Il tema ormai antico degli affetti e del sesso in carcere di Adriano Sofri Il Foglio, 23 marzo 2024 Il 17 maggio un’intera giornata, promossa da Ristretti Orizzonti, per discutere di un argomento recentemente ravvivato da una sentenza della Corte Costituzionale. Testimonianze e storie. Ornella Favero e la redazione di Ristretti Orizzonti, con la direzione della Casa di Reclusione di Padova, hanno promosso per l’intera giornata del 17 maggio prossimo un incontro dal titolo “Io non so parlar d’amore”. Il tema è quello ormai antico degli affetti e del sesso in carcere, un fuoco esausto sotto le ceneri, ora ravvivato dalla sentenza della Corte Costituzionale che ha reagito alla “desertificazione affettiva” e spiegato che i colloqui intimi, in spazi che somiglino quanto più è possibile alla vita all’esterno, non hanno bisogno di aspettare nuove leggi. Una sentenza che “potrebbe essere rivoluzionaria”, se solo venisse rispettata e realizzata. Il programma è dei più impegnativi. Fabio Gianfilippi è il magistrato di sorveglianza, a Terni, che aveva sollevato la questione di costituzionalità dell’art.18 del Regolamento, sui controlli visivi imposti agli incontri. Il costituzionalista Andrea Pugiotto argomenta che superare l’amputazione della sessualità sia, oltre che il più naturale e lecito dei desideri, un diritto che la detenzione non può sospendere. Chiara Gregori, ginecologa e sessuologa, segue i minori stranieri al Beccaria e ascolta e parla con loro delle emozioni e del legame fra la delicatezza la gentilezza e il piacere. La scrittrice Francesca Melandri tratterà, come ha fatto nei suoi libri, del ripudio di un’idea della pena, e anche della vita libera, che trasforma gli umani in analfabeti amorosi. Il criminologo Roberto Cornelli affronterà il rapporto fra “uno sguardo ostile e uno accogliente” nel ruolo della Polizia penitenziaria e degli operatori civili, il tema più spinoso - si tratta delle resistenze forse ormai più strumentali che culturali di chi non vuole diventare “guardone di Stato”, e che somigliano da vicino alle resistenze di detenuti maschi “all’antica” che respingevano come un disonore l’idea di far entrare “le loro donne” a un così basso fine. Cosima Buccoliero, già direttrice di Bollate e di altri carceri, oggi di Monza, tratterà del ruolo delle direzioni per passare dal principio al fatto, e della mutilazione e dell’atrofia dei sentimenti prodotte dalla ordinaria detenzione, passata innaturalmente per “naturale”. C’è anche l’amore delle madri: una di loro, Stefania, madre di un giovane morto in carcere poco dopo il suicidio di un coetaneo e vicino di cella, dirà, prima che del “problema”, del modo in cui lei e altre madri l’hanno vissuto. E ci saranno figli, compagne, genitori di detenuti, a dire dell’esperienza del carcere dei propri cari che ha sconvolto anche le loro vite. “È con loro prima di tutto che bisogna aprire un dialogo, perché il rischio è che si creino illusioni, diffidenze, e anche la sensazione di essere discriminati o esclusi, dal momento che la sentenza limita la possibilità dei colloqui riservati al coniuge, la parte dell’unione civile o la persona stabilmente convivente”. Ad aprire e coordinare l’incontro saranno il direttore della Casa di Reclusione, Claudio Mazzeo, e il criminologo Adolfo Ceretti, docente e responsabile della mediazione penale a Milano. Sul sito di Ristretti Orizzonti si trova il modulo d’iscrizione per chi volesse prender parte alla giornata. Il Paese della pena senza condanna. Quando l’eccezione diventa regola di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 23 marzo 2024 Mentre il tema del sovraffollamento carcerario preme alle porte, sotto la spinta drammatica ed incessante dei suicidi di un numero impressionante di detenuti, sarà bene ricordare che almeno il 30% di quella popolazione è detenuta in custodia cautelare. Persone dunque private della libertà personale non perché chiamati ad espiare la pena loro inflitta da una sentenza definitiva, ma perché in attesa di quel giudizio, assistiti per sovrappiù dalla presunzione costituzionale di innocenza. Il tema è certamente molto complesso, ma soprattutto è secolare, come testimonia la bella “intervista impossibile” del nostro Lorenzo Zilletti a Francesco Carrara, che quelle “risposte” le ha testualmente scritte nientedimeno che intorno al 1870. La risalenza nel tempo di questa tomentosa tematica non ci è di conforto, anzi tutt’altro: sarebbe stato lecito aspettarsi, a distanza di 150 anni, una solida evoluzione della nostra civiltà giuridica, soprattutto alla luce dei principi fissati nella nostra Costituzione in tema di libertà personale. Ed effettivamente le regole del nostro codice, prese alla lettera, segnano con chiarezza i parametri di quella inesorabile evoluzione civile: assoluta eccezionalità della privazione cautelare della libertà personale, obbligo di accurata motivazione in ordine ai presupposti di tale eccezione, onere per il Giudice di privilegiare la forma meno afflittiva di restrizione, riservando quella in carcere alle più gravi e residuali ipotesi di pericolo per la collettività. Ma sappiamo tutti che, nella quotidianità giudiziaria, la forza vincolante e categorica di quei principi risulta usurata e vulnerata da una radicata pulsione all’uso ordinario di questo strumento eccezionale, spesso con evidente finalità di anticipazione della pena. Questo avviene mediante l’affermarsi di motivazioni stereotipe, soprattutto con riguardo al pericolo di reiterazione del reato, che si fa conseguire quasi automaticamente alla gravità del reato ipotizzato a carico dell’indagato, ed al pericolo di inquinamento delle prove, ritenuto - come dire - implicito, scontato nelle intenzioni di chi riceva la notizia di essere indagato di un reato. Ma è soprattutto la potente forza mediatica degli schiavettoni intorno ai polsi di una persona, solo sospettata di aver commesso un reato, il vero propulsore di questo endemico abuso giudiziario della custodia cautelare. Una indagine penale senza l’arrestato è acqua fresca che scorre sulla pietra, è una notizia senza punto esclamativo, è un messaggio afono alla pubblica opinione che chiede rassicurazioni. Occorre dire invece subito “lo abbiamo preso!” per scuotere la sonnolenta attenzione dei media e dei social verso gli eventi senza schizzi di sangue; occorre offrire subito l’ebrezza della gogna, dunque della espiazione, dunque del colpevole. E quale garanzia migliore può essere data, di affidabilità di una inchiesta giudiziaria, di fondatezza di una ipotesi accusatoria, se non l’arresto - e preferibilmente il carcere - per l’indagato? Di questo ragiona questa settimana PQM, di quanto profonda sia la distanza tra i principi normativi e la loro concreta applicazione, e di quanto flebili siano i pallidi tentativi di riformette che sembrano girare intorno al problema, piuttosto che affrontarlo di petto. Perché rendere ordinaria ed usuale la privazione della libertà prima del giudizio di colpevolezza è e resta una ferita sanguinosa inferta alla civiltà di un Paese, che va curata con coraggio e determinazione, non con qualche pannicello caldo in favore di telecamera. Custodia cautelare in carcere. Il coraggio di scelte radicali di Daniele Negri* Il Riformista, 23 marzo 2024 “Scandalosa è l’assuefazione generale all’uso patologico della custodia in carcere. La proporzione numerica delle persone private della libertà durante il processo oscilla tuttora tra un quarto e un terzo della vasta popolazione dei detenuti, oltre sessantamila in totale, malgrado le censure della Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza Torreggiani, 2013), la quale restò “colpita” un decennio fa dal tasso esorbitante di imputati presenti nelle nostre strutture penitenziarie ed esortò lo Stato italiano a ridurre al minimo l’impiego del carcere a scopo cautelare. Non sappiamo, purtroppo, quale sarebbe stato il responso dei giudici di Strasburgo di fronte alle statistiche relative alla prima metà degli anni Novanta del secolo scorso, quando il dato giunse al tragico primato di superare quello dei condannati in via definitiva. Lungo i decenni abbiamo assistito all’alternarsi dell’energica reazione legislativa all’allarme sociale causato dalle più diverse forme di criminalità, privilegiando lo strumento della carcerazione preventiva. Con il timido tentativo - dello stesso Parlamento e della Corte costituzionale - diretto a limitare i poteri di coercizione cautelare mediante qualche indicazione di prudenza operativa o allentando i congegni legali posti a svantaggio della persona accusata: si pensi alla necessità che il pericolo di commissione di determinati delitti risulti “attuale”, oltre che “concreto”, se l’imputato restasse libero; oppure al segnale di preferenza per gli arresti domiciliari, muniti di braccialetto elettronico, rispetto alla custodia carceraria. Impegno riformatore, quest’ultimo, destinato a pratica sconfitta ogni qual volta si lasci al giudice il compito di attuare, nel bilanciamento con l’esigenza di difesa sociale, il criterio vincolante del minore sacrificio necessario della libertà personale. Dovrebbe essere ormai chiaro, infatti, come molti giudici finiscano per sentirsi compartecipi degli obiettivi di protezione della sicurezza collettiva che animano i pubblici ministeri con la richiesta di relegare l’imputato in carcere. Tentazione irresistibile di unirsi alla lotta per il bene, specie di fronte alle ansie e alle aspettative dell’opinione pubblica. Difficile pronosticare, perciò, migliore esito per le proposte normative attualmente all’esame delle Camere, che prefigurano l’introduzione di un interrogatorio dell’imputato precedente al provvedimento cautelare e la composizione collegiale dell’organo competente, onde garantire maggiore ponderazione quando si tratta di decidere sulla custodia in carcere. Sono tutte soluzioni che scansano il problema principale e più urgente, abituati come siamo a considerare la carcerazione preventiva un’“ingiustizia necessaria” o a vederla esaltata quale formidabile avamposto della tutela della società contro il delitto; piegata a finalità di prevenzione, intimidazione, neutralizzazione di soggetti ritenuti pericolosi nel corso del processo. Quasi nessuno, ormai, osa sollevare lo scandalo degli imputati gettati in carcere malgrado la presunzione di innocenza. Il principio sancito dall’art. 27 comma secondo della Costituzione è materia per gli ingenui, avulsi dalla dura realtà della quotidiana lotta al crimine; stravaganza, esagerazione, eccesso insensato di favore verso le garanzie individuali. Tutt’al più, se ne predica il valore di guida alla sintassi corretta dei provvedimenti giudiziari e di canone che invita ad aver cura di presentare l’imputato in pubblico senza additarlo a colpevole. Il principio è invece negato nella sua portata sostanziale. Si abbia allora il coraggio delle scelte radicali, vale a dire coerenti con la ragione stessa di esistenza del processo penale. La presunzione di innocenza implica che la custodia in carcere persegua scopi “strettamente inerenti al processo” (così, la lontana sentenza della Corte costituzionale n. 64 del 1970), perciò andrebbe almeno eliminato il potere di disporla quando si tema che l’imputato commetta “delitti della stessa specie di quello per cui si procede”, esigenza invocata più di frequente nella prassi applicativa. In mancanza di precedenti penali, nessuna prognosi di recidiva si può basare sulla premessa, appunto indimostrata, che l’imputato sia colpevole del reato ancora in via d’accertamento (sentenza n. 1 del 1980). Sarebbe un passo elementare; un’autentica conquista di civiltà. Eppure è sempre sfuggita ai cultori del liberalismo penale. *Professore ordinario di diritto processuale penale Altro che rieducazione, il carcere serve a soddisfare la sete di vendetta di Salvatore Aleo* L’Unità, 23 marzo 2024 Ho studiato e insegnato diritto penale per quasi cinquant’anni e la mia considerazione del carcere è mutata nel tempo secondo l’evoluzione delle mie conoscenze e della mia sensibilità. Da giovane consideravo il carcere, da un punto di vista soprattutto etico, come un luogo crudele, dove vengono praticati trattamenti inumani e degradanti, dove vengono mortificati i corpi e le coscienze di persone nostri simili. Più avanti ho valutato il carcere, da un punto di vista utilitaristico, come strumento poco utile o perfino disfunzionale rispetto al perseguimento degli obiettivi dichiarati. La violenza contrapposta alla violenza non la elide ma piuttosto la raddoppia, la riproduce e contribuisce a diffonderla socialmente e culturalmente. Il carcere non rieduca. I tassi di recidiva dei detenuti sono molto più alti dei soggetti condannati ammessi all’esecuzione penale esterna, anche se questi sono mediamente autori di reati meno gravi. Pensando all’immagine tradizionale della (cosiddetta) giustizia, mi piace pensare che sui due piatti della bilancia non vi siano