La casa degli emarginati si chiama carcere di Susanna Marietti* L’Unità, 22 marzo 2023 Ventiquattro persone si sono tolte la vita nelle carceri italiane dall’inizio di questo 2024. Numeri drammatici, che si aggiungono a quelli altissimi degli ultimi anni. A cosa vogliamo dare la colpa? A due minuti di distrazione del piantone? Al fatto che la cella non era stata dotata di lenzuola di carta? O piuttosto assenza di ogni speranza di vita per queste persone? Il carcere seleziona quelle già disperate, le chiude in celle sovraffollate e anonime, non prospetta loro alcuna possibilità di futuro, di lavoro, di relazioni sociali. Sempre più negli ultimi decenni abbiamo trasformato le carceri in grandi contenitori di disperazione. Non di criminalità, ma di disperazione. E adesso abbiamo delle carceri disperate, che ce lo dimostrano nel modo più drammatico. Chi ha detto che il grado di civiltà di un Paese si misura dallo stato delle sue prigioni non credo pensasse alle infiltrazioni di muffa nei corridoi o al linoleum rovinato. Certo, la muffa non ci deve stare, dovremmo stanziare un po’ più di fondi per manutenere gli edifici nei quali stipiamo le persone detenute. Ma ben più rilevante è andare a vedere chi ci mettiamo dentro quegli edifici. Da almeno un paio di decenni, e sempre di più, li stiamo usando per rinchiudere tutti coloro con cui non vogliamo compartire il nostro benessere, chi è portatore di un disagio sociale che avrebbe bisogno di risorse e di attenzioni per essere affrontato. L’uso delle politiche penali per tappare i buchi lasciati vuoti dalle politiche sociali è una strada che abbiamo visto percorrere nel tempo da governi di tutti i colori. La voce grossa contro la piccola criminalità e le fasce più marginali alla ricerca di facile consenso, anche. E pure l’inasprimento populistico del volto della giustizia in totale indifferenza verso il dato statistico e la realtà dei fatti. Ma mai così tanto quanto oggi. Fin dalla prima riunione in assoluto del Consiglio del Ministri guidato da Giorgia Meloni, quella che introdusse il reato legato ai rave party, abbiamo avuto valanghe di interventi normativi volti a introdurre nuove fattispecie, ad aumentare le pene per quelle già esistenti, a inasprire le risposte amministrative e fintamente preventive nelle periferie urbane. I reati introdotti riguardano solo i disperati della terra, quelli che poi si ammazzano. Un rapido sguardo alle biografie dei ventiquattro detenuti che si sono suicidati quest’anno, ci mostra il loro scarsissimo spessore criminale. Un esempio paradigmatico, visto l’enorme peso quantitativo che ha nella penalità italiana, è quello della normativa sulle droghe, inasprita dal cosiddetto decreto Caivano in particolare per quanto concerne i fatti di lieve entità, che verosimilmente riguardano chi fa uso di sostanze in prima persona ed è coinvolto eventualmente solo in via occasionale con il piccolo spaccio. Le galere si riempiono di tossicodipendenti, spesso con doppie diagnosi, di persone con problemi psichiatrici. Le quali vengono messe in carcere cercando di fare in modo che non ne escano. Il reato di rivolta penitenziaria, che il disegno di legge governativo attualmente in discussione in Parlamento vuole introdurre, serve a questo. Qualsiasi disagio comportamentale, che possa portare anche solo alla pacifica disobbedienza e resistenza non violenta agli ordini della polizia penitenziaria, sarà punibile con una pena fino a sette anni di ulteriore reclusione. Ma di cosa stiamo parlando? Dell’assenza delle lenzuola di carta o dell’assenza di ogni speranza di vita per queste persone? Il carcere seleziona quelle già disperate, le chiude in celle sovraffollate e anonime, non prospetta loro alcuna possibilità di futuro, di lavoro, di relazioni sociali. Per affrontare con decisione il problema dei suicidi in carcere bisogna dunque, prima di tutto, diminuire i numeri della popolazione detenuta, facendo sì ad esempio che tossicodipendenza e disagio psichico siano sempre presi in carico dagli operatori territoriali del settore e mai dai poliziotti, nonché rilanciando su pene e misure alternative. In secondo luogo, modernizzare e dotare di significato la vita penitenziaria, oggi tornata a un’idea antica che vede la pena coincidere con l’ozio forzato dentro una cella. Infine, creare empatia e vicinanza al carcere. In questo senso è stata preziosa l’iniziativa delle Camere Penali che mercoledì scorso ha portato gli avvocati fuori dalle Aule di Giustizia a manifestare per la dignità delle persone detenute. *Coordinatrice nazionale dell’Associazione Antigone Giovani persi in un carcere-discarica di Silvia Perdichizzi L’Espresso, 22 marzo 2023 “Le storie romanzate di Mare fuori? Ma per favore! I ragazzi non sappiamo più dove metterli, il sistema della giustizia minorile non è attrezzato per gestire questi numeri”. Dal Piemonte alla Sicilia è un grido di allarme che unisce Nord e Sud, un coro unanime che si alza da chiunque lavori negli Istituti penali per i minorenni (Ipm): una verità ben diversa da quella evocata dalla famosissima serie televisiva, ambientata idealmente nell’Ipm di Nisida (Napoli) e divenuta fenomeno cult tra i giovani. In una realtà negletta come questa, in Italia pochissimi hanno lo sguardo lungo di Antigone, l’associazione che sin dal 1991 si occupa dei diritti dei detenuti e che affida in esclusiva a L’Espresso un dato recentissimo: al 15 febbraio 2024, i ragazzi dentro le carceri minorili erano ben 519. Un numero record che supera quello che la stessa Antigone aveva diffuso nel recente rapporto “Prospettive minori”. In cui aveva riscontrato un fenomeno nuovo e doloroso: per la prima volta anche i penitenziari minorili soffrono per il sovraffollamento, che finora era una poco invidiabile caratteristica delle carceri per adulti. Si potrebbe pensare, quindi, che i giovani commettano più reati oggi che ieri, ma i dati sulla criminalità minorile raccontano di una tendenza che resta più o meno stabile. E allora a che cosa si deve quest’impennata? “Sono gli effetti del decreto Caivano”, spiega Alessio Scandurra, coordinatore dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione di Antigone, a proposito del testo varato all’indomani dello stupro di gruppo del settembre scorso nella cittadina campana. L’analisi dell’Osservatorio è severa: “Con questo provvedimento il governo Meloni ha scelto la linea dura del “punire per educare”, rendendo molto più facile il ricorso al carcere”, sacrificando così un modello basato sulla rieducazione e sul recupero “che è stato un vanto per il Paese a livello internazionale”. E le conseguenze non si sono fatte attendere. “Gli Ipm scoppiano”, racconta Giuseppe Chiodo, direttore del carcere per minori di Roma. Con effetti distruttivi sui giovani che delinquono “e che molto probabilmente torneranno a farlo, perché non conoscono alternative”. A pagare il prezzo più alto è chi non ha attorno una rete sociale e familiare: “In altre parole i ragazzi delle periferie delle grandi città e gli stranieri, per lo più minori non accompagnati”. Un contesto martoriato, nel quale nessuno pensa alle strutture, ormai inadeguate, non si potenziano gli organici e il personale fa fatica perché costretto sempre a rincorrere l’emergenza. Con l’unico rimedio che si ripete in molti, troppi settori fondamentali della vita pubblica italiana: sono i singoli, le associazioni di volontariato e le loro sinergie a mettere le toppe a un buco tutto istituzionale. A gennaio 2024, secondo il rapporto “Prospettive minori” di Antigone, erano 500 i detenuti nei 17 Istituti penali per i minorenni italiani. A febbraio, come detto, già 519. Una cifra che non si toccava da un decennio e che viaggia in parallelo con l’aumento degli ingressi: circa 800 nel 2021, più di 1.100 due anni dopo. “Dall’entrata in vigore del decreto Caivano, poi, l’incremento ha subito una forte accelerazione”, si legge nel rapporto. E non per un aumento della criminalità minorile, che, stando all’Istat e al ministero dell’Interno, è cresciuta rispetto al 2020 (anno del Covid) ma è uguale ai livelli del 2015. “La causa - continua il documento - è da ricercare nella scelta assunta dal governo come risposta ai fatti accaduti nel rione Parco Verde”. Ovvero quella di stringere le maglie della giustizia minorile, estendendo l’applicazione della custodia cautelare in carcere, che viene disposta anche per i reati di più lieve entità e preferita a misure meno pesanti e a percorsi di recupero. A dirlo sono ancora i numeri di “Prospettive minori”: oggi più di due terzi dei ragazzi sono detenuti in attesa di giudizio e si registra un’impennata di presenze legate alla violazione della legge sugli stupefacenti, più del 37% in un solo anno. Tra i reati più frequenti, i furti. Non solo, nelle comunità sono ospitati poco meno del doppio dei giovani reclusi. “Con il decreto Caivano - la dura conclusione di Antigone - la strada del “punire per educare” prevale sulla logica “educare è preferibile a punire” che l’Italia aveva scelto nel 1988”, quando aveva adottato un procedimento penale specifico per minorenni, basato su recupero e rieducazione. “Un fiore all’occhiello a livello internazionale” che oggi rischia di essere smantellato con un “effetto devastante sulla vita del minore”, dice don Domenico Cambareri, cappellano dell’Ipm di Bologna: “A me sembra che ci si stia arrendendo all’idea che ci siano giovani perdibili, mentre nessuno di loro lo è. Sono tutti una risorsa, solo che non lo sanno”, aggiunge. Bisogna tenere a mente, infatti, che negli Ipm finiscono molto spesso ragazzi che hanno alle spalle un passato di violenze e che sono cresciuti di solito in un ambiente malavitoso, in cui è normale delinquere. E in cui è difficilissimo emanciparsi. Per provare a cambiare questa mentalità servono tempo, spazio, strumenti, operatori qualificati. E percorsi. Un sistema che si basa solo sulla sanzione “abdica alla sua funzione educativa in favore di una contenitiva e genera quel fenomeno di sovraffollamento, che finora era stato una caratteristica del carcere per adulti”, conclude il cappellano. E a pagarla sono i più vulnerabili: i giovani ai margini delle periferie e i migranti. Alla fine del 2023, tre ragazzi stranieri su quattro presenti negli Ipm erano in custodia cautelare: perlopiù minori non accompagnati che finiscono dentro - tendenzialmente al Nord Ovest - con disturbi psichici, problemi di dipendenze, storie di maltrattamenti. Sono i più difficili da trattare e allo stesso tempo, non avendo punti di riferimento, i più facili da trasferire continuamente nei momenti di criticità. Si