una mattina, in una scuola in una grande città della Germania. In quella scuola c’era una sezione in cui si studiava in italiano: avevano letto un mio libro e mi avevano invitato a parlarne. Entrai nell’aula che ospitava l’incontro: gli studenti mi accolsero calorosamente. Erano quasi tutti figli o nipoti di italiani emigrati: tra di loro parlavano il tedesco, che era la loro prima lingua, ma capivano e si esprimevano molto bene anche in italiano. E, tennero subito a precisare, agli Europei e ai Mondiali di calcio tifavano l’Italia. Fui positivamente colpito dal crogiuolo di storie che lì si era riunito. Ricordo un ragazzo dai tratti somatici nordafricani, che parlava perfettamente italiano con un accento marcatamente toscano: suo padre era egiziano e sua madre era livornese. Respirai dialogo, apertura mentale, voglia di confronto. Ma, alla fine dell’incontro, un’ombra di pregiudizio emerse anche lì. Mi fermai a fare dediche sui libri e a chiacchierare con gli studenti. Un ragazzo mi si avvicinò ridendo: “Batti il cinque - mi disse - e viva l’Italia! Italia: Berlusconi, pizza, mafia”. Tre parole per sintetizzare una nazione. Lasciando perdere Berlusconi e la pizza, sulla mafia non me la presi, ma ci rimasi male. Esistono italiani mafiosi? Certo. Anzi, alcuni italiani sono diventati esportatori internazionali di mafia. Ma il fatto di essere accostato in quanto italiano alla parola mafia non mi piacque affatto. Era la prima volta che sentivo un pregiudizio cucitomi addosso: mi venne da replicare, quasi in nome di tutti gli italiani onesti, la stragrande maggioranza, e mi chiesi come dovesse sentirsi un musulmano pacifico e perbene accusato pregiudizialmente di simpatizzare per i terroristi. Quando è accaduto che a tutti i membri di una determinata categoria fossero attribuiti gli errori di alcuni, la storia ha dato il peggio di sé. Non tutti i musulmani sono terroristi, solo alcuni. Non tutti gli italiani sono mafiosi, solo alcuni. Non tutti gli adolescenti sono superficiali, solo alcuni. Eppure, gli schemi mentali restano. Qual è l’antidoto al pregiudizio? Io credo sia l’incontro con l’altro. Con l’altro concreto, non immaginato. Con la persona, non con la categoria. Perché l’incontro autentico con la persona porta spesso a scoprire, sorprendentemente, che l’altro è molto più simile a me di quanto pensassi. E la scuola è una delle palestre di incontro concreto più formidabili che ci siano. C’era un collega prof che mi era antipatico a pelle. Non mi piaceva il suo modo di fare, il suo atteggiamento con gli studenti, il suo apparire altezzoso. Mi pareva rigido, privo di empatia. Non avevo la minima voglia di entrare in relazione con lui. Non ci avevo mai parlato, ma davo un giudizio negativo su di lui, senza conoscerlo. Poi un giorno mi capitò di andare a pranzo in mensa prima del solito: c’era solo quel collega. Me ne resi conto quando avevo ormai riempito il vassoio, così, titubante, mi diressi al suo tavolo e mi sedetti di fronte a lui. Ero in imbarazzo: non sapevo cosa dire. Fu lui a iniziare un discorso qualunque. Scoprii, con stupore, che avevamo figlie della stessa età e che condividevamo diverse passioni: il cinema di Clint Eastwood, i giochi di società, le passeggiate in montagna (mi consigliò diversi itinerari non troppo lontani da casa mia, che avrei percorso in seguito con grande soddisfazione). E il suo essere rigido e altezzoso? Tutta timidezza, scoprii. Lo percepii vicino e finì che prendemmo un caffè insieme al bar di fronte alla scuola. Tutto perché ero stato costretto dal caso a incontrarlo davvero, e l’incontro aveva frantumato il mio pregiudizio. Possiamo vivere tenendo le braccia chiuse al mondo per difenderci: saremo più protetti, ma resteremo soli. Oppure possiamo vivere con le braccia spalancate: rischieremo di essere feriti più facilmente, ma ci ritroveremmo più spesso stretti in un abbraccio. Mi piace chiudere così questa rubrica, con l’immagine di un abbraccio: l’augurio è che ciascuno di noi, in ogni contesto in cui si trova, possa davvero provare a educare a uno sguardo positivo sul futuro, perché la speranza possa vincere sulla paura. *Insegnante e scrittore Migranti. L’autotortura nei Cpr con la speranza di uscire di Rete Mai più lager - No ai Cpr L’Unità, 26 marzo 2024 Ingoiano lamette, cocci di bottiglia o si spaccano le ossa picchiando sul muro. Affrontano dolori fisici terrificanti. Perché? Per far finire la tortura di Stato che è più forte del dolore fisico. Abbiamo recentemente denunciato la situazione di numerose persone migranti detenute presso il Cpr di Via Corelli di Milano (almeno 30 e i 40 negli ultimi 10 giorni), che stanno facendo ricorso ad atti di autolesionismo (in particolare ingestione di corpi estranei pericolosi quali lamette, pezzi di vetro, cocci di mattoni, etc. nonché lesioni traumatiche agli arti auto-procurate con pugni e calci dati a muri e altri supporti rigidi) per essere condotti in Pronto Soccorso e sperare