il reato e la pena, che sono grandezze non confrontabili, ma bensì i cittadini che devono essere uguali di fronte alla legge. Ancora più avanti, ho visto il carcere, da un punto di vista politico, essenzialmente come discarica sociale, come luogo dove ammassare e contenere umili derelitti e sfortunati: le classi pericolose. Dove non c’è nessuna chiave da buttar via, perché la botola della discarica è perfino priva di chiave come di uscita. Un terzo dei detenuti sono stranieri. Un terzo sono tossicodipendenti, dei quali un terzo di nazionalità straniera. Moltissimi sono i detenuti con problematiche psichiatriche, per i quali la struttura complessiva dell’apparato detentivo e penitenziario sembra inadatta e inefficace. Diventato vecchio, mi sono convinto che una funzione del carcere sia di mantenere in piedi lo status culturale e istituzionale. Nel bilancio dello Stato sono previsti 3 miliardi 348 milioni 626 mila 567 curo per il mantenimento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che divisi per il numero attuale di circa 60.000 detenuti fanno 55 mila 810 curo per detenuto. Perciò possiamo dire che un detenuto costi a tutti noi circa cinquantaseimila curo l’anno. Proviamo a immaginare quante cose si potrebbero fare se ci dessero cinquantaseimila curo per ogni detenuto affidatoci da aiutare a riabilitarsi e reinserirsi in società. Occorre considerare che nel numero precedente non sono compresi gli emolumenti di avvocati, magistrati, poliziotti non penitenziari, cancellieri, professori di diritto, consulenti, che pure dovrebbero cercarsi un altro lavoro se il carcere fosse eliminato. Nel 2014 feci un’esperienza di studio di diversi mesi nelle case circondariali di Bicocca, alta sicurezza, e piazza Lanza, media sicurezza, nella mia città di Catania, e pubblicai un libro che s’intitola Dal carcere. Autoriflessione sulla pena. Vidi le pene che avevo immaginato e molto molto di più. Scoprii, inoltre, le difficoltà e il disagio dei lavoratori del carcere. Una donna lavoratrice del carcere mi sottopose la considerazione che la società non riflette sul fatto che poi i detenuti il carcere glieli restituisce, spesso peggiori di prima, certamente non migliorati. Autoriflessione sulla pena perché il problema va affrontato a partire dal sentimento e bisogno di vendetta di ciascuno di noi, a cominciare dunque da me. La pena può essere ritenuta il prolungamento logico e storico della vendetta. Il paradigma più essenziale della nostra teoria della responsabilità è fondato, in realtà, sulla vendetta, sul contrappasso. La nostra cultura sociale produce sentimenti di rivalsa e spirito di vendetta, che vengono corrisposti e soddisfatti da politiche per nulla utili a risolvere i problemi, ma rispondenti a bisogni primitivi considerati essenziali. Oggi, risorse culturali e tecnologiche più avanzate consentirebbero tante soluzioni diverse e assai più efficaci. Non più la nozione di responsabilità ‘di’, una cosa passata, ma quella di responsabilità ‘per’, il futuro, per un progetto. Come facciamo per i nostri figli. Mi piace ricordare che quando re Ferdinando di Borbone abolì in Sicilia il Tribunale dell’Inquisizione (16 marzo 1782) il Senato di Palermo gli inviò una supplica (luglio 1780) affinché soprassedesse a quella abolizione, da cui “verrebbero a mancare molti impieghi che danno al presente e potrebbero dare in appresso di vivere decentemente a molti cittadini di ogni ceto e condizione”. “Sono questi impieghi per la maggior parte occupati dagli abitanti di questa Capitale, e in quelli trovano il loro decente sostegno molte famiglie anche illustri, persone ecclesiastiche di riguardo, e vari altri soggetti di ogni ceto e condizione”. *Già Professore ordinario di diritto penale Il tempo è finito, i suicidi continuano e la politica che fa? di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 marzo 2024 Dietro le sbarre delle carceri italiane, continua il dramma che si consuma giorno dopo giorno, strappando via le vite di chi è già stato privato della libertà. Altri due suicidi hanno attirato l’attenzione degli addetti ai lavori e non solo. Una delle due tragedie è emersa sotto i riflettori giovedì scorso grazie alla segnalazione di Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia Penitenziaria. Riguarda il carcere bolognese della Dozza, dove l’arcivescovo Zuppi è giunto portando conforto e speranza per gli animi intrappolati dietro le sbarre. Tuttavia, in quel momento di solenne visita, un’altra anima ha deciso di spezzarsi. Una donna di 55 anni, di origini slovacche, ha trovato la sua fine in una bomboletta di gas da campeggio, uno strumento banale spesso trasformato in mezzo di morte. Gli sforzi disperati degli agenti di polizia penitenziaria e dei sanitari sono stati vani, mentre il suo ultimo atto, una lettera, è rimasto come testimonianza silente del suo tormento interiore. Una vita spezzata, un’altra aggiunta alla macabra conta dei suicidi che affligge le nostre prigioni. Le parole dell’arcivescovo Zuppi, cariche di umanità e compassione, si ergono come un faro nel buio, illuminando la cruda realtà delle condizioni di vita dietro le sbarre. Eppure, le sue preghiere sembrano cadere nel vuoto, schiacciate dal peso di un sistema carcerario che geme sotto il peso del sovraffollamento e della mancanza di assistenza umana. Ma il dolore non ha conosciuto pausa. Solo ieri, un giovane di soli 29 anni ha scelto di porre fine alla sua esistenza tramite una lenta agonia, rifiutando il cibo e lasciandosi morire di fame nella solitudine della sua cella a Poggioreale. Le parole del segretario generale del Sindacato Polizia Penitenziaria, Aldo Di Giacomo, il quale ha dato notizia, risuonano come un’accusa lancinante contro un sistema che sembra aver abbandonato i detenuti alla disperazione. Con un peso corporeo ridotto all’estremo, il giovane straniero ha chiuso gli occhi per sempre, diventando una statistica in un elenco sempre più lungo di anime perdute. Dall’inizio dell’anno, già sessantatré vite si sono spente nelle prigioni italiane, alcune per cause ancora avvolte nell’ombra dell’incertezza, altre - con un numero drammatico di 26 persone in meno di tre mesi dall’inizio dell’anno - per la triste scelta del suicidio. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha alzato la sua voce, richiamando l’attenzione sul dramma. Ma le parole da sole non possono porre fine a questa spirale di morte e disperazione. Proprio qualche giorno fa, come raccontato su queste stesse pagine de Il Dubbio, c’è stata una sentita manifestazione organizzata dall’Unione delle Camere Penali per chiedere un intervento da parte del governo e tutte le forze politiche del parlamento. In campo ci sono sue proposte di leggi fattibilissime, una sulla liberazione anticipata speciale proposta da Roberto Giachetti di Italia Viva, l’altra di Riccardo Magi di + Europa sulle Case di reinserimento sociale nei confronti per i detenuti con pene brevi. Il sistema penitenziario deve essere riformato, non solo per garantire la sicurezza della società, ma anche per preservare la dignità e il valore di ogni singola vita che è stata affidata alla sua custodia. Finché il lamento silenzioso delle carceri non troverà ascolto, continueremo a contare le vittime, a piangere le anime perdute, e a chiederci quale sia il vero prezzo dell’indifferenza. “Fermiamo lo scempio, stiamo rubando il futuro a creature fragili e innocenti” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 marzo 202 “Lo Scempio dei Bambini in Carcere: Stiamo Rubando il Futuro a Creature Fragili ed Innocenti” è questo il titolo della lettera aperta con cui il Garante regionale dei diritti delle persone detenute della Calabria, l’avvocato Luca Muglia, denuncia la drammatica situazione dei bambini che vivono in carcere con le loro madri. Il garante Muglia, nel suo ruolo delicato e impegnativo, si era precedentemente impegnato a evitare di interferire nelle questioni processuali e giuridiche delle persone private della libertà, preferendo concentrarsi sulle situazioni di urgenza e sulle battaglie per i diritti fondamentali. Tuttavia, l’incontro con una giovane madre detenuta insieme al suo bambino di appena un anno e mezzo ha scosso profondamente le sue convinzioni. La lettera, infatti, nasce dall’incontro dell’avvocato Muglia con questa giovane mamma detenuta da alcuni mesi insieme al suo bimbo. Il garante non critica il sistema giudiziario o l’amministrazione penitenziaria, riconoscendo il rispetto per il lavoro dei magistrati e l’attenzione dimostrata verso il benessere del bambino e della madre. Ciò che lo indigna è la possibilità, contemplata dalla legge, di privare della libertà una creatura così indifesa e innocente. Muglia esprime il suo sdegno nei confronti di un sistema che permette una tale ingiustizia, soprattutto quando si tratta di un bambino che non ha ancora avuto la possibilità di sperimentare la bellezza del mondo esterno. Il primo giorno di primavera, contraddistinto da un cielo sereno e un sole caldo, non è stato vissuto dal bambino dietro le sbarre. Il suo gioco, un semplice evidenziatore blu, rappresenta un simbolo della sua privazione e delle esperienze che gli sono negate. Queste immagini, queste sensazioni, non possono che lasciare segni indelebili nella mente e nel cuore di un bambino così giovane. La lettera del Garante regionale dei diritti delle persone detenute non è solo un grido di protesta, ma anche un appello alla coscienza collettiva. Invita a riflettere sulla violenza delle leggi che consentono una simile situazione e sottolinea la necessità di un cambiamento urgente. Si richiama alla responsabilità politica e istituzionale di porre fine a questo “scempio dei bambini in carcere”, ribadendo che il futuro di queste creature fragili ed innocenti è in gioco. “Che dire, se non che sembra impossibile immaginare che, in pieno terzo millennio, possano presentarsi scene di questo tipo”, scrive il Garante, che pur non entrando nel merito processuale della vicenda, si dice indignato dalla possibilità di privare della libertà personale un bambino così indifeso e innocente. “Tutto ciò interroga le nostre coscienze e ci induce a riflettere sulla violenza delle nostre leggi”, afferma Muglia, che sottolinea come cambiare le cose sia possibile e necessario. “Stiamo rubando il futuro a creature fragili ed innocenti”, aggiunge, invitando le autorità competenti ad intervenire al più presto per porre fine a questa “violenza istituzionale”. La lettera si conclude con un’immagine emblematica: lo sguardo del bambino che ha incontrato il Garante, uno sguardo che “ci seguirà, inquieterà le nostre notti fino a quando qualcuno, un nobile giorno, non porrà fine allo scempio dei bambini in carcere”. L’appello di Muglia è un invito a riflettere su una realtà spesso dimenticata e a mobilitarsi per cambiare un sistema che non tutela i diritti dei più piccoli e fragili. Seconda Chance, detenuti e volontari di Plastic Free insieme per ripulire le spiagge vivereancona.it, 23 marzo 2024 Dalle spiagge della Toscana alle coste della Calabria, passando per Puglia, Campania, Sardegna e Marche. Domani i litorali di sei regioni italiane vedranno in azione una cinquantina di detenuti provenienti da nove penitenziari e i volontari di Plastic Free, l’organizzazione impegnata dal 2019 nel contrastare l’inquinamento da plastica, per una nuova azione coordinata contro il degrado ambientale. Dopo il successo dello scorso anno, tornano gli appuntamenti organizzati dalla Onlus e da Seconda Chance, associazione del Terzo Settore che fa da ponte tra carceri e aziende per creare opportunità di reinserimento. Protagonista anche il litorale marchigiano con ritrovo presso la spiaggia di Portonovo ad Ancona (ore 10). “Per tanti detenuti si tratterà della prima uscita, dopo diverso tempo, grazie ad un permesso premio concesso dalla Magistratura di Sorveglianza - dichiara Flavia Filippi, fondatrice e presidente di “Seconda Chance” - Ciò riempie ancor più di significato questa rinnovata partnership basata su valori come l’inclusione, la rieducazione, il rispetto della natura e della legalità. Grazie alla collaborazione con le carceri di Cagliari, Livorno, Secondigliano, Palmi, Locri, Laureana di Borrello, Bari, Ancona Montacuto e Ancona Barcaglione potremo raggiungere un risultato doppio, a beneficio dell’ambiente e del benessere dei detenuti”. “Questa iniziativa dimostra come per la salvaguardia del nostro territorio sia fondamentale il contributo concreto di tutti - aggiunge Lorenzo Zitignani, direttore generale Plastic Free Onlus - Armati di guanti, ramazze e desiderio di condivisione, i detenuti saranno guidati dai nostri volontari nelle operazioni di pulizia ambientale affinché si possano ripulire le spiagge di sei splendide località dai rifiuti che i nostri mari ci restituiscono”. Le pulizie ambientali, momento anche di inclusione sociale, sono aperte a tutti i cittadini che vorranno prenderne