sposta il “problema” da una parte all’altra anziché risolverlo con un’adeguata presa in carico. “Noi cerchiamo di riempire di significato il tempo che passano qui - dice Giuseppe Carro, direttore dell’Ipm di Torino che ha dovuto mettere dei materassi a terra per ospitare tutti i detenuti - ma spesso non abbiamo modo di farlo e finiamo con l’essere una sorta di pronto soccorso educativo”. Uno schema che, seppure con peculiarità diverse, si ripete lungo tutto lo Stivale, dove all’aumento dei numeri non è seguito un miglioramento delle strutture e un potenziamento del personale. A Quartucciu, in Sardegna, è arrivata da poco l’acqua calda e l’impianto elettrico non è a norma. A Milano si vive in perenne stato di ristrutturazione. Ad Airola, in provincia di Benevento, la direttrice Eleonora Cinque aspetta con ansia i lavori necessari per rendere agibile una parte dell’Istituto chiusa per problemi agli impianti, “in nome della sicurezza di tutti”, spiega. Qui infatti si sono registrati parecchi casi di aggressioni, autolesionismo e tentati suicidi “superati grazie allo sforzo enorme degli operatori”. Perché questo accade oggi: se gli Ipm reggono è grazie all’impegno dei singoli e al prezioso lavoro del volontariato. Che nel welfctre italiano è un costante balsamo alle mancanze istituzionali. Crisi Come Opportunità è un’associazione che lavora con laboratori di rap e teatro. Il suo punto di forza è la presenza permanente nelle strutture, il che consente di stabilire una relazione con i ragazzi per farli riflettere su argomenti importanti e far conoscere loro percorsi diversi da quelli da cui provengono. Un approccio che a oggi ha portato alla produzione di una serie web, sette video musicali e tre spettacoli teatrali. “Amore Amaro” è l’ultima creazione dell’Ipm di Acireale: un pezzo corale in cui Natalia, Alex, Ami, Serena e gli altri cantano cos’è l’amore per loro. “L’amore per me è una cosa bella”, la frase che apre il brano. La loro risposta, aperta e semplice, alle tremende violenze di Caivano. Agenti di Polizia penitenziaria al lavoro nell’ufficio del Garante dei detenuti. Protesta la Uilpa di Eleonora Martini Il Manifesto, 22 marzo 2023 Assegnati al servizio, senza bando e con chiamata diretta, quattro unità del Corpo di polizia penitenziaria. Il sindacato contro “le modalità oscure con cui sono avvenute le assegnazioni”. Gennarino De Fazio: “È una violazione premeditata delle norme imperative. Le garanzie non possono tradursi in privilegi a vantaggio di pochi eletti”. “Abbiamo appreso che quattro unità del Corpo di polizia penitenziaria sono state distolte dalle carceri, in gravissima sofferenza per la mancanza complessiva di 18mila unità, per essere assegnate a prestare servizio presso l’Ufficio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Ciò, peraltro, senza l’esperimento di alcuna procedura di selezione atta a offrire assicurazioni di efficienza, efficacia, imparzialità e trasparenza”. È piuttosto irritato, Gennarino De Fazio, Segretario generale della Uilpa Polizia penitenziaria, uno dei sindacati più rappresentativi nel Corpo e non certo ideologicamente ostile al governo. Già il 7 marzo scorso aveva protestato e chiesto spiegazioni per quella che ai più, tra gli agenti penitenziari che lavorano nelle carceri in condizioni obiettivamente difficili, sembra un grosso scivolone da parte del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e del Ministero di Giustizia. Ma dopo quindici giorni senza alcuna risposta, il segretario della Uilpa ha appreso che mercoledì i giochi erano stati fatti: quattro agenti (tra loro nessun ruolo dirigenziale, al contrario di come inizialmente previsto) sono stati assegnati con chiamata diretta e senza alcun bando all’Ufficio del neo Garante nazionale dei detenuti, Felice Maurizio D’Ettore, per coprire la carenza di personale (una decina di posti) che si è venuta a creare per vari motivi - in alcuni casi per scelta, in altri per pensionamento - alla fine del mandato di Mauro Palma. “Non ci sembra affatto un buon inizio - scrive in una nota De Fazio -, non solo perché quelle quattro unità di Polizia penitenziaria potrebbero essere più utili in contesti operativi in forte crisi, richiamata anche dal Presidente Mattarella, ma soprattutto per le modalità oscure con cui sono avvenute le assegnazioni”. La chiamata diretta, infatti, è un’eccezione prevista solo nelle procedure d’estrema urgenza. Ed è evidente che l’emergenza si sarebbe potuta evitare se solo a tempo debito fossero state avviate le procedure per gli interpelli, ossia i bandi di concorso con tanto di criteri per le graduatorie. “Un percorso, peraltro, assai veloce in questi casi”, riferisce De Fazio. Il bando lo propose l’anno scorso l’uscente ufficio del Garante (Mauro Palma, Daniela De Robert e Emilia Rossi), ma a Via Arenula non ne vollero sapere, preferendo lasciare al neo presidente D’Ettore, affiancato da Irma Conti e Mario Serio, la gestione del problema. D’altronde sta esattamente nella logica dell’emergenza, il vantaggio di poter ricorrere alle scorciatoie e byassare le (noiose) norme di legge. Ma c’è dell’altro: la composizione dell’ufficio del Garante nazionale è normata dal Dpcm 89 del 10 aprile 2019 che fissa a 25 il numero di unità di personale operante, di cui tre assegnate dagli enti del Sistema sanitario nazionale, due dal Ministero degli Interni e 20 dalla Giustizia. Tra queste ultime postazioni, solo 7 sono riservate alla Polizia penitenziaria e, da quanto apprende il manifesto, in via San Francesco di Sales prendono servizio già 4 appartenenti al Corpo, di cui due Ispettori di polizia penitenziaria. Dunque, se così è, il Dap avrebbe concesso l’assegnazione di un poliziotto in più del dovuto all’ufficio del nuovo Garante. In ogni caso, il personale assegnato dagli enti “è scelto con procedure selettive, in funzione delle conoscenze acquisite negli ambiti di competenza del Garante”, recita l’art. 2 del Dpcm 89. Si potrebbe obiettare che quattro agenti in più o in meno nel deprimente panorama dell’amministrazione penitenziaria non fanno una grande differenza. E che l’inosservanza della legalità - a cominciare da quella stabilita dalle convenzioni internazionali - è all’ordine del giorno nelle carceri italiane. Eppure Gennarino De Fazio insiste: “È una violazione premeditata delle norme imperative. Le garanzie non possono essere unidirezionali, non possono tradursi in privilegi a vantaggio di pochi eletti e a discapito di quanti, nelle carceri, sono afflitti da carichi di lavoro al limite della sopportazione umana e da pressioni indicibili, fatte anche di minacce e aggressioni. Senza contare che ciò indebolisce ulteriormente le garanzie per gli stessi reclusi, 25 dei quali si sono già suicidati nei primi due mesi e mezzo dell’anno. In sintesi - conclude il segretario della Uilpa Pp - chiediamo garanzie a chi è Garante per definizione, altrimenti è pura nomenclatura”. “È vero: in Italia puniamo gli innocenti”, l’autogol del governo a Strasburgo di Fabrizio Costarella e Cosimo Palumbo* Il Dubbio, 22 marzo 2023 L’avvocatura dello Stato, nella memoria inviata alla Cedu per la causa con i Cavallotti, ammette: “Le confische Antimafia sono anche sanzioni”. Cioè calpestano il diritto europeo. La vicenda che vede la Corte Edu occuparsi del sistema di prevenzione italiano, nella controversia che contrappone lo Stato alla famiglia Cavallotti, è, dal punto di vista procedimentale, alle battute finali, con lo scambio di memorie di replica tra l’Avvocatura dello Stato e i difensori delle parti private. Ci siamo già occupati, dalle pagine di questo giornale, della intrinseca contraddittorietà delle precedenti difese rassegnate dal governo su richiesta dei giudici di Strasburgo, specie con riguardo alle misure di prevenzione patrimoniali, alle quali - per la necessità di sfuggire alle conseguenze dell’una o dell’altra configurazione possibile - è stata riconosciuta, ad un tempo, natura di misura amministrativa ed effetti di misura di sicurezza, ma lasciando inevase sul terreno aporie argomentative e problematiche interpretative, che invece consentirebbero di ritenere la confisca di prevenzione una vera e propria sanzione di natura penale. Simile conclusione scardinerebbe l’intera materia della prevenzione patrimoniale, perché consentirebbe di invocare i singoli istituti del diritto penale, ponendo così argini insormontabili all’esercizio di una azione che, invece, si presenta connotata da asistematicità tali da annichilire le più elementari garanzie difensive e da consentire, così, il recupero di una pretesa punitiva pubblica, anche se naufragata nella sede processuale ad essa propria. Secondo la maggior parte degli studiosi, secondo alcune timide aperture della giurisprudenza e secondo, ci si augura, la Corte europea, la prevenzione è dunque punizione: una reazione ordinamentale a fatti avvenuti nel passato e non, come invece dovrebbe essere, una misura di controllo pro-futuro di individui socialmente pericolosi. Ebbene: la funzione punitiva delle misure, da sempre negata dai sostenitori della prevenzione, pare trovare nuovi e inaspettati argomenti a sostegno proprio nell’ultima memoria dell’Avvocatura generale dello Stato. Un capitolo delle repliche depositate dal governo, dedicato a “Natura e finalità della confisca di prevenzione”, dal significativo titolo “Punire e prevenire”, vorrebbe, negli intenti della parte pubblica, tracciare un discrimine netto tra l’azione punitiva (esercitata dallo Stato mediante le pene) e quella preventiva, affidata invece a strumenti di natura amministrativa. Del resto, osserva l’Avvocatura generale, anche la pena assolve a una funzione preventiva, oltre che retributiva e, quindi, è accettabile che le misure di prevenzione abbiano anche effetti punitivi, pur mantenendo una natura non penale. Nel tentare di spiegare su quale piano - se non su quello della funzione - operi la distinzione tra prevenzione e pena, il governo finisce per valorizzare i il versante degli effetti e quello delle ragioni. Per il primo aspetto, le misure praeter delictum “non richiedono la gravità e le sofferenze insite nelle sanzioni”. Esse, quindi, costituirebbero un minus nella reazione ordinamentale. L’affermazione sarebbe anche corretta se le misure di prevenzione avessero conservato il carattere della provvisorietà che le era proprio. Ma la confisca prevista dal codice antimafia è una ablazione definitiva del patrimonio, identica per effetti alle confische previste dal codice penale. Ablazione della quale è peraltro possibile l’applicazione disgiunta rispetto alle misure personali (cioè, anche in assenza dell’attuale pericolosità del proposto) e anche a quella per equivalente (cioè, su beni che non hanno alcuna relazione di derivazione con le pregresse manifestazioni delittuose). La confisca di prevenzione, in definitiva, non ha oggi alcuna necessaria funzione preventiva (perché non richiede più la prognosi di pericolosità), né tale mutamento può essere giustificato con la teoria del “bene pericoloso” - reiterata dall’Avvocatura nel proprio scritto -, cioè della pericolosità che la cosa mutua dalla persona, in forza della sua origine illecita (perché la confisca per equivalente non cade su patrimoni di origine delittuosa). Non a caso, uno studioso attento come il professor Vincenzo Maiello ha da tempo definito la confisca per equivalente come il cavallo di Troia della prevenzione patrimoniale. Per quanto riguarda le ragioni, il governo ricorre al solito refrain: la prevenzione serve a contrastare fenomeni di grave allarme sociale, come la mafia e il terrorismo. Come al solito, all’Europa non diciamo (chissà che non se ne accorgano…) che oggi la prevenzione in Italia è strumento di contrasto, oltre che dei reati contro l’ordine pubblico, dei reati contro il patrimonio, contro la persona, contro la pubblica amministrazione, contro la fede pubblica, contro la morale. E la tecnica argomentativa di invocare sempre, a copertura di ogni stortura, l’intoccabilità di quel para- Stato che è l’antimafia, in nome della quale tutto è lecito, tutto è consentito inizia ad assumere i tratti grotteschi di un’eresia catara fuori tempo di un millennio buono. La verità è che forse, di fronte ai quesiti della Corte Edu, sarebbe stato meglio cambiare il titolo di quel capitolo: non “Punire e prevenire”, ma “Prevenire è punire”. *Osservatorio Misure patrimoniali e di prevenzione dell’Ucpi La Calabria è il bersaglio più amato dal Viminale di Mimmo Gangemi Il Dubbio, 22 marzo 2023 Sembrerebbe profilarsi un pareggio. Uno a uno tra le due città metropolitane e uno a uno tra gli opposti schieramenti della politica, con il Comune di Bari che potrebbe andare a fare compagnia a quello di Reggio Calabria, sciolto per infiltrazioni mafiose nel 2012. Non ci fossero i precedenti di Roma, Foggia e della stessa Reggio a guida Falcomatà, passate indenni dalla ghigliottina, la scommessa che ciò si verifichi avrebbe quote talmente basse da non valere la pena puntarci soldi. Induce perplessità il possibile scioglimento per Bari - quando il ministero invia la Commissione d’accesso, di solito si verifica - come ne indusse quello di Reggio, peraltro a danno di un sindaco, Demetrio Arena, che si era insediato da pochi mesi. E come ne indussero, e ne inducono, le centinaia comminate in Italia negli ultimi tre decenni. Tutta colpa della legge 221 del 22 luglio 1991, un’insensatezza, una negazione dello Stato di diritto. Già nacque male, sulla spinta dell’orrore indotto dalla strombazzata, e falsa, decapitazione di una vittima di ‘ ndrangheta, a Taurianova, nella Piana di Gioia Tauro, il venerdì santo del 1991. Ci fu un’onda d’urto terribile. E le cronache ci sguazzarono, dando per certa l’invenzione, atta a creare scalpore e maggiore indignazione - senza che il costruito ad arte tolga bestialità ed efferatezza al crimine - che la testa dell’ucciso fu tranciata con un machete, o con un coltellaccio da macellaio, lanciata per aria e presa a pistolettate al volo. Tante le amministrazioni azzerate più volte. E le repliche in uno stesso comune già da sole basterebbero a bollare l’inadeguatezza della legge, che evidentemente nulla ripara, non funziona, necessita di modifiche sostanziali. E che sa d’incostituzionalità, difettando, nell’applicazione, il principio di dover accertare una colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio e quello di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio, a maggior ragione perché qui non c’è spazio per alcun grado di giudizio. Oltre a essere nata malaticcia, è spesso fuorviante rispetto alla realtà, lesiva dei diritti dei cittadini. E dei politici commissariati, e talvolta inquisiti, talvolta arrestati. E talvolta né arrestati e né inquisiti, in quella che è l’anomalia più incomprensibile, perché, se non c’è colpa da contestare… All’origine degli scioglimenti spesso non ci sono reati, solo la potenzialità di poterli commettere. Potenzialità peraltro basata su roba d’aria: vaghi sospetti, fantasie, pettegolezzi, sentito dire, indizi che, alla distanza, si rivelano impalpabili, fumosi, forzature, tentativi di soggiogare teorie incapricciate su una logica che non traspare perché non c’è. E tuttavia sono evanescenze, ipotesi zoppe e vaporose e teoremi astrusi che conducono a una gelida inflessibilità, che diventano elementi per strette repressive inadatte a una democrazia. Diventa giustizia sommaria, lo Stato che mostra i muscoli. Tanto per capirci, in un paese dell’Alto Ionio la motivazione principale dello scioglimento del Comune fu la partecipazione del sindaco al funerale di una vecchina con la colpa della parentela “difettosa” e che da bambino lo aveva accudito. C’è di peggio: esistenze che si sfiorano e tra le quali si fantasticano “infezioni”, con gli untori contagiosi al punto da portare a dannazione, da attirare gli strali della legge se solo si viene visti assieme a uno in odore di mafia, e tuttavia libero, se gli si ricambia il saluto, se non si riesce a sfuggire al “fatale errore” di trattenersi a chiacchierare, se si accetta un caffè al bar: tutte situazioni inevitabili quando tutti si conoscono con tutti, specialmente nei paesi piccoli, magari con un’unica piazza e un unico ritrovo. Né è previsto un contraddittorio tra la Commissione d’accesso e l’Amministrazione comunale. Al sindaco, che pure è l’avamposto dello Stato nel territorio e meriterebbe solidarietà, non flagellazione, non è consentito confrontarsi con chi sta verificando la correttezza degli atti, quando sarebbe lui il più titolato a fornire spiegazioni in grado di aprire gli occhi chiusi o accecati dalla condanna a prescindere. Le possibilità di difesa, solo a danno già perpetrato, dopo che il ministero dell’Interno, acquisita la relazione della Commissione, notifica il decreto di scioglimento, bypassando la magistratura e le indagini. Amministrazioni vengono sciolte anche per colpe, inadempienze e collusioni, vere o presunte, con la mafia da parte dei funzionari, e non del sindaco e dei suoi consiglieri - pare ci sia pure questo, nel caso Bari, e appare ingiusto che ne debba rispondere il primo cittadino, che non si tenga conto di come le varie “Bassanini” hanno amplificato i poteri decisionali dei responsabili dei servizi. Norme capestro hanno insomma deciso che tocchi alla politica pagarne le conseguenze, via dalla scena pubblica con il provvedimento infamante, niente processi perché niente c’è da processare, e la gogna sì, la futura incandidabilità spesso, la sofferenza sempre. Poi, affidare la gestione di un Comune a tre Commissari prefettizi estranei al luogo, oltre a essere un onere costoso, quasi sempre comporta scarsa efficienza, scarsa presenza sul territorio, scarsa attenzione alle esigenze e alle priorità della cittadinanza, paralisi dell’economia. Perché non hanno, non possono avere, l’amore e la dedizione che ha il sindaco per il proprio paese e per la collettività. Per lo più la triade si limita all’ordinario, anche a meno. E le disfunzioni crescono. A fine mandato sono molte più le volte che restituiscono una situazione peggiore di quella ereditata, senza che debbano rispondere delle inefficienze, neppure di inadempienze palesi e più gravi di quelle che hanno comportato lo scioglimento. È tempo di cancellare quest’assurdità. Non è tollerabile che il pur meritorio impegno di sgominare le mafie finisca per rendere legittimo che si releghino in retroguardia, fino a tacerli, i soprusi, le ingiustizie, i danni collaterali, gli incidenti di percorso su una marea di innocenti maltrattati. Pene sostitutive, le carenze dell’istanza e del programma impongono il rinvio a un’udienza ad hoc di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 22 marzo 2023 Il giudice, nell’applicazione del nuovo regime delle pene sostitutive previsto dalla Riforma Cartabia anche per i processi pendenti al momento della sua entrata in vigore, non può disattendere la richiesta dell’imputato di sostituzione della pena detentiva breve, per il solo fatto che la domanda non è corredata dalla richiesta formale e dalla presentazione di un programma già definito con uno degli enti preposti allo scopo. Nulla osta che in una situazione in cui - come quella verificatasi nel caso concreto - la domanda venga avanzata in assenza di una definizione individuata della pena sostitutiva il giudice disponga l’esame della questione a successiva udienza cosiddetta di sentencing dedicata proprio a tale esame completo. Come afferma la Corte di cassazione penale - con la sentenza n. 11980/2024 - in un caso come questo il giudice di appello investito della domanda avrebbe dovuto procedere alla fissazione dell’udienza di sentencing. L’ampliamento del regime anche ai processi pendenti nella fase di merito - in primo grado o in appello - va applicato con l’interpretazione più estensiva possibile. Cioè favorendo - anche in caso di processo già pendente alla data del 30 dicembre 2022 - la maggiore applicabilità possibile dei nuovi metodi di espiazione della pena detentiva breve. La Cassazione nell’accogliere il ricorso sottolinea l’importanza di seguire la nuova cultura - anche di rilievo internazionale - che si oppone a quella da definire ormai superata e che gli ermellini appellano come “carcerocentrica”. La detenzione breve è spesso, infatti, un’esperienza che può avere risvolti più negativi che altro senza neanche costituire una vera garanzia contro il rischio di recidiva. Mentre l’espiazione in ambiti condivisi con persone “libere” può meglio assicurare il compimento di un percorso rieducativo di chi si è macchiato di un reato. Nel caso ora rinviato a giudizio la Cassazione stigmatizza il comportamento del giudice che investito della questione aveva ritenuto di non poter stabilire sull’applicazione della pena sostitutiva invocata dalla difesa, in quanto non risultavano enti disponibili a seguire il programma rieducativo e questo non era stato ancora puntalizzato all’atto della domanda. Allo stato degli atti il giudice ha deciso di disattendere per la sua incompletezza la richiesta di applicazione della misura sositutiva e però ha mancato - come precisa la Cassazione - di disporre la trattazione rinviandola a successiva udienza. Nella