Sovraffollate, violente e inutili di Claudio Bottan vocididentro.it, 24 marzo 2024 Il 31 gennaio 2024 le persone detenute presenti nelle carceri italiane hanno toccato quota 60.814, ma il dato non tiene conto di coloro che hanno usufruito di un permesso premio e che, perciò, non rientrano nella statistica. La capienza regolamentare degli istituti di pena prevede un massimo di 51.179 ospiti, ma quella effettiva è di 47.540 posti. Le carceri italiane, dunque, tornano a esplodere. La tendenza al sovraffollamento senza battute d’arresto è un fenomeno in atto da un anno, con una progressione preoccupante rispetto agli anni precedenti: se alla fine del 2022 la popolazione detenuta era aumentata di circa 2000 unità rispetto a dicembre del 2021, l’aumento registrato al 31 dicembre 2023 è esattamente del doppio, con circa 4000 persone detenute in più. Andando avanti di questo passo, tra 12 mesi l’Italia sarà nuovamente ai livelli di sovraffollamento che costarono la condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo per violazione dell’articolo 3 della Convenzione Edu. “Interessa a qualcuno tra Meloni e il ministro della Giustizia Carlo Nordio?” si è chiesta la presidente di Nessuno Tocchi Caino, Rita Bernardini, che dal 22 gennaio è in sciopero della fame. La situazione impone un provvedimento di clemenza non tanto per i detenuti ma per lo Stato che è fuori dai parametri costituzionali. È bastato annunciarlo perché altri cittadini decidessero di unirsi nel cammino di questa iniziativa nonviolenta, convinti che uno Stato che voglia definirsi “democratico” e “di diritto” non possa permettersi la catastrofica situazione attuale. In concreto, e nell’immediato, i promotori dell’iniziativa richiedono l’approvazione della proposta di Legge del deputato Roberto Giachetti: liberazione anticipata speciale di 75 giorni a semestre come ristoro per le condizioni vissute dalle persone recluse durante gli anni della pandemia, mentre quella ordinaria passa a 60 giorni a semestre anziché gli attuali 45. Un buco nero - Mai stati così allarmanti i numeri sui morti in carcere, eppure non allarmano quasi nessuno al di fuori dei soliti addetti ai lavori. Nel carcere straripante di corpi, ogni prospettiva di umanità della pena e di rispetto dei diritti soggettivi delle persone ristrette rischia di essere utopia, per non parlare delle concrete possibilità di reinserimento sociale delle persone condannate. Il sovraffollamento è un buco nero che ingoia tutto, a partire dalle vite dei detenuti: 86 suicidi nel 2022, 69 nel 2023. E altre centinaia di persone ci hanno provato senza riuscirci e alle troppe morti “per cause da accertare” con una certa riluttanza nel disporre le autopsie. Ma per il ministro della Giustizia i suicidi in carcere sono un fenomeno fisiologico. Il carcere sovraffollato è un luogo violento, nel quali i soggetti più vulnerabili sono in costante pericolo. Crescono gli episodi di insofferenza, di autolesionismo, di aggressività dei detenuti, ed aumenta, in parallelo, il rischio di risposte altrettanto violente da parte dell’istituzione. Certezza della pena - Forse la prigione disumana placa la sete di vendetta ma non serve a nessuno, neanche a chi grida “e che si butti via la chiave” in nome della sicurezza, perché anzi, al contrario, la società diventa così sempre più insicura. Far entrare nel carcere sovraffollato la persona condannata significa inserirla in un incubatore di odio; lasciarla in quel contesto per tutto il tempo della pena, secondo un malinteso e purtroppo dominante concetto di “certezza della pena”, vuol dire restituire alla società un recidivo quasi certo. Se questo è lo stato delle cose, occorre chiedersi cosa fare per cambiarlo. Cambiarlo oggi, nell’immediato, se vogliamo offrire risposte non simboliche e propagandistiche alle esigenze di sicurezza e senso all’unica e ragionevole funzione della pena detentiva: reinserire in società persone responsabili. Fabbrica di recidivi - Chi scrive ha vissuto una lunga detenzione, un’esperienza devastante che consente però di affrontare il tema con cognizione di causa: il punto di vista da un “osservatorio privilegiato”, alla stregua dell’inviato di guerra. “Com’è il carcere?” mi chiedono spesso gli studenti durante gli incontri a cui partecipo da anni. Ventidue ore al giorno accatastati in spazi stretti e in condizioni igieniche precarie. Anche il pranzo e la cena si consumano in cella, le tavolate dei detenuti che mangiano insieme sono roba da film americani. Soprattutto, in cella non si fa niente. Niente. Il tempo scorre inutilmente, senza significato. Come dovrebbe sentirsi un essere umano che si trova a vivere questa condizione? Bastano pochi mesi per abbrutirsi per sempre. Intanto, così trattato, il detenuto si convince di essere più vittima che colpevole. Pensa al male che patisce lui e si ritiene in credito, non in debito, con la società. Poi, quando esce di galera, cosa fa? Ha buttato via il tempo, non ha imparato niente, si sente guardato con diffidenza - anzi, evitato - da tutti, e trovare un lavoro è quasi impossibile. “E quindi, cosa ti ha insegnato il carcere?”. È la domanda più difficile, perché la galera mi ha insegnato solo a sopravvivere alla galera stessa. Quello che sono oggi è frutto di una personale scelta di cambiamento, che deriva da un doloroso travaglio interiore, e non certo alla miracolosa redenzione che ci si aspetta dal trattamento rieducativo del carcere. E mi porto dentro tanta rabbia per aver sprecato anni di vita oziando, con un costo pari a 150 euro al giorno che escono dalle tasche dei cittadini; avrei potuto essere una risorsa utile alla collettività, magari prendendomi cura di persone fragili. In compenso in galera ho imparato a fare un buon caffè con la cremina; so fare la colla con la pasta scotta, costruire un coltello partendo dalla bomboletta del gas, giocare a scopa e, all’occorrenza, menare le mani. Ma non credo che siano competenze che possano arricchire un curriculum. Tutte le pene detentive hanno un termine e, quindi, alla fine è il tasso di recidiva dei reati l’elemento centrale su cui riflettere utilizzando sistemi efficaci e ragionando non su opinioni, ma solo ed esclusivamente su dati scientifici ed oggettivi, quali i dati statistici forniti dal ministero della Giustizia. Bisogna andarseli a cercare e non sempre è facile. Chi sconta una pena in regime alternativo alla detenzione ha un tasso di recidiva attorno al 19%. Chi sconta tutta la pena in carcere ha un tasso di recidiva attorno al 68,5%. Non è una differenza da poco: è circa il triplo. Se buttiamo via la chiave, le probabilità che chi ha commesso un reato lo rifaccia sono tre volte superiori. Le statistiche ci dicono che le revoche delle misure alternative alla detenzione, invece, sono veramente poche: non arrivano al 5%; ciò significa che più del 95% delle persone che scontano la loro condanna fuori dal carcere rispettano le prescrizioni. E non si tratta di mancati controlli delle forze dell’ordine, bensì al corretto comportamento della persona in regime alternativo. La misura alternativa è un impegno. I controlli ci sono, eccome. Ma il cittadino comune questi dati non li conosce perché non vengono divulgati. E la ragione non è dato saperla. Nuove carceri - Nella politica governativa, così come nell’opinione pubblica suscita consensi la soluzione più semplice: costruire nuove carceri. Si tratta di una soluzione ingannevole: calcoli e statistiche alla mano, i nuovi istituti sarebbero pronti soltanto tra dieci anni e potrebbero assorbire una quota estremamente ridotta dell’attuale sovraffollamento. In assenza di personale educativo, di agenti della polizia Penitenziaria e direttori, accrescere il numero dei posti a disposizione significa accrescere anche il numero di coloro che andranno a occuparli: se aumentano le prigioni, prima o poi verranno riempite. Ma ci sono alcuni segnali che fanno pensare che le cose possano peggiorare. È passato sostanzialmente inosservato il nuovo reato introdotto dal pacchetto di sicurezza, inserito in un giro di vite complessivo, su borseggio, baby accattonaggio e altro. Si chiama “rivolta in carcere” e prevede che sia punito con pene fino a 8 anni chi organizza e fino a 5 anni chi partecipa a rivolte, aumentati a 10 anni se si usano armi. Un’ulteriore fattispecie punisce chi istiga la rivolta, anche dall’esterno, con scritti diretti ai detenuti. L’inasprimento della pena fino a 6 anni riguarda anche le rivolte che avvengono nei Cpr per migranti. In sostanza nella fattispecie della rivolta viene inclusa anche l’ipotesi di disobbedire a un ordine. Una norma “paradossale”, la definisce Mauro Palma, ex garante dei detenuti: “Quando, ad esempio, si va all’aria in carcere, c’è un elemento collettivo di essere più di tre persone; se c’è una protesta anche pacifica, può essere interpretata come istigazione alla rivolta, termine peraltro giuridicamente non definito. L’espressione non violenta della propria insoddisfazione non può essere elemento di punibilità”. Il crimine di rivolta carceraria, così come delineato all’interno del pacchetto sicurezza, sarà quindi una minacciosa arma sempre carica puntata contro tutta la popolazione detenuta. Ci sarà chi continuerà, per questa via, a caricarsi di nuovi reati e a perdere la prospettiva dell’uscita, e la gestione di queste persone diventerà sempre più difficile. È possibile immaginare che la conseguenza sia una spirale, un circolo vizioso, che ti porta in carcere per un reato minore e un periodo di tempo circoscritto e finisce per allungarti a dismisura la pena, “creando” un comportamento criminale laddove c’è solo l’inevitabile insofferenza a una condizione carceraria. Pertanto, abbonderanno i “detenuti in attesa di reato”. Tortura non gradita - Il Consiglio d’Europa - preoccupato dal fatto che una serie di proposte di legge presentate alle Camere da parlamentari dei partiti della maggioranza puntano a smantellare il reato di tortura - ha di recente invitato “caldamente” il governo a “garantire che qualsiasi eventuale modifica al reato di tortura sia conforme ai requisiti della Convenzione europea dei diritti umani e alla giurisprudenza della Cedu”. Le modifiche, in senso restrittivo, sono all’ordine del giorno e gli agenti si aspettano che vengano rispettate le promesse elettorali. Il testo attuale costituirebbe un rischio eccessivo per l’operato delle Forze dell’ordine, ossia quello di usare violenze o minacce o agire con crudeltà per causare “acute sofferenze fisiche” a persone private della libertà o affidate necessariamente alla custodia e al controllo dello Stato. Celle chiuse - Chi conosce il carcere sa che il sistema penitenziario è organizzato in circuiti differenziati, regolati non da leggi dello Stato ma da circolari del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Ci sono i tre circuiti dell’Alta sicurezza, destinati alla detenzione di persone condannate o imputate per reati associativi e di terrorismo, e quelli della Media sicurezza, riservata ai cosiddetti detenuti comuni, che rappresentano la maggioranza della popolazione detenuta. È, questo, il circuito dove si riscontrano le condizioni più critiche e problematiche; si tratta delle sezioni più affollate, dove si concentrano il disagio e la sofferenza di detenuti stranieri e soggetti più emarginati. Dal 2011, e in particolare dopo la sentenza Torreggiani, era stato implementato il regime a “celle aperte”, con l’intento di superare i limiti strutturali degli spazi detentivi. Questo regime, laddove vigente, prevede la possibilità di tenere aperte le celle per otto o più ore al giorno, e consente ai detenuti di muoversi all’interno della sezione - tra i corridoi, le altre celle e la sala della socialità, se presente - in modo da aumentare il computo degli spazi utilizzabili. Non una concessione, ma un necessario intervento che consentiva di rientrare, in questo modo, negli standard minimi di spazio fisico pro capite dettati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, contribuendo così ad alleviare la sofferenza della contenzione detentiva. Di circolare in circolare ora si è tornati al regime chiuso. La vita in istituto è organizzata in “gironi”, tra i quali si avanza e si indietreggia come in un gioco dell’oca, a seconda della dimostrazione di buona adesione alle regole della vita penitenziaria o della deviazione da queste. I liberi sospesi - Sono l’emblema dello sfascio della Giustizia italiana: oltre 90mila cittadini che, a seguito di una condanna definitiva con una pena da espiare inferiore a quattro anni, rimangono nel limbo. Un esercito di persone “sospese”, che attendono di sapere dal giudice di Sorveglianza se potranno usufruire di una delle misure alternative previste dalla legge o se finiranno in galera. Decisioni che, a causa della carenza di organico tra i magistrati di Sorveglianza e il personale delle cancellerie, arrivano a distanza di molti anni, talvolta anche dieci o