Un anno di carcere da innocente a cura di Ornella Favero Il Riformista, 25 marzo 2024 “Mi chiamo Emanuele, vengo da una famiglia di giostrai sinti, con un’attività che si spostava ogni settimana di paese in paese. All’età di sette anni i miei genitori, forse perché volevano il meglio per me, mi misero in un collegio, che però era un ghetto. Io ho preso talmente male questa decisione, che mi ero chiuso a riccio, non giocavo con gli altri bambini, non parlavo perché mi ero convinto che mi avevano abbandonato in quel posto orribile, gestito con punizioni durissime. A turno noi bambini dovevamo apparecchiare e lavare i piatti e se non svolgevamo bene i nostri compiti ci chiudevano dentro una stanza e ci facevano scrivere centinaia di volte “Non devo disubbidire alle regole”. E quante umiliazioni! Ricordo per esempio che mi tagliavano i capelli e i bambini mi dicevano “Sei uno zingaro, hai i pidocchi!”. A 15 anni sono uscito con tanto rancore verso la mia famiglia, che ho cominciato a sfogare trasgredendo a ogni regola, insieme ad altri ragazzi, sempre giostrai, con i quali commisi il mio primo furto. Sono stato subito arrestato e portato nel carcere minorile di Treviso. Ci ho passato 45 giorni, ma l’ho preso un po’ come un collegio, non mi ha fatto paura. Finita la pena, ho continuato a fare furti, i carabinieri mi portavano in caserma, mi facevano le foto, le impronte e dopo mi lasciavano andare. Io pensavo che finiva lì la cosa, e invece, quando avevo già 18 anni, mi vennero a prendere e mi portarono nel carcere per maggiorenni con una condanna di quattro mesi, e l’ho presa molto male, anche perché da lì mi sono arrivate altre condanne. Quello che pensavo che finiva lì invece non era affatto finito, avevo cumulato quattro anni di galera, che ho vissuto con molta sofferenza, sentivo che quella non era la vita che volevo. E una volta scontata la pena, a 22 anni, mi sono trovato un lavoro onesto, come autista per la Bartolini, una compagna, ho avuto due figlie. Non frequentavo più le persone di prima, lavoravo regolarmente, mi prendevo cura della mia famiglia. Fino a quando mi vennero a bussare alle quattro di mattina i carabinieri e mi portarono in caserma. Io non capivo e chiesi al maresciallo per quale motivo ero lì di notte. La risposta fu che ero accusato di aver fatto dodici rapine in banca. Ho cercato in tutti i modi di spiegare che da quando ero uscito dal carcere non avevo più commesso reati, ma il maresciallo mi gelò con la sua risposta; “Voi giostrai dite sempre di essere innocenti ma, sotto sotto, fate sempre quello che non dovete fare”. Mi portarono in carcere, a Treviso, dove ho trascorso un anno. Dopo un anno sono uscito in scadenza termini e il mio processo l’ho fatto a piede libero, sono stato assolto con formula piena per non aver commesso il fatto. Però in questo anno che ho passato in galera da innocente ho perso la famiglia, perché anche mia moglie quando ha visto l’ordine di cattura ha pensato che le avevo fatto promesse e poi tradito la sua fiducia, ho perso il lavoro e mi son mangiato quello che avevo messo da parte. Sono uscito con tantissima rabbia, distrutto fisicamente e mentalmente, e mi sono detto che era inutile che rigavo dritto perché tanto ero sempre marchiato come dicevano loro. E non ho avuto nemmeno il risarcimento per ingiusta detenzione, perché al processo non avevo collaborato per chiarire la verità. Alla fine quando esci dal carcere, anche se ti hanno assolto, ricominciare una vita onesta è difficile, io non ce l’ho fatta. ho ripreso i contatti con i vecchi amici e ho ricominciato a fare reati”. *Direttrice di Ristretti Orizzonti Daria Bignardi: “L’inferno carceri punisce due volte i fragili” di Simonetta Sciandivasci La Stampa, 25 marzo 2024 La scrittrice: “Ho deciso di raccontare l’altra parte della mia vita tra i detenuti. Le mele marce non esistono: è il sistema che è strutturalmente guasto”. Luigi Settembrini, scrittore e patriota, in una delle sue Lettere dall’ergastolo, scrisse: “Viviamo ad arbitrio de’ venti, del mare, e de’ marinai”. Settembrini trascorse in carcere molti anni: era uno degli indomiti che combattevano per l’Italia unita, e che i Borboni tentavano di zittire, chiudendoli in cella a Santo Stefano, un’isola nell’arcipelago delle isole Pontine, quindi un doppio carcere - “Ogni carcere è un’isola, ogni isola una prigione”, scrive Bignardi. Quella frase dice, di questo libro, il punto più toccante che racconta, la differenza che c’è tra dentro e fuori: dentro, si sottostà all’arbitrio degli uomini e non alle leggi degli uomini. Daria Bignardi ha a che fare con il carcere da moltissimo tempo, quasi da sempre: a San Vittore è “un Sessantotto”, cioè ha il permesso di entrare e aiutare i detenuti; ha tenuto a lungo una corrispondenza con un condannato a morte in Texas, Scotty; a Ferrara, dove è nata e cresciuta, abitava accanto al carcere; a Milano, sua casa adottiva, ha abitato per 8 anni sul lato nordest di San Vittore, e ora abita su quello sudovest; uno dei suoi primi fidanzati è finito in galera per droga, e lei aveva 19 anni. In questi anni ha incontrato delinquenti e innocenti, ex brigatisti, rapinatori (uno della banda di Vallanzasca), ha lavorato con loro, o ci ha soltanto parlato, è solo andata a trovarli, e in questo libro ne ha raccontati alcuni, a volte uno per una, altre tutti insieme, e ha raccontato le sue due vite, dentro e fuori, e come s’intrecciano, e perché avere a che fare con il carcere significa avere a che fare con quello che veramente conta, e perché in carcere c’è la vita com’è. Non lo aveva mai fatto, ma il carcere, in verità, in molti modi, è entrato in tutti i suoi libri, come un amore finito ma non passato, come la musica nei ricordi. Ha scritto il libro in un’isola, Linosa, perché in un’isola, come in prigione, c’è tutto quello che conta, si soffoca e non si corrono pericoli. Bignardi, perché dice di non riuscire a stare lontana dal carcere? “Ci ho messo un libro intero per capirlo. Forse si soffre di mal di carcere come di mal d’Africa perché le galere sono luoghi estremi, pieni di contraddizioni, di umanità, ingiustizie, come la vita. In carcere però non ci sono i tramonti e a differenza che in Africa è tutto molto brutto, tranne i rapporti umani”. Quando esce da lì, come si sente? “Grata per gli incontri che ho fatto, sollevata di essere libera e triste per chi ho salutato, sapendo che la notte in carcere è il momento peggiore”. Si sente mai in colpa? “In colpa no, perché”. Quando, nella sua vita fuori, pensa al carcere? “Quando fa molto caldo penso che dentro si soffoca, quando fuori fa freddo penso che dentro si gela. Se durante le Feste comandate o le domeniche sono triste, so che dentro sono disperati. Durante la pandemia, se noi eravamo soli, loro erano sepolti vivi. Se rimani chiuso in ascensore, o in una cabina armadio come è successo a me, pensi alla claustrofobia di chi sta in cella”. C’è un sentimento che non aveva mai provato e che ha provato lì?? “L’antivigilia di Natale di tanti anni fa con un gruppetto del penale, detenuti con condanne lunghe e definitive, abbiamo cantato Io vagabondo a squarciagola in una stanzetta con le sbarre che misurava 3 metri per 4. Io poi sarei uscita e loro rimasti, ma mentre cantavamo eravamo uguali, con lo stesso identico bisogno di amore e di libertà”. Che differenza c’è tra “le persone di fuori” e le “persone di dentro”? “Chi sta dentro o è stato dentro avrà per sempre qualcosa di meno e qualcosa di più. “Chi è stato carcerato una volta lo rimane per sempre” dice Pino Cantatore, che ho conosciuto vent’anni fa a San Vittore mentre scontava due ergastoli. L’ho rivisto un anno fa, ora è libero ed è un imprenditore illuminato che dà lavoro qualificato a 160 detenuti. A Bollate”. Ha mai avuto paura di un detenuto? “È più probabile essere aggrediti da un altro automobilista a un incrocio che da una persona detenuta. Le persone detenute hanno rispetto di chi si interessa a loro e generalmente sono molto educate”. Quando parla dei suicidi, dice un dato di cui non si parla mai: il numero molto alto di agenti penitenziari che si ammazzano (100 negli ultimi dieci anni). “Ora purtroppo sono molti di più. Sempre Pino dice “Se in carcere sta male il detenuto sta male anche la guardia: sono convinto che gli stessi che hanno picchiato a Santa Maria Capua Vetere a Bollate non lo avrebbero fatto”. Nessuno capisce e difende gli agenti meglio dei detenuti, non per niente condividono lo stesso disastro. Ho parlato con tanti agenti. Uno mi ha detto “Il carcere è la cosa più stupida che ci sia” e quando gli ho chiesto “Allora perché ci lavori” ha risposto “Finchè esiste, qualcuno deve occuparsene”. Un altro, che aveva visto il padre comunista piangere solo una volta, ai funerali di Berlinguer, mi ha detto che suo padre era fiero di lui perché serviva lo Stato. Certo che ci sono anche le carogne e le teste di cazzo, come in ogni mestiere. In carcere casomai - sadici a parte - le carogne le giustifichi più che fuori perché fanno un lavoro malsano e malpagato in un posto orrendo. Poi hanno ragione quelli che dicono che certi lavori, come l’agente, l’insegnante o il prete, dovrebbe farli solo chi ha la vocazione. Ma le mele marce non esistono: è il sistema carcere che è strutturalmente guasto”. In tutti i suoi libri, ci sono le telefonate di sua madre. Le chiedo se questo racconta qualcosa sulla libertà, e sul paradosso per cui la vogliamo tantissimo e però poi quando la abbiamo, non sappiamo bene che farcene, e rimpiangiamo chi o cosa ci impediva di averla. “Ho pensato anch’io a mia madre scrivendo di carcere ma non nel senso che dici tu: lei ricordava proprio il panopticon, di cui scrive Foucault in Sorvegliare e punire: “Il detenuto non deve mai sapere se è guardato nel momento attuale; ma deve essere sicuro che può esserlo continuamente”“. “Se ho imparato qualcosa in questa pandemia è che si deve vivere senza fare progetti. Ma forse lo dimenticherò”. Lo ha detto in un’intervista di qualche anno fa. Chi vive in carcere fa progetti? “Ne fa di continuo e a lunghissimo termine. Vive progettando e aspettando: la telefonata, la lettera, il colloquio, il processo, il permesso, magari la comunità, l’affidamento, l’articolo 21, la semilibertà o il fine pena. Tutti, o quasi, progettano di non tornarci mai più. Ci riesce una minoranza: quelli che in carcere hanno imparato a fare un lavoro qualificato. Pochissimi”. Ha smesso di cercare le lettere di Scotty? “Il condannato a morte americano col quale mi scrivevo da ragazza? Ieri è successa una cosa incredibile. Tornavo dalla Mondadori dove avevo visto il libro per la prima volta. Ne avevo qualche copia con me. A casa mi sono messa a cercare le lettere di Sisto, un ex detenuto che non vedo da vent’anni e che avrei incontrato presto perché cercherò di coinvolgere in ogni presentazione qualcuno di cui ho scritto. Le avevo messe in una cartellina di cartone rigido perché erano piene di fiori seccati che Sisto raccoglieva tra i lastroni di cemento dell’ora d’aria. In mezzo alle