scelta ora bocciata dalla Cassazione il giudice aveva ritenuto di applicare il Protocollo adottato dagli uffici giudiziari milanesi, dall’ufficio interdistrettuale per l’esecuzione esterna e dal Consiglio dell’Ordine degli avvocati e della Camera penale di Milano, in particolare dove detta il criterio della tempestività nella presentazione della documentazion inerente la domanda. La Cassazione precisa che tale criterio non può superare l’ispirazione legislativa tesa alla maggiore applicazione possibile delle nuove pene sostitutive e che rappresenta al più un’indicazione, ma non un presupposto previsto a pena di decadenza. Ciò che tra l’altro nell’ordine delle fonti normative non potrebbe prescrivere un Protocollo d’intesa. Infine, neanche la circostanza che il difensore, nominato la mattina stessa dell’udienza, fosse sprovvisto di procura speciale giustificava il rifiuto de plano di applicazione della sostituzione. Anche tale presupposto poteva ben essere reintegrato a seguito di fissazione di nuova successiva udienza. La Corte d’appello viola, quindi, la ratio della norma transitoria della Riforma se non fissa l’udienza di sentencing e decide per la decadenza dell’accesso alla pena sostitutiva a fronte della mancata disponibilità delle associazioni, contattate la mattina dell’udienza, a utilizzare le prestazioni dell’imputato. Per l’estinzione del reato riparazione del danno entro il dibattimento di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 22 marzo 2023 Per la Consulta, sentenza n. 45, la soglia anticipata - “prima dell’udienza di comparizione” - prevista per i reati di competenza del Gdp è irragionevole. La Corte costituzionale (sentenza n. 45) ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 35, comma 1, del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, nella parte in cui stabilisce che, al fine dell’estinzione del reato, le condotte riparatorie debbano essere realizzate “prima dell’udienza di comparizione”, anziché “prima della dichiarazione di apertura del dibattimento”. Il giudice di pace di Forlì, nel sollevare la questione, aveva censurato lo sbarramento temporale che imponeva, prima dell’udienza di comparizione, l’adempimento delle condotte risarcitorie e riparatorie del danno conseguente al reato, deducendo che il predetto limite temporale fosse in sé irragionevole e tale da determinare una disparità di trattamento rispetto agli imputati dei reati di competenza del Tribunale, per i quali la riparazione integrale del danno è ammessa fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento (art. 162-ter cod. pen.). La Corte ha ritenuto fondata la censura sotto il profilo della dedotta violazione del principio di ragionevolezza, osservando, in particolare, l’incoerenza del termine finale previsto dalla disposizione censurata rispetto al peculiare ruolo di “mediatore” del giudice di pace, il quale giudica reati di ridotta gravità, espressivi di conflitti interpersonali a carattere privato e alla finalità di semplificazione, snellezza e rapidità che connota il procedimento che innanzi a lui si svolge. È stata sottolineata, in particolare, la funzione conciliatoria del giudice di pace (sancita come principio generale dall’art. 2 del d.lgs n. 274 del 2000), il cui luogo di fisiologica esplicazione è proprio l’udienza di comparizione, risultava impedito dal termine perentorio che, previsto prima di tale udienza, frustrava la stessa funzione del giudice non consentendogli di avviare l’imputato e la persona offesa ad un accordo sulla entità e sulle modalità degli adempimenti riparatori e risarcitori. La Corte ha anche evidenziato che la rigida preclusione temporale determinava ricadute negative sul carico giudiziario, riducendo i casi di definizione anticipata del processo attraverso la dichiarazione di estinzione del reato, per l’esito positivo delle condotte riparatorie. Invece, la fissazione del termine ad quem nella dichiarazione di apertura del dibattimento è coerente con la finalità deflattiva del carico giudiziario e, al tempo stesso, consente un evidente risparmio di attività istruttorie e di spese processuali, non dandosi corso - nel caso in cui risulti integrata la fattispecie estintiva del reato conseguente a condotte riparatorie - alla fase dibattimentale. Veneto. Baldin (M5S): “Più suicidi e sovraffollamento, il faro del Garante sulle carceri” padovanews.it, 22 marzo 2023 “Quando qualcuno muore in carcere è facile voltarsi dall’altra parte, ma non si può rimanere indifferenti di fronte all’aumento dei suicidi nelle strutture penitenziarie venete. Nel 2023 sono stati otto, contro i due dell’anno precedente: tre a Verona, tre a Venezia, uno a Treviso e uno a Vicenza. Numeri che fanno gelare il sangue nelle vene e sui quali è opportuno un supplemento di analisi”. Così Erika Baldin, capogruppo in Consiglio regionale del Veneto del Movimento 5 Stelle, a margine della seduta odierna della commissione Sanità e Sociale, nel corso della quale è stata illustrata la relazione del Garante regionale dei diritti della persona riferita al 2023. “Ringrazio il Garante e la sua struttura per il prezioso lavoro svolto, che getta luce sulla situazione drammatica delle carceri venete. Le carceri venete rischiano di scoppiare: nel 2023 il sovraffollamento ha raggiunto il 134%, un dato superiore alla media nazionale, pari al 118%. Ne ho avuto diretta conferma recentemente, al carcere minorile di Treviso, dove ho potuto toccare con mano i primi effetti del decreto Caivano che aumenterà ancor di più il numero di minorenni reclusi” ricorda la consigliera regionale, che il 13 marzo scorso si è recata in visita all’Istituto Penitenziario Minorile (IPM) e al Centro di Prima Accoglienza (CPA) di Treviso, secondo quanto previsto dall’articolo 67 dell’ordinamento penitenziario. “Dalla relazione del Garante - aggiunge Baldin - emerge una forte necessità di miglioramento degli spazi comuni e della sicurezza sociosanitaria dei detenuti. Questa valutazione è condivisa da tutti i soggetti coinvolti nell’esecuzione penale: dal sindacato della polizia penitenziaria, agli avvocati aderenti all’Unione delle Camere Penali che proprio ieri si sono astenuti dalle udienze per richiamare l’attenzione sulle gravissime condizioni di sovraffollamento delle carceri italiane. In Veneto, le uniche due carceri non sovraffollate sono il femminile di Venezia e la casa circondariale di Padova”. “Il 36% delle segnalazioni ricevute dal Garante regionale - conclude Baldin -riguarda la materia sanitaria: qui la competenza è regionale, tramite le Ulss del territorio. Occorre fare di più”. Modena. Dopo 4 anni non c’è ancora verità sui 9 detenuti morti in carcere di Diletta Bellotti L’Espresso, 22 marzo 2023 L’8 marzo del 2020 scoppiarono alcune rivolte in diversi penitenziari italiani che portarono alla morte di 14 detenuti in 72 ore. E i difensori delle vittime si oppongono all’archiviazione dell’inchiesta sui fatti di quei giorni. L’8 marzo scorso 30 mila di noi erano in corteo a Roma contro la violenza patriarcale. Nel frattempo, a Modena, c’è chi era presso i cancelli del carcere di Sant’Anna per ricordare coloro che, lì, avevano perso la vita quattro anni prima. Chi c’era ha incastrato delle rose rosse nella recinzione e ha posto una scritta sopra dei fiori e un tappeto di felci: “I caduti della rivolta”. Uno striscione in rosso e nero recitava: “Da Modena nulla è cambiato, uccide il carcere uccide lo Stato. Liberate tutt?”. Vi è una linea apparentemente invisibile sui fatti intorno alla data dell’8 marzo che ha approfondito splendidamente, tra le altre, Angela Davis in “Aboliamo le prigioni?”. Ma quali erano i fatti? L’8 marzo di quattro anni fa scoppiarono alcune rivolte in diversi penitenziari italiani. In 72 ore morirono 14 detenuti: 9 di loro erano a Modena, 3 nel carcere di Rieti e 1 a Bologna. Nelle Case circondariali, come quella di Sant’Anna a Modena, sono detenute le persone in attesa di giudizio o quelle condannate a pene inferiori ai cinque anni. Quattro anni fa, come oggi, la situazione nelle carceri italiane era già in condizioni inumane. La tragedia era preannunciata dall’inasprimento delle condizioni detentive a causa della pandemia. Furono infatti sospesi i colloqui e negati i permessi, in alcuni casi anche telefonici. Non c’era comunicazione chiara su quali fossero i rischi legati al Covid-19 e le carceri erano ovviamente sovraffollate: quasi diecimila persone in più rispetto ai posti disponibili. Subito si parlò di decesso per overdose di metadone, che alcuni rivoltosi avevano rubato dall’infermeria. Anche se i dubbi su questa versione emersero subito, la gestione mediatica di questa tragedia doveva essere sbrigata in fretta e, in un momento come quello, con “la brava gente” che moriva chi se ne importava dei detenuti? E dunque tutte le morti sono state archiviate: non sono stati ritenuti responsabili né l’amministrazione penitenziaria né chi gestì i soccorsi o i trasferimenti. Le persone che hanno perso la vita si chiamavano: Slim Agrebi, Erial Ahmadi, Ali Bakili, Hafedh Chouchane, Ghazi Hadidi, Artur Iuzu, Lotfi Ben Mesmia, Salvatore Piscitelli, Abdellah Rouan, Carlo Samir Perez Alvarez, Marco Boattini, Ante Culic e Haitem Kedri. Sono state 70 le persone indagate per rivolta, 27 gli agenti penitenziari feriti e oltre 120 quelli indagati per presunte torture, accusati da 11 detenuti, ma la Procura di Modena ha archiviato l’inchiesta. Ora alcuni difensori si sono opposti, il 21 marzo saranno ascoltati dal gip di Modena. Tra gli slogan che rafforzano chi chiede giustizia si sente: “La verità non si archivia”. A luglio del 2023 è anche nato “Morire di carcere”, un gruppo di sostegno psicologico per i cari delle persone che hanno perso la vita nelle strutture penitenziarie. Il gruppo si incontra online. Quando si parla di morti in carcere si parla di stillicidi: nel 2023 si sono tolte la vita 63 persone. Nel 2024 già più di venti suicidi. In media, uno ogni 60 ore. Anche considerando solo le condizioni materiali e le condizioni in cui vertono gli istituti penitenziari, siamo sicuri che il crimine corrisponda alla pena? Uno sguardo anti-carcerario sul mondo ci offre, spesso, uno sguardo più lucido sul sistema economico, sociale e politico in cui siamo immersi; vale la pena allenarlo, mentre continuiamo a chiedere verità e giustizia per chi se ne è andato. Modena. Rivolta in carcere, l’ipotesi di torture. Scontro sull’archiviazione del caso di Valentina Reggiani Il Resto del Carlino, 22 marzo 2023 In tribunale l’udienza sul fascicolo: iscritti 120 agenti della penitenziaria dopo la denuncia di alcuni