Se il carcere uccide la speranza, il dramma dei suicidi in cella di Mario Lavia Il Riformista, 20 marzo 2024 Le storie di chi non ha retto l’inferno della reclusione. Dietro le sbarre non è vita, altro che la rieducazione prescritta dalla nostra Costituzione. Non si respira. C’è troppa gente, una montagna di disperazione che sovrasta qualunque speranza di rifarsi una vita. Il sovraffollamento in certi casi è insopportabile: non è la causa diretta di un suicidio ma certo ti toglie la possibilità di parlare, di pensare liberamente. Michele Scarlata, 66 anni, non ha retto in un carcere difficile come quello di Imperia: troppe persone, che spesso è l’altra faccia della solitudine. La depressione, chi la cura in carcere? Nemmeno dinanzi a casi di detenuti che hanno provato e riprovato a togliersi la vita si interviene, eppure i segnali spesso sono sin troppo chiari. Capirai, un detenuto depresso, sai che notizia. Gli psicologi sono drammaticamente pochi: “Gli hanno giustamente aumentato lo stipendio ma a costo zero, cioè fanno meno ore. Il calo è all’incirca del 40 per cento”, ci spiega Ornella Favero, coordinatrice di “Ristretti Orizzonti” di Padova che si occupa di questi problemi da anni. Il problema di fondo è che la politica ammanta di una certa inevitabilità questa condizione che porta al suicidio dei detenuti. Lo stesso ministro Carlo Nordio ha dato questa impressione parlando, improvvidamente, di “malattia”. Ha commentato il segretario della Uil-Pa (un sindacato della Polizia penitenziaria) Gennarino De Fazio: “I suicidi in carcere saranno anche simili a una malattia, come sostiene il Guardasigilli, Carlo Nordio ma in questo caso il Ministro della Giustizia deve essere il medico e non l’addetto alle pompe funebri. Da Nordio ci aspettiamo la terapia capace, quanto meno, di lenire la patologia. Del resto, basta osservare i sintomi per fare la diagnosi. Ci riferiamo al sovraffollamento detentivo, che sfiora il 130 per cento, alle carenze organiche, 18mila operatori in meno solo per la Polizia penitenziaria, alle deficienze strutturali, infrastrutturali, logistiche e negli equipaggiamenti, alla disorganizzazione e a molto altro ancora”. Il governo non sta facendo nulla. Sempre De Fazio: “Il ministro Nordio e il governo Meloni prendano compiutamente atto della grave emergenza e varino un decreto carceri per consentire cospicue assunzioni straordinarie, con procedure accelerate, e il deflazionamento della densità detentiva pure attraverso una gestione esclusivamente sanitaria dei detenuti malati di mente e percorsi alternativi per i tossicodipendenti. Parallelamente, il Parlamento approvi una legge delega per la riforma complessiva del sistema d’esecuzione penale, la reingegnerizzazione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e del Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità e la riorganizzazione del Corpo di polizia penitenziaria. Lo ripetiamo, non c’è più tempo”. Non si suicidano solo i giovani. Si suicidano persone che stanno finendo di scontare la pena e hanno “paura” della libertà, di uscire in un mondo dove sono stati dimenticati. Vuol dire che il carcere non li ha preparati a ri-vivere. Un fallimento cosi è difficile da accettare. “In carcere non si parla, ed è questo il problema numero uno - ci dice ancora Favero - per questo bisognerebbe liberalizzare le telefonate e aumentare al massimo la possibilità di contatti con l’esterno. Ma lo sa quanti detenuti sono stati trattenuti dal compiere gesti estremi proprio grazie a una telefonata con i familiari?”. Ci sono persone che invece non sentono la madre o il fratello per mesi e mesi. Soli. Anche questi aumenta il disagio mentale, che cresce nella società “normale” figuriamoci in carcere. E poi però il “depresso” non ce la fa più. Una settimana fa Jordan Jeffrey Baby, all’anagrafe Jordan Tinti, trapper senza fissa dimora di 27 anni è stato trovato cadavere con una corda intorno al collo nel carcere di Torre del Gallo a Pavia, ci aveva già provato, aveva anche subito violenza ma i giudici avevano negato i domiciliari. Ha preferito una corda al collo. A Secondigliano si è ucciso un giovane straniero, Robert L.: dall’inizio dell’anno i suicidi sono già 23, l’anno scorso sono stati 71. Gli stranieri che si tolgono la vita sono parecchi. Scarseggiano i mediatori culturali, gli interpreti. Gli psicologi in grado di capire e di parlare con un ragazzo marocchino che ha rubato un cellulare e poi dato in escandescenze una volta in cella. O peggio in un Cpr come quello di Ponte Galeria, a Roma. Su un muro Ousmane Sylla, 23 anni, originario della Guinea, ha lasciato un messaggio con un mozzicone di sigaretta: “Se un giorno dovessi morire, vorrei il mio corpo fosse portato in Africa, mia madre ne sarebbe lieta (…) L’Africa mi manca molto e anche mia madre, non deve piangere per me. Pace alla mia anima, che io possa riposare in pace”. Poi si è ucciso impiccandosi. Non sappiamo se il suo corpo è tornato nella sua Africa, lo speriamo, il prezzo che il ragazzo ha pagato è altissimo. E poi ci sono le storie terribili, spesso sconosciute. I maltrattamenti, le violenze. Terribili in sé e per le conseguenze che comportano. Questa è la storia di Fahki Marouane, 30 anni, marocchino, che a luglio dell’anno scorso si diede fuoco nella propria cella nel carcere di Pescara ed essersi procurato ustioni su quasi tutto il corpo. Marouane era tra i reclusi vittime dei pestaggi avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) il 6 aprile 2020, e si era costituito parte civile nel maxi-processo in corso all’aula bunker dello stesso carcere a carico di 105 imputati tra agenti penitenziari, funzionari del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) e medici dell’Asl. Marouane avrebbe dovuto testimoniare al dibattimento, anche perché la sua vicenda era tra quelle ritenute più gravi dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere; dai video delle violenze, dalle indagini e dalle prime fasi del processo (partito a novembre 2022), è emerso infatti come Marouane fosse stato tra i detenuti maggiormente “attenzionati” dagli agenti penitenziari responsabili dei pestaggi. In particolare dai video mostrati nelle scorse udienze, si vede che Marouane, durante i pestaggi, fu costretto a muoversi sulle ginocchia a piccoli passettini per raggiungere il suo posto; rimasto solo dopo che gli altri detenuti erano stati portati via, fu colpito con il manganello in testa, quindi fatto alzare e inginocchiare nuovamente ad altezza di un agente, e alla fine riportato in cella tra i poliziotti che continuavano a pestarlo. Dopo l’esperienza a Santa Maria Capua Vetere, Marouane fu poi trasferito al carcere di Pescara, dove pareva essersi ripreso; lì aveva infatti intrapreso un percorso rieducativo concreto, diplomandosi e ottenendo la semilibertà, ma quest’anno, con l’inizio dei processi per i pestaggi del 6 aprile 2020, l’uomo ha probabilmente rivissuto il terrore ricadendo in quello stato depressivo da cui forse non era mai guarito del tutto. A Pescara Marouane sembra che sia andato in tilt per un richiamo, fino a minacciare di darsi fuoco, cosa che poi effettivamente ha fatto. E vogliamo parlare del problema nel problema delle donne detenute in istituti penitenziari pensati in tutto e per tutto, da sempre, per gli uomini? Ancora l’estate scorsa, il 12 agosto 2023, la garante comunale dei detenuti a Torino Monica Gallo, dopo i suicidi di due detenute, aveva denunciato che “per le detenute donne meno servizi che per gli uomini. Non c’è un vero presidio medico, tutto ciò che riguarda l’assistenza è residuale”. Ecco la sezione femminile del carcere di Torino: centodieci detenute su ottanta posti. Quattro dell’articolazione tutela salute mentale, ovvero le donne più fragili psicologicamente e con problemi comportamentali. In questo contesto Susan John, 43 anni, di origine nigeriana, si è lasciata morire di fame e di sete. Azzurra Campari, 28 anni, trasferita da Genova, dal penitenziario di Ponte Decimo, si è impiccata. Bisognerebbe utilizzare di più le pene alternative. Bisognerebbe ascoltarle di più, queste persone. Bisognerebbe rieducarle. Non condannarle all’inferno, come pare avvenga nelle carceri di questo Paese. “Assente una società civile che si domandi cosa sta succedendo” di Giulio Goria Il Riformista, 20 marzo 2024 Intervista all’ex Garante nazionale delle persone detenute, Mauro Palma. Un problema da affrontare “immediatamente e con urgenza”, così il Presidente Mattarella due giorni fa è tornato sul problema dei suicidi in carcere. Lo aveva già fatto a fine gennaio e da allora la situazione non è cambiata. I numeri fanno impressione: 26 le persone che si sono tolte la vita dall’inizio dell’anno. Un trend che senza interventi urgenti, appunto, rischia di non cambiare rotta. Chiediamo di spiegarci questi numeri a Mauro Palma, fino allo scorso gennaio Presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale e ora presidente dello “European Penological Center” dell’Università Roma Tre. Cosa ci dicono questi numeri? “Mi baso sulla situazione che ho conosciuto fino a gennaio di quest’anno. Sono per lo più detenuti senza un lungo trascorso in condizioni di detenzione, persone al contrario con una presenza tutto sommato breve, anche ai primi periodi, o persone sull’orlo dell’uscita dal carcere. Peraltro in diversi casi parliamo di detenuti senza condanne di particolare gravità”. Quale clima delle nostre carceri evidenziano questi casi? “Sono sempre scelte complesse che affondano nella sfera personale, guai quindi a volerle interpretare dal di fuori. Esistono però due fattori che determinano un clima complessivo. In primo luogo, uno esterno: il carcere nel dibattito pubblico è visto come un mondo a perdere, senza speranza. Non è un terreno su cui impegnare risorse per avvicinarlo di più alla società esterna. Se è così, un soggetto più fragile rischia di pensare che il suo ritorno in società sarà impossibile. I suicidi in carcere interrogano innanzitutto noi all’esterno, ben più che l’amministrazione carceraria. Interrogano il modo in cui noi, dal di fuori, rappresentiamo il mondo dentro e come lo abbiamo fatto diventare il luogo di tutte le esclusioni sociali”. Su questo punto il sovraffollamento incide relativamente, il secondo fattore invece? “L’altro elemento interroga il mondo interno al carcere. Qui effettivamente incidono i numeri: oggi le carceri italiane ospitano circa 6lmila detenuti su 48mila posti regolamentari. Ma è il ritmo di crescita della popolazione a preoccupare: circa 400 persone in più al mese. È un trend che determina stress per chi è detenuto come per chi lavora in carcere con turni molto impegnativi. E davanti a una difficoltà complessiva del sistema, spesso a prevalere sono logiche di chiusura. Penso ad esempio al modo in cui è stata interpretata in fase di sperimentazione la circolare del DAP (luglio 2022) per il rilancio del circuito di media sicurezza. Quel documento nasceva per stimolare progetti e attività rivolte ai detenuti, affinché occupassero costruttivamente il tempo trascorso fuori dalla cella. L’esito invece è stato diverso: anche a causa dei numeri alti è pre valsa un’interpretazione della circolare in termini di maggiore chiusura. Più che prendersela con i singoli agenti penitenziari, allora, dobbiamo capire come far diventare il carcere un ambiente più simile al mondo esterno”. Come? “Le faccio un esempio. A seguito della recente sentenza della Consulta che riconosce il diritto all’affettività per i detenuti, serve renderne possibile l’applicazione. E francamente non vedo un’amministrazione penitenziaria impegnata ad attrezzarsi in tal senso. I nuovi padiglioni in costruzione prevedano, dentro i necessari parametri di sicurezza, spazi consoni a vivere la propria intimità. E sarebbe opportuno fare anche una fotografia degli istituti dove già oggi questa possibilità esiste”. Davanti a numeri in crescita la soluzione proposta sembra essere costruire nuove carceri. Che ne pensa? “Esistono piani diversi, e non basta imboccare una strada sola. Dobbiamo innanzitutto guardare all’immediato trovando un meccanismo per abbassare subito i numeri, sul medio periodo poi penso alla possibilità di portare la liberazione anticipata dai 45 giorni attuali a 60. Sul lungo periodo poi è possibile anche mettere in campo soluzioni di edilizia penitenziaria, ma sapendo che per costruire un carcere, o anche solo riadattare a questo scopo un edificio già esistente, serve tempo. E non sempre è la soluzione che favorisce il reinserimento di chi sta scontando pene brevi”. Ieri il Presidente Mattarella, intervenendo all’anniversario della Polizia penitenziaria, ha lanciato un ulteriore appello: istituzioni e società devono sentirsi chiamati in causa da ciò che accade dentro le mura del carcere. Come si supera questa barriera? “Bisogna rimettere al centro l’idea che il carcere ci appartiene e su questo coinvolgere la società civile. Era l’ispirazione degli Stati Generali dell’esecuzione penale. In Italia ci sono moltissime iniziative sociali, artistiche, sportive rivolte alla popolazione detenuta. Non c’è invece una società civile che si domandi che cosa succede in carcere. Lavorare sul rimosso che il carcere si porta dietro è essenziale per eliminare lo stigma sociale che ancora si porta dietro. Oltretutto è nell’interesse della società tutta; la maggior parte delle pene sono di breve durata, significa che le persone escono o usciranno a breve: a tutti noi converrebbe favorirne l’integrazione”. Accordo tra Cnel e Garante nazionale per reinserimento socio-lavorativo dei detenuti redattoresociale.it, 20 marzo 2024 L’intesa, finalizzata alla promozione del lavoro e della formazione in carcere, riguarda anche i cittadini stranieri in detenzione. Presso il Cnel, istituito un segretariato permanente per l’inclusione, in grado di interagire con tutte le parti sociali. La formazione e il lavoro in carcere come strumento di riduzione della recidiva: è questo il principio su cui si basa l’intesa siglata ieri da Cnel e Garante nazionale delle persone private della libertà personale. A siglare l’accordo, il presidente di Cnel Renato Brunetta e il presidente del Collegio del Garante Maurizio Felice D’Ettore, alla presenza degli altri due membri del Collegio, Irma Conti e Mario Serio. L’intesa nasce sulla scorta del precedente accordo tra il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro e il Ministero della Giustizia, finalizzata alla promozione del lavoro e della formazione in carcere, anche come strumento di riduzione della recidiva. La collaborazione, in particolare, fa riferimento all’istituzione presso il Cnel di un segretariato permanente per l’inclusione economica, sociale e lavorativa, in grado di interagire con tutte le parti sociali - datoriali, sindacali e del terzo settore - mettendo a sistema le relative reti organizzative di prossimità capillarmente ramificate sull’intero territorio nazionale. L’accordo riguarderà anche l’ambito specifico dei cittadini stranieri in regime di detenzione, nel quadro delle attività svolte dall’Organismo nazionale di coordinamento delle politiche di integrazione degli stranieri (ONC), istituito presso il Cnel sulla base del D.lgs. 286/1998. Potranno, inoltre, essere ricompresi ulteriori campi d’intervento di comune interesse e rientranti nelle rispettive competenze, con l’obiettivo di aumentare la capacità di riabilitazione, formazione e aiuto al reinserimento sociale del sistema carcerario e dell’esecuzione della pena. “Aggiungiamo oggi - ha dichiarato Renato Brunetta - un importante tassello al progetto lavoro e formazione in carcere, che stiamo portando avanti con il Ministero della Giustizia. L’intesa con il Garante è un’ulteriore leva per un’iniziativa dal grande valore sociale, un’iniziativa win-win-win, dove vincono tutti”. “È per noi di grande importanza - ha sottolineato Maurizio Felice D’Ettore - che un organo di rilevanza costituzionale come è il Cnel sia al nostro fianco, in questo campo. È indice della forza democratica del Paese”. Quelli che... giocano dietro le sbarre. Lo sport per tutti comincia in cella sportesalute.eu, 20 marzo 2024 Lo sport dev’essere di tutti: anche di chi è in carcere. E il principio alla base di “Sport di tutti’; il modello d’intervento sportivo e sociale portato avanti dal ministero per lo Sport e i Giovani, realizzato dal Dipartimento per lo Sport in collaborazione con Sport e Salute, la struttura operativa del governo per la promozione dello sport e dei corretti stili di vita. Il progetto, giunto alla sua seconda edizione, punta ad abbattere tutte le barriere di accesso all’attività sportiva e ad attuare il principio del diritto allo sport per le persone e nelle comunità. Suddiviso in quattro aree di intervento, “Sport di tutti” - finanziato con 15,7 milioni di euro - coinvolgerà 73 carceri, di cui 13 minorili, e 25 comunità di accoglienza per minori (le altre aree di intervento sono “Quartieri”, “Sport nei parchi’; “Inclusione”). I protagonisti del programma ministeriale saranno associazioni e società sportive dilettantistiche ed enti del Terzo settore di ambito sportivo. Non si punta solo a favorire la pratica sportiva dei detenuti. È prevista, infatti, anche un’attività formativa sia in ambito sportivo che educativo destinata a chi lavora nei penitenziari, agli stessi detenuti e agli operatori che li seguiranno nei 18 mesi del programma. Tra le associazioni sportive che hanno aderito c’è l’Asd Avangarde sport. Da dieci anni, la società dilettantistica porta sport come il body building, il calcio a 7, il calciotto, la ginnastica e la pallavolo nel carcere `Antonio Caputo” di Salerno. Dalla prossima settimana, nel penitenziario salernitano partiranno le attività formative e sportive previste da “Sport di tutti’; che coinvolgeranno sia i detenuti comuni che quelli dell’Alta sicurezza, oltre alle detenute della sezione femminile. Scacco matto all’aggressività. La sfida è di quelle ambiziose ma il Carcere di Temi, finito tristemente sulle cronache nazionali per il record nazionale di suicidi in cella ha scelto di accettarla. Nel penitenziario temano è appena partito “Chess4Life”, un progetto