quindici, spesso quando il soggetto interessato ha già intrapreso autonomamente un percorso di rieducazione e reinserimento sociale, vanificando così il significato costituzionale della pena. In lista d’attesa - Torna ad affacciarsi con una certa continuità una ulteriore ipotesi di soluzione al problema del sovraffollamento: il numero chiuso nelle carceri. A dirla così sembra un’idea bizzarra, pura eresia: è concepibile che lo Stato metta un tetto massimo al numero di detenuti che può ospitare nelle patrie galere? Non si garantirebbe, in tal modo, una sorta di impunità a chi, legittimamente condannato, dovesse risultare eccedente rispetto al limite? Ad analizzare meglio i termini del problema, ci si accorge che l’idea è tutt’altro che bislacca. Detenuti e volontari su spiagge, è la giornata plastic free ansa.it, 24 marzo 2024 Dalle spiagge della Toscana alle coste della Calabria, passando per Marche, Puglia, Campania e Sardegna. Oggi i litorali di sei regioni italiane vedono in azione una cinquantina di detenuti provenienti da nove penitenziari e i volontari di Plastic Free, l’organizzazione impegnata dal 2019 nel contrastare l’inquinamento da plastica, per una nuova azione coordinata contro il degrado ambientale. “Dopo il successo dello scorso anno, - si spiega - tornano gli appuntamenti organizzati dalla Onlus e da Seconda Chance, associazione del Terzo Settore che fa da ponte tra carceri e aziende per creare opportunità di reinserimento”. “Per tanti detenuti si tratta della prima uscita, dopo diverso tempo, grazie ad un permesso premio concesso dalla Magistratura di Sorveglianza - dichiara Flavia Filippi, fondatrice e presidente di “Seconda Chance” - Ciò riempie ancor più di significato questa rinnovata partnership basata su valori come l’inclusione, la rieducazione, il rispetto della natura e della legalità. Grazie alla collaborazione con le carceri di Cagliari, Livorno, Secondigliano, Palmi, Locri, Laureana di Borrello, Bari, Ancona Montacuto e Ancona Barcaglione potremo raggiungere un risultato doppio, a beneficio dell’ambiente e del benessere dei detenuti”. “Questa iniziativa dimostra come per la salvaguardia del nostro territorio sia fondamentale il contributo concreto di tutti - aggiunge Lorenzo Zitignani, direttore generale Plastic Free Onlus - Armati di guanti, ramazze e desiderio di condivisione, i detenuti saranno guidati dai nostri volontari nelle operazioni di pulizia ambientale affinché si possano ripulire le spiagge di sei splendide località dai rifiuti che i nostri mari ci restituiscono”. Le pulizie ambientali, momento anche di inclusione sociale, sono aperte a tutti i cittadini che vorranno prenderne parte previa registrazione sul sito www.plasticfreeonlus.it. I punti di ritrovo sono la spiaggia di Portonovo ad Ancona (ore 10), la spiaggia di Pane e Pomodoro a Bari (ore 9:30), la piazzetta Fernando Pilia (lato Luchia) a Cagliari (ore 10.30), l’Oasi dei Variconi a Castel Volturno, in provincia di Caserta (ore 9), il piazzale dei 3 Ponti a Livorno (ore 9:30) e il villaggio La Quiete-Angolo verde a Palmi, Reggio Calabria (ore 9). Anm all’attacco di Nordio sui test: “Ha frustrato ogni aspettativa costituzionale” di valentina stella Il Dubbio, 24 marzo 2024 È ormai scontro frontale tra l’Associazione nazionale magistrati e il ministro della Giustizia Carlo Nordio. Oggetto della feroce disputa: i test psicoattitudinali che il ministero vorrebbe introdurre per i magistrati. “Sconcerto” dell’Associazione nazionale magistrati per la decisione del ministro della Giustizia Carlo Nordo di inserire i test psico-attitudinali nello schema di decreto attuativo della riforma dell’ordinamento giudiziario che lunedì sarà sul tavolo del Consiglio dei Ministri per l’approvazione finale. Come si legge in una bozza circolata stamane nelle chat che il Dubbio ha potuto visionare “con decreto del ministero della Giustizia, previa delibera del Consiglio superiore della magistratura, sono nominati esperti qualificati per la verifica psicoattitudinale allo svolgimento delle funzioni giudiziarie. Le linee di indirizzo e le procedure per lo svolgimento degli accertamenti di cui al primo periodo sono determinati dal Csm d’intesa con il Ministero della Giustizia. La verifica ha luogo dopo il completamento delle prove orali”. Dunque i test verranno applicati ai futuri candidati che vorranno entrare in magistratura e non a quelli già in organico. Da qui la forte reazione del “sindacato” delle toghe e della sua Giunta, presieduta da Giuseppe Santalucia. In una dura nota si legge: “Alla genericità e alla vaghezza degli annunci dei test per i magistrati, condensati in scarne osservazioni delle commissioni Giustizia di Camera e Senato, pensavamo, con cauto ottimismo, che il ministro della giustizia avrebbe risposto con la necessaria razionalità normativa. Pensavamo che, impegnato ad attuare una legge delega che non fa menzione dei test, non avrebbe percorso la strada dell’evidente eccesso di delega. Pensavamo ancora che non gli sarebbe sfuggita la palese violazione della riserva di legge in materia di ordinamento giudiziario e che pertanto non avrebbe indugiato a inserire una norma vaga, priva di reali contenuti regolativi. E invece, il ministro della Giustizia ha frustrato ogni aspettativa di rispetto della cornice costituzionale”, scrivono le toghe che poi criticano la vaghezza della previsione. Infatti aggiungono: “Con disinvoltura che disorienta ha aggiunto, ad un già criticabile schema di decreto legislativo, previsioni del tutto estranee alle indicazioni della delega. Ha previsto i test psico-attitudinali senza dire cosa siano, a cosa servano, come si strutturino, quali le conseguenze di un eventuale risultato negativo, quali le figure professionali che li effettueranno e li valuteranno. Ha soltanto detto che si collocheranno all’esito delle prove scritte e orali, interessando quindi i candidati che avranno superato entrambe”. “Non dunque - afferma l’Anm - uno strumento di preselezione per l’ammissione al concorso e riduzione della platea degli aspiranti ma, del tutto irragionevolmente, una terza prova. L’ultima prova, che impegnerà quanti avranno superato, anche brillantemente, le prove strettamente intese. Il Ministro della Giustizia ci aveva anticipato che occorreva accelerare la procedura concorsuale anche per fronteggiare spinte verso forme semplificate di selezione, ma ora scopriamo che le scansioni concorsuali, già lunghe, si vorrebbero, in tempi di Pnrr, ancor più dilatare: forse per rendere del tutto ingovernabile la macchina concorsuale e poter cedere un domani alle suggestioni del reclutamento straordinario?” si chiede la Giunta dell’Anm che conclude: “Il ministro della Giustizia ha demandato a se stesso, ad un suo decreto che non è certo fonte normativa primaria, la disciplina dei test. Stabilirà lui dunque chi meriterà di indossare la toga di magistrato e chi no! E non basta aggiungere che il decreto sarà emanato previa delibera del Csm per nascondere la contrarietà a Costituzione di questo disegno. Lo sconcerto è grande - conclude la Giunta - pari soltanto alla superficialità con cui si ritiene di poter intervenire in materie così delicate, così costituzionalmente sensibili, come l’ordinamento giudiziario”. Per ora non si preannunciano iniziative di sciopero ma non è detto che questo possa avvenire se le indiscrezioni saranno confermate lunedì e se a questo si aggiungerà la presentazione di una proposta di legge governativa dopo Pasqua sulla separazione delle carriere. Insomma gli ingredienti per un duro scontro ci sono tutti. Test psicoattitudinali ai magistrati, il governo va fino in fondo: lunedì la norma in Cdm di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 24 marzo 2024 L’Anm: “Sconcerto, disegno contrario alla Costituzione”. Nordio accoglie i suggerimenti della maggioranza: col decreto attuativo della riforma dell’ordinamento giudiziario, l’antica ossessione del berlusconismo si trasformerà in legge. La “verifica dell’idoneità psicoattitudinale” sarà riservata a chi ha già superato le prove scritte e orali del concorso. Sui test psicoattitudinali ai magistrati il governo vuole andare fino in fondo. Come anticipato dal Sole 24 Ore, il Guardasigilli Carlo Nordio ha scelto di accogliere i suggerimenti delle Commissioni Giustizia di Camera e Senato: col decreto attuativo della riforma dell’ordinamento giudiziario del 2022 (varata dall’ex ministra Marta Cartabia) l’antica ossessione del berlusconismo si trasformerà in legge. “Con decreto del ministro della Giustizia, previa delibera del Consiglio superiore della magistratura, sono nominati esperti qualificati per la verifica dell’idoneità psicoattitudinale allo svolgimento delle funzioni giudiziarie. Le linee di indirizzo e le procedure per lo svolgimento degli accertamenti (…) sono determinati dal Consiglio superiore della magistratura d’intesa con il ministro della Giustizia. La verifica ha luogo dopo il completamento delle prove orali” del concorso, si legge nella bozza finale del provvedimento, che dovrebbe essere discusso nel Consiglio dei ministri di lunedì. Insomma, la legge codifica solo il principio: a decidere i contenuti dei test (e chi ne valuterà i risultati) saranno in un secondo momento, con atti subordinati, il ministero di via Arenula e il Csm, l’organo di autogoverno della magistratura (composto per un terzo da membri laici, cioè eletti dal Parlamento). Ma la strada è tracciata: con ogni probabilità, i futuri aspiranti giudici e pm dovranno sottoporsi a una verifica della loro salute mentale, secondo criteri stabiliti (anche) dal governo. Un progetto che corrisponde a quello contenuto nel Piano di rinascita democratica di Licio Gelli, cioè il programma della loggia eversiva P2. A incoraggiare il Guardasigilli in questo senso, nelle scorse settimane, erano stati la maggioranza e il fu “Terzo polo”, nei pareri obbligatori sullo schema di decreto licenziato dal governo a novembre. Se lo strappo diventerà realtà, però, il Consiglio dei ministri violerà molto probabilmente la Costituzione: il testo della delega Cartabia, infatti, non lascia alcuno spazio alla previsione dei test accanto al concorso. A ricordarlo è anche l’Associazione nazionale magistrati (l’organismo di rappresentanza delle toghe italiane) in una lunga e durissima nota diffusa dalla Giunta esecutiva centrale: “Alla genericità e alla vaghezza degli annunci dei test per i magistrati, condensati in scarne osservazioni delle Commissioni Giustizia di Camera e Senato, pensavamo, con cauto ottimismo, che il ministro della Giustizia avrebbe risposto con la necessaria razionalità normativa. Pensavamo che, impegnato ad attuare una legge delega che non fa menzione dei test, non avrebbe percorso la strada dell’evidente eccesso di delega. Pensavamo ancora che non gli sarebbe sfuggita la palese violazione della riserva di legge in materia di ordinamento giudiziario e che pertanto non avrebbe indugiato a inserire una norma vaga, priva di reali contenuti regolativi. E invece, il ministro della Giustizia ha frustrato ogni aspettativa di rispetto della cornice costituzionale”, si legge. “Con disinvoltura che disorienta”, prosegue il comunicato, Nordio “ha aggiunto, a un già criticabile schema di decreto legislativo, previsioni del tutto estranee alle indicazioni della delega. Ha previsto i test psicoattitudinali senza dire cosa siano, a cosa servano, come si strutturino, quali le conseguenze di un eventuale risultato negativo, quali le figure professionali che li effettueranno e li valuteranno. Ha soltanto detto che si collocheranno all’esito delle prove scritte e orali, interessando quindi i candidati che avranno superato entrambe”, sottolinea l’Anm. La conclusione, quindi, è che i nuovi test non saranno “uno strumento di preselezione per l’ammissione al concorso e riduzione della platea degli aspiranti ma, del tutto irragionevolmente, una terza prova. L’ultima prova, che impegnerà quanti avranno superato, anche brillantemente, le prove strettamente intese. Il ministro della Giustizia”, prosegue la nota, “ci aveva anticipato che occorreva accelerare la procedura concorsuale anche per fronteggiare spinte verso forme semplificate di selezione, ma ora scopriamo che le scansioni concorsuali, già lunghe, si vorrebbero, in tempi di Pnrr, ancor più dilatare: forse per rendere del tutto ingovernabile la macchina concorsuale e poter cedere un domani alle suggestioni del reclutamento straordinario?”, scrive l’Anm. Il riferimento è all’ipotesi, fatta filtrare nelle scorse settimane, della previsione di un concorso in magistratura riservato a specifiche categorie (magistrati onorari o avvocati). “Il ministro della Giustizia ha demandato a se stesso, ad un suo decreto che non è certo fonte normativa primaria, la disciplina dei test. Stabilirà lui dunque chi meriterà di indossare la toga di magistrato e chi no! E non basta aggiungere che il decreto sarà emanato previa delibera del Csm per nascondere