“Lo sconto di pena sarà un automatismo. Ventimila detenuti affidati alle Comunità educanti” di Angelo Picariello Avvenire, 1 marzo 2024 “Un nuovo patto tra Stato e detenuti”. Spiega così Andrea Ostellari la sua proposta di riforma del meccanismo degli sconti di pena, che - a differenza di altre - non punta sull'aumento dei giorni previsti, ma sulla facilitazione delle procedure di accesso, con risultati attesi sia in termini di sbrurocratizzazione, sia in termini di lotta al sovraffollamento carcerario. Che potrebbe avere un forte impulso, negli auspici del sottosegretario leghista, attraverso un ricorso più massiccio e strutturato alle comunità educanti, “in grado di far uscire 20mila detenuti”. Spieghi bene questa sua proposta sugli sconti di pena… I Tribunali di sorveglianza sono oberati da circa 300mila istanze l'anno, prodotte da detenuti che chiedono il riconoscimento dello sconto di pena di 45 giorni, ogni sei mesi, previsto per chi mantiene una buona condotta. Questo carico di richieste pesa sul sistema. La nostra proposta è di invertire il procedimento. I detenuti matureranno il beneficio previsto, senza dover produrre alcuna istanza, salvo che al magistrato non arrivi una segnalazione di condotta scorretta. Con ciò si alleggerisce il peso sui Tribunali, si assicura al detenuto il riconoscimento dei suoi diritti, stimolandolo ad assumere comportamenti conformi al trattamento, anche a tutela del personale. Che impatto prevedete in termini di sfollamento? L'obiettivo è garantire l'efficienza dell'esecuzione penale, senza premi, ma nel rispetto dei diritti del detenuto, del personale, facendo funzionare meglio il sistema. Comprendo ma non condivido la proposta di Giachetti di aumentare da 45 giorni a 60 lo sconto di pena previsto. Non si svuotano le carceri con un mese in più di sconto. Meglio migliorare le procedure, far uscire chi può uscire perché ne ha diritto e spronare i detenuti ad aderire al trattamento, magari inserendo già nell'ordine di esecuzione non solo la pena irrogata in sentenza, ma anche quella che diventerà effettiva, salvo il caso in cui si comporti male. C'è un malessere che riguarda anche la polizia penitenziaria, addirittura con dei casi di suicidio, ma certo con uno stress diffuso… Non ho delega diretta sulla Polizia Penitenziaria, ma ciò non mi impedisce di raccogliere segnalazioni e idee. È anche grazie al confronto con donne e uomini in divisa che sono nati due provvedimenti che stanno riducendo le aggressioni fra detenuti e ai danni del personale. Si tratta di una nuova circolare che ha scopo detenente e prevede il trasferimento anche fuori regione dei detenuti violenti e di un cambio dirotta sulla media sicurezza: i reclusi che non partecipano al trattamento non possono più ciondolare nelle sezioni, minacciando il personale e i detenuti più deboli. Segnalo inoltre che nella prima legge di bilancio utile il Governo ha previsto l'assunzione straordinaria di mille agenti, i primi 250 dei quali entreranno in servizio ad aprile. A questo si aggiungono 5.100 unità che saranno a disposizione entro l'anno e un ulteriore concorso per i circa 2.500 nel 2025. Inoltre stiamo potenziando il numero di educatori e personale sanitario, perché agli agenti non si può chiedere di fare anche gli psicologi o i dottori. La finalità rieducativa della pena tira in ballo anche le Comunità educanti. Come pensate di coinvolgerle in modo più strutturato e diffuso? La pena serve se rieduca. Però la rieducazione si fa in tre. Stato, Comunità e detenuto. Stato, mettendo a disposizione personale e strutture. Comunità, attraverso cooperative o imprese private che investono in carcere, assicurando opportunità di lavoro. Detenuto, che accoglie su di sé la responsabilità del suo errore e accetta il patto trattamentale. Per i condannati prossimi al fine pena, e sono quasi 20mila, pensiamo a una soluzione ancora più efficace. Il trasferimento in comunità educanti, sul modello della Giovanni XXIII, dove destinare chi ne ha i requisiti in regime di messa alla prova o detenzione domiciliare. Ciò avrà effetto diretto sul sovraffollamento e assicurerà una migliore rieducazione del ristretto, oltre che un risparmio per lo stato. In regime detentivo un recluso costa 150 euro al giorno, in comunità circa 30. Siamo al lavoro per istituire un albo delle Comunità e mettere in rete le esperienze migliori. La tendenza a inasprire le pene, o a creare di continuo nuove ipotesi di reato, non aiuta però a decongestionare gli istituti... Le nostre iniziative sulla sicurezza non sono solo repressive. Pensiamo al decreto Caivano: prevede misure richieste da molti magistrati ed educatori e, dall'ammonimento già per i dodicenni, alla messa alla prova anticipata, punta sulla prevenzione e sul recupero dei giovani. Se in carcere muore la speranza di Daniele Mont D'Arpizio unipd.it, 1 marzo 2024 È sempre più pesante la situazione nelle carceri italiane, mentre tra affollamento in crescita e continua a il dramma senza fine dei suicidi: 69 lo scorso anno, con un trend addirittura in aumento per il 2024. Una situazione difficile dalla quale ogni tanto sembrano emergere piccole oasi; da 20 anni ad esempio è attivo presso la casa di reclusione di Padova, nota anche come Due Palazzi, il polo universitario dell’ateneo padovano: a coordinarlo dal 2011 c’è Francesca Vianello, docente di sociologia del diritto, della devianza e del mutamento sociale oltre che direttrice del master in criminologia critica e sicurezza sociale. “La prima convenzione tra ateneo e dipartimento dell'amministrazione penitenziaria risale al dicembre 2003: all’inizio si trattava sostanzialmente di un’attività di volontariato da parte di nostri docenti, alcuni dei quali in pensione - racconta Vianello a Il Bo Live. Iniziammo con due-tre studenti e oggi ne abbiamo una sessantina, con sei scuole che offrono corsi di laurea come giurisprudenza, psicologia, agraria ed economia”. Un’iniziativa che nasce per rendere effettivo anche per quanto riguarda l’università il diritto all’istruzione come forma di rieducazione e di reinserimento sociale, in teoria garantito a ogni detenuto ma spesso di fatto quasi impossibile da esercitare. Operazione tutt’altro banale, quella di organizzare in un luogo di reclusione un vero e proprio piccolo ateneo: implica infatti che sia riconosciuto e garantito l’accesso alle strutture per docenti e materiali, formare specifiche commissioni d’esame e di laurea e infine mandare regolarmente tra le sbarre decine di studenti a fare da tutor ai loro colleghi detenuti: “un esperienza molto richiesta dai nostri iscritti, ogni anno riceviamo circa 200 domande per una cinquantina di posti disponibili”, spiega la docente. Che ruolo giocano l'istruzione e anche il lavoro nel percorso dei detenuti? Quali sono i punti positivi e cosa invece va ancora migliorato? “È evidente che per un detenuto lavorare e formarsi è fondamentale. Su questo purtroppo, come per altri ambiti, in Italia c'è grande discrepanza tra realtà e ciò che viene definito a livello normativo, dove in teoria saremmo all’avanguardia. Mancano sicuramente risorse, ma la questione sta anche nella dimensione strutturale del carcere come luogo incentrato sulla propria sicurezza interna, in ragione della quale può in qualsiasi accesso o forma di trattamento possono essere ogni momento bloccati. Così anche a Padova, spesso giustamente considerata un modello a livello nazionale, quasi metà della popolazione carceraria non studia, non lavora e non si forma. Spesso inoltre a frequentare corsi e attività sono sempre le stesse persone, quelle con maggiore capacità di adattamento e di relazione, mentre stranieri, tossicodipendenti e malati psichiatrici fanno grande fatica”. Continuano anche in questi giorni i suicidi: perché in carcere si continua a morire? “Ogni suicidio cela ovviamente anche una storia personale: di fatto però in carcere i suicidi sono 17 volte più della media. A concorrere sono più elementi: certamente si tratta di una popolazione già vulnerabile, che spesso presenta già all’ingresso nella struttura problemi di salute o di dipendenze; poi però incidono anche le condizioni in cui si vive. Abbiamo appena superato i 60.000 detenuti: una situazione analoga a quella che nel 2013 aveva portato alla condanna dell'Italia da parte della Corte europea dei diritti umani (Cedu). C’è poi una carenza strutturale di medici, educatori e operatori: abbiamo un agente di polizia penitenziaria ogni due detenuti, il numero più alto in Europa, e solo un funzionario giuridico pedagogico ogni 75 detenuti, in alcuni istituti appena uno ogni 200. In questa situazione non è materialmente possibile svolgere un lavoro di osservazione e di cura individuale. Una terza questione, non meno importante delle altre, è che oggi manca anche la speranza. Dopo la condanna della Cedu erano state prospettate riforme importanti: può sembrare un dettaglio ma il clima esterno è essenziale per chi vive costantemente privato della propria libertà. Poi però, come spesso accade, la montagna ha partorito un topolino: tante