che attraverso l’insegnamento del gioco degli scacchi mira a stimolare nei detenuti capacità di riflessione e strategie applicabili anche al di fuori degli scacchi, nella vita di tutti i giorni. Il progetto della durata di 18 mesi e presentato all’interno della casa circondariale, rende le mosse da “Sport per tutti-Carceri; l’iniziativa di Sport e Salute su input del ministero dello sport e da due protocolli sottoscritti dal ministero con il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e il dipartimento della giustizia minorile e di comunità per finanziare una serie di interventi a favore dei detenuti, detenuti a fine pena, detenuti in libertà vigilata o minorenni presi in carica dalle comunità o dai servizi sociali. A Terni il progetto coinvolge per ora 8 detenuti due volte a settimana, ma il numero delle richieste è in costante crescita. Gratteri: “Così in ogni carcere entrano armi e 100 telefoni” di Saul Caia e Vincenzo Iurillo Il Fatto Quotidiano, 20 marzo 2024 In 19 penitenziari, grazie all’ingresso dei cellulari “i boss hanno continuato a minacciare e a impartire ordini all’esterno. E così riescono a eludere la detenzione”. L’emergenza è nazionale, attraversa l’intero sistema penitenziario italiano. Non c’è solo il dramma dei 25 suicidi già registrati dall’inizio dell’anno (e ricordato ieri dal Presidente Mattarella), del sovraffollamento e delle carenze d’organico nelle carceri italiane. Ci sono anche i numeri snocciolati dal procuratore di Napoli, Nicola Gratteri, ieri in conferenza stampa. In ogni carcere si annidano una media di 100 telefonini, entrano tramite droni ipertecnologici insieme a droga e armi. Con quei cellulari, ricorda Gratteri, “i boss continuano a impartire ordini all’esterno, a minacciare, ad eludere la detenzione”. Sconfessando l’ormai celebre dichiarazione del ministro di Giustizia Carlo Nordio: “Un mafioso vero non parla né al telefono, né al cellulare perché sa che c’è il trojan, né in aperta campagna perché ci sono i direzionali”. Infatti parla tranquillamente dalla sua cella. E le mafie lucrano anche su questo traffico, con tanto di tariffario: 1.000 euro per introdurre uno smartphone, 250 euro una sim, 7.000 euro mezzo chilo di erba e una pistola “10 mila euro” dice in un’intercettazione Vincenzo Scognamiglio (fra i 30 arrestati nel maxi-blitz di ieri a Napoli), uno dei leader di una “squadra specializzata”, una sorta di franchising al servizio dell’Alleanza di Secondigliano, capace con i suoi droni, secondo l’accusa, di bucare i sistemi di sicurezza di almeno 19 penitenziari. Si riferisce ai “fatti di Frosinone”, sottolineano i pm. È l’agguato a colpi di pistola compiuto a settembre 2021 nel carcere di Frosinone: il detenuto Alessio Peluso fece fuoco su un gruppo di altri detenuti che qualche giorno prima l’avevano picchiato. Il drone gli aveva recapitato la pistola direttamente in cella. Tutto è partito da lì, con le indagini delle Squadre mobili di Frosinone e Napoli, Nic della penitenziaria e dei carabinieri del Ros. Ci sono intercettazioni in cui Scognamiglio si vanta di essere l’unico capace di pilotare quei droni e di guadagnare “anche 10 mila euro al giorno”. Un pentito quantifica “l’affare dei droni” a Secondigliano: “Fruttava circa 30, 40 mila euro a settimana. Pensi che 1 kg di hashish a Secondigliano vale 25 mila euro mentre fuori, oggi, vale 2.800-2.900 euro”. Scognamiglio in un’altra intercettazione: “Far entrare 10 telefoni piccoli e 10 smartphone, io prendo 4.000 euro e tu con il commercio che c’è di telefoni nel carcere ti fai 30.000 euro, perché uno smartphone costa intorno ai 2.000 euro e i piccoli tra le 700/800 euro”. Come ci riuscivano lo spiega un altro pentito: i droni partivano “di notte, con il buio, e per evitare di essere intercettati dal sistema di controllo, modificati attraverso un congegno che elude la barriera aerea. Al drone viene legato un lungo filo nero al quale è appesa una busta, sempre scura, all’interno della quale vi sono telefoni, schede telefoniche e barrette di fumo”. E siccome il drone fa rumore “deve esserci la compiacenza di qualche guardia penitenziaria”. Insomma, soldi con la pala che tornano nelle tasche delle mafie e una nuova emergenza criminale. Secondo Gratteri potrebbe essere neutralizzata acquistando i jammer capaci di frenare droni e stanare cellulari. “Costano 60.000 euro l’uno e ne proposi l’acquisto: non sono stato ascoltato, dopo un mese sono iniziate le rivolte nelle celle. Non sappiamo se il Dap li acquisterà, potremmo iniziare a usarli nelle cinque o dieci principali carceri. I cellulari in carcere sono pericolosi: i boss li usano per restare attivi ed eludere la detenzione”. Alcune recenti inchieste siciliane dimostrano che cellulari e carcere sono un binomio costante. Nello scorso novembre, la polizia penitenziaria agrigentina ha bloccato un drone che trasportava 8 telefonini all’interno della casa circondariale “Pasquale Di Lorenzo” (Agrigento). Era il terzo tentativo, dopo marzo e metà ottobre. Nelle celle del penitenziario di Enna, nascosti tra i muri, sono stati scovati 4 cellulari, mentre nel maggio scorso al “Pietro Cernili” (Trapani), la penitenziaria ha trovato numerosi micro cellulari, adattatori Usb e memory card. Altri 4 smartphone erano nascosti dentro il water delle celle del “Pagliarelli” (Palermo). Nelle inchieste della Dda di Catania emergono persino le comunicazioni tra detenuti e affiliati. Corrado Piazzese, arrestato per mafia, informa il “detenuto Eugenio Gulizzi, ristretto nel carcere di Cavadonna (Siracusa)” sulle recenti operazioni antimafia che avevano colpito duramente lo spaccio e portato agli arresti di alcuni affiliati. “… noi abbiamo avuto dei problemi… non lo so se l’hai saputo… Ieri sera ci hanno smantellato tutte cose…”. “Se fossi stato fuori io… puttana la miseria”, risponde Gulizzi, che era “a disposizione per assicurare, in carcere, ogni comfort ai neo arrestati: ‘Fammi sapere di cosa ha bisogno e gliela facciamo arrivare’”. Alessio Toromosca, condannato in via definitiva per mafia e detenuto a Cavadonna, chiama un amico: “Mio fratello… da tanto ti dovevo chiamare sono senza telefono vita, sono stato con la speranza che mi facevano chiamare un po’ là… un po’ da quella parte”. “Ora lo hai procurato?”, chiede l’interlocutore. “Ora me lo sono comprato, sì!” replica Toromosca. “Com’è, sempre là sei?” chiede l’uomo. Toromosca: “Sempre a Cavadonna al blocco media sicurezza. C’era… che è uscito l’altroieri”. “È uscito? ma dov’è?”, chiede l’uomo. “Ai domiciliari è uscito con il braccialetto”, risponde il detenuto. “Davvero… non ha pubblicato niente”, aggiunge l’altro. E Toromosca: “No, perché il tribunale che non può usare social altrimenti lo tirano di nuovo”. Poi ci sono le chiacchierate di Antonio Montagno Bozzone, detenuto per mafia a Caltagirone, che usa il cellulare per comprare armi e riscuotere i soldi. “È da una settimana che ti vengo dietro, perché io non ho voluto chiamare a nessuno, perché ho avuto la parola con te, com’è finita per quel discorso? (…) Mi avevi detto che un paio di motorini parcheggiati li avevi, dammene uno e poi le cose che ti do te vai a prendere un altro”, dice Montagno Bozzone al suo interlocutore. “Motorini” sta per “armi”. E poi la minaccia al suo pusher per recuperare “i crediti dei suoi debitori”: “Ti dico una cosa sola, entro oggi, o procurati tutti i soldi che ti devono dare le persone, fino all’ultimo centesimo, ci spari, li ammazzi, non mi interessa, dopodomani sei rovinato, (…) entro due giorni te ne devi andare anche da casa perché ti levo anche la casa, vammi a cercare tutti i soldi dei cristiani”. Evidenze di una realtà negata da Andrea Delmastro, sottosegretario al ministero di Giustizia, che l’altroieri, durante un dibattito in cui era presente Gratteri, ha detto: “In Italia il mafioso vive come un topo sottoterra e quando viene preso vive come un topo all’interno di una prigione”. Magari. Ingiuste detenzioni, che fine ha fatto la relazione annuale? di Valentina Stella Il Dubbio, 20 marzo 2024 Tribunali “puntualmente in ritardo” nell’invio dei dati: segno che per i capi degli uffici giudiziari la materia è irrilevante. Perché è sempre così difficile conoscere i dati che riguardano l’amministrazione della giustizia? E soprattutto quelli concernenti la detenzione, tema che sempre di più vive nell’oscurità e nell’oblio? Un esempio: l’articolo 15 della legge numero 47 del 2015 prevede che “il governo, entro il 31 gennaio di ogni anno, presenta alle Camere una relazione contenente dati, rilevazioni e statistiche relativi all’applicazione, nell’anno precedente, delle misure cautelari personali, distinte per tipologie, con l’indicazione dell’esito dei relativi procedimenti, ove conclusi”. Su questa disposizione è poi intervenuta la legge numero 103 del 2017 che estende l’obbligo di informativa ricomprendendovi anche “i dati relativi alle sentenze di riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione, pronunciate nell’anno precedente, con specificazione delle ragioni di accoglimento delle domande e dell’entità delle riparazioni, nonché i dati relativi al numero di procedimenti disciplinari iniziati nei riguardi dei magistrati per le accertate ingiuste detenzioni, con indicazione dell’esito, ove conclusi”. Tuttavia quest’anno, come ogni anno, ancora non è stata resa nota la Relazione, e siamo a metà marzo. L’anno scorso fu presentata addirittura a maggio. Critico sul ritardo il responsabile giustizia di Azione, il deputato Enrico Costa, che su questa tematica si spende da molto: “È indice del disinteresse di questo governo sul tema delle ingiuste detenzioni. Fanno tanti proclami, poi “bucano” un termine previsto dalla legge. Questa è conseguenza dell’aver messo il ministero della Giustizia in mano ai magistrati: per loro gli innocenti in carcere sono solo fisiologici effetti collaterali”. Abbiamo chiesto lumi al ministero della Giustizia, ma ci è stato risposto che i “lavori sono in corso e che il 31 gennaio non è un termine perentorio”. Nello specifico ci hanno spiegato che la catena di montaggio dei dati procede a rilento per le seguenti ragioni: i numeri che giungono a via Arenula devono essere aggiornati al 31 dicembre. Essi arrivano sia dal ministero dell’Economia e delle Finanze che si occupa materialmente dei risarcimenti sia dagli uffici giudiziari territoriali. Una volta giunti al ministero vanno integrati con quelli in possesso del Dicastero e confezionati dai propri uffici, operazione che non riesce mai nei tempi previsti. C’è poi da stigmatizzare il fatto che l’analisi non è mai completa perché non tutte le sezioni del giudice per le indagini preliminari e sezioni dibattimentali dei Tribunali rispondono. Ad esempio, come abbiamo letto nella relazione dello scorso anno, “per l’anno 2022 il tasso di rispondenza degli uffici giudiziari competenti è stato dell’80%, precisando, ad ogni buon conto, che hanno risposto quasi tutti i 29 Tribunali distrettuali e che i dati degli uffici non rispondenti sono stati stimati”. Sempre Costa aveva presentato un emendamento in cui chiedeva al governo di sanzionare i Tribunali ritardatari, ma era stato bocciato e a fine gennaio, durante una conferenza stampa, ha illustrato una proposta di legge di modifica dell’articolo 315 del codice di procedura penale per sanzionare sul piano disciplinare il magistrato che ha determinato una ingiusta detenzione. Essa prevede che “la sentenza di accoglimento della domanda di riparazione per ingiusta detenzione sia trasmessa agli organi titolari dell’azione disciplinare nei riguardi dei magistrati, per le valutazioni di competenza. Troppo spesso, infatti, accade che le ragioni che hanno determinato errori, anche gravi, non siano rilevate, come occorrerebbe, sul piano disciplinare o restino prive di conseguenze in sede di decisione sugli avanzamenti di carriera”. Il fatto che il fenomeno sia considerato normale sembra abbia contagiato anche il presidente della Corte costituzionale, Augusto Barbera, che due giorni fa, durante la riunione straordinaria della Consulta, ad una domanda di un giornalista che gli chiedeva un parere sui mille casi all’anno tra ingiuste detenzioni e errori giudiziari, ha risposto freddamente: “Più che il dovuto risarcimento delle vittime degli errori giudiziari, che non sono solo in Italia, (...) temo ancora più pericoloso che il bilancio dello Stato debba sopportare la lunga durata dei processi”. E se i magistrati pagassero di tasca loro per le ingiuste detenzioni? di Riccardo Radi Il Dubbio, 20 marzo 2024 A fronte di circa 930 milioni di risarcimento pagati dallo Stato, un solo magistrato è stato condannato per danno erariale per euro 10.425,68 dalla Corte dei Conti. Le detenzioni ingiuste e le sentenze sbagliate sono quasi sempre causate da una pluralità di fattori e tra questi l’errore umano è solo uno dei tanti possibili e non necessariamente il più importante. Ritengo che non basti più contarli ma sia necessario avanzare proposte per trovare soluzioni allo stillicidio di errori giudiziari e ingiuste detenzioni che in Italia, tra il 1992 e il 2022, hanno coinvolto ben 30.689 persone. Numero considerevole che si traduce in più di mille persone che ogni anno sono state indennizzate dallo Stato (cioè da tutti noi) per essere state vittime di ingiuste detenzioni o errori giudiziari. L’esborso complessivo è di poco inferiore a 930 milioni di euro, dati del Ministero della Giustizia. Badate bene che il numero rappresenta la punta di un immenso iceberg, in quanto solo il 24% delle domande di riparazione per ingiusta detenzione viene accolta. Questi sono i dati incontrovertibili che rendono palese che non si tratta di “errori fisiologici” presenti in ogni sistema giustizia. In primo luogo è necessario fissare l’attenzione sull’abuso delle misure cautelari, crediamo sia nella consapevolezza comune che esso dipenda non solo e non tanto dalla sciatteria e dalla negligenza di pm e giudici ma, in misura ben più rilevante, da cause normative (tra queste le plurime presunzioni legali di pericolosità che imponevano il ricorso alla misura carceraria e che la Corte costituzionale ha smantellato in buona parte ma mettendoci anni), da orientamenti interpretativi di merito e di legittimità, da spinte esplicite della politica (sulla base di slogan rozzi ma efficaci come “tolleranza zero”, “che marciscano in carcere e si buttino le chiavi” e via discorrendo), da aspettative sempre più basiche di un’opinione pubblica drogata da quegli slogan che finiscono per esercitare una pressione crescente sulla magistratura una buona parte della quale, presto o tardi, si adegua alla direzione del vento e agisce di conseguenza. Se ci spostiamo sul piano dei processi e della possibilità che le valutazioni dei giudici siano inficiate da errori anche gravi, la lista dei fattori causativi si allunga di parecchio: centralità della pubblica accusa (che, peraltro, non è ancora riuscita a trovare un corretto equilibrio nel rapporto con la polizia giudiziaria, oscillando tra la dipendenza acritica e la pretesa di guidarne l’azione verso risultati predeterminati), noncuranza o addirittura ostilità verso l’attività difensiva, contraddittorio ridotto all’osso, scarsa familiarità dei giudici con i saperi esterni al processo e quindi, per esempio, cattivo uso della prova scientifica. E ancora, se ci spostiamo dalle indagini preliminari e dal dibattimento di primo grado alle fasi successive, possiamo contare su dati di eloquenza impressionante: più della metà delle decisioni di primo grado sono riformate in appello, in prevalenza su aspetti di dettaglio ma sono comunque numerosi i casi in cui la riforma è sugli aspetti essenziali. Eppure, a dispetto di questa evidenza e col pretesto di abbattere l’arretrato cronico della giustizia penale, si sta rendendo sempre più disagevole l’accesso ai gradi superiori, soprattutto a danno degli accusati che non possono permettersi difese efficienti. Spostiamoci infine sul versante della Cassazione, e qui mi basta dire quello che sanno pure le pietre: la nostra Suprema Corte ha costruito barriere quasi invalicabili tra se stessa e il cuore dei processi, al punto che sette ricorsi su dieci (diventano otto se si parla solo dei ricorsi principali, cioè quelli attinenti alla colpevolezza), sono dichiarati inammissibili. Tutte queste parole per dire che la sostanziale irresponsabilità del singolo magistrato per il singolo errore nel singolo procedimento ha sicuramente il suo peso ma il problema è assai più esteso. Una prima misura da prendere per arginare la marea dei numeri delle ingiuste detenzioni è responsabilizzare la magistratura. La sostanziale deresponsabilizzazione disciplinare ed erariale dei magistrati è una delle cause primarie (non l’unica) delle ingiuste detenzioni e degli errori giudiziari. A fronte di ciò si registrano delle iniziative velleitarie che non modificano nulla in merito all’eliminazione delle cause degli errori giudiziari e delle ingiuste detenzioni. Ad esempio, l’idea di Enrico Costa di raddoppiare il tetto massimo degli indennizzi per ingiusta detenzione: dai circa 516 ila attuali a un milione di euro. La proposta di Enrico Costa salutata come una panacea si è persa nei meandri del Parlamento: in sintesi porterebbe i minimi previsti per un giorno in custodia cautelare dagli attuali 235,82 euro a 471,64 euro; e gli attuali 117,91 euro per un giorno agli arresti domiciliari diventerebbero 235,82 euro. La proposta, encomiabile sotto l’aspetto economico teso al ristoro dei danni subiti dagli innocenti, non risolve il problema degli errori giudiziari e delle ingiuste detenzioni. Aumentare gli indennizzi senza provare a modificare la causa delle ingiuste detenzioni appare uno specchietto per le allodole. Segnaliamo che la Corte dei Conti ha accesso un faro e posto l’attenzione sulla mancanza delle azioni di rivalsa dello Stato nei confronti dei magistrati per il recupero delle somme pagate per le ingiuste detenzioni e gli errori giudiziari. Pensate che a fronte del pagamento della somma di circa 930 milioni da parte dello Stato, un solo magistrato è stato condannato per danno erariale per euro 10.425,68 dalla Corte dei Conti, una