lettere di Sisto è spuntata la lettera di Scotty che avevo perso. Ma non l’ultima, quella che mi ha scritto prima che gli facessero l’iniezione letale: la prima. È stato come se mi mandasse un segnale. Lo so che non c’è nessun segnale, ma è stata una coincidenza commovente”. Esiste il male nelle persone? “Sì, esistono gli Angelo Izzo, anche se credo siano pochi. Ma in piccole o grandi proporzioni esiste in ognuno di noi”. Il carcere va abolito? “Non lo dico io, lo dice Luigi Pagano, che è stato direttore di carcere per 40 anni. Di 60mila detenuti che sono in galera avrebbe forse senso che ce ne stessero 6mila, e in altre condizioni”. Scrive “Adriano (Sofri, ndr) ha sempre ragione, ce l’avrà anche su questo”, quando riporta la sua obiezione sulla questione centrale della criminalità. Perché è scettica? “Adriano è il nonno dei miei figli ed è un grande amico. Lui ha a cuore i temi del libero arbitrio e della responsabilità e ne sa certamente più di me visto che è stato un detenuto per vent’anni. Lo so anch’io che, come dice il Vangelo di Giovanni, “Gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce” ma non penso sia un caso se in prigione stanno soprattutto i più poveri e disgraziati e meno istruiti. Sai cosa mi scriveva Scotty nella lettera che ho ritrovato? Che nel braccio della morte, dove stava lui, di ricchi non ce n’erano”. Quando racconta di una sua visita in un penitenziario femminile in Albania, dice di aver chiesto alle detenute se sanno spiegarsi come mai maschi, in galera, non piangono, mentre le donne sì. Le chiedo la stessa cosa. “Purtroppo, come fuori, le donne stanno peggio. Perché le donne sono solo il 4 per cento e tutto è pensato per gli uomini, come fuori del resto, anche se fuori siamo di più noi. E mentre gli uomini detenuti spesso hanno a casa donne che pensano a loro, le donne in carcere (e ci stanno quasi sempre per colpa di un uomo) vengono ripudiate e abbandonate. In più, soffrono enormemente per i figli lontani”. Si è mai innamorata? “No, anche se ci sono un sacco di begli uomini, più che fuori. Ma non ti viene proprio da flirtare con chi soffre”. Che significa essere utili alla società? “Far quel che si può per dare una mano agli altri?”. Tornerà a Linosa in vacanza? “Se riesco. Perché anche Linosa spesso diventa una prigione: se c’è mare grosso, dato che non ci sono porti, dipende dalla buona volontà del comandante di turno decidere se tenta o no l’attracco e dato che la Regione Sicilia ha incautamente affidato il monopolio a una sola compagnia di navigazione, che prende un sacco di soldi dallo Stato senza garantire la continuità territoriale, non è che ci sia molta competitività negli attracchi. Così Linosa è spesso isolata e abbandonata al suo destino come tante piccole isole ma più delle altre perché non ha un’amministrazione propria ma è “sotto Lampedusa”. La disastrosa situazione dei trasporti sulle isole minori in Sicilia è una questione politica importantissima e ignorata”. Quali libri ha letto mentre scriveva questo libro? “Tantissimi e li cito tutti. Uno dei più belli è L’Università di Rebibbia di Goliarda Sapienza”. Cosa è più chiaro degli esseri umani, in carcere? “Come sono veramente. Come scriveva Svetlana Aleksievi? dei militari russi in Afghanistan: “Nelle condizioni di laggiù l’uomo è come illuminato a giorno. Se era un vigliacco, la cosa diventava presto evidente: era un vigliacco. Se era un delatore, non c’era da attendere molto prima che lo dimostrasse”. Igor Cassina: “Vincere non è tutto. Così vado in carcere a incontrare i detenuti” di Doriano Rabotti quotidiano.net, 25 marzo 2024 Vent’anni fa l’oro olimpico ad Atene per il ginnasta, ora allena i giovani: “L’esperienza nel sociale però è quella che mi ha arricchito di più. Da San Vittore a Venezia ho ascoltato chi spera di avere un’altra chance”. Quando volava volteggiando verso il cielo delle Olimpiadi, Igor Cassina non avrebbe mai pensato che un giorno il suo esempio sportivo si sarebbe trasformato in un esercizio mentale di resistenza per uomini nei guai. Sono passati vent’anni da quell’oro alle Olimpiadi di Atene, e la vita del grande atleta che oggi ne ha 46, di anni, è molto diversa. Allena giovani talenti della ginnastica artistica nella Pro Carate, certo. Ma va anche nelle carceri ad incontrare i detenuti: e quando esce, sono cambiati un po’ tutti, perché lo scambio di vita non è mai a senso unico. L’ultima volta qualche giorno fa nel carcere di Venezia, dove il direttore Enrico Farina e l’associazione di volontariato ‘Il granello di senape’ stanno permettendo ai detenuti di incontrare sportivi famosi per trasmettere regole e valori che torneranno utili fuori. Cassina, come è stato l’incontro con i detenuti? “Non è la mia prima esperienza in un carcere, sono stato già anche a San Vittore, a Como perché ho una cugina impegnata nel sociale. In questi anni ho sviluppato l’esperienza che serve per avere il tatto giusto”. Sapeva già che cosa dire? “A Venezia è stato piacevole, io parto da un presupposto: viviamo in una società in cui uno che commette un reato viene discriminato e messo in disparte dall’opportunità che si chiama vita. È chiaro che dipende dalla gravità del reato, ma io penso che sia giusto dare a un essere umano una chance per dimostrare a se stesso e poi alla società che farà tesoro della sua esperienza”. Di questi tempi non è una posizione esattamente popolare... “Ne abbiamo parlato anche con mia moglie e lei mi ha detto: prova a pensare se una di quelle persone magari domani si troverà nella situazione di difendere tua figlia...Poi nessuno si illude che sia facile, serve una crescita personale molto profonda e sostenuta. Ma io sono d’accordo con questa visione, non sappiamo mai nella vita chi potrà aiutarti, se ragioniamo senza facili moralismi. E da parte mia, se posso ispirare a migliorare, mi fa solo piacere pensare che qualcuno vedere il proprio passato in modo diverso. A Venezia c’erano ragazzi molto più giovani rispetto alle altre volte”. Perché? “Non lo so, so che all’interno del carcere molti ragazzi si stanno avvicinando alla cultura dello sport, con quello che implica in termini di comportamenti civili. A me è venuto facile parlarne perché la mia tesi di laurea era sul concetto dell’esperienza dello sportivo come crescita personale dell’individuo. Devo dire la verità, stavolta ho avuto buone sensazioni. Poi è chiaro che è una semina lunga”. Che domande le hanno fatto? “Quasi tutti mi hanno chiesto come gestivo le difficoltà per raggiungere i risultati. La loro situazione è diversa, ma c’è un parallelismo nella necessità di trovare un punto di riferimento: che sia Dio, un allenatore, una fidanzata o un amico, tutti hanno bisogno di sentire qualcuno vicino. Loro i guai se li sono cercati, per carità. Ma da questi incontri anche io mi porto sempre a casa qualcosa di importante”. Lei ha vissuto uno sport che richiede una disciplina ferrea. Si è mai sentito prigioniero? “Capisco benissimo la domanda. Dal primo giorno quando avevo 6 anni e sono entrato in palestra, è stato un colpo di fulmine, sono stato rapito dalla visione di quello che avrei potuto realizzare. Non è stata una passeggiata, tra difficoltà, infortuni, operazioni e la paura di non riuscire, ho avuto più sconfitte che vittorie. Ma rifarei tutto, per fortuna ho avuto genitori che sono stati i cardini per capire i reali valori nella vita. E sa qual è il paradosso? Ho vissuto tutti i sacrifici della carriera come uno spazio in cui esprimere la mia libertà, poi mi sono sentito prigioniero nei primi tre anni dopo il ritiro dalle gare”. E come si è ripreso? “Devo ringraziare mia moglie Valentina. Anche se la chiamo così non siamo sposati, stiamo aspettando che cresca la nostra Eleonora che ha un anno. Quando camminerà potrà farci da damigella e ci sposeremo”. È più importante educare alla sconfitta o alla vittoria? “Quello che fa la differenza è sempre la capacità di portarci a casa una buona lezione di vita, sia quando non va bene, ma soprattutto quanto il risultato lo ottieni. Non è per niente facile capire che la vittoria non è la conclusione del viaggio, ma solo una parte del percorso”. Lei ha vinto e ha creato un esercizio che porta il suo nome, il movimento Cassina. Chi è il suo erede? “Mi rivedo in Carlo Macchini, un ragazzo marchigiano che sa fare il movimento Cassina. Ho avuto il piacere di allenarlo alla Pro Carate, io che ringrazierò sempre la Ginnastica Meda dove sono nato. Ovviamente lui sta raggiungendo grandi risultati per meriti suoi e dei suoi allenatori, ma è un bravo ragazzo con valori importanti”. I giovani avvocati in visita da oggi in 70 carceri italiane Ansa.it, 25 marzo 2024 Iniziativa dell’Aiga in occasione della Settimana Santa. In 70 strutture penitenziarie, diffuse su tutto il territorio nazionale, entreranno delle delegazioni dell’Aiga (l’Associazione italiana giovani avvocati), a partire da oggi, 25 marzo, e per tutto il periodo delle festività pasquali. Lo si legge in una nota dello stesso organismo dei professionisti under45, in cui si precisa che, “in quest’occasione, si è ritenuto necessario inserire tra i luoghi da visitare anche nove Istituti penali per i minorenni, al fine di poter prendere diretta cognizione anche delle condizioni di detenzione di coloro che, purtroppo, giovanissimi, vedono ristretta la propria libertà personale”, nella Settimana Santa. “Sarà l’occasione - dichiara il presidente dei giovani legali Carlo Foglieni - per prendere, ancora una volta, diretta cognizione delle criticità esistenti nelle strutture e, al contempo, valorizzarne gli aspetti virtuosi, in un periodo storico in cui il tema carceri ha assunto più che mai portata sociale, oltre che giuridica”, aggiunge. “Cercheremo - afferma il rappresentante dell’Osservatorio nazionale Aiga sulle carceri (Onac) Mario Aiezza - di trarre tesoro da questa esperienza, per poter poi elaborare proposte concrete da portare nelle sedi Istituzionali ed affrontare strutturalmente l’emergenza” degli istituti di pena italiani, termina la nota. Toghe, Nordio media su test mentali e pagelle di Luca Fazzo Il Giornale, 25 marzo 2024 Le norme sull’idoneità psicoattitudinale e i voti dei magistrati domani in Consiglio dei ministri. Si chiamerà “comma 6 bis”, ed è un passaggio decisivo, che traduce in legge anni di richieste e di promesse del fronte garantista: i test mentali per i magistrati. Ma con lui arriva una nuova norma che su un altro tema delicato, le pagelle periodiche per le toghe, perde per strada alcuni pezzi, e viene così accusata di essere troppo timida. Il decreto che verrà portato domani all’approvazione del consiglio dei ministri dal Guardasigilli Carlo Nordio è il frutto di una mediazione faticosa. E come tale rischia di venire criticato da entrambi i versanti, dal partito delle toghe come dagli ultragarantisti: ruolo impersonato in questa circostanza da Azione! e Italia Viva, che accusano Nordio di cedere ai diktat dell’Associazione nazionale magistrati. Sta di fatto che sul passaggio più inviso al sindacato dei giudici, i test