nella possibilità di vedersi riconoscere la non idoneità alla vita nel CPR ed essere finalmente rilasciati. La violenza su di sé in ambito detentivo è stata ampiamente studiata, e si configura tra le altre cose non solo e non necessariamente come una forma “somatizzata” di sofferenza psichica (definizione “classica” di autolesionismo), ma anche come forma estrema di “comunicazione”, in quella “forma di scrittura che utilizza il proprio corpo come carta” (Manconi e Torrente, 2015), nonché come forma estrema di protesta nei confronti del sistema detentivo. E, come ebbe a dire Franco Basaglia (di cui in questi giorni ricorre il centenario della nascita) in un’intervista degli anni 70, spesso “i trattamenti messi in atto rappresentano proprio degli strumenti di repressione di ogni possibilità di resistere all’istituzione”. E le parole di Basaglia ben si addicono, oltre al manicomio, alle altre “istituzioni totali” del nostro tempo e del nostro Paese: il carcere e, nello specifico, il CPR. Ma cosa significa, concretamente, realizzare degli atti autolesivi come quelli che si stanno verificando in queste ore presso il CPR di Via Corelli? Cosa accade ai corpi “usati come carta” per messaggi tanto chiari quanto inascoltati? E quali riflessioni ci permettono di trarre sulla detenzione amministrativa nei CPR? Il dr. Nicola Cocco ha chiesto a due colleghi medici specialisti che lavorano in due diversi ospedali lombardi. F.G. è una chirurga, e le ha fatto qualche domanda sull’ingestione di corpi estranei taglienti. Cosa si rischia esattamente dal punto di vista medico? “Ingerire oggetti taglienti (lamette, se non oggetti di fortuna come cocci di ceramica o frammenti di vetro) sottopone la persona a gravi rischi per la salute, per lo più nel breve termine. Infatti il rischio principale riguarda il sanguinamento da lacerazione delle pareti del tratto gastrointestinale coinvolto, se non la perforazione, con quadri di gravità e urgenza diversi in base al livello in cui la lacerazione avviene. In particolare, se la perforazione avviene a livello esofageo, vi è un altissimo rischio di mediastinite, ovvero i batteri contenuti in bocca ed esofago raggiungono e infettano in mediastino, spazio sterile in cui sono contenuti principalmente cuore e grossi vasi sanguigni. Se la perforazione avviene a livello dello stomaco o dell’intestino, si genera una peritonite, ovvero i batteri contenuti nel lume gastrico o intestinale infettano la cavità addominale. Entrambe le condizioni portano rapidamente (2436 ore in base all’entità della perforazione) a un quando di sepsi, ovvero di Infezione di tutto l’organismo, con rapida compromissione delle funzioni vitali (cardiache, respiratorie, cerebrali), fino alla morte se non vi è un intervento medico tempestivo.” Quanto è doloroso l’atto dell’ingestione? “Tutti i passaggi sono dolorosi, dal dolore iniziale procurato dai tagli a livello del cavo orale e della faringe, e ancor più nella complicanza... Al di fuori del “momento” della lacerazione, doloroso di per sé, ancora più dolorosa è la complicanza perché genera un’immediata reazione di infiammazione via via ingravescente... Le persone che si presentano con mediastinite o, soprattutto, peritonite di solito riferiscono un dolore intenso, 9/10 in una scala in cui 10 è il massimo...” Da medico, che effetto fa pensare che una persona corra una serie di rischi come quelli di cui hai parlato, e con il conseguente dolore che l’ingestione di oggetti causa, pur di avere un’opportunità di essere rilasciata dal CPR? “Credo che debba far riflettere che persone non affette da gravi patologie psichiatriche decidano di autoinfliggersi una tale sofferenza, - che peraltro potrebbe portarle alla morte - per poter uscire dai centri in cui sono detenute. Persone che spesso hanno già resistito al dolore, alla fame, alla sete, alla solitudine durante il viaggio che le ha portate in Europa.” ML è invece uno specialista in ortopedia e traumatologia. Cosa può dirci sulle fratture e lesioni agli arti attuate come autolesionismo da parte delle persone migranti detenute per poter avere l’inidoneità alla vita nel CPR di Milano? “Le fratture di carpo, metacarpo e avambraccio possono esse spesso conseguenza di azioni volontarie quali colpire a pugno chiuso oggetti solidi e duri o in alternativa subire dei traumi diretti contusivi. I primi sintomi sono dolore, tumefazione e nei casi più gravi vizi di rotazione delle dita, deformità delle ossa e impossibilità alla mobilizzazione del segmento interessato dal trauma.” Quanto sono dolorosi questi traumi auto-inflitti? “Le fratture sono sempre dolorose, con un valore della scala VAS (Visual Analogue Scale) che va da almeno 5 a 10 che è il massimo.” Possono esserci delle conseguenze a lungo termine? “Purtroppo dopo una frattura, per quanto possa essere trattata nell’immediato (trattamento conservativo o chirurgico), non è possibile garantire sempre una restitutio ad integrum, ovvero