pecora nera che non merita di rimanere da sola. Invece che pensare all’aumento degli indennizzi che non potranno mai “risarcire” il malcapitato di turno che da innocente conosce il carcere, perché non si prova a responsabilizzare la magistratura? In primo luogo prevedendo che il ministero dell’Economia, tutte le volte in cui provvede al pagamento di un indennizzo per ingiusta detenzione, proceda immediatamente ad inviare nota alla Procura della Corte dei Conti competente “per l’esercizio da parte dello Stato di un’azione di rivalsa nei confronti del soggetto al quale risulti imputabile l’errore giudiziario o l’ingiusta detenzione nei casi previsti”. Proviamo a riflettere su un dato inquietante, i 30.689 innocenti indennizzati dalla Stato per errori giudiziari o ingiuste detenzioni. Su questi dati la Corte dei Conti ha posto l’attenzione evidenziando la mancanza delle azioni di rivalsa dello Stato nei confronti dei magistrati per il recupero delle somme pagate per le ingiuste detenzioni e gli errori giudiziari. La magistratura risulta essere una sorta di isola felice dove l’operosità e l’efficienza regnano sovrane, eppure la realtà e i dati dicono il contrario. Quali sono gli ostacoli legislativi e di sistema che impediscono alla magistratura contabile di intraprendere le azioni di rivalsa? È necessario gettare un faro sulla questione per individuare “casi nei quali possano ravvisarsi i presupposti per l’esercizio da parte dello Stato di un’azione di rivalsa nei confronti del soggetto al quale risulti imputabile l’errore giudiziario o l’ingiusta detenzione nei casi previsti”. Parole della Corte dei Conti. Oltre la verifica dell’eventuale danno erariale, sarebbe necessaria una riflessione sulla responsabilità disciplinare dei magistrati, come pure il ricordato onorevole Costa ha più volte chiesto: di fronte a tali situazioni che colpiscono le famiglie, l’attività lavorativa, la credibilità di soggetti che entrano nel sistema carcerario o la cui libertà personale viene ingiustamente limitata, può essere ammissibile che a pagare per gli errori del magistrato, in sede di valutazione dei presupposti per l’applicazione delle misure detentive, sia sempre e soltanto lo Stato (cioè, in ultima analisi, i cittadini stessi)? Se lo Stato riconosce che c’è stata un’ingiustizia, è corretto che affronti e valuti che cosa non ha funzionato: se qualcuno ha sbagliato, se l’errore è stato inevitabile, se c’è stata negligenza o superficialità, se chi ha sbagliato deve essere chiamato a una valutazione disciplinare. I magistrati oggi non rispondono degli errori commessi. Troppo spesso, infatti, accade che le ragioni che hanno determinato errori, anche gravi, non siano rilevate, come occorrerebbe, sul piano disciplinare, o che restino prive di conseguenze in sede di decisione sugli avanzamenti di carriera. L’affermazione trova eloquente riscontro nell’ultima Relazione (anno 2022) che il Ministero della Giustizia ogni anno invia al Parlamento e che, come si suol dire, si commenta da sola. In sintesi: l’abuso del potere cautelare non ha praticamente colpevoli. Il tema sotteso a questa riflessione è la necessità di abbandonare la cultura della comoda deresponsabilizzazione a favore di un più diretto e penetrante controllo sull’operato del magistrato, che - non va dimenticato - in questa materia applica misure che incidono sui più importanti diritti costituzionali delle persone. La situazione attuale prevede che il magistrato può essere punito disciplinarmente per l’adozione di provvedimenti restrittivi della libertà personale non consentiti dalla legge ma solo se siano frutto di negligenza grave e inescusabile. In tutti questi casi il legislatore priva di rilievo disciplinare l’episodicità del comportamento o lo rende punibile solo se connotato da gravità o da negligenza del grado più elevato, o da intenzionalità o, finanche, solo se abbia leso diritti personali o patrimoniali (talvolta richiedendo aggiuntivamente la finalizzazione indebita della lesione). Lo stesso legislatore si premura in un caso di introdurre una presunzione di non gravità, ancorandola a periodi temporali. Introduce infine una clausola generale di salvezza (articolo 3-bis) che esonera da responsabilità disciplinare i magistrati in tutti i casi in cui i fatti loro potenzialmente addebitabili siano di scarsa rilevanza. Riporto un esempio di decisione della sezione disciplinare del Csm nella quale è stata applicata la clausola generale di salvezza: “Non integra l’illecito disciplinare nell’esercizio delle funzioni per grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile la condotta del Gup che, all’atto di definizione del procedimento, abbia omesso di disporre la scarcerazione di un imputato per decorrenza del termine allorquando: l’episodio si colloca quale evento del tutto isolato nell’arco di una carriera connotata da grande laboriosità ed impegno; non è derivato dal fatto alcun clamore mediatico; il fatto è emerso occasionalmente a seguito di ispezione ordinaria; l’imputato non ha sollevato alcun reclamo in ordine all’avvenuta scadenza del termine trattandosi di un fatto di scarsa rilevanza (sentenza n. 124/2019)”. Non è azzardato allora intravedere nell’ordinamento disciplinare dei magistrati aspetti protezionistici di non trascurabile ampiezza, soprattutto se confrontati con la disciplina che regola la stragrande maggioranza degli altri dipendenti pubblici. Ad esempio, il vigente codice disciplinare per i dirigenti pubblici sanziona la loro inosservanza degli obblighi previsti in materia prevenzionistica anche se non ne sia derivato alcun danno o disservizio per l’amministrazione e gli utenti, assoggetta a sanzione le condotte non corrette nei confronti di terzi e gli alterchi nel luogo di lavoro senza alcun distinguo per abitualità o gravità, e lo stesso prevede per l’inosservanza di direttive, provvedimenti e disposizioni di servizio. Ed ancora “la intenzionalità del comportamento, il grado di negligenza e imperizia, la rilevanza della inosservanza degli obblighi e delle disposizioni violate” sono considerati solo come parametri per modulare adeguatamente le sanzioni, non certo per escludere il rilievo disciplinare. È una differenza stridente che abitualmente si tende a giustificare sulla base del particolare statuto che è necessario assicurare ai magistrati allo scopo di tutelarne l’indipendenza, ma non si comprende davvero come l’esonero da responsabilità nei casi sopra descritti sia, anche solo lontanamente, connesso a quel valore. Come accennato in precedenza, nella scorsa Legislatura era stato presentato alla Camera, da Enrico Costa, un progetto di legge che prevedeva di introdurre, sulla disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, tra gli illeciti disciplinari il fatto di aver concorso, con negligenza o superficialità, anche attraverso la richiesta di applicazione della misura della custodia cautelare, all’adozione dei provvedimenti di restrizione della libertà personale per i quali sia stata disposta la riparazione per ingiusta detenzione ai sensi degli articoli 314 e 315 del codice di procedura penale. Si dovrebbe ripartire da lì e accompagnarla con la recente proposta di legge n. 631 depositata ancora da Costa, il 24 novembre 2022, che prevede la “Modifica all’articolo 315 del codice di procedura penale, in materia di trasmissione del provvedimento che accoglie la domanda di riparazione per ingiusta detenzione, ai fini della valutazione disciplinare dei magistrati”. La proposta prevede che al momento dell’accoglimento della domanda di ingiusta detenzione venga trasmessa una nota all’ufficio preposto alla verifica di una eventuale infrazione disciplinare da parte dei magistrati. Sembrerà strano, ma ad oggi nessuno sembra sapere quello che accade normalmente nelle aule di giustizia di questo Paese: le Procure della Corte dei Conti si giustificano dicendo che non ricevono segnalazioni, e la sezione disciplinare dei magistrati idem, e allora proviamo a eliminare il velo che ammanta tanta ipocrisia. Il tutto per sfatare l’aforisma di Borges: “Per aver paura dei magistrati non bisogna essere necessariamente colpevoli”. Riabilitazioni, niente pagelle: la meravigliosa “giustizia domestica” dei magistrati di Errico Novi Il Dubbio, 20 marzo 2024 Autonomia e indipendenza di giudici e pm sono sacrosante. Se solo la magistratura ne facesse un uso un po’ meno autoreferenziale, sarebbe ancora meglio. Esemplare: se la colpa è lieve, se il caso è di limitata gravità, alla toga sanzionata in sede disciplinare spetta una sollecita riabilitazione. Parola di Csm, che lo ha sancito in una circolare. Siamo contenti: ogni volta che si afferma un principio garantista si fa un passo avanti verso un sistema più equilibrato, e ci si affranca dalla perenne caccia alle streghe. È difficile però non essere colpiti dall’autocrazia giudiziaria dei magistrati: non vogliono i test psicoattitudinali, che non c’entrano con colpe e sanzioni, perché sono certi di sapersi valutare da soli, anche in fatto di equilibrio e anche se, presumibilmente, nessuno dei quasi novemila giudici e pm italiani ha una seconda laurea in Psicologia. Non vogliono la graduazione del giudizio in “ottimo”, “buono”, “discreto” nelle valutazioni di professionalità: o si è adeguati, e quindi impeccabili, o non c’è spazio, dicono i magistrati, per scale di merito. E va bene. Ma tanto per dire: in trent’anni di processi, anzi di indagini finite sui giornali spesso prima che l’interessato sapesse di esserne destinatario, avete mai udito di un pm inquisito dai colleghi per rivelazione del segreto d’ufficio? No, eh? È perché son tutti impeccabili: allora non ci siamo capiti. A proposito di quanto scrive sul Dubbio l’impietoso avvocato Radi, sapete di magistrati che siano stati perseguiti dai loro colleghi perché hanno fatto marcire qualche anno o anche solo qualche giorno in galera un innocente? No, non vi suona: d’altronde, gip e pm, se sbagliano, lo fanno in perfetta buona fede. Sono gli innocenti che, quando finiscono a Poggioreale o a San Vittore, è perché non hanno aiutato il magistrato a evitare l’errore. Gip e pm che sbagliano vanno capiti, all’indagato che si avvale della facoltà di non rispondere, almeno fino a poco tempo fa, andava negato il risarcimento. È la giustizia, bellezza. Anzi: sono l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, sempre benedette. Solo una cosa: chi tiene così gelosamente all’impermeabilità di questa autonomia fa bene, almeno dal punto di vista di chi scrive, perché sulla separazione dei poteri si regge la democrazia. Però un filo di linearità in più, nella giustizia disciplinare e persino nella giurisdizione deontologica che compete all’Anm, non sarebbe male, come da qualche anno ripete ad esempio Giovanni Maria Flick. Ah, però hanno radiato Luca Palamara. Uno al prezzo di molti. Esemplare, appunto. Ma forse un po’ distante da quell’idea di giurisdizione domestica ragionevole e liberale che pure la sacrosanta circolare sulla riabilitazione delle toghe intende promuovere. “Stop alle intercettazioni dopo 45 giorni”. Emendamento della relatrice al ddl Zanettin di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 20 marzo 2024 Niente più intercettazioni oltre una durata massima di 45 giorni, “salvo che nei procedimenti in materia di criminalità organizzata oppure quando l’assoluta indispensabilità delle operazioni per una durata superiore sia giustificata dall’emergere di elementi specifici e concreti, oggetto di espressa motivazione”. Lo prevede l’emendamento presentato dalla relatrice, l’ex ministra leghista Erika Stefani, al ddl sulle intercettazioni firmato dal senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin, in discussione in Commissione Giustizia. In sostanza, se adesso gli ascolti possono essere prorogati senza limiti dal gip, su richiesta del pm, per periodi successivi di 15 giorni, domani la regola diventerà un’altra: andranno staccati al più tardi dopo un mese e mezzo. La nuova tagliola non scatta solo se si procede per associazione per delinquere o per reati ad aggravante mafiosa, oppure se dai nastri emergono “elementi specifici e concreti” per andare avanti. Anche in quest’ultima espressione è nascosta una stretta: al momento, infatti, per ottenere la proroga serve dimostrare l’“assoluta indispensabilità” del mezzo di ricerca della prova, che può essere ritenuta sussistente anche nel caso in cui gli indagati, come spesso accade, per un certo periodo non dicano né facciano nulla di compromettente. Con la nuova norma, invece, il pm dovrà per forza portare al giudice un “risultato” investigativo entro i primi 45 giorni. L’emendamento Stefani sostituisce l’articolo 2 del ddl Zanettin, che prevedeva il divieto di concedere proroghe “se nel corso degli ultimi due periodi di intercettazione precedenti” non fossero “emersi elementi investigativi utili alle indagini”. Al fattoquotidiano.it il senatore azzurro si esprime positivamente della proposta della collega: “Mi pare in linea con gli esiti dell’indagine conoscitiva sulle intercettazioni che abbiamo svolto in Commissione. Non ho ancora avuto tempo di studiarlo nel dettaglio, ma mi sembra una soluzione equilibrata”. Apertura di credito anche dal dem Alfredo Bazoli: la proposta Stefani “a prima vista sembra migliore” del testo originale, dice, annunciando comunque che il suo gruppo presenterà subemendamenti per ampliare il novero dei reati esclusi dalla nuova norma. Diverso il parere degli addetti ai lavori: per Stefano Musolino, procuratore aggiunto di Reggio Calabria e segretario di Magistratura democratica (storica corrente di sinistra delle toghe) “la prima formulazione era molto più razionale, mentre quella proposta dalla relatrice crea una presunzione di irrilevanza del mezzo di ricerca della prova decorsi i 45 giorni, che è smentita dall’esperienza giudiziaria”. Ancora più netto Giovanni Zaccaro, leader di Area, l’altro gruppo progressista: “A volte sembra che i magistrati siano una manica di spioni. Ma non ci si rende conto che molti reati, anche non di criminalità organizzata, possono emergere solo grazie alle intercettazioni, perché si fondano sull’accordo collusivo fra gli autori o sulla speranza di omertà delle vittime”. La gogna per i delitti irrisolti: quando parola infamante divora la presunzione d’innocenza di Iacopo Benevieri Il Riformista, 20 marzo 2024 Secondo un aforisma attribuito ad Eraclito (gli aforismi son sempre attribuiti, tracce del pensato umano troppo dense perché discendano da un solo genitore) “l’unica costante della vita è il cambiamento”. In termini matematici potremmo dire che l’unica costante è la variabile. Eppure nessuno avrebbe osato immaginare che uno dei più grandi pensatori presocratici sarebbe stato smentito da un fenomeno, l’unico forse che si sottrae al Panta Rei. Questo fenomeno è la parola infamante. La parola infamante non è sottoposta alle leggi della fisica, soprattutto a quella del Tempo. Il dio Crono ha il potere di demolire imperi, di radere al suolo civiltà e dinastie, di congiungere e isolare continenti, di plasmare l’evoluzione morfologica dei corpi viventi ma nulla può contro la parola infamante. D’altronde chi maldice l’altro è capace di estrarre proprio dall’abisso del tempo antichi sospetti che un dì perseguitarono il malcapitato e, bisbigliandoli ai padiglioni auricolari altrui, fornisce loro una cittadinanza nuova nella contemporaneità. Gli heretici infamati - Di questa verità erano a tal punto consapevoli gli Inquisitori del Medioevo che, a partire dalla metà del XII secolo, inventarono l’archivio degli eretici. Per la precisione, un archivio degli “heretici infamati”: un complesso schedario nel quale non solo venivano pazientemente annotate le sentenze di condanna pronunciate contro i malcapitati, ma venivano registrati persino i sospetti, le congetture, le dicerie, le inquisizioni avviate e poi abortite, il fiutar investigativo che, anche solo per poche ore, si era avvicinato a qualche vita. Un compendio di biografie dell’infamia. Tutto era trascritto, annotato, chiosato in un impasto d’inchiostro e di potere affinché quei sospetti resistessero al vento sabbioso del Tempo e, a distanza di anni, potessero essere recuperati, approfonditi, ridestando con scalpore la gogna nella comunità. Nomi e cognomi di persone sospettate - A tutto questo vien da pensare scorrendo le più recenti notizie di cronaca giudiziaria, che hanno trattato di recenti sviluppi processuali per pregressi fatti delittuosi, mai risolti, pubblicando i nomi e i cognomi di persone sospettate, indagate, imputate, talvolta già prosciolte. Abbiamo letto nomi e cognomi di presunti non colpevoli, i quali a distanza di decenni vedono le proprie generalità estratte dall’abisso del Tempo, alle cui leggi si sottrae la parola infamante. In un periodo nel quale discettiamo con acute disquisizioni sociologiche e giuridiche del divieto di pubblicazione di ordinanze cautelari per garantire la presunzione d’innocenza, ci sfugge come questa stessa presunzione sia annichilita da pericolose esposizioni di molte biografie all’infamia dei delitti cui vengono associate. Leggiamo, per esempio, della recente vicenda “UnaBomber”, l’anonimo che dal 1994 al 2006 ha cosparso il Nordest di 34 ordigni esplosivi, il primo dei quali esplose nel 1994, dunque 30 anni fa, il più recente nel 2006. Oggi gli accertamenti genetici sui reperti potrebbero essere più efficaci, lo sviluppo scientifico consentirebbe nuovi approfondimenti, dunque le indagini vengono riaperte e si procederà a condurre tali accertamenti con incidente probatorio. I prelievi biologici verranno effettuati sulle undici persone che all’epoca erano state sottoposte alle indagini, le cui posizioni erano state successivamente archiviate, nonché su altre quindici persone, che all’epoca erano state sospettate, indiziate, in qualche modo sfiorate da congetture investigative, ma non indagate. Queste quindici persone verranno invitate a sottoporsi volontariamente al prelievo del Dna. Qualora si rifiutassero, il Gip potrà valutare se disporre il prelievo coatto. UnaBomber, Nada Cella, via Poma: delitti irrisolti e nuova gogna - Così sono stati diffusi i