parte previa registrazione sul sito www.plasticfreeonlus.it. I punti di ritrovo degli altri appuntamenti saranno la spiaggia di Pane e Pomodoro a Bari (ore 9:30), la piazzetta Fernando Pilia (lato Luchia) a Cagliari (ore 10.30), l’Oasi dei Variconi a Castel Volturno, in provincia di Caserta (ore 9), il piazzale dei 3 Ponti a Livorno (ore 9:30) e il villaggio La Quiete-Angolo verde a Palmi, Reggio Calabria (ore 9). Se la giustizia confonde la suggestione con la prova di Alessandro Barbano Il Riformista, 23 marzo 2024 “L’insussistenza del reato appare evidente. Le risultanze probatorie acquisite prestano il fianco a molteplici rilievi, giacché contengono esclusivamente un mero principio di prova che, però, è rimasto confinato a mera suggestione”: la motivazione con cui la Corte d’Appello di Reggio Calabria ha assolto l’ex senatore di Forza Italia Bruno Siclari dall’accusa di scambio elettorale politico-mafioso è una fotografia fedele della giustizia italiana. C’è un parlamentare portato a giudizio, scaricato dal partito e non ricandidato, quindi arrestato, processato e condannato in primo grado a cinque anni e 4 mesi per aver chiesto e ottenuto i voti della ‘Ndrangheta. Adesso si scopre che la prova di un accordo illecito è stata desunta nella sentenza del tribunale dalla mera vittoria elettorale del candidato senatore, ancorché - dicono i giudici d’appello - “la stessa è stata determinata da cause del tutto estranee a un presunto patto mafioso”. Queste parole provano che il pregiudizio e il sospetto possono insinuarsi dentro l’azione penale fino alla sentenza di primo grado, un tempo lungo anni e sufficiente a stroncare carriere, famiglie e vite, e possono entrare a gamba tesa sull’autonomia politica di una comunità o di una democrazia. Perché questo non è un caso, ma la fotocopia di un paradigma che, soprattutto al Sud, e in special modo in Calabria, porta a giudizio cittadini innocenti in una percentuale di casi che supera il cinquanta per cento. Si può forse definire errore una casistica così imponente? E si può definire errore l’esito di un processo che poggia su una “suggestione” della quale esista, come spiega la Corte, prova contraria? No, di errore non si può parlare anche per un motivo, per così dire, sistemico. Un errore ha sempre una responsabilità. Di questa abnorme sentenza, che è costata la libertà e la carriera a un rappresentante della Repubblica, nessuno invece risponderà. Allora conviene fare uno sforzo e immergerci nella patologia del sistema, se vogliamo venire davvero a capo di esiti così paradossali. La sentenza del tribunale di Reggio racconta una giustizia che ha anzitutto sostituito la colpevolezza con la pericolosità, il reato con il reo, e la prova con il sospetto. Ciò ha origine anzitutto nella legge, cioè nel codice penale, che prevede ormai tante fattispecie di reato senza un requisito essenziale: la tipicità, cioè una linea di demarcazione tra ciò che è lecito e ciò che è vietato e sanzionato. Il voto di scambio politico-mafioso è una di queste figure. I suoi contorni sono elastici, perché frutto di una legge scritta con i piedi e viziata da una tentazione ideologica. Non colpisce lo scambio tra voti di mafia e favori alla mafia, ma la stessa promessa, cioè porta la legge penale in una zona grigia che anticipa il reato e che coincide con la ricerca del consenso, propria dell’attività politica. Con l’obiettivo di anticipare la tutela, sostituisce la repressione di un illecito con la sua prevenzione. Se il bersaglio della legge non è più lo scambio tra politica e mafia ma la promessa dello scambio, l’unica prova possibile sono le intercettazioni, cioè l’unico strumento capace di inseguire il male nel suo processo di formazione, sotto forma di intenzioni, promesse, emozioni che, sotto la coltre della vita pubblica, è possibile captare. L’investigazione cessa di essere uno strumento per accertare un fatto illecito vietato dalla legge e diventa una sorta di psicanalisi sociale, un viaggio nell’inconscio delle comunità, compiuto non dall’orecchio di un terapeuta, ma da quello di un solerte brigadiere della polizia giudiziaria, che ascolta, trascrive, assembla, ricostruisce non tanto ciò che è accaduto, ma soprattutto ciò che potrebbe accadere. Con l’effetto spesso di deformare quei frammenti di vita e di pensiero strappati alla riservatezza dei singoli e di rimontarli in un puzzle, incollandoli con il sospetto di polizia. In nome della lotta alla mafia la giustizia si è trasformata in una macchina di sorveglianza sociale. Ma soprattutto in una macchina dove sfuma la distinzione tra l’efficienza dell’azione penale e l’errore. Una macchina appunto capace di portare a giudizio una intollerabile quota di innocenti. La lassità della legge suggerisce anche la lassità dei suoi interpreti. Che dilatano il perimetro dei reati come un palloncino e che torcono le regole, piegandole a una logica di risultato. Così le intercettazioni vengono impiegate a gogo, alla prima notizia criminis, e poi prorogate a strascico. Così la custodia cautelare viene disposta anche quando manchino i requisiti di attualità e di concretezza del pericolo di fuga, di ripetizione del reato e di inquinamento delle prove, richiesti dalla legge. Tra il diritto formale e quello di strada si apre un crepaccio immane. Una Corte d’Appello o di Cassazione, forse, prima o poi, lo sormonterà, riavvicinando la legge alla giustizia e dimostrando che anche a Reggio Calabria, e non solo a Berlino, esiste un giudice. Peccato che compaia sulla scena solo quando lo tsunami è compiuto, dopo anni di privazioni, di dolore, di danno e di lutti. Quando l’idea stessa di un ripristino, o di un risarcimento, suona come l’ultima beffa. “Bonificare” il Sud con l’Antimafia: il fallimento di una strategia di Alberto Cisterna Il Riformista, 23 marzo 2024 Furono addirittura incoraggiate le fughe degli investitori, così la delocalizzazione di risorse economiche e umane a causa del pericolo mafia è stata incalcolabile: miliardi mandati in fumo sull’altare di una palingenesi securitaria. La riduzione della questione meridionale a questione criminale o, se vogliamo, principalmente criminale è un cliché in voga da almeno tre decenni e che ha progressivamente compromesso le speranze del mezzogiorno di riscatto da una condizione economica e sociale che, invero, da tempo poco ha a che vedere con le mafie. I clan, stando alla più accreditata storiografia, sono presenti al Sud da almeno un secolo, ma non a caso i meridionalisti di vaglia non le hanno mai prese seriamente in considerazione come uno dei fattori di depressione della condizione sociale di quelle regioni. Una monumentale bibliografia ha per decenni, sino agli anni ‘90 del secolo scorso, spiegato che erano il sottosviluppo infrastrutturale, la marginalità imprenditoriale, il velleitarismo delle classi dirigenti i veri ostacoli alla crescita del mezzogiorno; laddove, infatti, questi fattori hanno allentato la loro presa i territori si sono sviluppati e hanno raggiunto livelli ragguardevoli di benessere e di sviluppo (la Puglia in primo luogo). Tuttavia, da tre decenni questa analisi autorevole e radicata della questione meridionale è stata offuscata dalla convinzione che fossero, invece, i clan a impedire che la clessidra del rilancio fosse capovolta, attanagliando economia, politica, istituzioni in formidabili gangli mortali. Così la risoluzione dei problemi del Sud è stata affidata a una preventiva, lunghissima, estenuante opera di bonifica a carattere securitario. Processi, misure di prevenzione, interdittive antimafia, sono apparse la pre-condizione indispensabile prima di avviare risorse al Sud, altrimenti disperse nelle mani delle cosche e dei loro accoliti. Un teorema, come qualcuno l’ha definito, che ha criminalizzato indistintamente molte porzioni del mezzogiorno e ha costituito l’alibi per giustificare l’invio massiccio di mezzi di contrasto in luogo degli investimenti cospicui che la situazione sociale ed economica richiedeva. Una condizione per cui - in attesa dell’improbabile “via libera” da parte degli apparati di repressione, poco interessati ad allentare l’allarme - ogni stasi era ampiamente giustificata e le fughe e i timori degli investitori erano finanche incoraggiati. La delocalizzazione di risorse economiche e umane dal Sud a causa del pericolo mafia (non della mafia o non solo) è stata incalcolabile e nessuno ha inteso mai misurarla in modo attendibile. Miliardi mandati in fumo come incenso sull’altare di una palingenesi securitaria il cui avveramento non viene mai proclamato, anche per una sorta di scarso interesse a farlo. Una recente, significativa intervista del procuratore di Napoli su “L’Espresso” e la vicenda del sindaco De Caro a Bari offrono una sorta di implicita conferma alla convinzione che la questione economica del mezzogiorno possa trovare soluzione solo dopo una capillare bonifica dei territori dalla presenza mafiosa; il che - stando alle stesse analisi dei protagonisti degli apparati di contrasto - sembra una missione difficile se non impossibile. La presenza di soggetti mafiosi o collusi con le mafie ha assunto in molti luoghi, a macchia di leopardo in vero, connotati endemici. La progressiva liberazione di centinaia di mafiosi, tratti in arresto e condannati nel corso degli anni ‘90 e 2000 restituisce ai territori soggetti che ben che vada devono reinserirsi socialmente, debbono provvedere al proprio sostentamento e, nel farlo, anche se non commettono reati tendono a riproporre il tessuto connettivo di provenienza. Solo ieri il ministero della Giustizia ha reso noto che ci sono 27.102 condannati beneficiari della messa alla prova, 844 per violazione della legge sugli stupefacenti. La società deve necessariamente riassorbire al proprio interno persone che hanno espiato la pena e si devono collocare lavorativamente. Il caso di Bari, i problemi con le cooperative di ex detenuti a Napoli o a Roma, sono fattori che tendono a rendere endemica la ricostruzione di vincoli, contatti, solidarietà che possono (si badi bene: possono) riproporre minacce malavitose. Ma nessuno può immaginare di avviare, per via giudiziaria, una sorta di miracolosa redenzione di questi soggetti e di quanti appartengono ai clan, in vista dell’avvento di un’utopica “Città del sole”. L’inevitabile contiguità sociale con queste persone che hanno espiato la propria pena, impone però una drastica rivisitazione di alcune categorie “nobili” dell’antimafia che - cesellate nel tempo dell’egemonia delle cosche (sino all’ondata repressiva dei citati decenni) - mostrano di aver esaurito il proprio ciclo vitale. Un conto erano le frequentazioni, i contatti, le cointeressenze con un mondo che procurava vantaggi a suon di lupara, altro avere a che fare con gli “sconfitti” e i “reduci” di cosche battute e decimate da arresti e confische. Accanirsi con i piani bassi della mafia è operazione, oggi, poco commendevole, così come dare enfasi mediatica a frattaglie di un mondo in disarmo. Laddove il problema non è di individuare ipotetici o ipotizzabili piani alti delle cosche, ma di comprendere come i clan più importanti si siano riorganizzati per sopravvivere alla repressione passata. Il rischio è che - come dopo il pungo di ferro del prefetto Mori negli anni 30 - le mafie “alte” abbiano abbassato il capo e abbiano allocato nell’ombra i loro interessi, rendendoli impenetrabili a ogni indagine. Ipotesi, ovvio. Una speranza ai figli dei boss. Il progetto “Liberi di scegliere” diventerà legge di Angelo Picariello Avvenire, 23 marzo 2024 Il progetto “Liberi di scegliere” viene rinnovato, allarga i suoi orizzonti e presto diventerà legge. Da esperienza pilota scaturita dalla felice intuizione di un giudice minorile di Reggio Calabria, con il supporto dell’associazione Libera - per tentare di sottrarre i familiari e soprattutto i minori alla contaminazione “criminale” di boss, o affiliati - diventa un progetto su larga scala, che si apre, come obiettivo finale, a a tutte le aree a più forte radicamento della criminalità organizzata. Un protocollo verrà firmato martedì prossimo dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, con il concorso di ben quattro ministeri (Interno, Istruzione, Università e Ricerca e Famiglia), e il rafforzamento del fronte associativo. Oltre all’associazione fondata da don Luigi Ciotti, coinvolte nel progetto saranno anche la onlus Salesiani per il sociale, la odv Fonte d’Ismaele, il Centro Elis, l’associazione Cometa, e la Fondazione di comunità San Gennaro. Sul modello della “Legge Caivano”, faranno parte della sinergia operativa le procure distrettuali Antimafia, le autorità giudiziarie minorili. “La novità - spiega Andrea O stellari, sottosegretario alla Giustizia con delega alla giustizia minorile e di comunità, senatore della Lega - consiste non solo nel suo rinnovo, ma anche nel fatto che viene formalmente esteso al distretto di Napoli, Catania e Palermo, grazie