detenuti. L’avvocato Zaccaria: “Accuse infamanti”. Antigone: “Serve un processo per la verità”. Rinvio a maggio. Si è svolta ieri mattina davanti al giudice dottoressa Clò la maxi udienza di opposizione all’archiviazione dell’indagine sulla rivolta nel carcere dell’8 marzo 2020. Ad essere iscritti nel registro degli indagati con le ipotesi di reato di tortura e lesioni aggravate in concorso ben 120 agenti della polizia penitenziaria di Modena. Come noto in seguito alla rivolta nel Sant’Anna morirono nove detenuti, secondo la ricostruzione degli inquirenti per ingestione massiccia di metadone. Successivamente e a seguito della denuncia di alcuni detenuti, che parlarono di pestaggi ad opera degli agenti, questi ultimi furono iscritti nel registro degli indagati. La procura aveva chiesto l’archiviazione del fascicolo ma i legali dell’associazione Antigone, così come gli avvocati dei familiari delle vittime hanno presentato opposizione. Ieri il giudice ha rinviato al prossimo due maggio per la delicata decisione. In aula hanno parlato i procuratori e i legali delle persone offese. Le difese degli indagati hanno chiesto l’estromissione dell’associazione Antigone, ritenendola non legittima e richiamando il precedente provvedimento di estromissione nell’ambito del procedimento sulle morti dei carcerati. Ieri, invece, il Gip ha ammesso Antigone non condividendo, su questo punto, il precedente provvedimento di due anni fa. I legali delle presunte parti offese hanno quindi chiesto un supplemento di indagine. “Abbiamo presentato l’opposizione e la nostra posizione è stata ritenuta ammissibile dal giudice perché era stata sollevata una questione per farci estromettere dal processo ma il giudice ha rigettato la richiesta appunto - afferma l’avvocato Simona Flippi per Antigone. Siamo fiduciosi che il processo possa andare avanti perché siamo convinti che vi sia stata un’ingiustizia nella chiusura del fascicolo relativo alle morti durante la rivolta. Un fatto mai accaduto nella storia di questo paese e dell’Europa e su questo pende un ricorso alla Corte Europea. Ci auguriamo che questa parte di indagine, che riguarda il reato di tortura vada avanti perché ci sono elementi importanti che attestano come molti detenuti, che si erano volontariamente consegnati alla polizia, siano stati malmenati”. Secondo l’avvocato Luca Sebastiani, che rappresenta due persone offese ci sono elementi che devono essere approfonditi. “Abbiamo illustrato al giudice tutte le nostre considerazioni tese ad evidenziare l’insufficienza delle indagini preliminari espletate e soprattutto la valutazione finale adottata dalla Procura. La verità va accertata con il metodo che la storia giuridica internazionale ha acclarato come il più affidabile: un processo dove la prova si formi nel contraddittorio tra le parti. In presenza di innumerevoli coni d’ombra, riteniamo inaccettabile, a garanzia di tutti, indagati compresi, che anche questa vicenda si chiuda con un’archiviazione in fase di indagini preliminari”. L’udienza è stata rinviata al 2 maggio per far discutere i difensori degli indagati. Dopo di che si deciderà se archiviare o meno. “Siamo tranquilli e sereni - afferma l’avvocato Cosimo Zaccaria, che rappresenta alcuni degli agenti indagati - le indagini sono state svolte con compiutezza e precisione. Quasi tutti gli agenti ascoltati e interrogati sono stati in contemporanea sottoposti ad intercettazioni telefoniche e le stesse hanno confermato che stavano raccontando la verità quando hanno raccontato i fatti all’autorità giudiziaria. Buona parte degli agenti penitenziari hanno salvato la vita ad altri detenuti aggrediti e ben 18 in stato di overdose ed incoscienza. Questo non si concilia con accuse infamanti di tortura e maltrattamenti”. L’avvocato Paolo Petrella, che rappresenta il comandante della polizia penitenziaria sottolinea infine: “Discuteremo alla prossima udienza, evidenziando a nostro parere i temi importanti. Insistiamo per la richiesta di archiviazione: a nostro avviso non ci sono elementi per provare la penale responsabilità”. Bologna. Detenuta suicida alla Dozza dopo aver inalato gas di Andreina Baccaro Corriere di Bologna, 22 marzo 2023 Una detenuta 55enne di origini slovacche, Alica Siposova, è morta ieri pomeriggio nel carcere della Dozza, mentre era in corso una visita del cardinale Matteo Zuppi. Ha lasciato un biglietto. La donna “è morta dopo aver inalato il gas della bomboletta che i detenuti utilizzano normalmente per cucinare e riscaldare cibi e bevande” scrivono il segretario generale aggiunto del Sappe Giovanni Battista Durante e il segretario nazionale del sindacato Francesco Campobasso. Come da prassi, la Procura ha avviato accertamenti, inizialmente c’era il dubbio che la donna avesse solo intenzione di sniffare il gas per procurarsi effetti allucinogeni, abitudine purtroppo diffusa in carcere. Ieri pomeriggio però gli agenti che hanno rinvenuto la salma hanno anche trovato un messaggio di addio che è stato acquisito agli atti. Nessun dubbio dunque sul fatto che si tratti di un suicidio. Il garante comunale dei detenuti Antonio Ianniello osserva: “Lascia sconcertati e senza fiato tanto più che si tratta del secondo decesso di una detenuta tra le mura del carcere nel giro di pochi giorni”. Un’altra donna, infatti, era morta per malattia a causa di un quadro clinico complesso. “C’è un problema di malessere diffuso - commenta Nicola D’Amore, agente penitenziario coordinatore provinciale della Cisl - il problema è nazionale e politico. Non ci sono posti, il carcere scoppia, non si riesce a fare fronte ai nuovi ingressi che sono continui. A Bologna non si riesce a scendere sotto gli 850 detenuti, non abbiamo nemmeno i cuscini per farli dormire, solo per fare un esempio”. Di certo, commenta con amarezza Gennarino De Fazio, UilPa penitenziaria: “C’è un’altra vita spezzata che si unisce ai 28 suicidi, 25 fra i detenuti e tre fra gli agenti, che hanno investito le carceri dall’inizio dell’anno”. Da qui la richiesta al ministro della Giustizia Carlo Nordio e alla premier Giorgia Meloni di “fermare la strage in atto varando subito un decreto carceri, quantomeno per affrontare le urgenze rappresentate dalle 18.000 unità mancanti alla Polizia penitenziaria, dai 14.000 reclusi oltre la capienza regolamentare” e dal fatto che “gli ammalati, anche con patologie psichiatriche, spesso sono abbandonati a se stessi”. Napoli. Detenuto di 29 anni muore nel carcere di Poggioreale: “Rifiutava il cibo” di Nico Falco fanpage.it, 22 marzo 2023 Un uomo di 29 anni è deceduto nel carcere di Poggioreale, a Napoli. A quanto si apprende, era stato di recente ricoverato in ospedale per le sue condizioni di salute, che avevano fatto registrare un peggioramento dovuto al fatto che il giovane rifiutasse il cibo. A renderlo noto è il Sindacato di Polizia Penitenziaria, che in una nota sottolinea l’esigenza di migliorare l’assistenza sanitaria all’interno delle strutture penitenziarie. Il corpo del 29enne è stato scoperto nella cella nella giornata di ieri, 21 marzo. Ad oggi, dall’inizio dell’anno, i decessi nelle carceri italiane sono 61; 25 di questi sono stati classificati come suicidio, mentre sono 36 le morti per “altre cause”, alcune delle quali ancora da accertare. Col decesso di ieri salgono a 5 i casi nel carcere napoletano nel giro di tre mesi, tre dei quali sono suicidi. Scrive Aldo Di Giacomo, segretario generale del sindacato Spp: “L’ennesimo detenuto morto a Poggioreale non può essere derubricato per “morte naturale” o per “altre cause”. È una brutta storia che riguarda un giovane detenuto di 29 anni, a quanto pare sottopeso perché rifiutava il cibo e che dopo un breve ricovero in ospedale è morto in cella. Questo rafforza l’allarme lanciato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella per l’aumento dei suicidi di detenuti insieme all’esigenza di assistenza sanitaria dentro agli istituti penitenziari che è una esigenza diffusa, ampia, indispensabile, la mancanza della quale - come ha detto il capo dello Stato - fa sì che su di noi ricadano esigenze e richieste che non rientrano nei nostri compiti e nelle nostre funzioni”. Napoli. Il Garante dei detenuti: “La politica si chieda cosa sta accadendo nelle carceri” di Paolo Popoli La Repubblica, 22 marzo 2023 Un detenuto di trent’anni originario del Mali è morto ieri nel carcere di Poggioreale. La salma è stata trasportata al Policlinico di Napoli per l’esame autoptico. La notizia è stata rilanciata dal garante dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello poche ore dopo la rappresentazione nella casa circondariale “Giuseppe Salvia” dello spettacolo “Miserere” di Carlo Faiello a cui hanno assistito un centinaio di detenuti dei padiglioni Genova, Firenze e Italia, alla presenza del direttore dell’istituto Carlo Berdini. “Sessantuno morti in carcere e di carcere - commenta Ciambriello - Nel 2024, da inizio anno, si contano in Italia 25 suicidi tra i detenuti e altri 36 decessi per altre cause”. Ai dati sui suicidi vanno aggiunti i tre agenti di polizia penitenziaria che si sono tolti la vita da inizio anno. Una rappresentanza della polizia penitenziaria è stata ricevuta pochi giorni fa al Quirinale dal presidente Sergio Mattarella. Infine, a causa della carenza di medici, ci sono i casi di una sempre più difficile assistenza sanitaria per i detenuti, molti con problemi di tossicodipendenza. “Tante le storie di chi non ha retto l’inferno del carcere, una montagna di disperati e invisibili - continua però Ciambriello - È assurdo che la politica e la società civile non si domandino cosa stia accadendo nelle carceri”. Un’emergenza che va avanti da anni. “Poggioreale conta attualmente 2.060 detenuti con un padiglione chiuso per ristrutturazione - ha ricordato in mattinata Berdini prima della rappresentazione teatrale nella cappella dell’istituto - I problemi ci sono e li stiamo affrontando alacremente, soprattutto dal punto di vista edilizio”. Quattro i padiglioni da restaurare con venti milioni del ministero delle Infrastrutture. Alla luce di questo nuovo decesso, Ciambriello rilancia però i temi sulle condizioni difficili nelle carceri italiane. Pavia. Ancora un tentato suicidio in cella, salvato in extremis a Torre del Gallo di Maria Fiore La Provincia Pavese, 22 marzo 2023 Portato in ospedale dopo l’allarme dai compagni. Anche lui come il trapper era nella sezione protetti: “In quel reparto solo due agenti per 300 detenuti”. A poco meno di dieci giorni dal suicidio (o quello che stabilirà l’inchiesta della procura) del trapper di 27 anni Jordan Jeffrey Baby, a Torre del