psicoattitudinali per l’ingresso in magistratura, destinati a impedire che ad amministrare la giustizia siano personaggi ferrati in tutte le branche del diritto ma mentalmente disturbati, il decreto segna un netto passo avanti. Nella legge del 2006 che stabilisce i criteri per i concorsi da magistrato viene inserito un articolo 6 bis. Cosa prevede? Che una volta terminati gli esami orali gli aspiranti magistrati vengano sottoposti al vaglio di “esperti qualificati per la verifica della idoneità psicoattitudinale allo svolgimento delle funzioni giudiziarie” e che “otterranno la nomina a magistrato ordinario i concorrenti che saranno dichiarati idonei anche alla luce degli esiti dei test in parola”. È una svolta, anche se c’è chi avrebbe preferito dei test periodici, anziché solo al momento dell’assunzione. Unica concessione alle toghe organizzate: sarà il Consiglio superiore della magistratura, d’intesa col ministero della Giustizia, a indicare “tanto le linee di indirizzo, quanto le procedure per lo svolgimento dei relativi accertamenti”. Facile prevedere che il Csm, almeno nella parte togata, provi a fare ostruzionismo. Ma il decreto legislativo (che non ha bisogno di ratifica del Parlamento) non potrà essere aggirato a lungo. Tra le ipotesi c’è quella che come test di base si utilizzi il Minnesota, già impiegato con discreti risultati nei concorsi per poliziotto. Se sui test il risultato pare significativo, ci sono da registrare contestazioni alla stesura finale di un’altra norma attesa da tempo, e prevista già dalla ministra Marta Cartabia del governo Draghi: la valutazione periodica dei magistrati, in vista dei loro avanzamenti di carriera, sulla base di un fascicolo personale che documenti il modo in cui hanno lavorato fino a quel punto, “in modo da individuare la sussistenza di caratteri di grave anomalia in relazione all’esito degli atti”, come - ad esempio - aver arrestato spesso degli innocenti. Anche contro il fascicolo si erano levate negli anni scorsi le proteste dell’Anm. Ora il testo di Nordio viene accusato da Italia Viva e Azione! di avere ceduto davanti alle proteste delle toghe. Nonostante le commissioni Giustizia di Camera e Senato avessero chiesto che nel fascicolo fosse documentata per intero l’attività del magistrato, vi verranno invece inseriti solo atti scelti “a campione”, cioè a caso. Enrico Costa di Azione parla di “vergognosa demolizione del fascicolo del magistrato, continuerà a esserci il 99,6 per cento di valutazioni positive”. E Raffaella Paita, responsabile giustizia di Italia Viva: “Questo svuotamento dimostra che tra le parole del ministro e i fatti c’è ancora una volta di mezzo. Così Nordio demolisce il fascicolo per la valutazione dei magistrati di Enrico Costa* Il Foglio, 25 marzo 2024 Il governo ha deciso che nel fascicolo istituito con la riforma del Csm nel 2022 rientreranno solo gli esiti “a campione”. Un modo per far felice le correnti e l’Anm. Ci scrive il deputato di Azione. La riforma del Csm del 2022, approvata da un’amplissima maggioranza nella scorsa legislatura, ha istituito il ‘fascicolo per la valutazione del magistrato’, frutto di un mio emendamento. Un fascicolo che doveva contenere gli esiti dell’attività di ciascuna toga, dalle inchieste flop, alle sentenze ribaltate, fino gli arresti ingiusti, ma anche le performance ed i meriti di giudici e pm. Un’innovazione di portata storica perché oggi, pur essendo previsto dalla legge che le valutazioni di professionalità debbano tenere conto dell’esito degli atti del magistrato, questa analisi è inattuata, perché manca proprio quel fascicolo che racchiuda tutta l’attività. Risultato: tutti promossi in automatico, il 99,6% di valutazioni di professionalità hanno esito ‘positivo’. Le proteste delle correnti contro l’istituzione del fascicolo furono veementi, addirittura ci fu uno sciopero deliberato dall’Anm. Temevano di perdere il controllo delle promozioni e degli avanzamenti di carriera, perché se tutti i magistrati sono sullo stesso piano, bravi o bravissimi, se non c’è una gradazione di merito, a decidere sono proprio le correnti. Con il “fascicolo” si potrà distinguere invece chi lavora bene e chi lavora meno bene, premiando chi lo merita, anche se non è organico alle correnti. Per rendere effettivo il fascicolo mancava però un decreto attuativo della delega, che compete a questo Governo. Tutto mi sarei aspettato, tranne che proprio Carlo Nordio demolisse il fascicolo, facendo felice l’Anm e le correnti. Sono bastate due parole per mandare a monte il principio che anche il magistrato che sbaglia, paga. Le parole sono: “a campione”. Nordio, anziché scrivere che nel fascicolo ci sono tutti gli esiti degli atti del magistrato, prevede che ci rientrino esiti “a campione”, così facendo ha reso la valutazione una farsa, esattamente come oggi. Aggiungo che anche le Commissioni Giustizia di Camera e Senato hanno messo in guardia il ministro da questa formulazione, ed hanno richiesto di inserire nel fascicolo tutti gli atti del magistrato e non solo quelli ‘a campione’. Fatica sprecata perché a via Arenula governano i magistrati fuori ruolo, che vedono il “fascicolo” come fumo negli occhi. A me resta solo la strada di denunciare questo scempio, questo dietrofront, questo favore alle correnti, questo non far pagare mai il magistrato che sbaglia. Ma forse sono stato io ad illudermi, perché Nordio è sempre un magistrato. *Deputato di Azione Interrogatorio preventivo: ambiguità e limiti di una riforma debole di Luca Marafioti* Il Riformista, 25 marzo 2024 Per il recupero di uno spirito garantistico in materia cautelare, il recente ddl Nordio indica la strada del previo interrogatorio all’emissione del provvedimento, con l’inserimento di una serie di nuovi commi nell’art. 291 c.p.p. sul relativo procedimento applicativo. Secondo la novella, il giudice dovrebbe, infatti, procedere ad interrogatorio dell’indagato prima di disporre la cautela, notificando apposito invito a presentarsi contenente descrizione sommaria del fatto, avviso della facoltà di nominare un difensore chiamato a presenziare all’atto, deposito della richiesta cautelare da parte del P.M. con gli atti su cui si fonda. Tutto corredato da specifiche ipotesi di nullità della misura in caso di mancato rispetto delle previsioni in materia. La modifica proposta pare, pertanto, diretta ad incidere in maniera significativa sul procedimento incidentale cautelare. Triplice ed ambizioso obiettivo: garantire alla difesa un contraddittorio con la parte avversa, aumentare il tasso di garanzie difensive della persona da sottoporre a misura cautelare e, più in generale, concorrere ad una maggiore tutela dell’inviolabilità della libertà personale. Non si tratta di novità assoluta. Il sistema processuale conosce già forme “minori” di interrogatorio preventivo: in caso di sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio (art. 289 c.p.p.) o di istanza di revoca o sostituzione della misura cautelare (art. 299 c.p.p.). Le figure richiamate non hanno, però, dato grande prova di sé, restando finora prive di incidenza sistematica. Le rondini, insomma, non hanno mai fatto primavera, né contribuito ad elevare il tasso di controllo giurisdizionale della fase cautelare. Eppure, da tempo si discuteva sul deficit di garanzie nella serie procedimentale sinora vigente: emissione della misura cautelare con successivo interrogatorio di garanzia condotto dallo stesso giudice che l’ha emessa, con facoltà di sollecitare al Tribunale della libertà un riesame su presupposti ed esigenze cautelari ritenuti alla base del provvedimento restrittivo. Anche se solo in qualche misura, l’innovazione proposta riecheggia il dèbat contradictoire preventivo nel processo francese, messo anni orsono a dura prova dal disastro giudiziario dell’affaire d’Outreau che travolse imputati ingiustamente detenuti per pedofilia. L’indiscusso intento garantistico dell’iniziativa di riforma meriterebbe, allora, automatico plauso; se non altro, per la sintomatica fretta con cui la magistratura, associata e non, si è scagliata contro di essa, picconandone il contenuto. Eppure, più della previsione di un contraddittorio anticipato, a contare sembrano le eccezioni di cui essa è circondata. L’interrogatorio non va compiuto, infatti, se sussista pericolo di inquinamento probatorio o di fuga e neppure quando vi sia rischio di reiterazione di un ampio catalogo di reati, secondo consolidate ed occhiute logiche da “doppio binario”, con congegni garantistici inversamente proporzionali al peso del rischio penale per l’indagato. Perciò, l’innovazione potrebbe coprire un’area limitata, dal punto di vista sia quantitativo sia qualitativo, delle vicende cautelari, lasciando il sospetto di una mossa politica solo pour èpater le bourgeois. Una perplessità su tutte: lo sfavore, neppure tanto implicito, verso il silenzio dell’indagato. Parlare sembra strada obbligata per chi intenda minare gravi indizi di colpevolezza ed esigenze cautelari. Con inevitabile pregiudizio per insindacabili scelte autodifensive di non collaborazione. Percorsi di stampo cooperativo già battuti nel processo a carico degli enti, dove il contraddittorio pre-misura si colora di emenda e collaborazione col sistema per stornare o attenuare responsabilità amministrative da reato. Con buona pace per i paradigmi liberali sul ruolo dell’imputato nel processo e per la clausola di inviolabilità cui l’art. 24 Cost. lega il diritto di difesa. *Professore ordinario di Procedura penale Per le pene sostitutive possibile l’applicazione immediata in giudizio di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 25 marzo 2024 La strada è percorribile se l’imputato ha già dato il suo consenso. Per incentivare il ricorso alle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi - cioè uno dei fiori all’occhiello della riforma Cartabiaper rendere il carcere un’effettiva extrema ratio e ridurre i tempi processuali - il decreto legislativo 31/2024, correttivo del decreto legislativo 150/2022, semplifica il procedimento della loro applicazione. Si tratta del c.d. “sentencing”, disciplinato dall’articolo 545-bis del Codice di procedura penale. Il decreto legislativo 150/2022 ha ampliato i confini delle sanzioni sostitutive, prevedendo che la pena detentiva sotto i quattro anni possa essere sostituita con la semilibertà o la detenzione domiciliare, quella inferiore atre anni con il lavoro di pubblica utilità e quella sotto l’anno con la pena pecuniaria. Inoltre, va rammentato che le sentenze di condanna apene sostitutive non sono appellabili. Ora il giudice potrà procedere alla sostituzione della pena detentiva, senza attivare il meccanismo di sentencing, se ne ravvisa i presupposti e quando ha già il consenso dell’imputato. Il meccanismo dovrà essere innescato dà giudice solo quando non disponga degli elementi per la sostituzione della pena detentiva: in questo caso, subito dopo la lettura del dispositivo potrà integrarlo indicando la pena sostitutiva con gli obblighi e le prescrizioni