anche al coinvolgimento di nuove associazioni e della Conferenza episcopale italiana, dopo le fruttuose esperienze in quel di Reggio Calabria”. Il protocollo, ricorda ancora Ostellari “è nato grazie al giudice Roberto Di Bella, già presidente del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria e ora a Catania. La sua esperienza ha inciso non solo su un piano giurisprudenziale e dottrinale, ma ha costretto ad una riflessione tutte le Istituzioni. Grande merito va riconosciuto al Dipartimento di Giustizia minorile e di comunità, guidato dal presidente Antonio Sangermano, che ha coordinato i lavori”. “Liberi di scegliere” nasce nel 2012 con l’obiettivo di estirpare la criminalità dalla vita dei giovanissimi. “Esiste il rischio non virtuale, che in particolari contesti e in particolari famiglie, l’educazione si traduca in educazione criminale, ha sostenuto il giudice Di Bella. Il progetto, con il sostegno di Libera, ha avuto una prima fase di attuazione in Calabria e Campania. In particolare, in Calabria nel giugno scorso, è diventato legge regionale. Dieci anni e passa di sperimentazione hanno portato risultati di rilievo: circa 150 minori sono stati allontanati da una prospettiva criminale per contagio familiare, nel progetto sono entrate anche molte madri, sette di loro sono diventate collaboratrici di giustizia. Un tassello importante, questo, nell’opera di lotta alla criminalità organizzata, che incide sul livello educativo. Ma c’è ancora un lungo cammino da fare. “La mafia - dice ancora Ostellari - cesserà di esistere quando riusciremo ad interrompere il circuito venefico che consente la trasmissione del patrimonio delinquenziale dai genitori ai figli. Sono questi ultimi che, liberati da un legame tossico, andranno a depauperare le organizzazioni criminali di energie e di nuove reclute. In questo processo grande rilevanza assume anche il ruolo delle madri. Sono molti gli esempi di donne coraggiose che, a rischio della vita, hanno scelto una strada diversa per loro e per i loro figli. Il protocollo funziona proprio perché, grazie al supporto delle Istituzioni e delle associazioni coinvolte, sostiene e protegge le donne che hanno la forza di dire basta. A renderlo unico ed esemplare è poi il fatto che esso si ponga come risposta corale ad un problema complesso, di cui si fanno carico sia lo stato, sia la società civile”. Il protocollo sarà immediatamente operativo. Dal carattere sperimentale iniziale, è diventato ormai di un piano di buone pratiche consolidato e strutturato, che ora si allarga a un territorio molto vasto. “Il nostro obiettivo, insieme alla Commissione Antimafia - conclude Ostellari -, è tuttavia quello di renderlo parte del sistema ed estenderlo a tutto il Paese. Per raggiungerlo stiamo lavorando ad una legge. Auspico che da parte di tutte le forze parlamentari ci sia piena condivisione. Salvare vite, combattere l’illegalità, educare i giovani è una missione che riguarda tutti”. La Consulta piccona ancora la Spazzacorrotti di Simona Musco Il Dubbio, 23 marzo 2024 Incostituzionale il “brusco” innalzamento della pena minima per l’appropriazione indebita previsto dalla norma grillina. La Corte costituzionale assesta un nuovo colpo alla Spazzacorrotti. Questa volta a finire nel mirino è l’innalzamento della pena minima per l’appropriazione indebita, portata da quindici giorni a due anni di reclusione dalla legge numero 3 del 2019. Un innalzamento “brusco” e “sprovvisto di qualsiasi plausibile giustificazione”, motivo che già da solo rende la scelta del legislatore costituzionalmente illegittima. La Consulta, con la sentenza numero 46, depositata oggi, ha accolto la questione di legittimità sollevata dal Tribunale di Firenze in un processo per appropriazione indebita del valore di 200 euro, commessa da un agente immobiliare che aveva restituito soltanto in parte al proprio cliente la somma ricevuta a titolo di cauzione per un contratto di locazione, poi non portato a conclusione. Secondo il Tribunale, la scelta di innalzare la pena minima, compiuta con la Spazzacorrotti, conduce “all’irrogazione di pene sproporzionate, sia rispetto a quelle applicabili per i contigui delitti di furto e truffa, sia - intrinsecamente - in rapporto alla concreta gravità di una vasta gamma di condotte sussumibili entro la fattispecie criminosa, ma di contenuto disvalore offensivo rispetto al bene giuridico protetto”. Secondo il giudice delle leggi, anche se il legislatore gode di ampia discrezionalità “nella definizione della propria politica criminale, e in particolare nella determinazione delle pene applicabili a chi abbia commesso reati, così come nella stessa selezione delle condotte costitutive di reato”, discrezionalità “non equivale ad arbitrio”. Il che vuol dire che “qualsiasi legge dalla quale discendano compressioni dei diritti fondamentali della persona deve potersi razionalmente giustificare in relazione a una o più finalità legittime perseguite dal legislatore; e i mezzi prescelti dal legislatore non devono risultare manifestamente sproporzionati rispetto a quelle pur legittime finalità”. Il controllo sul rispetto di questi limiti spetta alla Corte costituzionale, che “è tenuta a esercitarlo con tanto maggiore attenzione, quanto più la legge incida sui diritti fondamentali della persona. Il che paradigmaticamente accade rispetto alle leggi penali, che sono sempre suscettibili di incidere, oltre che su vari altri diritti fondamentali, sulla libertà personale dei loro destinatari”. Il “brusco innalzamento del trattamento sanzionatorio del delitto di appropriazione indebita” è stato determinato da un emendamento a prima firma del grillino Gianfranco Di Sarno, ma le ragioni della scelta “non sono state in alcun modo illustrate nel corso del dibattito parlamentare” che ha condotto all’approvazione complessiva della Spazzacorrotti, nata per contrastare la corruzione e i reati contro la pubblica amministrazione. In mancanza di indicazioni ricavabili dai lavori preparatori, è necessario comprendere se l’innalzamento del minimo della pena detentiva in misura pari a quarantotto volte il minimo originario abbia una connessione razionale con gli obiettivi di fondo della legge. Nella relazione illustrativa veniva evidenziato come, nonostante non si tratti di un delitto contro la pubblica amministrazione, “il reato di appropriazione indebita è strumento che consente comunemente (come il reato di falso in bilancio o i reati tributari) di formare provviste illecite utilizzabili per il pagamento del prezzo della corruzione. Sembra pertanto opportuno, nella prospettiva di un contrasto efficace non solo dei fenomeni corruttivi, ma anche delle attività prodromiche alla corruzione, mantenere la procedibilità d’ufficio per le ipotesi di maggiore gravità di appropriazione indebita”. Tale motivazione, però, secondo la Consulta non è in grado di fornire “alcuna giustificazione razionale” della scelta di un aumento così eccessivo del minimo della pena. Se può essere compresa, infatti, “la scelta di innalzare la pena massima dell’appropriazione indebita, in relazione alla necessità di colpire severamente condotte appropriative che l’esperienza ha mostrato essere potenzialmente prodromiche a pratiche corruttive”, resta del tutto oscura la ragione che ha condotto ad innalzare “in maniera così aspra il minimo edittale - continua la sentenza -. E ciò a fronte del dato di comune esperienza che il delitto di appropriazione indebita comprende condotte di disvalore assai differenziato: produttive ora di danni assai rilevanti alle persone offese, ora (come nel caso oggetto del giudizio a quo) di pregiudizi patrimoniali in definitiva modesti”. Una pena simile, d’altra parte, appare manifestamente sproporzionata rispetto a quella minima (di sei mesi di reclusione) oggi prevista per un furto e una truffa che, in ipotesi, producano esattamente lo stesso danno patrimoniale di 200 euro. Per tale motivo, la scelta del legislatore viola gli articoli 3 e 27, terzo comma, della Costituzione. Per la Corte, il rimedio appropriato è, dunque, equiparare la pena minima di questo reato a quella di furto e truffa, ovvero sei mesi. Un suggerimento che si muove “nell’orizzonte delle soluzioni “costituzionalmente adeguate”“, ossia tratte da discipline “già esistenti”, che consentono alla Corte “di porre rimedio nell’immediato al vulnus riscontrato, senza creare insostenibili vuoti di tutela degli interessi di volta in volta tutelati dalla norma incriminatrice incisa dalla propria pronuncia”, restando poi ferma “la possibilità per il legislatore di intervenire in qualsiasi momento a individuare, nell’ambito della propria discrezionalità, altra - e in ipotesi più congrua - soluzione sanzionatoria, purché rispettosa dei principi costituzionali”. Test psicoattitudinale per i futuri magistrati di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 23 marzo 2024 La novità inserita nella riforma dell’ordinamento lunedì al varo del governo apre un altro fronte di scontro alla vigilia della presentazione del Ddl sulla separazione delle carriere. Per i futuri magistrati obbligo di sottoporsi a un test psicoattitudinale. Alla fine, dopo lunga e tormentata riflessione, la novità è stata inserita nella riforma dell’ordinamento giudiziario che lunedì sarà all’esame del consiglio dei ministri. Si apre così un altro fronte di scontro con la magistratura alla vigilia oltretutto della annunciata presentazione, tra pochi giorni, del disegno di legge costituzionale sulla separazione delle carriere. Alla valutazione del Governo della Giustizia si era rimesso il Parlamento, con un duplice e identico parere di Camera e Senato. Semplice valutazione però, formulata nei termini della assai meno stringente “osservazione”, a differenza della sollecitazione a rinviare l’entrata in vigore della riforma dei magistrati fuori ruolo (altro testo all’esame del consiglio di ministri di lunedì), espressa nei termini della più vincolante “condizione”. A essere state superate, ma è una decisione di natura tutta politica, sono state così le riserve, anche giuridiche, che a fine novembre contribuirono a impedire un blitz in quota Presidenza del consiglio per l’inserimento dei test nella riunione del consiglio dei ministri che approvò in prima lettura il decreto legislativo sull’ordinamento giudiziario. Allora venne fatto valere il mancato rispetto della norma delegata ai princìpi della legge delega, tema che potrebbe comunque fare finire la disposizione davanti alla Corte costituzionale. Durissima era stata pochi giorni fa la reazione dell’Anm all’ipotesi di introduzione dei test, sottolineando lo “screening di massa” cui si intende sottoporre la magistratura, quando “l’equilibrio di un magistrato si misura sul campo, verificandone il lavoro concreto negli uffici giudiziari, le modalità di conduzione delle udienze, la capacità di confrontarsi con i colleghi, con la polizia giudiziaria, con il personale amministrativo, con gli avvocati”. Dove oltretutto, si aggiungeva, a venire allungati e complicati saranno anche i tempi di ingresso in magistratura, proprio quando il reclutamento di nuovi magistrati è un tema caldo in chiave Pnrr. Più sfumata pare essere invece l’ipotesi elaborata per “rimpolpare” il fascicolo del magistrato, elemento assai significativo nel percorso di valutazione di professionalità del magistrato. Se la versione approvata in prima lettura prevedeva un inserimento dei provvedimenti ascrivibili alla singola toga solo “a campione”, quella finale ne prevede l’arricchimento con altri provvedimento considerati “a richiesta” significativi. Adottata infine la richiesta parlamentare più pressante, che rinvia al 2026 il debutto della riduzione (già contestata quanto a consistenza) del numero di magistrati collocati fuori ruolo nelle diverse amministrazioni e organi costituzionali. Troppo pesante l’impatto in una fase di particolare stress per la pubblica amministrazione per la necessità di raggiungere gli obiettivi concordati con l’Europa nel Pnrr. Bologna. Detenuta suicida, gli avvocati invocano “amnistia e indulto” di Andreina Baccaro Corriere di Bologna, 23 marzo 2024 L’altro giorno una 55enne si è uccisa inalando gas nella cella. “Abbiamo potuto constatare le condizioni non dignitose in cui si trovano a vivere oltre 850 detenuti, su una capienza regolamentare di 500 posti, condizioni che spesso coinvolgono soggetti affetti da patologie psichiatriche e tossicodipendenti. Centinaia di esseri umani senza speranza di una vita migliore né dentro né fuori dal carcere”. Esordisce così la lettera appello che il Consiglio dell’Ordine degli avvocati bolognesi, a firma del suo presidente Flavio Peccenini, invia al ministro della Giustizia, ai vertici degli uffici giudiziari bolognesi, a sindaco e governatore, il giorno dopo il suicidio alla Dozza di una donna di 55 anni. “La ventiseiesima morte in carcere dall’inizio dell’anno” è avvenuta a pochi giorni da una visita