Gallo un altro detenuto ha cercato di togliersi la vita. Per di più, nello stesso reparto, la sezione protetti. Quattro piani di edificio in cui sono ospitati circa 300 detenuti sui 650 dell’intera casa circondariale. Il detenuto, un uomo di 35 anni, ha cercato di impiccarsi, come il giovane trapper, usando le lenzuola del letto. Stavolta, però, l’allarme è scattato in tempo: i compagni di cella si sono accorti di quello che stava succedendo e hanno avvisato gli agenti della penitenziaria. L’uomo è stato soccorso dall’ambulanza e portato in ospedale. Si è salvato per miracolo. La sezione protetti - Anche questo episodio è avvenuto nella sezione dei protetti, la stessa che ospitava il giovane trapper. Questo reparto si trova nel nuovo padiglione di Torre del Gallo, dove vengono collocati i reclusi che per ragioni diverse non possono restare con i detenuti comuni. Sono quattro piani che ospitano i sex offender, gli operatori delle forze dell’ordine, i collaboratori di giustizia (che non hanno però un programma di protezione) e i cosiddetti “promiscui”, che non possono restare nelle celle con i detenuti comuni per altre ragioni. Salvato dai compagni - Il detenuto che ha tentato di togliersi la vita la scorsa notte, tra mercoledì e giovedì, si trovava in questo padiglione nuovo. La dinamica dell’evento è ancora da precisare, ma da quanto si è saputo sarebbero stati proprio i due compagni che erano in cella con lui a dare l’allarme. Stavolta l’intervento è stato tempestivo, a differenza di quanto accaduto dieci giorni fa al giovane trapper, trovato morto, con una corda di lenzuola al collo, nella sezione “promiscui” dove era rientrato pochi giorni prima, dopo una parentesi trascorsa in una comunità. L’inchiesta della procura - Su questo caso è ancora in corso l’inchiesta della procura aperta per omicidio colposo. Il magistrato Alberto Palermo ha già disposto l’audizione di alcuni detenuti e agenti di polizia penitenziaria, mentre mercoledì mattina è stata eseguita l’autopsia sul corpo del giovane trapper. Il padre del ragazzo, sostenuto dall’avvocato Federico Edoardo Pisani, non crede al gesto volontario e per questo ha depositato una querela, contro ignoti, in cui chiede che sia fatta “piena luce” sull’accaduto e sulle eventuali responsabilità. Il giovane, infatti, non era sorvegliato né aveva intrapreso un percorso di terapia psicologica nonostante avesse tentato il suicidio già due volte e nonostante avesse denunciato abusi in cella, da parte di altri detenuti, nello stesso carcere. Per un procedimento, con al centro una presunta violenza sessuale da parte di un detenuto, la procura ha chiesto l’archiviazione ma il legale del ragazzo si è opposto, quindi deciderà un giudice. Un’altra denuncia, invece, si è trasformata in un processo per maltrattamenti, appena avviato. “Solo 2 agenti per 300 detenuti” - “Nel reparto protetti ci sono 300 detenuti, che sono sorvegliati di notte da appena due agenti. Un’incredibile sproporzione”. La denuncia arriva da Americo Fimiani, sindacalista della Fp Cgil, l’organizzazione che da tempo pone l’accento sulla situazione di sovraffollamento di Torre del Gallo e sul disequilibrio tra numero di reclusi e personale della penitenziaria. “Il carcere di Pavia dovrebbe ospitare 515 detenuti, ma in realtà all’interno ce ne sono 650 - spiega -. La vigilanza notturna nel reparto protetti, cosiddetta dinamica, ha numeri ridicoli rispetto alle esigenze”. Torino. Abusi in carcere, i Garanti dei detenuti sentiti in aula come testimoni di Simona Lorenzetti Corriere di Torino, 22 marzo 2023 “Clima pesante”, “fenomeni allarmanti”, “tensioni”. Erano di questo tenore le segnalazioni sulla situazione all’interno del carcere Lorusso e Cutugno che nel settembre del 2018 arrivarono al Garante nazionale dei diritti dei detenuti. I controlli svolti dall’ufficio, guidato all’epoca da Mauro Palma, sfociarono in un esposto che ha contribuito a dare vita a un maxi-processo per presunti casi di tortura su detenuti commessi da agenti di polizia penitenziaria. Il dibattimento è a carico di 22 imputati e in aula hanno testimoniato Palma e due ex componenti del collegio, Daniela De Robert ed Emilia Rossi. De Robert ha ricordato che dalla documentazione del penitenziario emergevano “77 casi di incidenti di natura non meglio definita”, tutti concentrati nel padiglione C, quello riservato ai detenuti per reati sessuali. Secondo le accuse del pm Francesco Pelosi furono proprio i reclusi in quel reparto a essere sottoposti alle vessazioni degli agenti. Milano. Con “Caterpillar” si può sognare un mondo più giusto di Antonio Dipollina La Repubblica, 22 marzo 2023 La trasmissione di Radiodue dalla Casa di reclusione di Bollate. Quando si dice giocare un altro campionato (oppure a un altro sport). Non c’è niente in quel costante flusso mediatico nel quale radio e tv si fondono e confondono che somigli a Caterpillar, benemerito appuntamento quotidiano del tardo pomeriggio di Radiodue. Esempio: martedì scorso, anche in preparazione della Giornata contro le mafie celebrata ieri, una puntata davvero speciale. A metà condotta dagli studi Rai di Milano - con Sara Zambotti - e a metà dalla Casa di reclusione di Bollate, appena fuori città - con Massimo Cirri. Giustizia e libertà, si poteva chiamare tutto quanto: libertà di credere a un altro modo di affrontare e vivere da dentro e fuori l’istituzione carceraria. Speciale perché tutto nasceva dall’iniziativa presa a Bollate chiamando detenuti ben disposti (nonché di curriculum pesante, e fine pena tra un bel po’) a leggere per proprio conto i Karamazov e poi a riportarne impressioni e suggestioni: da quella storia nerissima scolpita nei secoli da Dostoevskij all’esperienza personale, a confrontarsi anche a brutto muso con i propri demoni (a proposito di) e a raccontarlo, magari emozionati per il microfono e la gente che ti ascolta, magari sfrontati perché ne hai passate parecchie e la gente che ti ascolta è acqua fresca. Tra uno studio e l’altro, esperti, operatori, studenti di iniziative lodevoli, ex detenuti, psicologi, giudici, parenti di vittime di mafia - anche il fratello di Emanuela Setti Carraro, moglie del generale Dalla Chiesa. Riflessioni, confronti, buonissima volontà da parte di tutti - a iniziare da due associazioni che operano nelle carceri del milanese, il Gruppo della Trasgressione e quelli del progetto Lo Strappo. Ma a conquistare era soprattutto il tono che tutti riuscivano a tenere, guidati da quei due fuoriclasse in tema di toni giusti, che sono appunto Massimo Cirri e Sara Zambotti, i conduttori. Il video di tutto quanto è in arrivo su RaiPlay. A breve si gira per la Rai la riedizione del mitico Sandokan: al posto di Kabir Bedi ci sarà il turco Can Yaman (Sando-Can). Le riprese sono in Calabria, che non sarà la Malesia ma si mangia benissimo e si spende poco. Napoli. Poggioreale, lo spettacolo “Miserere” con Isa Danieli: i detenuti: “L’arte è riabilitazione” di Valentina Bonavolontà Il Mattino, 22 marzo 2023 “La vera manifestazione di un confronto rieducativo”. È così che B., uno dei detenuti di Poggioreale, commenta “Miserere. Cantare la Passione”, lo spettacolo ideato e composto da Carlo Faiello, che vede protagonista Isa Danieli, rappresentato stamattina per la prima volta tra le mura del carcere. B. è siciliano, è in cella da appena un mese e deve scontare altri tre anni. Dopo lo spettacolo commenta: “Ho amato molto questa elaborazione dei canti pasquali e questa dimensione teatralizzata. Credo che questi momenti di socialità siano indispensabili. In queste settimane si parla tanto di suicidi, dei detenuti e degli agenti penitenziari, e penso che la salvezza di chi è in cella può avvenire solo quando la pena ha un valore istruttivo, altrimenti è solo un ulteriore danno”. Con l’avvicinarsi della Pasqua, e per il nono anno consecutivo, Carlo Faiello presenta “Miserere. Cantare la Passione”, lo spettacolo-concerto ispirato al dramma della Passione della Settimana Santa, che, oltre questa mattina, tornerà sabato 23 marzo nell’Arciconfraternita della Santissima Trinità dei Pellegrini in via Portamedina alla Pignasecca (alle 19). “Sono andato in processione, ho ascoltato come cantano le signore del popolo e deciso di raccontare questa potente storia di una donna palestinese che vede il figlio arrestato e torturato fino alla morte. Portare qui questo dramma popolare significa mandare il messaggio che attraverso il dolore c’è la possibilità di una vita nuova” - racconta Carlo Faiello - “Io vengo dai Quartieri Spagnoli e conosco bene le dinamiche che portano ad alcune scelte di vita. Io ho solo avuto la fortuna di incontrare la chitarra a dodici anni”. Il progetto, che trova nella produzione della Fondazione Il Canto di Virgilio una sorta di stabilità nei rituali pasquali, è promosso dal garante campano delle persone private della libertà personale, Samuele Cambriello, che dichiara: “È importante portare la musica, la cultura in questi luoghi del dolore, soprattutto nelle settimane prima di Pasqua, a significare una prospettiva di speranza e resurrezione. È un’occasione per dare un messaggio alla cittadinanza e alla politica, che ha dimenticato il carcere. Vogliamo uscire dall’indifferenza, che, come dico spesso, è un proiettile silenzioso che uccide lentamente”. L’opera di Carlo Faiello, con un cast di eccezionale pregio composto da Isa Danieli, Antonella Morea, Monica Assante di Tatisso, Marianita Carfora, Elisabetta D’Acunzo, Antonella Maisto e il Quartetto Santa Chiara, è un oratorio laico ispirato alle antiche processioni/cerimonie del Sud Italia, basata su una serie di ricerche e elaborazioni dedicate a una parte del repertorio musicale para-liturgico della tradizione orale campana. Il focus è l’intreccio di canti e liturgie del Cilento antico, del Vesuviano, di Terra di Lavoro, della Costiera amalfitana, del Sannio e dell’Irpinia. “È sempre una grande emozione essere protagonista di questo allestimento nei giorni delle sacre rappresentazioni della settimana santa”. - dice Isa Danieli - “È la mia prima esibizione qui a Poggiorale e sono curiosa delle sensazioni che avremo. Non faccio alcuna distinzione tra questo pubblico e qualsiasi altro, spero, come ogni volta che salgo sul palco, di emozionare”. Un flusso sonoro di “canto sacro” - di contenuto linguistico dialettale e non, di musica etnica, di espressioni lessicali e gestuali - carico di stratificazioni. A questo canovaccio, si aggiungono le composizioni originali del musicista napoletano. Anche L. a conclusione dello spettacolo commenta: “Sono molto emozionato, stamattina abbiamo vissuto un