corrispondenti. Prima dovrà ascoltare le parti e acquisire il consenso dell’imputato, se ancora non espresso, o non attuale. In caso di necessità di svolgere accertamenti sulle condizioni di vita dell’imputato, anche per calibrare la sanzione sostitutiva da applicare, o sul programma di trattamento delle pene sostitutive diverse da quella pecuniaria, il giudice fisserà un’udienza nei successivi 60 giorni. Il decreto correttivo chiarisce meglio il procedimento di applicazione delle nuove pene sostitutive à giudizio di appello. Va ricordato che la richiesta deve essere oggetto di specifico motivo di doglianza, altrimenti è inammissibile. Se il rito non è partecipato, il consenso potrà essere espresso fino a 15 giorni prima dell’udienza. La corte potrà disporre la sostituzione se ne sussistono tutti i presupposti; altrimenti, fisserà una nuova udienza nei 60 giorni successivi. In questo periodo acquisirà le informazioni necessarie. In caso di concordato in appello, è precisato che la richiesta di accoglimento del motivo riguardante la sostituzione della pena detentiva dovrà già contenere l’assenso dell’imputato. Nel rito partecipato il consenso potrà essere espresso fino all’udienza. Se la corte applicherà una pena detentiva inferiore a quattro anni, potrà direttamente sostituirla: se dovrà acquisire il consenso, fisserà un’udienza non partecipata nei 30 giorni successivi e assegnerà all’imputato un termine perentorio di 15 giorni per esprimerlo. Se il consenso è stato espresso, ma è necessario acquisire ulteriori informazioni, la corte fisserà udienza nei 60 giorni successivi. I termini per il deposito delle motivazioni, in caso di sentencing, decorrono dal deposito del dispositivo integrato. Viene infine prevista un’ulteriore ipotesi di revoca della sanzione sostitutiva peri casi in cui l’interessato subisca una condanna a pena detentiva per un delitto non colposo nel periodo che intercorre tra la pronuncia che ha applicato la pena sostitutiva e l’inizio della sua esecuzione. Se il software fa “sparire” le archiviazioni di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 25 marzo 2024 Giustizia: non funziona il software ministeriale (obbligatorio dall’1 gennaio) primo modulo del processo penale telematico. Ma per sospenderlo ci vorrebbe la certificazione del malfunzionamento da parte del Ministero. In Italia, rispetto ai primi mesi del 2023, sembra non ci siano più archiviazioni: meno 43.455 richieste dei pm e 101.696 decreti dei gip, crollo dell’80% perché, tra esasperanti attese nel caricare gli atti e irrazionalità di architettura, non funziona il software ministeriale (obbligatorio dall’1 gennaio) primo modulo del processo penale telematico. Ma per sospenderlo ci vorrebbe la certificazione del malfunzionamento da parte del Ministero, che invece confida in un cronoprogramma di “aggiornamenti” in attesa di una “App 2.0”. Milano, come autodifesa, lo sospende 7 giorni solo nei fascicoli “seriali ignoti”, mentre a Napoli il procuratore Gratteri, quando manutenzioni straordinarie e nuove “patch” moltiplicano “criticità e regressioni”, fa tornare alla carta “fino a verifica del corretto funzionamento”. Riprova di quanto il disegno delle strutture informatiche condizioni autonomia e indipendenza dei magistrati ben più di leggi “ammazza” questo o quel reato. Se il software fa “sparire” le archiviazioni - Ma avanza anche un tipo più discutibile di giustizia difensiva. Dopo che per le violenze di genere (codice rosso) il legislatore vuole conoscere ogni 3 mesi quante misure cautelari siano o no chieste dai pm entro 30 giorni dall’iscrizione, una circolare del Pg di Cassazione lascia la facoltà ai procuratori di prevedere un “decreto” del pm (dunque nel fascicolo) per i casi in cui non ravvisi i presupposti di un arresto. Ma a Milano una direttiva del procuratore Viola introduce il “modulo-promemoria”, prestampato a crocette, che “non dovrà essere inserito nel fascicolo processuale ma custodito a parte”: ircocervo inedito, come a doversi parare da future polemiche dopo fatti di sangue, barrando le caselle dei possibili motivi di non arresto (necessità di ulteriori indagini, non pericolo di reiterazione o di atti violenti, ecc.): ma non sono già le normali valutazioni di cui un pm si assume la responsabilità ogni giorno in ogni fascicolo? Omicidio di Saman, il male non è “cultura” di Giusi Fasano Corriere della Sera, 25 marzo 2024 Domani seppelliremo quel che resta di una ragazza di 18anni che aveva osato sognare e che, sognando, aveva cercato la libertà fra le sabbie mobili di una barbarie che ci ostiniamo a chiamare “cultura”. “È la loro cultura”, “è una questione culturale”... ci raccontiamo spesso quando sentiamo storie che per noi - da questa parte del mondo - sono inconcepibili. Storie di precetti religiosi, di tradizioni incivili, di usanze inumane che quasi sempre prevedono l’oppressione della donna. Beh, domani, proviamo a fare a meno di accostare quella parola, cultura, al nome di Saman. Un piccolo gesto per lei. Perché Saman Abbas - la ragazza pachistana che seppelliremo a Novellara, nel Reggiano - è stata uccisa dall’inciviltà, dall’arretratezza, dalla ferocia, dall’oscurità, dall’ignoranza, dalla disumanità, dall’incultura di quella “cultura” che per noi è malvagità e che non possiamo accettare. Tre anni fa, in questi stessi giorni, Saman, aveva ancora il coraggio e la speranza di andare incontro a un futuro luminoso. Magari con il suo fidanzato, Saqib, magari all’università: due cose fra le tante che i suoi genitori non le avrebbero mai consentito, se fosse rimasta a vivere con loro. Ma lei aveva scelto di essere libera, di uscire dalla prigione della sua famiglia che la voleva per forza sposa di un cugino scelto da suo padre e sua madre, in Pachistan. E poi si era messa in testa di andare a scuola e di togliere il velo, quella figlia senza vergogna. Ma nei pensieri di sua madre e suo padre il vento nei capelli e il sapere non servono per fare la madre, la moglie, la donna ubbidiente e sottomessa in qualche casa del suo Paese d’origine. Ha fatto un solo errore, la nostra amica Saman. E cioè fidarsi di sua madre che l’aveva pregata con un sms di tornare a casa “e stai tranquilla”, era la sostanza della sua menzogna, “non farai niente che non vuoi fare”. Il male era lì, in casa, e lei gli è andata incontro senza diffidenza. È finita come sappiamo. Saman in una stanza che sente dire dall’altra parte del muro “uccidiamola”. Chissà come le tremavano le mani mentre scriveva l’ultimo messaggio al suo Saqib per chiedergli di dare l’allarme “se non hai mie notizie entro 48 ore”. Suo zio l’ha strangolata con la benedizione di mamma e papà. Meglio morta che libera, hanno concordato soddisfatti. E la cosa peggiore è che a loro è sembrato giusto così. Pavia. Il papà del trapper morto in carcere: “Leggete i suoi ultimi versi, non può essersi suicidato” di Federico Berni Corriere della Sera, 25 marzo 2024 Jordan Jeffrey Baby, 26 anni, è stato trovato impiccato il 12 marzo. Stava scontando una condanna per rapina e odio razziale. Il padre: “In paese gli volevano bene tutti, faceva il duro solo per avere like. Ha fatto errori, ma ha pagato più di quanto meritasse. C’è un’inchiesta in corso, sono fiducioso”. Le ultime parole di Jordan, forse i versi di un brano rap in cantiere: “Sono stato padrone del mio destino in negativo, e lo sarò anche in positivo, tranquillo papà, la mia strada l’ho già scelta”. A Roberto Tinti - il padre del 26enne brianzolo - restano il dolore, i ricordi, e l’ultimo testo del figlio: “Le sembrano i versi di qualcuno che vuole suicidarsi? Mio figlio voleva girare finalmente pagina, ma dal 12 marzo lo piango, dopo quella telefonata arrivata dal carcere di Pavia”. Il giovane di Bernareggio (Monza) è stato trovato in cella la notte tra l’11 e il 12, in ginocchio, il collo legato alle sbarre, morto per soffocamento. A suo carico risultava una condanna per rapina con l’aggravante dell’odio razziale (accusa caduta in secondo grado nei confronti del coimputato, il rapper romano Giancarlo “Traffik” Fagà, che aveva scelto di impugnare il procedimento, al contrario di Tinti). Un “suicidio” a cui il padre del ragazzo che voleva sfondare nella trap con lo pseudonimo di “Jordan Jeffrey Baby” non crede. Che idea si è fatto? “C’è un’inchiesta in corso, e ho fiducia in chi sta lavorando perché venga fatta chiarezza, come chiediamo fin dall’inizio io e il mio legale, l’avvocato Federico Edoardo Pisani”. Se la sente di tornare con il ricordo a quel giorno? “Si può solo immaginare cosa prova un padre in quel momento. Io sono rimasto sbalordito, lo avevo sentito nemmeno un mese prima ed era contento, voleva cambiare strada. Come me, sono rimasti senza parole tutti qui in paese, dove c’erano i suoi amici di sempre”. Ha ricevuto molto affetto, se lo aspettava? “Abbiamo appena finito di pranzare insieme, io e gli amici di Jordan, è stato un bellissimo momento. Mi hanno fatto vedere un video in cui era in Spagna, rideva e scherzava (dice con la voce rotta, ndr). Sapevo che era benvoluto, perché in realtà non era il tipo che voleva far credere”. Sui social ostentava comportamenti da “fuorilegge”, ma in realtà, da chi lo conosce non emerge questa indole. Perché atteggiarsi in quel modo? “Lui mi diceva che andava fatto, nel mondo della trap, per arrivare a un pubblico numeroso. Per quella storia dei “like” e cose simili, che io faccio fatica a comprendere”. L’accusa più dura riguarda però la questione della rapina ai danni di un immigrato, ripresa e pubblicata sui social. Con l’aggravante del razzismo, tra l’altro. “È una cosa che non concepisco. Lui che amava il rap, come poteva non ammirare la cultura degli afroamericani? Aveva Michael Jordan tatuato in faccia. Sua madre è di origine Sinti, lo diceva anche lui per scherzare: “Sono mezzo zingaro”. In quel video non è lui che pronuncia certe parole. Comunque, mi faccia dire una cosa su queste vicende”. Prego... “I suoi errori Jordan, li ha commessi, ma stava pagando più di quanto meritasse”. Jordan ha rinunciato a fare ricorso in appello per andare subito in comunità. Ha denunciato di aver subito abusi e maltrattamenti nello stesso carcere (c’è un procedimento in corso e un’opposizione a una richiesta di archiviazione pendente) in cui è stato successivamente rimandato, perché avrebbe violato le norme della comunità. Qui interviene l’avvocato Pisani: “Stiamo conducendo indagini difensive perché venga fatta luce su ogni aspetto. Il pm Alberto Palermo indaga ipotizzando il reato di omicidio colposo, e l’autopsia da lui disposta e già eseguita offre, a nostro modo di vedere, spunti interessanti. Di più non possiamo aggiungere per rispetto degli inquirenti”. Vercelli. “Carcere: con la terra, coltivare il proprio futuro” infovercelli24.it, 25 marzo 2024 A Vercelli, convegno regionale con i direttori delle strutture penitenziarie e i garanti dei detenuti. “Carcere: con la terra, coltivare il proprio futuro”: è il titolo del convegno regionale previsto martedì 26 marzo nella Sala Convegni della