dell’organo rapprequello sentativo degli avvocati: detenuti e personale della polizia penitenziaria, scrivono, “vivono in condizioni non degne di un paese civile, dove il principio di rieducazione della pena, voluto dai nostri costituenti quale fine ultimo della stessa, è niente più che un miraggio”. Perciò “di fronte all’incapacità dello Stato di assicurare luoghi e dotazioni adeguate al rispetto dei principi costituzionali e alla dignità dei detenuti e del personale parole come “amnistia e indulto” non possono più essere considerate eretiche”. Gli avvocati si rivolgono anche al sindaco Matteo Lepore perché “sappia che nella nostra città c’è un luogo dove le vite valgono molto meno di altri luoghi della stessa città”, chiedendo alla magistratura che “vada in carcere, veda che abbiamo visto noi”. Anche la Cgil e la Fp Cgil di Bologna lanciano “un appello a città e istituzioni affinché si apra una discussione urgente, chiamando il governo alla necessaria assunzione di responsabilità”. Il garante dei detenuti del Comune Antonio Iannello ricorda in una nota che pochi giorni prima era morta un’altra giovane donna alla Dozza seppur per una grave malattia e osserva: “Questi eventi tragici hanno avuto un grave impatto sulla locale comunità penitenziaria, a cui va prestata doverosa attenzione, fornendo quanto necessario in termini di supporto e sostegno per la rielaborazione emotiva”. Pavia. Trapper morto nel carcere, il papà: “Voglio la verità, non credo al suicidio” di Dario Crippa Il Giorno, 23 marzo 2024 Jordan Baby aveva denunciato di essere stato violentato. Fatta l’autopsia. Il padre: “L’ultima volta che ho visto mio figlio era felice, voleva tornare libero”. E si commuove al ricordo di una guardia: “Mi disse che era un bravo ragazzo”. Una cerimonia ibrida, davanti alla chiesa di Bernareggio. Con un prete a benedire la salma e uno spazio per lasciar dire qualcosa ai suoi amici trapper. “E magari mettere su qualche canzone” di Jordan Jeffrey Baby Tinti. Roberto, il papà, ci sta lavorando. La richiesta di nulla osta per seppellire suo figlio è stata inviata, il giorno per l’ultimo saluto sarà lunedì, da decidere l’ora. La fine di Jordan Tinti, il trapper di 26 anni trovato impiccato nella sua cella al carcere di Pavia, fa male. Ed è un mistero. Ne sono convinti l’avvocato Federico Edoardo Pisani e il papà. Jordan in carcere aveva denunciato di aver subito maltrattamenti e abusi sessuali. Si attendono gli esiti dell’autopsia. “L’inchiesta è in corso, ci pensa l’avvocato” dice il papà. Quando ha visto per l’ultima volta suo figlio? “A febbraio, per un’udienza in tribunale. Mi disse: ‘Riassaporo per la prima volta il sapore della libertà ed è una cosa bellissima’. Era contento”. Il 12 marzo l’hanno chiamata dal carcere di Pavia per dirle che suo figlio era morto... “L’altro giorno sono andato a vedere il corpo e a prendere le sue cose. Sembrava che dormisse, ma era proprio mio figlio. Ho visto anche alcune delle guardie, sono state gentili, anche la direttrice del carcere e i comandanti della polizia penitenziaria. Quando stavo per andarmene, una delle guardie si è avvicinata e ha detto: ‘Suo figlio era un bravo ragazzo, lo avevo conosciuto qui’. Mi ha molto toccato”. Però era in galera... “Da sedici mesi. Sproporzionato per quanto successo”. Rapina aggravata da insulti razziali. In concorso con un altro trapper, avrebbero gridato a un operaio nigeriano: ‘Ti vogliamo morto perché sei nero’... “Mio figlio non era un santo, sicuramente ha fatto qualche c...ta, ma era tutto fuorché un razzista. Sono venuti a casa nostra a ricordarlo qualche giorno fa una trentina di suoi amici. Beh, cinque erano di origine nordafricana, tre africani. Le sembra tipico di un razzista?”. E poi? “Anche il nome che si era scelto, Jordan Jeffrey Baby e il fatto che si fosse tatuato il volto di Micheal Jordan su un braccio… un giocatore di basket nero. Sarebbe come se uno del Ku Klux Klan si tatuasse sul braccio il volto di Martin Luther King. E poi sua mamma è una sinti”. Se ne era andata quando Jordan aveva solo un anno e mezzo. Ci sarà al funerale? “Sì, ha detto che verrà. Il razzismo con Jordan proprio non c’entra”. Ha avuto guai con la giustizia... “Ma non ha mai torto un capello a nessuno. Anche il giorno di quella rapina alla stazione ferroviaria, ha preso la bicicletta di quell’uomo riprendendo col telefonino il suo amico che bucava le gomme. Tutto per un video, per un click. Ripeto, lo dico da padre, ma anche da uomo comune: 16 mesi in carcere, 9 richieste di arresti domiciliari rigettate mi sembra sproporzionato”. Non crede al suicidio? “Quando l’ho visto l’ultima volta si lamentava che gli concedessero non più di 10 sigarette al giorno e non gli lasciassero sentire la sua musica, ma mi sembrava tranquillo. Era sotto stretta sorveglianza, ma ci sono quei 40 minuti di vuoto, fra le 00.50 e l’1.30 in cui è stato ritrovato cadavere: bisogna capire cosa è successo”. Torino. “Da una stanza arrivavano urla di dolore”, le prime segnalazioni degli abusi nel carcere di Sarah Martinenghi La Repubblica, 23 marzo 2024 Nel 2018 diversi casi vennero portati all’attenzione del Garante dei detenuti, che presentò l’esposto da cui è nato il maxi processo che ha contestato il reato di tortura ad alcuni agenti della penitenziaria. “Clima pesante”, “fenomeni allarmanti”, “tensioni”. Erano di questo tenore le prime segnalazioni sulla situazione nel carcere di Torino che, nel settembre del 2018, arrivarono al Garante nazionale dei diritti dei detenuti. I controlli svolti dall’ufficio, guidato all’epoca da Mauro Palma, sfociarono nella presentazione di un esposto che contribuì a dare vita a un maxi-processo per presunti casi di tortura su detenuti, contestati dal pm Francesco Pelosi, commessi da agenti di Polizia penitenziaria. Sono 198 i testi indicati dalle parti. Il dibattimento a carico di 22 imputati è ripreso ieri con le testimonianze di Palma, dei due ex componenti del collegio, Daniela De Robert ed Emilia Rossi, e del garante regionale Bruno Mellano. “A seguito delle segnalazioni - ha raccontato De Robert - il 4 ottobre di quell’anno vi fu una prima visita da parte nostra, cui non partecipai. Presi parte alla seconda, il 24 ottobre successivo. Di solito queste iniziative sono distanziate nel tempo ma, nel caso delle Vallette, si era reso necessario un approfondimento”. De Robert ha anche detto nella documentazione disponibile comparivano “77 casi di incidenti di natura non meglio definita”, tutti concentrati nel padiglione C, quello riservato ai detenuti per reati sessuali. Secondo le accuse furono proprio i reclusi in quel reparto ad essere sottoposti alle vessazioni e alle violenze da parte degli agenti. Confidenze raccolte per prima dalla garante Monica Gallo: “Ci disse che al Blocco C si stavano verificando fenomeni allarmanti. Ne parlai anche con il direttore Minervini, gli dissi che c’era un gruppo di agenti coordinati dall’ispettore Gebbia che usava metodi brutali - ha testimoniato Rossi - rispose che non poteva spostare quell’ispettore. Andai poi a parlare con un detenuto e fu un colloquio molto difficile. Piangeva, balbettava, diceva confusamente di essere maltrattato ma non forniva i dettagli. Era spaventato. Disse che durante le perquisizioni gli rovinavano tutto”. Oggetti personali buttati a terra, ma anche che “gli avrebbero versato il detersivo sul materasso”. De Robert ha raccontato che un altro detenuto spiegò che “da quando era arrivato un nuovo ispettore il clima era peggiorato” e che spesso, da una stanza soprannominata ‘la rotonda’, sentiva provenire urla di dolore. Il garante Mellano ha testimoniato di essere rimasto colpito dalle modalità del trasporto in ospedale di un detenuto nell’agosto del 2018: “Pur essendo calmo e tranquillo, era stato ammanettato alla barella. Un altro necessitava di un Tso: la traduzione avvenne accompagnato da una decina di agenti, a piedi scalzi, in mutande, con un bavaglio alla bocca. Con Monica Gallo decidemmo di andare a trovarlo. Ci fece vedere le braccia, le gambe, il volto: aveva lividi e segni ovunque”. Tra i casi più allarmanti quello del detenuto costretto per un’ora con la faccia al muro, nella rotonda. “Ci raccontò che era stato bloccato da tre agenti e portato in un locale chiuso. Lo costrinsero a ripetere “Sono una merda”: era stato indotto a consegnare gli atti processuali con le sue confessioni di reati di pedofilia in famiglia. Disse di aver preso schiaffi e poi andò da un detenuto medico a chiedergli cosa potesse prendere per i dolori alla schiena”. Catanzaro. Suicidi in carcere, il Garante: “Istituzioni non riescono ad offrire efficiente rieducazione” lanuovacalabria.it, 23 marzo 2024 Abbiamo chiesto al Garante dei diritti dei detenuti del comune di Catanzaro, Luciano Giacobbe, di aprirci una finestra sul grave fenomeno dei suicidi nelle carceri italiane e di parlarci delle problematiche e criticità riscontrate dall’osservazione diretta dei luoghi di detenzione locali e della vita intramuraria dei detenuti. Il Garante Luciano Giacobbe evidenzia che il fenomeno dei suicidi fa emergere le tante criticità e problematiche del nostro sistema penale e carcerario e denota, a riguardo, il fallimento della politica italiana, sempre più distante dalla realtà in cui vivono giornalmente i detenuti all’interno degli istituti penitenziari ove la percentuale più alta della popolazione carceraria è rappresentata da poveri, tossicodipendenti, extracomunitari, persone con problematiche di salute e mentali. Il Garante spiega, infatti, che una parte di questi detenuti regge il peso della detenzione intramuraria facendo uso di psicofarmaci, oltre il 70 per cento dei detenuti ha disturbi psicologici o clinico-psichiatrici. Le istituzioni non riescono, allo stato, ad offrire alle persone private della libertà una efficiente funzione rieducativa della pena per un dignitoso reinserimento sociale, al contrario si registra in molti istituti penitenziari un aumento di casi di atti di autolesionismo e suicidi. Nel 2022 si sono verificati 84 suicidi nelle carceri italiane; nel 2023 sono state 69 le persone detenute che si sono tolte la vita e nel 2024 stiamo raggiungendo cifre record con ben 26 suicidi dall’inizio dell’anno e nel solo mese di gennaio 14, il doppio rispetto al mese di gennaio 2023. Le cause di tutti questi suicidi vanno certamente ricercate nelle tante lacune del nostro sistema punitivo, a cominciare dalla funzione rieducativa della pena che, proprio nel tentativo di conseguire pienamente la sua finalità e quindi il reinserimento sociale - spiega il Garante - deve avere avvio dalla fase iniziale della pena per i nuovi giunti e non, come spesso accade, immediatamente prima del fine pena. In quest’ottica, il Garante Giacobbe ritiene che andrebbe prevista la realizzazione, in ogni istituto penitenziario, di reparti ad hoc per i nuovi giunti che prevedano e valorizzino: l’accoglienza nell’ambiente penitenziario ove ogni detenuto venga informato sui diritti e le regole all’interno del penitenziario; l’organizzazione di colloqui con psicologi e/o psichiatri con adeguati percorsi assistenziali personalizzati. In questa prospettiva, il Garante Giacobbe evidenzia la necessità che i reparti dei nuovi giunti vengano, ad opera delle istituzioni, migliorati per costituire luoghi di accoglienza e non di intimidazione. L’introduzione alla vita dell’istituto deve avvenire in maniera lenta e graduale, affinché il nuovo giunto abbia la possibilità di ambientarsi, anche psicologicamente, prima di tutto alla sua nuova condizione e, secondariamente, alla realtà detentiva. Il Garante Giacobbe sottolinea poi che: “ il carcere può realmente diventare per le persone detenute il luogo di risocializzazione e di inserimento sociale attraverso il potenziamento di specifici programmi contenenti attività culturali, ricreative, sportive, religiose, lavorative, d’istruzione e formazione. La vita interna del detenuto dovrebbe essere il più possibile improntata a un modello comunitario, dove le camere detentive servano esclusivamente per il riposo notturno e la giornata sia densa di attività significative. Ciò per prevenire l’autolesionismo, educando il reo alla socialità, al rispetto di se e dell’altro attraverso attività specifiche che occupino la sua dimensione umana e lo valorizzino, che diano la concreta prospettiva al detenuto di riappropriarsi della sua dignità per non farlo sentire socialmente emarginato. Pertanto, la formazione in carcere deve essere organizzata, innanzitutto, alla preparazione di figure tecniche e professionali richieste dal mercato del lavoro. Il lavoro è considerato, infatti, l’autentico presupposto del reinserimento sociale dell’ex detenuto non soltanto dal punto di vista meramente economico ma soprattutto perché esso aumenta l’autostima e la gratificazione personale. D’altra parte, le testimonianze di ex detenuti confermano l’importanza dell’esperienza di lavoro sia dentro l’istituto