Quei suicidi in cella e la politica cieca di Francesco Petrelli* La Stampa, 21 marzo 2023 La politica non ha mai avuto un rapporto sano con il carcere. Da argomento utile per ottenere un facile consenso elettorale a gogna alla quale esporre chi abbia manifestato improvvide intenzioni di attenuazione dei rigori delle pene. Difficile immaginare una possibile riconciliazione fra politica ed emergenza carceri che ponga al centro della questione giustizia una riforma condivisa, attraverso la quale ricondurre il carcere alle finalità rieducative cui la Costituzione lo aveva destinato. La strada dell’attuazione dei principi costituzionali non è in discesa e i tempi non appaiono propizi per un superamento degli schieramenti che hanno polarizzato l’opinione pubblica, lasciando prevalere nel linguaggio corrente formule contrarie ad una interpretazione del carcere come strumento di recupero e di risocializzazione. Corrono infatti nella collettività slogan di chiara matrice viscerale ed istintiva, come quelli del marcire in galera, del buttare via le chiavi o della certezza della pena intesa come vendetta sociale, che rendono difficile aprire un varco nel tifo da curva che pervade questo genere di argomenti, dotati di una forte carica di emotività ma anche di un altissimo quoziente di politicità. Ma è proprio per questa ragione che deve sottolinearsi il nesso che corre fra l’esigenza di sicurezza che pervade la collettività e la restituzione del carcere ad un modello volto al reinserimento del condannato. E deve, in particolare, sventarsi quella truffa delle etichette in virtù della quale si fa largo nell’opinione pubblica la formula più carcere più sicurezza. Nulla di più errato e di più pericoloso, perché tutte le statistiche dimostrano che laddove il condannato fruisce di misure alternative alla detenzione, minori sono le possibilità di recidiva. Quanto meno il condannato fruisce di tali misure e tanto maggiore è la probabilità che torni a delinquere. Secondo la magnifica metafora escogitata da un giurista del secolo scorso, risocializzare il condannato tenendolo in carcere è come voler insegnare a qualcuno a nuotare tenendolo fuori dall’acqua! Una detenzione disumanizzante, incapace di conservare e proteggere la dignità del condannato, una privazione della libertà che non tenga conto delle sue esigenze e che divenga uno strumento alienante che conduce alla disperazione e al suicidio, non è compatibile con una società civile e non ha nulla a che vedere con la sicurezza. Per questo motivo l’avvocatura penale ha denunciato con forza il dramma dei 25 suicidi che sono susseguiti, con la cadenza di uno ogni tre giorni, in questo nuovo anno, reclamando dalla politica un’assunzione di responsabilità rispetto a vite delle quali lo Stato dovrebbe essere garante, adottando con urgenza almeno quegli strumenti di riduzione del fenomeno del sovraffollamento, che sono all’attenzione del Parlamento. Si tratta di vite di giovani e meno giovani, di condannati definitivi e di imputati in attesa di giudizio, di cui l’intera collettività deve farsi carico, cessando di immaginare il carcere come una discarica sociale per i propri fallimenti. *Presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane L’emergenza carcere in piazza: la politica non può più ignorarla di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 marzo 2023 A Roma la manifestazione organizzata dall’Unione Camere penali italiane: avvocati, politici, attivisti e cittadini intervenuti hanno sottolineato la drammatica situazione del sistema penitenziario. Avvocati, politici, attivisti e cittadini, stanchi di assistere impotenti alla crisi che attanaglia il sistema carcerario italiano, hanno trovato voce nella manifestazione di oggi organizzata a Roma in Piazza dei Santi Apostoli dall’Unione Camere penali italiane. Le parole pronunciate dagli intervenuti sono un grido d’allarme che risuona nell’animo di ogni persona consapevole del grave allarme sui suicidi e sul sovraffollamento nelle carceri italiane. Francesco Petrelli, presidente dell’Ucpi, ha aperto la manifestazione con un discorso incisivo e carico di urgenza. Ha iniziato esprimendo profonda preoccupazione per il crescente numero di suicidi nelle carceri, definendo il dato atroce e sottolineando la frequenza allarmante con cui si sono verificati negli ultimi mesi, con un suicidio ogni tre giorni. Ha evidenziato che questa emergenza non può essere trascurata, considerando anche il continuo aumento del sovraffollamento carcerario, che si avvia a ripetere le stesse condizioni che hanno portato alla condanna dell’Italia con la sentenza Torreggiani per trattamenti inumani e degradanti dei detenuti. Il presidente dei penalisti ha insistito sul fatto che non c’è più tempo da perdere e che è necessario che la politica assuma la responsabilità di affrontare questa crisi che coinvolge l’intero sistema carcerario. Ha ribadito che uno Stato civile non può esimersi dal garantire l’integrità fisica e la vita dei detenuti, sottolineando l’importanza di adottare azioni immediate e norme urgenti per porre fine a questa condizione di illegalità. Inoltre, Petrelli ha citato la proposta di Roberto Giacchetti di Italia Viva e Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino, che mira a risolvere il problema del sovraffollamento con la liberazione anticipata speciale come misura urgente, seppur temporanea, in attesa di una riforma più ampia e strutturale del sistema carcerario. Dal palco Rita Bernardini ha riconosciuto la presenza numerosa di persone alla manifestazione, sottolineando l’importanza di unirsi per affrontare la questione del sistema carcerario. Ha ringraziato l’Ucpi per aver organizzato l’evento pubblico permettendo a tutti di mostrare il proprio impegno. Durante il suo intervento ha evocato le parole di Marco Pannella del 2013, dopo la sentenza Torreggiani, quando disse che “l’Italia non era uno Stato di Diritto né una democrazia”. Bernardini ha poi ricordato come, dopo poco tempo, il presidente della Repubblica Napolitano avesse fatto un appello, invitando il Parlamento a intervenire con un provvedimento di amnistia e indulto. Tuttavia, nonostante gli applausi ricevuti, l’appello non ha portato a risultati concreti, evidenziando la mancanza di volontà politica nel risolvere il problema. Ha poi criticato i governi successivi, che non hanno affrontato seriamente la questione carceraria per timore di perdere consenso elettorale. Nonostante alcuni tentativi di riforma, come gli stati generali e le proposte del ministro Orlando, il problema è rimasto irrisolto. Infine, Bernardini ha sottolineato l’importanza di perseverare nell’impegno, invitando tutti a continuare la lotta con determinazione e non violenza, cercando di coinvolgere sia la maggioranza che l’opposizione politica per trovare una soluzione condivisa e duratura. Sul palco anche Pierantonio Zanettin di Forza Italia, l’unico esponente della maggioranza presente alla manifestazione. Ha sottolineato che fa parte di un partito garantista, e ha personalmente presentato due question time al ministro Nordio sulla tragica situazione dei suicidi nelle carceri, definendola “una tragedia immane”. L’obiettivo principale, così afferma, è evitare che il 2024 diventi l’anno record per i suicidi nelle carceri italiane. Nel contempo ha riconosciuto che trovare soluzioni immediate non è semplice, poiché all’interno della maggioranza ci sono diverse sensibilità. Tuttavia, ha assicurato che ci sarà un confronto all’interno della maggioranza per trovare un compromesso tra le diverse posizioni. Non poteva mancare Roberto Giachetti di Italia Viva, protagonista della manifestazione, essendo il promotore della legge sulla liberazione anticipata che è al vaglio della commissione Giustizia, risultato ottenuto anche grazie allo sciopero della fame. Un punto chiave del suo intervento è stato l’invito a considerare l’amnistia come parte fondamentale della soluzione per ridurre il sovraffollamento carcerario. Condizioni politiche che non esistono, ma dovute dalla norma che prevede due terzi del Parlamento. Subito gli ha fatto eco Riccardo Magi di + Europa, sottolineando che si tratta di un quorum che non c’è neanche per modificare la Costituzione. Sul palco ha ricordato di essere promotore di un’altra legge fondamentale (sottoscritta da quasi tutta l’opposizione), quella delle strutture alternative alla classica detenzione, destinate a chi ha una pena breve. E ha ricordato come il capo del Dap, in audizione in commissione giustizia, si è detto favorevole. È intervenuta anche Deborah Serracchiani del Pd, la quale ha tenuto a ringraziare Giachetti e Magi per essere stati promotori di due leggi che trovano supporto dal suo partito. Ha ricordato che l’allarme non riguarda solamente la situazione attuale all’interno delle carceri italiane, caratterizzata dalla mancanza di cure, dall’attenzione alla rieducazione e dalla volontà di svuotare l’articolo 27 della Costituzione, che sancisce il fine rieducativo della pena. Ha infatti voluto sottolineare la preoccupazione per le proposte del governo di modifica del codice Rocco, che prevederebbero l’ingresso in carcere di donne incinte, così come per il decreto Caivano che sta smantellando il carcere minorile, fino a poco tempo fa un fiore all’occhiello del nostro Paese. Significativo l’intervento dell’avvocata Irma Conti, componente componente del Garante Nazionale delle persone private della libertà personale: “dall’inizio dell’anno - ha detto - si sono sventati oltre 400 tentativi di suicidio, come abbiamo appreso anche visitando dall’inizio de nostro mandato oltre 20 istituti di pena. Il tasso di sovraffollamento è in media al 129% ma ci sono in totale 23086 detenuti con un massimo di pena da espiare fino ad un massimo di tre anni di cui una elevata percentuale potrebbe uscire, attraverso un’opera di sburocratizzazione della macchina giudiziaria”. La manifestazione delle Camere Penali è stata un importante momento di confronto e di denuncia. Ha dimostrato che la questione del carcere è sentita da una parte importante della società civile e che c’è una forte richiesta di cambiamento. Suicidi in carcere, penalisti in piazza. “La politica assuma le sue responsabilità” di Paolo Pandolfini Il Riformista, 21 marzo 2023 Il monito del presidente Petrelli: “Uno Stato civile non può non assumersi la responsabilità della vita dei detenuti”. L’allarme del Partito Radicale. “La politica deve assumersi la responsabilità di questa crisi: uno Stato civile non può non assumersi la responsabilità della vita dei detenuti”, ha ricordato il presidente dell’Unione delle Camere penali, l’avvocato romano Francesco Petrelli, aprendo ieri a Roma la manifestazione dal titolo “Non c’è più tempo” per denunciare l’emergenza delle carceri italiane. L’iniziativa è stata accompagnata da una giornata di astensione dalle udienze. “Non c’è più tempo per il numero e la frequenza dei suicidi, uno ogni tre giorni, per il sovraffollamento, che continua ad aumentare andando verso la soglia che ha fatto condannare l’Italia dalla Cedu”, ha sottolineato Petrelli, indicando che ogni mese “ci sono 400-500 ingressi”. La piaga dei suicidi in carcere, già 26 dall’inizio dell’anno, è del tutto dimenticata dalla maggioranza di governo (ieri alla manifestazione era presente solo il senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin). Il Partito Radicale da almeno due anni denuncia come la malattia psichiatrica tra i detenuti sia divenuta la più grave criticità, che assieme al sovraffollamento si è trasformata in arma a orologeria, considerata la recente circolare del Dap che ha chiuso i detenuti in cella, eliminando ogni possibilità per loro di trascorrere la giornata nei corridoi delle sezioni. E ciò anche ovviando in termini per lo più pratici ai mai superati limiti dei 9 mq della nota sentenza Torreggiani che nel 2013 condannava l’Italia a risarcire i detenuti per violazione dell’articolo 3 Cedu per i trattamenti inumani e degradanti di una detenzione in sovraffollamento. “Si può dire che in tema di sovraffollamento siamo corsi indietro rispetto a questa pronuncia”, ha affermato Simona Giannetti, avvocata penalista di Milano e consigliere generale del Partito Radicale, che nell’ultimo anno ha visitato le celle di Opera e San Vittore. “In tutte le occasioni abbiamo denunciato su Radio Radicale la presenza della terza branda in ogni cella, con l’impossibilità dei detenuti di deambularvi”, ha aggiunto Giannetti. Ed è di questa settimana il comunicato del Partito Radicale che ha definito “strage di Stato” le morti in carcere. “II sovraffollamento strutturale, i malati psichiatrici e non, ristretti e non curati adeguatamente, il carcere preventivo, gli ergastoli bianchi, i tanti troppi suicidi, i pestaggi, come quello di Foggia, sono la cifra della strage di diritto e di vite umane che si consuma nelle carceri italiane”, si legge nella nota del Partito Radicale. Sul punto è intervenuto anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ribadendo la necessità di “interventi urgenti” e richiamando l’attenzione delle istituzioni affinché “non si sentano estranee a quel mondo”. Nell’ordine delle urgenze, Mattarella ha ribadito la priorità alle criticità del sovraffollamento e dell’emergenza sanitaria. La Lombardia è in cima alle Regioni con il maggior sovraffollamento con il 140% dei detenuti, preceduta solo dalla Puglia che fa da capolista con il 150%. “Governo, ministro della Giustizia, Parlamento non possano non tenere in conto che servono misure urgenti e di coraggio politico, serve un indulto, serve dare seguito alle richieste di misure alternative e non mandare in carcere chi ha pene prossime all’anno e mezzo da scontare, serve diffondere in modo effettivo e non solo nei convegni la pratica di non abusare della custodia cautelare in carcere”, hanno sottolineato i penalisti che sono intervenuti ieri alla manifestazione. Il risultato di anni di politica carcerocentrica, al fianco della carenza di posti nelle Rems, ha fatto diventare il carcere “una discarica sociale”. A San Vittore l’80% della popolazione detenuta è caratterizzata da disagio psichiatrico, con notevole e non dovuto aggravio delle condizioni di afflizione della detenzione nel suo complesso. Senza dimenticare, poi, le difficoltà della polizia penitenziaria, con tre agenti morti per suicidio dall’inizio dell’anno. Sul fronte riforma della giustizia, la deputata di Italia Viva Maria Elena Boschi ha chiesto invece ieri un segnale sulla separazione delle carriere. “Tanto rumore per nulla: dopo gli annunci un nulla di fatto. Ora pare che il governo assuma una sua iniziativa e quindi è di nuovo tutto fermo nonostante ci siano varie proposte parlamentari incardinate da mesi. Sembra il gioco dell’oca. Non servono passi indietro, ma passi avanti per portare a compimento una riforma che il Paese attende da troppi anni”, ha dichiarato Boschi. Suicidi in carcere. Penalisti in lotta, destra assente di Angela Stella L’Unità, 21 marzo 2023 Un suicidio ogni tre giorni. Petrelli: “Non c’è più tempo. La politica si assuma le sue responsabilità”. Presenti Pd, Iv, +Europa. Della maggioranza solo Zanettin (Fi). Ieri a Roma si è tenuta la manifestazione nazionale organizzata dall’Unione Camere Penali per sensibilizzare la politica sul tema dei suicidi in carcere, arrivati a 25 dall’inizio dell’anno. Ha aperto la maratona oratoria il presidente dell’Ucpi Francesco Petrelli: “Non c’è più tempo. Ormai c’è una conta atroce per il numero e per la frequenza con cui si stanno susseguendo i suicidi. Nell’ultimo mese uno ogni tre giorni. Non solo aumenta il dato del sovraffollamento ma abbiamo constatato ingressi di 400 o 500 detenuti per ogni mese che è un dato ulteriormente allarmante. Il sovraffollamento fa diminuire i diritti per i detenuti in condizione di umiliazione e disperazione, spesso causa di quei gesti estremi. La politica si assuma la responsabilità di questa situazione di crisi. Uno Stato civile non può non assumersi la responsabilità dell’integrità fisica e della vita dei detenuti. Occorrono norme urgenti, come la proposta Giachetti (Iv) Bernardini (Nessuno Tocchi Caino) per porre fine a questa situazione di illegalità, a seguire una riforma complessiva”. Subito dopo è intervenuta proprio Rita Bernardini: “Quando nelle carceri si verificano trattamenti inumani e degradanti siamo lontani da una democrazia”. Ha poi ricordato il monito del 2013 dell’ex presidente della Repubblica Napolitano al Parlamento in cui chiedeva amnistia e indulto: “Tutti applaudirono