nomi, i cognomi e addirittura le località di residenza di tutte e undici le persone che all’epoca furono indagate: i nomi e i cognomi di uomini che, in un altro momento della loro vita, erano stati lambiti dal sospetto d’una responsabilità così grave come quella per i reati sui quali si indaga, successivamente annichilito da provvedimenti di archiviazione. Anche i nomi e i cognomi degli imputati nella vicenda relativa all’omicidio di Nada Cella sono stati recentemente riportati sotto i riflettori. Nel 2021 la Procura della Repubblica di Genova aveva riaperto le indagini sulla base di una tesi di laurea nella quale una criminologa aveva messo in evidenza alcuni elementi e testimonianze ritenute rilevanti ma ignorate fino a quel momento. È la storia della metamorfosi kafkiana di una tesi di laurea nella tesi di una Procura della Repubblica. Un’ipotesi di ricerca accademica diventa ipotesi investigativa e, infine, si compendia nelle pagine timbrate di una richiesta di rinvio a giudizio. Quelle tesi non hanno, tuttavia, superato l’esame davanti al GUP di Genova, che ha pronunciato una sentenza di non luogo a procedere nei confronti delle tre persone imputate. La notizia è stata diffusa, accostando quelle biografie al terribile omicidio: a distanza di 28 anni dal delitto l’infamia del sospetto si è nuovamente destata, poco rileva se ritenuta giuridicamente non meritevole neppure d’un processo. Su un altro terribile delitto la parola infamante ha perseguitato una persona, dopo 33 anni dai fatti. Nella vicenda del noto delitto di via Poma recentemente è stato diffuso il nome del figlio di colui che fu il principale indagato. I titoli che richiamavano l’attenzione sulla notizia non lasciavano dubbi sulla fondatezza del sospetto: il nome era stato riportato in un’informativa della polizia giudiziaria. Dunque, non in una richiesta di rinvio a giudizio, neppure in un provvedimento giudiziario ma in un rapporto nel quale si prospettava unicamente un’ipotesi investigativa. Nella valutazione sulla “notiziabilità” del fatto pochissimo rilievo ha avuto la circostanza che la stessa Procura della Repubblica avesse formulato richiesta di archiviazione, avendo ritenuto la ricostruzione prospettata dagli investigatori “fondata su una serie di ipotesi e suggestioni che, in assenza di elementi concreti di natura quantomeno indiziaria, non consentono di superare le forti perplessità sulla reale fondatezza del quadro ipotetico tracciato”. Insomma, il coinvolgimento, ampiamente diffuso, del nome e cognome del nuovo sospettato risulterebbe basato su una ricostruzione “suggestiva”. Il tema della pubblicazione delle ordinanze cautelari è già superato: basta retrocedere alle informative, alle segnalazioni, alle annotazioni di polizia giudiziaria, agli atti di identificazione. Le parole d’infamia camminano a lungo, oltrepassano i decenni, il Tempo non riesce ad arginarle e raggiungono il malcapitato, ovunque sia. Dunque non viviamo in un’epoca post-rinascimentale ma, semmai, tardo-medioevale. Eppure i nostri padri e madri costituenti si erano impegnati affinché ciò non accadesse. Quando tra il 1946 e la fine del 1947 fu scritta la Costituzione, quasi il 60 per cento delle persone adulte non aveva conseguito neppure la licenza elementare. Per questo motivo i Costituenti avevano ritenuto necessario che la Costituzione fosse scritta in modo tale da farsi comprendere dal Paese reale. La scelta linguistica fu, dunque, conseguente. Nella scrittura degli articoli della Carta, infatti, si fece ricorso al vocabolario di base della lingua italiana, vale a dire quello di massima diffusione e uso. In media la Costituzione è composta da articoli scritti con un po’ meno di 20 parole per frase. L’art. 27 comma 2 della Costituzione, che stabilisce il principio della presunzione di innocenza, ne è un esempio abbagliante. Recita che “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. Fermiamoci un attimo. Fu utilizzato il verbo “considerare”, anziché “giudicare”. La scelta era chiara, ma pare non esserlo più oggi. Infatti, ricorrendo al verbo “considerare” l’intenzione era che potesse accadere un miracolo, cioè che il principio della presunzione d’innocenza uscisse dalle aule di giustizia e pervadesse ogni luogo e ogni momento del vivere dei consociati, proteggendo la persona imputata e la sua reputazione dalle parole d’infamia. Sancire che l’imputato non può essere “considerato” colpevole significa impedire che la considerazione sociale di una persona, il discorso pubblico e collettivo intorno a quella persona, in ogni momento della sua vita, non possa essere mai pregiudicato dalla condizione giuridica derivante dall’imputazione e, tantomeno, dalla sottoposizione a indagini ovvero dalla formulazione di vaghi sospetti, soprattutto a distanza di decenni dai fatti sui quali si indaga. Questa è la ragione principale per la quale l’art. 27 comma 2 della Costituzione, prima che costituire un principio giuridico, è un vero canone linguistico. È un modello che dovrebbe ispirare le prassi comunicative di un’intera società e, pertanto, anche dei mass media. Il principio di non colpevolezza, nella formulazione che abbiamo sottolineato, è rete di protezione del singolo rispetto al discorso mediatico sulle vicende giudiziarie che lo coinvolgono. L’art. 27 comma 2 della Carta è un contropotere linguistico. Le ragioni sono ovvie. La comunicazione di gran parte dei mass-media tende a procedere per narrazioni assiomatiche, quella giudiziale per ipotesi narrative. La comunicazione di certi media spesso isola e decontestualizza elementi investigativi e di prova, il processo li mette in relazione, sottoponendoli a critica. La sintassi mediatica spesso è assertiva, quella del processo è ipotetica. Là le ipotesi d’indagine o d’accusa sono offerte fin da subito con il presente indicativo, nelle aule di giustizia il periodare è declinato al congiuntivo e al condizionale. All’indicativo dell’assertività dovrebbe esser riservato solo l’ultimo atto, quello del dispositivo della sentenza, non quello delle parole d’infamia nei titoli, nei sottotitoli su imputati, indagati, sospettati, identificati. Alfredo Cospito al 41bis, il pg della Cassazione: “Sì al carcere duro” Il Dubbio, 20 marzo 2024 Espresso parere negativo sull’istanza presentata dalla difesa del recluso avverso il provvedimento di conferma emesso dal tribunale di Sorveglianza di Roma. Il procuratore generale di Cassazione ha espresso parere negativo sull’istanza presentata dalla difesa di Alfredo Cospito, l’anarchico detenuto al 41 bis, contro la decisione con cui il tribunale di Sorveglianza di Roma lo scorso 23 ottobre aveva confermato il carcere duro. Il difensore, l’avvocato Flavio Rossi Albertini ha impugnato il provvedimento della Sorveglianza nei confronti dell’anarchico, Cospito, detenuto a Sassari, che nei mesi scorsi aveva condotto un lungo sciopero della fame. Sulla questione i supremi giudici della Cassazione si sono riservati di decidere. La storia di Alfredo Cospito - Cospito è detenuto da oltre 10 anni nel carcere di Bancali, a Sassari, per aver gambizzato l’ad di Ansaldo nucleare Roberto Adinolfi. Il gesto è stato rivendicato dalla sigla Nucleo Olga Fai-Fri, Federazione anarchica informale-Fronte rivoluzionario internazionale. Cospito è in carcere anche per un altro attentato: è accusato di aver piazzato due ordigni a basso potenziale nei pressi della Scuola allievi carabinieri di Fossano, in provincia di Cuneo, nella notte tra il 2 e il 3 giugno del 2006. L’esplosione dei due ordigni non causò vittime. Roma. Non c’è più tempo”: oggi penalisti in piazza per denunciare la strage dei suicidi in cella di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 marzo 2024 Venticinque vite spezzate in carcere, di cui una al Cpr di Roma, in neanche tre mesi del 2024. Questo è il tragico bilancio che ci costringe a confrontarci con una realtà dolorosa e inaccettabile: il dramma dei suicidi dietro le sbarre. E mentre il conto delle vite perse continua a salire, la necessità di un intervento immediato e risolutivo diventa sempre più urgente. È con questo grido d’allarme che oggi, 20 marzo, si tiene a Roma, in Piazza dei Santi Apostoli, dalle ore 14: 00, una manifestazione nazionale organizzata dall’Unione Camere Penali. Un appello forte e chiaro, dopo l’ennesimo monito del presidente Mattarella, per sensibilizzare l’opinione pubblica e sollecitare un’azione immediata da parte del governo e della politica. Tante le partecipazioni dei rappresentanti della politica, tra cui Roberto Giachetti, Maria Elena Boschi, Raffaella Paita, Dafne Musolino, Maria Chiara Gadda, Silvia Fregolent, Marietta Tidei e Luciano Nobili di Italia Viva, Deborah Serracchiani, Anna Rossomando, Federico Gianassi, Michela Di Biase e Alfredo Bazoli del Pd, Enrico Costa e Maria Stella Gelmini di Azione, Riccardo Magi di + Europa, Tommaso Calderone e Pierantonio Zanettin di Forza Italia, Elisabetta Rampelli per il Partito Radicale. È stato invitato il vice ministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto. Tantissime le adesioni e gli interventi previsti, dal Consiglio Nazionale Forense a Ocf, dall’ufficio del Garante dei Detenuti con l’avvocata Irma Conti alle associazioni che da anni si occupano di carcere o comunque sensibili ai valori costituzionali, tra cui Nessuno Tocchi Caino con Rita Bernardini e Sergio D’Elia, Antigone con Patrizio Gonella, Barre di Zucchero, Extrema Ratio, Arci e tante altre. La situazione è critica: ogni giorno che passa senza interventi adeguati aumenta la responsabilità, politica e morale, di chi ha il dovere di affrontare questa emergenza con misure urgenti e inderogabili. Il sovraffollamento carcerario, la carenza di personale, la violenza sui detenuti sono solo alcune delle gravi criticità che aggravano le già precarie condizioni di vita di chi si trova dietro le sbarre. Ma non è solo una questione di numeri. È per questo che gli avvocati dell’Unione Camere Penali hanno deciso di astenersi dalle udienze oggi, per unirsi a questa manifestazione e dare vo-ce a tutti coloro che non possono parlare. È un gesto significativo, che vuole mettere in luce l’urgenza e l’importanza di agire ora, senza indugi. L’Unione Camere Penali ribadisce con forza la richiesta di atti di clemenza generalizzati, legiferazione urgente in materia di con-cessione della liberazione anticipata, e l’introduzione di strumenti per limitare il sovraffollamento carcerario. L’urgente necessità di agire è evidente, e l’Unione Camere Penali continuerà a battersi con determinazione affinché si possa arrestare con efficacia il terribile fenomeno dei suicidi in carcere. Perché oggi più che mai “Non c’è più tempo”. Catania. Suicidi in carcere, la Camera penale: “Stato insensibile” di Pietro Grimaldi L’Identità Sicilia, 20 marzo 2024 Si alza e di molto la soglia di gesti estremi nelle carceri italiane. Il direttivo della Camera Penale di Catania Serafino Famà, con in testa il suo presidente l’Avvocato Francesco Antille, con un comunicato alza l’attenzione verso un problema ormai di vasta proporzione: “In questi giorni si sono verificati gli ultimi suicidi carcerari. Il loro numero non conta più anche in ragione del fatto che molti sono stati salvati in extremis; altri sono solo feriti; altri ancora, purtroppo, stanno aspettando il momento giusto. L’universo carcerario italiano rivela tutta la sua fragilità colpevole. Il legislatore non inizia alcun serio percorso di rivalutazione di molte condizioni che potrebbero disinnescare questa bomba ad orologeria. Abbiamo il dovere di denunziare i temi più scottanti di questa tragica questione che coinvolge addirittura l’essenza stessa della civiltà del nostro Paese. Non si può restare anni in carcere in attesa di una decisione; non si può attendere la fissazione di un appello cautelare per mesi e mesi; non si può concepire più un sistema che ha deliberatamente disconosciuto la riforma della custodia cautelare. Non si è voluto comprendere che la maggior parte degli imputati dovrebbe attendere agli arresti domiciliari la fine del giudizio. Presso i lavori preparatori della Riforma si era rimarcato il concetto della residualità della misura intramuraria. Ebbene, questa regola civile viene ignorata da applicazioni e interpretazioni quotidiane che ne fanno scempio. Oggi, ad esempio, ci sono imputati che hanno confessato, che hanno ottenuto le attenuanti generiche dal Giudicante; che hanno trovato un immobile lontano anche dalla propria regione per potere sopravvivere; che hanno chiesto di essere controllati con un braccialetto elettronico. Ebbene no: poco importa se non ci siano in concreto esigenze cautelari di sorta. Poco o nulla importa tutto ciò. Egli “deve” restare in carcere. E con lui pure chi spesso versa in condizioni di salute preoccupanti. Questi casi accrescono il numero dei disperati dietro le sbarre. Uno Stato che non si fa carico di tutto ciò non è uno Stato vero e proprio ma una accozzaglia di insensibilità. Il lavoro carcerario è difficilissimo e non tutti possono accedervi; il sotto-organico di tutti gli agenti, funzionari, medici , assistenti, deputati ad assistere quegli uomini che si sono imbattuti nell’iniziativa punitiva dello Stato, moltiplica le distonie. Quasi tutte le strutture sono vecchie, non funzionanti, obsolete. Un’edilizia da ripensare tout court. Una magistratura di sorveglianza sovente poco attrezzata. Un oceano di adempimenti burocratici soffoca la ricerca di soluzioni adeguate ad ogni singolo caso. Siamo giunti al tempo in cui, purtroppo, non c’è più tempo. Il detenuto viene spesso collocato lontano dalla regione di provenienza e questo accresce l’angoscia, la preoccupazione del recluso. I servizi sociali andrebbero potenziati. Le comunicazioni con i familiari e i difensori rafforzate e disciplinate. L’orizzonte politico è incapace di esprimersi. Noi chiediamo a gran voce che si compiano tutti gli accertamenti possibili per giungere alla verità su responsabilità, omissioni, forzature per ogni singolo suicidio. Che si metta mano a un riordino ragionato delle fattispecie produttive di detenzione. Si mettano in condizione di funzionare i servizi clinici e sociali. L’orologio continua a ticchettare: è il solo rumore percepibile e questo silenzio è inaccettabile, ingiustificabile”. Pavia. Il papà di Jordan Tinti: “Voleva fare lo sciopero della fame perché non lo ascoltavano” di Roberta Di Matteo rainews.it, 20 marzo 2024 Jordan Jeffrey Baby avrebbe compiuto 27 anni a luglio. Era in carcere a Pavia, condannato a 4 anni e 4 mesi per rapina aggravata dall’odio razziale. Secondo il padre non aveva nessuna intenzione di farla finita. A otto giorni dalla morte di Jordan Tinti, il trapper brianzolo noto col nome d’arte di Jordan Jeffrey Baby, parla suo padre Roberto Tinti. Jordan avrebbe compiuto 27 anni a luglio. Era in carcere a Pavia, condannato a 4 anni e 4 mesi per rapina aggravata dall’odio razziale. Un’infanzia difficile, problemi di tossicodipendenza e abuso di psicofarmaci. L’ammissione in comunità solo dopo un anno di galera; ma a inizio marzo era tornato in carcere. Lo stesso nel quale aveva denunciato di aver subito maltrattamenti e abusi. Si attendono i risultati dell’autopsia, con 4 periti; si indaga per omicidio colposo. L’ultimo a parlare con Jordan è stato l’avvocato: era abbattuto, dice, ma contento perché il giorno dopo avrebbe incontrato il padre, che ricorda: “Voleva fare lo sciopero della fame, mai ha detto mi voglio ammazzare”. Nei penitenziari italiani 26 i suicidi da inizio anno. Il Presidente della Repubblica Mattarella chiede di “intervenire immediatamente”. E per denunciare l’emergenza carceraria scioperano gli avvocati penalisti. Chieti. Si impiccò in carcere, la famiglia: “Era malato, non doveva stare in cella” di Marcello Ianni Corriere Adriatico, 20 marzo 2024 Certificati medici rimasti, a quanto pare, lettera morta; continue preoccupazioni espresse dai genitori, che solo in extremis erano riusciti a trovare una struttura detentiva diversa dal carcere. Tutto questo non è riuscito ad evitare la volontà suicidaria del figlio, un 37enne detenuto. Una vicenda che ha avuto un’inevitabile coda giudiziaria: è stata trattenuta in decisione l’udienza civile che si è tenuta a gennaio di quest’anno dinanzi al Tribunale, (giudice Maura Manzi), la causa di risarcimento danni per un milione di euro, proposta dai familiari di un 37enne aquilano, morto suicida il 23 aprile del 2018 nella Casa Circondariale di Chieti, luogo nel quale il giovane era recluso dal settembre del 2017. Nell’atto di citazione, gli avvocati Maria Teresa Di Rocco e Silvia Catalucci, entrambi del Foro dell’Aquila, hanno ripercorso punto per punto non solo il dramma del giovane recluso, ma anche quello dei suoi genitori che avevano esortato le autorità competenti (Ministero di Giustizia, e Asl2, Lanciano, Vasto Chieti) a prendere in considerazione il grave stato di salute del giovane, soggetto fragile psicologicamente ed emotivamente con un passato di tossicodipendenza importante. Certificati e relazioni di medici anche del Sert dell’Aquila che di fatto sottolineavano una instabilità emotiva e carenza di controllo della impulsività che a giudizio dei legali (ai quali si sono rivolti i famigliari del detenuto suicida) avrebbero imposto un’attenta sorveglianza (come evidenziato anche dal medico di turno del carcere di Chieti), visti i ripetuti ricoveri psichiatrici, del ragazzo, di buona famiglia e con una istruzione superiore alla media della popolazione carceraria. Uno di stato di salute non buono quello del 37enne verificato dai genitori nel corso dei continui colloqui i quali non ne avevano fatto mistero ad alcuni operatori del Sert di Chieti i quali a quelle richieste di aiuto avrebbero risposto: “Il carcere non sta dietro l’angolo”. La struttura residenziale - Dinanzi al peggioramento del giovane i genitori erano riusciti ad individuare una struttura residenziale idonea che aveva dichiarato la propria disponibilità a partire dal maggio 2018, data risultata troppo in là rispetto alla volontà suicidaria del ragazzo dell’Aquila che si è impiccato nel bagno della cella con una cintura, lasciata secondo i due