la contrarietà a Costituzione di questo disegno”, scrive la Giunta dell’Anm. Che conclude: “Lo sconcerto è grande, pari soltanto alla superficialità con cui si ritiene di poter intervenire in materie così delicate, così costituzionalmente sensibili, come l’ordinamento giudiziario”. Critico anche Giovanni Zaccaro, segretario della corrente progressista di Area, che sottolinea come i test per le aspiranti toghe non possano certo essere definiti una priorità per la giustizia italiana: “Sta per entrare in vigore il tribunale unico per la famiglia e le persone e ancora il governo non ha chiarito con quali risorse, quanti magistrati ed in quali locali funzionerà, con il rischio che a pagare saranno i cittadini deboli, alla cui tutela il tribunale è preposto. Il processo penale telematico non funziona e rallenta i tempi della giustizia. I giudici e gli avvocati perderanno mesi per capire come funzioneranno le nuove regole sulla prescrizione. Questi sono i problemi della giustizia che interessano agli operatori del diritto ed ai cittadini. Invece di affrontarli, il governo propone test psicoattitudinali per i magistrati, senza chiarire cosa dovranno valutare e chi dovrà somministrarli. Mi pare una proposta che mira a delegittimare un potere dello Stato ed a nascondere i veri problemi”, conclude. “Decreto incostituzionale”, “Nessuna paura delle riforme”. Scontro Anm-governo sulla giustizia di Lorenzo Grossi Il Giornale, 24 marzo 2024 La giunta esecutiva centrale dell’Associazione se la prende con Nordio per la bozza sul decreto dei test psicoattitudinali per i magistrati. Il viceministro Sisto: “Abbiamo un programma chiaro”. Si accende lo scontro sulla riforma della giustizia tra l’Anm e il governo Meloni. Tra pochi giorni l’esecutivo nazionale di centrodestra licenzierà in Consiglio dei ministri un ampio decreto legge che dovrebbe prevedere - tra i vari elementi - i test psicoattidutinali per i magistrati al termine delle prove orali di accesso alla professione. Stando alle bozze che stanno circolando in queste ore in merito al provvedimento che verrà approfondito la prossima settimana, verranno nominati degli “esperti qualificati per la verifica della idoneità psicoattitudinale per lo svolgimento delle funzioni giudiziarie”. Questo avverrà “con decreto del ministro, previa delibera del Consiglio superiore della magistratura”. Secondo il documento, inoltre, “le linee di indirizzo e le procedure per lo svolgimento degli accertamenti sono determinati dal Consiglio superiore della magistratura d’intesa con il ministro”. Davanti a queste ipotesi non sono mancate naturalmente le polemiche dell’Associazione Nazionale dei magistrati. In merito alla bozza di decreto sui test psicoattitudinali per i magistrati, la giunta esecutiva centrale dell’Anm attacca frontalmente il governo, in particolare la figura di Carlo Nordio: “Il ministro della Giustizia ha demandato a se stesso, ad un suo decreto che non è certo fonte normativa primaria, la disciplina dei test - viene scritto in una nota ufficiale -. Stabilirà lui dunque chi meriterà di indossare la toga di magistrato e chi no. E non basta aggiungere che il decreto sarà emanato previa delibera del Csm per nascondere la contrarietà alla Costituzione di questo disegno”, prosegue il comunicato dell’organismo rappresentativo che raggruppa i magistrati italiani. “Lo sconcerto è grande - conclude la giunta - pari soltanto alla superficialità con cui si ritiene di poter intervenire in materie così delicate, così costituzionalmente sensibili, come l’ordinamento giudiziario”. Non è una novità che l’Anm protesi vivacemente davanti a progetti di legge messi in campo dall’attuale governo. Tuttavia, alla vigilia della presentazione ufficiale del testo della nuova riforma voluta da Nordio, il conflitto aumenta ulteriormente. Ci pensa così Francesco Paolo Sisto (Forza Italia) a respingere con forza al mittente le accuse mosse contro il Guardasigilli: “Sulla giustizia abbiamo un programma chiaro che porteremo avanti, nella consapevolezza che mostrare saggezza non significa scegliere l’immobilismo - dichiara esplicitamente il viceministro della Giustizia ospite di La7 -. Nessuno deve avere paura di riforme scritte nell’interesse esclusivo dei cittadini”. L’esponente di governo ne approfitta poi anche per fornire dei chiarimenti sul tema delle intercettazioni. “Non interverremo mai per togliere efficacia a questo fondamentale strumento di ricerca della prova - sottolinea -. Vogliamo invece decisamente intervenire sulla inaccettabile pubblicazione di intercettazioni che riguardano soggetti che non c’entrano niente con il processo. E a tal fine abbiamo individuato l’unico punto di riferimento che possa dirigere le operazioni, ossia il giudice - conclude -. Test sui magistrati. Ecco come nel mondo si controlla la “saggezza” di chi deve giudicare di Domenico Ferrara Il Giornale, 24 marzo 2024 In Germania le prove psico-attitudinali ci sono e nessuno si scandalizza. In Francia c’è l’analisi della personalità. Domani la bozza in Consiglio dei ministri: e già l’Anm prepara le barricate. Nella visione manichea che attanaglia e permea il dibattito politico italiano non esistono sfumature: i test psico attitudinali per i magistrati da un lato sono una clava usata dal governo di centrodestra per imporre un controllo e delegittimare la categoria, dall’altro sono uno strumento di verifica a tutela dei cittadini. Bianco o nero. In medio non stat virtus. E così, nel Belpaese del derby non stupisce che l’Anm metta subito le cose in chiaro parlando di una specie di screening di massa e di tentativi di screditare la magistratura con l’unico effetto di indebolire la fiducia dei cittadini nella giustizia. Si potrebbe sindacare che la fiducia dei cittadini nella giustizia sia già debole di suo anche a causa del sempreverde ostracismo che domina le toghe, ma questa è un’altra storia. Giorni fa, la commissione Giustizia del Senato ha approvato il parere presentato da Pierantonio Zanettin di Forza Italia mettendo nelle mani del Governo la valutazione sulla previsione di prove psicoattitudinali per i candidati all’ingresso in magistratura. Il diretto interessato, contattato dal Giornale, ha spiegato che la sua idea non è nulla di rivoluzionario ma al contrario è molto simile a quella già ben presente in altri settori pubblici e privati. Si chiama Minnesota multiphasic personality inventory ed è il test più usato per le selezioni in ambito della psicologia del lavoro e della psicologia giuridica: permette di scoprire patologie di natura psichiatrica, nevrosi, psicosi. Circa 600 affermazioni per cui indicare vero; falso; prevalentemente vero; prevalentemente falso. Ogni risposta, per gli psicologi e gli psichiatri unici abilitati a somministrare il test, ha un significato che determina poi la valutazione. Lo fanno alle forze dell’ordine, ai militari, al personale della Pubblica Amministrazione, ai piloti di aereo e lo usano persino nelle perizie svolte nell’ambito dei processi. Insomma, un test come quello non dovrebbe far gridare allo scandalo, eppure ogni volta che si sfiora il tema, le toghe insorgono. È successo col ministro Castelli, poi col ministro Bongiorno, poi con Berlusconi e succede anche adesso. Domani la novità dei test, inserita nella riforma dell’ordinamento giudiziario, sarà all’esame del Cdm. E ieri circolava una bozza del testo di legge che prevede l’introduzione dei test realizzati da “esperti qualificati” e “da svolgersi dopo il completamento delle prove orali”. Naturalmente la giunta esecutiva dell’Anm si è subito detta “sconcertata” e ha parlato di “attacco alla Costituzione”. Tra le toghe il fronte è unito più che mai e non ammette voci stonate. Nicola Gratteri nel 2019 sosteneva che non vi sarebbe nulla di male a sottoporsi ai test in quanto “ci possono essere dei magistrati che fanno militanza attiva, che hanno un modo loro di ragionare e può accadere che uno perda di lucidità”. Oggi ha cambiato idea e nella difesa della corporazione ha lanciato pure una provocazione: “Facciamoli anche a chi governa e facciamo pure i narcotest sulla positività alla cocaina”. Opinione opposta a quella dell’avvocato Giulia Bongiorno che afferma: “I futuri magistrati devono essere misurati non solo sulla base della preparazione tecnica ma anche per la capacità di autocritica, per integrità morale, attitudine a lavorare in team”. Ma uscendo dai confini nazionali, come funziona negli altri paesi? Siamo davvero gli unici che osano pensare di misurare la stabilità psichica delle toghe? La risposta è no e anzi non sono poche le nazioni che sottopongono la magistratura a questo genere di esami. In Austria, dal 1986, per i candidati sono previsti test psicologici eseguiti da uno psicologo indipendente e somministrati per determinare se il candidato ha le adeguate capacità e qualità intellettuali. In Olanda, nella fase di selezione è previsto un test analitico/cognitivo scritto, somministrato da una società di consulenza psicologica oltre a un colloquio personale con un membro del comitato di selezione e uno psicologo, in cui viene testato l’equilibrio e la personalità del candidato. Come se non bastasse, affinché un pubblico ministero possa avanzare di carriera, è necessario che sostenga un test di selezione psicologica. Anche in Portogallo tra le prove di ammissione c’è un colloquio condotto da uno psicologo e l’esame di assunzione si conclude con un test orale con uno psicologo. I test psico-attitudinali sono in vigore anche in Ungheria. La situazione della Francia è molto particolare perché dal 2009 al 2017 c’erano i “test di attitudine e personalità”, soppressi a pochi giorni dall’elezione di Macron. Erano stati introdotti per individuare tendenze narcisistiche e smanie di protagonismo. 240 domande alle quali rispondere in tre ore e un colloquio di mezz’ora con un magistrato e uno psicologo. Dopo le pressioni del sindacato delle toghe, alla fine si decise per l’abolizione ma la figura dello psicologo non è scomparsa del tutto. “Qui c’è lo psicologo che fa delle sedute con il magistrato proprio per vedere la reazione che ha di fronte a casi che gli vengono proposti all’improvviso e, si valutano le sue reazioni”, ha ricordato il vice presidente della Camera Giorgio Mulè. E in Germania? I test psico-attitudinali ci sono e nessuno si scandalizza. Non sono nazionali né obbligatori bensì a discrezione dei singoli Land, ma il loro utilizzo non è raro e a volte unisce anche altre prove, come giochi di ruolo o brevi presentazioni. In Belgio, al concorso di ammissione al tirocinio giudiziario, nell’ambito della prova scritta i candidati sono sottoposti a test psicologici affidati ad esperti esterni e a colloqui di validazione con uno psicologo. Inoltre, è previsto un test-intervista sulla personalità con lo scopo di valutare le 9 competenze di base che ci si aspetta da un magistrato (Decisione, Integrità, Facoltà di adattamento, Capacità di pianificare e organizzare/capacità di stabilire le priorità, Empatia, Socievolezza, Resistenza allo stress, Collaborazione, Collegialità, Dominanza (corretta gestione del potere), Autoriflessione (autocritica)). In Australia, nel 2019 fu condotta per la prima volta un’indagine sul benessere di giudici e dei magistrati, indagine che ha rivelato come il sistema giudiziario fosse a rischio di esaurimento o di traumi derivanti dal dover affrontare costantemente carichi di lavoro elevati e i dettagli strazianti di crimini gravi. A seguito di ciò, molti tribunali australiani hanno implementato una serie di programmi e iniziative per gestire lo stress giudiziario e supportare i giudici nel loro lavoro. L’indagine comprendeva una serie di test psicometrici convalidati. L’allarme di Colombo “Difendiamo il senso della giurisdizione dei pm” di Massimiliano Nerozzi Corriere di Torino, 24 marzo 2024 La separazione delle carriere, riflette l’ex magistrato Gherardo Colombo, “sarebbe un segnale culturale molto forte verso la perdita definitiva del senso della giurisdizione del pubblico ministero”. L’ex pm che scoprì gli elenchi della Loggia P2 e che indagò su Tangentopoli “dialoga sul ruolo costituzionale della magistratura” domani, al cinema Esedra, insieme al Procuratore generale di Milano, Francesca Nanni, in occasione di un dibattito organizzato dalla sezione piemontese dell’associazione nazionale magistrati (Anm): inizio alle 17 con la proiezione del film “In nome del popolo italiano”. Tra film e Costituzione, domani al cinema Esedra si potrà dialogare sulla magistratura (anche) con Gherardo Colombo, 77 anni, 33 dei quali passati da giudice e pubblico ministero, tra la scoperta degli elenchi della Loggia P2 e l’inchiesta di Mani pulite. Gherardo Colombo, perché aprire l’incontro dell’Anm con il film “In nome del popolo italiano”? “Credo che il significato, sia per me che per l’Anm, stia soprattutto nel finale del film, oltre che in tutto il suo svolgimento: il tema è quello dell’indipendenza