cose non sono state fatte, per molti versi anzi si è tornati indietro. Infine c’è stato il Covid, e adesso viviamo una situazione di stasi che rischia di portare questa gente alla disperazione: attualmente non c’è altra prospettiva se non quella di stare sempre peggio”. Quanto conta anche la formazione del personale carcerario? Episodi come i pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere fanno pensare… “Teniamo innanzitutto presente che la polizia penitenziaria negli ultimi anni è cambiata: molti agenti ad esempio oggi sono laureati, oltre che formati e sensibilizzati sia sulla dimensione costituzionale della pena, sia su tipologie di intervento non più rivolte esclusivamente alla sicurezza ma anche ad agevolare il trattamento. Il problema non è tanto l’aspetto punitivo della pena, quanto la sua dimensione degradante: Massimo Pavarini diceva che la pena è anzitutto degradazione di status. I processi di infantilizzazione e disculturazione forse sono superabili, ma probabilmente non all’interno di questo tipo di strutture”. Si può pensare allora pensare anche a risposte diverse dal carcere? “Certamente, il che non significa non dare risposte. La reclusione, per la sua stessa organizzazione interna e per la continua contrapposizione tra sorveglianti e sorvegliati, è una situazione che produce naturalmente processi come quelli accennati. Da osservatrice dell’associazione Antigone le dico però che gli istituti dove ci sono più attività e più lavoro sono anche quelli dove gli agenti vivono e lavorano meglio, tra l’altro con meno sindromi da burnout da gestire. Un elemento molto importante è anche rappresentato dal riconoscimento sociale della polizia penitenziaria, che in molti casi soffre ancora oggi i giudizi e i pregiudizi del mondo esterno. Molto spesso infatti il carcere continua a produrre degradazione sociale: non solo per i detenuti, ma anche per le altre persone che ci lavorano o lo frequentano”. Indignati per la Salis. Ma le carceri italiane sono come le ungheresi di Filippo Facci Il Giornale, 1 marzo 2024 Alla detenuta Ilaria Salis stiamo augurando di poter scontare la pena in Italia, con topi e scarafaggi e cimici in cella, uno spazio vitale inferiore agli standard comunitari, un sovraffollamento del 119 per cento rispetto alla capienza prevista (con un aumento del 3,8 per cento rispetto all'anno prima) e uno status da carcerata in attesa di giudizio condiviso col 26,6 per cento dei detenuti, in un ambiente con 85 suicidi in cella nel 2022 (ultimo dato disponibile) e il 40 per cento dei penitenziari costruito prima del 1900 o al massimo prima del 1950, senza acqua calda nel 45,4 per cento dei casi e senza doccia nel 56,7 per cento, nessuna dieta personalizzata (ad esempio in caso di intolleranza alimentare) e nessuna cura per le dermatiti: oltre alle solite, eterne e disgraziate prepotenze della Polizia penitenziaria. In altre parole, alla detenuta Ilaria Salis, detenuta in Ungheria, auguriamo di poter scontare un'eventuale pena in Italia, in un carcere italiano, perché i suddetti dati sono tratti dal “XIX Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione in Italia” cui si potrebbe aggiungere la condanna al nostro Paese da parte della Corte europea dei diritti dell'uomo (Cedu) che nel 2009 e nel 2013 ci sanzionò per sovraffollamento carcerario (da noi è del 119 per cento, come detto, mentre in Ungheria è del 102, secondo l'ong finlandese Hhc) ma ancora, nel 2022, sempre la Cedu, ci condannò per i “trattamenti inumani” inferti a un detenuto di Rebibbia che restò senza cure nonostante fosse un grave caso psichiatrico. Eppure è questo che scrive chi invoca “la possibilità di attendere il processo in Italia” e quindi una carcerazione distante dall'Ungheria e da “condizioni e rischi lontanissimi dagli standard europei” (Corriere della Sera) in quanto “tumulata viva” (Tg3) o meglio “segregata in un mondo alieno, in un baratro oscuro “dove 'l sol tace” (dal diario di Ilaria Salis, riportato come se l'avesse scritto Anna Frank). Ma il caso Salis, verissimo, è esploso dopo la visione delle immagini che la mostravano in “catene e guinzaglio” in un'aula di tribunale a Budapest: un'indegnità oggettiva (tutti ricordano il caso Carra del 1993, con la maggior parte degli italiani che però era stra-favorevole) che tecnicamente ha mostrato un vetusto genere di “schiavettone” che in Italia non si vede da tempo: ma che c'è lo stesso, in altre varianti. Non si vedono perché è vietato mostrarli, e neppure dalla Legge, ma dal codice deontologico dei giornalisti (1996) secondo il quale “Le persone non possono essere presentate con ferri o manette ai polsi”, dopodiché alzi la mano il cronista che non abbia visto dei detenuti condotti non solo in manette lo diamo per scontato ma con catene che li legano gli uni agli altri. Certo, non sempre: quando circolarono le immagini dell'arresto del Matteo Messina Denaro (gennaio 2023) le manette non gliele avevano messe: il che va anche bene, perché si era arreso. Ma l'Europa che ne dice? L'Europa, quella “lontanissima dagli standard ungheresi”, in pratica se ne lava le manette: la direttiva 343 del 2016 spiega che “Le autorità competenti dovrebbero astenersi dal presentare gli indagati o imputati come colpevoli, in tribunale o in pubblico, attraverso misure di coercizione fisica, quali manette, gabbie di vetro o di altro tipo e ferri alle gambe”; questo a meno di “ragioni legate alla sicurezza”. Quindi non devono astenersi: dovrebbero farlo. Anche la “sicurezza” è un criterio discrezionale. E qui si torna al Rapporto della fondazione Antigone: “È emerso con chiarezza come a monte non vi sia alcuna valutazione concreta relativa al singolo caso”. E i ferri alle gambe? Dice la direttiva europea: “La possibilità di ricorrere a misure di coercizione fisica non implica che le autorità competenti debbano prendere una decisione formale in merito”. Quasi una supercazzola. Però ecco, in Italia abbiamo le citate “gabbie”, o meglio quei “gabbiotti” che non esistono più da nessuna parte, e non solo nelle aule bunker: ci sono a Milano per i detenuti comuni. “La gabbia metallica può costituire trattamento degradante” spiegava ancora la Cedu nel 2013. Ma ormai le abbiamo solo noi, perché in Francia, Spagna e persino in Russia usano dei box in vetro o in plexiglass, trasparenti come le finestre di una casa in cui scontare i domiciliari: ciò che è augurabile, se disgraziatamente la condannassero, a Ilaria Salis. Che poi, a ben vedere: provvedimento più classista di questo non esiste; c'è chi sta in villa e chi in un tugurio che Poggioreale è quasi meglio. Più carcere per i minori che delinquono: non si comprende il senso di questo cambio di rotta di Vera Cuzzocrea* Il Fatto Quotidiano, 1 marzo 2024 Guardiamo con preoccupazione all’aumentato ricorso alla detenzione per i minorenni che delinquono e, in generale, al cambiamento in un’ottica punitiva espresso dal cosiddetto “Decreto Caivano”. Gli stessi principi ispiratori della giustizia minorile sono per lo più traditi dal recente intervento normativo. Il processo penale minorile, introdotto alla fine degli anni Ottanta, era l’esito di raccomandazioni internazionali e di una riflessione attenta sulla devianza e sull’età evolutiva, sulla vulnerabilità e sulle risorse da potenziare, con una centralità data alla persona e al cambiamento possibile. Un processo orientato in senso educativo sui principi di minima offensività, de-istituzionalizzazione, de-stigmatizzazione e responsabilizzazione. Pensato in coerenza non con astratte ideologie, ma con evidenze scientifiche che dimostrano l’efficacia, in termini preventivi e di riduzione dei tassi di recidiva, di strategie capaci di promuovere risorse, potenzialità, competenze e occasioni di benessere. L’attuale intervento normativo, invece, va in una direzione opposta: inasprisce le sanzioni, rinforza il ricorso alla custodia cautelare in carcere, limita fortemente il virtuoso istituto processuale della messa alla prova (ad oggi non più esteso a tutti i reati) e abbassa i limiti entro cui è possibile ricorrere a misure di prevenzione, come ad esempio il “Daspo urbano”. E gli effetti distruttivi già si scorgono nel dato delle presenze in carcere, come sottolinea il VII Rapporto di Antigone “Prospettive minori” sulla giustizia minorile: all’inizio del 2024 sono poco più di 500 i detenuti negli istituti penali minorili e gli ingressi in carcere in dieci anni da 992 nel 2014 sono passati a 1143. La maggior parte dei detenuti sono ragazzi di un’età compresa tra i 16 e i 17 anni e in attesa di giudizio. Poco più della metà sono stranieri, malgrado i reati vengano commessi in più del doppio dei casi da italiani. Rapina, furto, lesioni e droga sono le condotte più frequenti e il numero totale di reati in linea con quello degli anni precedenti. Non si comprende proprio il senso di questo cambio di rotta. Gli studi non ritengono gli interventi punitivi un efficace strumento di prevenzione e trattamento della devianza giovanile. Le statistiche ufficiali, piuttosto, mostrano l’efficacia