ma nessuno fece nulla per la paura di perdere voti. Dobbiamo essere determinati. È facile che tutto si insabbi in queste ore, invece noi con maggioranza e opposizione dobbiamo evitare questo”. All’evento sono stati invitati tutti i partiti politici ma della maggioranza è intervenuto solo il senatore Pierantonio Zanettin (Forza Italia): “Massimo impegno per quanto ci riguarda. Personalmente ho presentato due question time sui suicidi che sono tragedie immani. Dobbiamo evitare che il 2024 sia l’anno record. Il Ministro ha assicurato impegno. Poi le soluzioni non sono semplici. Nella maggioranza c’è un confronto, occorrerà trovare un compromesso”. Dopo di lui l’onorevole di Italia Viva Roberto Giachetti: “So benissimo che i tempi per amnistia e indulto non sono adatti ma quando lo saranno? Non portano voti ma portano civiltà. In galera ci sono persone che vivono in uno stato animale”. Sulla sua riforma elaborata insieme a Nessuno Tocchi Caino ha spiegato: “C’è un dialogo anche con la maggioranza. Dovrebbe andare in aula ad aprile e i perni sono due: una misura che guarda al domani, ossia portare la liberazione anticipata a 60 giorni, e l’altra, per intervenire sull’emergenza, che deve avere inevitabilmente una capacità retroattiva portando a 75 giorni la premialità per sgonfiare immediatamente la pressione sulle carceri”. Ha preso poi la parola la deputata Debora Serracchiani, responsabile giustizia dem: “I nostri parlamentari vanno ogni settimana in carcere perché vogliamo far valere le nostre prerogative. Noi, come Pd, supportiamo le pdl di Magi e Giachetti. Ma bisogna stare attenti anche al fatto che esiste la volontà politica di togliere dall’art. 27 Cost. il fine rieducativo della pena, si vuole cambiare il codice Rocco tenendo le donne incinte in carcere, il numero dei giovani negli istituti minorili sta aumentando dopo il dl Caivano: la battaglia dovrà andare avanti anche su questi fronti”. A seguire l’onorevole Riccardo Magi di +Europa: “Occorre essere concreti e poco retorici. Dobbiamo far approvare la proposta Giachetti ma dobbiamo alzare il tiro con l’amnistia e l’indulto. Dal 1992 serve un quorum rafforzato che non c’è neanche per modificare la Costituzione. Da qui dobbiamo ripartire”. Su questo è intervenuto ancora Petrelli: “Quel quorum io lo utilizzerei per le norme che aumentano le pene e introducono nuovi reati”. Per il Garante Nazionale delle persone private della libertà personale è intervenuta l’avvocato Irma Conti: “Dall’inizio dell’anno si sono sventati oltre 400 tentativi di suicidio, come abbiamo appreso anche visitando dall’inizio del nostro mandato oltre 20 istituti di pena. Il tasso di sovraffollamento è in media al 129% ma ci sono in totale 23086 detenuti con un massimo di pena da espiare fino a tre anni di cui una elevata percentuale potrebbe uscire, attraverso un’opera di sburocratizzazione della macchina giudiziaria”. Poi le testimonianze a partire da quella di Marco Costantini, Sbarre di Zucchero: quelli in carcere “non sono suicidi ma omicidi di Stato”. Dopo Marco Sorbara, ex Consigliere regionale della Valle d’Aosta, assolto dopo due anni di custodia cautelare: “Anche da innocente ho pensato al suicidio. Ma il carcere ti uccide anche quando esci, come successo a due ragazzi conosciuti dietro le sbarre perché ti segna a vita”. È intervenuto infine Gianpaolo Catanzariti, responsabile Osservatorio Carcere Ucpi: “Faccio un appello al presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia affinché porti l’intera magistratura su amnistia e indulto”. Proprio della magistratura è intervenuto con una nota il Segretario di AreaDg, corrente progressista dell’Anm, Ciccio Zaccaro: “Le Camere penali scioperano e propongono un procedimento di clemenza. Può essere una soluzione tampone. Io però penserei più a legalizzare e depenalizzare la vendita di droghe leggere. Il 34,3% della popolazione carceraria italiana è detenuta per reati in materia di stupefacenti, il doppio quasi della percentuale europea che è pari al 18,4 %. Se si legalizzassero le sostanze stupefacenti leggere si abbatterebbero i carichi dei tribunali”. Hanno aderito alla manifestazione anche l’associazione Antigone, la Camera Penale di Roma con il Presidente Gaetano Scalise, Extrema Ratio, Arci, Filippo Blengino, tesoriere di Radicali Italiani. Il vice ministro Sisto: “Sui suicidi in carcere l’attenzione del Ministero è massima” Agenparl, 21 marzo 2023 “Sul drammatico fenomeno dei suicidi nelle carceri, oggetto della manifestazione delle Camere penali, l’impegno che caratterizza l’attività del Ministero della Giustizia è massimo. È stato costituito un gruppo di lavoro sulla prevenzione dei suicidi che vede impegnati autorevoli psicologi e psichiatri per analizzare, partendo dal 2022, ogni episodio al fine di verificarne cause personali e ambientali. È stato potenziato l’organico del personale del Terzo settore con significativi incrementi dei volontari, utilissimi in proposito, anche nel 2023. Ed è stata attivata la rete dei cappellani militari per avere anche da tali referenti notizie in merito”. Lo dichiara il vice ministro alla Giustizia Francesco Paolo Sisto. “Notevole rilevanza è stata data all’incremento delle occasioni lavorative e sono in partenza le linee guida per la piattaforma nazionale di avvio al lavoro con in Cnel, con oltre 150 panelist. Sono state attivate interlocuzioni puntuali con i provveditorati per la migliore gestione dei trasferimenti e con le direzioni degli istituti di pena per favorire colloqui e telefonate con i familiari, con prossimi interventi normativi che consentiranno ai direttori, esclusi i reati più gravi, di andare anche oltre i numeri previsti dalla legge. Innegabili sono i problemi derivanti dal supporto sanitario affidato alle ASL, compreso il tema del trattamento dei malati psichiatrici. Per raggiungere l’obiettivo di migliorare i rapporti con le regioni e garantire una più efficace tutela sanitaria, la battaglia è senza sosta. Ecco perché iniziative come quelle delle Camere penali rafforzano il convincimento della necessaria sinergia nell’interesse del rispetto dei diritti di coloro che, ai sensi dell’articolo 27 della Costituzione, debbono sì espiare ma, al contempo, essere rispettati e rieducati”, conclude. Zaccaro: “Contro il sovraffollamento delle carceri occorre legalizzare le droghe leggere” Il Sole 24 Ore, 21 marzo 2023 “Il sovraffollamento carcerario ed il numero dei suicidi sono uno scandalo. Le Camere penali scioperano e propongono un procedimento di clemenza. Può essere una soluzione tampone”. A dirlo è il segretario di AreaDg, l’associazione che riunisce le toghe progressiste, Giovanni Zaccaro. “Io - aggiunge Zaccaro - però penserei più a legalizzare e depenalizzare la vendita di droghe leggere. Il 34,3% della popolazione carceraria italiana è detenuta per reati in materia di stupefacenti, il doppio quasi della percentuale europea che è pari al 18,4%”. “Se si legalizzassero le sostanze stupefacenti leggere si abbatterebbero i carichi dei tribunali senza dovere ricorrere all’arruolamento straordinario di magistrati che non garantirebbe la necessaria professionalità ed indipendenza, si ridurrebbe in modo molto sensibile la popolazione carceraria consentendo così di affrontare meglio i problemi dell’esecuzione penale ed attuare l’art 27 della Costituzione, si toglierebbe una fonte di reddito e di potere alla criminalità organizzata”, conclude Zaccaro. Solo chiacchiere sui suicidi in cella di Francesco Storace Libero, 21 marzo 2023 Il record (85 morti) col passato governo. Ostellari (Lega): ferite che stiamo curando. Riecco gli amnistiatori, gli indultisti, i senzacelle. Da ieri una nuova emergenza, quella dei suicidi nelle carceri. È decretata dalle Camere penali, assieme a un po’ di associazioni e a diversi parlamentari di sinistra. In particolare sono questi ultimi a recitare la parte dei sensibili, ma hanno dimenticato un po’ di dati. È dal 1990 che vengono raccolte le tristi cifre sui suicidi di detenuti. In Italia il picco massimo in un anno è stato di 85 morti, ma nel 2022 (governo dei “migliori” di Draghi e Cartabia). La media nazionale di suicidi di detenuti ogni diecimila arriva al 10, quella europea è al 10,7. In Estonia ne muoiono 22, in Germania e Austria 17, in Francia 16 e giù per li rami. Stanno meglio di noi Belgio, Spagna ed Ungheria, assieme ad altri, tanto per darci un’idea. Chiacchierando con il sottosegretario della giustizia Andrea Ostellari, esponente della Lega e che ha la delega del governo al trattamento dei detenuti, si alza la saracinesca: “Io sono contrario a sconti e svuotacarceri”. Eppure protestano. Ma con poche ragioni, pare di capire. Persino nell’anno record di suicidi registrati in Italia eravamo comunque sotto la media europea, raccontano i faldoni di viale Arenula. Insomma, “la sinistra sta cavalcando il tema solo con chiacchiere”. Cerchiamo di capirne di più. E Ostellari non si fa pregare: “La sinistra strumentalizza i morti. I suicidi nelle carceri sono una ferita antica, che solo questo governo ha iniziato a curare. Con alcune cose già fatte”. Elenchiamole. “Penso alla circolare sulla media sicurezza che prevede la permanenza in cella di chi non è impegnato in attività trattamentali (lavoro, studio, etc.), all’assunzione di educatori, che ha consentito per la prima volta di raggiungere la copertura delle piante organiche al 100%, alla cabina di regia con il Cnel, per aumentare le opportunità di lavoro in carcere, coinvolgendo direttamente aziende, terzo settore e centri per l’impiego. Non va dimenticata anche la circolare sul trasferimento fuori regione dei detenuti violenti, che funziona come deterrente e comincia a dare i suoi frutti”. C’è altro ancora però. A partire da una serie di provvedimenti che presto verranno alla luce. Come il nuovo regolamento sulle telefonate, che passeranno da 4 a 6 al mese, con la possibilità per i direttori di concederne anche di più, a scopo trattamentale e solo a chi se le merita. Come le modifiche alla legge Smuraglia sul lavoro carcerario, già inserite nel ddl Sicurezza, per facilitare ulteriormente le imprese che vogliono insediare lavorazioni dentro i penitenziari. E come l’istituzione di percorsi differenziati per detenuti a fine pena, in comunità, o con patologie psichiatriche e comportamentali, in istituti specializzati. E a chi chiede clemenza che diciamo? “Un banale liberi tutti riverserebbe sulla comunità dei cittadini i problemi che non solo il ministero della Giustizia, ma anche le altre istituzioni, non hanno saputo risolvere negli scorsi anni. Il tema dell’esecuzione penale riguarda tutti. Compreso il sistema sanitario. Gran parte dei suicidi riguardano persone malate che forse non dovrebbero stare in un penitenziario, ma in strutture diverse. Sono peraltro contrario alla proposta di Roberto Giachetti contro il sovraffollamento delle carceri. Invece di aumentare gli sconti di pena già previsti per buona condotta, invertiamo il meccanismo con cui vengono concessi, a legislazione vigente, alleggerendo di molto la pressione sui Tribunali di sorveglianza. Oggi è il detenuto a fare istanza e ne arrivano circa 250.000 l’anno. Da domani lo sconto verrà negato solo su segnalazione di comportamenti antisociali o contrari al patto trattamentale”. Significa carcere rieducativo. L’ex Capo del Dap Ardita: “Il regime delle celle aperte ha dato le prigioni ai boss” di Saul Caia Il Fatto Quotidiano, 21 marzo 2023 Droga, armi e telefonini che entrano nei penitenziari italiani come se fossero il mercato rionale o, più propriamente, la piazza di spaccio del quartiere. Uno spaccato, quello esposto martedì dal procuratore di Napoli, Nicola Gratteri, su cui Il Fatto ha realizzato ieri un ampio approfondimento, che pone seri dubbi sullo stato di salute dei penitenziari italiani. Per il procuratore aggiunto di Catania, Sebastiano Ardita, già direttore generale del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) tra il 2002 e il 2011, “emerge oramai da anni un controllo da parte di esponenti mafiosi rispetto alla vita nelle carceri. Una sorta di autogestione affidata alle élite criminali grazie al regime delle celle aperte, che dà libera circolazione ai detenuti. Così da dieci anni lo Stato arretra rovinando la vita di tutti: agenti e normali detenuti. E anche il fatto che il recente tentativo del Dap di tornare a un regime più consono per i mafiosi stia trovando enormi difficoltà, ne è la dimostrazione. Chi conosce questo mondo sa bene il motivo. Sembrano esserci numerose falle nei controlli, considerato l’uso frequente di smartphone dentro le celle. Come è possibile? È possibile quando gli uomini dello Stato non possono svolgere il loro ruolo, quando gli ambienti sono disordinati e senza controllo e si occulta di tutto, costringendo chiunque a fare la volontà di chi comanda. Le questioni che si agitano attorno a questo mondo - disagio dei detenuti, suicidi, violenza, atti di governo criminale - sono tutte collegate e conseguenza di una generale disumanizzazione. In tutto ciò la contrapposizione tra detenuti e agenti è uno strumento che serve a quanti ingaggiano da tempo questa lotta contro lo Stato, dove mafia e strumentalizzazioni ideologiche cominciano a viaggiare insieme. Se nei penitenziari lo Stato è presente con le sue regole, c’è innanzitutto umanità, poi c’è anche sicurezza e rispetto tra tutti. C’è anche il problema del sovraffollamento... Dove vige il caos dell’autogestione, chi ne fa le spese sono in primo luogo i detenuti più deboli, costretti a fare squadra tra loro, ad assecondare la volontà dei capi e farsi strumentalizzare contro la polizia penitenziaria. La maggior parte di chi entra preferirebbe stare in pace dentro una cella. Molti vorrebbero solo privacy e non conflitti con la polizia penitenziaria, ma con le celle aperte devono sottostare a chi comanda. Spesso la penitenziaria è finita al centro di critiche, tra episodi di connivenza con i detenuti e atti di violenza. Cosa non funziona? Manca un’analisi su come siano possibili fatti del genere con tale frequenza. Spesso le violenze stanno in frammenti di video che ci impongono di indignarci e di dare un giudizio senza attenuanti. Ma per dare un giudizio completo sul pianeta carcere, il film dovrebbe essere proiettato tutto. Se ogni giorno un agente onesto deve scegliere tra essere picchiato, usare violenza a propria volta o trovare un accordo con i mafiosi per stare tranquillo, una soluzione sarebbe quella di dare le dimissioni. Ma se ciò non avviene, dovremmo chiederci se un incentivo alle devianze non lo abbia dato chi è rimasto cieco per anni dinanzi a questa realtà. “La verità del fine pena: chi esce non sa dove andare” di Alessandro Cozzi ilsussidiario.net, 21 marzo 2023 Molti lasciano il carcere soli e senza risorse. Lo Stato non li sostiene. Allora i volontari, in altre occasioni ostacolati, diventano fondamentali. Perché succede. Le pene cui i rei sono condannati finiscono. E quando accade, si esce di prigione. Ritrovata libertà! Sicuramente è così per chi torna nel contesto di una famiglia o di un qualche gruppo pronto ad accoglierlo e accompagnarlo. Per chi non è solo, per chi ha soldi, per chi sa dove andare. Ma per i molti altri che la famiglia non hanno o non hanno più, e sono quindi abbandonati, spesso anche poveri se non miserabili, magari anziani o malati, a prospettiva non è così allettante. Succede che alcuni addirittura non ce la facciano a sopportarlo: diversi tra i suicidi che purtroppo continuano a esserci nelle carceri italiane si compiono a un passo dalla libertà. Persone così deboli e fragili da aver paura del passo oltre la soglia, che non sanno affrontare. L’art. 43, comma 2 dell’Ordinamento Penitenziario vigente dà al Direttore dell’Istituto di pena l’obbligo di comunicare la data prevista per l’uscita del dimittendo (è così che si chiama) al “Consiglio di aiuto sociale” e al “Centro di servizio sociale” del luogo in cui ha sede l’Istituto o di quello in cui il detenuto si stabilisce. Un dettaglio curioso è che i “Consigli di aiuto sociale”, non sono stati istituti da nessuna parte; ce n’è uno a Palermo e basta. Una chimera, dunque. Persino il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria se n’è accorto e ha mandato, già nel 2022, una Circolare che sembra dire cose ovvie, ma che evidentemente non lo sono poi tanto. Per esempio, stilare l’elenco dei detenuti in fase di dimissione, da aggiornare mensilmente (un elenco che evidentemente non c’è, se il DAP lo consiglia…), affinché vengano attivati in breve tempo gli