del giudice. Il film fa ragionare sull’indipendenza da sé stessi, dalle proprie convinzioni politiche ed etiche, dalle emozioni. E anche sull’indipendenza dai pregiudizi e dai preconcetti”. Alla fine, il magistrato del film fa la scelta sbagliata... “Perché si è innamorato delle sue idee e vuol dar soddisfazione al suo rancore: trova la prova dell’innocenza dell’imputato, ma la rifiuta perché è in contrasto con il suo desiderio. Smette di fare il giudice, diventa parziale”. Crede ci siano persone che pensano che i magistrati siano così? “Ah, sicuramente, e non escludo che ce ne sia anche qualcuno, di così. Il magistrato, peraltro, generalmente, scontenta tanta gente: o le vittime o gli imputati. E nel civile la parte alla quale dà torto. Il sistema della giustizia è divisivo”. Riprendiamo il titolo dell’incontro: quale è il ruolo della magistratura adesso? “È quello tradizionale, di “dirimere le controversie”. Ma è un tema su cui sarebbe necessario riflettere. È difficile fare lo stesso discorso per tutta la magistratura, perché le funzioni che esercita sono molto varie. Provo lo stesso a fare una sintesi, che può non piacere: secondo me, il ruolo della magistratura dovrebbe consistere nella ricerca della ricomposizione. Nel civile, per esempio, far sì che le parti arrivino a una transazione consapevole, cioè che si mettano d’accordo”. Se fosse ancora un magistrato, sarebbe preoccupato? “Sono 17 anni che non lo sono più, mi sono dimesso con oltre 14 anni di anticipo”. Non si è dimesso dall’essere cittadino... “Credo sia molto importante guardare al funzionamento dell’amministrazione della giustizia: funziona male, succede per esempio che la giustizia sia incredibilmente lenta. E più è lenta, meno è utile alla collettività”. Sulla separazione delle carriere, pensa che questo governo riuscirà dove altri hanno fallito? “Sulla riuscita non so cosa dirle. Secondo me, però, la separazione delle carriere sarebbe un segnale culturale molto forte, verso la perdita definitiva del senso della giurisdizione del pubblico ministero. Non è che ce ne sia molto, ma meglio poco che nulla...mi vengono in mente i vecchi episodi di “Perry Mason”, quando alla fine l’avvocato vinceva la causa perché il suo assistito era innocente, e il pubblico ministero si disperava. Dava più importanza al fatto di aver perso il processo che all’assoluzione di un innocente. Già adesso qualche volta succede, con la separazione delle carriere diventerebbe usuale”. Lasciata la toga, è andato in giro per le scuole a parlare di libertà, legalità, cittadinanza: cosa ha imparato? “In primo luogo, ad ascoltare meglio e di più i ragazzi, perché di solito noi adulti tendiamo ad ascoltare soprattutto noi stessi”. Domanda più frequente? “Il tema vero, più importante, alla fine è quello della libertà. Spesso ci si trova di fronte a un enorme equivoco, quello di confondere la libertà con il privilegio, con la soddisfazione del desiderio di onnipotenza. Ma la libertà è scelta, comporta sempre anche rinuncia: se scelgo l’alternativa A rinuncio all’alternativa B. I bambini delle elementari mi chiedono spesso in che consisteva la mia professione, qual è stato il caso più complicato, se ho mai messo in prigione un innocente, e se ho mai avuto paura”. Sulla paura che risponde? “Che ho avuto la scorta per vent’anni. Ma anche che tanti colleghi sono stati uccisi da mafia o terrorismo, e che mi è successo di avere paura, oltre che immenso dolore, quando è stato ucciso un caro collega dell’ufficio istruzione con il quale ero in stretto contatto”. L’ex Pg di Torino, Francesco Saluzzo, ripeteva che nel dibattito pubblico, società civile e politica, si parla poco delle infiltrazioni della criminalità organizzata in Piemonte, e al nord in genere: cosa ne pensa? “A me sembra molto vero, come se le infiltrazioni mafiose non esistessero. Ma sa, la cultura mafiosa è molto pervasiva. Con i ragazzi delle scuole parlo del rispetto della dignità altrui, compresi i fratelli minori. Tutti a dirsi d’accordo, ma se poi domando: “Quando tornate a casa, e vostro fratello sta guardando un programma che non volete vedere, cercate una soluzione che vada bene a entrambi oppure, dammi il telecomando se no ti spacco la faccia?”, si mettono a ridere. Sono tutti per la minaccia”. Morale? “Che differenza c’è con la richiesta all’esercente, o paghi il pizzo o ti brucio il negozio? Direi che qualche responsabilità ce l’abbiamo, nell’evitare certi argomenti: forse, un filo i piedi bagnati, ce li abbiamo un po’ tutti”. Emila Romagna. Suicidi in carcere: “Ormai è una strage. Bisogna fermarla” Il Resto del Carlino, 24 marzo 2024 Silvia Zamboni di Europa Verde chiede di fermare la serie di suicidi in carcere, definendola una “epidemia suicidaria”. Sottolinea l’importanza di agire per prevenire tali tragedie e ribadisce il ruolo educativo del sistema penitenziario. “È ora di fermare questa strage”. Così Silvia Zamboni, capogruppo di Europa Verde in Regione e vicepresidente dell’Assemblea legislativa, dopo che nei giorni scorsi una detenuta di 55 anni si è tolta la vita nel carcere di Bologna. “Vorrei innanzitutto esprimere la mia vicinanza e il mio cordoglio ai suoi familiari - dichiara Zamboni -. Non è accettabile che si muoia per suicidio in carcere, un luogo dove ci si trova sotto la responsabilità e la tutela dello Stato. Siamo invece di fronte a una sorta di epidemia suicidaria”. Il suicidio di una donna, poi, “è una sconfitta ancora più pesante, in quanto le donne rappresentano appena il 4 per cento della popolazione detenuta all’interno delle strutture penitenziarie della nostra regione”, è il ragionamento della consigliera regionale. “Come istituzioni non possiamo stare a guardare. Dobbiamo agire e mettere in campo ogni sforzo per evitare i suicidi di detenuti e detenute: il carcere - sottolinea - non è un luogo dove abbandonare le persone che hanno commesso reati e punirli, ma deve essere un punto di ripartenza, con funzioni educative come previsto dall’articolo 27 della nostra Costituzione”. Milano. Don Rigoldi lascia il Beccaria dopo 50 anni. E rilancia con un progetto di Rachele Callegari Avvenire, 24 marzo 2024 Don Gino Rigoldi lascia il carcere minorile milanese dopo 50 anni di servizio. Al suo posto don Claudio Burgio. Ma non finisce l’impegno del sacerdote per i ragazzi. Don Gino Rigoldi lascia ma raddoppia: lo storico cappellano dell’Istituto penale minorile Beccaria, dopo 50 anni a servizio dei giovani del carcere, ha deciso di fare un passo indietro. Ha rassegnato le sue dimissioni e diventerà presto cappellano emerito: al suo posto don Claudio Burgio, fondatore e presidente dell’associazione Kayròs. “Ma non mollo il colpo” ci tiene a precisare don Rigoldi, che lancia l’idea di una comunità da realizzare da zero. Un modello innovativo in cui accogliere i ragazzi che, dopo il compimento della maggiore età, si troverebbero isolati, spesso assegnatari di alloggi singoli. “Ho visto queste comunità in Francia, gruppi misti di quindici o venti ragazzi e ragazze che fanno attività culturali ed educative, stanno in compagnia. Gruppi allegri - racconta -. Non possiamo lasciarli soli o mandarli per strada. Sono posti dove ciascuno potrebbe avere la sua autonomia ma non cadere nella solitudine: è un modello che in Italia non c’è, ma noi lo faremo”. La sua missione inizia 50 anni fa: “quando sono arrivato c’erano mille ragazzi ogni anno e con l’allora direttore Antonio Salvatore abbiamo reso il Beccaria un modello da imitare in tutta Italia. Allora erano tutti figli del Sud Italia, che pensavano di trovare nella criminalità uno stile di vita. Dagli anni ‘90 abbiamo visto arrivare sempre più stranieri, e oggi qui il 90% è arabo”. Proprio alla luce di questo cambiamento culturale, continua don Gino, il dialogo non è sempre facile, “ma siamo noi educatori che dobbiamo andare verso di loro e a capire di cosa hanno bisogno. Penso alla preghiera, perché quando pregano si tranquillizzano, cambiano proprio. Vorrei che il Beccaria fosse un luogo di integrazione e per questo continuerò a star qui”. Intanto don Gino ha lanciato un’altra sfida, in occasione dell’asta fotografica di beneficenza “A noi ci frega lo sguardo”, organizzata per supportare il programma “Cambio Rotta”, ideato dalla Fondazione Don Gino Rigoldi per finanziare alcune attività a favore dei ragazzi dell’area penale del Beccaria e coprire i costi necessari a riparare le strutture dell’istituto, come ad esempio la cucina in cui i ragazzi fanno i laboratori. “Un mio sogno - racconta - è cominciare con gli Articolo 21: la possibilità per i ragazzi di uscire dal carcere durante il giorno per lavorare e tornare la sera. Che ci siano per loro posti dove trovare un lavoro vero, con uno stipendio reale perché non sempre è facile per chi esce da qui trovare un’occupazione. Chi sta qui è perché ha commesso reati di sopravvivenza: noi vogliamo che il messaggio sia che fuori c’è qualcosa che li aspetta”. Perché quando escono, altrimenti, la sopravvivenza ricomincia: “ma se si tratta di aiutare, finché si può, si deve fare. Io so che c’è la Provvidenza dietro di me”. Poi don Gino fa l’esempio di uno dei suoi “figli”, uno dei 14 ragazzi che abitano con lui, “un perito chimico, assunto in un’azienda con un buono stipendio. Ha firmato il contratto per una casa in affitto ma quando si è presentato di persona lo hanno stracciato: solo perché è nero. Se tutto questo scomparisse sarebbe un grande passo avanti”. L’asta, durante la quale sono state messe in palio 20 fotografie di autori italiani, ha permesso di raccogliere oltre 80mila euro. Il ricavato servirà a realizzare percorsi formativi dentro e fuori dal carcere, personalizzati a seconda delle esigenze dei ragazzi: tra questi, il progetto “Credito al futuro”, per l’attivazione di borse di studio e il Teatro Puntozero, che permette ai giovani di partecipare a laboratori teatrali come attori, musicisti e tecnici. Cuneo. I primi tre detenuti del Morandi laureati in Scienze politiche: “La cultura rende liberi” di Giulia Poetto La Stampa, 24 marzo 2024 La discussione delle tesi è avvenuta nella casa di reclusione di Saluzzo. Alla cerimonia presente anche il magistrato del Tribunale di sorveglianza. Da ieri nella Casa di Reclusione “Rodolfo Morandi” di Saluzzo ci sono tre nuovi dottori in Scienze politiche e sociali. Agostino, Camillo ed Emilio sono i primi detenuti ad aver concluso il corso di laurea triennale in Scienze politiche e sociali del polo universitario per studenti detenuti dell’istituto. Lo hanno fatto discutendo la tesi in una cerimonia che al pieno rispetto delle regole e dei riti - l’agitazione dei candidati, le corone di alloro, i confetti rossi, il rinfresco, a cura della cooperativa sociale Voci Erranti - ha abbinato una riflessione sul ruolo e l’importanza dell’istruzione in carcere e sulla sua finalità rieducativa. Dai 4 studenti dell’avvio del progetto dell’Università di Torino a Saluzzo nell’anno accademico 2019/2020 la crescita degli iscritti è stata costante: nell’anno accademico in corso sono 32 gli studenti, con il Dams a fare la parte del leone. Quello di ieri è stato un traguardo importante per tutta la comunità - carceraria, accademica, saluzzese - come sottolineato nei vari interventi. “C’è gratitudine per le tante anime che hanno reso possibile questo risultato e per i detenuti, che non hanno ceduto alla disperazione e all’animosità, ma hanno pensato a ricostruirsi dall’interno”, ha detto Paolo Allemano, garante delle persone private della libertà personale del Comune di Saluzzo. Franco Prina, delegato del rettore dell’Università di Torino per il polo studenti detenuti, ha ricordato che “l’Università contribuisce a rendere possibile il perseguimento dell’obiettivo “rieducativo” delle pene, offrendo una opportunità di crescita personale e culturale anche a persone spesso condannate a pene lunghe”. Sulla funzione rieducativa del carcere ha insistito anche Elisabetta Piccinelli, magistrata del Tribunale di sorveglianza di Cuneo: “La cultura rende liberi, permette di andare oltre i muri di cinta. Auguro ai neo dottori che questa laurea sia una nuova primavera”. La sua presenza non è passata inosservata: “È la prima volta dal 2014 che sento parlare in carcere un magistrato del Tribunale di sorveglianza”, ha osservato Bruno Mellano, garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà della Regione Piemonte. Poi spazio ai candidati: Agostino ha discusso una tesi dal titolo “Criminalità ambientale. Un approfondimento sulla ex Ilva di Taranto”, Camillo un elaborato su “Antropocene e crisi ecologica. Una transizione è possibile”, Emilio un lavoro su “Il futuro dell’Antropocene. Crisi ecologica e forme di giustizia ambientale”. Catanzaro. La maturità dietro le sbarre: consegnati i diplomi a 14 detenuti di Francesco Iuliano lanuovacalabria.it, 24 marzo 2024 Dare l’opportunità ai detenuti di migliorarsi culturalmente nel periodo di detenzione, portando la scuola in