di ripristino della condizione anatomica e funzionale pre-trauma, con la possibilità della persistenza di sequele quali vizi di rotazione, malformazioni, deviazioni di asse, non guarigione di una frattura, persistenza del dolore o perdita di forza. Nelle fratture scomposte dell’estremità dell’arto superiore spesso bisogna ricorrere a un intervento chirurgico e a una lunga riabilitazione.” Il fatto che le persone detenute nei CPR decidano di procurarsi questo tipo di traumi pur di poter lasciare Centro, che riflessione ti suscita? “Andare incontro a tali conseguenze in seguito a gesti autolesivi sottende verosimilmente una sofferenza maggiore di quella fisica, mi auspico che sia possibile migliorare tali condizioni in modo tale da evitare il perpetrarsi di questi gesti anticonservativi.” Purtroppo quello che le evidenze e le esperienze di tante persone migranti detenute ci stanno confermando è che tali condizioni non migliorano agendo sulla struttura del CPR, neanche attraverso un commissariamento giudiziario. La patogenicità è insita nel dispositivo stesso della detenzione amministrativa, una pratica che sempre più si sta dimostrando psicogena e latrice di disperazione, causa indiretta di gesti che scrivono sul corpo, sul “loro corpo”, i gradi più alti di dolore. I Cpr vanno chiusi. Migranti: le destinazioni impossibili di Antonio Armellini Corriere della Sera, 26 marzo 2024 Non esistono soluzioni facili, “aiutiamoli a casa loro” certo: ma cosa faremmo nei quindici-vent’anni prima che queste misure avessero effetto? Nauru è un’isoletta sperduta nel Pacifico, un tempo famosa per i suoi francobolli e i giacimenti di fosfati naturali (in pratica, guano). Poi i fosfati sono diventati chimici e Nauru si è reinventata come centro offshore assai dubbio e, soprattutto, come luogo di accoglienza dei rifugiati respinti dal governo australiano. In Australia se ne parla poco, Nauru è lontana e la cosa sembra andare bene a (quasi) tutti. È a questo esempio che forse pensava Boris Johnson col piano di respingimento in Rwanda dei migranti. Innanzitutto, il Rwanda è efficiente, ma è tutto fuorché un paese in cui i diritti umani vengono tutelati. Londra sostiene che i rifugiati avrebbero la possibilità di crearsi un futuro migliore in questa parte dell’Africa: peccato che provengano quasi tutti dalla Siria, dal Pakistan e dall’Afghanistan, e i pochi africani dall’Africa occidentale, che è un altro mondo dove si parla francese, e non inglese. Anche qui, il destino che si annuncia è una deportazione senza futuro. Poi c’è Israele, dove si è seriamente discusso di deportare centinaia di migliaia di palestinesi nel Congo - ancora una volta, in un paese con il quale non avrebbero alcun tipo di legame, culturale, sociale e anche linguistico - prima che l’enormità del tutto abbia apparentemente fatto prevalere una maggiore prudenza. Paradossalmente, il nostro accordo con l’Albania appare una misura più “umanitaria”: le distanze non sono enormi, non si cambia di continente e l’ipotesi di un reinserimento non è esclusa a priori. Però… Il tema delle migrazioni è strutturale e non esistono soluzioni facili (“aiutiamoli a casa loro” certo: ma cosa faremmo nei quindici-vent’anni prima che queste misure avessero effetto? La crescita di economie avanzate di trasformazione ridurrebbe i flussi migratori ma creerebbe problemi di riaggiustamento delle nostre economie; non dovremmo rifletterci urgentemente? E così via). Cancellare dalla vista, deportare, alzare nuovi steccati non sono una via di uscita. Primo, perché rallentano, ma non fermano gli arrivi. Secondo, perché l’immigrazione è un volano necessario della nostra prosperità, anche se a qualcuno sembrerà strano. Terzo, perché assistere chi fugge da guerre e miseria non è solo un impegno morale, ma un obbligo preciso per democrazie fondate sulla libertà e la dignità della persona; rispettarlo a parole, violandolo nei fatti, ne mina la credibilità. Dall’esito del confronto fra democrazie liberali e la deriva illiberale e autoritaria che avanza dal Sud del mondo, dipenderanno gli assetti del confuso mondo multipolare in cui stiamo entrando, che per noi europei sarà inevitabilmente più multietnico. Cercare di governarli non è tanto questione di solidarietà e inclusione, quanto di sopravvivenza di un modello di civiltà; rinunciare a rivendicarne il valore universale in cambio di chiusure illusorie e di vantaggi strumentali di corto respiro, sembra un autolesionismo inaccettabile. Un miliardo per i migranti, ma Frontex non funziona bene di Youssef Hassan Holgado Il Domani, 26 marzo 2024 Nonostante le critiche per il suo operato nei salvataggi in mare, l’Agenzia europea avrà più soldi a disposizione. Le spese maggiori del 2024 saranno per il reclutamento di nuovo personale. Diminuiscono quelle per i rimpatri. Per Bruxelles la gestione dei flussi migratori è una priorità assoluta. Oltre a finanziare i governi della sponda sud del Mediterraneo - come