avvocati del Foro dell’Aquila del tutto incautamente nella sua disponibilità. Era stato un compagno di cella del 37enne a trovarlo: uscito dal bagno, l’uomo aveva urlato per attirare l’attenzione di altri detenuti che avevano tentato di liberare il collo del ragazzo. Gli stessi compagni di cella a braccio erano riusciti a portarlo nell’infermeria, ma ogni tentato di rianimarlo era risultato vano. Di qui la messa in mora ai fini risarcitori al Ministero della Giustizia, Direzione generale dei detenuti e del trattamento e alla stessa Asl 2. Reggio Emilia. Torture nel carcere, il Comune non si costituisce parte civile, l’assessore difende l’agente di Valeria Pacelli Il Fatto Quotidiano, 20 marzo 2024 I pm: detenuto incappucciato e picchiato. E la giunta Pd non chiede di costituirsi parte civile. Il video è uno di quelli che hanno fatto più scalpore: un detenuto “scortato” da alcuni agenti, incappucciato con una federa bianca. Finisce a terra e lì viene colpito con calci e pugni. Era il 3 aprile 2023. Le immagini sono quelle delle telecamere del carcere di Reggio Emilia. Per la procura è stata tortura. Così l’8 febbraio scorso, la pm Maria Rita Pantani chiede il rinvio a giudizio per dieci agenti. Lo sdegno è generale: “Non sono cose accettabili” dice il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi. “Sono immagini indegne per uno Stato democratico”, gli fa eco il Guardasigilli Carlo Nordio. Il 15 febbraio 2024 una delegazione di parlamentari Pd (Graziano Delrio, Andrea Rossi e Debora Serracchiani) va anche in sopralluogo. Ad accompagnarli in carcere, il sindaco dem Luca Vecchi. Eppure nell’udienza preliminare del 14 marzo scorso tra chi ha chiesto di costituirsi parte civile non c’è il Comune di Reggio Emilia. C’è però nella veste di avvocato, e non dunque con il ruolo politico, l’assessore alla legalità Nicola Tria. In quel momento non rappresenta i cittadini, ma un agente accusato di tortura e lesioni personali. Glielo consente la legge: non c’è incompatibilità, ma il caso è quantomeno singolare. Ma facciamo un passo indietro. Il video risale al 3 aprile 2023. Quel giorno, il detenuto, un tunisino oggi 43enne (poi rappresentato dall’avvocato Luca Sebastiani), era appena uscito dalla stanza del direttore, dopo aver avuto una sanzione di isolamento per aver violato il regolamento. Mentre si dirigeva verso le celle, le telecamere riprendono il trattamento riservatogli. Un trattamento “degradante per la dignità della persona” che la Procura racconta così nel capo di imputazione: il detenuto viene incappucciato con una federa annodata e stretta al collo, viene colpito con calci e pugni, cade a terra e lì di nuovo schiaffi. Addirittura - si legge nell’atto di accusa verso alcuni indagati - gli agenti salgono “con le scarpe di ordinanza su caviglie e gambe”. Alla fine viene lasciato nella cella di isolamento della sezione “spiraglio” “nudo dalla cintola in giù per oltre un’ora, malgrado nel frattempo si fosse autolesionato e sanguinasse vistosamente”. Così otto agenti vengono accusati di tortura e lesioni, due di aver attestato il falso nelle relazioni di servizio. Il 14 marzo, dunque, c’è l’udienza preliminare: chiedono di costituirsi parte civile il denunciante, il Garante nazionale e quello regionale dei diritti dei detenuti, le associazioni Antigone e Yairaiha. Il prossimo 8 aprile il giudice deciderà chi ammettere. La richiesta di costituzione di parte civile, non obbligatoria, non arriva né dal ministero della Giustizia, né dal Comune di Reggio Emilia. “Il Comune non è obbligato - spiega al Fatto l’assessore-avvocato Tria -. Io svolgo la mia professione, difendo una persona indagata che è presuntivamente innocente”. Tria ribadisce che la scelta di costituirsi parte civile è della Giunta. “Se ci fosse stata una decisione in questa direzione, e non c’è stata, sarei uscito dalla stanza nel momento in cui si discuteva questa cosa. Se ci fossero state delle situazioni che potevano condurre a una incompatibilità avrei assunto le mie decisioni. La costituzione del Comune peraltro non è un automatismo”. Ed è vero: ci sono stati casi, come quello di Santa Maria Capua Vetere, dove il Comune non si è costituito parte civile, ma anche altri in cui sono state prese decisioni opposte come nel processo per le vicende del carcere Le Vallette a Torino. “È già capitato in passato che il Comune si costituisse in processi con imputati difesi dall’assessore Tria - spiegano invece dall’ufficio stampa del sindaco Vecchi -. In queste decisioni non c’entra nulla l’assessore. Che peraltro è molto attento: non partecipa al voto quando ci possono essere dei possibili, chiamiamoli, conflitti di interessi”. E assicurano: in questo processo “c’è stata una verifica tra Giunta e ufficio legale in cui è stata rappresentata una problematicità rispetto alla possibilità di vedere accolta una richiesta di questo tipo”. Palermo. Aggressione verbale in carcere a due avvocati: azione disciplinare per gli agenti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 marzo 2024 Il ministro della Giustizia, rispondendo all’interrogazione parlamentare di Roberto Giachetti di Italia Viva, ha dato notizia dell’avvio del procedimento per l’episodio avvenuto nell’istituto Pagliarelli di Palermo. Avviata l’azione disciplinare nei confronti degli agenti penitenziari del carcere Pagliarelli di Palermo che hanno aggredito verbalmente l’avvocato Stefano Giordano e il suo collega Giovan Battista Lauricella. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha risposto all’interrogazione parlamentare di Roberto Giachetti di Italia Viva, dopo l’articolo de Il Dubbio e la trasmissione di Radio Leopolda “Carceri, bisogna vederle” curata da Rita Bernardini dell’11 gennaio, sull’episodio di aggressione verbale ai danni di due avvocati difensori dei detenuti azeri ristretti nel carcere di Palermo. Giachetti ha sollevato specifiche domande riguardanti l’entità degli stanziamenti effettuati dall’amministrazione penitenziaria per soddisfare le esigenze dei detenuti indigenti, le carenze di personale presso gli istituti di pena, ma soprattutto la denuncia da parte dell’avvocato Stefano Giordano per l’aggressione subita da un agente penitenziario del carcere Pagliarelli di Palermo, mentre cercava chiarimenti sul mancato accredito di 450 euro su conti di tre detenuti azeri. I fatti: l’aggressione verbale ai due legali in carcere - Il 18 dicembre 2023 l’avvocato Giordano ha effettuato i bonifici per conto dei familiari dei detenuti, desiderosi di fornire conforto in vista delle festività natalizie. Tuttavia, quattro giorni dopo, i detenuti hanno segnalato che la somma non era stata accreditata. L’avvocato Giordano, insieme al collega Lauricella, ha cercato spiegazioni presso l’ufficio ragioneria del carcere. La funzionaria presente, affermando che tutti gli adempimenti erano stati correttamente eseguiti, ha invitato il legale a lasciare la stanza urlando. La situazione è sfuggita di mano quando un terzo soggetto, membro della polizia penitenziaria e dichiaratosi marito della funzionaria, ha tentato di aggredire l’avvocato minacciando l’arresto. Nonostante l’intervento della vicedirettrice la situazione è rimasta incandescente, costringendo i legali a cercare rifugio nel suo ufficio. La risposta di Nordio - In risposta, il guardasigilli ha confermato l’accaduto avvenimento del 22 dicembre 2023, durante il quale si è verificata la discussione animata tra alcuni operatori penitenziari e due avvocati difensori di fiducia dei tre detenuti, i quali avevano richiesto conferma sull’accredito di alcuni bonifici destinati ai loro assistiti. Il ministro Nordio rende noto che la Direzione penitenziaria ha comunicato di aver già proceduto alla rilevazione dell’infrazione disciplinare nei confronti del personale di Polizia penitenziaria coinvolto nell’evento in questione. Per quanto riguarda i soldi, il ministro sottolinea che alla data del 22 dicembre 2023, gli accrediti richiesti erano già stati eseguiti, con la disposizione di accredito effettuata già il 21 dicembre 2023. Pertanto, l’adempimento delle richieste era stato completato indipendentemente dalle sollecitazioni dei due difensori. Questa informazione è stata comunicata anche all’avvocato Stefano Giordano il 9 gennaio 2024, immediatamente dopo la pubblicazione dell’articolo su Il Dubbio e la sua diffusione sui social media da parte dello stesso avvocato. Inoltre viene menzionato un altro caso di presunto mancato accredito di fondi in favore di quattordici detenuti, avvenuto presso la Casa circondariale di Palermo nell’agosto 2023. In questa situazione - spiega sempre il guardasigilli in risposta all’interrogazione di Giachetti - poiché i bonifici erano stati emessi dallo stesso avvocato, che non era il difensore di tutti i detenuti coinvolti e considerando la gravità del reato contestato loro (traffico internazionale di stupefacenti), la Direzione dell’Istituto ha ritenuto necessario condurre alcune verifiche preliminari. Queste verifiche hanno richiesto circa venti giorni e, una volta completate, l’ufficio competente ha provveduto all’accredito senza bisogno di interventi esterni. I fondi per i detenuti indigenti - È stato affrontato l’altro problema: quello degli stanziamenti per i detenuti indigenti. Il Ministro ha sottolineato l’attività svolta dal cappellano e dai volontari che elargiscono somme in favore dei detenuti privi di mezzi economici, utilizzate per acquisti di generi di prima necessità e per telefonate. Inoltre, ha evidenziato l’attivo servizio “guardaroba” presso la Casa Circondariale di Palermo, gestito da associazioni di volontariato e dal cappellano, che garantisce prodotti essenziali ai detenuti bisognosi. Quanto alla carenza di personale amministrativo presso la Casa Circondariale di Palermo “Pagliarelli”, il guardasigilli ha indicato i posti vacanti per vice direttore, funzionario giuridico pedagogico, funzionari contabili e assistenti amministrativi. Il Ministro ha assicurato che sono in corso procedure per colmare queste lacune, con previsioni di assunzione nel triennio 2024-2026. Napoli. “Io e Francesco Pio la nostra amicizia nella città armata” di Antonio Mattone Il Mattino, 20 marzo 2024 È trascorso un anno da quella maledetta notte che inghiottì la giovane vita e i sogni di Francesco Pio Maimone, ucciso con un colpo di pistola. Francesco Pio era seduto presso gli chalet di Mergellina al termine di una giornata di lavoro. Carlo, il suo amico del cuore, non riesce a darsi pace. Era accanto a lui quella sera e i ricordi riaffiorano come un fiume carsico che all’improvviso torna in superfice. “Stavamo per conto nostro, nessuno sguardo di sfida, nessuna parola di troppo”, subito chiarisce. Occhi svegli e profondi che trasmettono la voglia di vivere e di guardare lontano, ma sempre con Pio accanto, che resta il suo compagno inseparabile. Sul telefonino mostra le immagini di una vita assieme. Il suo sguardo trasmette empatia, non c’è rancore né rabbia, ma solo l’incredulità per una morte senza senso. “Io non capisco perché si deve uscire con una pistola addosso, uno si vuole divertire e deve incontrare chi si crede importante solo perché maneggia un’arma e spara nel mucchio”. Ribadisce che neanche li conoscevano quelli che avevano litigato per una scarpa sporcata. Tutti lo chiamavano Pio ma gli piaceva essere chiamato Checco. “Con lui ero sempre felice - ricorda Carlo - quando ero triste ridevo. Stavamo sempre insieme, e facevamo i pizzaioli, anche se in locali diversi: c’era troppa confidenza tra noi, non potevamo lavorare allo stesso posto! Lui finiva il turno prima di me e lo trovavo fuori la pizzeria o sotto casa mia”. E quella sera fu proprio Pio ad insistere per uscire: “Ma come, è domenica e dobbiamo stare a casa?” Il tempo di una doccia veloce e via. Dovevano andare a Fuorigrotta, poi la telefonata di un amico e il cambio di programma. I tre vanno in macchina a Mergellina e si fermano nei pressi dello chalet Sasà. Pio era l’unico seduto su di uno sgabello, gli altri in piedi. Il tempo di comprare le noccioline e di scambiare qualche battuta con tre ragazze di Pianura che già conoscevano, poi i colpi di pistola. Qualcuno urla “è a salve, è a salve”. Pio riesce solo a pronunciare “Carlo Carl…”, come se volesse dire all’amico che i colpi invece erano veri. E’ stato un attimo, ripete più volte, io stavo avanti a lui, il proiettile mi ha sfiorato e solo per poco non mi ha colpito. Sembra una casualità o un destino crudele afferma senza convinzione. Ma una morte così non può essere etichettata come una tragica fatalità. Non possiamo accettare impotenti che a un giovane vengano rubati in questo modo gli anni della sua vita. Carlo crede che il suo amico sia svenuto, ma quando gli alza la maglietta e vede il foro del proiettile in petto e il sangue che scorre si rende conto che è stato colpito. Alcuni cercano di confortarlo ma nessuno lo aiuta. E allora non si perde di coraggio, da solo, nonostante sia esile, lo prende in braccio e lo mette in macchina per l’inutile corsa verso l’ospedale dei Pellegrini. “Devi sapere che cosa ho passato quella sera”, mi dice. Racconta che in caserma lo trattennero per 18 ore. Un brigadiere gli mise la mano sulla spalla e gli disse di raccontare tutta la verità, “altrimenti vai carcerato”. Pensavano che Pio dovesse avere fatto qualcosa per essere stato sparato. Eppure Pio non ha mai fatto “tarantelle”, non litigava mai con nessuno, la sua forza era il suo sorriso, così riusciva a disarmare tutti. Lo ricorda anche Adele la sua maestra: “Non aveva mai rivali, tutti erano amici suoi”. Ora Carlo lavora nella pizzeria dove stava Pio e confida: “Questo mestiere non mi appassionava, ma adesso mi deve piacere per forza perché è il mestiere del compagno mio. Voglio andare in Svizzera perché qua non si può stare”. Poi afferma con orgoglio: “sono diventato più forte, sto crescendo e Pio mi trasmette il suo sorriso”. Ma il pensiero torna sempre a quella sera: “come si fa a vivere con il peso di aver tolto la vita a un ragazzo di 18 anni? I film fanno male!”. Alla fine un’amara considerazione: “chi ha ucciso Pio ha ucciso tutta Napoli. Dal lungomare vedi la città e il mare, cosa c’è di più bello? Ti fumi una sigaretta agli chalet, cosa vuoi di più? Ma adesso questo non si può fare più, ti devi stare attento”. Ora che sono passate la rabbia e l’indignazione, resta solo una domanda senza risposta: “perché per divertirsi a Napoli si deve uscire con una pistola addosso?”. Napoli. Se la città non cambia, l’uccisione dei tanti GioGiò sarà stata inutile di Arnaldo Capezzuto Il Fatto Quotidiano, 20 marzo 2024 “Perché so sparare così bene? A Capodanno compravamo le pistole e sparavamo”. Scende il gelo e s’impadronisce dell’aula del Tribunale per i minorenni di Napoli quando il 17enne killer di GioGiò, risponde così gelido, indifferente alla domanda formulata dal giudice che gli chiedeva “Come avesse imparato così bene a sparare”. È stata una prova durissima per Daniela Di Maggio e Franco Cutolo, i genitori di Giovanbattista, il 24enne musicista napoletano ammazzato, lo scorso 31 agosto dello scorso anno, con tre colpi di pistola per aver difeso un suo amico nel corso di una rissa. Lo sguardo basso del babykiller ha più volte incrociato gli occhi di Daniela e Franco. Prima che cominciasse l’udienza preliminare e quindi si trovassero al cospetto dell’assassino del loro figlio hanno manifestato davanti al tribunale. I genitori di GioGiò, infatti, nei giorni scorsi avevano invitato la città ad esserci: “Dobbiamo essere in tanti, dobbiamo metterci la faccia”. E in molti hanno partecipato, in prevalenza, c’erano amici e conoscenti di GioGiò. Imbracciato il megafono la vulcanica Daniele e il più riservato Franco hanno fatto sentire forte il loro grido di sdegno. Quest’ultimo è stato perentorio: “Spero in una pena esemplare, ho fiducia nel giudice. Ci vogliono interventi seri del governo in generale sui minori, ma prima delle nuove politiche sociali ci vogliono misure subito. Il primo problema sono le armi, troppe in mano ai minori. E poi sappiamo che i ragazzi di oggi non sono gli stessi di qualche anno fa, i giudizi non possono essere uguali”. A pochi metri c’era anche loro: i familiari e gli amici del babykiller. E quando si è diffusa la notizia del verdetto di condanna a 20 anni di carcere del giudice per l’udienza preliminare Umberto Lucarelli non sono mancati forti momenti di tensione. Addirittura alcuni familiari del killer con gesti e parole hanno più volte minacciato chi era presente al sit-in dietro lo striscione “Giustizia per Giogiò”. Solo il provvidenziale intervento delle forze dell’ordine ha evitato il peggio. Proprio così. Nel frattempo video e immagini sono all’attenzione dell’autorità giudiziaria. Lo ripeto e lo scrivo da anni: Napoli deve essere aiutata. A chiacchiere tutti lo fanno. Abbondano comitati civici contro la camorra, associazioni per la legalità, patti educativi, appelli e iniziative tutte rigorosamente a favore di telecamera con incorporato il solito lesto candidato da portare in giro come la ‘madonna pellegrina’ oppure i tanti progetti di rinascita simbolicamente finanziati da istituzione che così cercano di alleviare il loro atavico senso di colpa. È un teatrino. Un brutto spettacolo mentre il calendario ci ricorda gli anniversari dei tanti, troppi lutti. Tra qualche giorno, il 27 marzo saranno 20 anni dall’uccisione di Annalisa Durante appena 14 anni quando rimase vittima nel corso di una sparatoria tra camorristi al rione Forcella. E nel giorno dell’anniversario dell’uccisione dell’Angelo biondo di Forcella nel quartiere Secondigliano, una strada sarà intitolata alla memoria di Gianluca Cimminiello: aveva 32 anni quando, il 2 febbraio 2010, fu brutalmente assassinato a colpi di pistola a Casavatore, provincia di Napoli, da esponenti del Clan Amato-Pagano. Potrei continuare e snocciolare tanti, tantissimi nomi di adolescenti, ragazzi, giovani che non invecchieranno mai. La vita spesso a Napoli vale davvero poco, niente. Non c’è pentimento, non c’è ravvedimento, non c’è nulla. In questi giorni si sta celebrando il processo a carico di Francesco Pio Valda, 20 anni, accusato dell’omicidio