carcere. Un’attività, questa, che da anni viene svolta anche tra le mura dell’Istituto penitenziario ‘Ugo Caridi’ di Catanzaro, con l’istituzione di corsi di scuola secondaria di primo e secondo grado, con la collaborazione di alcuni Istituti scolastici della città, che ha rappresentato e rappresenta un momento di normalità per chi vive un periodo da ristretto. Nelle settimane scorse, 14 studenti dell’Istituto penitenziario, ancora detenuti, iscritti ai tre indirizzi: artistico, agrario ed alberghiero dell’Istituto di Istruzione Superiore ‘Vittorio Emanuele II” di Catanzaro, hanno ritirato il diploma conseguito nel precedente anno scolastico. Trenta, in totale, i detenuti dell’Ugo Caridi che hanno ultimato il ciclo di studi di scuola superiore. Un traguardo, quello raggiunto dai detenuti, che dà forza ad uno degli obiettivi della detenzione: la rieducazione dell’individuo e, a pena espiata, del successivo reinserimento nella società civile. Alla cerimonia di consegna, allestita nel teatro della casa circondariale, hanno partecipato, con la direttrice della Casa Circondariale, Patrizia Delfino, anche la dirigente dell’Istituto d’Istruzione Superiore “Vittorio Emanuele II”, Rita Elia, la funzionaria capo dell’Area educativa del penitenziario, Annita Misiti e la referente di sede dell’Istituto di istruzione, Gioconda Gigliotti. “Abbiamo voluto formalizzare la consegna dei diplomi conseguiti dai detenuti studenti - ha commentato Patrizia Delfino -, per sottolineare l’importanza della scuola e dello studio in generale in carcere. L’istruzione - ha aggiunto - è un importante elemento del trattamento, in quanto occasione per le persone detenute, di trascorrere il tempo della carcerazione in maniera costruttiva, acquisendo titoli e conoscenze da spendere una volta usciti dal carcere”. Presenti, con gli studenti che hanno conseguito il diploma, anche gli iscritti del terzo periodo didattico che lo conseguiranno al termine di questo anno scolastico, il personale dell’Area educativa comportamentale, il personale interno di Polizia penitenziaria ed i docenti dei vari corsi. “Voi siete parte integrante di un Istituto prestigioso come il “Vittorio Emanuele II” di Catanzaro”. Così la dirigente Rita Elia, rivolgendosi agli studenti detenuti che hanno portato a termine il percorso di studi. “Anche se nel corso dell’anno scolastico non sono stata presente fisicamente - ha aggiunto - sono comunque stata sempre disponibile a recepire le esigenze che di volta in volta ci sono state rappresentate e per le quali ci siamo resi disponibili a soddisfare per il buon funzionamento delle attività didattiche svolte in questa sede”. E’ la prima volta - è stato poi detto nel corso della cerimonia - che i diplomi vengono formalmente consegnati agli studenti. Tutto questo è l’avverarsi di un sogno, di un’idea, di un progetto. Esattamente come quelli che ci auguriamo, anche gli studenti detenuti, possano realizzare una volta riacquistata la libertà. Venezia. Il Patriarca alle detenute: “Il Papa verrà per dare a tutti una speranza” Corriere del Veneto, 24 marzo 2024 A poco più di un mese dall’arrivo di Papa Francesco a Venezia, il Patriarca Francesco Moraglia entra in carcere e prepara il terreno con le detenute della Giudecca: “Prepariamoci all’incontro con il Papa, desidera salutarvi, un gesto di incoraggiamento che riconosce la dignità di tutti e indica la speranza che è di fronte a ciascuna di voi”. Ieri pomeriggio Moraglia ha celebrato la messa prefestiva della Domenica delle Palme e per incontrare le ospiti della casa di reclusione femminile a una settimana dalla Pasqua e a poco più di un mese dal 28 aprile, quando Bergoglio visiterà il padiglione del Vaticano per la Biennale. Ieri, insieme a loro, la direttrice Mariagrazia Bregoli, gli educatori, il personale e la polizia penitenziaria, i volontari e il cappellano diocesano don Antonio Biancotto. Moraglia ha parlato di redenzione e di errori, di peccato e di speranza: “La celebrazione della Messa delle Palme ci rende protagonisti di quella vicenda storica. Siamo Pilato, siamo Caifa, siamo il Cireneo, siamo la folla che si nasconde dietro alle opinioni dominanti e non verifica i fatti e le persone per quello che rappresentano”. Il Patriarca ha poi inquadrato la celebrazione nel contesto della preparazione che tutta la Chiesa di Venezia sta vivendo in vista dell’arrivo del Papa: “In genere la celebrazione al carcere femminile si svolge nell’Epifania, festa della manifestazione del Signore. Quest’anno abbiamo vissuto anche questa celebrazione liturgica che apre la Settimana Santa per vivere un momento di preparazione alla Visita del Santo Padre”, ha affermato. “Siamo contenti della scelta del Papa di iniziare da questo luogo in cui si cerca di ricostruire delle vite e donare un futuro. Credo sia questo il messaggio che si vuole dare attraverso questo luogo e questa comunità di persone, anche con il Padiglione per la Biennale. L’arte appartiene a tutti e, in momenti di sofferenza e di ripensamento della vita, può donare uno sguardo che trasforma la realtà, conferendo una sapienza che non si può altrimenti possedere”. Asti. Effatà porta “Fine pena ora” nel carcere, uno spettacolo teatrale emozionante altritasti.it, 24 marzo 2024 Il progetto straordinario di riabilitazione attraverso l’arte ha raggiunto la nostra città mercoledì 20 marzo, con la messa in scena di “Fine pena ora” nell’istituto penitenziario di Asti. L’Associazione Effatà, con il suo costante impegno nel volontariato per il carcere, ha reso possibile questo evento, coinvolgendo detenuti e giovani studenti del liceo “Monti” in un’esperienza di profonda umanità e riflessione. La rappresentazione, diretta dal talentuoso regista Simone Schinocca, direttore artistico di Tedacà, ha portato in scena la corrispondenza travolgente di oltre 30 anni tra un ergastolano e il suo giudice. L’opera è tratta da un testo di Elvio Fassone, magistrato ed ex componente del Consiglio Superiore della Magistratura. In scena, gli attori hanno dato vita a questa storia avvincente: Salvatore D’Onofrio, noto per le sue interpretazioni in opere teatrali come “La scortecata” e “Cani di Bancata” di Emma Dante, e per il suo talento cinematografico in film come “L’immortale” di Marco D’amore e “Capri revolution” di Mario Martone. Accanto a lui, Giuseppe Nitti, formatosi al Teatro Stabile di Torino, e Costanza Maria Frola, già protagonista di diverse produzioni firmate Tedacà. Attraverso le parole scritte, due mondi apparentemente inconciliabili si sono fusi in un abbraccio di umanità, mettendo in luce i limiti, le contraddizioni e il desiderio universale di rinascita. L’evento ha suscitato una profonda emozione nel pubblico, composto non solo dai detenuti della struttura, ma anche da 30 ragazzi dell’Istituto Superiore Monti, coinvolti in un progetto di scrittura a quattro mani di un libro tra studenti e detenuti. Alla fine dello spettacolo, un fragoroso applauso ha accolto gli artisti, mentre i detenuti si sono alzati in piedi in un gesto di riconoscimento e gratitudine. “Giornate come queste donano grande senso al nostro lavoro”, ha dichiarato un rappresentante di Effatà. “Siamo grati alla direzione della struttura, agli agenti penitenziari e a tutti coloro che hanno reso possibile questo progetto straordinario. È stata un’esperienza indimenticabile, che ha toccato profondamente i cuori di tutti i presenti”. Gli occhi lucidi e le preziose riflessioni emerse durante i confronti successivi allo spettacolo dimostrano quanto sia stata significativa questa esperienza per tutti i partecipanti. Questa giornata rimarrà per sempre incisa nei cuori e nelle menti di coloro che hanno partecipato, dimostrando il potere trasformativo e inclusivo dell’arte e dell’impegno sociale. “Fine Pena Ora” non è solo uno spettacolo teatrale, ma un atto di riconciliazione, di speranza e di umanità. Attraverso l’arte, siamo tutti chiamati a riflettere su come conciliare la ricerca di sicurezza sociale con il principio costituzionale del recupero e della riabilitazione. In un mondo che spesso sembra diviso, questa rappresentazione ci ricorda che c’è sempre spazio per la comprensione, la compassione e la speranza. Napoli. “La fiction sui minorenni reclusi? Il rischio è proporre modelli che non sono la normalità” di Marco Molino Corriere del Mezzogiorno, 24 marzo 2024 Come è noto Nisida è altrove ed è un carcere minorile vero e proprio, temo che questo non venga ben percepito dai ragazzi. “Nisida non è Mare Fuori. La detenzione è sofferenza ed isolamento, non è quella mitizzata da una fiction”. Laura Patrizia Cagnazzo, preside dell’Istituto comprensivo De Curtis-Ungaretti di Ercolano, non usa la diplomazia per denunciare il rischio che le fiction possano proporre ai ragazzi realtà che “non sono la normalità”. Preside, a proposito di Mare Fuori, a Napoli ci sono state file lunghissime per visitare la caserma dove è ambientata la fiction, con tantissimi ragazzi in attesa anche per due ore, che effetto le fa? “Fermo restando che il “prodotto Napoli” tira tantissimo al punto che la città registra numeri record nel turismo, sono dispiaciuta che a funzionare sia una certa idea di Napoli, quasi fossimo un fenomeno da baraccone. C’è una curiosità un po’ morbosa nel visitare il luogo di reclusione dei giovani protagonisti della fiction, ma come è noto Nisida è altrove ed è un carcere minorile vero e proprio, temo che questo non venga ben percepito dai ragazzi”. In che senso? “Beh, il rischio è che centinaia di migliaia di giovani spettatori non si rendano conto che a Nisida si scontano pene e si soffre e che, per esempio, i ragazzi del terzo piano del penitenziario non possono stare all’aperto come si vede nella serie tv ma devono restare in cella”. Forse servirebbe proporre modelli positivi... “Certamente, almeno noi come istituzione scuola abbiamo il dovere di sottolineare realtà e modelli di persone che hanno scelto la legalità. Noi ci proviamo sempre”. Lei dirige una scuola comprensiva di Ercolano, che situazione sociale riscontra? “Nelle periferie e in provincia ovviamente ci sono problemi complessi. Non esiste solo Caivano, lì è stato fatto un decreto cucito su misura ma tutte le periferie sono difficili, ci sono sacche enormi di povertà culturali e sociali, ci sono genitori in difficoltà che devono barcamenarsi per sbarcare il lunario e purtroppo seguono poco o quasi per niente i loro figli. Ovviamente anche Ercolano non fa eccezione. Ci sono ad esempio casi di discriminazione di genere, ragazzi che hanno rapporti precoci con il rischio di inficiare il loro futuro”. La scuola pubblica resta una faro nel deserto… “Noi ci impegniamo, cerchiamo di fornire ai ragazzi un’offerta educativa “personalizzata” ma si combatte con pochi mezzi, direi a mani nude. Ora stiamo tutti sperando nelle risorse del Pnrr per poter introdurre la figura del mentore, un insegnante che possa aiutare i ragazzi più deprivati socialmente e culturalmente, speriamo che si riesca a superare le lungaggini burocratiche. Intanto si ha un bel dire di tenere aperte le scuole anche di pomeriggio. Richiede personale aggiuntivo, turni ulteriori, sorveglianti per impedire atti vandalici e mantenere standard adeguati di sicurezza”. Insomma, la solita carenza di risorse finanziarie... “Purtroppo sì e con l’autonomia differenziata andrà ancora peggio. Noi però stiamo provando a creare ambienti “plurisociali” nelle classi dove i ragazzi più in difficoltà possano confrontarsi con modelli positivi e capire che esiste anche una normalità al di fuori di quello che vedono in televisione oppure sui social. Devo dire che stiamo ottenendo buoni risultati. Noi siamo anche una scuola a indirizzo musicale e proprio pochi giorni fa abbiamo accompagnato i nostri alunni al San Carlo, i ragazzi hanno imparato arie della Turandot e si sono emozionati salendo sul palco per incontrare gli artisti. La bellezza e l’arte, come ripeto spesso anche ai nostri ragazzi, ci salveranno”. La pandemia del disagio e dell’infelicità di Walter Veltroni Corriere della Sera, 24 marzo 2024 L’allarme: in Europa nove milioni di adolescenti convivono con la difficoltà mentale. Bisogna dare risposte e agire in fretta. Ma se quella che stiamo vivendo fosse la più invisibile, la più impalpabile delle pandemie, quella dell’infelicità? Non prende i polmoni, ma impedisce spesso di respirare, stringe il cuore, accelera il battito, spegne gli occhi. Non è solo un’impressione, peraltro assai vivida, ma sono i dati delle analisi e delle grida inascoltate d’allarme di psicologi, psichiatri, neuropsichiatri di tutto il mondo. È passata in totale indifferenza - vuoi mettere con i turbamenti dei sequestrati del Grande fratello Vip? - la notizia che in Europa si contano nove milioni di adolescenti con forme di problemi della salute mentale, segnati da depressione, ansia, disturbi comportamentali, a cominciare da quelli alimentari. O che il suicidio è divenuta in questi anni la principale