interventi di sostegno. Favorire i momenti di incontro del detenuto con i familiari, autorizzando colloqui aggiuntivi. Assicurare durante la detenzione un’attività lavorativa, affinché ai detenuti in via di liberazione vengano fornite risorse di cui disporre alla dimissione, con la possibilità di continuarla dopo l’uscita dal carcere. L’inserimento in attività di pubblica utilità, sottolinea il DAP, andrebbe benissimo. Vanno previsti momenti di incontro tra operatori e familiari, individuando una persona alla quale ci si possa rivolgere - una volta usciti - per la risoluzione di problemi di accoglienza, ascolto, informazione e tutte le variabili collegate (abitazione, documenti, ricerca del lavoro, aspetti legati al sostegno psicologico sia per i familiari che per gli ex detenuti…). Anche all’interno degli Istituti è stata da tempo istituita una figura analoga, il cosiddetto “Agente di rete”, che deve appunto mettere in rete i vari soggetti preposti alla cura e all’assistenza delle persone. Purtroppo, parlandone in generale, gli Agenti di rete ci sono, ma di solito vengono incaricati per poche ore, assolutamente inadeguate al volume delle richieste e risultano decisamente oberati. Colpisce una raccomandazione da parte del DAP in quella circolare: si sollecita l’assistenza del Volontariato. Gli enti del Volontariato carcerario vengono citati sia come possibili fornitori, a chi esca di prigione, di opuscoli contenenti indicazioni di luoghi dove poter mangiare e dormire, linee dei mezzi pubblici, ospedali e Centri di assistenza, sportelli del lavoro, indirizzo dello UEPE. Di fatto già lo fanno in molti luoghi di detenzione e poi come sostegno al rientro nella società. Il Volontariato. È ben un curioso Paese, l’Italia. Quando i tanti meravigliosi Volontari chiedono alle amministrazioni carcerarie di poter mettere in piedi qualche attività, non trovano sempre strade aperte o facilitazioni, anzi! Ma quando il dimittendo è pronto e diventa, almeno potenzialmente, un problema sociale, ecco che quei Volontari che sono stati spesso contenuti o ridimensionati, diventano essenziali e vengono formalmente chiamati in causa. Così, cogliamo l’occasione per ringraziarli anche di questo. Meno male che esistono; sono un dono per chi sta dentro e per chi finalmente esce. Forse, dovrebbe essere diverso; forse, dovrebbe esserci più Stato… ma la solidarietà, l’attenzione, la carità non hanno targa. E sono sempre benedette. Riforma del processo penale, si insedia la Commissione Ministeriale di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 21 marzo 2023 Nordio: “coniugare efficienza e spirito accusatorio”; Greco (Cnf): “Processo penale sia efficiente e costituzionalmente giusto”. Si è svolta ieri la riunione al Consiglio nazionale forense della commissione per la riforma del processo penale. “In quanto sede di uno dei tre pilastri della giurisdizione: avvocatura, accademia e magistratura”, spiega il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che ha voluto portare il suo saluto. “Il nostro compito - ha proseguito Nordio - è introdurre un codice di procedura penale accusatorio, nello spirito dell’idea che aveva il suo autore, Giuliano Vassalli, da coniugare con l’efficienza”. La commissione, presieduta da Antonio Mura, capo dell’Ufficio legislativo del Ministero, si era già riunita anche nella procura generale presso la Corte d’appello di Roma. Composta da 48 esperti, si è insediata lo scorso settembre. “È un onore ospitare questa riunione che testimonia la corrente di dialogo con l’avvocatura”, ha detto il presidente del Consiglio Nazionale Forense, Francesco Greco, sottolineando un’apertura agli avvocati da parte del ministero guidato dal Guardasigilli Carlo Nordio, anche con l’ingresso di due legali nello staff dell’Ufficio legislativo del Ministero. “Il principio di efficienza del processo è quello che finora è mancato di più - ha spiegato poi Greco - perché al di là della necessità di arrivare a una sentenza celere, questa sentenza deve essere anche giusta, come indica la Costituzione. Auspichiamo che i lavori della commissione possano contribuire a migliorare la tutela dei diritti nel sistema giudiziario italiano, per un futuro in cui si possa raggiungere pienamente il giusto processo, così come sancito dalla Costituzione”. Abuso d’ufficio, Nordio perde la “sponda” dei sindaci Pd di Errico Novi Il Dubbio, 21 marzo 2023 È surreale un centrodestra esposto alla (legittima) contestazione di usare politicamente la giustizia: dopo averne passate tante, da Berlusconi a seguire, mettersi “dalla parte del torto” con tutta questa nonchalance ha davvero poco di machiavellico. Un ministro dell’Interno è un’autorità. Un potere. Ma è inevitabilmente anche un politico. E nella “mossa” su Bari, tutto si può dire tranne che Piantedosi abbia agito da politico consumato. In generale perché, come raccontiamo con ampiezza negli articoli di oggi, è surreale un centrodestra esposto alla (legittima) contestazione di usare politicamente la giustizia: dopo averne passate tante, da Berlusconi a seguire, mettersi “dalla parte del torto” con tutta questa nonchalance ha davvero poco di machiavellico. Ma c’è un altro riflesso, solo apparentemente marginale, che rende incomprensibile e anzi autolesionista la scelta del Viminale: ci si va a mettere contro un circuito politico che fa capo a Decaro, presidente dell’Anci oltre che primo cittadino di Bari, e al pesarese Matteo Ricci, coordinatore dei sindaci dem. Una rete che è stata, e poteva ancora essere, utilissima, in termini di strategia e di comunicazione, per il centrodestra. “Grazie” a Decaro, Ricci, Nardella e ad altri amministratori locali, erano emerse le contraddizioni del Pd sulla giustizia, in particolare sull’abuso d’ufficio. Un conflitto prezioso per Nordio e per il governo Meloni in generale, cioè per lo schieramento che ha varato il ddl penale con dentro l’addio al reato che tutti i primi cittadini, dem inclusi, associano alla “paura della firma”. Ora, il ddl penale che abolisce l’abuso d’ufficio è stato approvato al Senato ma ancora giace inerte alla Camera. Quando sarà licenziato anche a Montecitorio (se mai lo sarà), ci troveremo a poche settimane dalle agognate elezioni europee, e a quel punto, per Meloni, sarebbe stato importante poter contare su qualche benevola intervista di Decaro, Ricci o Nardella favorevole alla soppressione del reato- spauracchio. Si sarebbe così riusciti a bilanciare la contro- propaganda con cui, legittimamente, l’opposizione, e il Pd innanzitutto, avrebbero additato la riforma addirittura come un regalo ai mafiosi, oltre che ai “corrotti”. E questo nel clou della campagna elettorale, ripetiamo. Bene: secondo voi, quante speranze ci sono, per la premier, che Decaro o qualche altro amministratore dem le facciano un regalo simile a un miglio dal voto europeo? Nessuna, dite? D’accordo, l’altra domanda è: quanto credete che la presidente del Consiglio sia contenta di avere un ministro dell’Interno cosi poco avvezzo ai calcoli politici come Piantedosi? La legge sullo scioglimento delle pubbliche amministrazioni umilia la democrazia di Rocco Vazzana Il Dubbio, 21 marzo 2023 Discrezionalità e scelta politica: basta qualche indizio e il Viminale può procedere. La norma sul commissariamento delle amministrazioni ha 33 anni e li dimostra tutti. “Se tu sciogli organismi politici elettivi e questa decisione la fai prendere ad un organismo di governo è chiaro che la tentazione di sciogliere i tuoi avversari ci sta. Ma l’altro aspetto che stride è che teoricamente la ratio della legge è “liberarsi” degli amministratori collusi e fare in modo che si eleggano cittadini che non siano nella condizione di far infiltrare il Consiglio”. Con queste parole, rilasciate al Dubbio qualche anno fa, Enzo Ciconte - uno dei massimi esperti del fenomeno ‘ndranghetistico in Italia, nonché ex deputato Pci negli anni in cui la legge sullo scioglimento delle amministrazioni locali vedeva la luce - centrava al cuore le lacune più evidenti di una norma troppo “anziana” per rispondere ancora alle esigenze della realtà. La legge sullo scioglimento dei Comuni - che oggi torna a far parlare di sé per l’invio della Commissione d’accesso agli atti al Comune di Bari, disposta dal ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi - risale infatti al 1991. Si tratta di una misura di prevenzione straordinaria, concepita dopo una barbara strage del “venerdì nero” consumatasi a Taurianova, in provincia di Reggio Calabria. La norma si applica quando “emergono concreti, univoci e rilevanti elementi su collegamenti diretti o indiretti con la criminalità organizzata di tipo mafioso o similare degli amministratori”. Collegamenti tali da condizionare le amministrazioni e “determinare un’alterazione del procedimento di formazione della volontà degli organi elettivi ed amministrativi e da compromettere il buon andamento o l’imparzialità delle amministrazioni comunali e provinciali”. Il problema però è che l’iniziativa spetta a un organismo politico: il Viminale. È il ministro dell’Interno, infatti, a nominare la Commissione di indagine prefettizia sugli eventuali condizionamenti. Al termine degli accertamenti, che tengono in conto anche eventuali risultanze di indagini giudiziarie, il prefetto invia una relazione al Comitato provinciale per l’ordine pubblico e poi al ministro dell’Interno che dovrà decidere se procedere con lo scioglimento dell’amministrazione attraverso un decreto da sottoporre al Consiglio dei ministri o archiviare la pratica. Ma il problema più evidente è che si tratta di un atto caratterizzato da un’ampia discrezionalità: non servono prove o responsabilità penali accertate. Per giungere allo scioglimento è sufficiente constatare la possibile sussistenza di uno stato di soggezione degli amministratori locali alla criminalità organizzata. E proprio per questo motivo il commissariamento non comporta un’automatica incandidabilità degli esponenti politici coinvolti, a meno che il tribunale civile non accerti addebiti individuali sulla cattiva gestione amministrativa. Ma le problematicità di questa misura di prevenzione non risiede solo nella sua natura politica e discrezionale. A 33 anni di distanza dal suo concepimento si può tranquillamente affermare che la legge non ha prodotto i frutti per cui era stata pensata. Sono quasi 400 infatti le amministrazioni sciolte per mafia in tutti questi anni: il 90 per cento tra Calabria, Campania e Sicilia. Le sole province di Napoli e Reggio Calabria totalizzano il 37 per cento dei commissariamenti. Il paradosso è che molte delle amministrazioni coinvolte sono state sciolte più di una volta, a dimostrazione della scarsa efficacia del provvedimento. Il solo Comune di Taurianova, per citare il caso da cui tutto ha avuto inizio, è stato commissariato per ben tre volte: nel 1991, nel 2009 e nel 2013. Come Taurianova sono decine Comuni italiani commissariati ripetutamente. La mafia, a guardare queste statistiche, non sembra affatto essere intimidita da questa legge. Anzi, sembra essere capace di infiltrarsi con qualsiasi maggioranza e di non soffrire davanti a nessun commissario. A essere umiliata e compromessa, con una legge dalle maglie così larghe, è la democrazia, semmai, e quell’idea che in fondo il voto dei cittadini conti relativamente poco, se un ministro può decidere di mettere nel mirino un’amministrazione. Per accertare eventuali responsabilità penali ci sarà tempo. Intanto basta un indizio per cancellare la volontà popolare. Caso Cospito, la Cassazione dichiara inammissibile l’istanza sul 41 bis di Valentina Stella Il Dubbio, 21 marzo 2023 L’anarchico resta al carcere duro: no della Corte al ricorso presentato dalla difesa contro la decisione del tribunale di Sorveglianza che aveva confermo la misura. La Cassazione ha dichiarato inammissibile l’istanza presentata dai difensori dell’anarchico, Alfredo Cospito, detenuto in regime di 41bis, contro la decisione del tribunale di Sorveglianza di Roma che il 23 ottobre aveva confermato il carcere duro per l’uomo attualmente detenuto a Sassari. Nel corso dell’udienza di ieri il procuratore generale della Cassazione si era espresso per il “no” al ricorso presentato dall’avvocato Flavio Rossi Albertini che oggi ha reso nota la decisione della Suprema Corte. Cospito a giugno dell’anno scorso è stato condannato dalla Corte di Appello di Torino a 23 anni per l’attentato, nel 2006, all’ex scuola allievi carabinieri di Fossano. Subito è arrivato il commento del sottosegretario alla Giustizia, il leghista Andrea Ostellari: “La Cassazione ha confermato quanto noi sosteniamo da tempo: l’anarchico Alfredo Cospito deve rimanere in carcere e scontare la sua pena secondo il regime previsto dall’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario. Niente sconti o premi per i nemici dello Stato. Niente passi indietro di fronte al ricatto dei violenti”. A lui ha replicato al Dubbio l’avvocato Flavio Rossi Albertini: “Leggendo il commento del sottosegretario Ostellari e ricordando la vicenda giudiziaria dell’altro sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro delle Vedove, sorge il fondato sospetto che la vicenda Cospito sia stata profondamente influenzata dalla politica”. Ricordiamo che proprio il 12 marzo si è aperto a Roma il processo contro Delmastro, accusato di rivelazione del segreto d’ufficio proprio in relazione alla vicenda dell’anarchico Cospito. Il rappresentante del governo si sarebbe procurato e avrebbe fatto in modo che il suo amico e compagno di partito Giovanni Donzelli rendesse pubblici gli atti “a limitata divulgazione” su Alfredo Cospito e sui suoi rapporti in carcere coi boss mafiosi. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, lo aveva assolto dichiarando in Parlamento: “La dicitura “limitata divulgazione” rappresenta una formulazione che esula dalla materia del segreto di Stato e dalle classificazioni di segretezza ed è inidonea a connotare il documento trasmesso come atto classificato”. Mentre quattro parlamentari del Partito democratico hanno chiesto di costituirsi parte civile nel processo contro Delmastro. “Siete con lo Stato o con i terroristi e i mafiosi?” disse loro Donzelli in Aula, perché andarono a far visita al detenuto in sciopero della fame. “Vogliamo difendere la prerogativa dei parlamentari di visitare le carceri per accertare le condizioni di vita e di lavoro negli istituti di pena ed esercitare i nostri poteri ispettivi”, ci ha detto qualche giorno fa la responsabile giustizia dem, Debora Serracchiani. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Il carcere sta provando a cambiare di Angelo Mastrandrea ilpost.it, 21 marzo 2023 Dopo la pessima reputazione derivata dal pestaggio del 2020, per cui sono a processo 105 persone, la direttrice è cambiata e sono nate sartorie e altri laboratori per far lavorare i detenuti e insegnare loro un mestiere. Alle 8:30 del mattino nel reparto femminile di alta sicurezza del carcere di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta, alcune detenute escono dalle loro celle. Accompagnate dagli agenti di polizia penitenziaria, percorrono i corridoi deserti, raggiungono la sartoria al secondo piano e si mettono al lavoro, alcune a cucire, altre a rifinire e altre ancora a stirare. Nella sala ci sono macchine per cucire, grucce e appendini, rocchetti di filo. Sui tavoli sono poggiate forbici, ferri da stiro e pezzi di stoffa. Lungo le mura sono accatastate alcune scatole blu di varie dimensioni con il marchio del ministero della Giustizia e di Marinella, un’azienda di moda napoletana nota per la produzione artigianale di cravatte, sciarpe e foulard di lusso. Una detenuta ne apre una per mostrare cosa c’è dentro: un’elegante cravatta blu che definisce “istituzionale”, verrà regalata a un ministro o un sottosegretario. All’inizio di ottobre, infatti, la direttrice del carcere Donatella Rotundo ha firmato un contratto con Marinella per insegnare alle detenute in alta sicurezza a cucire le cravatte per gli agenti, per i dirigenti e per i capi dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, e anche quelle da regalare ai politici in occasione di visite al carcere o altre cerimonie istituzionali. Nel carcere di Santa Maria Capua Vetere ci sono in totale 940 detenuti, anche se la struttura per le sue dimensioni potrebbe ospitarne al massimo 818. Di questi, 840 si trovano nei sei padiglioni maschili, che sono separati da quello femminile e connessi fra loro da lunghi corridoi interni che portano da un edificio all’altro. Il reparto “Nilo”, dove quattro anni fa ci fu una rivolta dei detenuti e un pestaggio in risposta, è una sorta di carcere nel carcere: ha otto reparti, tra i quali uno per i malati psichiatrici e uno per i tossicodipendenti, e ha 350 detenuti comuni. Due padiglioni sono riservati all’alta sicurezza e per il resto il carcere è una casa circondariale, significa che ci vengono portate persone appena arrestate, in attesa di giudizio, condannate a pene inferiori ai cinque anni o con un residuo di pena inferiore ai cinque anni. Ogni giorno di media ci sono tre o quattro nuovi arrivi. La direttrice Rotundo è stata inviata dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP) a Santa Maria Capua Vetere proprio per ricostruire l’immagine e la reputazione del carcere, offuscata da quei pestaggi avvenuti il 6 aprile del 2020. I detenuti chiedevano test e mascherine dopo un caso di Covid, la loro protesta venne repressa con la violenza. Rotundo fu nominata a settembre del 2021, dopo che 105 persone tra poliziotti, funzionari del DAP e medici dell’azienda sanitaria locale di Caserta erano state indagate per i pestaggi contro i detenuti. La sua nomina fu preceduta da una visita nel carcere del presidente del Consiglio Mario Draghi e della ministra della Giustizia Marta Cartabia, che condannarono gli “atti di ingiustificabili violenze e umiliazioni” e dissero che “non può esserci giustizia dove c’è abuso e non può esserci rieducazione dove c’è sopruso”. Il processo per i pestaggi è cominciato il 7 novembre del 2022 ed è ancora in corso. “Sono stata inviata a Santa Maria Capua Vetere con un duplice mandato: aiutare le persone recluse a imparare lavori che sono richiesti sul territorio, in modo da potersi reinserire più facilmente quando finiscono di scontare la pena, e ridurre i costi per la pubblica amministrazione”, racconta Rotundo. Dice di aver applicato un metodo che aveva cominciato a sperimentare nel 2017, quando il DAP la nominò coordinatrice delle attività lavorative nelle carceri, una nuova figura inserita nella legge di riforma dell’ordinamento penitenziario voluta dall’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando, del Partito Democratico. La sua idea è coinvolgere gli imprenditori a investire nelle carceri italiane, in modo da “trasformare la detenzione in un periodo di formazione che può servire a reinserirsi nel mondo del lavoro quando si finisce di scontare la pena”. Dare la possibilità di lavorare alle persone detenute, peraltro, è il metodo più efficace e accertato per evitare che chi esce dal carcere torni a commettere reati. Rotundo aveva fatto accordi con i marchi Ermenegildo Zegna nel carcere di Biella e Brunello Cucinelli in quello di Perugia, e aveva avviato con Marinella un laboratorio di sartoria nel reparto femminile del carcere di Pozzuoli che però è durato poco. Quando è arrivata a Santa Maria Capua Vetere, “li ho richiamati chiedendogli di riprovarci e loro hanno accettato la proposta”. “Il nostro progetto punta a fornire delle conoscenze alle detenute, per dare loro la possibilità, quando avranno finito di scontare la pena, di essere assunte in un settore che è carente di manodopera”, ha detto l’amministratore delegato dell’azienda Alessandro Marinella il giorno della firma dell’accordo, a Palazzo Ravaschieri di Satriano, un edificio del Seicento lungo la Riviera di Chiaia a Napoli. Nella sezione femminile del carcere di Santa Maria Capua Vetere sono detenute 64 donne, tutte in regime di alta sicurezza, cioè condannate per reati associativi come l’appartenenza a un’organizzazione mafiosa o il terrorismo e per questo sottoposte a una maggiore sorveglianza rispetto ai detenuti comuni. Molte sono mogli o figlie di esponenti del clan dei Casalesi, un’organizzazione camorristica che prende il nome dalla vicina Casal di Principe. Dai giorni successivi alla rivolta del 2020, nel padiglione Senna che ospita l’alta sicurezza femminile è in vigore il regime delle “celle chiuse”, che una circolare del DAP a novembre del 2023 ha esteso anche a tutti i reparti di media sicurezza, dove si trovano i detenuti comuni. Vuol dire che alle persone recluse sono concesse due ore d’aria al mattino e due al pomeriggio, e per il resto non possono stare fuori dalla loro cella, che condividono con altre due, tre o anche quattro detenute. L’unico modo per uscire è partecipare a un’attività e così fanno quasi tutte. In 35, più della metà, hanno aderito al progetto della sartoria e altre trenta saranno impiegate in un secondo laboratorio che è in allestimento. Hanno frequentato per alcuni mesi i corsi tenuti dai sarti di Marinella e a ciascuna di loro è stata assegnata una mansione specifica, dal taglio alla cucitura, alla stiratura e alla confezione. Periodicamente però vengono spostate per consentire a ciascuna di imparare tutto il processo produttivo. Una detenuta napoletana, in carcere da sette anni, dice che “ora si sta molto meglio perché siamo sempre impegnate, lavoriamo in sartoria, facciamo corsi di formazione e laboratori, chi vuole può studiare e così non rimaniamo tutto il giorno in cella”. Nel carcere vengono a insegnare docenti di un liceo artistico, ci sono laboratori teatrali, corsi di cucina e di estetista, e a breve sarà aperta anche una biblioteca. Le persone detenute tra quelle che hanno girato per più carceri dicono che qui si sta meglio che nelle altre. Lo dice anche un rapporto di Antigone, un’associazione che si occupa dei diritti delle persone detenute: “La struttura è in buone condizioni, tutto appare pulito e ben tenuto. Ci sono vari disegni e decorazioni alle pareti. […] Le stanze sono pulite e personalizzate e il mobilio è in buono stato”. L’8 marzo le detenute hanno celebrato la Giornata internazionale della donna con una festicciola in un corridoio al pianterreno, vicino alle cucine. Lì hanno allestito un palchetto su cui si sono alternate a cantare canzoni e a recitare poesie. Ma tutto questo, comprese le attività di lavoro, non riguarda solamente il reparto femminile. C’è un laboratorio di sartoria anche per i detenuti maschi: a metà mattina circa quaranta detenuti lavorano in silenzio e a testa bassa, quasi ignorandosi tra loro. La maggior parte proviene da qualche comune nei dintorni, ma ci sono anche un paio di stranieri provenienti da paesi africani. Un detenuto napoletano impegnato a cucire una camicia bianca dice di essere contento di lavorare qui perché altrimenti “in cella si impazzisce”. Il turno comincia alle 8:30 e finisce alle 16:30, con una pausa di un’ora dalle 12:30 alle 13:30, e la paga è due terzi di quella prevista dal contratto collettivo nazionale di categoria, circa 900 euro al mese. L’accordo fatto dalla direttrice Rotundo in questo caso è con Isaia, un marchio napoletano di abbigliamento maschile, per produrre 33mila camicie all’anno per la polizia. I sarti napoletani sono venuti in carcere a insegnare il loro mestiere ai detenuti, hanno seguito le prime fasi della sartoria e ora controllano la qualità delle camicie e danno consigli. Altri 60 detenuti stanno imparando a tagliare e cucire, in vista dell’apertura di un secondo laboratorio in una sala di 600 metri quadrati, dove si produrranno i pantaloni a cinque tasche per gli agenti della polizia penitenziaria e le insegne di qualifica, cioè gli stemmi che sono cuciti sulle tute. Il progetto di rifondazione del carcere di Santa Maria Capua Vetere non si limita alle sartorie. Giovanna Tesoro, responsabile delle attività di rieducazione e delle misure alternative alla detenzione, racconta che in una pasticceria in costruzione in un altro locale i detenuti produrranno le “polacche aversane”, una brioche soffice ripiena di crema e amarene che si trova solo da queste parti e si mangia soprattutto a colazione. È prevista anche la produzione di altri prodotti di pasticceria. Nel reparto Nilo è stato aperto un birrificio artigianale, mentre all’esterno ci saranno tre orti dove si coltiveranno frutta e verdura. Grazie a un accordo con la regione, il comune e l’ASL di Caserta, inoltre, sarà aperto un presidio veterinario con sale operatorie per gli animali e corsi per i detenuti, dall’addestramento degli animali alla toelettatura per cani, un canile comunale e un autolavaggio per le macchine della polizia in cui lavoreranno persone recluse. I dirigenti del carcere però non nascondono le difficoltà, dovute soprattutto alla forte presenza della criminalità organizzata nel territorio circostante, che riesce a far arrivare cellulari e sostanze stupefacenti nelle celle soprattutto con droni che riescono a eludere la sorveglianza. L’ultimo è stato intercettato la notte del 14 febbraio che volava sul reparto Volturno, uno di quelli ad alta sicurezza. Trasportava un chilo e mezzo di hashish e una decina di grammi di cocaina. I poliziotti in servizio sono 334, ma secondo Rotundo dovrebbero essere almeno una settantina in più. All’inizio dell’anno, dopo l’ennesima rivolta dei 250 reclusi sempre nel reparto Volturno, provocata dalla mancata concessione a un detenuto di un permesso per andare in ospedale a visitare il fratello ferito in un agguato della camorra, i sindacati della polizia penitenziaria hanno denunciato il sovraffollamento delle celle, dove si trovano “detenuti di alto spessore criminale”, e le condizioni di “stress psicofisico” degli agenti, sottoposti a carichi di lavoro “insostenibile”. Rotundo sostiene che l’insufficiente numero di agenti limita anche le attività di rieducazione e reinserimento dei detenuti. “Spesso le attività saltano perché non ci sono agenti disponibili ad accompagnare i detenuti al lavoro”, dice. Succede soprattutto quando devono andare fuori dal carcere. Modena. Rivolta e presunti pestaggi al carcere Sant’Anna, detenuti contro l’archiviazione di Valentina Reggiani Il Resto del Carlino, 21 marzo 2023 In tribunale a Modena si discute dell’opposizione all’archiviazione dell’indagine sulla rivolta nel carcere del marzo 2020, con 120 agenti indagati per tortura e lesioni. Parenti e associazione Antigone sostengono le testimonianze dei detenuti, mentre la procura ritiene le accuse inattendibili. È fissata per questa mattina in tribunale a Modena, davanti al Gip l’udienza di opposizione all’archiviazione dell’indagine sulla rivolta nel carcere dell’8 marzo 2020. Ad essere iscritti nel registro degli indagati ben 120 agenti della polizia penitenziaria con le ipotesi di reato di tortura e lesioni aggravate in concorso. In seguito alla rivolta nel Sant’Anna morirono nove detenuti, secondo la ricostruzione degli inquirenti a seguito dell’ingestione massiccia di metadone. Altri successivamente denunciarono di essere stati sottoposti a violenze e pestaggi ma, per la procura, che ha richiesto l’archiviazione l’estate scorsa, i racconti dei detenuti presenti si sarebbero dimostrati inattendibili e alcune testimonianze sarebbero in contrasto con quanto riferito da altri. A presentare l’opposizione i legali dei parenti dei detenuti morti e l’associazione Antigone. Secondo la procura appare inverosimile che, a fronte di una situazione così allarmante, il personale di polizia penitenziaria concentrasse le proprie energie per portare a compimento azioni di pestaggio a danno dei detenuti, piuttosto che impegnarsi affinché quella che appariva come una rivolta dalle dimensioni “epocali” potesse essere gestita nel migliore dei modi. Secondo i legali delle parti offese, invece, le dichiarazioni dei detenuti sono ‘genuine’, lineari e coerenti anche con quanto emerso in sede di indagine. L’associazione Antigone aveva presentato un esposto ad ottobre 2021, dopo essere stata contattata direttamente dai detenuti che lamentavano di essere stati vittime di azioni di violenza da parte degli agenti di polizia penitenziaria. Diverse le testimonianze dei carcerati. Uno di questi, ad esempio, ha riferito di essere andato presso il campo sportivo quel giorno e che da lì, dopo circa un’ora, lui e gli altri detenuti sarebbero stati fatti salire su alcuni furgoni dai quali erano scesi agenti di polizia penitenziaria. Gli stessi, secondo le dichiarazioni del carcerato, avevano fatto mettere per terra i detenuti e li avevano picchiati dando “colpi sulla testa e sulla schiena”. Secondo un altro carcerato, due poliziotti lo avevano manganellato. “Dopo avermi ammanettato e spogliato - aveva dichiarato - mi hanno condotto verso le porte gialle che delimitano l’ingresso all’istituto penitenziario e sono stato colpito da diverse manganellate”. Napoli. Suicidio a Secondigliano: il detenuto morto è Andrea Pojoca anteprima24.it, 21 marzo 2023 “In riferimento all’ultimo suicidio avvenuto nel carcere di Secondigliano, il quinto in Campania, si rende noto che per un equivoco nell’ informazione, la persona che si è suicidata non è Robert L., evaso dalla Casa Circondariale di Poggioreale nel 2019, ma è Pojioca Andrea. Quest’ultimo di nazionalità ucraina, di anni 31, che aveva tentato l’evasione dal carcere di Poggioreale ed era stato trasferito il 5.02.2024 nel carcere di Secondigliano. Si è impiccato il 13.03.2024. Anche lui era un senza fissa dimora, non effettuava colloqui o telefonate con i familiari, era stato arrestato per una tentata rapina impropria il 17.01.2024, e portato a Poggioreale. Qui salendo su un cornicione aveva fatto un tentativo di evasione. Per questo c’è stato l’equivoco tra questo tentativo di evasione fatto da Andrea e quello, invece, riuscito di Robert”. Lo comunica il Garante Campano dei detenuti Samuele Ciambriello, il quale aggiunge: “tutto questo per rendere ragione alla verità e le informazioni che devono essere più precise e dettagliate, e ribadisco ancora una volta che si continua a morire di carcere e in carcere nell’indifferenza totale. Mi ha fatto piacere che l’altro giorno il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha fatto riferimento ai tanti suicidi nelle carceri sia dei detenuti sia di agenti della polizia penitenziaria e invitato la politica ad occuparsi di questo tema, immediatamente e con urgenza”. Per il Garante Ciambriello, insomma, le parole del Presidente restituiscono il senso dell’emergenza carceraria, e tutto questo va fatto per rispetto dei valori della nostra Costituzione e per rispetto di chi negli istituti carcerari è detenuto e per chi ci lavora. Bari. Torture in cella, condannati cinque agenti di Nicolò Delvecchio Corriere del Mezzogiorno, 21 marzo 2023 Cinque agenti della Polizia penitenziaria di Bari sono stati condannati a pene tra cinque e tre anni di carcere per aver picchiato, nell’aprile del 2022, un detenuto con problemi psichiatrici. Per altri sei agenti, coinvolti nella stessa vicenda, il tribunale ha optato per la sospensione della pena. Lo hanno scaraventato a terra, trattenuto lì con la forza e poi preso a schiaffi e calci sulla schiena, in faccia, sul torace e sui fianchi. Le violenze, definite dalla Procura “gravi” e portate avanti su un detenuto con problemi psichiatrici “con crudeltà”, sono state definite ieri, dal tribunale di Bari, “tortura”. È una sentenza a suo modo storica, quella pronunciata ieri dai giudici nei confronti di cinque agenti della polizia penitenziaria di Bari, condannati proprio per tortura - con pene dai tre anni e quattro mesi ai cinque di reclusione - per le violenze commesse nei confronti di un 42enne detenuto la notte del 27 aprile 2022. Imputati anche altri sei, tra agenti che non parteciparono al pestaggio e infermieri che non denunciarono, condannati a pene minori (tutte sospese) da una multa di 80 euro a 13 mesi di reclusione. Gli agenti - nel pestaggio e nell’inchiesta era coinvolto anche un sovrintendente, condannato la scorsa estate a tre anni e mezzo in abbreviato per tortura quella sera intervennero dopo che il detenuto, che aveva già creato problemi ad altri compagni di cella oltre che alle guardie carcerarie, diede fuoco a un materasso. Un incendio che generò una densa cappa di fumo che, in pochi minuti, riempì l’intero piano e le altre celle, costringendo gli agenti della penitenziaria prima a spegnere le fiamme con estrema difficoltà (il tutto reso ancora più difficile dal comportamento del detenuto, particolarmente aggressivo), poi a evacuare tutte le celle del piano. Tra il fumo, quindi, i pochi agenti di turno quella notte riuscirono - fortunatamente evitando disordini - a evacuare il piano e a gestire il flusso di un gran numero di detenuti, che non crearono disagi (“avevamo paura che potesse scoppiare una rivolta”, disse un imputato in aula). I problemi però cominciarono dopo: in sei, dopo aver riportato la calma, raggiunsero il detenuto