di Francesco Pio Maimone, il 18enne pizzaiolo colpito da una pallottola vagante agli chalet di Mergellina: tra il 19 e il 20 marzo 2023. Non è l’unico imputato, alla sbarra anche i tanti familiari e amici che l’hanno aiutato a fuggire, l’hanno tenuto nascosto, rifocillato e fatto sparire l’arma. Napoli, a volte, è città dell’orrore. I criminali sembrano privi di umanità. La violenza cieca prende il sopravvento. Sono improvvise fiammate di immane crudeltà. Avete già dimenticato le mattanze delle tre faide di Scampìa? Corpi dilaniati dal piombo dei revolver, esecuzioni disumane come quella di Gelsomina Verde, sparata e bruciata nella auto, le tante vendette trasversali. Ti fermi a guardare il panorama, la bellezza infinita dei monumenti, il mare, il Vesuvio, la gioia negli occhi dei turisti, le strade, i vicoli affollati. Non ti trattieni e scatti selfie, giri video e celebri la suggestione, l’emozione di ciò che la natura ha generosamente voluto regalare a questo pezzo del Sud del mondo. Ne resti ipnotizzato, stuptiato, sedotto, stregato. Poi, il buio. Si precipita nel burrone. Come trascinati nell’inferno. Dopo anni e anni dico a me stesso che ho capito poco di questa città. So solo che ci sono tante Napoli dentro Napoli. Per i tanti talenti, intelligenze, geni c’è il contrappasso dantesco in cui un ragazzino che non nasce delinquente può comprare tranquillamente pistole al mercato nero e nel frastuono dell’ultimo giorno dell’anno sparare contro una saracinesca oppure addosso a qualche immigrato come accadde al rione Forcella per fare la mano, impratichirsi. È l’educazione di miezz ‘ a via che impone ai giovanissimi dai 10 ai 14 anni di possedere già delle abilità criminali. Mostrare a tutti nel quartiere, nel rione, nel vicolo che nonostante la giovanissima età, si è già fatta una scelta di vita: mettersi a disposizione di un clan per garantirsi un futuro. Ne parla approfonditamente lo studioso Isaia Sales nel saggio ‘Teneri assassini - il mondo delle babygang a Napoli’ edito da Marotta&Cafiero. Numeri, cifre e statistiche impetuose che fotografano una situazione drammatica dove a Napoli, terza città d’Italia, si può diventare boss di camorra a 18 anni, si partecipa a delitti efferati tra i 15 e i 18 anni, a 14 anni si è già nel giro della droga e si è pronti per essere assoldati dai clan, a 13 si ha già come modello di vita il camorrista del quartiere. È un cancro che per estirparlo oltre alla pena esemplare, agli anni di carcere, al pugno duro occorre un urgente cambio di paradigma e affidarsi a chi sa fare organizzando e attuando una sorta di piano Marshall. Napoli, i suoi quartieri, rioni, vicoli sono solo lo spaccato delle marginalità del nostro Paese. Non c’è più tempo, altrimenti anche l’uccisione di GioGiò, di Francesco Pio, di Annalisa, di Gianluca, di Maurizio, di Fabio e come i tanti prima e dopo di loro è stata inutile. Don Colmegna: “Carità significa giustizia, non può essere soltanto una pacca sulla spalla” di Gianni Santucci Corriere della Sera, 20 marzo 2024 Oggi, a 22 anni dalla fondazione della Casa della carità, l’intervista al presidente onorario don Colmegna: “A Milano emerga nuova passione”. È una storia che inizia con un dialogo. Risale a più di vent’anni fa. Don Virginio Colmegna dice al cardinale Carlo Maria Martini: “Ormai si scambia la carità per elemosina”. La risposta dell’arcivescovo: “La carità deve abbracciare la giustizia”. E oggi, a 22 anni dalla fondazione della Casa della carità, cosa significa quella parola? “La nostra società, in parte, l’ha fatta diventare marketing, la fa passare dal fund raising - riflette don Colmegna, che oggi della Casa è presidente onorario. E invece, come diceva Martini, la carità può essere un gesto piccolo, ma deve portare giustizia. O come sosteneva don Milani: “La carità senza giustizia è una truffa”. È una parola da ripulire e da riempire. Perché significa e porta appartenenza. È il “noi”, opposto all’”io” che provoca lacerazioni. Rendiamoci conto: oggi si danno soldi per il “bonus psicologo”. Vuol dire che serve una grande riflessione sulla carità”. È nella Casa che questa riflessione è iniziata, lunedì sera, proprio con un intervento di don Colmegna, in dialogo con il direttore editoriale della casa editrice Castelvecchi, Pietro D’Amore (che a breve pubblicherà “La storia di ognuno”, libro di voci narrate da Niccolò Nisivoccia). La riflessione scorre in un ciclo di dibattiti che si intitola: “Per carità. L’incontro con l’altro come atto politico”. “Riflettiamo sulla sostanza della parola, in un’accezione più ampia possibile, per ridare significato alla carità e alla politica, che sono intimamente connesse nel legame tra valore e azione”, spiega Simona Sambati, responsabile settore cultura della Casa della carità. Don Colmegna, “come sta” oggi la carità a Milano? “La carità è sapienza e impegno, non una pacca sulla spalla. È una dimensione di cultura, una dimensione etica e morale, tanto più decisiva in tempo di intelligenza artificiale. È un momento storico di troppa osservazione e poco investimento. È urgente invece tirar fuori l’utopia, la passione, la voglia di impegnarsi, la politica che affronti il cambiamento e che progetti. Bisogna riempirla di nuovo, la parola carità. Soprattutto coi giovani, per sottrarli alla deriva sociale della lamentela e della tristezza, per rompere le solitudini”. La capitale dell’economia avrebbe un dovere in più? “Bisognerebbe creare le condizioni perché i professionisti della cura scelgano di impegnarsi, di intervenire sul disagio profondo e sull’educazione. Per richiamarli, c’è bisogno di offrire una solidità anche economica. La gratuità del volontariato anticipa, ma poi deve subentrare altro, ad esempio psichiatri e professionisti per contrastare il dramma della droga, che ormai arriva a casa per posta. La città ha dentro germi da ripulire, e insieme forze da far attecchire. È una città vecchia per età media, ma la Bibbia dice che vecchi e bambini danzeranno insieme, la speranza non ha età e bisogna farla fiorire. Serve un sostegno economico per una società che progetta, cerca, inventa altre strade. La passione deve emergere e non essere costretta spesso a confrontarsi con troppo protocollo e troppa burocrazia”. Carabinieri, poliziotti, finanzieri: un suicidio ogni sei giorni. Il fenomeno di cui nessuno parla di Milena Gabanelli e Andrea Priante Corriere della Sera, 20 marzo 2024 14 marzo 2024, un brigadiere capo dei carabinieri forestali di Cuneo si toglie la vita con la pistola d’ordinanza. 4 marzo, in provincia di Avellino si uccide un agente delle Penitenziaria. 27 febbraio, un finanziere si lancia dal decimo piano dell’ospedale di Chieti. 26 febbraio, una poliziotta si spara negli alloggi di servizio del commissariato di Rosignano. 24 febbraio, a Cosenza si suicida un assistente capo della Penitenziaria. 21 febbraio, in provincia di Bologna una giovane vigilessa la fa finita negli spogliatoi del Comando. 26 gennaio, in provincia di Vicenza a togliersi la vita è un vicebrigadiere delle Fiamme gialle di 38 anni. 25 gennaio, un carabiniere di Merate muore qualche giorno dopo essersi sparato mentre si trovava nella casa della compagna. 21 gennaio, un agente del carcere di Bollate si uccide lanciandosi dal secondo piano di un centro commerciale a Milano. 8 gennaio, è la volta di un sottoufficiale della Marina Militare, di 46 anni. Queste sono le informazioni di cui si trova traccia nelle cronache locali, ma quanti sono realmente gli uomini e le donne in divisa che scelgono di farla finita? E perché? L’Osservatorio voluto da Gabrielli. I Corpi di appartenenza in genere preferiscono tenere riservati questi dati o limitarne la diffusione a convegni e ambiti accademici per evitare allarmi e polemiche. Vanno però comunicati all’”Osservatorio permanente interforze sui suicidi tra gli appartenenti alle forze di polizia” voluto nel 2019 dal prefetto Franco Gabrielli. È da qui che, per la prima volta, si può fare una comparazione ufficiale e si scopre che negli ultimi cinque anni i suicidi tra poliziotti, carabinieri, finanzieri e agenti penitenziari sono stati 207. E la conta sale a 275 se ci aggiungiamo la polizia locale e gli altri appartenenti alle Forze Armate. In media uno ogni sei giorni. Le forze armate - La situazione più grave si registra tra i carabinieri: 108 mila tra uomini e donne che fanno riferimento al ministero della Difesa. Dal gennaio 2019 a dicembre 2023 in 78 si sono tolti la vita. Nove solo lo scorso anno. Dalla relazione inviata alla Commissione Difesa del Parlamento, emerge che i suicidi sono la seconda causa di morte, dopo le malattie e più degli incidenti stradali. Dentro alle altre Forze Armate invece i casi sono più sporadici: in cinque anni 25 suicidi nell’Esercito, 12 nella Marina e 6 nell’Aeronautica. Poliziotti, guardie e finanzieri - Nella Polizia di Stato, 98mila unità alle dipendenze del ministero dell’Interno, negli ultimi cinque anni si contano 75 gesti estremi. Sedici solo nel 2023. Tra gli agenti della Polizia Penitenziaria - 38mila unità che fanno riferimento al ministero della Giustizia - i suicidi sono stati 26 (un episodio nel 2023); mentre nelle Fiamme Gialle - 60mila tra uomini e donne dipendenti del ministero dell’Economia - dal 2019 si sono uccisi in 28. Due lo scorso anno. La polizia locale - Infine, i vigili urbani. Si stima siano 49mila quelli in servizio per conto dei 7.896 Comuni italiani. Nonostante lo chiedano da tempo, non fanno parte dell’Osservatorio del ministero dell’Interno e quindi gli unici dati sono quelli - non ufficiali e quindi per difetto - raccolti dalla ong Cerchio blu: 25 suicidi in cinque anni. Tre quelli registrati nel 2023. Il confronto con i comuni cittadini - In Italia ci sono 7 suicidi ogni centomila abitanti dai 15 anni in su, che sale a 11 tra i maschi. Uno studio Istat commissionato dal Ministero dell’Interno e finora mai pubblicato, fa un paragone che tiene conto delle giuste proporzioni in termini di età, sesso, e di variazione degli organici: emerge che i suicidi sono, a seconda del Corpo di appartenenza, tra il 13% (per la Polizia) e il 70% in rispetto alla popolazione civile, con una media complessiva del 23%. I motivi e la dinamica - Uno studio pubblicato dalla Rivista di Psichiatria, condotto da ricercatori del Dipartimento di pubblica sicurezza in collaborazione con i colleghi di diverse università italiane, dice che i principali fattori scatenanti riconducono a problemi personali e familiari (39%), o all’insorgere di disturbi fisici o psichici (14%). I gesti estremi esclusivamente collegabili al lavoro sono appena l’1,48%. E allora, si chiedono gli studiosi, perché tutti questi suicidi considerando che le reclute - a differenza dei normali cittadini - vengono pure sottoposte a uno screening psicologico per verificarne l’idoneità lavorativa? In realtà - sostengono gli esperti - è una professione totalizzante: la lontananza dalla famiglia, i ritmi, lo stress, incidono anche sulla vita privata e possono indurre la “sindrome da burn out”. Aggravata dal contatto continuo con drammi umani e criminali, che spinge i soggetti a mettere un muro tra sé e gli altri. Però quando arrivano i problemi personali, si ritrovano soli davanti a quel muro. Inoltre l’ambiente delle caserme è piuttosto duro: nelle Forze Armate nel 2022 ci sono state 23 condanne per minacce e insulti a un collega e 11 per violenza; negli ultimi cinque anni sono stati segnalati 33 casi di molestie sessuali, 7 di mobbing e 7 di stalking. Omicidi-suicidi - C’è un fattore che aumenta il rischio in modo esponenziale: le forze di polizia hanno sempre l’arma a disposizione, anche a casa. E infatti l’82% dei suicidi avviene con la pistola d’ordinanza. Se in genere il 95% dei tentativi di suicidio fallisce, un proiettile quasi mai lascia scampo, e questo vale anche per chi gli sta intorno. Dal 2019 in sette casi l’agente si è tolto la vita dopo aver sparato ad altri, in genere familiari o colleghi. Cosa si sta facendo - Per molto tempo il problema è stato sottovalutato, se non addirittura nascosto quasi fosse un’onta. Su spinta dell’Osservatorio e dei sindacati, negli ultimi anni le forze di polizia hanno finalmente iniziato ad alzare i livelli di screening nella selezione e attivato campagne di prevenzione, tavoli tecnici contro il disagio, progetti di monitoraggio e, soprattutto, task force di esperti che assicurano sostegno anche a distanza e in forma anonima. I carabinieri si preparano ad arruolare altri 12 psicologi, la Polizia di Stato prevede di assumerne 50 (arrivando a 114) entro il 2027 e ha attivato il progetto “Una casa per papà” per accogliere gli agenti che, con i loro figli, stanno affrontando una separazione. La Gdf ha appena sperimentato in Lombardia e Calabria un progetto per facilitare la socializzazione dei neo-finanzieri, coinvolgendo i colleghi più anziani. E la polizia penitenziaria ha istituito un fondo da destinare, in modo strutturato e permanente, al supporto psicologico del personale. Cosa si dovrebbe fare - Mentre in parlamento si discute se creare una commissione d’inchiesta sul fenomeno dei suicidi in divisa, il Comando generale dei carabinieri propone di introdurre una norma che permetta a medici e psicologi di sapere, semplicemente inserendo il nome, se il paziente con segni di grave disagio ha il porto d’armi, e nel caso di segnalarlo subito al questore, così da poter intervenire. Ma il ritiro dell’arma e della patente vuol dire non poter più lavorare, uno “stigma” che rischia di aggravare uno stato di fragilità, tant’è che a volte gli agenti non segnalano ai superiori le situazioni a rischio proprio per il timore di “mettere nei guai” il collega. Occorrerebbe modificare il regolamento, in modo che il soggetto in questione venga solo trasferito a ruoli non operativi, ma per ora l’unica ad averlo fatto, e solo di recente, è la Polizia di Stato. Secondo il dottor Fabrizio Ciprani, che coordina la Direzione centrale sanità del Dipartimento di pubblica sicurezza del Ministero dell’Interno, occorre lavorare sul cambio di mentalità per far comprendere agli agenti che non è richiesto apparire sempre come supereroi. La strada giusta per uscire dai tunnel che a volte si presentano nel corso della vita è proprio quella di riconoscere le proprie difficoltà confidandosi con i colleghi, e nel chiedere aiuto. Migranti. Eurodeputati, non votate quel Patto di Giovanna Cavallo* Il Manifesto, 20 marzo 2024 L’appello di nove organizzazioni della società civile che da oltre sei mesi stanno attraversando l’Italia e ieri sono arrivate a Bruxelles. “La riforma dei regolamenti Ue causerà sofferenza e violazioni dei diritti”. “La politica degli ingressi legali non è una priorità in questo momento”. Risuonano ancora le parole che il vicepresidente della Commissione Ue Margaritis Schinas usò per annunciare la proposta di modifica dei regolamenti in materia di immigrazione: il nuovo Patto europeo migrazione e asilo. Quelle parole illustravano una strategia politica di chiusura e contenimento di un’immigrazione considerata sempre più come problema e trattata ancora come perenne emergenza. Quella proposta, che allora era acerba ma già chiara nelle intenzioni, è diventata una riforma che l’europarlamento approverà il prossimo 11 aprile. Oltre a essere una sconfitta sul piano della democrazia europea, visto il forte condizionamento dei negoziati da parte del Consiglio, il Patto rischia di tradursi in un quadro giuridico disfunzionale, costoso e crudele che causerà maggiore sofferenza alle persone in cerca di protezione e violerà i principi su cui si basa il diritto Ue. La riforma sistematizza un’azione di contenimento disumana e la abbina a un efficace meccanismo di respingimento. Le procedure di frontiera sono implementate per limitare il diritto d’asilo e il sistema d’accoglienza diviene strumento di sorveglianza e controllo attraverso l’uso indiscriminato della detenzione amministrativa e dei respingimenti sommari verso paesi terzi insicuri. Una rappresentanza della “Road map per il diritto d’asilo e la libertà di movimento”, percorso di consultazione dal basso che sta attraversando l’Italia da oltre sei mesi per delineare un orizzonte alternativo alle proposte Ue, è arrivata ieri a Bruxelles su invito degli europarlamentari del gruppo S&D Brando Benifei e Pietro Bartolo. Nell’iniziativa pubblica ha posto la domanda che desta maggiori preoccupazioni: le nuove strategie europee vogliono creare, sulle ceneri del sistema di accoglienza, un modello generalizzato di contenimento e detenzione? Noi pensiamo di sì e infatti abbiamo lanciato una sfida ai parlamentari invitandoli a non votare il Patto. Abbiamo piuttosto bisogno di un sistema di asilo e accoglienza equo ed efficace, di un meccanismo funzionante di solidarietà e condivisione delle responsabilità, di percorsi legali e sicuri per le persone in cerca di protezione, istruzione e lavoro. Temi che abbiamo affrontato in una lettera aperta rivolta ai deputati con la quale diciamo a chiare lettere che qualsiasi riforma della politica di asilo e migrazione deve mettere al centro le persone ed essere guidata dai valori europei di dignità, solidarietà e libertà. Crediamo che in questo momento la pressione della società civile sia importante perché resta l’unico modo per invertire la tendenza, verso politiche umane e rispettose dei diritti. Il nostro ruolo di attiviste, operatrici, membri di comunità locali, con o senza background migratorio, può e deve costruire proposte: per questo invitiamo tutte e tutti il 4 maggio a Bologna al termine della “Road map” che nel frattempo avrà attivato processi di consultazione in venti città italiane. Il meeting nazionale nella capitale emiliana aprirà un doveroso confronto con le forze politiche candidate alle elezioni europee. Il nostro compito sarà chiedere loro impegni chiari. Il loro compito sarà schierarsi, indicando da quale parte vogliono stare una volta eletti. *L’autrice fa parte del Forum Per cambiare l’ordine delle cose. L’organizzazione - insieme a Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza (Cnca), Rivolti ai Balcani, Europasilo, Italy must act, Refugees Welcome Italia, Mediterranea