causa di morte tra i 15 e i 19 anni. Sul nostro giornale Milena Gabanelli si è incaricata di documentare l’incidenza inedita dei suicidi, uno ogni sei giorni, tra gli operatori delle forze dell’ordine. Margherita De Bac ci ha informato che quattro milioni di italiani si svegliano tra le tre e le cinque del mattino non per ragioni di lavoro, ma per la sindrome del “risveglio precoce”. Ogni due giorni, sono i dati a rivelarlo, qualcuno si suicida in un carcere italiano. E poi c’è la sensazione diffusa di fragilità che lo specchio dei social propone ogni istante. “Spesso il male di vivere ho incontrato” scriveva Montale e con esso ogni generazione della storia ha imparato a fare i conti. Ma ci sono dei momenti, nella vicenda umana, in cui il disagio assume caratteri pandemici, diventa non battaglia personale per la conquista della serenità, ma problema collettivo, con ampi riflessi sociali, culturali, civili, persino politici. Ci sono ragioni che determinano questo stato d’animo. Questo nuovo millennio, iniziato nel rogo delle Torri Gemelle, è stato segnato dall’irrompere della paura. Finito il Novecento nel segno, forse semplificato da un ottimismo ormai remoto, della fine della guerra fredda, il primo ventennio dei Duemila è stato dominato dall’irrompere di tensioni che sono entrate in ogni casa: minaccia alla salute, alla sicurezza ambientale, alla propria condizione sociale e finanziaria, ora persino a ciò, che almeno in occidente, si pensava garantito: il vivere in pace e in democrazia. Potremmo, in questo contesto, non essere angosciati? Non avere più preoccupazioni che sogni, più ansia che energia? La fine dei grandi sogni di emancipazione, del progetto razionale di cambiamenti possibili della propria condizione umana - le grandi conquiste sociali e quelle dei diritti - ha contribuito a determinare una condizione di solitudine, un ritrarsi dalla partecipazione collettiva che ha la sua più visibile manifestazione nel crollo verticale della partecipazione al voto e un deficit di fiducia nel futuro che è testimoniato plasticamente dalle culle vuote e dalle aule svuotate. Vedere questa pandemia, sottrarla allo stigma dell’indicibile o del disonorante, significa iniziare ad approntare dei rimedi. Alcuni attengono a decisioni concrete come il ripensamento del ruolo delle strutture scolastiche, da trasformare in luoghi permanentemente aperti per la formazione e la socialità giovanile, l’affrontare il disagio psicologico come un problema naturale e risolvibile, il dare ai social regole stringenti che ne impediscano un uso devastante della dignità umana, il riportare le carceri a una finalità di recupero e non di segregazione, il recuperare una funzione attiva ai soggetti dell’intermediazione. “Scoprire che in certe parti del mondo i bambini e i giovani vivono l’equivalente di una crisi di mezza età richiede misure immediate da parte dei governi”, ha affermato il curatore del World Happiness Report nel quale si afferma che, per la prima volta, i giovani americani sono la “generazione più infelice”. Siamo immersi ogni giorno, con quella testa piegata sul cellulare, ad un bombardamento di notizie frammentate, coriandolizzate, che servono ad agire sulla nostra sfera emotiva recidendo la dimensione del senso delle cose. Non esiste più il racconto che lega, unisce, definisce il prima e il dopo delle cose, le contestualizza. La comunicazione del frammento, dominante in rete, ci rende più indifesi, più fragili, più soli. Inchiodati in un presente del quale si avverte la futile caducità, isolati dagli altri in una illusione di centralità, ci si sente molto più smarriti. Le meraviglie indiscutibili della tecnologia, che hanno reso migliore e più semplice la nostra vita, hanno però una loro ferocia antropologica. Il discorso digitale si nutre quotidianamente di semplificazione, odio, rancore sociale. In definitiva di solitudine, la condizione nella quale si alimenta il quotidiano degli haters. Il sentimento prevalente di questo tempo è la paura, in primo luogo la paura dell’altro da sé. Isolati e incattiviti, paralizzati da una paura che diventa motore di richieste di semplificazione autoritaria o di rimozione di ogni differenza, considerata blasfema, i contemporanei sono rinchiusi in una gabbia di asfissiante attualità e spinti ad isolarsi, a praticare forme più o meno integrali di ritiro, di Hikikomori. Ha scritto Byung- Chul Han: “La crescente povertà di esperienze di contatto ci rende malati. Mancandoci completamente l’esperienza del contatto, restiamo terribilmente intrappolati nel nostro ego. La povertà di esperienze di contatto significa in ultima analisi una povertà di mondo. Il che genera in noi depressione, isolamento e angoscia”. Se esiste una pandemia del disagio e dell’infelicità che proietta le sue ombre sul vivere civile, con rischi elevati, allora bisogna agire in fretta, ciascuno nel suo, per rafforzare il contatto, la socialità, lo spirito di comunità, la rigenerazione di speranze più forti della paura. Sopravvivere al dolore di un figlio che si toglie la vita: quei genitori da aiutare di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 24 marzo 2024 Crescono i suicidi fra i giovani, la psicoterapeuta Chiara Gatti si occupa delle famiglie. Un testo sul “metodo Emdr” per riparare l’esistenza. Il ruolo della comunità educante. Non esiste un nome per indicare un genitore che perde un figlio. Esiste solo un dolore devastante. Se poi quel figlio si è tolto la vita, il dolore diventa ancora più insopportabile perché si unisce a domande, sensi di colpa, sentimenti che opprimono e stravolgono mente e corpo. Chiara Gatti, psicologa e psicoterapeuta, dal 2017 segue questi genitori in un percorso di ripresa della propria esistenza e le richieste di aiuto che le arrivano da tutta Italia sono sempre di più: il suicidio è la seconda causa di morte per i giovani fra i 12 e i 34 anni, dopo gli incidenti stradali (a loro volta spesso legati a condotte a rischio tenute per rispondere ad un disagio intimo e incomunicabile). Allarmanti dati scientifici hanno evidenziato un aumento dei tentativi anche fra pre-adolescenti e secondo l’Organizzazione mondiale della sanità nel mondo si toglie la vita una persona ogni 40 secondi. Non solo numeri - I numeri non descrivono però quello che accade nelle famiglie, ai “sopravvissuti” a un evento così tragico. E Gatti su questo ha scritto il saggio “Emdr e riparazione transgenerazionale” partendo dalla richiesta di una mamma, Elena: “Dottoressa, racconti la mia storia, perché voglio aiutare alte mamme a riprendersi in mano la propria vita”. Elena sta accompagnando Chiara Gatti in diverse città per presentare il libro, offrendo la propria testimonianza: un incontro virtuoso nato dalla tragedia. “Mi avevano contattato il giorno dopo quella scoperta drammatica, ero in casa loro per aiutare a dare la notizia al fratello più piccolo e per sostenere questi due genitori. Poi Elena ha cominciato a venire nel mio studio: all’inizio stava talmente male che veniva letteralmente sorretta da due persone perché questo dramma devasta oltre alla psiche anche il corpo. Abbiamo iniziato una terapia che fa ricorso al metodo Emdr”. Nel libro proprio Elena racconta il calvario e il lungo lavoro interiore: “Tante cose sono cambiate nella mia vita, soprattutto sono cambiata io, diventando radicalmente un’altra persona. E non è un caso che usi ora la parola rinascita. Per quanto possa apparire inverosimile, e forse per alcuni anche inaccettabile, oggi mi sento profondamente migliore e più ricca di allora”. “Un trauma - osserva Gatti - annichilisce sempre le capacità di un individuo di affrontare le situazioni, figuriamoci la morte di un figlio che sembra dichiarare al mondo il fatto che tu non hai saputo capirlo e proteggerlo”. Ovviamente non è così: “Nella maggior parte dei casi quella estrema non è una libera scelta ma una sorta di via di fuga da una sofferenza senza nome che viene da lontano, una sofferenza che diventa soverchiante e ingestibile. Paradossalmente è un disperato tentativo di preservare la vita sottraendosi ad un dolore intollerabile, incompatibile con la vita stessa”. Che tipo di lavoro si può fare con un genitore? “La prima parte è elaborare tutte le memorie traumatiche relative alla notizia della morte del figlio e tutto quello che lì si collega. Poi c’è una seconda parte che è quella riparativa: anche se continui a portarti dentro le conseguenze di questo tsunami di dolore, un poco alla volta riprendi a leggere, vedere persone, diventare supporto per gli altri. Elena oggi è una persona che non fatico a definire solare e la sua scelta di riprendersi la vita è stata lucida anche nei confronti del figlio perché non è giusto che l’ultima parola che lo descriva sia suicidio”. Gatti analizza anche i condizionamenti di questa società “che mette il bavaglio alle sofferenze dei giovani. Ragazze e ragazzi hanno addosso una enorme pressione per il successo e per l’apparire che coinvolge tutti e c’è una totale impreparazione alla fatica, all’insuccesso, al fallimento. E poi abbiamo il mito del “se vuoi puoi” che non rafforza i nostri figli, ma alimenta i loro silenzi perché dovrebbero dirci “io non ce la faccio”“. Altro tema è quella di una intera comunità educante, dalla scuola alle realtà sportive, totalmente impreparata, quando ne viene colpita, a gestire queste situazioni: l’unica risposta è spesso un silenzio imbarazzato e impotente. “Il verificarsi di un evento così grave - osserva Gatti - è una opportunità unica per parlare con i ragazzi facendo loro domande, chiedendo come stanno e cercando di far entrare la luce nelle stanze e nei pensieri segreti dove si crea e si amplifica la sofferenza”. Gatti è mamma di tre figli: “E per me è un privilegio lavorare con questi genitori, persone che arrivano con un dolore composto, sordo, provano quasi vergogna per quanto avvenuto, c’è uno stigma prodotto dagli altri ma a volte è lo stesso genitore che a volte si autostigmatizza. Ma sono persone che mi aiutano a crescere e cresco con loro”. Migranti. Centri in Albania, Meloni li vuole entro il 20 maggio Il Manifesto, 24 marzo 2024 Il governo accelera nel progetto di trasferire in Albania i migranti salvati in acque internazionali e questo nonostante la Corte di giustizia europea non si sia ancora pronunciata. Il 21 marzo scorso la prefettura di Roma ha infatti pubblicato il bando per la costruzione di due hotspot e un centro di permanenza nel Paese delle Aquile, strutture che dovranno essere pronte entro il 20 maggio e per le quali è prevista una spesa iniziale di 34 milioni di euro all’anno. “Avete capito che vuole fare Giorgia Meloni?”, ha scritto su X il deputato di +Europa Riccardo Magi. “Almeno due dei centri devono essere pronti per il 20 maggio: casualmente, a ridosso delle elezioni europee per andare a fare una bella photo opportunity elettorale”. “In pratica - ha proseguito Magi - la nostra premier vuole allestire questi centri in fretta e furia e usarli come un gigantesco spot a pochi giorni dal voto a spese degli italiani. Centri che nei prossimi anni costeranno centinaia e centinaia di milioni, per alimentare una follia che si rivelerà presto totalmente inutile a fermare i flussi e a gestire i migranti”. Naufragio in acque Sar maltesi - Una bambina di appena quindici mesi risulta dispersa da quando l’imbarcazione sulla quale viaggiava insieme alla madre e a un gruppo di migranti si è rovesciata in acque Sar maltesi. I naufraghi sono stati soccorsi dalla nave di una ong che li ha poi trasbordati su una motovedetta della Guardia costiera italiana che li ha portati a Lampedusa. A dare notizia della tragedia è stata Save the Children che ha anche ricordato come dall’inizio dell’anno siano 360 le persone che hanno perso la vita lungo la rotta del Mediterraneo centrale. “Non possiamo rimanere inermi a fare la conta delle vittime”, ha detto Giorgia D’Errico, direttrice relazioni internazionali dell’organizzazione. “Non possiamo consentire che giovani vite vengano spezzate così. Ognuna di quelle persone fugge da guerre, persecuzioni, violenza, povertà estrema, crisi umanitarie, e rischia la propria vita affidandosi ai trafficanti in mancanza di vie legali e sicure per raggiungere l’Europa”. Ore di intenso lavoro a Lampedusa dove ieri, dalla mezzanotte, ci sono stati 15 sbarchi con un totale di 694 persone. Venerdì, invece, nell’arco di 24 ore, dopo 11 approdi erano giunti 408 migranti. la nave Mare Jonio e una motovedetta della Guardia costiera, in un’operazione congiunta, hanno soccorso a 43 miglia da Lampedusa 59 persone, tra cui 2 donne incinte. Il Rescue Team di Mare Jonio ha stabilizzato la barca in pericolo, ha distribuito i giubbotti di salvataggio e ha trasferito sulla motovedetta della Guardia costiera Italiana le prime naufraghe. All’hotspot di contrada Imbriacola, nel pomeriggio, erano presenti 1.161 ospiti. La prefettura, d’intesa con il Viminale, ha disposto il trasferimento