Fondazione Cassa di Risparmio di via Monta di Pietà, 22 a Vercelli. Il convegno regionale è stato proposto e organizzato dai garanti comunale e regionale delle persone detenute, con il sostegno del Comune di Vercelli, per affrontare la tematica del lavoro orto-floro-vivaistico in ambito penitenziario. È prevista la presenza e l’intervento del Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria del Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta, Rita Monica Russo. Con il nuovo direttore della Casa Circondariale di Vercelli, Giovanni Rempiccia, saranno presenti i direttori di Alba, Nicola Pangallo, di Alessandria, Maria Isabella De Gennaro, di Saluzzo, Luisa Pesante, e di Torino, Elena Lombardi Vallauri. I progetti per il recupero e il reinserimento lavorativo dei detenuti passano anche per l’attività agricola, che si può realizzare dei tenimenti agricoli presenti nelle carceri del Piemonte. L’obiettivo del seminario pubblico è quello di evidenziare le realtà dei tenimenti e le attività connesse alle produzioni orto-frutticole e floro-vivaistiche, con particolare riferimento agli istituti di Alba, Alessandria San Michele, Asti, Biella, Cuneo, Saluzzo e Torino. La conoscenza di organizzazioni e contesti diversi può rappresentare un utile viatico al potenziamento e alla valorizzazione della rinnovata gestione del tenimento agricolo vercellese, ma anche offrire spunti di riflessione per un sistema coordinato sul territorio piemontese. Secondo il Garante comunale delle persone detenute della Città di Vercelli, Pietro Luca Oddo, “La situazione carceraria costituisce un serio problema che vede coinvolta l’intera comunità penitenziaria e Vercelli non sfugge a questo problema. Il Tenimento Agricolo rappresenta però uno degli strumenti di soluzione; esso offre infatti una duplice opportunità: per le persone detenute rappresenta il percorso di aiuto alla riabilitazione e alla re-inclusione sociale. Come? Attraverso la formazione e il lavoro. Per la città e per i vercellesi rappresenterà invece uno strumento di partecipazione e di concreto supporto a quel percorso. Come? Semplicemente diventandone fruitori, perché no, divenendo “clienti” dei frutti del lavoro dei detenuti presso il tenimento. È già stato fatto in passato. Verrà fatto di nuovo con maggior impegno e coinvolgimento da parte di tutti, Comunità penitenziaria e città”. Secondo il Garante regionale dei detenuti Bruno Mellano “L’esperienza del lavoro nei tenimenti agricoli penitenziari, anche in Piemonte, ha fatto registrare in questi anni buone esperienze e indubbie difficoltà. Le prospettive di sviluppo, seppur impegnative, appaiono molte e promettenti, lungo la strada della quotidiana conquista di un’esecuzione penale rispettosa dell’Art. 27 della nostra Costituzione. Ringrazio, sin da ora, il Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria e i suoi funzionari per aver subito colto l’occasione per un confronto pubblico che contribuisca a far crescere la condivisione e la consapevolezza di una sfida dei territori”. Vicenza. Ramadan, la direzione del carcere distribuisce datteri e corano ai detenuti di fede musulmana di Mario Parolari Corriere del Veneto, 25 marzo 2024 Il gesto di apertura riceve il plauso degli imam veneti: “Ora speriamo che altri seguano l’esempio. Questo è un periodo di preghiera, non di polemiche”. Settanta scatole da un chilo di datteri e libri con passaggi del corano tradotti in italiano, una lingua comune per tutti. Una mano tesa dalle comunità islamiche ai 75 detenuti del carcere San Pio X di Vicenza, di diverse nazionalità ma accomunati dalla stessa fede. L’iniziativa di Vicenza - Nella mattinata di sabato 23 marzo, i detenuti hanno potuto vivere un momento di celebrazione spirituale ma anche di solidarietà, quando i membri di alcuni centri della Comunità religiosa islamica italiana del Triveneto (Coreis) hanno portato all’interno del carcere i frutti con cui tradizionalmente si rompe il digiuno nel mese di preghiera. “Il mese di Ramadan è il periodo in cui più si sente l’assenza della partecipazione nelle famiglie o in moschea” spiega l’imam Yahya Zanolo, presidente della Coreis Triveneto. “Di solito durante questo mese si riscopre l’unità familiare, si rompe il digiuno insieme e la sera si prega di più fino a tardi - spiega Zanolo. - Ci sembrava importante dare un piccolo segno concreto che possa magari essere veicolo di un sostegno spirituale”. Come spiega Zanolo, l’idea dietro questo gesto è partita dalla nuova direttrice della casa circondariale, Luciana Traetta, che attraverso la vicesindaca Isabella Sala ha aperto le porte del carcere ai membri delle comunità islamiche vicentine. “Un gesto di vicinanza” - L’iniziativa ricalca molte altre simili da parte delle comunità islamiche locali in tutta Italia, spiega il presidente nazionale dell’Unione delle Comunità Islamiche d’Italia (Ucoii), Yassin Lafram. “Ogni anno, attraverso i nostri imam e le nostre guide spirituali, che hanno accesso alle carceri, promuoviamo il ‘sacco Ramadan’, che di solito contiene datteri, tè verde, ma anche biscotti, zucchero, e olio - spiega Lafram. - I datteri simboleggiano l’alimentazione consumata dopo l’ora del tramonto quando si interrompe il digiuno. È un gesto di vicinanza alla popolazione carceraria, vogliamo sostenere chi nonostante la detenzione riesce a digiunare come da precetto islamico”. Secondo il Ministero della Giustizia, i detenuti del San Pio X sono 365. Tra questi, spiega Zanolo, sono 75 quelli di fede musulmana che hanno ricevuto le scatole con i datteri. Turni più flessibili durante il digiuno - “Nel momento dell’Iftar, quando si rompe il digiuno, ci sediamo tutti a tavola, poveri, ricchi, giovani e anziani insieme - spiega Tanji Bouchaib, presidente della Federazione Regionale Islamica del Veneto. Con iniziative come queste vogliamo invitare le altre associazioni, anche di un’altra fede, a trovarsi a tavola insieme per ricordare chi ha bisogno. Quando digiuniamo per il Ramadan capiamo la fame dei più bisognosi, che la sentono tutto l’anno”. Come spiega Lafram, durante il mese del Ramadan al di fuori delle carceri anche in Veneto si registrano molte situazioni in cui i datori di lavoro vanno incontro ai dipendenti musulmani. Spesso vengono garantiti turni più flessibili affinché chi lavora viva il momento dell’Iftar a casa”. “Seguite l’esempio di vicenza” - “I musulmani non lavorano meno durante il Ramadan. Passati i primi giorni il corpo si abitua al nuovo regime alimentare per affrontare la giornata lavorativa - spiega Lafram. La produttività delle aziende non ne risente in questo mese, ma serve attenzione particolare. Se il turno di lavoro finisce dopo le 18.30, l’orario del tramonto, al lavoratore può essere concesso di uscire prima per consumare il pasto con la famiglia. A differenza del messaggio del Ramadan come mese di polemiche, c’è molta flessibilità da parte dei lavoratori”. “In caso ci fossero altre situazioni simili in altre zone del Veneto, certamente la nostra sarebbe un’iniziativa da emulare - spiega l’imam Zanolo. Con la nostra comunità ci stiamo coordinando anche tra i vari centri islamici della provincia, come quello di via dei Mille, ma anche da fuori Vicenza, affinché ci possa essere una cordata per portare dei sostegni. Cercheremo di andare per i prossimi due sabati nello stesso carcere, magari portando non solo cibo, ma anche vestiario”. Breve, chiara e probabile: la lingua giuridica segua la lezione di Cicerone di David Cerri* Il Dubbio, 25 marzo 2024 Ma come mai tutto questo improvviso interesse per la scrittura giuridica? Diciamo intanto che non sarebbe corretto parlare di un interesse “improvviso”: linguaggio e scrittura giuridica sono al centro dell’attenzione delle istituzioni che curano la formazione forense da lungo tempo; proprio la Scuola Superiore dell’Avvocatura, già negli anni in cui era condotta da Alarico Mariani Marini, pose le basi per quello che è un vero e proprio movimento culturale, i cui frutti si sono già letti anche nella normativa per l’accesso alla professione. Non è infatti forse vero che già nella legge ordinamentale del 2012, all’art.43, e poi nel D.M. 17/2018 sulla disciplina dei corsi di formazione (che ne costituisce l’applicazione) si legge che tra le materie previste vi sono “tecnica di redazione degli atti giudiziari in conformità al principio di sinteticità e dei pareri stragiudiziali nelle varie materie del diritto sostanziale e processuale” e “teoria e pratica del linguaggio giuridico; argomentazione forense” ? E quanti incontri si svolgono sul territorio, da anni su questi temi, a cura di istituzioni e associazioni forensi. Non minore interesse manifesta la magistratura, attraverso la sua Scuola Superiore e le strutture decentrate, come dimostra tra l’altro la recentissima pubblicazione della Guida alla scrittura dei provvedimenti giudiziari civili. È che la riforma Cartabia, e in particolare la sua attuazione, ha posto a tutti gli avvocati con forza la questione della scrittura degli atti nel processo civile, dopo che già in quello amministrativo alcuni nodi erano venuti in discussione: uno per tutti quello dei limiti dimensionali degli atti. La prima reazione della categoria al D.M. 110/2023, di applicazione dell’art.46 disp.att. c.p.c. del D.lgs.49/2022 attuativo della riforma, col suo “carico” di prescrizioni (sui limiti, sulla forma, sulle conseguenze delle violazioni) è stata quella di… strapparsi i capelli; ma a una verifica più attenta è apparso trattarsi di un “Dramma inconsistente” (se mi si consente l’autocitazione) o, come ben più autorevolmente ha scritto proprio in questi giorni Giorgio Costantino, semplicemente “Le preoccupazioni ed i timori manifestati nei confronti delle… disposizioni si sono rivelati privi di fondamento”. Una simile impostazione - tendere cioè a vedere le novità normative nel processo civile come una opportunità, e non come una punizione per l’avvocatura (e invero anche per la magistratura, giacché quelle indicazioni sono rivolte anche ad essa, pur “in quanto compatibili”) mi pare la preferibile, per tutti noi giuristi pratici. È opportuno chiarire anche un altro punto. La tendenza verso una maggiore chiarezza e sinteticità degli atti del processo non è una deriva di atteggiamenti filo anglosassoni, o un inevitabile riflesso del condizionamento che ordinamenti “forti” sul piano economico tendono a esercitare, anche su un piano normativo e sociale, su ordinamenti più deboli. È senz’altro vero che da molti anni le stesse intese tra avvocatura e magistratura (come il Protocollo del 2015 per i ricorsi in Cassazione tra la Suprema Corte e il Cnf, poi rinnovato nel 2023) hanno tenuto conto delle indicazioni delle Corti sovranazionali europee; ed è vero anche che quelle Corti hanno una chiara impostazione anglosassone, dove a sua volta è molto presente l’esperienza nordamericana (una civiltà giuridica decisamente più pragmatica della nostra). Ma chi è che ha scritto queste parole: “Ora si dica della narratio che contiene l’esposizione