Saving Humans, Recosol e Stop Border Violence - promuove la Road Map e la lettera agli eurodeputati Droghe. Dall’Onu una lezione per il “Piano fentanyl” di Susanna Ronconi Il Manifesto, 20 marzo 2024 Il 15 marzo Antony Blinken, segretario di Stato degli Usa , fa il suo ingresso alla Cnd, Commission on Narcotic Drugs, a Vienna. Partecipazione non usuale, ci si aspetta che gli Stati uniti portino una parola forte in un appuntamento che deve fare il punto di medio termine sulla strategia globale decennale delle droghe, siglata nel 2019. Blinken è un falco della ‘war on drugs’, e infatti pone da subito una forte enfasi sulla ‘riduzione dell’offerta’, la lotta al narcotraffico, la risposta muscolare che da oltre 60 anni non produce nulla se non effetti disastrosi su persone che usano droghe e comunità. Ma poi, quando si arriva alla crisi del fentanyl, l’oppioide sintetico che negli Usa ha ucciso oltre 500mila persone per overdose, Blinken non si limita alla lotta a produzione e traffico dei precursori (le sostanze che servono a produrlo), ma pronuncia la parola ‘riduzione del danno’ (RdD): secondo gli esterrefatti attivisti americani, è un vero evento, qualsiasi cosa RdD voglia dire per Blinken. Un po’ come se da noi la citasse Mantovano, facendone una priorità. Di fronte alla catastrofe avviata da Big Pharma e proseguita dai mercati illegali, nemmeno Blinken può chiudere gli occhi. Del resto, già l’agenzia Usa sulle politiche delle droghe ha incluso per la prima volta la RdD nel suo piano nazionale. Come dice il suo direttore, Rahul Gupta: quello che serve è accesso al naloxone, informazione e educazione, più facile accesso ai trattamenti con sostitutivi e, a monte e soprattutto, lotta allo stigma. Una linea già sostenuta con forza da paesi come il Canada e l’Australia, anche essi colpiti, sebbene in diversa misura, dalla crisi del fentanyl, che non vedono nella lotta al narcotraffico una carta vincente: come dar loro torto, del resto, se anche quest’anno lo Unodc (Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine) ha presentato i dati sconfortanti di sempre, una impressionante escalation dei mercati, delle sostanze e dei consumi. Lo Unodc dice anche che a ogni sostanza o precursore messi in tabella (cioè fuori legge) il mercato se ne inventa altri nel giro di pochi giorni. E dunque: RdD, servizi, educazione e de-stigmatizzazione di chi usa è ciò che a Vienna si prospetta strategico. Certo, si parla ancora di riduzione dell’offerta, ma con crescente dissenso sulla sua centralità, perché stride la contraddizione con i dati stessi dello Unodc: Non servirà a salvare vite. Cosa insegna Vienna in questi giorni a Mantovano e al suo ‘piano fentanyl’? Molto, volendo: che un programma governativo che speri di fronteggiare una (per ora eventuale) crisi mettendo fuori legge due molecole e intercettando qualche pacco dalla Cina è ridicolo (una piccola busta può fornire un mercato locale per un bel po’…), e dato che si tratta di vite, è anche irresponsabile. Che la lezione appresa dagli Usa è che un paese privo della cultura e dei servizi di RdD, di accesso al naloxone, di educazione all’uso sicuro e che criminalizza e stigmatizza i consumatori è un paese impreparato e inerme. Il lancio del piano governativo sul fentanyl è una mossa vuota di evidenza e di efficacia: che arrivi il fentanyl o i nitazeni, avremo bisogno di quello di una grande campagna sul naloxone (in Italia, è un farmaco da banco dagli anni ‘90, Mantovano lo sa? Gli Usa dicono che questo è un passo cruciale…), di servizi di RdD in tutto il paese (sarebbero anche LEA - Livelli essenziali di assistenza - dal 2017), di informazione laica e educazione all’uso sicuro, di drug checking per analizzare le sostanze e informare chi usa, di stanze per il consumo sicuro per salvare dalle overdosi, di smetterla con lo stigma (a proposito di ‘zombies’). C’è stata una conferenza, a Genova nel 2021, dove decine di esperti hanno dato queste indicazioni. Carta straccia, per il governo. Un vero piano efficace per chi davvero vuole ridurre i rischi. Le Cronache da Vienna in Podcast su fuoriluogo.it. Egitto. Il processo Regeni e la falsa impressione di fare “giustizia” di Ermes Antonucci Il Foglio, 20 marzo 2024 “Non so neanche se il mio assistito è vivo o morto”, spiega uno dei legali degli imputati egiziani, rendendo bene l’idea di un processo diventato paradossale. E anche per ascoltare i testimoni la procura ora chiede una mano alla Farnesina. “La Farnesina ci aiuti a far venire i testimoni egiziani”. È ripreso con un nuovo disperato appello della procura di Roma rivolto al ministero degli Esteri il processo sull’omicidio di Giulio Regeni, in corso davanti alla Corte d’assise della Capitale. Nonostante infatti il tentativo di risolvere la vicenda sul piano giudiziario, alla fine si torna sempre lì, al vero nodo, che resta di natura politica e diplomatica. Il processo, d’altronde, secondo la Corte d’assise non avrebbe dovuto svolgersi, non essendoci prova della conoscenza da parte degli imputati egiziani del procedimento a loro carico. Si tratta di quattro agenti della National Security: il generale Sabir Tariq, i colonnelli Usham Helmi, Athar Kamel Mohamed Ibrahim e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, accusati di sequestro di persona pluriaggravato e solo Sharif anche di concorso in lesioni personali aggravate e di concorso in omicidio aggravato. Soltanto una sentenza molto discutibile della Corte costituzionale ha permesso al processo di svolgersi, ma il nodo politico-diplomatico, come detto, torna inevitabilmente sempre al pettine. “Su 73 testimoni, 27 risiedono in Egitto, sarà quindi fondamentale che siano autorizzati a uscire dal paese per venire in Italia a deporre davanti a questa Corte”, ha affermato in aula lunedì il procuratore aggiunto di Roma, Sergio Colaiocco. “Per questo, lo diciamo sin d’ora - ha aggiunto - servirà un proficuo lavoro del ministero degli Affari esteri che dovrà suscitare la collaborazione delle autorità egiziane. Solo la polizia egiziana, infatti, può notificare gli atti ai testimoni residenti in quel paese e autorizzarne l’arrivo in Italia”. Insomma, se prima il problema era costituito dagli imputati, ora tocca ai testimoni. E chissà se anche in questo caso si arriverà a sacrificare il diritto di difesa in nome della necessità di raggiungere la “verità” sul caso Regeni. “Di fronte all’impossibilità di notificare gli atti ai testimoni, l’accusa potrebbe forzare la mano anche in questo caso per far entrare nel fascicolo del dibattimento le dichiarazioni che queste persone hanno reso precedentemente davanti all’autorità egiziana”, afferma al Foglio l’avvocato Tranquillino Sarno, legale d’ufficio di Athar Kamel Mohamed Ibrahim. Insomma, alla forzatura della Consulta se ne potrebbero aggiungere altre, tutte a discapito di alcuni princìpi basilari del nostro ordinamento giuridico. “Non so neanche se il mio assistito è vivo o morto”, spiega Sarno, rendendo bene l’idea di un processo diventato a dir poco paradossale. “Questo non è un processo, è un simulacro”, prosegue. “Si celebreranno una marea di udienze in cui noi della difesa non avremo nessuna domanda da fare. Nella prossima udienza verrà ascoltato come testimone il padre di Regeni, poi saranno ascoltati i suoi amici. Ricostruire la vita di Giulio in Egitto è corretto, per carità. Ma quali domande dovremmo fare?”. Ma i dubbi emergono soprattutto se si guarda alle prove raccolte dalla procura di Roma per accusare i quattro ufficiali egiziani. Prove, a prima vista, piuttosto deboli. “Gli imputati appaiono già colpevoli, ma in realtà c’è pochissimo contro di loro. I pm, ad esempio, sostengono che poiché da alcuni tabulati emerge che il mio assistito ha telefonato a uno dei soggetti che avrebbero effettuato la perquisizione in cui sono stati ritrovati i documenti di Regeni, allora verosimilmente avrà partecipato al sequestro di Regeni”, dice Sarno sbigottito. Senza parlare poi del testimone chiave: “Si tratta di un signore kenyota che ha riferito di aver sentito in un ristorante a Nairobi il maggiore Sharif confessare a un collega l’uccisione di Regeni. Questo sarebbe il teste chiave: un signore che avrebbe sentito una conversazione tra sconosciuti al tavolo a fianco”, dichiara l’avvocato. Inutile ricordare, infine, che in caso di condanna la sentenza resterebbe comunque non eseguibile. “La verità giudiziaria non l’avremo mai e, se l’avremo, l’avremo in maniera molto forzata. Ciò che serve è la verità politica”, afferma Sarno. “La politica, invece, mi sembra che abbia delegato alla magistratura per far sì che le richieste della procura e della famiglia vadano a Piazzale Clodio anziché alla Farnesina o a Palazzo Chigi”. A tal proposito, il processo Regeni è ripreso proprio il giorno dopo l’incontro al Cairo fra Meloni e Al Sisi, incentrato sulla gestione dei migranti. Il tribunale di Roma è diventato solo un luogo in cui scaricare un problema, dando l’impressione di giustizia. Somalia. Trent’anni fa l’uccisione di Ilaria e Milan. Mattarella: “Dare un nome ad assassini e mandanti” La Repubblica, 20 marzo 2024 I due inviati della Rai uccisi a Mogadiscio il 20 marzo del 1994 durante la guerra civile in Somalia. Il presidente della Repubblica: “La loro morte è una ferita per l’intera società”. È domenica 20 marzo 1994, esattamente 30 anni fa, quando Ilaria Alpi viene uccisa a Mogadiscio insieme con il suo operatore Miran Hrovatin: inviati dal Tg3 per documentare la guerra civile somala, vengono freddati nella zona nord della città mentre lavorano a un’inchiesta sui traffici illeciti di armi e rifiuti tossici tra la Somalia e l’Italia. L’incontro con la Procura di Roma - Dopo una lunga e controversa vicenda, che ha coinvolto commissioni parlamentari, presunti tentativi di depistaggio, incarcerazioni, assoluzioni e richieste d’archiviazione, “la battaglia per la verità va avanti”. È il senso dell’iniziativa organizzata alla Camera da Walter Verini, capogruppo del Partito Democratico in commissione Antimafia. “Abbiamo chiesto e ottenuto la disponibilità a un incontro dal procuratore capo di Roma, Francesco Lo Voi - annuncia Verini - per fornire tutti i tasselli utili, anzi necessari per sostanziare la richiesta di non archiviare la vicenda: ci sono gli elementi per raggiungere la verità e la giustizia”. L’appello di Mattarella per la verità - Ad Alpi e Hrovatin ha dedicato il suo ricordo stamattina anche Sergio Mattarella, presidente della Repubblica: “A trent’anni dall’agguato mortale che spezzò le vite di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, il loro ricordo è presente come nei giorni drammatici in cui la terribile notizia da Mogadiscio piombò sul nostro Paese. Erano giornalisti di valore alla ricerca in Somalia di verifiche e riscontri su una pista che avrebbe potuto portare a svelare traffici ignobili”. Le Medaglie d’oro al Merito Civile, di cui Alpi e Hrovatin sono stati insigniti, prosegue il Presidente, “testimoniano il valore che la Repubblica riconosce alla loro opera. Un prezzo pagato nell’esercizio di un diritto, quello all’informazione, che è un presidio essenziale alla libertà di tutti e un pilastro su cui si regge la vita democratica”. Il capo dello stato si è unito alla richiesta di ricostruire i fatti di quel venti marzo: “Gli assassini e i mandanti sono ancora senza nome e senza volto dopo indagini, depistaggi, ritrattazioni, processi finiti nel nulla. È una ferita che riguarda l’intera società. Le Istituzioni sanno che non ci si può mai arrendere nella ricerca della verità”. Il messaggio di Mattarella si è chiuso con un monito contro i limiti alla libertà di stampa: “Il valore dell’autonomia della stampa libera è sotto attacco in tante parti del mondo. Molti giornalisti pagano con la vita la loro indipendenza dai poteri, la loro ricerca di verità. Il ricordo di Alpi e Hrovatin suona anche impegno, a rimuovere gli ostacoli alla libertà di informazione, ovunque si manifestino”. Le iniziative per l’anniversario - Verini e le associazioni che appoggiano la ricerca della verità sull’assassinio di Alpi e Hrovatin - il cartello Noi non archiviamo, la Federaziona Nazionale della Stampa Italiana, Usigrai, l’Ordine dei giornalisti del Lazio, Articolo 21 - hanno ricordato l’approvazione, qualche giorno fa, di un atto del Parlamento Europeo che tutela il servizio pubblico e il giornalismo di inchiesta: “E’ un modo per onorare la memoria di Ilaria e di tutti i giornalisti, da Daphne Caruana Galizia a Anna Politkovskaja, che in questa missione hanno perso la vita”. Tra le tante iniziative, da Trieste a Napoli a Latina, da Ronchi dei Legionari a Parma, dedicati al trentennale dell’omicidio Alpi-Hrovatin, oggi al liceo Tito Lucrezio Caro di Roma viene presentato un murales dedicato a Ilaria - che lì si diplomò nel 1980 - e a Miran. Mariangela Graimer, portavoce del cartello “Noi non archiviamo”, ha citato il “capro espiatorio” Hashi Omar Hassan, il cittadino somalo condannato fino in Cassazione per l’omicidio di Alpi e Hrovatin, poi assolto dopo sedici anni di detenzione e ucciso nel 2022 da una bomba. “Siamo in grado di fornire alla procura i pezzi mancanti, se non ci bloccano anche questa volta”, promette. Somalia. Inchiesta su Ilaria Alpi. “L’ambasciatore tentò di corrompere il testimone somalo” di Andrea Palladino La Stampa, 20 marzo 2024 Il professor Yahya Amir racconta il tentativo di insabbiare l’uccisione della reporter Rai. “Sessantamila dollari per incolpare Hashi”. La difesa: “Falso”. E Mogadiscio torna a minacciare i cronisti. Il professore somalo Yahya Amir di dubbi ne ha pochi. L’agguato di Mogadiscio del 20 marzo 1994 contro Ilaria Alpi e Milan Hrovatin ha radici lontane dal Corno d’Africa: “Dovete cercare in Italia”. Trent’anni dopo, decide di riprendere in mano quel dossier, raccontando, per la prima volta, episodi inediti sulla complessa, opaca, intricata storia della lunga - e al momento inutile - inchiesta sulla morte dei due giornalisti Rai. E quel che avviene a Mogadiscio, questa volta, potrebbe non rimanere a Mogadiscio. Yahya è il presidente della Somali Intellectual Society, l’organizzazione che nel 1997 raccolse le testimonianze dei somali vittime delle violenze del contingente italiano. Il ginepraio del caso “Alpi - Hrovatin” lo conosce molto bene, si è intrecciato più e più volte con i tanti misteri somali e con pesanti accuse finite per buona parte in nulla. Nell’elenco dei testimoni chiamati dalla commissione governativa Gallo, incaricata di approfondire le denunce di abusi e torture di alcuni soldati e ufficiali nei confronti dei somali, c’era anche Hashi Omar Hassan, il giovane somalo finito in prigione per 16 anni da innocente, ed ucciso anche lui in un agguato a Mogadiscio nel luglio del 2022. Quando sbarcò a Roma nel gennaio 1998 venne arrestato, accusato da Ahmed Ali Rage, detto Gelle, di essere uno dei componenti del commando che uccise l’inviata Rai e il suo operatore. Nel 2016, dopo il processo di revisione, la Corte d’Appello di Perugia accertò che il testimone d’accusa aveva mentito. Lo aveva confermato lui stesso un anno prima all’inviata di Chi l’ha visto Chiara Cazzaniga. Già nel 2002, in una telefonata registrata, Gelle aveva spiegato al giornalista somalo Sabrie Aden che il suo racconto era falso. Lo aveva fatto per scappare dalla Somalia e per soldi, raccontò. Non venne creduto, per un decennio quella telefonata rimase negli archivi giudiziari senza un peso, perché non c’era modo di identificare con certezza la voce. Gelle, opportunamente, era sparito nel nulla, introvabile. Una falsa pista, un testimone forse corrotto, di sicuro mendace. Un innocente recluso per quasi un ventennio. E le indagini sulla morte di Alpi e Hrovatin sono tornate al punto di partenza. Nessun indagato, un fascicolo ancora aperto, con tre richieste di archiviazione presentate dalla Procura di Roma respinte dal Giudice per le indagini preliminari. L’ultima quattro anni fa, nell’ottobre del 2019 e da allora tutto tace. Yahya Amir ha però un’altra storia da raccontare, assolutamente inedita. Lo scenario, questa volta, non è Mogadiscio, ma Roma. Nel biennio 1997-1998 Giuseppe Cassini era il rappresentante speciale in Somalia del governo italiano e fu lui ad individuare il falso testimone Gelle. Cassini era anche l’interfaccia nel Corno d’Africa della Commissione Gallo, occupandosi di verificare le liste delle vittime preparate da Yahya. In quell’elenco finì poi Hashi Omar Hassan. Gelle, tre mesi prima, aveva indicato il suo nome. Non tutti, però, erano convinti. Già allora sembrava una versione di comodo, con la figura di un “Morian”, un piccolo bandito di strada, ed un commando che avrebbe agito per una rapina, poi finita male. In questo contesto Yahya Amir incontra Cassini, secondo il suo racconto: “Un giorno c’erano sette o otto giornalisti, io sono arrivato con l’ambasciatore - ha dichiarato a La Stampa e al capo dell’ufficio di corrispondenza Rai per l’Africa Valerio Cataldi, in Somalia per un reportage per Tv7 - e mi ha detto, “Prepariamo i giornalisti, ci vai a parlare, devi dire che Hashi è colpevole, che è questo quello che è avvenuto e che i soldati italiani erano buoni con la popolazione”. La proposta, secondo la versione del presidente della Somali Intellectual Society, avrebbe avuto anche una contropartita: “I giornalisti registreranno e tu sarai libero di rimanere in Italia o di andare dove vuoi, pensaci, mi hanno detto”. Il suo racconto diventa a questo punto una dura accusa: “Mi hanno dato una busta di carta, una grande busta, di color cemento; l’ho aperta e c’erano sessanta mila dollari. Non ho accettato”. L’ambasciatore Cassini, chiamato in causa da Yahya Amir, raggiunto da La Stampa, ha una prima reazione di sorpresa: “Questa mi giunge nuova! Sessantamila dollari? Quanto ha detto? Vede, questo è il modo di fare somalo, non è una menzogna nella testa di un somalo, è semplicemente un modo di stringere il proprio interesse clanico”. Non smentisce di aver conosciuto ed incontrato il rappresentante della Somali Intellectual Society - dato di fatto che emerge anche dagli atti della commissione parlamentare d’inchiesta del 2006 - ma respinge l’ipotesi