di 381 persone che verranno imbarcate sul traghetto di linea che farà rotta verso Porto Empedocle. Migranti. “A Gradisca tentati suicidi e rivolte, il Cpr va chiuso” di Paolo Lambruschi Avvenire, 24 marzo 2024 Sulla statale per Udine l’ex caserma è divisa in due. Una rinchiude i drammi del Cpr, con le fughe continue e i tentativi di suicidio a volte riusciti dei circa 80 detenuti disperati in attesa di rimpatrio. A fianco le speranze dei circa 700 ospiti del Cara, centro accoglienza per richiedenti asilo, dove si esce e si gira fino alle 21. Ma girano anche in infradito di inverno, estranei al luogo che li ospita. E chi non riesce a trovare posto, nonostante l’appuntamento per il colloquio, attende davanti alla parrocchia dove con 60 volontari don Gilberto Dudine ha aperto un dormitorio per i mesi freddi. Sono pachistani, bangladesci, siriani in arrivo dalla rotta balcanica. Quelli che non proseguo - no e chiedono asilo. Il malcontento nella cittadina di questa terra bisiaca, che vive forti tensioni con i lavoratori musulmani bangla dei cantieri navali, è in crescita. Gradisca d’Isonzo, nemmeno 7mila anime, si ritrova a convivere con un popolo che in percentuale arriva al 10% della popolazione. Un caso nazionale. “Abbiamo chiesto invano la chiusura dei due centri al Viminale - ribadisce la sindaca Linda Tomasinsig, il cui secondo mandato alla guida di una giunta di centrosinistra scade a giugno - perché la situazione ha superato i limiti tra fughe dal Cpr, tentativi di suicidio, rivolte soprattutto di tunisini il cui paese accetta i rimpatri”. Per gli altri ci sono fino a 18 mesi di detenzione prima di venire rilasciati con un decreto di espulsione. “Siamo stati lasciati soli dallo Stato - prosegue la sindaca - Cpr di Gradisca è un hub per i trasferimenti, vengono portate qui le persone in attesa di rimpatrio”. Quindi spesso pronte a tutto per disperazione. “Tenga conto - aggiunge Tomasinsig - che si tratta di una ex caserma dismessa dagli anni 90 con strutture mai ammodernate, dove non c’è un luogo ove mangiare insieme. Per non dire della carenza di personale. Le condizioni del trattenimento sono ai limiti della dignità umana e gli operatori lavorano con grande difficoltà. Ne abbiamo chiesto la chiusura anche perché non crediamo in queste strutture sottoutilizzate. Se ci sono 70 persone su una capienza di 150 perché tenerle lì?”. Il Cara risente invece dei tagli ed è reduce dal sovraffollamento invernale, dovuto alle lentezze dei trasferimenti. “Sono parcheggiati li per molti mesi senza poter fare altro che mangiare o dormire in attesa di ottenere risposta alla domanda. Noi crediamo che sia meglio chiuderlo e puntare sull’accoglienza diffusa”. Ma non è la linea del governo né della Regione, dove il presidente Fedriga la giudica un fallimento e chiede centri con numeri “sostenibili’: Ma Gradisca si è trovata con le persone a dormire in strada in attesa di entrare nel grande centro sovraffollato. Non lontano, nella parrocchia periferica di San Valeriano, don Gilberto Dudine, parroco dell’unità pastorale, ha avviato in canonica dall’anno scorso una prima accoglienza con 60 volontari provenienti anche da altri comuni. Si entra dalle 19 e si esce la mattina dopo colazione, dentro ci sono gli indirizzi dei corsi di italiano e i numeri utili. Un luogo di incontro di mondi lontani. “Quest’anno - spiega - grazie a Medici senza frontiere abbiamo predisposto una ventina di posti letto con brandine e coperte. Molti stazionano mesi prima di riuscire a entrare. Noi ci autofinanziamo e usiamo cibi e e abiti donati. I migranti stazionano sul sagrato e nei pressi del dormitorio. Al momento sono pochi, ma i flussi non si fermano mai”. Il campo di calcio e la pista di pattinaggio fuori dalla canonica, una volta affollato ritrovo del quartiere Viola, sono deserti. Ai bambini i genitori vietano di venire da quando ci sono i migranti. È la paura che va combattuta sui territori”. Il dramma dei detenuti italiani all’estero: “Le istituzioni ci aiutino” di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 24 marzo 2024 Trovarsi improvvisamente agli arresti in un Paese straniero e non sapere cosa fare, chi chiamare, come farsi capire. Sono oltre 2 mila i nostri connazionali in questa situazione e, tra questi, più della metà non ha ancora ricevuto una condanna. Di questo si è discusso giovedì 21 marzo nella Sala Caduti di Nassirya del Senato durante la presentazione del libro Prigionieri dimenticati scritto da Katia Anedda, presidente dell’Associazioe Prigionieri del silenzio, e dal giornalista Federico Vespa. A testimoniare la situazione drammatica in cui ci si viene a trovare ci sono Claudia Crimi, fidanzata di Filippo Mosca che da 11 mesi è in carcere in Romania, e Pietro Cammalleri, fratello di Luca, arrestato insieme a Filippo con la stessa accusa di traffico di droga. “Siamo partiti per una vacanza e poi capita l’inimmaginabile - ha raccontato Claudia con le lacrime agli occhi. Un anno fa decidiamo di partecipare a questo festival di Sunwave, poi andiamo a Bucarest e un’amica ci chiede se poteva farsi recapitare un pacco nel nostro hotel. Quando arriviamo in albergo c’è già la polizia che trova la droga nel pacco. Ci hanno tenuti 24 ore in stato di fermo senza farci chiamare un avvocato. Poi ci hanno rilasciato tutti ma in un secondo momento, decidono di trattenere Luca e Filippo”. L’avvocata Francesca Carnicelli spiega l’importanza di avvisare subito il consolato italiano e chiedere la presenza di un interprete e di un avvocato: “Ogni consolato o ambasciata dovrebbe avere una lista di interpreti da usare in caso di bisogno, il momento dell’arresto è cruciale - spiega - e se arriva subito l’interprete mandato dal consolato o dall’ambasciata l’attegiamento cambia eccome”. Ora Filippo e Luca sono in attesa della sentenza di appello che dovrebbe arrivare il mese prossimo. In primo grado sono stati condannati ad otto anni di reclusione. “Era il tre maggio quando ho ricevuto una telefonata di Luca - racconta Pietro -, piangeva e mi chiedeva aiuto. Decido di non dire nulla a mamma ma entro nel panico, non so a chi rivolgermi. Per questo penso che sia fondamentale avere le informazioni giuste. E poi vorrei contestare il tipo di detenzione cui sono sottoposti Luca e Filippo: chiusi in una stanza tutto il giorno, mio fratello ha preso 20 cchili, non vuole più vivere, non si trattano così le persone. Cercherò con tutte le forze di portarlo a casa. Lo stiamo aspettando non solo io ma tantissime persone”. Carnicelli e Anedda sottolineano l’importanza di un coinvolgimento da parte delle istituzioni. “Io più di dieci anni fa ero nella stessa situazione di Claudia, non riuscivo a trovare un’associazione che si occupasse di italiani reclusi all’estero. Ai tempi ero spaventata, non sapevo a ch rivolgermi, ora il mio caso è risolto ma ho deciso di diventare un punto di riferimento per chi si trova in questa situazione. Allora mi aiutò il senatore Giulio Terzi occasione e ne è nato un rapporto che dura ancora oggi” dice Anedda. Nel libro “Prigionieri dimenticati” Anedda ci racconta storie drammatiche e surreali che accomunano molti nostri connazionali, costretti a vivere una detenzione oltre confine che non gli appartiene e a subire e condividere con i propri cari, eventi dolorosi e incomprensibili nell’ indifferenza dei media e delle istituzioni, lasciandoci poi a riflettere sulla situazione nostrana in unintervento a confronto per mano di Federico Vespa. L’Isis, Hamas, Mosca e la Ue: “Si vis pacem para pacem” di Andrea Malaguti La Stampa, 24 marzo 2024 L’Era della Crisi. Ci siamo dentro mani e piedi. È complicato in queste ore sfuggire alla sensazione che stia andando tutto in pezzi. Siamo di fronte al disfacimento. E lo affrontiamo fischiettando. O, peggio, scommettendo su un bellicismo primitivo, una reattività medievale e nichilista che sembra rinnegare alla radice il senso stesso di un’Europa fondata sull’umanesimo e sulla difesa della pace. L’attentato terroristico di Mosca, con le sue molte decine di morti, i bambini trucidati, un commando di killer professionisti abituati a odiare, che rade al suolo qualunque forma di vita gli si presenti davanti come in un videogioco per psicopatici, richiama alla mente non solo gli orrori di Beslan e di Dubrovka, il settembre nero del 1999 russo ricordato su queste colonne da Anna Zafesova, ma anche la violenza spietata di Mumbai e del Bataclan. E, ancor di più, il macello disumano di Hamas. Come se l’orrore del 7 ottobre, il suo clamore planetario, avesse rimesso in funzione la macina infernale dello jihadismo internazionale. Lo Stato Islamico invoca l’ennesima crociata contro i cristiani, come Hamas contro gli ebrei. La religione trasformata in arma, in patetica giustificazione dell’inaccettabile. Ultimo ed eterno tassello di un risiko apocalittico in cui la sola ossessione sembra essere la morte. A pochi giorni dalla quinta farsesca rielezione di Vladimir Putin, il sangue pretende altro sangue. L’idea distruttrice che accompagna i tagliagole dell’Isis dalla Turchia alla Palestina, dal Libano alla Siria, dall’Iran all’Afghanistan sciita dell’Isis Khorasan, si salda, accelerandola, con l’escalation militare che travolge la Russia e l’Ucraina, ispirando la novecentesca chiamata alle armi di Bruxelles. Stiamo consegnando al caos l’intero pianeta. Come se fosse inevitabile. Come si comporterà lo Zar di tutte le Russie di fronte al massacro? Contro chi lo utilizzerà? Per fare che cosa? Si nasconderà dietro la vendicativa reazione di Netanyahu per giustificare la propria? Userà l’atomica? L’ex spia del Kgb, Vladimir Putin, “Mad Vlad”, ha impiegato un giorno intero per far sentire la propria voce. Quindi ha alluso all’ipotetico coinvolgimento di Kiev, spalancando la porta a ogni ipotesi di devastante follia. E noi ne discutiamo come se fosse una serie di Netflix, un giochino da telespettatori. L’immagine in bianco e nero scattata da Soazig de la Moissonière, fotografa ufficiale dell’Eliseo, che immortala un miketysoniano Emmanuel Macron alle prese con un sacco per la boxe, descrive bene lo spirito dei tempi. A corto di consensi interni, il presidente della Repubblica francese, dopo avere invocato la presenza di soldati europei in Ucraina, incardina la campagna elettorale europea a una stupida idea muscolare delle relazioni internazionali. Il sottotesto è semplice: i boss mafiosi capiscono solo il linguaggio dei boss mafiosi. E Putin è il capo di tutti i boss. Dunque, se lui uccide noi uccidiamo. Non c’è alternativa alla guerra. Neppure se rischiamo la fine dell’umanità. Solo che invece di dirgli: fermati, sei pazzo, armiamoci ma trattiamo fino a svenire, ciò che resta dell’Europa si siede plaudente sulla coda di questa suicida Grandeur di ritorno per vedere l’effetto che fa. Così finisce male. Il presidente del Consiglio, Charles Michel, manda in giro una lettera il cui titolo esplicito è: si vis pacem para bellum. Dopo duemila anni siamo sempre lì. Ma a nome di chi parla, di grazia? Con chi si è confrontato? A chi ha chiesto il permesso? Il Vecchio Continente è un arcipelago di leader zoppi, divisi, confusi, concentrati a rimirarsi l’ombelico in attesa del 9 giugno. Così, mentre Viktor Orban si congratula col Cremlino per l’esito del voto, un’ondivaga Giorgia Meloni, sua storica alleata, prende faticosamente le distanze, mostrandosi però incapace di arginare le untuose esternazioni di Matteo Salvini, la cui evidente passione per il Cremlino lascia immaginare (di certo ingiustamente) legami inconfessati e inconfessabili. “Putin? Il popolo ha sempre ragione”, ghigna il Capitano fuori controllo, confermando - se ancora ce ne fosse bisogno - di essere a digiuno della grammatica di base del liberalismo giuridico. Dettagli per chi, ancora una volta, convoca a casa nostra i capibastone delle peggiori e maleodoranti destre estremiste, consentendo a Marine Le Pen di mettere Meloni con le spalle al muro (“Devi dirci se stai con Von der Leyen o no!”), come se fosse una pericolosa traditrice e non la presidente del consiglio dei ministri di cui Salvini è il vice. Ma questi sono i nostri leader. E beato chi capisce a quali valori si aggrappa il tanto sbandierato patriottismo italico. Ai baci sulla guancia che segnalano la ritrovata armonia tra Macron e una Meloni poliedricamente bideniana-ma/anche/trumpiana-vonderleyiana-mezzaorbaniana-del/tutto/abascaliana/voxiana? Al neonazismo dell’Afd? O al trumpismo che declama “gli stranieri sono animali e Hitler ha fatto anche cose buone”? Ci crediamo alla diplomazia o preferiamo le bombe? Qual è il principio guida? Qualcuno può dircelo? Qual è il nostro contributo per evitare l’Armageddon? La sensazione, disperante, è di essere appesi non alle idee, ai progetti, tanto meno alle visioni, ma semplicemente agli umori, ai sondaggi, alle nevrosi di una classe politica inadatta a gestire la gravità del momento. Un gruppo dirigente che nei dibattiti parlamentari si