Egitto e Tunisia - i 27 paesi membri hanno deciso di aumentare anche i fondi a disposizione dell’Agenzia per il controllo delle frontiere dell’Unione europea (Frontex) che sta diventando sempre più ricca. Per il 2024 l’Ue e i paesi dell’area Schengen, che contribuiscono al bilancio dell’Agenzia con 63 milioni di euro, hanno stanziato in totale poco più di 922 milioni di euro. Lo scorso anno il budget complessivo era stato di poco superiore agli 829 milioni di euro, mentre nel 2022 ammontava a 693 milioni. In un solo anno Frontex ha visto aumentare i suoi fondi di 92,7 milioni di euro rispetto al 2023, un incremento superiore al 9 per cento. Il prossimo anno, secondo le previsioni di bilancio e il documento programmatico pubblicato a fine gennaio, avrà a disposizione la cifra record di oltre un miliardo di euro, mentre un’ulteriore incremento è previsto anche per il 2026. L’organizzazione è da tempo al centro di critiche da parte di associazioni e organizzazioni che si occupano di assistenza ai migranti per via del suo operato. Diverse inchieste giornalistiche hanno fatto emergere il ruolo di Frontex nel coprire le violazioni dei diritti umani durante i respingimenti nel Mar Egeo tra Grecia e Turchia. Le inchieste hanno portato a un’indagine interna da parte dell’ufficio antifrode (Olaf) dell’Ue e alle dimissioni dell’ex direttore di Frontex, Fabrice Leggeri, ora candidato alle prossime elezioni europee con il Rassemblement national, partito della sovranista Marine Le Pen. A fine febbraio è stata chiusa anche l’indagine della mediatrice europea, Emily O’Reilly, sul naufragio di Pylos avvenuto in Grecia tra il 13 e il 14 giugno del 2023 e sulle responsabilità di Frontex. Secondo O’Reilly “le regole attuali non consentono all’Agenzia Ue di adempiere pienamente ai suoi obblighi in materia di diritti fondamentali”. Aumenta il personale - Come già accaduto lo scorso anno, nei conti economici dell’Agenzia europea, una delle voci che fa registrare un incremento rilevante è quella che riguarda il personale: da quasi 181 milioni di euro a oltre 225 milioni, con un aumento di circa 45 milioni di euro dovuto soprattutto al reclutamento di nuovo personale. Se a ottobre 2023 l’Agenzia aveva 2.217 dipendenti, entro fine anno, secondo il documento programmatico per il prossimo biennio, ne assumerà altri 765 arrivando a 2.982 funzionari. Di questi 1.958 sono membri dell’European standing corps (il cui budget è aumentato di 23 milioni di euro) e l’obiettivo futuro di Frontex è quello di raggiungere i 10mila agenti. La maggior parte delle assunzioni arriveranno per i funzionari di categoria 1 che al momento sono 1.149. “Per il 2024, puntiamo ad aumentare il numero di ufficiali di categoria 1 nel corpo permanente a 1.500”, spiegano da Frontex a Domani. “Saremo ancora di più negli anni a venire con la creazione del corpo permanente della guardia di frontiera e costiera europea, il primo servizio europeo in uniforme di polizia”, si legge negli obiettivi dell’Agenzia europea, la quale nove anni fa aveva soltanto 301 dipendenti. “Nel 2024, si prevede una crescita netta di 459 posti autorizzati rispetto al 2023, seguiti da ulteriori 496 posti nel 2025 e da un ulteriore e un aumento di ulteriori 500 posti nel 2026, raggiungendo un’autorizzazione complessiva di 4.000 posizioni, in linea con il massimale previsto nel QFP 2021-2027”, si legge ancora. Non solo aumenti di personale. L’Agenzia ha a disposizione anche 17 milioni in più per la digitalizzazione e 6 milioni aggiuntivi per l’acquisto di equipaggiamenti. Dopo due anni con voce pari a zero, sono stati allocati anche 11 milioni come riserva precauzionale in caso di operazioni di sicurezza emergenziali. “È uno strumento di bilancio fondamentale che ci permette di adattarci rapidamente alle sfide emergenti alle frontiere esterne dell’Ue” spiegano da Frontex. Una delle voci che ha meno fondi a disposizione rispetto allo scorso anno è quella che riguarda le attività di rimpatrio dei migranti verso i loro paesi di origine, attività che Frontex svolge fornendo supporto e coordinazione agli stati membri e a quelli di destinazione, ma anche organizzando i voli charter verso i paesi terzi. Per il 2024 l’Agenzia prevede un abbattimento dei costi, con otto milioni di euro in meno rispetto al 2023, ma ha anche l’obiettivo di aumentare la copertura geografica dei paesi di rimpatrio portando a termine intese o accordi con stati con cui le interlocuzioni sono già avviate. “L’adeguamento è stato reso necessario dai tagli dell’ultimo minuto al nostro bilancio complessivo, che ci hanno imposto di prendere decisioni difficili su dove allocare le nostre risorse in modo più efficace - risponde Frontex - Nonostante queste riduzioni, rimaniamo impegnati a gestire i rimpatri in modo efficiente e umano, nel pieno rispetto dei diritti fondamentali e in stretta collaborazione con gli stati membri dell’Ue”. Non è ancora chiaro, però, a quale tipo di “tagli dell’ultimo