degli strumenti di messa alla prova, e chi lavora nella giustizia osserva quotidianamente la sorprendente trasformazione indotta da questi percorsi in termini di maturità, responsabilizzazione, revisione critica del danno prodotto, cambiamento positivo. Ancora più evidente nei reati gravi contro la persona, come le violenze sessuali e gli omicidi, dove ancora maggiore è l’esigenza di produrre dei cambiamenti responsabili anche a tutela della società. La risposta della giustizia alla devianza è doverosa, ma deve essere efficace e coerente con gli obiettivi educativi. E sappiamo che funziona quando esiste un sistema familiare, sociale e giudiziario in grado di garantire al minore l’acquisizione di tutte le abilità necessarie ad affrontare la crescita e le difficoltà insite nella vita quotidiana. Abilità sociali, di comunicazione e di risoluzione dei problemi, l’acquisizione di punti di riferimento, consapevolezze, aspirazioni e valori che consentano di prevedere l’esito delle proprie azioni e costruire la speranza per traiettorie differenti. La mancanza di un sistema di significati può portare, infatti, a una perdita della dimensione progettuale e futura della vita. Gaetano De Leo in Psicologia della responsabilità sottolineava che: “le capacità e le abilità individuali di rispondere alle norme, agli altri, alle istituzioni, sono strettamente legate alle modalità e alle qualità delle richieste/aspettative/risposte della norma, degli altri e delle istituzioni”. In linea con il pensiero scientifico di un esperto che il processo penale minorile ha contribuito a costruirlo, l’augurio è che anziché pregiudicare le strategie di giustizia virtuose che abbiamo, vengano implementati dei programmi educativi di prevenzione primaria che sappiano rilevare ancora meglio le vulnerabilità emergenti e rafforzare risorse e competenze. E soprattutto, che l’incontro con il reato possa continuare a rappresentare, in un’ottica responsabilizzante, un’occasione trasformativa di crescita e maturazione per tutti i ragazzi e le ragazze coinvolte. *Psicologa e psicoterapeuta “Il carcere per i ragazzi non è la soluzione, serve una rete di aiuti” di Rosario Di Raimondo La Repubblica, 1 marzo 2024 “A fronte di una società dove esplode il disagio il carcere non è la soluzione”, dice Maria Carla Gatto, presidente del tribunale per i minori di Milano. Serve una rete tra le comunità, che devono accogliere più educatori “esperti” e mediatori, il territorio e i “tutori volontari”, persone che si prendano cura e “accompagnino” i minori stranieri non accompagnati. Non solo: servono più magistrati e personale amministrativo, “perché siamo in grande affanno”. Presidente, perché servono i tutori volontari per i minori stranieri non accompagnati? “Hanno un ruolo importante che potrebbe aiutare questi ragazzi con storie difficili, vissuti traumatici, dipendenza da sostanze, che hanno bisogno di essere guidati in un percorso, inseriti in un contesto diverso: culturale, di valori, di regole. La cosa migliore è quella di accompagnarli con una persona che faccia da tutore. Credo molto in questa funzione”. Di cosa si occupano? “Prendono contatto con i minori in comunità. Li seguono: accertano la possibilità di un inserimento nei corsi di italiano, cercano di farli partecipare ai corsi di formazione, seguendo inclinazioni o esperienze lavorative già acquisite, si adoperano per facilitarli nell’ottenere documenti e permessi, controllano se i contesti dove vivono sono adeguati. Li aiutano nella loro quotidianità e a pensare al loro futuro”. Qual è il fine? “Se un minore è seguito, è più difficile che venga coinvolto in una rete di criminalità. Se invece è senza punti di riferimento, se non è inserito in un contesto sociale, diventa una facile preda. Parliamo di un mondo complesso, in crescente difficoltà, come dimostrato dal fatto che un numero sempre maggiore di ragazzi diventa visibile solo quando viene arrestato, al momento della commissione di un reato. Questa è la preoccupazione. E il carcere non è la soluzione”. Quanti sono oggi i tutori? “Sono 379, ho emesso l’ultimo decreto lo scorso 6 novembre con cui ho aggiornato l’elenco dei nuovi volontari formati. Aggiungo che, nonostante l’importanza dei tutori, dispiace che ancora oggi non godano del supporto necessario: devono sostenere personalmente le spese e non godono di alcuna agevolazione”. Un’aspirante tutor, che ha già svolto il corso e ricevuto l’attestato di idoneità a inizio novembre 2023, ha raccontato al nostro giornale di non essere stata ancora nominata formalmente dal tribunale per i minori. Perché? “Il nominativo della signora non è ancora arrivato alla nostra attenzione. Il suo nome non era nell’elenco trasmesso dal Garante dell’infanzia della Regione Lombardia, tenuto per legge all’attività di formazione e selezione. Naturalmente, se selezionata e formata, quando l’elenco verrà trasmesso avrà presto l’opportunità di ricoprire questo incarico”. Poi che cosa succede? “L’elenco dei tutori comprende tutto il territorio lombardo del distretto di Milano. Il tutore viene abbinato tenuto conto del luogo di residenza, della professione, delle lingue che conosce, della disponibilità. Il tutto per favorire poi il miglior abbinamento con i ragazzi”. Qual è la situazione dei minori stranieri non accompagnati in Lombardia? “Molto complessa, confermata dai dati contenuti nella relazione dell’inaugurazione dell’ultimo anno giudiziario. I detenuti stranieri nell’Ipm Beccaria sono stati 229, di cui 130 minori non accompagnati a fronte degli appena 37 dell’anno precedente. I minori in comunità sono stati 252, di cui 88 stranieri non accompagnati, a fronte dei 44 di prima”. Oltre ai tutor serve altro... “Servono delle riflessioni. Certamente occorre una risposta di rete. L’intervento dei tutori non è risolutivo. Ci vorrebbero anche comunità con caratteristiche diverse, con educatori esperti e mediatori culturali e una molteplicità maggiore di risorse sul territorio”. L’altro ieri sono stati arrestati cinque minori stranieri non accompagnati. Avevano commesso una serie di rapine. Qual è l’impatto sulla vostra organizzazione? “Siamo in grandissimo affanno. La settimana scorsa abbiamo avuto nove arresti, questa settimana siamo già oltre dieci. E siamo sotto organico: manca il 23 per cento dei magistrati e oltre il 35 per cento del personale amministrativo. Questo a fronte di una società dove il disagio giovanile sta esplodendo”. Carceri sovraffollate: cosa prevede il ddl "Giachetti" di Federica Petrucci* quifinanza.it, 1 marzo 2024 Torna sul tavolo del governo il provvedimento svuota carceri, un decreto che cambierebbe le condizioni di “premialità” e gli sconti di pena per i detenuti per risolvere il problema delle celle affollate. Il dibattito sulla sicurezza pubblica è tornato al centro dell’agenda politica e potrebbe portare all’introduzione di un nuovo disegno di legge che, di fatto, propone modifiche significative al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di sicurezza pubblica e di tutela delle vittime di reati. Il sovraffollamento carcerario in Italia è da anni una piaga sociale e un problema strutturale che ha ripercussioni sulla qualità della vita dei detenuti, sulla sicurezza all’interno degli istituti penitenziari e sulla stessa credibilità del sistema giudiziario. In risposta a questa emergenza, il Governo sta lavorando provvedimenti volti a risolvere questa situazione, già molto critica. Durante la seduta n. 228 del 17 gennaio 2024 alla Camera il dibattito si è concentrato sulla necessità di trovare soluzioni concrete per affrontare questa crisi, con interrogazioni parlamentari sul problema del sovraffollamento, ma anche sulle criticità legate alla gestione sanitaria e alla carenza di personale nelle carceri italiane. Inoltre, si è discusso anche su come promuovere misure volte a favorire il reinserimento sociale dei detenuti e a garantire loro un trattamento dignitoso e rispettoso dei diritti umani. In questo contesto si inserisce la nuova proposta di legge, di fatto un emendamento alla legge Giachetti-Bernardini che si tradurrebbe in un nuovo provvedimento svuota carceri. Si tratta una misura che ha suscitato un vivo dibattito tra le varie forze politiche, in particolare nell’ambito del centrodestra, dove si è manifestata una convergenza d’opinioni sulla necessità di intervenire in modo deciso per evitare il protrarsi di una situazione intollerabile. Ma vediamo cosa prevede il provvedimento tanto discusso. Il nuovo provvedimento svuota carceri, elaborato da Roberto Giachetti (deputato Italia Viva e Partito Radicale Transnazionale) con il supporto di Rita Bernardini (deputata Partito Radicale), prevede l’approvazione di un decreto nel 2024 introduca un aumento dello sconto di pena ordinario. Attualmente per sei mesi di buona condotta spetta uno sconto della pena di 45 giorni, se il decreto svuota carceri dovesse passare di fatto lo sconto della pena aumenterebbe a 60 giorni ogni sei mesi di buona condotta, permettendo in questo modo di gestire - anche se in minima parte - al