e, nel tragitto dalla cella all’infermeria, lo picchiarono brutalmente. Il 42enne fu lasciato per almeno quattro minuti “alla completa mercé dei suoi torturatori”, trasformando il carcere “in un luogo di assenza di tutele, con demolizione e annientamento dello status di essere umano”, come detto dal procuratore aggiunto Giuseppe Maralfa nel corso della sua requisitoria. imputati, inchiodati dal video delle telecamere di sorveglianza, hanno ammesso le violenze ma hanno sempre negato di aver torturato. Venezia. Volontariato per chi commette reati: una giustizia che offre una possibilità veneziatoday.it, 21 marzo 2023 Firmato un accordo tra l’Ufficio di esecuzione penale esterna (Uiepe) e il Centro di servizi per il volontariato della Città Metropolitana (Csv). Dal volontariato una seconda possibilità per chi ha commesso un reato, è sottoposto a procedimenti penali ma ha già il permesso di uscire. L’Ufficio di esecuzione penale esterna (Uiepe) per il Veneto, il Friuli Venezia Giulia e il Trentino e il Centro di servizi per il volontariato della Città Metropolitana di Venezia (Csv) hanno sottoscritto mercoledì un protocollo per offrire un’opportunità alternativa alla detenzione, rafforzando l’incrocio di domanda e offerta di servizi volontari che possono essere affidati ad esempio nella cura del verde, nell’accompagnamento di anziani e disabili, nella cura degli animali. Impegni che meglio della reclusione tutelano la dignità del condannato, evitano il sovraffollamento degli istituti di pena e danno un’opportunità di reinserimento e inclusione sociale. “Al Centro di Venezia fa riferimento una rete di circa 450 associazioni di tutta la provincia e stimiamo che oltre il 20 per cento abbia i requisiti per accogliere questi nuovi “volontari”, spiega il direttore del Csv di Venezia, Ketty Poles. Solo l’Ufficio di Venezia segue (oggi) 1546 casi, di cui 353 in messa alla prova, 167 condannati ai lavori di pubblica utilità e 384 in misura alternativa. “Si tratta perlopiù di persone destinate a restare in zona, perché la competenza si radica su base territoriale ed è interesse di questa collettività contribuire alla loro inclusione”, afferma il direttore dell’Uiepe di Venezia, Annamaria Raciti. Il volontariato come “attività di restituzione e riparazione del danno”: difficile immaginare qualcosa di più efficace nell’offrire un’opportunità di reinserimento sociale in alternativa alle ‘classiche’ sanzioni penali e amministrative. È una nuova tendenza normativa che ha però anche una forte valenza culturale, con l’obiettivo di favorire, attraverso misure alternative e lavori di pubblica utilità, l’inclusione sociale di minori, giovani e adulti sottoposti a procedimenti penali. “L’importanza della giustizia riparativa, o come termine più corretto “restitutiva”, nel volontariato risiede nella prospettiva di cambiamento e accrescimento che può offrire - commenta Poles. Garantisce un’alternativa alle misure detentive tradizionali, ponendo l’accento sul ripristino delle relazioni danneggiate e sulla responsabilizzazione degli autori dei reati”. “Bisogna tener presente che ormai i condannati a misure e sanzioni in esecuzione penale esterna sono molto più numerosi di quelli in detenzione. Per questo, tramite l’aiuto del Csv, speriamo di coinvolgere in questo lavoro la Comunità e gli enti del terzo settore, che certamente hanno una sensibilità già pronta all’accoglienza”, prosegue Raciti. Il protocollo è stato siglato dal presidente del Csv di Venezia, Mario Morandi, e dal direttore Uiepe Raciti. Tra le attività previste: l’organizzazione di una serie di incontri nel territorio per informare sulle opportunità; la creazione di un database che contenga l’offerta di volontariato nel territorio dedicata a questa specifica categoria; la progettazione di ulteriori iniziative come l’avvio di un apposito sportello di matching tra domanda e offerta. Milano. “Bambini senza sbarre” firma un protocollo con il tribunale per il sostegno psicologico di Rosario Di Raimondo La Repubblica, 21 marzo 2023 Prima collaborazione in Italia dedicata ai 3.600 minori che visitano i genitori a San Vittore, Opera e Bollate. L’associazione: “Così potremo intervenire subito dopo il trauma dell’arresto. Ogni anno centomila bambini in Italia entrano almeno una volta in carcere per andare a trovare un genitore detenuto. Circa 3.600 coloro che, nel Milanese, varcano la soglia di San Vittore, Opera o Bollate. È pensando a loro che oggi, 20 marzo, per la prima volta nel Paese è stato firmato un protocollo tra il tribunale e l’associazione “Bambini senza sbarre”, impegnata nella tutela del legame tra figli e familiari reclusi. Lia Sacerdote, presidente dell’associazione, spiega il senso dell’iniziativa: “Questo protocollo è un importante obiettivo raggiunto dopo tanto tempo. Una delle difficoltà che abbiamo è quella di poter essere presenti quando i bambini o i ragazzi entrano in carcere per la prima volta. Noi incontriamo quelli che ci vanno già da tempo perché un genitore è detenuto - spiega -. Ma la fase iniziale è la più complicata. Il protocollo ci consente di essere conosciuti: sono le famiglie che così ci intercettano, perché il tema preoccupa molti: il non sapere cosa fare se una persona viene arrestata e se ci sono dei bambini. La visita in carcere disorienta anche un adulto… Quando avviene, l’arresto spesso è improvviso, notturno, un momento traumatico”. Quando i familiari, in tribunale, fanno richiesta di autorizzazione per entrare in carcere e far visita ai propri cari, il protocollo prevede di dare informazioni sull’associazione, in modo che possa partire un percorso. Che può essere di varia natura, dai consigli utili al supporto psicologico: “Andare in carcere, per un bambino, significa esporsi a eventuali difficoltà psicologiche ma non dobbiamo pensare che per forza sia necessario un supporto per colmare ferita”, continua Sacerdote, presente alla firma del protocollo assieme al presidente del tribunale, Fabio Roia - che ha parlato della necessità di “umanizzare il carcere” -, del procuratore aggiunto Eugenio Fusco e dell’avvocata Beatrice Saldarini, presidente della commissione “Libertà personale e carcere” dell’Ordine degli avvocati di Milano. Proprio i penalisti hanno proclamato un giorno di astensione, e di protesta, per accendere i riflettori sull’emergenza-suicidi negli istituti penitenziari. Sulla firma del protocollo, Saldarini dice: “Noi avvocati sappiamo bene qual è il problema quando sparisce una figura di riferimento: ci troviamo ad affrontare le domande dei genitori, abbandonati a se stessi, cerchiamo di prepararli al colloquio in carcere, di dare consigli di buon senso. Noi stessi avvocati abbiamo bisogno di una guida. Con questo protocollo, l’associazione è in grado di intercettare i genitori e sostenerli nel percorso. Un’iniziativa molto importante”. Riguardo all’astensione, conclude: “I numeri dei suicidi parlano chiaro, ma da decenni la situazione è al collasso. È necessario intervenire con misure strutturali per dare respiro alle carceri: il sovraffollamento è pazzesco, e nelle celle c’è una miriade di pazienti psichiatrici, mentre i posti nelle Rems e nelle strutture di cura sono limitatissimi”. Milano. “Caterpillar” dal carcere di Bollate. Sala: “Orgogliosi per bella pagina servizio pubblico” rai.it, 21 marzo 2023 La direttrice Rai Radio 2: “Abbiamo dato voce a chi troppo spesso non ce l’ha”. “Siamo orgogliosi, come Rai Radio 2, di aver realizzato una bella pagina di Servizio Pubblico con ‘Caterpillar’, dando voce con Massimo Cirri e Sara Zambotti a chi troppo spesso non ce l’ha e viene considerato ai margini. Un bagno di realtà, di emozioni, che ha sfatato pregiudizi. Un viaggio tra il dentro e il fuori del carcere, ma anche tra il dentro e il fuori delle persone che ci hanno raccontato vite e sentimenti veri, profondi”. Così la direttrice di Rai Radio 2 Simona Sala commenta la puntata speciale di ‘Caterpillar’ in diretta ieri, martedì 19 marzo, dagli studi di corso Sempione e dal teatro del carcere di Bollate. Una serata in cui - partendo dalla rilettura de “I fratelli Karamazov” di Dostoevskij - persone detenute ed ex detenuti, studenti, familiari di vittime della criminalità organizzata, giornalisti e operatori della giustizia si sono confrontati sui temi della pena, della colpa, del cambiamento, del debito e del credito, del “diritto” al rancore e della “riparazione”. “Le persone in ascolto - prosegue Sala - hanno riconosciuto il valore della radio di servizio pubblico che crea comunità e racconta i risultati di tanti progetti culturali nelle carceri italiane che danno frutto. E durante la puntata ci hanno scritto decine e decine di ascoltatori, commossi e ci ha inviato un messaggio speciale Padre Lucio, il cappellano del carcere di Rebibbia. Per questo, il mio grazie va a Sara Zambotti e Massimo Cirri, che negli anni hanno sviluppato una sensibilità unica, a tutta la redazione milanese, al coordinamento e al reparto tecnico di Roma e Milano che ha lavorato in una situazione delicata e complessa con passione. E naturalmente al carcere di Bollate e alla sua straordinaria realtà”. Trent’anni di guerra hanno distrutto la politica, ma non la casta dei giudici di Maurizio Crippa Il Foglio, 21 marzo 2023 Dal pool Mani pulite alle riforme Nordio. “La Repubblica sotto processo” (Laterza) affronta un tema cruciale, ma Buccini si attiene a una “narrazione” già vista e in qualche modo pietrificata in cui le colpe maggiori sono solo della politica, mentre gli abusi, gli errori e e l’esondazione del potere della magistratura è assai minimizzato. Di sicuro c’è solo che è scritto con l’AI. Perdonerà Goffredo Buccini il rimando al celebre titolo di Besozzi sul bandito Giuliano, del resto anche Buccini è un inviato esperto di giudiziaria. Se non perdonerà pazienza, il calembour serve solo per introdurre un tema. Il suo nuovo libro, “La Repubblica sotto processo - Storia giudiziaria della politica italiana 1994-2023” fa sorgere, a ogni pagina, una domanda: qual è il senso vero che l’autore vuole dare alla sua storia, e alla storia italiana? Non è semplice da capire - al di là della utile ricapitolazione dei fatti. L’argomento è la linea di faglia più terremotata degli ultimi decenni italiani (opposizione inconciliabile tra “forcaioli giacobini e garantisti giustificazionisti”, la chiama: ma non è solo questione di estreme). L’impressione è che Buccini abbia scelto per il suo corposo lavoro (384 pagine, Laterza) di attenersi a una “narrazione” già vista, metabolizzata dal discorso pubblico e in qualche modo pietrificata, come le Vite del Vasari, senza avanzare dubbi. Oggi che va di moda la storia come decostruzione e disvelamento di meccanismi ideologici, è una scelta un po’ troppo piana. Che non vuol dire fatta in automatico, per carità, ma è come se Buccini abbia scelto di utilizzare un solo archivio parziale. Questo incuriosisce. Buccini, oggi editorialista del Corriere della Sera, era stato nel pool dei cronisti che si abbeveravano alle verità unilaterali del pool di Mani pulite e alle distorsioni professionali, etiche e politiche di quella stagione ha dedicato un bel libro, “Il tempo delle Mani pulite”, raro caso di autocritica e revisione da parte giornalistica di quel che avvenne. Per ripercorrere trent’anni di guerra giudiziaria in Italiua si affida invece una sorta di vulgata. A partire dal titolo: il 1994 è l’anno della discesa in campo di Berlusconi, ma Buccini è ovviamente obbligato a ripercorrere il biennio che l’ha prodotta. E lo fa senza suggerire un chiaroscuro. Di Pietro è un cavaliere senza macchia (al massimo irruento) che poi farà qualche pasticcio (Filippo Facci in “La guerra dei trent’anni” dedica le prime cento pagine a spiegare cosa fosse l’Italia degli Ottanta, e da quale sottobosco non candido sbucasse Di Pietro), il pool sono gli “Intoccabili” di De Palma. Scrive che l’inchiesta produsse circa 1.300 dichiarazioni di colpevolezza, ma tralascia che su 4.520 indagati i rinvii a giudizio furono 3.200, e un migliaio gli assolti e prosciolti. Non un trionfo. Avvalla l’idea che “nei trent’anni successivi” non si è trovata risposta alla domanda “ma perché diavolo si è dimesso Tonino?”, mentre è noto, anche dal processo di Brescia, che alcuni addebiti gli avrebbero fruttato perlomeno dei provvedimenti disciplinari. Per Buccini si tratta di “vicende già ammesse e già ridimensionate”; molte pagine dopo di Renzi dirà che certe sue “azioni penalmente irrilevanti” lo rendono però “il persecutore di sé stesso”. Semplice dire che lo scatenamento avviene con Berlusconi, e sgranare il rosario di Previti, Dell’Utri, Mangano, con solo qualche schizzo di fango anche tra i magistrati, che restano gli ottimati della Repubblica. Qualche tic stilistico rivelatore. Verdini in Mugello è già uomo “dai mille affari non tutti inappuntabili”. A Bonini e D’Avanzo si deve “lo smantellamento per via giornalistica di una gigantesca bufala cavalcata dalla destra, l’intrigo Telekom Serbia”; altre bufale di procura smontate non hanno lo stesso plauso. Decenni di intercettazioni e mercimonio tribunali-giornali, ma solo sull’intercettazione della banca di Fassino si legge “uno scoop clamoroso e clamorosamente illegale”. Poi arriva la fase disastrosa, il grottesco periodo dei girotondi di Pancho Pardi e Moretti che aprirono le cateratte del populismo, e qui la condanna della “genuflessa adesione a una linea politica dettata dalle procure” è invece netta. E Buccini ha facile gioco a smantellare la triade delle indagini bufale, De Magistris, Woodcock e Ingroia. Assieme ai populisti avvivano i due grandi processi farlocchi, la Trattativa e Mafia capitale. Buccini, avvicinandoci al presente, ne coglie le pericolose derive, ma anche qui sembra attribuirle a un combinato disposto in cui la politica è comunque colpevole. Che Di Matteo pm del processo Trattativa abbia scritto un libro con Saverio Lodato dal titolo “Il patto sporco” dovrebbe essere uno scandalo, non una fonte da utilizzare a processo ormai smontato dai giudici. Ci sono le escort, finite in nulla anche quelle, peccato non ricordarsi di quando Ilda Boccassini diede a Karima el Marough di ragazza “dalla furbizia orientale”. Si arriva alla riforma Cartabia, agli scontri sull’abuso d’ufficio, la separazione delle carriere, i nodi inestricabili che gli opposti estremismi (ma non solo: pesa più il potere esterno della magistratura) non consentono di sciogliere. Quando il libro Buccini va in stampa non è ancora uscita la sentenza Consip, ma qualche indizio per giudicare nella sua gravità il trattamento riservato per anni a Renzi, che è molto più di “un’attenzione, diciamo così, particolare”, c’era. Bene ammettere col sociologo Mauro Calise che negli ultimi 25 anni “il ruolo della magistratura è stato strettamente dipendente dalla amplificazione mediatica”, e che “noi giornalisti vi abbiamo contribuito”, ma non definire allo stesso tempo “semplicistico” dare tutta la colpa alle tricoteuses (infatti: c’era una politica e una magistratura che ha sempre navigato insieme). Il granello di sabbia tra i denti che infastidisce fin dalle prime pagine è la domanda su un libro che avrebbe potuto fare più chiarezza sul disastro istituzionale di oggi. “Le cronache dell’ultimo decennio non hanno fatto che confermare questo pubblico prolasso”, scrive. Ma perché non chiedersi, una buona volta, se questo disastro non sia stato provocato, più di quanto si ammette, dall’unica irriformabile casta che resista in Italia, il potere giudiziario che ha deciso di “mettere sotto processo” la Repubblica? Don Ciotti: “Oggi le mafie sono imprenditoriali, tecnologiche e transnazionali. E siamo tutti vittime” di Dora Farina Corriere della Sera, 21 marzo 2023 Il fondatore del gruppo Abele e di Libera contro le mafie in occasione della Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie. Chi sono le vittime di mafia? Ci sono le vittime dirette, che subiscono intimidazioni, minacce ed estorsioni. Quelle indirette, che soffrono di dipendenza da droga e giochi d’azzardo. E poi ci siamo anche noi, “perché la sottrazione di bene comune ci colpisce e impoverisce ogni giorno”. A parlare è don Luigi Ciotti. Il Corriere ha intervistato il fondatore del gruppo Abele e di Libera in occasione della Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie. Ogni 21 marzo, in una città italiana vengono letti 1081 nomi di chi è morto ucciso dalle cosche. Perché è importante leggere ogni anno l’elenco delle vittime? “Perché il primo diritto di ogni persona è quello di essere chiamata