minuto” si riferisca l’Agenzia dato che il budget è in aumento da anni. Niente fondi a disposizione per la missione Africa/Frontex Intelligence Community (Afic) che per gli anni 2024, 2025 e 2026 risulta, stando a ciò che si legge nel bilancio, “ended”. Afic si è conclusa ufficialmente nel febbraio dello scorso anno ma c’erano ancora in corso trattative per il rinnovo. Il progetto, stando al documento programmatico di questo 2024, è tramontato. La missione era nata con l’obiettivo di fornire corsi di formazione ad alcuni paesi partner africani per realizzare report d’intelligence sul traffico di migranti nei paesi di origine e rafforzare così il contrasto all’immigrazione irregolare. Domani aveva anticipato in un’inchiesta una serie di dubbi sull’efficacia del progetto implementato durante il mandato dell’ex direttore di Frontex, Fabrice Leggeri, e sollevato come, in realtà, l’Agenzia di frontiera europea stesse di fatto formando esponenti di apparati repressivi stranieri (Tunisia, Egitto, Libia, Nigeria etc.). Più operazioni congiunte - Per questo 2024 Frontex ha intenzione di aumentare le operazioni di controllo di frontiera con paesi terzi. Dopo aver concluso accordi con Albania, Moldavia, Montenegro, Macedonia settentrionale e Serbia, l’Agenzia vuole investire risorse per avviare missioni congiunte anche in Bosnia-Erzegovina, Nigeria, Mauritania e Senegal con l’obiettivo di contrastare l’aumento dei flussi nella rotta dell’Africa occidentale dell’ultimo anno. I piani futuri prevedono anche di sondare il terreno per operazioni in Gambia, Ghana e Guinea. Diritti umani - Rimane invece invariato il budget allocato dall’Agenzia per le attività interne riguardante la tutela dei diritti umani. Poco più di 1.5 milioni di euro. Chissà, forse aumenterà il prossimo anno visto che secondo le previsioni di bilancio entro il 2026 i paesi membri verseranno nelle casse di Frontex 1.130 miliardi (esclusi i finanziamenti provenienti dai paesi dell’area Schengen). Da Abu Ghraib alle carceri di Assad, quando la “sicurezza” cancella l’uomo di Domenico Quirico La Stampa, 26 marzo 2024 La lotta al terrorismo è servita a giustificare i crimini più efferati di autocrati e dittatori. Ma l’Occidente non può dirsi estraneo, la deriva securitaria può riservarci brutte sorprese. È un caso da manuale: commettere il male in nome del bene, anzi per il bene della Causa. Intenzioni troppo radiose, ovvero impedire nuovi delitti, salvare innocenti, coronando così le peggiori ignominie. Parliamo, sì, della tortura, la tortura per svelare le trame del terrorismo, disarticolare la rete dei fabbricanti di cadaveri in nome di dio, che ha già colpito e minaccia di colpire ancora. È così che la violazione dell’interdizione che fu cara a Verri e Beccaria rimpicciolisce in una piccola eccezione amministrativa. E diventa lo sbandamento che dimostra come, frequentando il nemico, sia impossibile non essere contagiati nella stessa logica. Il Diritto si assopisce tra le nostre mani. Decomprimiamo! Meno scrupoli! Il risultato sacrosanto è più importante dei mezzi utilizzati per ottenerlo. Perché parlar di questo, ora? Chissà se gli arrestati per la strage di Mosca sono davvero jihadisti o laica manodopera sanguinaria di ben più contorte provocazioni. E chissà se le loro “confessioni” così svelte e apparentemente complete, non resteranno negli archivi degli eredi del Kgb e degli implacabili lettoni della Ceka con la loro verità; e quella che verrà resa pubblica e impiegata per il seguito punitivo sarà un’altra, che rientra nei disegni del Cremlino impegnato nella guerra totale, ovvero con ogni mezzo e spunto, all’Ucraina e all’occidente. E proprio questo, il contesto, la guerra, è la ragione per riflettere. Dopo il 2001 e il capolavoro di Bin Laden la guerra americana al terrorismo ha legittimato vaste e profonde eccezioni al diritto, tra cui il ricorso alla tortura per ottenere nomi, prove e informazioni sulla internazionale islamica. Deviazione che in occidente, senza quello choc omicida, avremmo contestato con asprezza come intollerabili limitazioni e ferite alla democrazia. Ebbene, nel clima di una emergenza bellica ben più ampia del jihad degli apostoli di Al Qaeda ed eredi più o meno spuri, nel prepariamoci all’attacco della tirannide non califfale ma putiniana, la nuova Paura può avviare e giustificare (se ne vedono le avvisaglie) altri e più rigidi distinguo. Non ci sono dubbi, certo, sul modo con cui a Mosca vengono condotti gli interrogatori per far cantare gli individuati colpevoli del massacro. Tanto che uno di loro è comparso orrendamente scempiato dal taglio di un orecchio. Tirannidi e autocrazie, dal tempo degli assiri che avevano già elaborato complicate tecniche di tortura, non si pongono certo problemi di limiti giudiziari. Tanto meno quelle così teneramente post sovietiche. In quel mondo in qualsiasi processo storico c’era sempre un lato positivo e uno negativo. Una cosa elementare, la