problema dell’affollamento delle celle. C’è da dire anche che il testo originario del provvedimento svuota carceri prevedeva la proposta di affidare alle direzioni delle singole carceri, oltre che ai giudici, l’esame delle istanze per la liberazione anticipata. Tuttavia la proposta è stata rigettata. Principalmente con la motivazione di voler evitare un ulteriore sovraccarico di lavoro per i magistrati di sorveglianza. L’urgenza di intervenire comunque resta e lo confermano i dati recenti, che indicano un preoccupante aumento dei suicidi in cella, con 20 casi registrati solo nei primi 50 giorni del 2024. Il provvedimento svuota carceri, ovvero l’emendamento al decreto, aumenta lo sconto di pena ordinario da 45 a 60 giorni ogni sei mesi. Questo significa che ogni detenuto che può far valere almeno sei mesi di buona condotta beneficerebbe - con questa modifica - di uno sconto di pena che anticiperebbe di 15 giorni i termini della sua liberazione anticipata ogni sei mesi 30 ogni 12. In un anno, quindi, l’uscita si anticipa di un mese. Tuttavia, non tutti gli aspetti della proposta di legge hanno ricevuto un’accoglienza positiva. In particolare, l’ipotesi di estendere ulteriormente gli sconti di pena speciale da 45 a 60 giorni ogni sei mesi è stata oggetto di dibattito e controversia. Alcuni esponenti del governo, in particolare di Fratelli d’Italia e Lega (come Andrea Delmastro, Andrea Ostellari e Ciro Maschio), si sono espressi contrari a questa soluzione, facendo presa sulla necessità di mantenere un equilibrio tra il desiderio di alleggerire il carico delle carceri e la tutela dell’ordine pubblico. Le modifiche proposte - Nonostante le divergenze, l’obiettivo comune di trovare una soluzione al problema urgente del sovraffollamento carcerario e dei suicidi in cella ha spinto il Governo a muoversi con tempestività per formulare un emendamento che, pur modificando la proposta originaria, possa rappresentare comunque un passo avanti nella giusta direzione. Per esempio, mentre si discute ancora sul numero dei giorni, un altro nodo da sciogliere è quello legato alle condizioni. Da qui, tra le principali limitazioni proposte, l’esclusione dal beneficio degli sconti di pena per i detenuti che abbiano aggredito agenti della polizia penitenziaria, al fine di mantenere un equilibrio tra il rispetto delle regole e la concessione di benefici. La proposta, seppur soggetta a ulteriori rifiniture, è stata accolta con favore da diverse parti politiche. Tuttavia, resta ancora molto lavoro da fare per affrontare in modo completo e efficace il problema. È necessario un impegno costante e coordinato da parte di tutte le istituzioni coinvolte per garantire una reale riforma del sistema penitenziario italiano e la tutela dei diritti umani fondamentali anche dietro le sbarre. La situazione carceraria in Italia continua a destare preoccupazione, con alcune regioni che sono al collasso a causa del sovraffollamento e delle condizioni precarie. Per esempio, secondo l sindacato della polizia penitenziaria (Sappe), negli 11 istituti di pena della Puglia, ci sono attualmente 4.420 detenuti, mentre la capacità massima è di soli 3.000 posti. Questo dislivello allarmante porta la regione a essere la prima in Italia per sovraffollamento, con una media che si attesta sul 165%, ma che in alcune carceri raggiunge punte ancora più elevate. Ad esempio, a Taranto si registra un sovraffollamento del 185%, a Foggia del 190%, a Lecce del 180% e a Bari del 170%. Il basso numero di agenti penitenziari e la mancanza di provvedimenti da parte delle istituzioni aggravano ulteriormente la situazione. Il sindacato sottolinea che nonostante la drammatica situazione, non vengono presi provvedimenti adeguati per affrontare il problema. Nel 2001, c’erano 2.530 poliziotti penitenziari in servizio nelle carceri pugliesi, mentre ora il loro numero supera appena le 2.000 unità, nonostante il forte aumento dei detenuti nel corso degli anni. La situazione non è migliore altrove. Nel distretto della Corte d’Appello di Milano, l’indice di sovraffollamento è salito al 131,8%, contro il 119% della media nazionale. Questo aumento preoccupante dei detenuti, combinato con il sovraffollamento delle carceri italiane, mette in luce la necessità di potenziare il ricorso alle pene alternative, come la detenzione domiciliare o il braccialetto elettronico, quando possibile. Secondo i dati forniti dall’onorevole Andrea Rossi, nel carcere di Reggio Emilia invece sono attualmente detenuti 290 individui, mentre la capacità massima a pieno regime è di 200 posti, con due sezioni chiuse per ristrutturazione. Questo sovraffollamento evidenzia una criticità nella gestione delle risorse carcerarie, con la polizia penitenziaria composta da soli 190 agenti, ben al di sotto dell’organico previsto, che dovrebbe essere di 246 unità. Inoltre, è stata denunciata un’eccessiva concentrazione di personale nelle sezioni di salute mentale, dove svolgono un compito improprio. In conclusione, è evidente che, al momento, la crisi carceraria è diventata un tema di scontro politico. Tuttavia, nonostante i tentativi di trovare soluzioni, la situazione continua a peggiorare, con un crescente rischio di eventi drammatici come evasioni, suicidi e rivolte. *Consulente del lavoro “Sì a una rapida approvazione della proposta di legge Giachetti” Il Dubbio, 1 marzo 2024 Il Carcere Possibile Onlus invia una lettera al presidente della Camera. Il Carcere Possibile Onlus ha scritto al Presidente della Camera affinché vengano adottati tutti gli strumenti normativi idonei alla rapida approvazione della proposta di legge depositata dall’onorevole Roberto Giachetti per ridurre la presenza dei detenuti nei nostri istituti, consentendo la scarcerazione di coloro che hanno un residuo di pena minimo da scontare. L’allarmante tasso di sovraffollamento carcerario, giunto oramai al 118%, unitamente all’elevatissimo numero di suicidi oggi registrati nelle nostre carceri, non consente di attendere i tempi dell’iter ordinario di approvazione della proposta di legge. Il Carcere Possibile Onlus, volendo offrire un contributo nell’approvazione della proposta di legge ha anche avanzato richiesta alla dem Debora Serracchiani, da sempre sensibile alla problematica delle condizioni fatiscenti e inumane delle strutture carcerarie, di poter essere auditi dalla commissione Giustizia della Camera. Test psicoattitudinali ai magistrati, il governo (forse) ci ripensa di Valentina Stella Il Dubbio, 1 marzo 2024 Dopo il no dell’Anm, il viceministro Sisto frena: “Valuteremo se adottare i controlli”. L’approvazione dei pareri parlamentari sui due decreti legislativi che attuano la riforma dell’ordinamento giudiziario sta diventando una neverending story. Come avvenuto già nella commissione Giustizia della Camera, oggi anche in quella del Senato è stato rimandato il voto sul documento relativo alle toghe fuori ruolo. Alla base del pit-stop ci sarebbero dubbi su un rischio di “disapplicazione della delega”, visto che il taglio verrebbe rinviato al 31 dicembre 2025, clausola non prevista dalla legge quadro firmata Cartabia. Nella commissione Giustizia di Montecitorio, poi, è saltato, sempre oggi, il voto sul parere che comprendeva l’invito al governo a “valutare l’introduzione dei test psicoattitudinali per i candidati in ingresso nei ruoli della magistratura”. Fonti parlamentari suggeriscono due possibili letture. Una meramente legata al fatto che la maggioranza non avrebbe avuto i numeri necessari per approvare il parere: domani l’Aula si riunisce ma non sono previste votazioni, e diversi parlamentari hanno ritenuto di anticipare il week-end. La seconda ragione potrebbe rimandare a una volontà politica di abbassare i toni, dopo la reazione dell’Anm. A suffragare questa ipotesi ci sono le dichiarazioni del viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto a Tgcom24: “Il governo valuterà le osservazioni proposte dalla commissione Giustizia del Senato sui test psicoattitudinali per i magistrati. È necessaria sicuramente una riflessione complessiva sul provvedimento. Certamente non si tratta di un tabù, perché i test psicoattitudinali sono comuni a molti concorsi pubblici, ma occorre valutare se è opportuno uniformare il trattamento dei magistrati a quello degli altri lavoratori della Pa. Se il governo dovesse decidere di recepire l’osservazione della commissione, sarà una prassi perfettamente democratica. Non faremo, questo è certo, scelte estemporanee, ma di sistema. E comunque, in qualsiasi provvedimento, non ci sarà mai alcun approccio punitivo nei confronti dei magistrati, davvero non ce ne sarebbe ragione”. Meno diplomatica la posizione di un altro esponente di FI, il capogruppo in commissione Giustizia alla Camera Tommaso Calderone: “I test attitudinali per l’accesso in magistratura non dovrebbero preoccupare. È paradossale che qualcuno insorga. La funzione giurisdizionale è di assoluta delicatezza, si decide sul destino dei cittadini, e se non si ha l’attitudine alla funzione non la si può espletare. Andrebbero effettuati