per nome, cioè riconosciuta nella sua singolarità irripetibile. Un conto è esprimere un generico cordoglio per le “vittime”: delle mafie, delle guerre, della fame o della violenza di genere. Può essere un sentimento sincero, ma rimane in superficie. Se ascolti le storie invece, se chiami idealmente a te quelle persone, riesci a sentire che la loro voce ti morde la coscienza. Quel volto, quella storia, quel nome, si scavano una “tana” dentro di te, e non ti lasciano più. Ricordare è allora la nostra “prova di forza” contro la criminalità mafiosa. Perché i boss contano sull’effetto dell’abitudine, della dimenticanza, di un dolore generico e passeggero, finché non ti colpisce nei tuoi affetti più cari. Noi diciamo invece che ognuna di quelle persone ci era cara, verso ognuna ci sentiamo responsabili, ad ognuna dobbiamo un impegno, nella continuità e nella concretezza del quotidiano”. Cinque giorni fa la notizia dal liceo Partinico per cui per Peppino Impastato sarebbe divisivo. Ma la lotta contro la mafia è divisiva? “Certo che è divisiva! Perché divide i promotori dei diritti dai difensori dei privilegi. Chi costruisce bene comune da chi impoverisce la società attraverso la corruzione e i traffici illegali. È lo stesso discorso che sentiamo rispetto ai simboli della Resistenza al nazifascismo. Anche quelli sono accusati di “dividere”: ma allora l’Italia si divise davvero fra chi voleva un Paese libero e democratico, e chi lo accettava oppresso dalla tirannia. Pensiamo che dramma, se non fosse accaduto! In questo caso preoccupa che un’obiezione del genere arrivi da giovani studenti. L’adolescenza è l’età degli ideali: come si fa ad avere paura di schierarsi? Quasi come se la spinta a conformarsi, a somigliarsi tutti, avesse la meglio sul desiderio di pensare con la propria testa, affrontare la responsabilità e anche il rischio di scegliere. Quel rischio che Peppino Impastato, ma anche altri giovani che ricorderemo in piazza, hanno assunto a costo della vita”. Cosa sente di dire a quei ragazzi e quelle ragazze? “Vorrei dire loro che il “conflitto”, inteso come confronto non violento di idee, è qualcosa di sano, necessario alla democrazia. E se alcune cose dividono, altre non possono che unire chiunque voglia sentirsene parte. La lotta all’illegalità, alla corruzione e alle mafie è una di queste. Per il resto, più che dare lezioni ai giovani, da loro io cerco sempre di imparare qualcosa. Dalla loro freschezza, dalla loro curiosità e passione. I giovani si fanno tante domande, mentre gli adulti tendono a dare molte cose per scontate. Ma è proprio il dubbio il motore del cambiamento! Dal dubbio nascono la consapevolezza, la responsabilità e l’impegno. Non è un caso se, anche in Libera, la partecipazione giovanile è alla base di tante proposte creative che ci fanno sentire sempre in ricerca, sempre in cammino”. Giovedì scorso la notizia di un naufragio con 60 morti. Lucrare sulla disperazione, chiedendo cifre esorbitanti a coloro che partono, è una pratica mafiosa? “Sull’immigrazione lucrano le mafie in senso stretto, soprattutto le mafie straniere, e altre organizzazioni criminali che usano metodi mafiosi, organizzando i pericolosi viaggi attraverso il Mediterraneo e poi gestendo la tratta e lo sfruttamento della prostituzione. Ma attenzione: a fare profitti sulla pelle di questa gente disperata ci sono anche imprenditori e politici che con le mafie non hanno nulla a che vedere. I primi approfittano in modo spregiudicato della vulnerabilità delle persone migranti - colpa anche di leggi sbagliate - attraverso il lavoro nero o gli affitti fuori mercato. Mentre i secondi trasformano la disperazione di chi arriva in argomento di propaganda, di mero tornaconto elettorale”. Esiste secondo lei un nesso tra mafia, disperazione e povertà? “Esiste. Le mafie “fanno cassa” sulla disperazione figlia dell’assenza di diritti e di opportunità. La povertà, l’ignoranza, i bisogni basilari insoddisfatti - casa, lavoro, salute - rendono le persone facilmente ricattabili. E i boss a questo si affidano, più ancora che alla violenza, per ottenere il controllo dei territori. C’è una rete di “welfare” mafioso difficilissima da estirpare, che in alcune zone soppianta i servizi pubblici insufficienti. E lascia passare il messaggio che l’illegalità sia l’unica strada per ottenere cioè che legalmente diventa un’odissea. È lo stesso destino di molte persone migranti, che se potessero arrivare in Europa per vie legali eviterebbero di mettersi nelle mani di trafficanti senza scrupoli”. Un anno fa l’arresto di Messina Denaro, quanto è cambiata la mafia da allora? Chi sono le vittime? “Per prima cosa, la mafia non è cambiata a causa dell’arresto di Messina Denaro. La cattura di un boss è sicuramente una buona notizia, ma viene spesso enfatizzata oltre il ragionevole. E in questo caso, “non per caso”, è avvenuta quando ormai il boss era fiaccato dalla malattia, vicino a perdere il suo potere. Le mafie sono qualcosa di molto complesso e la loro forza non sta nel singolo capo, ma nel sistema di complicità esterne che le sostiene. Oggi possiamo descriverle con tre aggettivi: imprenditoriali, tecnologiche, transnazionali. Sono mafie che operano nel mondo dell’impresa, dagli appalti all’alta finanza. Sanno usare le tecnologie più raffinate e approfittano degli scambi senza intermediazioni che dominano il web. Si muovono in un contesto mondiale, anche alleandosi fra loro. E le vittime sono sia dirette - del racket, delle truffe, della tratta, delle intimidazioni e dei “regolamenti di conti” - che indirette: vittime della dipendenza da droga e gioco d’azzardo, delle armi nei conflitti, dell’inquinamento da eco-reati ecc. Ma vittime lo siamo in fondo tutti, perché la sottrazione di bene comune ci colpisce e impoverisce ogni giorno. Rende il nostro orizzonte di vita più opaco e ristretto”. Lei non è solo don Luigi Ciotti: lei è il simbolo di un principio (la libertà) e di una lotta contro le mafie. Possiamo definire anche questa una vocazione? “È qualcosa che per quanto mi riguarda sta dentro la vocazione al sacerdozio, ne fa parte e la completa. La dottrina sociale della Chiesa prevede espressamente che i religiosi e le religiose debbano avere un ruolo non soltanto spirituale, ma anche di impegno civile per migliorare il contesto in cui operano. E tante volte proprio a questo ci ha richiamati anche Papa Francesco. La lotta alle mafie è prima di tutto un impegno “per”: per la libertà e la dignità delle persone, che sono premessa indispensabile a una fede autentica e “succo” del messaggio evangelico. Se mafie e Vangelo sono incompatibili, non si può annunciare il Vangelo senza denunciare ciò che palesemente va contro la Parola di Dio: egoismo, violenza sopraffazione dei deboli”. Settantotto anni di vita e 52 di sacerdozio: qual è il ricordo che ha più segnato il suo percorso o più in generale la sua vita? “Non è possibile isolarne uno soltanto. Sono gli incontri che mi hanno cambiato la vita. Il contatto con le persone, a partire dalle più sofferenti. Perché - e torniamo da dove siamo partiti - la sofferenza dell’altro ti scuote, ti scava, ti morde. Ho iniziato dai giovani senza punti di riferimento educativi nelle periferie e nel carcere per minorenni di Torino, dalle ragazze sfruttate nella prostituzione, dalle prime vittime dell’eroina. E sempre mi sono chiesto: perché? Chi o che cosa li ha resi fragili per poi approfittare della loro fragilità? Dal tema dell’ingiustizia sociale a quello della criminalità, che sull’ingiustizia ingrassa, il passo è stato breve. E anche lì tante storie di sofferenza, di lutto. Ma dai famigliari delle vittime innocenti di mafia ho imparato che persino il dolore più grande può trasformarsi in desiderio di riscatto. Di fare qualcosa, insieme, affinché altri non debbano soffrire così”. I manganelli e l’intolleranza. La voce dei figli della policrisi di Francesco Ramella* Il Domani, 21 marzo 2023 I giovani sono tornati al centro della cronaca, talvolta anche loro malgrado. La loro voce si è scontrata con un muro di repressione, ma andrebbe invece ascoltata. I giovani, soprattutto gli studenti, hanno riconquistato le prime pagine dei giornali. Grazie alle proteste e ai manganelli che si sono levati sulle loro teste. A Torino, negli scorsi mesi, la polizia ha caricato gli studenti in diverse occasioni. Il 22 dicembre, gli scontri sono avvenuti a Roma. Il 23 febbraio è stata la volta di Pisa e Firenze durante le manifestazioni pro-Palestina. In questo caso, però, le immagini delle teste sanguinanti degli studenti, e la sproporzione della reazione delle forze dell’ordine, hanno provocato un coro di proteste a livello nazionale. È intervenuto anche il presidente della Repubblica a ricordare che “con i ragazzi i manganelli esprimono un fallimento”. A far discutere, però, sono anche le modalità della protesta giovanile. In diverse occasioni, li abbiamo visti bloccare le strade, imbrattare monumenti e opere d’arte, ostacolare dibattiti e impedire a chi non la pensa come loro di parlare. È successo con David Parenzo alla Sapienza di Roma e con il direttore di Repubblica Maurizio Molinari alla Federico II di Napoli. Invitati a discutere, i giovani-contestatori si sottraggono al confronto, urlando ai loro interlocutori che non hanno diritto di parola. In alcune frange, poi, si assiste ad un ritorno di forme di estremismo e di intolleranza ideologica. In questi casi, a suscitare preoccupazione non è tanto il conflitto e la contestazione ma il prevalere di retoriche dell’intransigenza, che vanno contrastate con decisione. Mattarella ha colto nuovamente con lucidità e saggezza il punto essenziale: “Quel che vi è da bandire dalle Università è l’intolleranza” di “chi pretende di imporre le proprie idee impedendo che possa manifestarle chi la pensa diversamente”. Una nuova generazione - A suscitare preoccupazione, dunque, è sia l’intolleranza di alcune manifestazioni di protesta, sia la risposta talvolta fuori misura della polizia. Ma in realtà sarebbe bene che il fuoco dell’attenzione si spostasse anche sui giovani che sono scesi in piazza. Perché sono tornati a farsi vedere e sentire. Sui temi dell’antifascismo e dell’istruzione, così come su quelli della parità di genere e del cambiamento climatico. L’Italia, un paese di anziani, ha bisogno di ascoltare la loro voce e di comprendere i motivi del loro disagio. Senza però alcuna indulgenza verso le forme violente di protesta. Per questo la rivista Il Mulino ha dedicato l’ultimo numero monografico proprio a loro (La giovane Italia, n. 4/23). Perché, sulla scena, si sta affacciando una nuova generazione. Diversa dalle precedenti sotto molti aspetti. Sono i giovani della policrisi. Nati dopo il crollo del muro di Berlino e nel mezzo di una rivoluzione tecnologica che li ha dotati di nuovi strumenti di informazione, comunicazione e interazione. Hanno vissuto la loro adolescenza e prima maturità negli anni successivi alla Grande recessione del 2008 sperimentando, insieme al declino economico del nostro paese, una forte precarizzazione del mercato del lavoro. Inoltre, vivono una drastica accelerazione della crisi climatica e il ritorno della guerra e del rischio atomico nel continente europeo. C’è da stupirsi se si sentono “a rischio”? Il loro futuro è diventato radicalmente incerto. E questo tratto li caratterizza e li differenzia dalle generazioni nate nei decenni post-bellici del secolo scorso, che hanno vissuto la loro adolescenza in un clima di relativo ottimismo. Seppure in forma embrionale, stiamo anche assistendo alla nascita di una nuova generazione politica, attenta all’equità e sostenibilità dello sviluppo. Per rendersene pienamente conto può essere di aiuto un sondaggio condotto dal Centro “Luigi Bobbio” dell’Università di Torino, che ha coinvolto 1.600 cittadini italiani, inclusi 600 giovani tra i 18 e i 34 anni. Dai dati affiora una netta tendenza alla politicizzazione, con uno stile peculiare, che mescola l’avversione verso la partecipazione politica convenzionale (il voto, l’iscrizione ai partiti) e una spiccata disponibilità verso la mobilitazione pubblica non convenzionale. Durante lo scorso anno, infatti, oltre la metà dei giovani ha preso parte con una certa regolarità a manifestazioni politiche e di protesta, iniziative per la pace, per l’ambiente e per problemi relativi alla propria città e altro ancora. Con tassi di partecipazione superiori a quelli delle altre classi di età. Nel confronto intergenerazionale, inoltre, colpisce la diversa collocazione sull’asse sinistra-destra. Per due aspetti distinti. Il primo è che quasi il 40 per cento degli under-35 rifiuta di collocarsi sull’asse sinistra-destra: una percentuale che è di 10 punti superiore a quella presente nel resto del campione. Il secondo è che i giovani si stanno spostando a sinistra. Il 38 per cento si colloca su posizioni di centro-sinistra, mentre appena il 19 per cento si identifica nel centro-destra. Nelle altre classi di età, invece, si osserva un maggiore equilibrio tra i due schieramenti. Giacimenti nascosti - Questa mobilitazione giovanile rappresenta una opportunità. Perché per fare ripartire l’Italia dobbiamo saper valorizzare i giacimenti nascosti del nostro paese: i giovani e le donne. Ma affinché questa opportunità non si trasformi in un’altra “notte della Repubblica”, dobbiamo fare molta attenzione alle scelte che verranno fatte nei prossimi mesi. Se le istituzioni si chiuderanno a riccio, fornendo una risposta securitaria e repressiva alle domande dei giovani, allora entreremo in una spirale di violenza che il nostro paese ha già conosciuto in passato. Ma lo stesso avvertimento vale sul fronte dei giovani. Se la domanda di senso e l’insicurezza che fronteggiano come generazione li spingerà a cercare le scorciatoie semplificanti dell’intolleranza ideologica, allora l’esito sarà lo stesso. L’inverno del loro scontento si trasformerà nell’inverno della democrazia. Un’altra strada è possibile. Varie indagini condotte in Europa mostrano che la maggioranza dei giovani esprime un robusto attaccamento alla democrazia e ai diritti civili. Questa nuova generazione di italiani e di europei, che sta crescendo in un contesto più aperto e plurale sotto il profilo etnico-religioso e in una nuova epoca di politeismo valoriale (a là Weber), potrebbe diventare la protagonista per eccellenza di quello che Charles Sabel e William Simon hanno definito lo “sperimentalismo democratico”. Una modalità di governance delle democrazie che, pur accogliendo il conflitto, è basata su forme di apprendimento e di problem-solving pragmatiche e collaborative, aperte verso punti di vista molto diversi tra loro. In altre parole, un approccio decisionale particolarmente adatto per le società complesse, in questa epoca di radicale incertezza verso il futuro che richiede soluzioni audaci e innovative. Proprio per questo dobbiamo chiedere ai giovani il coraggio di discutere, esponendosi al confronto delle idee. Perché né noi né loro possiamo permetterci la pigrizia del fanatismo ideologico. E perché oggi, ancor più che in passato, abbiamo tutti bisogno di una democrazia solida e inclusiva. *Sociologo Figli di coppie gay e suicidio assistito: se la politica subordina le scelte al consenso, parlerà il diritto di Lorenzo D’Avack Il Dubbio, 21 marzo 2023 In occasione della riunione straordinaria della Corte costituzionale del 18 marzo 2024 nella relazione del presidente, prof Augusto Antonio Barbera, troviamo esplicitamente detto che “nei casi più significativi” il legislatore non è intervenuto, sebbene sollecitato, “rinunciando ad una prerogativa che ad esso compete e al contempo obbligando questa Corte a procedere con una propria e autonoma soluzione inevitabile in forza dell’imperativo di osservare la Costituzione”. Viene menzionata la sentenza n. 24 del 2019 (il cosiddetto caso Cappato) sul fine vita e viene altresì menzionato quanto auspicato dalle sentenze numero 32 e numero 33 del 2021 che hanno invitato il legislatore a prevedere al più presto una modalità di riconoscimento del rapporto tra figli nati da PMA eterologa da coppie dello stesso sesso e genitore intenzionale. Questo silenzio del legislatore ha portato a numerosi supplenze delle assemblee regionali per quanto riguardava soprattutto le modalità in cui doveva essere svolto il procedimento sanitario relativo all’aiuto al suicidio medicalizzato e ha determinato un contraddittorio intervento di sindaci preposti ai registri dell’anagrafe per quanto riguardava i bambini nati dalle coppie arcobaleno. Siamo al