dialettica insomma. Stalin ne era un ferreo, un po’ primitivo maestro. Si tortura, dunque ma l’importante è che i traditori, le spie, i nemici del popolo confessino: e soprattutto facciano i nomi dei complici. Come in molte cose il putinismo non fa altro che confermare, prolungare, imitare. È curioso che a credere con foga al ritorno del pericolo jihadista, del terrorismo diffuso, per cui già si annunciano controlli rafforzati e riunioni di urgenza di intelligence e gendarmerie, siano solo gli occidentali. Mentre le vittime, i russi, ovvero coloro che hanno i migliori strumenti per decifrare la realtà di quanto è accaduto, quasi non ne parlano. Allora ci sono gli uomini. Che importano gli uomini se il loro sacrificio è utile? Ci sono le intenzioni. Che importano se stabiliamo che in alcuni casi le buone annullano le cattive? Siamo noi, il Potere, a stabilirlo. Impedire attentati contro innocenti, per esempio, è una idea santa. Ma quando nel nome della necessità abbiamo seminato la violenza e la violazione di quanto difendiamo, la legge, che resterà di quella idea santa? Perché qui non parliamo di Putin, di Bashar o dei feroci tiranni del Sud globale. Parliamo anche di Guantanamo e di Abu Ghraib: la tortura democratica con tanto di sigillo di eccellenti Corti, tribunali e parlamenti. Ad ogni obiezione si ribatteva: ma di fronte al terrorismo la democrazia occidentale affonda! E semmai affondava a Guantanamo e ad Abu Ghraib. E per parlare del jihadismo di Hamas e del suo sette ottobre, affonda nelle carceri israeliane, se si confermano le denunce di alcuni prigionieri della guerra di Gaza. Noi l’abbiamo guardata affondare la democrazia e con lei il diritto negli anni di Bush e compagnia. Quando abbiamo detto: dopo aver visto quello che questi fanatici fanno perché dovremmo storcere la bocca di fonte a ispezioni senza regole, garanzie attenuate, prigioni fantasma e perfino qualche interrogatorio violento? In nome di quali scrupoli? La tortura per terrorizzare e schiavizzare, quella dei tiranni, quella no per carità. È una turpe faccenda, la vietiamo e la denunciamo come un sanguinoso e metodico incantesimo malvagio. Ma è necessario per la sicurezza collettiva, per difenderci! , da ogni torbido focolaio, procedere a qualche momentanea si intende, sospensione. Insomma! Fateli parlare in ogni modo con qualsiasi mezzo, eliminateli, torturateli. Nello Ius della (santa) inquisizione si proclamava che il tratto di corda serviva a salvare l’anima del sospetto eretico, a scovare altri fuorviati da satana. Si esigeva non tanto l’indizio della colpevolezza dell’imputato, ma le indicazioni per altri arresti di predicatori funesti, per bruciare libri velenosi, individuare covi del sabba. Le ideologie totalitarie hanno raccolto il testimone passando dalla corda alle scosse elettriche. E altro. . . Dopo le Torri gemelle la giustizia occidentale si è addossata pubblicamente la sua parte di violenza, l’uso della sofferenza è uscita dall’ombra e dalle regole per diventare un esplicito atto procedurale e amministrativo. Il corpo piagato, umiliato, percosso ridiventa il bersaglio diretto della azione penale. Il carattere atroce della tortura è nel porre la sfida inquisitoria sul piano della resistenza dell’essere umano al dolore. Ho conosciuto un miliziano islamista siriano che si vantava di poter tenere in vita per settimane un prigioniero da cui voleva sapere “la verità” sottoponendolo ogni giorno a turni di feroci torture: il mio record è due settimane! Diceva. E confessava, con modestia, che aveva imparato la “tecnica” copiando quello che i torturatori di Bashar Assad sperimentavano nelle prigioni del regime su oppositori o islamisti. Chi interroga torturando e il prigioniero si battono non sulla evidenza dei fatti e delle prove ma in uno spazio di diritti aboliti che lasciano licenza all’inventiva dell’anatomista della sofferenza. Ebbene, che resti chiaro: nessun jihadismo, e nessuna guerra, ci giustifica a gestire e sfruttare gli illegalismi. Ungheria. Ilaria Salis, la lettera dal carcere: “So di stare dalla parte giusta della storia” di Federico Berni Corriere della Sera, 26 marzo 2024 La militante antifascista detenuta a Budapest cita il fumetto che l’artista romano Zerocalcare le ha dedicato. La prossima udienza giovedì. Il padre Roberto Salis: “Chiederemo i domiciliari in Ungheria, sono un mezzo per ottenere che sconti la pena in Italia, come concesso da leggi europee”. Stare dalla “parte giusta della storia”. La consapevolezza trasmessa via lettera da Ilaria Salis, la militante 39enne antifascista detenuta a Budapest con l’accusa di aver aggredito due neonazisti a febbraio 2023, a margine di un raduno di estremisti tenuto nella capitale ungherese. Giovedì è fissata una nuova udienza del processo nel quale i suoi legali, come anticipato dal padre Roberto Salis, cittadino monzese, chiederanno l’applicazione dei domiciliari in Ungheria. “Solo un mezzo per ottenere gli arresti