test più approfonditi, altro che test attitudinali”. L’impressione è che il governo voglia studiare una formula che metta al riparo da un conflitto con l’Anm, conflitto che il “sindacato” dei giudici dichiara di non volere. Di certo la magistratura associata non sarebbe pronta ad accettare, come riferiscono fonti interne, che le toghe vengano valutate da psicologi scelti dal governo di turno. Certo le parole di Sisto non rassicurano del tutto i magistrati che, come segnalano alcune fonti, interpretano le parole del viceministro come “volontà di mantenere il ruolo di interlocutore privilegiato della magistratura con l’Esecutivo: Sisto”, dicono, “veste i panni della colomba, ma senza assumere alcuna posizione netta”. Comunque le dichiarazioni di Sisto, come tutto quanto vi stiamo raccontando in questi giorni, saranno oggetto di discussione nella riunione del “parlamentino” Anm che si terrà domani e domenica, e il cui ordine del giorno è stato integrato proprio ieri mattina grazie a due richieste di AreaDg: la prima relativa proprio ai test psico-attitudinali, la seconda riguardante “l’autorizzazione all’esercizio di azione risarcitoria contro il quotidiano l’Unità con riferimento all’articolo pubblicato in data 29/2/2024 dal titolo ‘Via libera del Senato agli esami psichiatrici per i magistrati. Se fanno il test li bocciano tutti’”. Spiega Rocco Maruotti, componente del direttivo Anm per AreaDg, unica articolazione del “sindacato” delle toghe ad aver replicato all’articolo del quotidiano fondato da Antonio Gramsci: “La proposta di inserire i test psico-attitudinali per l’accesso in magistratura è la stessa avanzata dal governo Berlusconi nel 2008, peraltro già presente nel “Piano di Rinascita Democratica” della loggia P2, che tra gli obiettivi principali in materia di ordinamento giudiziario aveva proprio la modifica della normativa per l’accesso in magistratura mediante l’introduzione di “esami psicoattitudinali preliminari”. Nulla di nuovo, se non fosse che sono passati più di 40 anni da quel tentativo di aggressione eversiva all’ordinamento democratico e credevamo di non doverci misurare ancora con provocazioni di questo tipo, che evocano l’idea per cui il problema della magistratura sia la sanità mentale dei giudici. Si tratta ovviamente dell’ennesimo tentativo di delegittimazione della magistratura, che ha come obiettivo finale quello di incidere sulla sua autonomia e indipendenza”. “Avvertiamo un forte disagio - prosegue Maruotti -, in quanto siamo consapevoli che il parametro dell’equilibrio, già ampiamente scandagliato in sede concorsuale attraverso prove selettive che mirano anche a saggiare la tenuta psicologica di chi aspira a diventare magistrato, continua a essere valutato e verificato durante tutto il percorso professionale, attraverso le sette valutazioni di professionalità a cui si è sottoposti. Siamo convinti che su questo tema sia necessaria una discussione ampia e una presa di posizione forte di tutta la magistratura, per questo abbiamo chiesto di parlarne nella riunione del direttivo Anm”. Sull’articolo de l’Unità, l’esponente delle toghe progressiste aggiunge: “Vi si ipotizza che almeno la metà degli aspiranti magistrati non sarebbe in grado di superare i test. Difendiamo la libertà di stampa, ma non possiamo accettare che dal piano del confronto si passi a quello della delegittimazione e dell’offesa della dignità dell’intera categoria dei magistrati”. Come funziona il “test psicoattitudinale” usato nei concorsi (e sgradito all’Anm) di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 1 marzo 2024 Si chiama “Minnesota”: 567 quesiti per svelare il carattere e le eventuali patologie dei candidati. Fabrizio Starace, presidente della Società di epidemiologia psichiatrica: “Polemiche sorprendenti: in tribunale i magistrati si servono di quel formulario per le perizie”. Il test maggiormente impiegato per le selezioni psicocattitudinali è il “Minnesota multiphasic personality inventory” (Mmpi). Questo test permette di studiare le caratteristiche, normali e patologiche, della persona. I principali ambiti di utilizzo sono la psicologia del lavoro (selezione del personale, valutazione di candidati nei concorsi), e la psicologia giuridica (perizie e consulenze). Trattandosi di un test nato per finalità mediche, non misura il quoziente intellettivo ma permette di scoprire patologie di natura psichiatrica, nevrosi, psicosi. Fra le malattie mentali, fino al 1990, era presente anche l’omosessualità. Per questo motivo, essendo da sempre utilizzato nelle procedure di arruolamento da parte delle Forze armate, ad iniziare dai carabinieri, in caso essa fosse stata riscontrata era disposto, a carico dell’aspirante, il suo congedo immediato, previo ricovero all’ospedale militare. Dopo quella data, l’Organizzazione mondiale della sanità derubricò l’omosessualità dall’elenco delle malattie mentali, definendola una semplice “variante del comportamento umano”. La prima versione di questo test risale al 1942 e negli anni è stata oggetto di continui aggiornamenti. Il “Minnesota” è formato da 567 affermazioni, denominate “item”: per ogni item si deve indicare “vero”, “falso”, “prevalentemente vero” o “prevalentemente falso”. Questi sono i primi dieci item del test “Mmpi”: “Mi piacciono le riviste di meccanica”, “Ho un buon appetito”, “Mi sveglio fresco e riposato quasi tutte le mattine”, “Penso che mi piacerebbe lavorare come bibliotecario”, “Vengo facilmente svegliato dai rumori”, “Mio padre è una buona persona, o (se suo padre è morto) mio padre è stato una buona persona”, “Mi piace leggere gli articoli di cronaca nera”, “Di solito ho le mani e i piedi abbastanza caldi”, “La mia vita di ogni giorno è piena di cose che mi interessano”, “Sono capace di lavorare come lo sono sempre stato”. Ogni affermazione e ogni “vero” o “falso” hanno un significato, per gli psicologi e gli psichiatri, che sono gli unici a poter somministrare il test. Senza entrare nello specifico, gli item del “Minnesota” fanno riferimento a una “scala” alla quale sono attribuiti determinati punteggi. Si tratta di 13 scale in totale, che analizzano la personalità nei suoi vari aspetti. Fra queste scale, ci sono quelle di validità che valutano se il questionario è compilato con sincerità e accuratezza; quelle cliniche di base che valutano le dimensioni più significative della personalità; quelle supplementari che approfondiscono i temi delle scale di base; quelle di contenuto che approfondiscono la conoscenza della personalità e i sintomi di eventuali patologie. Sono di particolare importanza le tre scale di validità, perché hanno lo scopo di valutare in quale misura il questionario è stato compilato con sincerità e accuratezza. Alcuni item, infatti, sono potenzialmente in contraddizione fra loro. Per effettuare il test vengono normalmente messi a disposizione 120 minuti. Gli studi psicologici ritengono che per rispondere a tutti gli item siano necessari fra i 60 e i 90 minuti. Di conseguenza chi compila il test in meno di 60 minuti ha dedicato una scarsa attenzione alla lettura degli item. Una volta effettuato il “Minnesota”, si passa poi al colloquio con lo psicologo o lo psichiatra per la valutazione finale. In rete ci sono tanti siti che forniscono consigli per come effettuare il test. Il primo è di non andare di fretta. Molti item, come detto, sono ripetitivi. È importante la concentrazione e prestare attenzione agli avverbi (molto, poco, raramente) e alle doppie negazioni contenute nella stessa affermazione, che potrebbero alterare il senso della frase stessa. Fondamentale è anche rispondere a tutti gli item: troppe omissioni potrebbero invalidare il test. Ovviamente, bisogna rispondere con sincerità e coerenza: “forzare" le risposte per tentare di apparire migliori è sintomo di insicurezza. Da ultimo, non serve interpretare gli item pensando al significato nascosto che potrebbero avere: sono affermazioni chiare e precise che non necessitano di particolari interpretazioni. “Non vedo controindicazioni nel somministrare il Minnesota ai magistrati”, afferma il professor Fabrizio Starace, direttore del Dipartimento di Salute mentale e dipendenze patologiche dell’Ausl di Modena e presidente della Società italiana di epidemiologia psichiatrica (Siep). “Chi svolge un’attività con grandi responsabilità, come appunto i magistrati, non dovrebbe temere il test”, prosegue Starace, ricordando che comunque, nella procedura, c’è sempre l’intervento di uno psicologo o di uno psichiatra. “Mi stupiscono molto queste polemiche, soprattutto perché il test viene utilizzato nelle attività peritali che vengono svolte nell’ambito dei processi. E i magistrati per primi si avvalgono poi delle risultanze di questo test”, conclude Starace, stoppando così sul nascere le obiezioni sollevate dalla Anm, contrarissima ai test per le toghe. Separazione delle carriere in Aula il 25 marzo: colpo di Forza Italia di Errico Novi Il Dubbio, 1 marzo 2024 Grazie all’iniziativa dei berlusconiani, il “divorzio” giudici-pm rischia di bruciare sul tempo il premierato. Costa (Azione): “Vedrete, il governo si metterà di traverso”. È vero: sulla giustizia, l’orizzonte del governo non sempre coincide con le ambizioni del ministro che, della Giustizia, è titolare, cioè Carlo Nordio. Di più: spesso il garantismo professato, soprattutto prima di assumere l’incarico, dal guardasigilli confligge con le scelte dell’Esecutivo: basti pensare alla riforma dell’ergastolo ostativo - approvata a inizio legislatura in una chiave anche più follemente restrittiva di quanto non avessero proposto i 5 Stelle quand’erano in maggioranza - o agli inasprimenti di pena previsti da decreti come quello intitolato alla derelitta Caivano. E però, nella giustizia del governo Meloni, come sempre in politica, ci sono le sintesi. E sulla giustizia, le sintesi ora devono tenere conto di un fattore imprescindibile: Forza Italia. Era stata Forza Italia, per esempio, a trasformare in una mini- abrogazione della spazzacorrotti il decreto 105, nato per estendere ai reati non associativi le norme antimafia sulle intercettazioni. Ed è Forza Italia, adesso, a strappare, nella capigruppo di Montecitorio, la calendarizzazione in Aula per la separazione delle carriere. Ebbene sì: il 25 marzo, tra meno di un mese, il “divorzio” fra giudici e pm dovrebbe andare al voto. Lo annuncia, soddisfatto, il capogruppo degli azzurri alla Camera Paolo Barelli: “Come avevamo promesso, alla Conferenza dei capigruppo abbiamo chiesto e ottenuto la calendarizzazione per la riforma sulla separazione delle carriere: sarà nel calendario dell’Aula di Montecitorio a partire dal 25 marzo”, appunto. Prosegue Barelli: “Con questo atto, Forza Italia intende accelerare l’approvazione di una riforma fondamentale, che è parte del programma di governo e che ha già scontato un lungo percorso di audizioni in commissione Affari costituzionali, anche perché l’iter parlamentare sarà lungo, in virtù dei quattro passaggi previsti dalla Costituzione”. Detto, fatto. Un colpo di reni così inatteso che uno dei principali sponsor parlamentari della riforma, il deputato e responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa, già fissa le quote del flop: “Lunedì 25 marzo è previsto l’approdo in Aula alla Camera della nostra proposta di legge costituzionale sulla separazione delle carriere dei magistrati. Entro quella data, la commissione Affari costituzionali dovrà licenziare il testo. Sono sicuro che il governo proverà a rinviare”. E in effetti è difficile scommettere contro Costa, in proposito. Ma il fatto che da Palazzo Chigi potrebbero chiedere di andarci piano vuol dire poco: lo insegnano appunto le precedenti occasioni in cui un indirizzo che, sulla giustizia, pareva ineluttabilmente restauratore, è stato reso “progressista” dalle insistenze degli azzurri. L’iter della separazione delle carriere è, come ricordato da Barelli, a uno step relativamente avanzato: lo scorso 30 gennaio si è concluso il lungo ciclo di audizioni, durato quasi un anno pieno, considerato che l’avvio risale addirittura al 13 febbraio 2023. Lo scorso 21 febbraio, il presidente della commissione Affari costituzionali Nazario Pagano, anche lui di FI, ha aperto la discussione generale sulla riforma, che prelude al voto sugli emendamenti. Un pro forma, perché nessuno ha chiesto la parola, in attesa del previsto passaggio in cui Barelli avrebbe sollecitato la calendarizzazione della riforma. La data ora c’è. È ravvicinata. E come ricorda Costa, per allora, cioè da qui a poco più di tre settimane, la legge costituzionale sui magistrati dovrà essere licenziata dalla Prima commissione, con tanto di mandato al relatore, che è lo stesso presidente Pagano. Mission impossible? In teoria sì, considerato il ripetuto avviso dello stesso Nordio: “La separazione delle carriere si farà, ma in tempi successivi al premierato”. Ma intanto le trattative sul premierato sono ancora sospese al tavolo politico fra i tre leader del centrodestra: Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Antonio Tajani. Due giorni fa, sul ddl costituzionale Casellati, considerato dalla premier “la madre di tutte le riforme”, si sarebbe dovuto procedere al voto degli emendamenti nell’altra commissione Affari costituzionali, quella del Senato. Non se n’è fatto nulla per l’indisposizione di Alberto Balboni, presidente dell’organismo di Palazzo Madama e relatore della riforma istituzionale. Nel caso delle carriere separate, invece, non ci sono accordi da trovare né limature al testo da approfondire: già c’è l’intesa fra lo stesso presidente- relatore Pagano e i deputati firmatari dei ddl sulla separazione, vale a dire lo stesso Costa (che però non fa parte della Prima commissione di Montecitorio e “delega” un’altra deputata di Azione, Mara Carfagna), Roberto Giachetti di Italia viva (a sua volta rappresentato da Maria Elena Boschi), Tommaso Calderone di FI (per la quale, con Pagano, sono in trincea lo stesso Barelli e Paolo Emilio Russo) e Jacopo Morrone della Lega (che in commissione Affari costituzionali schiera una delegazione di 5 deputati capeggiata da Igor Iezzi). L’intesa prevede un testo base che conserva l’impalcatura essenziale della riforma - cioè due concorsi separati, uno per giudici e un altro per la magistratura requirente, e due distinti Csm, con proporzione laici- togati diversa dall’attuale organo unico - ma rinuncia alla modifica dell’articolo 112 della Costituzione che sancisce l’obbligatorietà dell’azione penale. Il testo originario sulla separazione è la legge d’iniziativa popolare presentata già nel 2017 dall’Unione Camere penali e corroborata da qualcosa come 74mila firme: lì è previsto di modulare per legge ordinaria “i modi per l’esercizio obbligatorio dell’azione penale”. È una parte di riforma accantonata, in base all’accordo già trovato, appunto, tra i deputati- proponenti, anche perché la riforma penale di Cartabia ha già mitigato quel principio con la fissazione dei criteri di priorità in capo alle Procure in una cornice generale definita proprio dal Parlamento. Insomma, diversamente da quanto avviene con il premierato, per la separazione delle carriere non resta ormai nulla di rilevante da definire: la doppia navetta per modificare la Costituzione potrebbe consumarsi in tempi relativamente brevi. Ma c’è un ma: il convoglio sul divorzio giudici- pm non può arrivare a destinazione prima del premierato. La leader del governo e di FdI vuole evitare, comprensibilmente, che gli inevitabili referendum sulle due riforme costituzionali si incrocino: gli elettori scettici sulle carriere separate non devono trasformarsi in voti contrari al premierato. E qui il pronostico di Costa tornerebbe a farsi profezia. Se non fosse per quelle parole di Barelli, e per quelle altre pronunciate una settimana fa al congresso di FI non da un azzurro qualunque ma da Francesco Paolo Sisto, che a via Arenula riveste carica di viceministro: “La separazione delle carriere va in Aula, la portiamo in aula. Quando ci si chiede se si farà, dico che la faremo: il cittadino, quando varca la soglia di un tribunale, deve sapere che c’è un giudice terzo e imparziale, che decide in modo assolutamente equidistante dal pm e dalla difesa. Questi sono principi per cui Silvio Berlusconi si è lungamente battuto, in virtù di un’esperienza drammatica: non dimentico mai quando raccontava il numero dei processi subiti, le centinaia di perquisizioni, le mille ore passate a studiare migliaia di pagine”. E il punto è che a questi benedetti forzisti potete chiedere tutto, ma non di tradire le sofferenze subite in vita dal loro capo. Nordio spiazza le toghe e pensa a reclutare magistrati tra avvocati e giudici onorari di Giulia Merlo Il Domani, 1 marzo 2024 L’Anm minaccia lo stato di agitazione nel caso in cui siano confermate le indiscrezioni su un concorso straordinario di reclutamento di magistrati, aperto solo ad alcune categorie. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, lo ha negato fino a quando poi una bozza di ordine del giorno non è filtrata dal consiglio dei ministri. Il governo dunque sta ragionando di indire un concorso straordinario per l’ingresso in magistratura ordinaria, che dovrebbe essere riservato a specifiche categorie di operatori della giustizia: giudici onorari (che quindi non hanno fatto il concorso ordinario) e avvocati. La notizia, ancora non confermata in un testo, ha messo in allarme la magistratura associata, che da tempo lamenta le carenze di organico ma è contraria ad un concorso che potrebbe abbassare le prerogative di ingresso di chi concorre visto che non sarà richiesta la frequentazione della scuola necessaria ad accedere. Per questo, l’Anm ha annunciato che al vaglio c’è anche l’ipotesi di uno sciopero. “Il reclutamento straordinario appare contro la Costituzione e soprattutto mina una dei fonti della legittimazione della magistratura: l'accesso secondo concorso pubblico, serio e selettivo”, ha detto il segretario di Area Giovanni Zaccaro. Dello stesso parere anche la presidente di Unicost, il gruppo centrista, Rossella Marro: “L'ipotesi mina alle basi uno dei cardini dell'accesso alla magistratura. È pericoloso avviarsi per questa strada in quanto concorso straordinario significa concorso semplificato con tutte le conseguenze in tema di dequalificazione della categoria”. Marro ha anche ricordato come ci siano moltissimi giovani che stanno affrontando lo studio per la preparazione del concorso ordinario e si vedrebbero scavalcati. La notizia ha messo in agitazione anche l’Associazione nazionale magistrati, che sta anche preparando il suo congresso di Palermo, che si svolgerà il prossimo maggio. Il concorso straordinario sarà al centro dell'ordine del giorno della riunione del comitato direttivo centrale del fine settimana. La giunta ha ricordato che “Sono già in corso di svolgimento concorsi per 1300 posti” e “L'idea di bandire un concorso straordinario per circa 750 posti riservato ad alcune categorie, scelte ad arbitrio del Governo e senza adeguate garanzie selettive, avrà solo l'effetto di mortificare, in uno con la magistratura, il merito, l'impegno e la passione dei giovani laureati, di quanti hanno svolto stage di formazioni presso gli uffici giudiziari e di quanti si stanno impegnando nell'ufficio per il processo”. E ancora: “L'ordine giudiziario sarà privato di un presidio fondamentale della sua legittimazione, dato da un concorso serio, rigoroso e aperto, senza riserve, che dia la possibilità di accesso alla magistratura di tutti i cittadini”. Tanto che, se l’ipotesi si concretizzerà “la Giunta esecutiva centrale dichiara fin d'ora lo stato di agitazione”. Contrarietà all’iniziativa del ministero è arrivata anche dagli avvocati dell’Anf, una delle associazioni più rappresentative. “Un concorso riservato non è mai un bene”, ha detto il segretario Giampaolo Di Marco, “ognuno torni ai suoi ruoli ed in forma condivisa ricomponga nella sua naturale forma costituzionale la giurisdizione”. Nell’avvocatura, però, le voci sono molte. C’è anche chi ha fatto notare come un magistrato che dismetta la toga può iscriversi all’ordine degli avvocati e patrocinare come difensore. Il fatto che il concorso straordinario sia tornato di attualità ha lasciato spaesata l’Anm, perchè proprio qualche giorno fa aveva incontrato su questo tema il ministro, dal quale erano arrivate ampie rassicurazioni sul fatto che “una prospettiva immediata di reclutamento straordinario fosse inesistente”. L’impressione è che la mossa venga ancorata alla necessità di attuare il Pnrr, ma il risultato sarebbe - secondo le toghe - quello di minare l’architettura del concorso in magistratura aprendo un pericoloso precedente. Petrelli: “Il rinvio sui magistrati fuori ruolo? La fine ingloriosa di una riformina” di Angela Stella L’Unità, 1 marzo 2024 “Il taglio previsto non incide davvero sull’occupazione di via Arenula da parte delle toghe. La verità è che non si vuole rinunciare a quel presidio. I test psicoattitudinali? Non c’è ragione di opporsi, serve un confronto laico”. Le Commissioni giustizia di Senato e Camera hanno rimandato per l’ennesima volta la votazione sul parere che riguarda lo schema di decreto attuativo della riforma delle toghe distaccate. Eppure il termine scadeva il 28 gennaio. Sembra che ci siano contrasti interni alla maggioranza tra Forza Italia - favorevole al taglio - e Lega e Fratelli d’Italia contrari. In più ci sarebbe preoccupazione per una disapplicazione della delega e anche preoccupazioni del Colle per il taglio dei magistrati fuori ruolo. Ne parliamo con Francesco Petrelli, Presidente dell’Unione Camere Penali. Il Governo pensa di rinviare al 31 dicembre 2025 l’entrata in vigore del taglio dei magistrati fuori ruolo. Cosa ne pensa? È davvero la fine ingloriosa di una poco gloriosa riforma, anzi di una non-riforma perché il testo licenziato finisce con il fotografare la situazione che si era andata consolidando negli anni senza in alcun modo scalfire il problema della sovrapposizione fra poteri dello Stato e di sostanziale occupazione del ministero della giustizia da parte della magistratura. La motivazione addotta sarebbe di evitare che “per effetto della riduzione del numero di magistrati collocabili fuori ruolo, le amministrazioni titolari di interventi previsti nel PNRR possano subire contrazioni nella disponibilità di personale proveniente dai ruoli delle magistrature e che, in generale, quella riduzione possa comportare effetti negativi per tutte le amministrazioni e gli organi costituzionali e di rilevanza costituzionale, che si avvalgono di personale proveniente dai ruoli delle magistrature, prima che sia stato possibile adeguare l’organizzazione interna di quelle amministrazioni e di quegli organi alla riduzione del numero di magistrati collocabili fuori ruolo”. Qual è il suo parere in merito? Pare davvero una motivazione poco credibile. Ci si chiede come sia possibile immaginare che la riduzione complessiva di soli 17 magistrati, perché tale è a ben vedere la consistenza reale del taglio previsto dalla riforma, possa produrre un qualche rilevante danno alla produttività del Ministero, tale da incidere addirittura sugli obiettivi del PNRR! La verità è che non si vuole rinunziare a quel presidio perché se si volessero salvaguardare quegli obiettivi si provvederebbe a ridurre quella drammatica scopertura di quasi il 15% degli organici, quelli sì fondamentali alla riduzione dei tempi del processo. Indiscrezioni giornalistiche parlano anche di un intervento del Colle per evitare il taglio fuori-ruolo. Non la riterrebbe una ingerenza inopportuna? Sarebbe inopportuna certamente nel merito perché la questione riguarda proprio il corretto equilibrio fra poteri dello Stato e dunque una questione di natura istituzionale che nel tempo ha determinato una evidente egemonia della magistratura e di alcuni suoi settori sulla intera legislazione penale a detrimento di contributi tecnici alternativi dell’accademia e dell’avvocatura portatrici di altrettante valide visioni del processo e dell’intera materia penale delle quali il Paese intero potrebbe avvantaggiarsi. Le toghe di AreaDg ritengono “inidonea” “la riduzione numerica dell’organico” “da 200 a 180 unità”. Tuttavia “non perché sia in astratto scorretto rideterminare e, in caso, ridurne il numero, ma perché operare un taglio lineare senza aver prima definito quali e quanti sono le collocazioni che astrattamente richiedono o consentono l’assegnazione di un magistrato fuori ruolo appare previsione irrazionale e demagogica”. Insomma più che puntare ad un generico abbassamento della quota numerica sarebbe stata opportuna una ricognizione degli incarichi, come detto in audizione parlamentare pure dall’Anm. Potrebbe essere un ragionamento condivisibile? Sarebbe condivisibile se applicato a numeri ragionevoli, ma poiché si discute di una sostanziale conservazione dello status quo non si vede di quali collocazioni alternative si dovrebbe parlare trattandosi di “tagli lineari” di alcune unità. Da un lato il Governo rimanda il taglio dei fuori ruolo, dall’altro prevede i test psicoattitudinali dei magistrati. Come giudica questo atteggiamento da bastone e carota? In considerazione della delicatezza del ruolo ricoperto dai magistrati e del potere straordinario che esercitano in relazioni a diritti fondamentali della persona non c’è ragione alcuna per essere contrari alla introduzione dei test psicoattitudinali nell’ambito del percorso selettivo. Non vedo come questo dovrebbe incidere sulla loro indipendenza. La questione va evidentemente spostata nel merito senza trasformarla nell’ennesimo motivo di conflitto fra politica e magistratura. Non vedo né bastoni né carote ma solo una assenza di visioni laiche con le quali affrontare questioni serissime come quella della leva della magistratura e della valutazione del merito nella progressione delle carriere, sulle quali pesano invece evidenti difese corporative. Ogni volta che si mette mano ad un tentativo di riforma si grida all’attentato all’indipendenza. Nel 2003 Berlusconi disse: “I giudici sono matti, sono mentalmente disturbati, hanno turbe psichiche e sono antropologicamente diversi dalla razza umana”. Non crede sia arrivato il tempo di superare queste considerazioni? Per fortuna siamo fuori da questo genere di conflitti ma bisognerebbe fare uno sforzo serio per affrontare le questioni della giustizia non solo rinunciando agli slogan ma soprattutto tirandosi fuori da banalizzazioni e demonizzazioni. I mali della giustizia e gli errori della magistratura che indubbiamente ci sono e sono numerosi possono essere denunciati senza ricorrere ad inutili iperboli. Ci si deve confrontare laicamente e dati alla mano. Padova. Decesso al Due Palazzi, detenuti mettono in atto una protesta padovaoggi.it, 1 marzo 2024 Ieri mattina, giovedì 29 febbraio, un uomo di 25 anni è deceduto, sembrerebbe, in seguito a un malore, all'interno del carcere Due Palazzi di Padova. Non si può ancora con certezza affermare cosa avrebbe portato al decesso del giovane che, da quel che si sa, aveva seri problemi di dipendenza da stupefacenti. Quando si è sparsa la voce nel carcere della morte del giovane ci sono