ben noto conflitto di come regolamentare le vicende critiche di sovente suscitate dalle tecnologie e che presentano forti aspetti etici. Queste possono trovare una regolamentazione etica, prevalentemente individualistica. Ma è difficile pensare che i problemi riguardanti il crescente evolversi delle nuove biotecnologie e delle necessità sociali, quali il fine vita o la filiazione, possano essere risolti attraverso un vasto e generale consenso sui principi etici. Nessuna società conosce un’omogeneità tale da arrivare a questo obiettivo spontaneamente. L’essenziale, di contro, come evidenzia la Relazione, è che la collettività di ciascun Paese riesca ad arbitrare le proprie esigenze, i propri valori tenendo conto di una regolamentazione formale ricondotta allo specifico giuridico mediante gli strumenti istituzionali e magari avvalendosi del precedente costituzionale. D’altronde è il diritto ad essere chiamato al compito di risolvere le controversie sia attraverso le norme, sia attraverso il processo. Ma a fronte dell’assenza di una specifica normativa che disciplini i conflitti si ricade in un diritto giurisprudenziale, ritenuto peraltro da molti preferibile a quello legislativo. Si evidenzia come la legge nella sua struttura ordinaria si presenti come scelta definitiva tra valori, ideologie, interessi in conflitto con un sacrificio definitivo di alcuni a favore di altri. La sentenza, la decisione giudiziaria, di contro, non è mai scelta definitiva, limitandosi a una fattispecie e non alla generalità dei casi è pur sempre suscettibile di mutamento, di ripensamento a favore della parte soccombente. Queste argomentazioni possono apparire convincenti e le più intimidatorie nei confronti di una regola legislativa. Tanto più che nel nostro Paese, in assenza di uno specifico intervento normativo, la Relazione menziona i molteplici casi in cui la Corte costituzionale si è dovuta pronunciare su problemi sollevati in questioni di Covid, d’inizio e fine vita e di filiazione, esercitando il suo obbligo istituzionale di supplire alla condizione di stallo degli organi legislativi ad affrontare problemi nuovi ed eticamente dubbi per la società. Lasciare, tuttavia, che la sentenza della Corte esplichi i suoi effetti, essendo chiaramente auto applicativa e non assumerla come base per un nuovo intervento legislativo si traduce, a fronte degli inevitabili conflitti che casi di questa natura hanno già suscitato e potranno suscitare, in un ulteriore trasferimento dei compiti del legislatore nelle mani dei giudici e delle loro interpretazioni ideologiche. È questa la ragione che spinge la Corte nella sua Relazione a ritenere necessaria l’esigenza di modulare gli effetti temporali della pronuncia, in una ottica di collaborazione con il legislatore, “così da agevolare un intervento legislativo per una disciplina ricostruttrice che si faccia carico del problema, evitando vuoti normativi, oltre che garantendo maggiore certezza dei rapporti giuridici”. Migranti. Emergency: “Porti lontani, sprecati la metà dei giorni di navigazione” di Federica Rossi Il Manifesto, 21 marzo 2023 Un anno di operazioni della Life Support. 1.219 le persone salvate nonostante i tanti ostacoli imposti dal governo. Tutti i numeri in un report. Quasi la metà dei giorni complessivi di navigazione della Life Support, nave di Emergency, sono stati dedicati a raggiungere uno dei porti lontani indicati dal Viminale piuttosto che a realizzare le attività di ricerca e soccorso per cui è stata messa in mare. Tra dicembre 2022 e dicembre 2023 la Ong fondata da Gino Strada ha speso quasi un milione di euro solo per andare e tornare dall’area delle operazioni nel Mediterraneo centrale. “L’operato delle ong viene ostacolato e criminalizzato, sottraendo tempo prezioso alla tutela della vita e dei diritti di chi è in mare”, afferma Carlo Maisano, coordinatore del progetto. I numeri vengono fuori dal report Non restare a guardare: un anno di soccorsi in mare, diffuso dall’organizzazione umanitaria. Dentro ci sono i risultati ottenuti nonostante gli ostacoli disseminati dal governo, la prassi dei porti lontani, le minacce e le detenzioni amministrative causate dal decreto Piantedosi 1/2023. Sono 1.219 i naufraghi salvati dalla nave Life Support nel primo anno di operazioni. Tra loro 846 uomini, 101 donne (di cui 7 in stato di gravidanza), 216 minori non accompagnati e 56 minori accompagnati. I principali paesi di provenienza includono Bangladesh, Siria, Costa d’Avorio, Egitto, Sud Sudan, Libia, Palestina ed Egitto. Nello stesso periodo la nave ha affrontato 15 missioni, completato 24 operazioni di salvataggio e percorso 40mila chilometri per un totale di 105 giorni di navigazione. I 28 membri dell’equipaggio riferiscono di aver affrontato varie patologie fisiche e psicologiche tra i naufraghi, spesso dovute alle condizioni estreme del viaggio e agli abusi subiti prima del soccorso. Patologie che in molti casi richiederebbero di essere trattate con urgenza. Questo fatto rende ancora più odiosa, oltre che pericolosa, l’indicazione di scali lontani. I porti assegnati sono sati: Marina di Carrara (3), Livorno (3), Brindisi (2), Napoli (2), Civitavecchia (1), Ortona (2), Ravenna (1) e Taranto (1). Nemmeno una volta la nave è sbarcata in Sicilia. Tra gli interventi di soccorso 10 sono stati coordinati dalle autorità italiane. Per 42 situazioni di pericolo segnalate dopo il primo intervento al Centro di coordinamento del soccorso marittimo di Roma le autorità italiane non hanno risposto o hanno dato parere negativo. Scoraggiare i cosiddetti “soccorsi multipli”, semplici risposte a richieste d’aiuto dopo il primo salvataggio, è un altro degli effetti del decreto anti-Ong varato dal governo. Emergency avanza una serie di raccomandazioni per affrontare la crisi umanitaria nel Mediterraneo, chiedendo un approccio basato sui diritti umani, sul rafforzamento delle operazioni di ricerca e soccorso e sulla garanzia di vie legali e sicure di accesso per i migranti in cerca di protezione. Nonostante tutto, comunque, la Life Support ha sempre continuato il suo lavoro: l’ultima missione si concluderà oggi con lo sbarco a Ravenna, dopo il soccorso realizzato lo scorso sabato. 71 le vite salvate. Tra i migranti della Geo Barents: chi fugge da stupri, chi dalle armi di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 21 marzo 2023 Marina di Carrara, il più grande sbarco in Toscana. In 100 rimarranno qui. La nave dei soccorsi in fermo amministrativo per venti giorni. Per primi arrivano i bambini. Entrano al Polo Carrara Fiere col pulmino della Croce Rossa scortato dalle volanti della municipale, le sirene riecheggiano fino alla spiaggia abitata solo da un pescatore mattiniero. Dal bocciodromo si affaccia un pensionato dai lunghi baffi: “Ecco gli africani, hanno i cellulari da mille euro. E io pago!”. Ore 9, a Marina di Carrara è appena approdata la nave Geo Barents di Medici Senza Frontiere. Il più grande sbarco in un porto toscano. A bordo 249 migranti, reduci da tre salvataggi tra Libia e Sicilia. Circa 140 uomini, 30 donne e 80 minori, di cui 50 non accompagnati e 10 con meno di 3 anni. Almeno 100 rimarranno in Toscana. Sono loro, insieme alle donne incinte, i primi ad arrivare al polo fieristico allestito per l’accoglienza dalla protezione civile. Una coperta avvolge una donna eritrea con un bambino di 11 mesi. I mediatori culturali del servizio anti tratta raccolgono la sua storia: “Il figlio che porta in braccio è il frutto di una violenza subita in Libia, dove è stata ripetutamente abusata, anche dopo la gravidanza e anche davanti al bambino”. Altre due eritree incinte di 4 mesi hanno 16 anni, anche loro vittime di violenza. La ginecologa Giovanna Casilla racconta: “È partita dall’Eritrea tre anni fa, è rimasta bloccata in Libia. Un uomo ha finto di aiutarla, l’ha portata in casa e ha abusato di lei”. L’hanno soccorsa in acqua quattro giorni fa, poi tre giorni per arrivare a Carrara. È stanca, ma quando le hanno detto che suo figlio sarà maschio ha sorriso. Al tendone con i medici del Meyer c’è il dottor Simone Pancani: “Ho appena visitato un somalo di 17 anni, ha difficoltà a stare in piedi, è disidratato”. È stato trasferito all’ospedale di Massa. Ci sono i volontari di varie associazioni e alcune aziende del comune, ogni volta che c’è uno sbarco, donano risorse che si trasformano in pasti, vestiti, coperte. Ci sono le assessore regionali Monia Monni e Serena Spinelli, la sindaca e la vicesindaca Serena Arrighi e Roberta Crudeli. “Ancora una volta la sofferenza di queste persone è stata inutilmente prolungata di 5 giorni” dicono Monni e Spinelli. “I numeri le smentiscono, il modello Meloni funziona” ribatte Francesco Torselli, Fdi. Alle 11.30 un profumo di pollo, uova, fagioli. Alcuni dei minori non accompagnati mangiano attorno a un tavolo. Sorridono dopo un viaggio durato mesi. Abbas è uno dei pochi che parla inglese: “Sono felice di essere in Italia. Sogno di diventare calciatore. Voglio andare a vivere a Roma. Ho pagato 2 mila euro per attraversare il mare, ho lasciato Mogadiscio a novembre perché per i giovani la vita è difficile”. Ha uno zainetto blu, come tutti gli altri. Dentro, le sue uniche cose: una maglietta, un paio di pantaloni, una felpa. “Avevo anche il cellulare ma l’ho perso in Libia, ancora i miei genitori non sanno che sono qui”. Nessuno di loro ha il cellulare. Sono vestiti con una tuta sportiva che viene donata a tutti. C’è un gruppo di ragazzini eritrei: “Quando è scoppiata la guerra nel Tigrai, il nostro governo avrebbe voluto arruolarci, così siamo scappati. Adesso siamo al sicuro”. C’è Ibrahim: “Voglio andare in Germania, dove ho amici, e studiare economia”. Sul braccialetto ha scritto “Portogallo” “in omaggio a Ronaldo”. Tre bambini siriani giocano con i palloncini e una bambola. “Siamo partiti con i nostri genitori”. Portano negli occhi due giorni e due notti di traversata. “Ma è stato solo l’ultimo ostacolo - raccontano i genitori - Il nostro Paese è distrutto, questa è l’infanzia dei nostri figli”. Ogni migrante ha un pezzo di scotch bianco sul petto con scritto lingua e provenienza. Una ragazza dice di essere col suo compagno, ma i servizi anti tratta scoprono che è il suo aguzzino. Li separano. In fiera con loro ecco i volontari e le forze dell’ordine per il foto segnalamento e le impronte. C’è aria distesa: “Finalmente salvi, la nostra vita comincia adesso” dice Mohamed facendo il segno della vittoria. Si rivolge verso il volontario della protezione civile: “Grazie”. La Geo Barents intanto, ha ricevuto ordine di fermo amministrativo di 20 giorni da parte delle autorità italiane per il presunto mancato rispetto delle istruzioni della Guardia costiera libica durante l’operazione di soccorso di sabato e perché avrebbe messo in pericolo la vita delle persone soccorse. Droghe. Non c’è più l’eroina di una volta di Alessandro De Pascale Il Manifesto, 21 marzo 2023 Italia, mercato dell’eroina. “Tutto parte dalla strada, dalle piazze di spaccio della sostanza che assumiamo, se pur con differenti stili di consumo”, scrive il Network Italiano delle persone che usano droghe (Inpud). “L’allarme arriva dalla qualità dell’eroina”, continua questa associazione di consumatori di sostanze psicoattive. Il problema da loro denunciato riguarda la quantità di principio attivo in essa contenuto. Molto basso, come confermano anche le analisi condotte dal servizio di riduzione del danno Neutravel di Torino sui campioni dell’eroina acquistata in strada da chi la usa. “Si è passati da un picco a Natale del 2016 del 35-40% di purezza, all’attuale percentuale inferiore al 5, in altre parole alla quasi assenza di principio attivo”, conferma a il Manifesto la responsabile del progetto Elisa Fornero. Lo stesso starebbe avvenendo in Spagna e altrove in Europa. Afghanistan, Asia Centrale. Da quando nel 2001 il Paese è stato invaso da una coalizione internazionale ed è iniziata l’occupazione della Nato praticamente ogni anno si è registrato un aumento della produzione di papavero da oppio, pianta dalla quale si ricava l’eroina. Nel 2007, con 193.000 ettari coltivati, l’Afghanistan aveva garantito da solo il 130% della produzione mondiale. In pratica, in 12 mesi, un terzo in più di quello che veniva consumato in un anno nel mondo. Da allora, superando il Myanmar (l’ex Birmania), si era poi attestato attorno al 90% delle forniture globali. Facendo arrivare sul mercato eroina ritenuta di buona qualità, anche del quarto livello di raffinazione: il processo che la trasforma in cloridrato, rendendola maggiormente pura e solubile in acqua. Poi, nel 2021, dopo il ritiro di Usa e Nato, i talebani tornati al potere mettono al bando la produzione d’oppio. Lo avevano già fatto nel 2000, facendo registrare l’anno seguente una riduzione del 94%. Anche ora il calo è drastico: -86% nella coltivazione del papavero da oppio, sceso da 219.744 ettari coltivati nel 2022 a soli 31.088 dello scorso anno. A fornire questa stima è l’Alcis, un centro studi britannico che fornisce numeri, analisi e servizi a governi, agenzie internazionali, banche, organizzazioni private, organizzazioni non governative e Nazioni unite. “La maggior parte degli indicatori compresi i prezzi di mercato, suggeriscono che per il secondo anno consecutivo il regime talebano porterà avanti una messa al bando senza precedenti”. Per l’Alcis potrebbe costituire “un vero e proprio punto di svolta con ramificazioni significative sia a valle in Europa che a livello politico”. Nel 2023 ciò ha “impedito a circa 6,9 milioni di contadini di guadagnare attraverso la coltivazione del papavero”. Nel frattempo, i prezzi del poco oppio prodotto sono raddoppiati, come dal luglio 2023 anche quelli dei derivati (morfina base, eroina base e di quarta raffinazione). Myanmar, Sud-Est Asiatico. Il 12 dicembre 2023 l’Ufficio delle Nazioni unite contro la droga e il crimine (Unodc) denuncia che la coltivazione di oppio nel Triangolo d’Oro (Birmania, Laos e Cambogia) “negli ultimi 12 mesi ha continuato ad espandersi, con un aumento significativo in Myanmar”. Nel secondo anno di presa del potere dei militari con un colpo di stato, in seguito al declino in Afghanistan l’ex Birmania è diventata “il più grande produttore di oppio al mondo”: 1.080 tonnellate in un anno. Superando così il precedente record del 2022 e raggiungendo il picco massimo dal 2001. Per l’Unodc l’aumento è stato del 18%, passando da 40.100 a 47.100 ettari coltivati. Gli incrementi più significativi si sono registrati nello Stato Shan, “dove la coltivazione è cresciuta del 20%, seguito da Chin e Kachin, rispettivamente +10% e +6%”. Tutte aree in mano ai ribelli. Mentre nelle città, ancora controllate dalla giunta, un diplomatico ci rivela che la sostanza più diffusa è la metanfemina. Del resto, fare la guerra costa e chiunque ne abbia avuta la possibilità l’ha finanziata col narcotraffico. Ancora da capire è se il Myanmar abbia riattivato le raffinerie per trasformare l’oppio in eroina e riattivato le rotte per portarla in Europa. Dove intanto, vista la bassa qualità di quella in circolazione è scattato “l’allarme Fentanyl”, per il possibile taglio con questo oppiaceo sintetico più potente di 50 volte. Il 12 marzo il Dipartimento politiche antidroga del governo italiano ha presentato un Piano nazionale contro l’uso improprio di questo farmaco che negli Usa è arrivato a provocare 100mila morti per overdose nel 2022, superando quelli per eroina. Egitto. Il “piano Mattei” al via con Al Sisi, il fascino indiscreto delle dittature di Alberto Negri Il Manifesto, 21 marzo 2023 Ma Al Sisi “non ha invaso il suo vicino”, ammonisce il presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Vero. Gli è bastato invadere il suo Paese con un sanguinoso colpo di stato nel luglio 2013. È il fascino indiscreto, e talora scomodo, delle dittature. Siamo stati amici di Saddam Hussein contro l’Iran di Khomeini, di Gheddafi quando era il “guardiano” dell’Africa; persino Putin e Assad ci sono serviti contro l’Isis, l’egiziano Al Sisi adesso è utile contro le migrazioni, il turco Erdogan, sultano dalle ambizioni neo-ottomane, è anche membro nella Nato. Eppure questi ultimi due, nostri amici e alleati, si sono congratulati vivamente con Putin per la sua rielezione che noi condanniamo con veemenza per una repressione sistematica e impietosa degli oppositori. Ma Al Sisi non ha invaso il suo vicino, ammonisce il presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Vero. Gli è bastato invadere il suo Paese e imbastire un sanguinoso colpo di