domiciliari in Italia, come concesso dalla normativa europea”, ha dichiarato l’uomo. In un passaggio della nuova lettera anticipata dal Tg3, l’insegnante 39enne cita il fumetto che l’artista romano Zerocalcare le ha dedicato, dal titolo “In fondo al pozzo”. Un “bellissimo fumetto dedicato alle mie vicende”, lo definisce. Si sente caduta infatti in un “pozzo profondissimo”, dalle “pareti scivolose”. Un baratro nel quale si chiede “se esista davvero un’uscita”. Ma la forza gliela dà, in un mondo in guerra che ripropone gli “scempi del secolo scorso”, la “consapevolezza profonda, che dimora in fondo al cuore, di sapere quale sia la parte giusta della storia”. Giovedì 28 marzo la vicenda giudiziaria si sdoppia su due fronti. A Budapest, appunto, il processo a Ilaria Salis, a Milano l’udienza in Corte d’Appello per decidere sull’estradizione chiesta dalle autorità ungheresi per il 23enne Gabriele Marchesi, attualmente agli arresti domiciliari, raggiunto da mandato d’arresto europeo con l’accusa di aver agito in concorso con Salis nell’aggressione ai neonazisiti. La decisione, alla scorsa udienza di febbraio, è stata sospesa, per decisione dei giudici d’appello, in attesa che le autorità magiare fornissero indicazioni circa la possibilità di “applicare una misura alternativa alla detenzione in carcere, come per esempio quella degli arresti domiciliari in Italia in virtù della normativa europea del 2009”, come spiegato dagli avvocati del giovane milanese, che difendono anche l’antifascista detenuta in Ungheria e che anche per lei chiedono “la stessa soluzione”. Gran Bretagna. Il giorno del verdetto per Julian Assange: oggi la decisione sull’estradizione Il Fatto Quotidiano, 26 marzo 2024 Julian Assange conoscerà oggi il suo destino. Il “momento X” è fissata attorno alle 11.30, ora italiana, quando è prevista la pronuncia del verdetto dell’Alta Corte di Londra sull’appello finale della difesa del giornalista australiano e cofondatore di WikiLeaks, contro la sua contestatissima procedura di estradizione dal Regno Unito negli Usa. Dopo i due giorni di udienza a febbraio, i giudici si sono presi più di un mese per considerare le argomentazioni dei legali dell’attivista australiano, incentrate sull’idea di “una persecuzione contro la legittima attività giornalistica” del loro assistito. Il rischio è che Assange, secondo la difesa, si veda negati i suoi diritti davanti alla giustizia americana con tanto di condanna sproporzionata, e quelle delle autorità statunitensi, decise a perseguire chi a loro avviso è andato “oltre i limiti del giornalismo”, rispetto al ricorso contro il rifiuto di primo grado a riaprire il caso. Dalla sentenza dipende, oltre a quello personale del cofondatore di WikiLeaks, anche il destino di una certa idea d’informazione e modello antagonista di giornalismo online. Assange è divenuto una sorta di nemico pubblico numero uno a Washington per essersi permesso di divulgare, a partire dal 2010, circa 700.000 documenti riservati - autentici e non privi di rivelazioni imbarazzanti, anche su crimini di guerra commessi fra Iraq e Afghanistan - sottratti al Pentagono o al Dipartimento di Stato. Qualora perdesse anche questo appello finale, Assange, salvo ricorsi in extremis alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, potrebbe venire estradato negli Usa nel giro di qualche settimana, o anche in tempi più rapidi, come avevano dichiarato i suoi avvocati. Una volta negli Stati Uniti l’attivista rischia di ricevere una pena a 175 anni di reclusione e, stando a quanto affermato in precedenza da sua moglie Stella, non riuscirebbe a sopravvivere alle condizioni di detenzione delle celle americane. Già il mese scorso Assange non solo non era riuscito a presenziare di persona alle udienze all’Alta Corte, ma anche ad assistervi in videocollegamento a causa dell’aggravamento di condizioni di salute. Uno stato sempre più precario dopo quasi 5 anni di reclusione preventiva nel carcere di massima sicurezza londinese di Belmarsh, seguiti ai sette da rifugiato nella clausura murata di una stanza dell’ambasciata dell’Ecuador nella capitale britannica. Resta da vedere poi quale possa essere l’esito di una proposta di patteggiamento da parte dell’amministrazione Biden per Assange, anticipata dal Wall Street Journal e incentrata su una dichiarazione di colpevolezza per un reato meno grave. Brasile. In carcere i mandanti, un grande giorno per Marielle Franco di Claudia Fanti Il Manifesto, 26 marzo 2024 Tre arresti eccellenti per l’omicidio della consigliera comunale di Rio e del suo autista Anderson Gomes. In cella anche un deputato del centrodestra e l’ex capo della polizia locale. Ma il caso non è chiuso. A 6 anni e 10 giorni dall’omicidio della consigliera comunale di Rio de Janeiro Marielle Franco e del suo autista Anderson Gomes (avvenuto il 14 marzo 2018), si sono aperte finalmente, domenica, le porte del carcere per i mandanti del crimine: Domingos Brazão, attuale