penitenziario che all’esterno”. Il suicidio di una persona privata della libertà costituisce il fallimento più evidente del ruolo punitivo dello Stato che subisce una delegittimazione allorquando l’autorità statale non riesce, anche per mancanza di adeguati mezzi, a bilanciare il suo potere punitivo con l’esigenza (il diritto/dovere) di salvaguardare il corpo, ossia la salute fisica e mentale del reo. Ne deriva l’inadeguatezza del carcere ad affrontare il disagio delle persone che sono collocate al suo interno. A riguardo, sottolinea il Garante Giacobbe: “Lo shock da carcerazione si conferma come un’esperienza, alle volte, letale per soggetti fragili, non in grado di adottare efficaci strategie di adattamento di fronte alla drammaticità della situazione che si trovano ad affrontare”. Un fenomeno, questo, dei suicidi certamente accelerato dalla straordinarietà degli eventi che abbiamo vissuto in questi ultimi anni ma che comunque è conseguenza anche di pregresse storture perché determinato dall’assenza di investimenti nell’edilizia penitenziaria, dalla mancata approvazione di riforme ad hoc dell’ordinamento penale, dalla mancata realizzazione e attuazione delle misure alternative alla detenzione e dalla progressiva carenza di personale penitenziario (il personale penitenziario è sotto organico, ad esempio vi è carenza di medici e infermieri, di agenti di polizia penitenziaria, mancano molti funzionari giuridico-pedagogici ed educatori). Il Garante Giacobbe chiarisce che, nonostante il lavoro e l’istruzione siano un’attività trattamentale fondamentale per le persone detenute, all’interno del carcere lavora poco meno di un terzo della popolazione detenuta e solamente 7 detenuti su 100 partecipa a corsi di formazione professionale e 3 su 10 ai corsi scolastici. La causa di questi suicidi va ricercata anche in altre problematiche da sempre inevase: l’emergenza sanitaria e il sovraffollamento carcerario. Per quanto riguarda la problematica del sovraffollamento carcerario, anche se in un solo anno a causa del Covid-19 la presenza in carcere era diminuita di circa 8 mila unità nell’anno 2020, oggi abbiamo superato, come presenze in carcere, l’anno 2015, infatti i detenuti presenti nelle carceri italiane sono oggi più di 62mila, a fronte di 51mila posti regolamentari e 47mila posti realmente disponibili. Il sovraffollamento carcerario è da tempo una piaga sociale che affligge il nostro paese, non è un caso che l’Italia nel 2013 sia stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per le condizioni degradanti e inumane a cui sono stati sottoposti numerosi detenuti risarciti con ingenti somme di denaro pubblico. Oggi il tasso di affollamento in Italia supera il 150 %, con un picco del 190 % a Latina, Foggia, Como, Taranto e al San Vittore a Milano, per arrivare addirittura al 200% al carcere di Brescia. L’Italia si conferma, pertanto, tra i Paesi con le carceri più affollate dell’Unione Europea. In Calabria abbiamo un sovraffollamento carcerario in 9 istituti penitenziari su 12, anche se abbiamo numeri leggermente migliori rispetto ad altre regioni italiane. Presso la Casa Circondariale Ugo Caridi di Catanzaro abbiamo una popolazione carceraria al 96%. Inoltre la causa di questi suicidi va ricercata anche nell’emergenza sanitaria all’interno degli istituti penitenziari. Diciamo che la pandemia ha messo a dura prova l’organizzazione dei servizi sanitari in carcere e le stesse relazioni tra Amministrazione penitenziaria e Amministrazioni sanitaria. Ebbene oggi la situazione sanitaria dei detenuti è intollerabile ed è sotto gli occhi di tutti che il carcere in Italia è un luogo malsano e le persone ristrette hanno spesso bisogno di visite specialistiche e di cure rilevanti ed urgenti che non sempre vengono effettuate. Nelle strutture penitenziarie italiane il rapporto medico - detenuto è pari a 1 su 315 detenuti, basti pensare che secondo la “Simpse” (Società italiana di medicina e sanità penitenziaria) il carcere resta un territorio di scambio di patologie e infezioni e ancora molti sono i casi di soggetti sieropositivi all’Hiv o colpiti da epatite C o tubercolosi. Ecco perché bisogna adeguare le strutture e gli spazi detentivi alla prevenzione della diffusione di queste malattie infettive; garantire ai detenuti le visite specialistiche in tempi ragionevoli; integrare i servizi socio-sanitari per la presa in carico e l’accoglienza all’esterno dei detenuti con particolari fragilità. Oggi, quindi, al fine di arginare il fenomeno dei suicidi bisogna garantire un’efficace assistenza sanitaria in carcere dei detenuti con disturbi mentali quando non giustifichino la sospensione della pena. Altro aspetto negativo, concausa di tutti questi suicidi, continua il Garante, sono gli ambienti carcerari che costringono una intera popolazione a vivere in spazi angusti e a stretto contatto tra di loro e dove la situazione è al limite della tollerabilità. Basti pensare che nel 39% degli istituti penitenziari vi sono celle che non rispettano i 3 mq di superficie calpestabile per ogni detenuto, nel 44% delle carceri italiane vi sono celle senza acqua calda, nel 56% vi sono celle senza docce e le docce comuni, presenti nei corridoi, sono infatti spesso ricoperte da muffa e infiltrazioni. Le criticità riguardano anche le condizioni strutturali degli istituti penitenziari che risultano sporchi, vetusti, con problemi strutturali, freddi d’inverno e pieni di infiltrazioni. Positiva è stata, di recente - sottolinea il Garante Giacobbe - la pronuncia della sentenza della Corte Costituzionale sulla riservatezza dei colloqui e sulla tutela dell’affettività dei detenuti nelle sue varie forme. Il Garante Luciano Giacobbe spiega che: “per contrastare il fenomeno dei suicidi bisogna fare rispettare il principio della territorialità della pena, aumentare i colloqui e le telefonate in carcere tra detenuti e i propri familiari”. Il Garante Giacobbe auspica che nel 2024 vi sia, a livello politico e nazionale, un proficuo dibattito sulle problematiche e criticità riscontrate nelle nostre carceri e sulle possibili iniziative da intraprendere per arginare questo terribile fenomeno dei suicidi, nella consapevolezza di necessari ed urgenti interventi legislativi in materia. Milano. Caso Vallanzasca, i giudici: “La comunità inadatta alle sue condizioni fisiche e psichiche” Corriere della Sera, 23 marzo 2024 L’ex boss della mala milanese è detenuto da oltre mezzo secolo e frequentava la comunità terapeutica una volta a settimana. I suoi difensori: gli è utile per alleviare il decadimento delle condizioni di salute. Renato Vallanzasca non può più andare almeno una volta a settimana durante il giorno, come faceva ultimamente, nella comunità terapeutica che frequentava già da alcuni anni. Per la Sorveglianza di Milano le sue condizioni fisiche e psichiche sono tali che quel posto non gli può garantire l’assistenza necessaria, ma secondo i suoi difensori, tra cui l’avvocato Corrado Limentani, in quel luogo ci sarebbe assistenza e gli è utile comunque per alleviare il decadimento delle condizioni di salute. Ex protagonista della mala milanese degli anni 70 e 80, oggi 73enne, Vallanzasca ha già trascorso oltre mezzo secolo di vita da detenuto. Nel maggio dello scorso anno, su istanza degli avvocati Limentani e Paolo Muzzi, il Tribunale di Sorveglianza di Milano aveva concesso nuovamente i permessi premio per frequentare la comunità, revocati qualche mese prima. Ora è arrivato lo stop dal giudice e la difesa è pronta a fare reclamo. Nel frattempo, sempre i difensori stanno cercando una soluzione per riuscire a far uscire Vallanzasca, che ha il “fine pena mai”, dal carcere di Bollate e a farlo ricoverare in una struttura di cura in regime di detenzione. A fine maggio 2023 era stata respinta la richiesta dei difensori di differimento pena, con detenzione domiciliare in una struttura adatta, per motivi di salute. Da almeno quattro anni, aveva evidenziato la difesa sulla base di consulenze, soffre di un decadimento cognitivo e la detenzione in carcere sta aggravando le sue condizioni. I giudici, però, avevano stabilito che ci sono trattamenti di tipo conservativo e farmacologico e che il 73enne può essere curato a Bollate. Intanto, per fine mese è fissata un’udienza dopo la richiesta di nominare per Vallanzasca un amministratore di sostegno, figura che tutela quelle persone che, a causa di infermità, non possono provvedere ai propri interessi. Cagliari. Nel carcere di Uta un solo dentista per tre ore a settimana per 630 detenuti L’Unione Sarda, 23 marzo 2024 “Si moltiplicano le carenze sanitarie nel carcere cagliaritano. È assurdo infatti che in una realtà come quella della Casa circondariale di Cagliari-Uta, con 630 ristretti (26 donne), con molti anziani e tossicodipendenti, l’odontoiatra disponga di 3 ore settimanali per le cure (ne sono previste 18). Il fatto ancora più grave è che la situazione si protrae ormai da tre mesi”. Lo denuncia Maria Grazia Caligaris dell’associazione Socialismo Diritti Riforme Odv, facendosi interprete del disagio denunciato da diversi familiari di persone detenute sottolineando che “sono costrette ad assumere continuamente forti analgesici, per lenire il dolore”. “La grave carenza delle ore dello specialista odontoiatra - osserva - è la conseguenza delle dimissioni del precedente incaricato che ha lasciato il 31 dicembre dell’anno scorso. A regime infatti le ore previste sono 18. Quello che lascia perplessi però è la grave carenza di altri specialisti come il neurologo, assente, l’oculista, figura professionale con solo 3 ore settimanali. Sembra proprio che la situazione sanitaria della Casa circondariale di Cagliari-Uta non sia al vertice dei pensieri della Asl, nonostante la questione sia di primaria importanza. Basti pensare che per ogni accertamento clinico, e spesso per consulti diagnostici, diventa necessario accompagnare il paziente detenuto in un ospedale con la scorta”. Palermo. Detenzione, disagio e devianza: testimonianze dal carcere di Serena Termini ilmediterraneo24.it, 23 marzo 2024 L’incontro promosso dalla cooperativa Al Revés per il progetto Your Trip in My Shoes. Sono intervenuti una persona ex detenuta, un’ex direttrice e un garante. Unire forze e competenze diverse per affrontare e provare ad abbattere le diverse gabbie sociali che esistono. A partire da questo pensiero, ieri pomeriggio, nella sede dell’istituto Pedro Arrupe, si è svolto l’incontro su “Le nostre gabbie: detenzione, disagio, devianza”. Il confronto, moderato da Rosalba Romano dell’USSM e organizzato dalla cooperativa Al Revés e l’associazione Voci di Dentro, rientra nel progetto di reinserimento sociale Your Trip in My Shoes (Mettiti nei miei panni). Ad aprile i lavori sono stati Claudio Bottan (ex persona detenuta, vicedirettore della rivista “Voci di dentro” e caregiver full time) e Simona Anedda (Travelblogger di “In viaggio con Simona”). “Durante la mia detenzione, ho avuto la possibilità - racconta Claudio Bottan - di conoscere 9 istituti penitenziari diversi. Ho vissuto condizioni di vita carceraria disumane e degradanti. Il periodo di detenzione può essere vissuto in maniera passiva oppure attiva se entri a fare parte del sistema. Ho scelto di attivarmi perchè sentivo molto forte il bisogno di non voltare le spalle alle ingiustizie e violenze che ho visto. Ho avuto dei momenti di forte scoraggiamento ma non ho avuto il coraggio di togliermi la vita. Significativo è stato l’incontro con un sacerdote. In carcere, ho iniziato a scrivere sul tema prima in un giornalino e poi dopo in una rivista, diventando un giornalista”. “Con il tempo ho imparato a convivere con il mio mostro che è la mia malattia della sclerosi multipla - ha continuato Simona Anedda -. Essendo uno spirito libero, anche con la disabilità, ho continuato a viaggiare raccontando agli altri che le barriere fisiche e mentali, se lo vogliamo, si possono abbattere. Nei vari Paesi dove sono stata, ho imparato a chiedere aiuto, incontrando molte persone che mi hanno donato tempo, sorrisi, abbracci e preghiere in tutte le religioni. Quando ho conosciuto Claudio ho visto una mano che si è tesa; insieme abbiamo iniziato un percorso di vita importante”. “La pena, oltre ad avere un carattere, punitivo, ha una funzione rieducativa e risocializzante che, in uno Stato di diritto, è fondamentale - afferma Rita Barbera che per 35 anni è stata dirigente di alcuni istituti penitenziari -. Molto spesso, il carcere è inadeguato alla propria funzione perchè c’è una recidiva altissima e, purtroppo, anche al suo interno, la legge non è rispettata in termini di diritti umani. La prima gabbia è, quindi, che non si riesce a dare alla detenzione il valore che la Costituzione vuole. Purtroppo le persone detenute sono troppe e non si possono seguire bene. Le gabbie sono ancora molte se pensiamo alle possibilità di cambiamento reale e alle opportunità che si possono offrire. Ho visto delle persone