della causa. Deve quindi avere tre cose: che sia breve, che sia chiara, che sia probabile... Perché spesso la questione è poco compresa a causa della lunghezza piuttosto che dall’oscurità della narrazione. E bisogna usare anche parole chiare (verbis quoque dilucidis)”? Cicerone, naturalmente, nel De inventione. E non è nella Retorica di Aristotele che si legge: “Per quanto riguarda lo stile, uno dei suoi pregi principali può essere definito come la perspicuità. Ciò è dimostrato dal fatto che il discorso, se non rende chiaro il significato, non svolgerà la sua funzione propria”. Nessuna sudditanza a influssi esterni, quindi, ma una orgogliosa rivendicazione della tradizione classica, semmai rinverdita alla luce degli studi della nuova retorica novecentesca. Un’ultima, ma non meno rilevante, nota a proposito delle novità processuali civilistiche. L’attenzione alla “forma” degli atti (volendo così sintetizzare, impropriamente, il complesso delle novità) aveva avuto un primo e assai più drastico riflesso nel processo amministrativo; come noto, in quella sede davvero si potrebbero avere e si sono avute perplessità, anche di ordine di compatibilità costituzionale, per norme che pur possono incidere sul diritto di difesa che da un lato sono emanate da un’ autorità amministrativa (il Presidente del Consiglio di Stato), e che d’altro lato, per gli effetti, giungono alla ben nota previsione dell’art.13 ter disp.att. c.p.a. secondo la quale “Il giudice è tenuto a esaminare tutte le questioni trattate nelle pagine rientranti nei suddetti limiti. L’omesso esame delle questioni contenute nelle pagine successive al limite massimo non è motivo di impugnazione”. Niente di tutto questo nel D.M. 110: il giudice non ha alcuna possibilità di intervento se non condivide le giustificazioni che il legale può offrire per una deroga ai limiti (cfr. c.6 art.46 disp. att. c.p.c., in aderenza al criterio direttivo della legge delega n.206/2021, art.1, c.17 lett.e), se non nel valutare il pregio delle difese ai fini delle spese (come del resto è previsto nel D.M. 55/2014, all’art.4); il penultimo comma dell’art.46 disp. att. c.p.c. è ben chiaro nell’escludere qualsiasi ipotesi di inammissibilità o improcedibilità. Considerando inoltre le numerose esclusioni dal computo dei caratteri, e i casi nei quali è lo stesso D.M. ad escludere l’applicazione dei limiti, si potrebbe maliziosamente osservare, come ho già fatto altrove, che forse dovrebbe essere l’avvocato incapace di contenere un suo atto in una cinquantina di pagine (così di fatto, tutto incluso) a farsi qualche domanda... Restando in ogni caso tranquillo sul fatto che tutto che ciò scrive sarà esaminato dal giudice e potrà rilevare ai fini di una impugnazione. La verità è che maggiore sintesi, maggiore chiarezza, significano semplicemente maggior impegno e maggiore applicazione del professionista: di questo si può star certi. *Avvocato “La Costituzione, formidabile insegnamento per la scrittura di noi avvocati” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 25 marzo 2024 È iniziato il 1° marzo il corso di scrittura giuridica organizzato dalla Scuola superiore dell’avvocatura (fondazione del Consiglio nazionale forense). Nei quattro incontri programmati (gli ultimi due si terranno il 5 e l’8 aprile), avvocati, professori universitari e magistrati saranno impegnati a illustrare le tecniche per essere chiari e convincenti negli scritti, senza tralasciare i cambiamenti ai quali stiamo andando incontro, con la presenza sempre più rilevante dell’Intelligenza artificiale. L’avvocata Paola Carello, consigliera del Cnf e coordinatrice scientifica del corso, sottolinea l’importanza dell’iniziativa di via del Governo Vecchio, che ha riscosso un immediato successo: i trecento posti disponibili sono andati esauriti in neanche 48 ore dall’apertura delle iscrizioni. Avvocata Carello, quali sono le caratteristiche principali del corso di scrittura giuridica della Scuola superiore dell’avvocatura? Il tema è di grande interesse da diversi anni e il corso rientra nell’ambito delle attività di formazione, aggiornamento e orientamento in favore di iscritti e iscritte agli albi. È stata una delle primissime iniziative deliberate dal nuovo Consiglio direttivo, che si è insediato nell’estate dello scorso anno e vuole operare nel solco della prestigiosa tradizione formativa della Scuola superiore dell’avvocatura. Il corso di alta formazione, organizzato d’intesa con il Consiglio nazionale forense, è stato articolato in quattro incontri con interventi di giuristi e linguisti, chiamati a confrontarsi su scrittura, linguaggio, comunicazione, novità normative. L’adesione è stata superiore alle aspettative, abbiamo dovuto ampliare il numero dei partecipanti, anche per l’attualità del tema, in seguito all’introduzione del Decreto ministeriale 110 del 2023, che ha fissato i limiti redazionali degli atti giudiziari civili. A ciascun avvocato sono richieste doti anche nella scrittura. La chiarezza negli scritti rende l’avvocato più credibile? Sono doti indispensabili per qualsiasi giurista. Nelle nostre università lo studio del diritto è quasi esclusivamente orale, a differenza di quanto accade in Nord America, dove i corsi di legal writing insegnano presto e bene i segreti di un’efficace comunicazione scritta. I ragazzi che frequentano i nostri dipartimenti giuridici hanno posato la penna al termine degli studi superiori e la riprendono solo al momento della predisposizione della tesi di laurea. Dopo, se intraprendono la pratica forense, sono chiamati a predisporre pareri o atti senza conoscere le regole fondamentali della scrittura giuridica. Questa scarsissima attenzione prestata all’educazione alla scrittura e alla composizione dei testi oggi è dannosa e anacronistica. Siamo tutti consapevoli che il diritto è fatto di lingua e che la scrittura è per l’avvocato uno straordinario e indispensabile strumento di lavoro. Spesso si pensa che negli scritti giuridici la quantità delle parole sia una caratteristica positiva. È vero il contrario? Il professor De Mauro ha evidenziato che per stendere la nostra Costituzione sono stati utilizzati 1.357 vocaboli, dei quali 1.002 appartengono al vocabolario di base italiano: questi 1.002 vocaboli hanno occupato il 92,13 per cento del testo, con una lunghezza media per frase inferiore alle 20 parole. Un testo semplice, scritto con parole semplici e nella struttura più semplice possibile, è la carta fondamentale della nostra Repubblica. Comprensibile per tutti, anche per i ragazzi che la studiano a scuola e ne intendono l’importanza. Il linguaggio giuridico è certamente tecnico, ma non è oscuro, né barocco, né tantomeno prolisso. Anche nella complessità del diritto, il bravo giurista sa scegliere quanto è superfluo e quanto necessario, e sa differenziare ciò che è mero barocchismo da ciò che ha invece una precisa funzione semantica o testuale. Doti oratorie e di scrittura non possono, dunque, che andare a braccetto, nella professione di avvocato... Entrambe sono fondamentali per garantire all’assistito la migliore difesa possibile. Lo scopo dell’avvocato è quello di persuadere della fondatezza di quanto sostiene, e linguisti e comunicatori ripetono che chiarezza, concisione e sinteticità sono alleati indispensabili per farsi comprendere. Oggi l’evoluzione tecnologica incide molto nello svolgimento dell’attività giudiziaria, e sono frequenti le udienze tenute con il deposito di note scritte in sostituzione della presenza fisica dei legali. Ciò che prima veniva discusso oralmente oggi viene trattato con atti scritti. Di qui la maggiore esigenza di imparare le regole di una comunicazione chiara, appropriata, efficace con chi è chiamato a valutare le tesi esposte, appunto, nello scritto. Un linguaggio chiaro è importante anche per avvicinare la figura dell’avvocato ai cittadini? Lo avvicina innanzi tutto agli assistiti. L’avvocato ha precisi obblighi deontologici di informazione nei confronti di colui che gli si è affidato, e che deve conoscere e comprendere quanto viene fatto nei suoi interessi. La lealtà verso il cliente è un valore fondamentale per l’avvocatura, e viene realizzata anche attraverso una comunicazione chiara. Poi non dimentichiamo che informatica e internet, nella loro dirompente accelerazione degli ultimi decenni, hanno diffuso l’idea di una conoscenza quasi infinita alla portata di tutti. Abbiamo oggi banche-dati giuridiche a cui chiunque può accedere gratuitamente. Questa generalizzata e illusoria idea di facile comprensione del testo giuridico genera spesso confusione e facili pregiudizi, che vanno contrastati. Ma possiamo andare oltre. L’archiviazione di un linguaggio oscuro, verboso e poco comprensibile aiuta tutta la comunità. Perché garantisce la conoscenza dei diritti, consente di comprendere meglio le ragioni delle decisioni giudiziarie e diffonde nella collettività la consapevolezza dell’importanza del diritto nell’organizzazione di una società democratica. “Il linguaggio è sempre potere: quello del diritto può cambiare la nostra sorte” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 25 marzo 2024 “La lingua è sempre potere: chi più lingua sa, più potere ha”, dice Stefania Cavagnoli, docente di linguista generale e applicata all’Università Tor Vergata di Roma. E ciò vale soprattutto per il linguaggio giuridico, di cui l’esperta di occupa: non solo perché è complesso, vago, e talvolta inutilmente oscuro. Ma perché attraverso il linguaggio si esercita anche il più “terribile” dei poteri: scrivere il destino di un cittadino che incappa nelle maglie della giustizia. Partiamo dalle basi: qual è la specificità del linguaggio giuridico, rispetto ad altri linguaggi specialistici? La sua caratteristica principale è di tipo culturale: il linguaggio giuridico è sì specialistico, ma è fortemente ancorato alla realtà che disciplina. Pur nella somiglianza con altri sistemi giuridici, anche continentali, non solo anglosassoni, c’è una specificità che è propria di un determinato contesto sociale e culturale, in questo caso quello italiano. La seconda caratteristica è la vaghezza, che è propria del linguaggio giuridico in quanto il testo deve essere interpretato: non è possibile pensare a una regolamentazione specifica per ogni caso che si può sviluppare. Questo è il motivo per cui il testo giuridico, pur essendo specialistico, quindi preciso e referenziale, è un testo che permette, anzi obbliga all’interpretazione. C’è un terzo aspetto? Forse il conservatorismo della lingua, rispetto ad altri linguaggi specialistici italiani. Un certo prestigio dato anche da determinate scelte linguistiche: penso nello specifico ai latinismi, ai brocardi, alle formule di rito. Un linguaggio che, se pensiamo anche alla letteratura, è stato usato in modo asimmetrico per non farsi capire, invece che per farsi capire. Nella Costituzione abbiamo un testo giuridico che è comprensibile, e abbiamo il diritto di comprenderlo. Molto spesso, invece, in un rapporto asimmetrico di potere fra esperti e