esibisce in un imbarazzante macchiettismo alle vongole, sostituendo risposte, analisi e preoccupazioni, con faccette, gag e teste nascoste sotto la giacca di eleganti tailleur. Persino la Cina lavora per la pace più di noi. Se è vero che Li Hui, rappresentante speciale di Pechino per gli Affari euroasiatici, dopo essere stato a Kiev e a Mosca dichiara: “Tutte le parti insistono sulle proprie posizioni e c’è un divario relativamente grande nella loro comprensione dei colloqui di pace, ma tutti concordano sul fatto che i negoziati, piuttosto che le armi, metteranno fine a questa guerra. Lo scopo della nostra spola diplomatica è chiaro: impegnarci in una comunicazione approfondita con la Russia e l’Ucraina, i due Paesi coinvolti nella guerra, e con le nazioni europee interessate. E, sulla base degli ultimi sviluppi della situazione, cercare congiuntamente modi per una rapida risoluzione politica della crisi”. Xi Jinping è più illuminato di noi? Vede cose che noi non vediamo? Magari fosse. Davvero l’Europa è capace solo del micragnoso sforzo diplomatico sotto i nostri occhi? Abbiamo poco tempo. Le elezioni americane rischiano di lasciarci orfani del fratello maggiore nella Nato e nudi di fronte alle mire espansionistiche putiniane. Ha ragione Jacinda Ardern, per cinque anni a capo del governo neozelandese, mai come ora serve una convincente leadership politica. All’orizzonte non si nota. Ultime considerazioni. Ero a Bologna, ieri. Per un convegno su Chiara Lubich a ottant’anni dalla fondazione dei Focolari. “Che tutti siano uno”, Giovanni, 17, 21. Frase magnifica. Non sono particolarmente religioso, ma non è questo il punto. C’era il cardinale Matteo Zuppi, il presidente della Cei, una delle poche autorità morali del Paese. Parte delle idee espresse in questo articolo nascono dal confronto con lui, che, salutandomi, mi ha detto: “Solo un dissennato non sarebbe preoccupato in un momento così. Dobbiamo chiedere all’Europa uno sforzo. Si vis pacem para pacem”. La pace si fa con la pace. La si cerca ad ogni costo. “E questo non significa essere molli, al contrario. Bisogna essere e dimostrarsi forti. Ma senza allontanarsi dalla ricerca di una soluzione disarmata”. Diversamente, come ci ha detto una ragazza che ascoltava le nostre chiacchiere agitate, “continueremo a trasformare il mondo in un gigantesco ospedale”. E, avanti così, in un camposanto. Il grande affare delle armi italiane vendute all’Ucraina: 417 milioni di euro nel 2023 di Carlo Tecce L’Espresso, 24 marzo 2024 All’esercito di Kiev non arrivano soltanto vecchi carri armati e potenti missili regalati dalle Forza Armate, ma anche materiale bellico (soprattutto munizioni) acquistato da fabbriche che operano nel nostro Paese. Tra dilemmi giuridici e grosse commesse nell’Europa dell’Est. Il mondo veste armi made in Italy. Le guerre hanno piegato ogni ritrosia geopolitica, cavillo normativo, titubanza etica. Il mercato è in fermento, le apprezza, le prenota, le baratta, ne fa incetta. Quando le armi della politica tacciono, vale soltanto la politica delle armi. Per le relazioni con Ucraina, Israele, Ungheria, Azerbaigian, Arabia Saudita. Ovunque. Con chiunque. Spesso con forzature normative. Questo racconta l’inchiesta esclusiva de L’Espresso basata su documenti riservati e fonti istituzionali. Ecco la prima puntata in versione estesa. Sul numero da oggi in edicola e sull’app l’intero servizio Il governo di Kiev è un nuovo cliente per l’industria bellica italiana. Il secondo in assoluto con acquisti per 417 milioni di euro nel 2023, soprattutto in munizioni di vario tipo e sistemi di difesa. Per un lieve scarto, il primo cliente è la Francia con 465 milioni. Quest’anno promette il sorpasso. Le analisi dei dati non mentono. Kiev è un nuovo cliente con le anomalie giuridiche che ciò comporta. Parliamo di armi vendute da imprese con sede in Italia, non regalate dal ministero della Difesa. Com’è noto Roma ha aderito alla coalizione internazionale che “cede” (non “vende”) forniture militari a Kiev dopo l’offensiva di Mosca nella notte del 24 febbraio 2022. La differenza fra “cedere” e “vendere” è sostanziale. La “cessione” è consentita da un decreto che il governo di Mario Draghi ha varato, e il governo di Giorgia Meloni ha prorogato più volte, per derogare altre leggi, per esempio la 185 del 1990 che vieta le “esportazioni e il transito di materiale di armamento verso Paesi in stato di conflitto”. I decreti Draghi e Meloni hanno allestito la cornice giuridica per spedire con otto singoli provvedimenti ministeriali - cinque a firma di Lorenzo Guerini (ministro della Difesa con Draghi) e tre a firma di Guido Crosetto (ministro della Difesa con Meloni) - aiuti militari a Kiev con la formula di “cessione non onerosa” attingendo dalle riserve delle forze armate. Il valore stimato - gli elenchi sono secretati - è di 2 miliardi di euro inclusi i costi per la logistica che rappresentano il dieci per cento. Anche per le vendite ci vorrebbe una apposita legge. A oggi non esiste. Eppure le vendite a Kiev hanno raggiunto 417 milioni di euro nel 2023. Erano 3,8 milioni l’anno prima. Nessuno si è preoccupato di informare il Parlamento. Per una fonte di governo il tema giuridico è superfluo: “Ci sono gli accordi con gli alleati europei e atlantici che determinano la nostra politica estera”. Non è superfluo, invece, ricostruire l’origine di queste commesse per 417 milioni di euro che riguardano il governo di Kiev e che non rientrano negli aiuti che, per definizione, sono gratuiti. Non si tratta di triangolazioni con Paesi terzi, ma di rapporti commerciali diretti con passaggi tramite le dogane italiane. La constatazione è che l’Italia è diventata il polverificio della resistenza ucraina. Il motivo è semplice: qui la produzione di Rheinmetall è incessante. Rheinmetall è una multinazionale tedesca presente in mezza Europa e operativa in diversi settori e controlla l’ex azienda italiana Rwm, la fabbrica di bombe. Amministrazione a Ghedi in provincia di Brescia, stabilimenti a Domusnovas in Sardegna, Rwm dispone della merce più ambita: proiettili di artiglieria da 155 millimetri, ordigni pesanti per l’aviazione. Per le bombe inviate negli Emirati Arabia Uniti e in Arabia Saudita e poi usate nella guerra civile yemenita, Rmw fu contestata da organizzazioni non governative e associazioni per i diritti umani finché il governo gialloverde di Giuseppe Conte non revocò i contratti. Il veto a emiratini e sauditi è caduto definitivamente col governo Meloni. Il fatturato italiano di Rheinmetall in generale e di Rwm in particolare è inarrestabile per la soddisfazione dei suoi azionisti. Rheinmetall ha assommato 287 milioni di euro lo scorso anno, mentre Rwm è schizzata da 46 a 613 milioni. Il gruppo tedesco ha raccolto 900 milioni di euro di ricavi in Italia. I meriti sono della guerra. E dei fantasmi che le danzano attorno. L’Italia ha prenotato proprio da Rheinmetall i carri armati Leopard per oltre 8,2 miliardi di euro, una metà è già stanziata, l’altra è una cambiale per i prossimi governi. È comunque un progetto sontuoso che dovrebbe coinvolgere le italiane Leonardo e Iveco Defense (la proprietà è la Exor della famiglia Agnelli/Elkann). Le “esportazioni definitive” in Ucraina, legate alle commesse autorizzate per 417 milioni di euro che in buona parte ha finanziato la stessa Germania, sono ad appannaggio di Rheinmetall per 107 milioni; di Meccanica per l’Elettronica specializzata in munizioni controcarro per 41 milioni; di Leonardo (ex Finmeccanica) per 19 milioni; di Rwm per 3,8 milioni con incrementi previsti nel 2024. Per il sostegno militare a Kiev, il governo tedesco aveva ordinato a Rheinmetall una coppia di sistemi di difesa aerea Skynex per 182 milioni di euro in totale. Le singole batterie, fondamentali per abbattere i razzi e i droni russi, hanno quattro cannoni in torrette automatizzate capaci di tirare mille colpi al minuto su obiettivi a 4 chilometri di distanza. Skynex era destinato agli stabilimenti svizzeri che lo hanno sviluppato, ma il governo elvetico si è opposto e dunque i tedeschi hanno sfruttato la sede del gruppo a Roma. Il programma del governo tedesco da 400 milioni di euro in munizioni da mortaio affidato a Rheinmetall coinvolgerà anche gli impianti italiani. Quello sardo di Rwm. Le cronache melliflue hanno esaltato Rwm perché ha alzato il numero di dipendenti a Domusnovas da 300 a 480. Con 613 milioni incassati in un anno potrebbe fare molto di più. Sono pur sempre maestri nel calibrare le cose. Praga & sorelle. S’è detto che il mondo veste armi made in Italy. Lì dove la minaccia è permanente, in quel confine europeo orientale che la Nato ha integrato, la richiesta è maggiore. La Repubblica Ceca ne ha prese, di armi italiane, per l’Ucraina e per sé stessa con 96 milioni di euro. Erano appena un decimo nel 2022. La vicina Slovacchia ha più che raddoppiato da 37 a 91 milioni. Erano 20 mila euro alla vigilia della guerra. Adesso questo patrimonio è capitato in dote al presidente Robert Fico, che ha vinto le elezioni fermando i soccorsi militari a Kiev e contende all’ungherese Viktor Orban il titolo di europeo più filorusso nonché estimatore di Vladimir Putin. La baltica Lituania, infine, ha sborsato decine di milioni di euro in munizione. Certo, precauzioni necessarie per scoraggiare Mosca. E anche per evitare cali di tensione. Terzo anno senza scuola per le ragazze afghane. Noi non le dimentichiamo di Antonella Mariani Avvenire, 24 marzo 2024 Novecento giorni senza scuola. Il 20 marzo le porte delle aule si sono riaperte per i bambini, le bambine e per i ragazzi. Non per le ragazze, escluse dalle aule per il terzo anno consecutivo. Triste inizio dell’anno solare afghano, per loro, nel Paese più triste del mondo, come ha decretato proprio mercoledì, nella Giornata internazionale della felicità, il Wellbeing Research Centre dell’Università di Oxford. Il bando all’istruzione femminile dopo i 12 anni, unico caso al mondo, è stato tra i primi decisi dall’Emirato islamico dopo il ritorno al potere dei taleban, nell’agosto del 2021. Poi è stato uno stillicidio di oltre 50 decreti - nessuno dei quali ritirato - che uno dopo l’altro hanno picconato la libertà e la dignità delle donne: vietato frequentare i corsi universitari, vietato praticare sport, vietato entrare in bagni pubblici, musei, palestre, parchi o saloni di bellezza, vietato lavorare fuori casa e per le organizzazioni non governative straniere, vietato viaggiare se non con un parente stretto, vietato mostrarsi in pubblico senza il burqa… Il risultato è un apartheid di genere senza precedenti, che genera nelle ragazze ansia e frustrazione, senso di ingiustizia e depressione. Se le più piccole hanno ancora una speranza, seppur lieve, di potere in futuro tornare in classe, le più grandi vedono sfuggire, anno dopo anno, ogni prospettiva non solo di emancipazione e di indipendenza, ma di crescita. Gli osservatori assistono impotenti a un aumento di suicidi giovanili, di matrimoni e di parti precoci. Si tratta di un dramma che colpisce un’intera generazione, ma anche di una grave ipoteca sul futuro del Paese, privato non solo oggi ma per i decenni a venire di metà delle sue risorse intellettuali e professionali. Se il bando all’istruzione secondaria e universitaria femminile durerà ancora a lungo, si creerà un fossato difficilmente recuperabile, se non con il rapido ritorno in patria degli esuli, appartenenti all’ex élite afghana istruita e produttiva del Paese nel ventennio dell’occupazione occidentale. “L’istruzione è essenziale per la pace e la prosperità” si limita a scrivere su X la Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (Unama), invitando il governo taleban a porre fine a “questo divieto ingiustificabile e dannoso”. Da due anni e mezzo gli organismi internazionali e le diplomazie occidentali - che non riconoscono l’Emirato islamico ­ sono impegnati ad aprire spiragli di dialogo con i taleban, più recettivi su altri punti (ad esempio la cooperazione umanitaria: si calcola che il 50% della popolazione viva una condizione di estrema povertà e decine di ong operano sul territorio), ma completamente sordo su questo. Uno scenario che i taleban stanno profilando è quello di allestire nuove scuole coraniche per le ragazze, sul modello delle madrasse in cui generazioni di giovani maschi sono stati educati a una visione estremista e distorta dell’islam. L’Onu ha documentato l’esistenza di 7.000 madrasse, di cui 400 femminili, dove la frequenza è senza limitazioni di età; nel 2023 i taleban hanno lanciato una campagna di reclutamento per 100mila nuovi insegnanti. Si tratta evidentemente di un’arma a doppio taglio: da una parte le ragazze hanno la prospettiva di uscire di casa e spezzare l’isolamento, dall’altra c’è il rischio concreto di una ulteriore radicalizzazione a lungo termine del Paese. Un altro triste scenario nel Paese più triste del mondo, dove per le femmine la campanella non suona più.