momento di evasione mentale, perchè se non pensiamo alla libertà dalla cella non riusciamo a reagire. E’ stato breve ma intenso. Poi, Isa Danieli per me è un mito perchè sono suo fan dai tempi della fiction Capri”. L. è napoletano, detenuto da dieci anni a Poggioreale e ne mancano ancora cinque. Alcuni detenuti lo vedono come un esempio, ma, dice, “i veri esempi sono quelli che qui non entrano proprio”. E continua: “Molta gente ha pregiudizi da fuori perchè vede Poggioreale come un mostro di cemento e basta. Io penso che l’inserimento vero e la riabilitazione dagli errori del passato avviene solo quando c’è un confronto con artisti di primo livello, come stamattina”. I saluti e i ringraziamenti del direttore del carcere Carlo Berdini concludono lo spettacolo, dopo una standing ovation e un lungo applauso dei detenuti, con la promessa strappata al Maestro Faiello di tornare nella prossima estate. “La seconda vita”, il film che affronta i pregiudizi dopo il carcere di Angela Calvini Avvenire, 22 marzo 2023 Racconta il tema della giustizia riparativa e del reintegro sociale il delicato lavoro di Vito Palmieri con Marianna Fontana. Nelle sale il 4 aprile, da domani proiezioni nelle carceri italiane L’attrice Marianna Fontana ne “La seconda vita” di Vito Palmieri. Anna ha poco più di 30 anni, gli occhi scuri e inquieti mentre si aggira un po’ spaesata nella piccola e tranquilla città di provincia dove ha deciso di trasferirsi per cambiare vita come bibliotecaria. Nessuno sa che alle sue spalle stanno otto anni di carcere per un reato commesso da adolescente per cui lei ha già pagato, ma il passato la insegue sempre come un’ombra specie nei giudizi della gente. Affronta con delicatezza e poesia, ma anche con il piglio del thriller psicologico, il tema della giustizia riparativa e del reintegro sociale il bel film di Vito Palmieri La seconda vita, tratto da romanzo dello stimato drammaturgo Michele Santeramo che collabora con lui alla sceneggiatura. Dopo l’anteprima al Bari Film Festival l’opera, prodotta da Articolture in collaborazione con Rai Cinema, uscirà nelle sale italiane giovedì 4 aprile, dopo e in concomitanza con un calendario di proiezioni speciali nelle carceri di diverse città italiane: domani nel carcere di Bologna e poi in quelli di Bollate-Milano, Trento e Bolzano, nel carcere femminile di Trani, Volterra e Roma. A dare volto, in un misto di durezza e dolcezza, ad Anna è la brava Marianna Fontana già protagonista di Capri Revolution di Mario Martone. Lei affronta, come dice il regista Vito Palmieri ad Avvenire, “un percorso interiore alla scoperta di sé e della propria anima”. All’interno di questa piccola comunità che Anna riscopre la bellezza della quotidianità, del lavoro ed anche di un nuovo timido amore con l’introverso e dolce Antonio (Giovanni Anzaldo). Ma il passato sembra non lasciarle scampo nel giudizio degli altri, mentre lei stessa non riesce a trovare la forza di incontrare di nuovo sua madre nonostante il percorso di giustizia riparativa che sta portando avanti da anni insieme ai mediatori penali. La seconda vita affronta l’urgente tema del reintegro sociale dopo un’esperienza di detenzione ed è stato realizzato con il coinvolgimento della Casa Circondariale “Dozza - Rocco d’Amato” di Bologna e della Casa di Reclusione di Volterra. Ciò ha permesso l’inclusione di persone in stato detentivo e di mediatori penali nella lavorazione dell’opera e quindi nella sua diffusione, per promuovere la giustizia riparativa come visione alternativa e complementare a sostenere una vera ed efficace inclusione sociale. “Questo è un film sul diritto di avere una vita nuova anche se si ha un passato difficile e oscuro come la nostra Anna - ci spiega il regista Palmieri -. Il suo passato diventa la vera prigione. Dopo una pena, c’è un epilogo, il problema è il giudizio degli altri e l’esclusione da parte della società”. C’è poi il tema attuale della giustizia riparativa che anche un film come questo può aiutare diffondere. “Mi sono avvicinato al tema della giustizia riparativa con il mio ultimo documentario Riparazioni (visibile su Amazon) dove raccontavo la realtà della cooperativa di mediazione C.R.I.S.I di Bari, per me è diventata una chiave di lettura ben oltre la dimensione criminosa: il concetto di responsabilità e di per-dono possono essere la base della quotidianità di chiunque. Durante i corsi di cinema che ho tenuto in alcuni istituti penitenziari italiani, in particolare con il progetto CinEvasioni alla Casa Circondariale di Bologna, mi sono spesso domandato come fosse possibile reinserirsi nella società dopo un lungo periodo di detenzione, come si possa tornare ad amare e a essere amati dopo aver espiato colpe così logoranti”. La colonna sonora de La seconda vita presenta la collaborazione autoriale tra Lorenzo Esposito Fornasari e Cristina Donà sulla canzone originale La vela: sarà presto disponibile sul canale YouTube della cantante anche il videoclip musicale che vede come protagonisti persone detenute della Casa di Reclusione di Volterra e residenti del Comune di Peccioli Bisognerebbe far uscire dal ministero della Giustizia i troppi magistrati che lo occupano di Fausto Cagidemetrio Italia Oggi, 22 marzo 2023 Lo chiede, fra molte altre proposte, il libro “Liberare la giustizia”. Moderato nei toni, ma radicale nella sostanza, il saggio “Liberare la giustizia” (Licosia, 163 pagine, 14 euro) smentisce le rappresentazioni correnti del Terzo Potere. Non ne fa un presidio intoccabile della democrazia, né lo dipinge come un teatro di inquinamenti politici; piuttosto, denuncia la gestione oligarchica e l’ampliamento arbitrario del suo raggio d’azione, che rischia di alterare l’equilibrio con gli altri poteri dello Stato. Il saggio del giurista Ferdinando Cionti e di Dario Fertilio - fondista di questo giornale - non piacerà a chi difende l’esistente in nome della Costituzione “più bella del mondo”. E nemmeno a chi preferirebbe limitarsi a pochi ritocchi. Si parte da una tesi dirompente: la separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri, pur essenziale per la parità processuale tra accusa e difesa, non cambia veramente le cose se non si abolisce allo stesso tempo, per quanto riguarda i giudici, l’Anm, il sindacato politicizzato dei magistrati. Perché esso, attraverso la lottizzazione delle correnti, condiziona in maniera decisiva il Csm, cioè l’organo che amministra la giustizia e dovrebbe assicurare l’autonomia dei suoi membri, ma che soprattutto assegna le cariche e determina le carriere. Ne segue una domanda: riuscirà il ministro Nordio, cui è affidata la riforma generale della giustizia, a sciogliere il nodo indicato da Cionti e Fertilio? O si limiterà a porre qualche paletto di confine tra giudici e pm, senza modificare realmente il meccanismo perverso della politicizzazione e delle spartizioni dei posti? “Liberare la giustizia” lancia anche altre proposte: oltre alla abolizione della obbligatorietà dell’azione penale (che di fatto consente al magistrato di scegliere arbitrariamente quali reati perseguire) sostiene l’elezione diretta, dunque popolare, del Procuratore generale e dei suoi principali sottoposti. In altre parole, il Pm con questa riforma tornerebbe ad essere l’avvocato dello Stato, attuando allo stesso tempo la sovranità popolare enunciata dalla Costituzione. Il Procuratore, come avviene nei sistemi liberaldemocratici, deciderebbe la politica criminale in accordo con il ministro della Giustizia, ma senza dipendere da esso. Cionti e Fertilio puntano inoltre sulle giurie popolari, anch’esse previste dalla Costituzione. Con però un’importante differenza: non dovrebbero limitarsi a partecipare al giudizio come oggi, quando di fatto vengono guidate da un giudice professionale, ma essere realmente titolari della giurisdizione, decidendo autonomamente su innocenza o colpevolezza. Facile prevedere che un fuoco di sbarramento si alzerà contro questa e le altre proposte, trascurando però il valore della democrazia diretta, e nel caso delle giurie popolari la garanzia che ne ricaverebbe l’imputato: essere giudicato da cittadini che non lo conoscono e non rivestiranno più quel ruolo, dunque liberi da pregiudizi nei suoi confronti. Ci sono altre proposte nel libro. L’abolizione del processo speciale del lavoro e l’uscita dal ministero della Giustizia delle centinaia di magistrati che lo occupano; la responsabilità civile per le colpe gravi commesse dai magistrati e il divieto di candidature politiche dove hanno rivestito la loro carica. Nell’insieme, quasi un programma di governo della giustizia all’insegna di una riconoscibile utopia liberale, fondata però su solidi elementi giuridici e considerazioni razionali. Alle tesi avanzate sembra ora doveroso attendersi una risposta dal mondo politico. “Sull’Ucraina la gente la pensa come il Papa: la politica è lontana dalla pubblica opinione” di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 22 marzo 2023 “Sull’Ucraina la gente la pensa come il Papa: la politica è lontana dalla pubblica opinione. E la mancanza di un negoziato spaventa i cittadini”. Abbiamo chiesto a due sondaggisti - Antonio Noto e Roberto Weber - quali effetti può avere sui cittadini la prospettiva di una “preparazione militare-civile rafforzata”, messa per iscritto dai 27 Stati membri nelle conclusioni del Consiglio Ue.Un coinvolgimento diretto dell’Ue nella guerra tra Mosca e Kiev? Rappresenta il peggior timore degli italiani, e ipotizzarlo raffredderà ancora di più la partecipazione alla causa ucraina. Mentre gli appelli pacifisti di Papa Francesco, ignorati e derisi da media e politica, interpretano il sentimento della maggior parte dei cittadini. Ilfattoquotidiano.it ha chiesto a due sondaggisti quali effetti può avere sull’opinione pubblica la prospettiva di una “preparazione militare-civile rafforzata” contro la minaccia russa, messa per iscritto dai leader dei 27 Stati membri nelle conclusioni del Consiglio europeo in corso a Bruxelles. Un documento che incarna il culmine di una lunga escalation sul piano internazionale: nelle scorse settimane il presidente francese Emmanuel Macron ha ventilato un invio di truppe Nato in Ucraina, mentre in Germania si pensa a ripristinare i vecchi rifugi antiaerei. Insomma, l’incubo di una guerra in casa nostra assume contorni sempre più realistici e spaventosi. “Questa presa di posizione dell’Ue corrisponde esattamente al timore degli italiani. Prima era una paura in gran parte immaginaria, con una comunicazione del genere non lo è più: chi ci governa ammette che la possibilità esiste”, riassume Antonio