non esperti, il testo viene utilizzato nella concretizzazione del potere. Lei spiega che il linguaggio giuridico è una “varietà di potere”. In che modo? La lingua è potere, in generale: chi più lingua sa, più potere ha. E nell’ambito del diritto, abbiamo una regolazione dei rapporti fra le istituzioni, fra Stato e cittadini, o fra cittadini e cittadine, per cui il linguaggio giuridico diventa norma. Quindi ha un peso “performativo”: è necessariamente di potere. In più c’è la questione della relazione asimmetrica tra uno specialista e una persona che non è competente in quell’ambito. Un’asimmetria inevitabile? Qui si mette in atto una conoscenza e non il potere della conoscenza. Deve cambiare il modo di spiegare le cose: se in una comunicazione orizzontale fra un’avvocata e un giudice la comunicazione può essere complessa e diretta, in quella fra un’avvocata e una cliente deve essere spiegata, pur senza perdere la specificità del linguaggio. Dunque, ci sarebbe una volontà esplicita di “escludere” l’interlocutore dalla comprensione del testo, esercitando il proprio “dominio” linguistico... Dipende dalla tipologia del testo. Prendiamo la Costituzione, un testo che tutti e tutte dovremmo leggere e conoscere: soprattutto per quel che riguarda la prima parte, i principi fondamentali, è un testo altamente comprensibile. Poi ci sono delle tipologie testuali che non necessariamente devono essere comprese dalla cittadinanza: una memoria presentata al giudice, ad esempio. Insomma, ci sono testi che possono essere tecnici, ma devono essere filtrati, cioè, spiegati a chi non ha quelle competenze. Ma il discorso del potere è legato un po’ anche alla deontologia professionale. Cioè? C’è un potere di modificare le cose, di distruggere o salvare una persona, a livello processuale. Un potere che può essere considerato anche in modo positivo, nel senso di capacità, ma bisogna rendersi conto del contesto comunicativo in cui ci si trova ed essere consapevoli di avere un potere, a partire da quello linguistico, sulle persone con cui si comunica. Il linguista Luca Serianni sosteneva che se la Costituzione e i Codici possono ritenersi sufficientemente chiari, lo stesso non può dirsi per alcuni testi inutilmente astrusi. Come la classica circolare... Intanto distinguerei fra testo giuridico e testo amministrativo, il quale rientra in una routine comunicativa. Non possiamo dimenticare che il linguaggio amministrativo italiano aveva bisogno di essere pomposo, complesso e altisonante perché non esisteva una lingua nazionale. Dagli anni Novanta in poi, con gli interventi di Sabino Cassese, i testi avrebbero dovuto essere più semplici. Ma ancora oggi sono scritti secondo regole che non favoriscono la comprensione da parte della cittadinanza e questo è ancora più grave perché con l’amministrazione abbiamo tutti a che fare tutti. Che fare, in proposito? Andrebbero riscritti, anche utilizzando l’indice di leggibilità di Tullio De Mauro. Forse bisogna ricordare che la Costituzione è stata frutto di una lunga revisione linguistica, non da parte di giuristi ma da parte, allora, di letterati: la via potrebbe proprio essere quella di far collaborare giuristi e linguisti nella strutturazione dei testi. L’ex ministro della Giustizia Claudio Martelli propose di far iscrivere il codice penale a Leonardo Sciascia... Io penso che il testo giuridico debba necessariamente essere rivisto con un occhio interdisciplinare. Cioè con esperti, che un tempo erano elettorati, oggi studiosi e studiose in ambito linguistico. Si dice che la lingua riflette la società. In che modo ciò vale per il nostro Codice penale, ad esempio? Il diritto regola i rapporti in una determinata comunità linguistica e si adegua alla comunità, così come fa la lingua. Possiamo pensare ad alcuni reati che non lo sono più, come l’omosessualità o il delitto d’onore. Quando cambia la regolamentazione giuridica, cambia anche la connotazione in ambito linguistico. Le due cose sono strettamente legate. Riscrivere, dunque? Io partirei dalla riscrittura dei codici in senso inclusivo, adeguandoli alla società che cambia. Cominciando col sostituire un’unica parola: “uomo” con “persona”. Che in questo caso non considera neanche la presenza femminile. Ci sarebbe tanto, da riscrivere. I disastri creati dalla neolingua di Google di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 25 marzo 2024 la “rivoluzione orizzontale” di Internet ha generato un modello di conoscenza democratico ma ha anche impoverito la capacità di selezionare i saperi utili. A che serve passare anni sui libri, a che servono lo studio, l’esperienza, la competenza se poi mi basta un click per farmi un’idea su tutto? E se quello stesso click permette di cucirmi addosso l’abito che desidero; giurista, virologo, astrofisico, climatologo, critico d’arte, sismologo, e via dicendo. L’avvento di Internet doveva segnare la rivoluzione democratica della conoscenza una rivoluzione orizzontale, rivolta alle masse che mette a disposizione di tutti informazioni un tempo riservate a una ristretta cerchia di iniziati e, in parte, è stato così. L’intera cultura umana scorre infatti all’interno dei nostri dispositivi digitali, pc, tablet, telefoni, tutte le grandi opere della letteratura, della filosofia, della scienza, della musica sono facilmente scaricabili. Le enciclopedie, una volta così costose, si possono consultare gratuitamente online quasi a coronare l’utopia degli illuministi con la loro conoscenza “circolare”. La rete pullula di video tutorial su qualsiasi argomento, dal montaggio di uno scaldabagno alla costruzione di un piccolo aereo da turismo, mentre la mascherina del motore di ricerca di Google è un moderno oracolo a cui ci affidiamo per verificare la data di nascita di un attore, i premi oscar vinti da un film, la temperatura di fusione dell’alluminio, un articolo del codice di procedura penale, il tempo che farà domenica. Gli strumenti di cui oggi disponiamo per accrescere la nostra cultura e per condividere senza limiti le risorse immateriali, appena 25 anni fa erano impensabili. Annidato negli anfratti delle biblioteche, il sapere è stato messo al centro del villaggio globale e questo, paradossalmente, ci ha fatto smarrire il senso e il ricordo della battaglia, spesso dolorosa, contro gli austeri e supponenti custodi delle opere. Quel sapere che fu estratto parola per parola e poi conservato come un tesoro era la ricompensa per una severa disciplina alla quale i monaci avevano indicato la via. Eravamo estremamente attaccati a ciò che aveva richiesto un lavoro paziente, la lentezza e la gradualità dell’apprendimento permetteva ai concetti di sedimentarsi nella memoria. L’economista e futurologo americano Jérémy Rifkin ha definito non a caso la nostra epoca “l’era dell’accesso” evocando con grande ottimismo una società fondata sullo scambio e sulla cooperazione, addirittura un modello alternativo al capitalismo e alla proprietà privata, ma dall’accesso all’impiego intelligente delle informazioni il passo da compiere sembra ancora enorme. Da una parte c’è l’illusione della conoscenza, il “non sapere di non sapere” beffardo rovesciamento del celebre motto socratico, un prezzo da pagare quasi inevitabile di fronte all’oceano indistinto di nozioni che il web ci offre senza soluzione di continuità, ponendoci di fronte alla responsabilità di selezionarle. Questa illusione, tralasciando le varianti patologiche e pittoresche del complottismo, del terrapiattismo e il proditorio e reo utilizzi delle fake news, ha dato diritto di parola, per dirla in modo un po’ meno snob del compianto Umberto Eco, a legioni di sprovveduti convinti di conoscere materie di cui non sanno nulla perché “c’è scritto così su internet”. Con effetti a volte grotteschi: pazienti che si autodiagnosticano malattie e contraddicono il proprio medico, clienti che impongono strategie difensive ai propri avocati; un tempo noi italiani eravamo sessanta milioni di allenatori della nazionale, oggi siamo sessanta milioni di tuttologi. In secondo luogo assistiamo a un impoverimento generale della capacità di analisi e dello stesso uso del linguaggio. Come notava lo scrittore Nicholas G. Carr nel celebre articolo Is Google Making Us Stupid?, internet ha creato il modello della “navigazione” intellettuale, stiamo diventando abilissimi a scorrere e carpire informazioni da una pagina web, ma sempre meno abituati e capaci di comprendere un testo articolato, un ragionamento o un pensiero complesso, ogni giorno siamo più numerosi nel lambire il fiume della conoscenza ma in pochi sembrano capaci di immergersi nella profondità delle sue acque. È una rivoluzione antropologica che trasforma i processi cognitivi e il nostro rapporto con la lettura, la scrittura e lo stile di espressione. Come notò Carr parafrasando Masrhal McLuhan e citando un episodio di un secolo e mezzo fa, il mezzo modifica radicalmente la sostanza del messaggio: “Nel 1882 Friedrich Nietzsche acquistò una macchina da scrivere. La sua vista stava peggiorando e concentrarsi su una pagina per lunghi periodi di tempo era diventato estenuante e doloroso, provocando frequenti mal di testa. Una volta imparato a scrivere, era in grado di scrivere con gli occhi chiusi, usando solo la punta delle dita. Ma la macchina aveva un effetto più sottile sul suo lavoro. Un suo amico compositore, notò un cambiamento nel suo stile di scrittura. La sua prosa, già laconica, divenne ancora più concisa, più telegrafica. “Hai ragione”, rispose il filosofo, “i nostri strumenti di scrittura partecipano allo sbocciare dei nostri pensieri”. Come l’invenzione dell’orologio meccanico ha modificato la percezione del tempo e il nostro rapporto con le esperienze dirette (un tempo si mangiava quando si aveva fame, si dormiva quando si aveva sonno, oggi quando ce lo dice l’orologio), come la burocrazia, per dirla con Italo Calvino, ha generato una goffa e prolissa “antilingua” che vive nei verbali di polizia e nelle ordinanze dei giudici, allo stesso modo l’avvento del web e della sua rivoluzione orizzontale ha senz’altro diffuso conoscenze ma anche spalmato un velo di supponente ignoranza sul mondo. Centri per migranti in Albania. Ecco il bando, il governo corre di Federica Borlizzi e Marika Ikonomu Il Domani, 25 marzo 2024 Il testo pubblicato il 21 marzo dimostra che Meloni vuole rendere operative le strutture prima delle europee. Prevista una procedura snella, senza una gara pubblica, in deroga alle norme previste per appalti milionari. Il governo di Giorgia Meloni mira ad accelerare sui centri di permanenza in Albania. Le elezioni europee, dal 6 al 9 giugno, si avvicinano e i centri devono essere operativi a partire dal 20 maggio 2024. La data è stata messa nero su bianco nell’avviso di manifestazione di interesse pubblicato dal ministero dell’Interno il 21 marzo, che ha l’obiettivo di raccogliere l’interesse di società e cooperative che andranno a gestire i due centri previsti dal protocollo Italia-Albania, firmato lo scorso 6 novembre dai premier dei due