consigliere della Corte dei conti dello stato di Rio, suo fratello Chiquinho, deputato federale del partito di centrodestra União Brasil e l’ex capo della polizia civile locale Rivaldo Barbosa. “Una vittoria dello stato contro il crimine organizzato”, ha esultato il ministro della Giustizia Ricardo Lewandowski. E anche “un grande giorno” per le famiglie delle due vittime: dopo “2.202 giorni di attesa”, la verità “inizia a essere svelata”, hanno scritto in una nota le vedove di Marielle Franco, Monica Benicio, e di Anderson Gomes, Agatha Arnaus, dicendosi sorprese per il coinvolgimento di Rivaldo Barbosa, che le aveva ricevute dopo l’assassinio assicurando che la soluzione del caso sarebbe stata per lui una questione d’onore. Il suo ruolo indica, evidenziano, “la portata dell’abisso che viviamo a Rio de Janeiro, con istituzioni ampiamente coinvolte nelle trame più sordide del crimine”. Era stato proprio Barbosa, tra l’altro, a suggerire ai suoi complici di tenersi alla larga dalla Camera municipale di Rio, perché, se l’omicidio avesse evidenziato un movente politico, il caso sarebbe stato trasferito alla Polizia federale - come poi avvenuto solo con l’avvento del governo Lula - e lui non avrebbe potuto più fare nulla. A risultare cruciale per le indagini è stato l’accordo di collaborazione con la giustizia firmato dall’ex poliziotto Ronnie Lessa, in carcere dal 2019 come autore materiale del crimine (insieme a un altro poliziotto, Élcio Queiroz): secondo la sua testimonianza, già nel settembre del 2017 i fratelli Brazão avrebbero deciso di eliminare Marielle perché di ostacolo all’espansione territoriale e immobiliare delle milizie di Rio de Janeiro. È noto come Chiquinho Brazão avesse reagito in maniera scomposta di fronte al voto contrario di Marielle a un progetto sull’occupazione del suolo presentato alla Camera municipale di Rio, benché in questa battaglia la consigliera del Psol non avesse, in realtà, giocato un ruolo significativo. Tant’è che la stessa polizia federale ipotizza che potrebbero esserci state altre motivazioni per l’omicidio. Contento per gli arresti dei mandanti è apparso anche Flávio Bolsonaro, che non aspettava altro per denunciare i tentativi di vincolare la sua famiglia all’omicidio: è ovvio, ha detto, che “Bolsonaro non ha alcuna relazione con il crimine”. Con l’ambiente che lo ha prodotto, quello delle milizie di Rio, di relazioni però il clan ne ha eccome. Non è un caso che le indagini siano rimaste ferme per 5 anni, in mezzo ad assassini di testimoni, distruzione di prove, sabotaggi e rimozioni di funzionari. Laerte Silva de Lima, un agente infiltrato nelle file del Psol per raccogliere informazioni utili (poi arrestato nel 2020), era un membro di spicco dell’Escritório do Crime guidato da Adriano da Nóbrega, a cui Flávio aveva concesso la Medaglia Tiradentes, il massimo riconoscimento dell’Assemblea legislativa di Rio de Janeiro, e di cui aveva assunto la madre e l’ex moglie nel suo gabinetto di deputato statale. C’è inoltre la testimonianza, poi ritrattata, di Alberto Jorge Mateus, il portiere del condominio Vivendas da Barra dove Bolsonaro viveva a Rio de Janeiro e dove abitava, al n. 66, lo stesso Ronnie Lessa, da cui Élcio Queiroz si era recato quello stesso 14 marzo. Nella sua prima deposizione, il portiere aveva riferito che, poche ore prima dell’assassinio di Marielle, Queiroz gli aveva detto che stava andando a casa di Bolsonaro, allora deputato, al n. 58, come sarebbe risultato anche dal registro delle visite. Ed è proprio da quell’appartamento che un uomo identificatosi all’interfono come il “signor Jair” aveva autorizzato il suo ingresso nel condominio. L’ex presidente aveva però respinto le accuse, sostenendo che quel giorno si trovava in Brasilia per una sessione alla Camera dei Deputati. Assai significative anche le voci di una relazione tra il suo figlio minore Jair Renan e la figlia di Ronnie Lessa, benché quest’ultima all’epoca vivesse negli Stati uniti. Una relazione quanto mai opportuna, potendo offrire una spiegazione plausibile allo scambio di telefonate, emerso dalle indagini, tra la casa di Bolsonaro e quella di Lessa. Fa discutere anche il ruolo del generale Braga Netto, all’epoca incaricato dal presidente Temer di assumere il controllo della sicurezza pubblica a Rio per poi essere nominato da Bolsonaro ministro della Difesa: è stato lui, dietro indicazione del generale Richard Nunes, a nominare Rivaldo Barbosa, una settimana prima del crimine, a capo della polizia civile di Rio, malgrado il sottosegretario dell’intelligence Fábio Galvão avesse messo in guardia sui vincoli di Barbosa con le milizie (ed era stato per questo rimosso da Braga Netto cinque mesi dopo). Se, insomma, il direttore generale della polizia federale Andrei Passos ha annunciato domenica la conclusione dell’attuale fase delle indagini, sono in tanti in Brasile, a cominciare dalla famiglia di Marielle, a ritenere che il caso non si chiuda qui.