detenute cambiare, non per i nostri meriti, ma perchè loro avevano deciso di farlo. La funzione del carcere è quella di indicare alla persona la strada da seguire”. “Da 23 anni mi occupo di carcere a vario titolo - continua Pino Apprendi, garante dei diritti dei detenuti di Palermo -. Il carcere resta, purtroppo un inferno. Avendo la possibilità di incontrare le persone detenute, mi rendo conto che, a molti manca la dimensione dell’ascolto. Le gabbie più forti di tutti oggi siamo noi e cioè la società che è pronta a giudicare. Tra i problemi forti c’è quello delle persone con disabilita che, spesso, in carcere sono costrette a vivere in una gabbia doppia per la mancanza di servizi adeguati”. “Nella sezione femminile del carcere Pagliarelli siamo presenti da 10 anni - ha detto Silvia Buzzone della cooperativa Al Reves -. Il nostro è, oltre che un piccolo spazio di formazione alla sartoria sociale anche uno spazio di ‘normalità’ fatto di dialogo, confronto e di ascolto”. A conclusione dell’incontro ha preso la parola anche l’ex senatrice Laura Bignami che ha raccontato la sua esperienza politica dedicata alla tutela dei diritti delle persone con disabilità e dei caregiver. Se la scrittrice “adottata” in carcere è la nuova direttrice del Salone del Libro di Torino di Giulia Poetto La Stampa, 23 marzo 2024 Annalena Benini al Morandi di Saluzzo per il progetto “Adotta uno scrittore”: “Scrivere è il mio modo di ragionare, non sono una da risposta pronta”. Cosa significa per uno scrittore essere adottato, e nello specifico da due categorie molto lontane dal lettore tipo? Essere sottoposto a domande a cui si tenta di rispondere con la consapevolezza che la protagonista del tuo libro saprebbe farlo meglio di te, scoprire dettagli prima inediti, darsi senza remore e ricevere molto più del previsto. È quello che è successo ieri alla scrittrice e direttrice del Salone Internazionale del Libro di Torino Annalena Benini, che ha vissuto una giornata saluzzese con due appuntamenti della 22ª edizione del progetto del Salone del Libro “Adotta uno scrittore”. Al centro di entrambi c’era “Annalena”, il suo romanzo uscito per Einaudi nel 2023 in cui Benini racconta la vicenda della missionaria laica Annalena Tonelli, sua cugina di terzo grado, nata a Forlì nel 1943 e assassinata in Somalia nel 2003. Al mattino l’incontro con gli studenti della 4ª Db dell’istituto Soleri Bertoni di Saluzzo, guidati dalla prof. di Italiano Laura Carletti, al pomeriggio l’appuntamento nella casa di reclusione “Rodolfo Morandi”. Ad attenderla una trentina di detenuti tra studenti del liceo artistico della sezione distaccata del Soleri Bertoni e partecipanti ai laboratori di lettura e teatro. Libri sui banchi e tanta emozione da entrambe le parti cui cedere senza lottare. Benini sgombra subito il campo: “Il pubblico delle mie presentazioni è per la stragrande maggioranza di donne, per me questa è una novità, oltre che un regalo”. Domenico sceglie l’emozione come rompighiaccio. La voce stenta, ma il messaggio passa forte: “Non leggevo un libro dai tempi dei Romani: “Annalena” l’ho letto con molto interesse, nonostante all’inizio lo considerassi uno spacca cervelli”. È il la a una lunga serie di interrogativi che mettono non poco in gioco Benini. Il quanto lo si può capire dalla sua risposta a uno sulla scrittura: “Scrivere è il mio modo di ragionare. Non sono una che ha la risposta pronta, nel confronto mi lascio sopraffare dall’emotività. Quando mi rileggo spesso dico: “non sapevo di aver pensato questo”. Eppure, le stoccate a bruciapelo dei detenuti le para con risposta, quasi tutte. Sul finale quando un detenuto propone la parola “amore” come etichetta per “Annalena”, facendole notare di aver chiuso il libro con quella parola, si arrende quasi sollevata e ammette che no, non ci aveva fatto caso, e che ha bisogno di rifletterci - tradotto, di scriverci su. Il 19 aprile, quando tornerà nella casa di reclusione per il terzo e ultimo incontro del progetto, in cui saranno presenti anche gli studenti del Soleri Bertoni, forse una risposta Benini l’avrà trovata. Il viaggio della Consulta per spiegare ai cittadini la cultura costituzionale di Valentina Stella Il Dubbio, 23 marzo 2024 “Storie di diritti e di democrazia La Corte Costituzionale nella società” (Feltrinelli Editore), scritto a quattro mani dall’ex responsabile della comunicazione della Consulta Donatella Stasio e dall’ex presidente Giuliano Amato, è un libro che andrebbe letto, o meglio è un viaggio che tutti i cittadini dovrebbero intraprendere tra le circa 300 pagine in cui gli autori raccontano come tra il 2017 e il 2022 la Corte Costituzionale, il più alto organo di garanzia della Repubblica, sia cambiata sotto il loro impulso. Come? Aprendo le sue porte, spiegando le sentenze più importanti per la società civile, mettendosi al passo coi tempi attraverso la registrazione di numerosi podcast, organizzando a Piazza del Quirinale il Concerto “Il sangue e la parola” eseguito dal maestro Nicola Piovani e liberamente tratto dalle Eumenidi di Eschilo, dalla Costituzione italiana e dai lavori preparatori dell’Assemblea costituente. In un periodo storico dove la tutela dei diritti non è scontata e in Europa alcuni governi “cercano di impadronirsi delle Corti Costituzionali”, il libro si pone l’obiettivo di “arginare l’analfabetismo costituzionale” per non mettere a rischio il nostro Stato di Diritto ma altresì perché “farsi capire” “non è prerogativa esclusiva solo di chi fa politica” ma è un “dovere anche dell’istituzione”, come “aspetto fondamentale della democrazia”. La Corte lo fa soprattutto dialogando con i cittadini, dai giovani nelle scuole fino ai detenuti perché, come disse l’ex presidente Paolo Grossi, “Bisognava venire di persona, poiché con il nostro assenteismo e la nostra indifferenza vi abbiamo tolto la speranza”. Ne è nato addirittura un film - “Il Viaggio nelle carceri”, diretto da Fabio Cavalli, per alcuni critici “un catechismo costituzionale”, per altri, come per chi scrive, forse una visione un po’ edulcorata degli istituti di pena, che spesso rappresentano davvero un girone dell’inferno per la dignità umana. Altri costituzionalisti, si racconta nel libro, “hanno da ridire sul fatto che la Corte avrebbe lasciato nell’ombra le vittime del reato”. Tuttavia, proprio quando il paradigma vittimario sembra prendere il sopravvento fuori e dentro le aule dei tribunali, ma anche contro le decisioni della Consulta - come quella sull’ergastolo ostativo - ecco che gli autori ricordano la lezione di Manlio Milani, presidente della Casa della memoria, l’Associazione dei parenti delle vittime della strage di Brescia, nella quale l’uomo perse la moglie. Organizza tre presentazioni del film e dice con forza: “rifiuto l’idea di appartenere a una categoria invece che a una comunità che ha valori comuni a tutti”. Crepet: “L’indifferenza che sentono questi ragazzi in realtà nasce da noi” di Francesca Bolino La Repubblica, 23 marzo 2024 Un 57enne di Rivoli è stato torturato e seviziato da due adolescenti, figli di persone che lavorano, di “genitori normali” si usa dire. L’altro giorno, un ragazzo è stato aggredito con un machete, in via Panizza a Mirafiori a Nord. Fermato per l’agguato, un ventitreenne di origini nobili, Pietro Costanzia di Costigliole, con passioni per la trap e le fuoriserie. Due fatti di cronaca recenti che vedono protagonisti dei ragazzi. Per provare a capire ne abbiamo parlato con Paolo Crepet psichiatra, scrittore e attento osservatore dei mutamenti profondi in atto nella società (il 26 marzo è al Teatro Colosseo con “Prendetevi la Luna”). Che succede professore? “Abbiamo derubricato a cronaca questi accadimenti dai tempi di Novi Ligure, dai tempi di Erika e Omar, per intenderci. Sono molti lustri che facciamo questo giochino per evitare, noi adulti - intesi come genitori, società civile, tribunale - di interrogarci e di riflettere. La domanda è: ma cosa fanno gli adulti? Risposta? Nulla. L’indifferenza che hanno dentro questi ragazzi, nasce da noi. Non sono loro ad essere tali. Noi prendiamo quel modello, lo applichiamo e i ragazzi se ne cibano, lo moltiplicano. I ragazzi si nutrono del bello e del brutto e, quando va bene, anche del nulla, dell’assenza. Ma gli adulti sono occupati a far cosa? Non si capisce. Per esempio, chi ha attività e si immagina di averle create per i figli e che loro se ne occuperanno, si illude, nessuno vuole accettare e riconoscere il fatto che questa generazione farà tutt’altro. Al solito ritornello dell’adulto sessantenne che ha costruito un’azienda per i figli, direi che stia ben attento a venderla, invece. Perché non esiste una generazione di rinforzo cui affidarla”. Un esempio? “L’altro giorno la Corte di Cassazione ha stabilito che non si pagheranno tasse per le donazioni fra genitori e figli. Una sentenza salutata con un tripudio come tale dentro e fuori il Parlamento. E io invece penso che sia una stupidaggine totale”. Cosa significa? “Se un figlio o figlia, magari a 25 anni, età cioè meravigliosa in cui, dopo tutto il percorso di studi, si affacciano alla vita e nascono le idee, le passioni e vogliono andare all’estero per fare, dico, una scuola di design, capita che vengano bloccati dai genitori. Che gli dicono: ma perché devi andar via? Te li do io i soldi. Cari ragazzi - è il nostro messaggio confermato dalla possibilità della donazione gratuita - state calmi, ci pensano papà e mamma a voi. Questo è il meccanismo perverso che dimostra che non abbiamo capito nulla, ma proprio nulla. La realtà mi offre tutti i giorni la possibilità di dare agli adulti degli imbecilli”. E come se ne può uscire? “Faccio una provocazione: aiutare i grandi e medi capitali a lasciare il patrimonio a una fondazione in cui si pagano poche tasse, pur di non ricoprire d’oro questi ragazzi e di impedire loro di costruirsi liberi come vogliono. Questo per i genitori”. E per i figli? “Cari ragazzi, direi loro, dovete attrezzarvi, fate un viaggio, studiate, fate anche le collanine a Formentera. Ma alzatevi la mattina e iniziate a campare. Ma perché dovete stare a casa, curati e riveriti? Magari in un appartamento allo stesso numero civico dei genitori? Come si fa a non capire questo. E parliamo dell’80 per cento degli italiani”. Sono giovani annoiati dalla vita? “Sì, anche se non necessariamente finiscono con il machete in mano, ma magari con la cocaina. Parliamo di disagio giovanile. Ma la vera malattia è l’agio. Che è la madre di tanti guai. Siamo la società della pedalata assistita. Non sappiamo nemmeno più andare in bicicletta perché significa faticare”. Siamo di fronte a cosa? “Un logorio lento e latente, ovvero l’uccisione delle nostre relazioni, emotività ed empatia. E lo abbiamo fatto ai ragazzi: abbiamo cioè tolto loro la paura, il dolore, la gioia, la sofferenza, pensando di proteggerli. Se tolgo la bellezza della musica e la sottometto ad una sorta di burocrazia, come quella del politically correct, uccido tutto”. Intravede una soluzione? “Ne possiamo uscire solo sapendo che con i ragazzi sarà una guerra, civile certo… Se eliminiamo i conflitti, è finita”. Se la prende anche con i ragazzi però? “La generazione tra i quaranta e cinquanta è la peggiore, hanno il tipico atteggiamento di dipendenza dei neofiti. Erano bambini quando è arrivato il telefonino, cresciuti pensando che Apple fosse la Madonna di Czestochowa”. Quei rischiosi malintesi sulla guerra necessaria di Massimo Cacciari La Stampa, 23 marzo 2024 Quei rischiosi malintesi sulla guerra necessaria. Kafka scrive: “c’è un malinteso, e per causa sua finiremo in rovina”. I malintesi, ovvero la capacità di trasformare il nostro quotidiano fra-intenderci in male-intenderci, sono in agguato ovunque, ma il loro dominio preferito e più pericoloso è quello dell’”arte politica”. Confondiamo continuamente ciò che vorremmo fosse con ciò che è; trasformiamo in realtà i nostri desideri; immaginiamo l’avversario secondo i nostri fini; ci illudiamo sulle nostre forze, sia quando ci riteniamo troppo forti che quando troppo deboli. E il disinganno giunge sempre troppo tardi, come la punizione degli dèi. Il malinteso regna sovrano oggi nel campo delle politiche internazionali. Sembra che non si tratti più di evitare la guerra, ma di come condurla. Non più, semmai, di prepararla, se vuoi la pace, secondo il detto famoso quanto discutibile, ma soltanto di come farla, convenzionale o atomica, avendo presente un unico fine: la vittoria. Malinteso, anzitutto, è il significato di quest’ultimo termine. O altamente equivoco. Vittoriosa può essere la risoluzione di un conflitto di interessi ben definito o, invece, l’abbattimento del nemico, se questo è considerato, per sua natura, una minaccia strategica e permanente. La guerra, nei due casi, sarà ovviamente perseguita con metodi e mezzi diversi. Nel primo caso, anche nel mezzo del conflitto, è logico proseguire l’azione politico-diplomatica, avanzare