Noto, direttore dell’istituto Noto Sondaggi. L’ansia dei cittadini, aggiunge, spiega anche il drastico calo del consenso al supporto militare all’Ucraina: “Ormai è da più di un anno e mezzo che la maggioranza degli interpellati è stabilmente contraria all’invio di armi: attualmente siamo al 53%, contro un 30% di favorevoli. Ma non perché all’improvviso siano diventati tutti pacifisti: perché hanno paura che possa trasformarsi in un boomerang, coinvolgendo l’Italia, anche territorialmente, in un perimetro di guerra”. In questo senso, ricorda il sondaggista, l’insofferenza della popolazione “ha iniziato a manifestarsi dopo cinque o sei mesi dall’invasione della Russia”. E il motivo è banale: “All’inizio si pensava che armare Kiev servisse a far finire la guerra. Ma ormai sono passati due anni e la guerra c’è ancora. E dopo un po’ i nostri connazionali hanno iniziato ad avere paura che la Russia attaccasse un Paese Nato, o addirittura direttamente l’Italia”. Per questo, spiega, la svolta bellicista dei leader Ue “avrà un impatto disastroso sulla solidarietà alla causa ucraina: gli italiani non sono filorussi, ma temono per la propria pelle. E mentre prima si diceva di armare Kiev per far ritirare Mosca, ora si ammette davanti ai cittadini che l’impegno militare potrà mettere in pericolo la loro incolumità”. Nel panorama internazionale l’unico leader pacifista sembra ormai Papa Francesco, criticatissimo per aver chiesto all’Ucraina di avere il “coraggio di alzare bandiera bianca e negoziare”. Ma in questo momento, chiarisce Noto, “l’opinione del Papa coincide più o meno con quella degli italiani: contro l’invio delle armi e per l’avvio di un processo di pace. La politica non solo ignora il Papa, ma non considera minimamente la pace. Su questo tema è distante ormai da anni dall’opinione pubblica”. Peraltro, sottolinea, “mentre sulla crisi in corso a Gaza esistono dei tavoli di negoziato, sulla guerra ucraina non c’è nulla: questo è poco rassicurante per i cittadini, che sentono la mancanza di un mediatore e sono a favore di un compromesso in cui Kiev rinunci a qualcosa”. Sulla stessa linea l’interpretazione offerta da Roberto Weber, fondatore dell’istituto Ixé. “Sono rimasto stupefatto dal repentino cambio di atteggiamento sulla guerra in Ucraina. All’inizio avevamo un 60% circa di italiani a favore dell’invio di armi, poi c’è stato un rovesciamento: nell’ultimo anno l’appoggio è andato via via in calando e ora restiamo con un 35% di opinione pubblica favorevole, mentre il 65% è contrario”, spiega. Del fronte pacifista, nota però, “colpisce la totale passività: questo 65% non si mobilita, non scende in piazza e quindi non incide”. Un disinteresse che a Weber ricorda addirittura “quello degli anni Trenta del Novecento”. La prospettiva sempre più concreta di un conflitto non sarà in grado di svegliare l’opinione pubblica? “Sono pessimista, perché non c’è un’offerta politica carismatica capace di coagulare questo movimento. Nella prima Repubblica tutti i grandi partiti, dalla Dc al Pci al Psi, avevano una forte cultura pacifista: quella dimensione si è smarrita, anche perché gli elettori non hanno più un ricordo diretto della guerra. Quando sono nato io, nel ‘52, quel ricordo era ancora vivo e definiva un certo tipo di coscienza comune, che andava al di là della linea politica dei singoli. Guardi come hanno trattato il Papa, che non è mica un comunista…”. Ecco, appunto: perché questo disprezzo nei confronti del pontefice? La spiegazione di Weber è caustica: “Ho fatto tanti anni in tv e nei salotti ci sono sempre le stesse facce: un universo ristretto, molto autoreferenziale, fatto di giornalisti che non vanno in giro e non parlano mai con la gente, frustrati per aver perso il ruolo di centralità. Io penso invece che la posizione del Papa sia molto vicina a quella della cittadinanza”. Appello del Consiglio d’Europa alla Germania: “Fermare le disparità sociali” di Andrea M. Jarach Il Fatto Quotidiano, 22 marzo 2023 “Povertà sproporzionata rispetto alla ricchezza del Paese”. Fermare le disparità sociali. L’appello è rivolto alla Germania dal Consiglio d’Europa. Gli interventi di riforma del welfare, con l’aumento di prestazioni sociali e più possibilità di formazione dei disoccupati, non sono bastati: la commissaria Dunja Mijatovic - che ha la delega per i diritti umani dell’organizzazione di difesa dei diritti umani (che non fa parte delle istituzioni Ue) - sottolinea la necessità di ulteriori sforzi nella lotta a povertà, senzatetto ed emarginazione, sproporzionati alla ricchezza del Paese, e di cui le maggiori vittime sono bambini, anziani e portatori di handicap. In uno studio pubblicato dal Forum for a new economy, di cui riferisce il Guardian, gli economisti Isabella Weber dell’Università del Massachussets (fu impegnata nella commissione che consigliò il Governo tedesco nel fissare un tetto ai prezzi energetici) e Tom Krebs (già consigliere del cancelliere Olaf Scholz) registrano che lo shock energetico provocato dall’invasione russa dell’Ucraina ha portato al più grande crollo del tenore di vita tedesco dalla seconda guerra mondiale ed una flessione della produzione economica paragonabile alla crisi finanziaria del 2008. Il Fondo monetario internazionale prevede che, dopo essere già entrata in una fase di recessione tecnica, l’economia tedesca nel 2024-25 avrà una crescita inferiore a quella di qualsiasi altra economia avanzata, a parte forse l’Argentina. Il ministro dell’Economia Robert Habeck ha previsto una crescita del Pil quest’anno limitata allo 0,2%: in autunno sperava nell’1,3%. Non è inconsistente, perciò, l’appello di Mijatovic per passi decisi per spezzare il cerchio della povertà. Secondo dati riportati dalla ZdF nel luglio scorso si registravano circa 684mila pensionati costretti a ricorrere agli aiuti sociali, con un aumento del 15% rispetto all’anno precedente. Dal primo luglio a calmierare la situazione interverrà perlomeno un aumento del 4,57% alle pensioni. In una presa di posizione il Governo tedesco ha risposto di “condividere le ansie” della commissaria Mijatovic per l’aumento dei senzatetto e di aver concluso un Piano Nazionale per superare la carenza di alloggi entro il 2030. Per i rincari tuttavia molti cantieri sono rimasti fermi e nel 2023 mancavano più di 700mila nuove abitazioni. Il colosso immobiliare Vonovia ha presentato a bilancio perdite per quasi 7 miliardi ed il gruppo Signa è fallito. Associazioni di inquilini, oberate dagli aumenti degli affitti, società edilizie e gruppi sociali, hanno chiesto al Governo di stanziare almeno 50 miliardi per l’edilizia entro il 2025. Il Paese è attraversato da ondate di scioperi per il rinnovo dei contratti nei settori dei trasporti urbani, ferrovie, aerei, medici ospedalieri. Weber e Krebs constatano nel loro lavoro un calo dei salari reali del 4% tra aprile 2002 e marzo 2023, ed una contrazione della produzione del 4,1%. Tenendo conto anche delle flessioni durante la pandemia, computano il calo effettivo alla fine del 2023 rispettivamente nel 10% e nel 7%. Il freno del prezzo dell’energia introdotto dal Governo tedesco alla fine del 2002 è stata la risposta giusta, ma il ritardo nell’intervenire è stato concausa della crescita della AfD. Un’ulteriore incapacità di proteggere l’industria tedesca dall’impennata dei prezzi energetici, indicano, potrebbe trasformarsi nella perdita di un decennio di sviluppo per la Germania ed alimentare ulteriormente l’ascesa della populista AfD. Non a caso anche Mijatovic raccomanda di prestare attenzione al razzismo crescente, idoneo a destabilizzare le istituzioni democratiche. Quanto siano fragili queste ultime lo rimarca un rapporto della Fondazione Bertelsmann: su 137 Paesi ci sono solo 63 democrazie contro 74 autocrazie, è il livello più basso da vent’anni. L’esclusione sociale poi, è massiccia in 83 Paesi su 137. Morte Paciolla, i genitori al Senato: “La politica ci aiuti a fare giustizia” di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 22 marzo 2023 L’audizione davanti alla Commissione dei Diritti Umani e la richiesta di aiuto “per ottenere giustizia e verità” sulla tragica fine del cooperante nel 2020 in Colombia. “Mario era un giovane uomo. innamorato della vita solare, dai molteplici interessi, professionista serio e scrupoloso”. Con queste parole Anna Motta, madre di Mario Paciolla, giornalista, attivista e cooperante, morto in Colombia nel 2020, ha iniziato giovedì, insieme con il marito Giuseppe, l’audizione alla Commissione dei diritti umani del Senato in cui ha raccontato la triste vicenda della morte del figlio che era nel Paese sudamericano come osservatore Onu dell’accordo tra governo colombiano e Farc. “Aveva deciso di tornare in Europa, era tutto pronto per la partenza poi il 15 luglio è arrivata quella telefonata, è stato l’unico contatto che abbiamo avuto con l’Onu. Da subito abbiamo capito che era stato ucciso, la scena del crimine era stata compromessa, sono spariti degli oggetti - ha raccontato la donna -, tutti hanno il diritto di partire ma anche di tornare. Ma non come è tornato Mario, in una cassa di legno nero come quelle della frutta. La politica deve tutelare di più gli italiani all’estero”. Una testimonianza che ha scosso i senatori e le senatrici presenti. A cominciare da Marco Lombardo che è stato il promotore dell’iniziativa: “Una persona come Mario che amava i diritti umani oggi avrebbe voluto essere qui e ci avrebbe chiedo di unirci in questa battaglia - ha detto - che riguarda tutti quelli che vogliono fare cooperazione all’estero”. Stefania Pucciarelli, presidente commissione Diritti umani a palazzo Madama, ha assicurato che “i componenti della commissione Diritti umani del Senato accolgono le richieste dei genitori del cooperante di ottenere verità e giustizia”. È intervenuta anche Ilaria Cucchi, particolarmente commossa: “La politica è al vostro fianco”. Mentre Filippo Sensi ha definito l’audizione “una lezione di dignità, che ci impegna a fare tutto il possibile per dare verità e giustizia a questi due genitori. Per Mario e per i diritti di tutti”. I coniugi Paciolla hanno anche sottolineato la latitanza dell’Onu sulla vicenda: “Noi non lo abbiamo mai sentito. questa immunità diplomatica di cui godono i collaboratori dell’Onu non può diventare un ostacolo a conoscere la verità”. Su questo tema Pucciarelli ha auspicato che “le organizzazioni delle Nazioni unite vogliano collaborare appieno con i magistrati italiani per fornire ogni elemento utile rispetto a una morte di cui restano ancora da accertare le circostanze e le eventuali responsabilità penali”.