di aver chiesto a Yahya di accusare Hashi in cambio di soldi. Il racconto di Yahya riporta il baricentro dell’inchiesta lunga trent’anni sulla morte di Ilaria Alpi e Miran su un punto chiave, il biennio 1997-1998 e la commissione Gallo. Fu proprio la Somali Intellectual Society a raccogliere e documentare quasi cento episodi di violenze nei confronti di civili, commessi - secondo alcuni testimoni - da soldati italiani. Era la prima missione Onu che vedeva la nostra partecipazione militare, in un contesto che aveva visto l’Italia prima Paese colonizzatore, poi a capo di un protettorato e infine protagonista di investimenti, a volte macchiati da ombre e sospetti. Le foto e le testimonianze pubblicate in quei mesi su stupri e vere e proprie torture ebbero, dunque, un impatto notevole. Nel luglio 1997 esce la prima relazione della commissione d’indagine governativa presieduta da Ettore Gallo; dopo pochi giorni l’ambasciatore Giuseppe Cassini, con l’aiuto del somalo Ahmed Washington, capo della rappresentanza della Commissione europea a Mogadiscio, individua e incontra Hashi Omar Hassan, che Gelle aveva indicato come uno dei componenti del commando omicida. Riscontri? Nessuno. Nel frattempo, il falso testimone viene fatto arrivare in Italia e interrogato dalla Digos di Roma. A dicembre, alla vigilia di Natale, Gelle sparisce, lasciando Roma. Dopo quindici giorni, a metà gennaio, ecco che arrivano in Italia gli undici somali, come testimoni e vittime della commissione Gallo. Anche Hashi era tra loro e la sua esperienza di vittima delle violenze italiane ce l’ha raccontata nei giorni scorsi la madre: “Lo avevano preso i soldati, gli legarono le mani e lo buttarono in mare”. Per Giuseppe Cassini in fondo non era nulla di particolarmente rilevante: “Non era tortura quella, mi ricorda la storia del Conte di Montecristo”, commenta a La Stampa con un velo di sarcasmo. Oltre ad Hashi in quella lista c’era anche l’autista di Ilaria e Miran, Sid Ali Mohamed Abdi: interrogato il 12 gennaio del 1998 prima nega di conoscere i membri del commando omicida, poi - dopo una lunga pausa - dichiara di aver riconosciuto uno di loro in Hashi. Viene ufficialmente retribuito come testimone, torna in Somalia nel 2002: “Dopo un giorno appena è morto”, racconta Yahya. L’arresto di Hashi, la sua accusa di omicidio, hanno avuto un doppio effetto: chiudere quel caso scomodo sull’agguato di Mogadiscio e, più o meno indirettamente, mettere in dubbio la storia delle violenze in Somalia. Ed è la stessa commissione Gallo a certificarlo: “Né si può sottacere che l’arresto, da parte dell’Autorità giudiziaria, del testimone somalo che la Commissione aveva ascoltato come parte offesa, ha rappresentato oggettivamente un elemento che ha indebolito il valore delle audizioni dei somali”, si legge nella seconda relazione del 1998. Dopo trent’anni riannodare i fili appare sempre più difficile. Impossibile entrare nella città di Bosaso, dove Ilaria e Miran realizzarono l’ultima inchiesta. A chi scrive è stato negato il permesso e il corrispondente Rai Valerio Cataldi ha trovato la strada sbarrata: “Potresti fare una fine peggiore della tua collega”, è stato il messaggio inviato da un senatore somalo, prima di obbligarlo a lasciare la città. Gaza, incubo carestia. Le voci dei palestinesi all’inferno: “Mangiare è la sfida più grande” di Nello Del Gatto La Stampa, 20 marzo 2024 Dopo l’allarme Onu anche gli Usa mettono in guardia Israele: “Tutta la Striscia soffre la fame”. Netanyahu insiste: “Entreremo a Rafah”. “Devi immaginare la luna. Non è rimasto più niente. Qualche volta ho visto immagini di film di catastrofi post nucleari, mi sembra di rivivere nelle stesse ambientazioni”, dice Ahmed, che ha voluto lasciare Rafah per tornare al nord, a Jabalya, dove ha sempre vissuto la sua famiglia e affronta ogni giorno sfide per sopravvivere, “ma la sfida più grande oggi è mangiare”, spiega. Gli aiuti a nord non arrivano se non dall’alto. Quasi tutti i camion vengono intercettati prima dagli sfollati, dai rifugiati, che tentano di accaparrarsi il più possibile. E c’è chi ne approfitta. In tutta la Striscia si sta sviluppando da qualche tempo un mercato nero. Molti ci speculano e rivendono a prezzi maggiorati le cose che arraffano o che in qualche modo riescono a procurarsi. Ci sono gruppi che si accaparrano interi camion, con la complicità di agenti di polizia, miliziani e anche corrotti impiegati di organizzazioni. I prezzi sono aumentati di oltre cinque volte. “Mangiare a Gaza costa quanto in un ristorante di lusso in un Paese ricco”, racconta ancora Ahmed che, come tanti, cerca qualsiasi lavoretto per guadagnare qualcosa e poter comprare cibo. Come rilevato anche da diversi media, per una scatola di fagioli si spendono due dollari, sei per il latte a lunga conservazione, mentre prima non arrivava a un dollaro e mezzo. Ogni giorno, il compito di tutti, è cercare cibo. Le famiglie si dividono. Chi va al mercato, chi cerca i venditori ambulanti, chi i pochissimi negozi rimasti aperti, chi fa lunghe file presso le organizzazioni che distribuiscono aiuti. Ognuno cerca di raccogliere qualcosa. La gente mangia tutto ciò che trova, anche erbe selvatiche, neanche i pacchi aperti o distrutti vengono abbandonati. Si cerca di mettere insieme almeno un pasto, quello serale, la cena di Iftar, quella che ritualmente sancisce la fine del digiuno ogni giorno nel sacro mese di Ramadan. In tutto il mondo islamico è un momento di aggregazione, di festa, ci si scambia gli inviti tra famiglie, le tavole sono imbandite e piene di cibo. Hummus, cetrioli, carne, riso, insalate, formaggio, yogurt, e poi in Palestina le bevande di tamarindo e liquirizia. Ma Gaza è sulla luna, e la cena di Iftar è l’unico momento per tentare di sopravvivere mettendo qualcosa, qualsiasi cosa nello stomaco. Che spesso, avvelena. Proprio il fatto di prendere qualsiasi cosa da terra, di utilizzare anche alimenti scaduti o foraggi animali, ha fatto ammalare parecchie persone, vittime di intossicazioni alimentari anche gravi. Anche negli ospedali la situazione è tragica. Non c’è cibo, viene centellinato, si va avanti con qualche flebo. Mancano farmaci, bende, disinfettanti. Qualche giorno fa per la prima volta i camion sono arrivati al nord integri. A scortarli non c’è più la polizia di Hamas, ma civili palestinesi, nominati dai clan, e armati. Da più di un Paese, Stati Uniti compresi, si contesta a Israele l’uso della fame come “arma di guerra”, cosa che lo Stato ebraico respinge fermamente, nonostante le difficoltà a far entrare aiuti, i 27 bambini morti per disidratazione o malnutrizione, gli avvisi che la catastrofe alimentare da qui a maggio colpirà il 70% della popolazione della Striscia e le accuse dell’Onu “di crimini di guerra”. I militari che gestiscono gli aiuti sostengono che non ci siano limiti alla quantità di cibo che può entrare. Sta di fatto che la gente muore di fame. Netanyahu è sempre più deciso ad andare avanti con l’operazione a Rafah, dove ritiene si sia rintanato il gotha di Hamas, “il prima possibile”. Nonostante l’opposizione di molti Paesi, non ultima l’Italia ieri con l’opposizione della premier Meloni, e gli Stati Uniti. “Siamo in disaccordo con gli americani - ha detto Netanyahu alla Commissione Affari Esteri e Difesa - non sulla necessità di eliminare Hamas, ma sulla necessità di entrare a Rafah. Non vediamo un modo per eliminare militarmente Hamas senza distruggere i battaglioni rimasti. Siamo determinati a farlo”. Gli americani escludono qualsiasi sostegno a una grande offensiva a Rafah. “Un’operazione di terra lì sarebbe un errore - ha detto il consigliere per la sicurezza nazionale Usa Jake Sullivan - porterebbe a più morti civili innocenti, peggiorerebbe la già terribile crisi umanitaria, aumenterebbe l’anarchia a Gaza e isolerebbe ulteriormente Israele a livello internazionale”. Intanto a Rafah già si muore. Ieri almeno in 20 sono deceduti a sud e a Gaza City per un bombardamento. I venti di guerra spirano forti anche altrove. Due soldati sono rimasti feriti in un attacco di Hezbollah a Menara, vicino al confine libanese, e due agenti dello Shin Bet sono stati feriti in un attentato di un palestinese armato, poi ucciso, nei pressi dell’insediamento di Gush Etzion in Cisgiordania. Russia, il coraggio delle vittime di Luigi Manconi La Repubblica, 20 marzo 2024 I cittadini che depongono fiori sulla bara di Aleksej Navalny o mostrano la scheda elettorale con il suo nome: esiste un gesto più potente? La donna russa che si sporge oltre la transenna per lanciare un fiore sulla bara di Aleksej Navalny e quegli elettori che mostrano la scheda dove hanno scritto il nome del dissidente morto il 16 febbraio in un carcere oltre il circolo polare artico: esiste una immagine del coraggio umano più pregnante e più simbolicamente potente di questi inauditi gesti individuali? Il termine “coraggio” viene speso con prodigalità, fino allo scialo, all’interno del nostro sistema politico e del nostro sistema mediatico, così da farne una epopea quotidiana, tanto mediocre quanto ossessiva. Alcuni esempi: la coraggiosa Giorgia Meloni che lotta contro i fantasmi suoi e del suo partito, mentre il coraggioso Matteo Salvini si oppone al primato politico di Fratelli d’Italia e il coraggioso Giuseppe Conte compete con il Pd per la leadership del centrosinistra. Si tratta, in tutta evidenza, di un uso improprio della parola coraggio per definire ordinari connotati dell’agire politico, che nulla hanno di eroico e nemmeno di particolarmente emozionante. Altrove è il coraggio: e questo richiederebbe di preservarne anche il nome per evitare la banalizzazione e la progressiva perdita di senso di un’espressione tanto impegnativa. Non solo. Personalmente nutro una grande stima per le cosiddette donne-coraggio, ad alcune delle quali sono molto affezionato (Lucia Uva, Patrizia Moretti Aldrovandi, Ilaria Cucchi, Elisa Rocchelli…), ma le virtù che hanno reso possibili le loro preziose azioni civili non discendono dal coraggio. E si riassumono, piuttosto, nella sapiente capacità di tradurre un lutto privato e intimissimo in una vertenza pubblica. Nell’arena mondiale gli esempi di coraggio si trovano, eccome. Penso alle donne afghane che organizzano la resistenza contro “l’apartheid di genere”; e alle ragazze iraniane che mostrano il volto senza velo all’odio e al sadismo della polizia morale. E c’è un esempio tra i mille che, forse, costituisce il punto più alto del coraggio in epoca contemporanea, semmai una simile graduatoria fosse possibile e plausibile. È il 5 giugno del 1989 quando, in assoluta solitudine, un “rivoltoso sconosciuto”, stringendo in una mano due borse della spesa, si oppone più volte all’avanzata di un convoglio di carri armati dell’esercito cinese in viale Chang’an, nei pressi di piazza Tienanmen. L’uomo prima fronteggia il carro armato, poi vi sale sopra, si rivolge attraverso la botola ai soldati che vi si trovano, discute con l’ufficiale, scende. E ripete quell’azione una seconda volta fino a quando viene trascinato via. La stupefacente semplicità (le borse della spesa!) di quegli atti è rivelata da un particolare che rende il coraggio dell’uomo ancora più raro: e lo avvicina a quei gesti destinati all’anonimato e all’oscurità - e proprio per questo di inestimabile valore - compiuti dalle donne afghane. Il “rivoltoso sconosciuto” cinese non poteva immaginare, certo, che quella sua esile figura sarebbe stata vista in tutto il mondo e, probabilmente, la sua azione era destinata a vivere dell’esclusivo rapporto tra sé, i pochi passanti e quel carro armato. L’effetto di tragica e sublime testimonianza era totalmente imprevedibile. Questo non solo ci aiuta a riflettere su cosa sia davvero la virtù del coraggio, ma - nel mondo globalizzato e mediatizzato - contribuisce a fare intendere come affrontare l’enorme questione delle vittime nel loro rapporto con lo spazio e con il tempo. In altre parole la vittima è in primo luogo chi è oggi vittima. Un esempio. La storia politica di Navalny, le sue passate posizioni ipernazionaliste, i suoi cedimenti e i suoi errori costituiscono qualcosa di trascurabile di fronte alla attualità della sua presente condizione di vittima di avvelenamento e, poi, di iniqua detenzione, di abnormi capi d’accusa, di deportazione in Siberia e, infine, di morte nella cella di un carcere speciale. Ciò che più conta è questo, ed è sempre questo a svelare inequivocabilmente la natura autentica e profonda della tirannide di Vladimir Putin. Quest’ultimo viene dal passato e domina il passato, ricavandone tradizioni e inventando miti destinati a rafforzare il suo dispotismo. Ma la sua attualità è quella del funzionario del Kgb quale era trentacinque anni fa e quale sarà al termine di quest’ultimo mandato nel 2030. Analogo ragionamento può valere per l’Ucraina. Ho un conto anche personale con il sistema politico di quel Paese perché sono amico dei genitori di Andy Rocchelli, fotoreporter pavese ucciso in Donbass nel 2014 da appartenenti alla Guardia nazionale. E non ignoro il fatto che in Ucraina vi siano gruppi neonazisti, anche tra settori dell’esercito; e infine non dimentico alcune tendenze autoritarie dell’attuale esecutivo. Ma, ecco il punto, ancora il concetto di attualità delle vittime, come elaborato dal teologo Johann Baptist Metz, mi induce a stare dalla parte del presidente Volodymyr Zelensky e del suo popolo. Perché oggi la storia e la geografia (che pure contano, eccome) vengono sussunte dalla violenza in atto, dai rapporti di forza tra sopraffattori e sopraffatti, dalla macchina criminale dell’aggressione e dell’invasione. Il coraggio delle vittime risiede, per quanto riguarda le donne afghane nel mostrarsi clandestinamente alle vittime appartenenti allo stesso genere e alla medesima sofferenza; il coraggio dei cittadini russi si manifesta in quel proporsi impudentemente al mondo intero come inermi e sconfitti intorno a una bara e a un rito elettorale altrettanto funereo. Stati Uniti. Via libera al Texas: può arrestare i migranti al confine di Marina Catucci Il Manifesto, 20 marzo 2024 La decisione della Corte suprema mette in pericolo chi attraversa la frontiera. Respinto l’appello del governo, secondo il quale i singoli stati non possono farsi le loro leggi. La Corte suprema Usa ha avuto un ripensamento, e ha dato il via libera temporaneo all’attuazione della SB4, una legge del Texas che autorizza la polizia locale e statale a fermare e arrestare le persone sospettate di aver attraversato illegalmente il confine con il Messico. La SB4 prevede fino a 6 mesi di carcere per chi tenta un ingresso clandestino e fino 20 anni in caso di re-ingresso. Sin da subito, il disegno di legge ha sollevato timori sul pericolo di un aumento della profilazione razziale, delle detenzioni e dei tentativi di rimpatrio forzato da parte delle autorità statali, in uno stato dove i latinoamericani rappresentano il 40% della popolazione. La proposta era stata convertita in legge a dicembre dal governatore di estrema destra Greg Abbott, e la Corte suprema si era inizialmente opposta in quanto, secondo la legge federale, nessuno può essere arrestato se fa domanda di asilo appena entra nel Paese, e la SB4 era stata oggetto di una “sospensione amministrativa” da parte dei giudici che ne avevano congelato l’applicazione in attesa di esaminare i vari ricorsi d’emergenza. Poco dopo l’annuncio della prima decisione dell’Alta Corte, Abbott aveva dichiarato che “Il Texas continuerà a utilizzare ogni strumento e strategia per rispondere a questa crisi al confine creata da Biden”. A dargli manforte era arrivato il procuratore generale dello stato, Ken Paxton: “La Costituzione riconosce al Texas il diritto sovrano di difendersi dai cartelli transnazionali violenti che inondano lo stato con fentanyl, armi e ogni sorta di brutalità”. La posizione di Paxton si opponeva a quella del dipartimento di Giustizia, per il quale la legge texana stravolgerebbe “profondamente” lo status quo “in vigore tra governo federale e stati nel contesto dell’immigrazione, da quasi 150 anni”. Che la situazione alla frontiera tra Stati uniti e Messico sia difficile non viene messo in discussione da nessuno: da quando Joe Biden è entrato in carica le guardie che controllano il confine hanno trattenuto circa 6 milioni di migranti che cercavano di attraversare il confine. Questo però non ha impedito al Gop di rifiutare di mettere ai voti, alla Camera, la legge scritta da un gruppo bipartisan di senatori che avrebbe dato un ulteriore giro di vite alla repressione al confine. Un giudice di una corte di grado inferiore aveva temporaneamente bloccato la legge, come ha fatto notare la giudice liberal della Corte suprema Ketanji Brown Jackson, affermando che lo statuto è probabilmente incostituzionale e “potrebbe aprire la porta alla possibilità che ciascuno stato approvi una propria versione delle leggi sull’immigrazione”, costringendo il governo federale a destreggiarsi in un mosaico di leggi e regolamenti locali. Ma la Corte d’Appello del 5° Circuito degli Stati uniti ha rapidamente annullato quella decisione, sostenendo che la legge ha le carte in regola per essere applicata, in attesa di una decisione definitiva della Corte suprema. Che dopo un’opposizione iniziale ha deciso, con i tre giudici liberal dissenzienti, di respingere la richiesta di emergenza dell’amministrazione Biden, secondo la quale i singoli stati non hanno l’autorità per legiferare sull’immigrazione, questione su cui è il governo federale ad avere l’autorità esclusiva. La procuratrice generale Elizabeth Prelogar, che rappresenta l’amministrazione Biden, ha avvertito che la legge del Texas “impedisce alla nazione di parlare ‘con una sola voce’ di questioni che riguardano gli affari esteri” e calpesta le responsabilità federali stabilite dal Congresso. La sua attuazione, ha affermato, potrebbe infiammare le tensioni con il Messico, il maggiore partner commerciale degli Stati uniti, e portare all’espulsione di migranti le cui vite sono in pericolo. Lo ribadisce un comunicato di Human Rights Watch: la decisione della Corte suprema “mette in grave pericolo le persone vittime di persecuzione”.