proposte, tenere aperto il tavolo del negoziato; nel secondo caso tutto ciò diventa superfluo o puramente propagandistico. La decisione sul senso da dare alla guerra, e di conseguenza alla vittoria che comunque ne costituisce il fine per ambedue le parti, dipende dalla conoscenza che si ha della situazione complessiva e in particolare della natura e delle mire del proprio nemico. E qui si manifesta la seconda serie di possibili colossali ed esiziali malintesi. In un conflitto è facile intendere bene quali siano i punti per me non trattabili, ma altrettanto intendere male quali siano quelli del mio avversario. La tendenza naturale sarà sempre quella di ingigantire l’importanza dei miei e ridurre quella degli altri. E ciò può portare appunto alla rovina. Non trattabile sarà sempre per uno “spazio imperiale” vedersi ridotto a “luogo chiuso”, circondato. Potrà sbriciolarsi, certo, ma per cause endogene, magari anche favorite dall’azione delle potenze nemiche, ma mai arrendersi a un’azione di guerra da parte di queste ultime. Il confine che permette di distinguere tra elementi importanti di uno “spazio imperiale”, ma non vitali, e invece quelli che ne definiscono la natura essenziale, è una soglia molto sfuggente, una sottilissima linea di terra, eppure sempre esiste e sempre può essere bene-intesa. Confine mai rigido, si capisce, mai definito una volta per sempre, che si disloca nel variare della situazione e dei tempi - e tuttavia esso ogni volta si dà. Comprenderlo costituisce il cuore dell’”arte politica”. Oggi i margini per conflitti semplicemente locali si erodono drammaticamente - sempre più sono appunto quelli tra le grandi potenze che guardano al Weltraum, allo Spazio globale, a determinare la situazione anche all’interno di ogni territorio o Paese. Così, ad esempio, ogni azione mirante a liquidare lo Stato di Israele sarebbe necessariamente (e credo correttamente) letta come dichiarazione di guerra agli Stati Uniti. Vale lo stesso per l’invasione russa dell’Ucraina? Si tratta cioè del caso, prima descritto, di un diretto attacco allo “spazio imperiale” occidentale-americano? Se la si intende così, la risposta non può che essere la guerra, una guerra che abbia come fine la vittoria sullo “spazio imperiale” russo. O si tratta di una contesa che ha per oggetto argomenti e interessi trattabili? Se si risponde affermativamente, corre l’obbligo di indicarne la possibile soluzione politico-diplomatica. Su questioni così tragiche non possiamo essere trascinati da contingenze elettorali (vincerà Biden? Vincerà Trump? Quanto durerà Netanyauh?) o affidarci alla buona stella che le guerre possano protrarsi e accavallarsi le une alle altre, sempre più gravi e a distanza sempre più ravvicinata tra i soggetti egemoni, senza mai generare la Guerra. Continuare nel male-intendersi può produrre atteggiamenti paranoici da una parte e dall’altra, i quali, a loro volta, inducono a continuare indefinitamente i massacri. La storia non insegna se non alcune regolarità: una delle fondamentali è che dal malinteso protratto può esplodere in ogni istante l’occasione, imprevedibile e incontrollabile, che dà fuoco alle polveri. Si giunge come nulla a un punto in cui qualcuno schiaccia il bottone sbagliato. Alla guerra possono andare buoni e cattivi, giusti e ingiusti, ma nella guerra in quanto tale non vince il giusto, vince il più forte, a meno che non si creda che essa rappresenta il giudizio di Dio. Buona ragione per cercare di evitarla. Medio Oriente. Il veto di ritorno, l’Onu ancora incapace di imporre la tregua su Gaza di Chiara Cruciati Il Manifesto, 23 marzo 2024 Israele/Palestina. La risoluzione Usa bloccata da Cina e Russia: non chiedeva il cessate il fuoco immediato ma ne sottolineava solo la necessità. Quinto giorno di assedio israeliano dello Shifa: bulldozer, missili, arresti e uccisioni. Si rivoterà oggi, alle 14 ora di New York, una nuova risoluzione del Consiglio di Sicurezza, per un cessate il fuoco immediato a Gaza. La mozione inizia a circolare nel Palazzo di Vetro poche ore dopo la bocciatura della prima risoluzione statunitense che conteneva al suo interno l’espressione “cessate il fuoco”. È stata abbattuta dal veto cinese e russo. Il motivo: non chiedeva il cessate il fuoco immediato ma ne sottolineava la necessità e legava una tregua di sei settimane al negoziato in corso tra Doha e Il Cairo. Agli occhi dei contrari, dunque, quel cessate il fuoco non sarebbe che un auspicio, non certo un’imposizione del Consiglio di Sicurezza. Inoltre, condiziona l’eventuale pausa all’andamento del dialogo indiretto mediato da Usa, Egitto e Qatar: inutile, secondo Mosca, perché non fa tacere le armi. E non elimina, aggiunge l’Algeria, il rischio di un’operazione terrestre israeliana su Rafah, città-rifugio per 1,5 milioni di sfollati palestinesi. A New York è andata in scena la più fine battaglia diplomatica, sulle parole e sulle intenzioni. Washington risponde alle critiche: quella risoluzione conteneva il rigetto di ogni ulteriore sfollamento della popolazione di Gaza e “il bisogno urgente di ampliare il flusso degli aiuti umanitari”, accanto alla condanna dell’attacco di Hamas del 7 ottobre (che ha provocato l’uccisione di quasi 1.200 israeliani) e alla richiesta di rilascio di tutti gli ostaggi ancora a Gaza. Agli avversari non basta erano più avanzate, dicono, le risoluzioni precedenti - quelle che chiedevano un cessate il fuoco immediato e senza condizioni - bloccate dai veti statunitensi. Secondo Riyad Mansour, ambasciatore palestinese alle Nazioni unite, il rigetto del tentativo Usa è “ovvio”: non menziona mai Israele. La Francia da parte sua ha promesso di portare sul tavolo del Consiglio una nuova risoluzione, negoziata con le tante anime che lì dentro si confrontano da mesi senza riuscire a trovare un accordo che ponga fine al massacro di Gaza. Qualcosa si muove pure a Londra, dove ieri Alicia Kearns, a capo del comitato per gli affari esteri della Camera dei Comuni, ha annunciato il possibile stop britannico alla vendita di armi a Israele. Mentre nelle capitali occidentali si discute, a Gaza non c’è pace. L’ospedale Shifa è al suo quinto giorno di assedio israeliano. L’Organizzazione mondiale della Sanità ieri ha detto di aver perso i contatti con il proprio staff medico all’interno e di non avere idea delle condizioni dei pazienti. “Entrare dentro è ora impossibile e ci sono notizie di lavoratori sanitari arrestati”, ha scritto su X il capo dell’Oms Tedros Ghebreyesus. Le forze israeliane hanno bombardato alcuni edifici del grande complesso dello Shifa e dato alle fiamme il dipartimento vascolare. Bombe anche su palazzine nei dintorni dell’ospedale. Secondo il ministero della sanità di Gaza, 240 pazienti del reparto di radiologia sarebbero agli arresti, insieme a dieci medici. Testimoni - chi riesce a sfuggire ai cecchini - hanno raccontato di nuovo ieri alle agenzie stampa il girone infernale che è lo Shifa: i soldati “picchiano tutti i giovani e li arrestano”, ha detto un paziente, Younis, all’Afp. Per Israele si tratta di miliziani: 150 quelli uccisi, ha detto ieri l’esercito, in “operazioni precise” dentro l’ospedale. Le accuse di crimini di guerra, giornalieri ormai, si accumulano: ieri la ong Euro-Med Human Rights Watch ha pubblicato un breve rapporto sulle ultime 24 ore allo Shifa: esecuzioni extragiudiziali, bombardamenti e incendi appiccati alle case intorno, dicono testimoni e sfollati che raccontano di incursioni nelle abitazioni, pestaggi e arresti. E di residenti cacciati via che hanno visto le loro case date alle fiamme. Si bombarda anche altrove. Il bilancio aggiornato dei palestinesi uccisi dal 7 ottobre ha superato i 32mila, a cui si aggiungono 74.300 feriti. Due terzi sono donne e bambini. Otto le vittime ieri a Rafah, colpita dall’aviazione israeliana; tre a Khan Younis nel bombardamento di una casa. I palestinesi denunciano uno “schema” preciso, prendere di mira edifici residenziali. È successo ieri anche a nord di Gaza City: una famiglia di dieci persone uccisa in un raid. Emergono anche le prove di stragi passate, registrate da un drone israeliano e fatte arrivare alla stampa: a inizio gennaio l’uccisione, dal cielo, di quattro giovani palestinesi a Khan Younis, mentre camminavano disarmati lungo una strada distrutta poco prima da un bulldozer israeliano. Il drone li ha seguiti per un po’, poi ha aperto il fuoco. Intanto nel resto dei Territori occupati è stato un altro venerdì di divieti, arresti ed espansione coloniale. Con la moschea di al-Aqsa chiusa a buona parte dei fedeli musulmani che avrebbero voluto pregare sulla Spianata nel secondo venerdì di Ramadan, il ministro delle finanze (colono e leader del partito di ultradestra Sionismo religioso) Bezalel Smotrich ha annunciato ieri l’intenzione di costruire nuove colonie su 80 ettari di terra nella Valle del Giordano, nella Cisgiordania occupata. Alla stampa israeliana ha parlato di piani di costruzione di centinaia di unità abitative e anche di un distretto industriale. Un “obiettivo strategico” ha detto: mentre tutti guardano a Gaza, l’avanzata in Cisgiordania non si è fermata nemmeno per un secondo. Hong Kong. Una nuova legge per mettere fine alle opposizioni di Serena Console Il Manifesto, 23 marzo 2024 Pene durissime legate alla sicurezza nazionale. Approvata dopo decenni di tentativi falliti. Per tradimento e insurrezione si rischia l’ergastolo. È la fine dell’opposizione a Hong Kong. L’ex colonia britannica ha una nuova legge sulla sicurezza nazionale, che prevede pene più severe per gli oppositori. Dopo decenni di falliti tentativi, il governo ha approvato nel tempo record di 11 giorni la norma prevista dall’articolo 23 della Basic Law, la mini-costituzione locale. La legge, in vigore da oggi, prende di mira cinque reati: tradimento, sabotaggio, sedizione, furto di segreti di Stato, interferenza esterna e spionaggio con pene che arrivano fino all’ergastolo. I più gravi, come tradimento e insurrezione, sono punibili con il carcere a vita. L’ergastolo sarà applicato anche ai reati di istigazione all’ammutinamento di un membro delle forze armate cinesi e collusione con forze esterne per danneggiare o indebolire la sicurezza nazionale. Sette anni di prigione sono invece previsti per l’appropriazione illecita dei segreti di Stato, da tre a cinque per possesso abusivo di segreti di Stato e da cinque a dieci anni di carcere per la loro divulgazione illecita. C’è poi il reato di spionaggio, che prevede un massimo di 20 anni di detenzione. La vaghezza è caratteristica intrinseca della legge. Ora chiunque condivida informazioni riservate - anche se non sono classificate come segreto di Stato - potrebbe violare la norma se le autorità riconoscono le intenzioni del soggetto di mettere in pericolo la sicurezza nazionale. Si arriva così a contraddire il sistema di common law britannica, poiché basta solo l’intenzione, prima ancora dell’azione, a commettere un crimine. Così molti diplomatici o uomini d’affari potrebbero scegliere la via dell’autocensura per non condividere qualsiasi informazione o documento considerato “utile a una forza esterna”. In un governo guidato da un ex poliziotto come John Lee, la norma concede maggiore potere agli agenti per punire più duramente gli oppositori: la detenzione di sospettati si estende sino a 14 giorni dalla cattura, anziché 48 ore come in precedenza. La polizia può trattenere i passaporti dei condannati per evitare che attivisti e oppositori lascino la città, come avvenuto negli ultimi anni. La nuova norma è stata approvata all’unanimità dagli 89 parlamentari del Consiglio legislativo - il parlamento locale - per colmare i vuoti della legge sulla sicurezza nazionale imposta da Pechino nel 2020 e reprimere ulteriormente il dissenso. Secondo il capo dell’esecutivo di Hong Kong la legge, scritta e introdotta in maniera così rapida per confermare fedeltà alla Cina, è necessaria per dovere costituzionale. L’articolo 23 della Basic Law, approvato dopo le proteste democratiche di piazza Tiananmen a Pechino, stabilisce infatti che il governo di Hong Kong avrebbe approvato una sua legge sulla sicurezza nazionale. Già nel 2003, le autorità locali avevano provato a promulgare la norma, ma avevano dovuto interrompere il processo legislativo dell’articolo 23 per le ingenti proteste di opposizione. Questa volta però è stato un percorso sgombro di ostacoli: grazie a un parlamento costituito da “soli patrioti” e ai dissidenti processati o in carcere. L’approvazione della norma ha attirato di nuovo l’attenzione dei governi occidentali, tra cui Usa e Gran Bretagna, che condannano lo strumento liberticida nelle mani dell’esecutivo di Hong Kong. Dura la risposta di Pechino, che accusa ministero degli Esteri britannico e dipartimento di Stato Usa di “diffamare” l’articolo 23 che rafforza il controllo sulla società civile in nome della sicurezza nazionale. E che porta Hong Kong a essere sempre più una città cinese.