paesi. Il valore dell’appalto, solo per la gestione dei centri, è di quasi 34 milioni di euro annui. L’accordo “per il rafforzamento della collaborazione in materia migratoria” prevede la realizzazione di due centri per migranti sul territorio albanese, in comodato d’uso, dove portare le persone salvate dalle autorità italiane in acque internazionali. Non è ancora chiaro se verranno esclusi i minori e i soggetti vulnerabili, non essendoci alcun riferimento esplicito nel disegno di legge. E sono ancora molti i dubbi sulla costituzionalità dell’intesa e su come verranno garantiti i diritti fondamentali. A partire dal fatto che le imbarcazioni delle autorità italiane sono, in base al codice della navigazione, territorio dello stato di appartenenza e porteranno i migranti salvati, contro la loro volontà, in un paese non appartenente all’Unione europea, per impedire di fatto l’arrivo sulle nostre coste. In realtà, l’avviso pubblicato dalla prefettura di Roma prevede la gestione di tre centri che, per le “ragioni di estrema urgenza sussistenti”, dovranno essere operativi entro la fine di maggio, anche se le strutture non saranno completate. Non si spiega in cosa consistano i motivi di urgenza ma si lascia la possibilità che sia “assicurata una ricettività progressiva”. Il che significa dimostrare all’opinione pubblica l’apertura dei centri, per poi finire eventualmente i lavori in una fase successiva. A gestire questi centri sarà un unico operatore economico che si occuperà del funzionamento “coordinato e unitario” di tutte le strutture. Un centro per le procedure di ingresso, a Shengjin, cittadina sulla costa nel nord dell’Albania, dove non sarà previsto il pernottamento ma verrà destinato alle procedure di screening sanitario, identificazione e raccolta delle eventuali domande di asilo. Poi, si prevede che i migranti vengano trasferiti nelle strutture di Gjader, a una ventina di chilometri dalla costa: un centro, con una capienza di 880 persone, in cui verrà svolto l’esame dell’eventuale domanda di asilo; l’altro, per 144 persone, invece avrà le funzioni dei centri di permanenza per il rimpatrio, per chi non avrà diritto alla protezione. Altri 168 posti saranno invece destinati agli alloggi di servizio, “di cui 60 riservati al personale dell’ente gestore”. Una procedura complessa da portare a termine, con costi umani ed economici molto alti. Tant’è che la stessa prefettura di Roma nell’avviso prevede la possibilità di periodi di inattività dei centri: in questi casi, l’ente gestore deve assicurare i livelli essenziali di pulizia per consentire il ripristino delle attività in un tempo di massimo 8 ore. Le spese pro-capite pro-die, cioè i costi per la gestione quotidiana del centro per ogni persona, ammontano complessivamente a 33.950.139 euro in un anno. Oltre 34 milioni stimati a cui però devono essere aggiunti, scrive la prefettura, i costi vivi: tra gli altri, i servizi di trasporto (spese di carburante, noleggio o acquisto di mezzi), i costi per l’assistenza sanitaria, le utenze, il wi-fi, la manutenzione ordinaria e straordinaria. Non sono poi incluse le spese per la sicurezza delle autorità, italiane e albanesi, che non sono note nemmeno per le strutture italiane, né per la costruzione, affidata al genio militare. E i diritti? - Se per la somministrazione dei pasti e il servizio di pulizia gli allegati sono molto dettagliati, non è chiaro come vengano garantiti i diritti fondamentali. Per il servizio di informazione e orientamento legale infatti si legge: “Il servizio assicura l’informazione allo straniero”, senza però specificare le modalità con cui il migrante viene a conoscenza dei propri diritti. E nessun riferimento al diritto di difesa della persona che, privata della libertà personale, rischia di essere rimpatriata. Il business di trattenimento ha infatti trovato una nuova frontiera in Albania, dove i centri - uno sarà di fatto detentivo - saranno gestiti da società, cooperative o multinazionali, come accade per i Cpr italiani. Enti profit che non hanno alcun fine umanitario e che spesso limitano al massimo i diritti per aumentare il margine di profitto. La procedura - Il regime d’eccezione è evidente in ogni aspetto, a cominciare dalle modalità di affidamento di questi centri: una procedura negoziata, senza gara, dal valore complessivo di quasi 34 milioni di euro, con scadenza per presentare la manifestazione di interesse a una settimana esatta dalla pubblicazione. Le procedure per affidare un campetto di calcio di quartiere finiscono per essere più lunghe e complesse rispetto a una gestione oltremare di centri dal valore di milioni di euro. D’altronde, il nuovo codice dei contratti pubblici permette di attivare la “procedura negoziata” senza la fase preliminare di pubblicazione del bando di gara, in casi specifici e tassativi. L’avviso pubblicato dalla prefettura di Roma, il 21 marzo, nulla dice sui “motivi” che hanno condotto l’amministrazione ad attivare questa procedura, se non per un generico riferimento alle “ragioni di estrema urgenza sussistenti” che - anche stando al gioco del governo Meloni - non sono sicuramente frutto di “eventi imprevedibili”, come prevede il codice. Le stesse ragioni di “urgenza” che sembrano essere state utilizzate dall’amministrazione anche per ridurre all’osso i tempi di pubblicazione dell’avviso, danno meno di sette giorni ai possibili enti gestori per presentare le proprie manifestazioni di interesse. In ogni caso, sembra rimanere illegittima questa procedura negoziata con riferimento all’ammontare dell’affidamento: 34 milioni di euro sono una somma che supera, di gran lunga, le soglie previste per la procedura d’eccezione. Basti pensare che il nuovo codice dei contratti pubblici prevede la procedura negoziata senza bando, previa consultazione di almeno cinque operatori economici, per i lavori di importi inferiori a 1 milione di euro. In questo caso, con un importo 34 volte superiore si prevede di consultare solo 3 operatori economici, che saranno invitati a presentare le offerte. L’unica modalità per ritenere legittima questa procedura è appellarsi al fatto che il protocollo stipulato con l’Albania rientri nell’ambito di un “accordo internazionale, concluso in conformità dei trattati dell’Unione Europea”. Ciò, infatti, permetterebbe di derogare completamente al codice dei contratti pubblici, come prevede l’articolo 56. Ma è problematico capire se questo protocollo sia stato effettivamente adottato in adesione con il trattato comunitario. Con procedure accelerate e una chiara sospensione dei diritti, il governo sta creando in fretta un’altra Guantánamo italiana, questa volta oltremare, dove il rischio è che nessuno possa monitorare. Sulla strage a Mosca in occidente regna l’inverno emotivo di Mariano Croce* Il Domani, 25 marzo 2024 Stavolta no: a differenza di altre stragi di matrice terrorista, non ci sentiamo parte della comunità degli offesi. Le centinaia di morti e feriti al Crocus City Hall non superano la soglia emotiva della nostra commozione. Non scatta in noi quella comoda coazione alla solidarietà che nelle passate tragedie, per quel poco che è durato, ci ha fatto dire che i morti era come fossero i nostri - anzi, che era come fossimo morti noi stessi. Ma questo non deve stupirci: siamo in guerra. E la guerra implica la diffusione capillare di un’istintiva inimicizia, quella che ci fa stilare indicibili classificazioni tra i morti: quelli nostri e quelli loro. Nelle nostre latitudini, in effetti, la prima reazione non è stata la compartecipazione al dolore, ma la paura. Il nostro timore principale era che a macchiarsi dell’atrocità fosse stato il governo ucraino e che una mossa tanto azzardata potesse provocare un’improvvisa espansione militare e territoriale del conflitto in corso. La rivendicazione dell’Isis-K ci ha rinfrancati come fosse la buona novella. Di qui, ha fatto seguito la guerra mediatica alla propaganda russa per arginare l’attitudine manipolativa di Putin e impedire lo stravolgimento ideologico della tragedia moscovita. Nel frattanto, un compiaciuto ma inconfessabile senso di rivalsa rispetto al recente plebiscito russo ci attraversava come a dire: “L’autocrate non sa mantenere neppure la promessa di maggiore sicurezza”. Tutto questo ha attutito l’impatto emotivo della strage di venerdì scorso sino a inibire l’innata compulsione al lutto collettivo. Beninteso: non intendo fare la morale al nostro apparato lacrimale inceppato. Non intendo dire che dovremmo sentirci parte dello spirito di cordoglio che tutto tocca quando si verificano tragedie di tale entità in paesi che sentiamo vicini. M’interessa piuttosto individuare un processo molto comune quando in politica si tratta di ridefinire chi è amico e chi è nemico per avvalorare l’idea che si sia in guerra. Secondo un diffusissimo credo di psicologia politica, una comunità, perché sia compatta contro una minaccia esterna, deve sapere a chi sentirsi vicina e da chi prendere le distanze. E questa distinzione basilare tra amici e nemici, perché sia pienamente efficace, dev’essere istintiva, funzionare cioè senza la mediazione di un ragionamento consapevole. In altre parole, dev’esser tale che, se muoiono membri della comunità politica a noi ostile, detta tragedia non generi in noi sentimenti di immediata compassione. L’inimicizia deve arrestare il transito degli affetti. Al più può ammettere equilibrate ma studiatamente gelide manifestazioni di solidarietà. L’inverno emotivo che in Europa e Usa ha accolto la strage al Crocus City Hall è dunque il sintomo di un processo strisciante di riconfigurazione dello scacchiere delle amicizie e delle inimicizie. In seguito agli attentati dell’11 settembre 2001, si volle convincere le popolazioni dei paesi occidentali che c’era un nuovo nemico intenzionato a porre fine alla nostra civiltà. A tal fine, furono esposte alla massiccia diffusione dell’idea secondo cui la mera esistenza dell’islam politico organizzato costituisse una minaccia alla loro vita. Dal febbraio 2022, la partita è cambiata. Il nemico esistenziale, vale a dire quello la cui mera esistenza è di per sé una minaccia, è il rinnovato asse tra Russia e Cina. L’idea che oggi va montando è che la Russia ci stia facendo guerra per fare strame delle più preziose acquisizioni della tradizione liberale, come le libertà individuali e i valori del pluralismo. Da parte russa, d’altro canto, pare che questa comoda contrapposizione piaccia, tale e tanto è l’impegno a soffocare il dissenso con la censura violenta e le minoranze con la prigione e i lavori forzati, mentre Putin promuove una piattaforma di valori che scalda gli animi reazionari dei controrivoluzionari nostrani (o che tali vogliono farsi passare per tornaconto elettorale). Ecco: la recente inibizione al lutto sembra dimostrare che la ricomposizione del quadro delle inimicizie stia funzionando. Chissà che qualcuno, in cuor suo, per un fugace e denegato istante, non abbia considerato i terroristi del Crocus City Hall come circostanziali alleati. *Filosofo