stato nel luglio 2013 per abbattere un governo che poteva non piacere, quello dei Fratelli Musulmani, ma che era stato eletto regolarmente e approvato persino dagli Stati uniti di Obama. Tre settimane prima del golpe del generale egiziano ero all’ambasciata italiana del Cairo a incontrare i rappresentanti di quell’esecutivo, accolti con il dovuto rispetto, intervistati e filmati dai media. Ora molti di quei politici e militanti sono morti o li attende la forca. Questo è il Paese dove ha perso la vita Giulio Regeni, torturato e ucciso dai poliziotti di Al Sisi, sotto processo a Roma ma che il generale continuerà a proteggere. Questo è il prezzo di quel colpo di stato, paragonato a quello di Pinochet in Cile dal Nobel della letteratura Orhan Pamuk, costato migliaia di vittime, centinaia di migliaia di persone incarcerate e alla fine anche il fallimento dello stato egiziano e di governanti che non sanno uscire dalle loro contraddizioni. In Egitto oltre il 30% della popolazione - 114 milioni di abitanti - vive sotto la soglia di povertà. I tecnocrati di Sisi hanno tagliato pesantemente il carburante e altri sussidi ai consumatori durante una precedente tornata di riforme quindi l’attuale deficit del bilancio è causato soprattutto da aziende statali inefficienti e da costosi progetti infrastrutturali. Ma tenere sotto controllo questa élite - ci informa Barron’s, pilastro dell’informazione finanziaria Usa - potrebbe rivelarsi ancora più impegnativo, poiché incide sull’esercito egiziano, i cui tentacoli economici si estendono attraverso l’economia. Non è chiaro se Al Sisi possa mantenere il potere se esautora i militari: in realtà i finanziamenti che stiamo dando al Cairo non salvano un Paese e il suo popolo ma il colpo di stato del generale-presidente. Come scrive Barron’s, l’Egitto è un Paese sull’orlo del fallimento, con un debito estero di oltre 160 miliardi di dollari, e interessi da pagare per 40 miliardi di dollari l’anno che si divorano tutte le entrate dello stato. Ma come si dice nel miglio quadrato di Londra “It’s too big, to fail”, è troppo grande per fallire. Gli Emirati arabi uniti, il Fondo Monetario e l’Unione europea hanno sottolineato con forza questo punto promettendo in queste settimane circa 40 miliardi di dollari in investimenti e prestiti, di cui 8 vengono dal Memorandum d’intesa firmato domenica con Ursula Von de Leyen (accompagnata da quattro premier europei tra cui Meloni). In realtà aggiungendo i prestiti della Banca africana e di altre fonti si arriva a circa 60 miliardi di dollari. Poi l’Italia ci mette sopra come ciliegina il Piano Mattei, soldi e progetti già previsti dalla Cooperazione, un gioco di bussolotti in cui l’unica a fare qualche grosso affare è l’Eni, salvo che non inciampi come nell’ottobre scorso negli appalti israeliani del gas offshore che appartiene ai palestinesi di Gaza. Mattei, che aveva sostenuto la lotta anti-coloniale degli algerini contro i francesi, si rivolterebbe nella tomba. Altro che capitalismo non predatorio: vatti a fidare di Tel Aviv. Il generale-presidente egiziano è così messo male che si sta vendendo a pezzi il Paese. Gli Emirati ha promesso un acconto di 24 miliardi di dollari per un resort grande quanto Londra da costruire sulla costa del Mediterraneo nell’Egitto occidentale. E adesso si parla di vendere anche Alessandria con il suo porto e le sue magnifiche attrattive. Ma perché siamo così generosi con il generale golpista del Cairo? Se gli israeliani attaccheranno a Gaza il valico di Rafah migliaia di palestinesi cercheranno di fuggire alla morte nel Sinai egiziano, come previsto sin dall’inizio dai documenti militari pubblicati in ottobre da Haaretz. La realtà è che noi amiamo i dittatori e le finte democrazie. Netanyahu è il leader che è stato più volte al Cremlino. Non ha messo sanzioni a Mosca né dato una pallottola a Zelenski. Gli alleati di Putin in Medio Oriente per tenere in piedi il siriano Assad, Hezbollah e pasdaran iraniani, sono nemici di Israele. Ma Putin non ha mai detto una parola contro i raid israeliani in Siria. In fondo Netanyahu “aiuta” Putin a tenere a bada alleati difficili e ognuno massacra chi vuole nel cortile di casa sua, che sia in Ucraina, a Gaza o al Cairo, mentre le monarchie assolute del Golfo stanno zitte e sperano di farla franca davanti alle stragi dei palestinesi. Tre quarti dell’umanità non fa una piega contro i massacratori. L’Europa intanto paga Al Sisi come paga Erdogan per tenersi i migranti e tutti e due sono amici di Putin. Mentre gli Usa vendono armi a tutti, poi si vedrà chi resta in piedi. Di “collettivo” in questo Occidente ci sono solo i discorsi ipocriti degli europei sulla democrazia e la nuova “economia di guerra”. Ma chi invade chi? Somalia. Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, 30 anni di indagini senza un esito certo di Ferruccio Pinotti Corriere della Sera, 21 marzo 2023 Tutte le morti sospette di chi si è avvicinato al caso. Il 20 marzo 1994 la giornalista Rai e il suo operatore vennero assassinati in Somalia. Indagavano sui traffici d’armi e di rifiuti tossici. Nonostante le inchieste giudiziarie, la verità non è stata raggiunta. Mattarella: “Ferita aperta che riguarda l’intera società”. Sono trascorsi trent’anni da quel maledetto 20 marzo 1994 in cui Ilaria Alpi, romana, classe ‘61, giornalista Rai e inviata del TG3, venne assassinata a Mogadiscio, in Somalia, insieme al suo cineoperatore Miran Hrovatin classe ‘49 triestino. Eppure una verità giudiziaria, storica e processuale non è stata ancora raggiunta. Come ha dichiarato il presidente Mattarella “a trent’anni dall’agguato mortale che spezzò le vite di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, il loro ricordo è presente come nei giorni drammatici in cui la terribile notizia da Mogadiscio piombò sul nostro Paese. Erano giornalisti di valore alla ricerca in Somalia di verifiche e riscontri su una pista che avrebbe potuto portare a svelare traffici ignobili”. Significativamente, il capo dello Stato ha aggiunto: “Gli assassini e i mandanti sono ancora senza nome e senza volto dopo indagini, depistaggi, ritrattazioni, processi finiti nel nulla. È una ferita che riguarda l’intera società. Le Istituzioni sanno che non ci si può mai arrendere nella ricerca della verità”. Se questa è la posizione, netta e intransigente del presidente, cerchiamo di ricostruire i fatti a disposizione. L’incarico della Rai divenuto inchiesta - Ilaria Alpi si recò una prima volta in Somalia nel dicembre 1992 su incarico della Rai per seguire, come giovane inviata del TG3, la missione di pace “Restore Hope”, coordinata e promossa dalle Nazioni Unite per porre fine alla guerra civile scoppiata nel 1991, dopo la caduta di Siad Barre. Della missione faceva parte anche l’Italia, che cercava di superare l riserve dell’inviato speciale Onu per la Somalia, Robert B. Oakley, legate agli ambigui rapporti che il governo italiano aveva intrattenuto con Barre nel corso degli anni Ottanta, quelli della cosidetta “malacooperazione” che dietro agli aiuti allo sviluppo celava tangenti e traffici illeciti. L’inchiesta di Ilaria Alpi e Hrovatin si sarebbe soffermata su un possibile traffico di armi e di rifiuti tossici che avrebbero visto, tra l’altro, la complicità dei servizi segreti italiani e di istituzioni italiane. Ilaria avrebbe infatti portato alla luce un traffico internazionale di rifiuti tossici prodotti nei paesi industrializzati e dislocati in alcuni paesi africani in cambio di tangenti e di armi scambiate con i gruppi politici locali. Il precedente somalo: l’omicidio Li Causi - Il 12 novembre 93 era stato ucciso, sempre in Somalia e in circostanze misteriose, il sottufficiale del Sismi Vincenzo Li Causi, informatore della stessa Alpi sul traffico illecito di scorie tossiche nel paese africano. Alpi e Hrovatin furono uccisi il 20 marzi in prossimità dell’ambasciata italiana a Mogadiscio, a pochi metri dall’hotel Hamana, nel quartiere Shibis; in particolare, in corrispondenza dell’incrocio tra via Alto Giuba e corso Somalia (nota anche come strada Jamhuriyada, corso Repubblica). La giornalista e il suo operatore erano di ritorno da Bosaso, città del nord della Somalia: qui Ilaria Alpi aveva avuto modo di intervistare il cosiddetto “sultano” di Bosaso, Abdullahi Moussa Bogor, che riferì di stretti rapporti intrattenuti da alcuni funzionari italiani con il governo di Siad Barre, verso la fine degli anni Ottanta e successivamente, nella parte finale del colloquio, su domanda esplicita della Alpi, parlò della società di pesca italo-somala Shifco, azienda della quale lo stato italiano aveva donato dei pescherecci che furono usati molto probabilmente anche per il trasporto dei rifiuti. L’intervista durò probabilmente 2 ore e subito dopo i due giornalisti arrivarono nella postazione della redazione Rai. Ilaria Alpi salì poi a bordo di alcuni pescherecci, ormeggiati presso la banchina del porto di Bosaso, sospettati di essere al centro di traffici illeciti di rifiuti e di armi: si trattava di navi che inizialmente facevano capo ad una società di diritto pubblico somalo e che, dopo la caduta di Barre, erano illegittimamente divenute di proprietà personale di un imprenditore italo-somalo. L’agguato - Tornati a Mogadiscio, Alpi e Hrovatin non trovarono il loro autista personale, mentre si presentò Ali Abdi, che li accompagnò all’hotel Sahafi, vicino all’aeroporto, e poi all’hotel Hamana, nelle vicinanze del quale avvenne il duplice delitto. A bordo del mezzo si trovava anche Nur Aden, con funzioni di scorta armata. Sulla scena del crimine arrivarono subito l’imprenditore italiano Giancarlo Marocchino e gli unici giornalisti italiani presenti a Mogadiscio: Giovanni Porzio e Gabriella Simoni. Una troupe americana (un libero professionista che lavorava per un network americano) arrivò mentre i colleghi italiani spostavano i corpi dall’auto in cui erano stati uccisi, successivamente portati al Porto vecchio. Una troupe della Televisione svizzera di lingua italiana si trovava invece all’Hotel Sahafi (dall’altra parte della linea verde) e filmò su richiesta di Gabriella Simoni - perché ci fosse un documento video - le stanze di Miran e Ilaria e gli oggetti che vennero raccolti. Le indagini - Il duplice omicidio determinò l’apertura di due distinti procedimenti penali a carico di ignoti: l’uno, presso la procura di Roma, per la morte di Alpi (p.p. 2822/94 RGNR mod. 44); l’altro, presso la procura di Trieste, per la morte di Hrovatin (p.p. 110/1994 RGNR mod. 44). Una consulenza tecnica balistica, accertò che i colpi furono inferti alla giornalista a una distanza ravvicinata, alla stregua di un’esecuzione. Seguirono contrasti tra magistrati inquirenti e Procura di Roma. Il magistrato Giuseppe Pititto, in un’intervista a Famiglia Cristiana, il 23 aprile 2000 dichiarò: “Se la ragione per cui l’inchiesta mi è stata sottratta non è il contrasto tra me e De Gasperis, allora dev’essere un’altra: una ragione occulta. E ciò che è segreto, e incide su un’inchiesta giudiziaria per un duplice omicidio pregiudicando l’accertamento delle responsabilità, non può che allarmare”. La condanna (ingiusta) di Hashi Omar Hassan - Dopo le deposizioni di alcuni somali accompagnati a Roma in veste di persone informata sui fatti, nel 1997 fu accusato dell’omicidio Alpi-Hrovatin tale Hashi Omar Hassan, riconosciuto come uno degli autori materiali del duplice omicidio, presente all’interno della Land Rover con a bordo i sette componenti del commando, armati di fucili mitragliatori Fal. Il somalo Hassan fu condannato nel 2000 a 26 anni di reclusione, grazie soprattutto alla testimonianza del connazionale Ahmed Ali Rage, detto “Jelle”. Nel corso delle udienze, tuttavia, alcuni dei testimoni auditi lasciarono intravedere particolari inquietanti intorno ai possibili legami tra l’assassinio della giornalista e i presunti traffici illeciti di armi e di rifiuti tossici che sarebbero intercorsi tra Italia e Somalia. Il sospetto è ancora più aggravato dal fatto che alcune piste potrebbero portare a ritenere che la Alpi sia stata uccisa, a causa di quello che aveva scoperto, per ordine del presidente somalo Ali Mahdi e di Omar Said Mugne (Presidente della “Shifco”, società a cui appartenevano i pescherecci, compresa la Faraax Omar sequestrata a Bosaso e su cui Ilaria stava indagando); appare quindi lecito il dubbio che Ali Mahdi possa avere avuto tutto l’interesse a chiudere le indagini offrendo come capro espiatorio una persona del suo stesso clan” Hassan assolto - Il processo venne rifatto e il 19 ottobre del 2016 la svolta: Ashi Omar Hassan viene assolto dopo aver scontato 17 dei 26 anni che avrebbe dovuto scontare secondo la pena inflittagli. “L’uomo in carcere è innocente - dichiarò ad una troupe di Chi l’ha visto proprio lo stesso Ahmed Ali Rage, il grande accusatore di Hassan -. Gli italiani avevano fretta di chiudere il caso e mi avevano promesso denaro in cambio di una testimonianza al processo: dovevo accusare un somalo del duplice omicidio”. Il 3 luglio 2017, la procura di Roma chiede di archiviare l’inchiesta in quanto risulta impossibile accertare l’identità dei killer e il movente del duplice omicidio. Hassan sarebbe stato offerto alla giustizia italiana dal presidente somalo Ali Mahdi “come capro espiatorio” per riallacciare i rapporti tra Italia e Somalia. Lo stesso Hassan rilasciò al Corriere del Veneto un’intervista esclusiva: “Il mio accusatore venne pagato, lo Stato sapeva”. E poi ucciso - Nel 2018 Hassan venne risarcito dallo Stato italiano con tre milioni di euro per l’ingiusta detenzione, ma una bomba sotto il sedile dell’auto del somalo lo uccise il 6 luglio 2022 a Mogadiscio. La mamma di Ilaria Luciana e il papà Giorgio Alpi non avevano mai creduto alla sua colpevolezza e avevano festeggiato la sua liberazione. Altre inquietanti sorti colpirono altre persone. Mentre poco dopo aver testimoniato in Italia, fu rinvenuto in un albergo di Mogadiscio il cadavere di Ali Abdi, l’autista di Ilaria, deceduto in circostanze mai chiarite. Starlin Arush, attivista somala, amica dell’inviata del Tg3, venne invece uccisa da un commando di sicari, nei pressi di Nairobi, nel 2003. La Commissione d’inchiesta - Le indagini della Commissione parlamentare d’inchiesta hanno portato ad accertare i contatti che Ilaria Alpi ha avuto a fini investigativi con l’organizzazione Gladio: un membro di Gladio, Li Causi, morto qualche mese prima, era stato un suo informatore. Le indagini si sono rivolte inoltre alla morte di Mauro Rostagno e al centro Scorpione di Trapani (una sede di Gladio). Si è ipotizzato che il Centro Scorpione, dove operavano agenti dei servizi segreti di Gladio, ricevesse armi dalla società Oto Melara di Finmeccanica a la Spezia, e che queste armi fossero state inviate in Africa, dove operava la stessa organizzazione Gladio, dall’aeroporto di San Vito Lo Capo con un aereo ultraleggero non visibile ai radar. Sono state ipotizzate di recente coperture da parte dei traffici d’armi da parte di servizi segreti esteri, tutte da verificare. La battaglia contro l’archiviazione - Nel 2017 la procura di Roma riaprì le indagini, ma ne chiese l’archiviazione qualche mese dopo: la famiglia Alpi - assistita dall’ex magistrato e ora avvocato Carlo Palermo (che negli anni 80 si era occupato dalla procura di Trento di traffici d’armi e mala-cooperazione) - si oppose e nel giugno del 2018 il giudice per le indagini preliminari dispose ulteriori accertamenti. Nel frattempo morì Luciana Alpi, la madre di Ilaria, che per 24 anni aveva guidato le campagne per chiedere la verità sull’omicidio di sua figlia. Nel febbraio del 2019 la procura di Roma chiese l’ennesima archiviazione delle indagini, nuovamente rifiutata. La campagna “Noi non archiviamo” - Oggi l’inchiesta giudiziaria è dunque formalmente ancora aperta. Il 19 marzo scorso il deputato Walter Verini, capogruppo del Partito Democratico in commissione Antimafia, ha organizzato una conferenza stampa sul caso alla Camera dei deputati con Mariangela Gritta Grainer, portavoce della campagna “Noi non archiviamo” e con i rappresentanti della Federazione Nazionale Stampa Italiana, dell’organizzazione sindacale dei giornalisti Rai Usigrai, dell’Ordine dei giornalisti del Lazio e dell’associazione Articolo 21. Verini ha detto di aver chiesto e ottenuto un incontro con il procuratore capo di Roma, Francesco Lo Voi “per fornire tutti i tasselli utili, anzi necessari per sostanziare la richiesta di non archiviare la vicenda: ci sono gli elementi per raggiungere la verità e la giustizia”.