state proteste che il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria, il Sappe, ha definito violente anche se "gestite" dal personale del carcere. Il Sappe, come aveva già fatto nei giorni scorsi in relazione alla situazione del carcere di Vercelli, ha colto l'occasione per rilanciare la proposta di espulsione dei detenuti stranieri in modo da liberare le carceri dal sovraffollamento e poi ha invitato il sottosegretario Andrea Ostellari a far visita al carcere di Padova, cosa che però in realtà è avvenuta frequentemente da quando il senatore patavino è stato nominato dal ministro Nordio. Verona. Il Garante: “Il silenzio sui suicidi in carcere? Questione di privacy” di Angiola Petronio Corriere di Verona, 1 marzo 2024 Il consiglio comunale di Verona ha ascoltato, ieri sera, la relazione del Garante delle carceri veronesi, don Carlo Vinco. Una relazione presentata ogni anno, ma che ieri sera è stata particolarmente significativa alla luce dei tragici episodi avvenuti negli ultimi mesi a Montorio e che hanno portato anche alla nomina di una nuova guida dell’istituto di pena (Francesca Gicieni ha sostituito la direttrice Maria Grazia Bregoli mentre sono cambiati anche il comandante delle guardie e il cappellano). La relazione di don Vinco è partita dall’ormai cronico sovraffollamento, in tutta Italia ma anche a Verona: 537 detenuti nel 2023 (erano 530 nel 2022 e 482 nel 2021, mentre i posti disponibili sarebbero 338). Positiva, ha spiegato, la riapertura della sezione di prima accoglienza, con stanze per chi è sotto osservazione psichiatrica. Sui tre suicidi in un solo mese a don Carlo era stato imputato un “eccesso di silenzio” ma il Garante ha ribadito la necessità di rispetto della privacy. Resta grave, ha detto, il problema del lavoro sia interno che esterno. Una nota della relazione ha riguardato la presenza a Montorio di Filippo Turetta, l’assassino di Giulia Cecchelin. E don Vinco ha lamentato come “siano state diffuse notizie (che, secondo alcune associazioni, provenivano dall’interno dell’Istituto), prive di fondamento e amplificate: Turetta è stato accolto come ogni altro detenuto ed è sempre stato in cella con altri, e non ha neppure frequentato la stanza dove c’è la playstation”. Quanto alle accuse di torture in questura don Carlo ha spiegato di avere visitato le celle aggiungendo che “quelle della questura versavano in uno stato degradato e ho chiesto che venissero risistemate mentre quelle della caserma dei carabinieri sono invece in ottimo stato”. Venezia: “La nostra vita in carcere, tra sovraffollamento, mancanza di servizi e violenze” di Davide Tamiello Il Gazzettino, 1 marzo 2024 “Sovraffollamento, tensioni con la Polizia penitenziaria, mancanza di servizi: vi raccontiamo la nostra vita a Santa Maria Maggiore”. I detenuti scrivono una lettera per rendere pubbliche le difficoltà all’interno del carcere di Venezia alla luce, anche, della denuncia con cui un 23enne ha accusato tre agenti di averlo picchiato selvaggiamente. “Sabato 10 febbraio - spiegano - abbiamo indetto e fatto uno sciopero della fame di tre giorni per il sovraffollamento e le condizioni carcerarie. Abbiamo spiegato che la nostra era una protesta pacifica e presentato le nostre richieste scritte. Siamo stati ricevuti dal capo della polizia penitenziaria e dagli educatori, ma non dal direttore. Abbiamo visto che la nostra protesta non è stata trattata dagli organi di informazione e, così, abbiamo deciso di scrivere per riassumere la nostra situazione”. Il problema principale, per i detenuti, è appunto legato ai numeri. Sono tanti e questo si riflette anche inevitabilmente sul rapporto con “le guardie”. “Nonostante il loro lavoro (da noi rispettato, fanno una marea di ore) non riescono a essere efficienti e a esaudire tutte le nostre esigenze di base. O loro sono pochi, o noi siamo troppi”. “Sabato scorso - continuano - c’è stata una guerriglia tra tunisini e albanesi, si sono quasi ammazzati e hanno bruciato materassi e cuscini. Sono rimaste ferite anche persone che non erano coinvolte. E così, adesso dobbiamo subire tutti delle ulteriori limitazioni”. Altra questione quella legata alla sanità. “Mancano dottori, le cure sono approssimative - continuano - mancano gli specialisti e molte medicine. C’è un uso eccessivo di psicofarmaci”. I detenuti lamentano, inoltre, di non riuscire a essere ricevuti con continuità dagli educatori e la mancanza di attività. “Totale assenza di possibilità di fare attività fisica (calcetto, pallavolo, basket: niente). Abbiamo solo una palestra sporca e fatiscente. Non ci sono inoltre corsi educativi e di specializzazione. Servirebbe a tutti qui dentro un corso di educazione civica”. Altro tema quello relativo alla presenza del garante che, secondo i detenuti, non si farebbe vedere molto spesso. Inoltre sarebbe molto difficile accedere alle pene alternative. “Non troviamo alcun aiuto per agevolarle: ci sono grandi difficoltà per trovare case o alloggi per i domiciliari. Senza contare che ci vengono concesse solo quattro chiamate a settimana ma non la domenica, che sarebbe il giorno più importante”. Secondo i carcerati a queste condizioni sarebbe impossibile rispettare la funzione rieducativa della detenzione. “Non esiste una visione o un’organizzazione con cui il carcere ti corregga, ti migliori o ti dia la possibilità, una volta scontata la pena, di uscire e non rifare le stesse cose che ti hanno portato in prigione o ti prepari a cosa farai una volta uscito”. Per le persone più fragili, un dramma. “Ogni settimana ci sono tentativi di suicidi, spesso per fortuna scongiurati dai compagni di cella”. Salerno. Un nastro bianco sulla toga per ricordare i decessi all'interno delle carceri di Viviana De Vita Il Mattino, 1 marzo 2024 L'iniziativa è dell'avvocatessa Francesca Sofia membro dell’Osservatorio regionale della vita detentiva, istituito presso l’ufficio del garante campano dei detenuti, Samuele Ciambriello. Un nastro bianco sulla toga per ricordare i tanti decessi che si registrano all’interno delle carceri. Gli avvocati salernitani hanno aderito all’iniziativa promossa dall’avvocato Francesca Sofia - membro dell’Osservatorio regionale della vita detentiva, istituito presso l’ufficio del garante campano dei detenuti, Samuele Ciambriello - che con questo piccolo gesto simbolico ha voluto porre ancora una volta l’attenzione sulle drammatiche condizioni che si vivono all’interno del carcere di Fuorni dove, alla grave carenza di organico della polizia penitenziaria, si associa quella del personale sanitario, in particolare medici specialistici in psichiatria ed assistenti sociali. “Il numero dei detenuti morti “suicidi” - spiega l’avvocato Francesca Sofia - cresce notevolmente di giorno in giorno. Attualmente sul territorio nazionale, si contano già 20 casi dall’inizio dell’anno, uno ogni due giorni. Una delle maggiori problematiche che si riscontrano negli Istituti penitenziari è senza dubbio la grave carenza di personale interno al carcere nonché del personale sanitario, in particolare di medici specialistici in psichiatria. Nonostante l’articolo 1 della legge 354/1975 sancisca che il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità ed assicurare il rispetto delle dignità della persona - prosegue l’avvocato - ancora oggi, purtroppo, l’espropriazione di ogni riservatezza ed intimità, la rottura dei rapporti con il mondo esterno, la conseguente precarietà dei rapporti affettivi e, talvolta, la violenza, sono componenti quotidiane della vita dei detenuti. Queste condizioni, inevitabilmente, facilitano lo sviluppo di disagi psichici e disturbi comportamentali negli individui reclusi in carcere. Purtroppo, la recente emergenza sanitaria ha finito per fare da “cassa di risonanza” alle patologie psichiatriche dei ristretti”. Parma. Europa Verde con la Garante comunale a sostegno delle richieste dei detenuti di Enrico Ottolini* La Repubblica, 1 marzo 2024 Europa Verde desidera esprimere il suo apprezzamento e sostegno all’azione di Veronica Valenti, Garante comunale dei detenuti dell’Istituto penitenziario di Parma, che in un recente intervento pubblicato sulla stampa ha confermato con puntuale e oggettiva chiarezza le condizioni precarie in termini di dignità, qualità della vita e garanzia di diritti fondamentali in cui versano molti dei detenuti del Carcere di Parma. Una grave situazione di sistema, quella denunciata dalla Garante, che non può essere minimamente tollerata con l’alibi della scarsità di risorse e che inevitabilmente si riflette in modo altamente negativo non solo sui detenuti ma anche su tutto il personale penitenziario in termini di qualità della vita e di esercizio della propria professione. In particolare Europa Verde condivide le preoccupazioni espresse dal Garante comunale dei detenuti per le conseguenze sul piano della sicurezza, della salute e su quello disciplinare che potrebbe avere la manifestazione pacifica di protesta che cento detenuti dell’Alta Sicurezza del Carcere di Parma nei giorni scorsi attraverso una lettera inviata alle autorità competenti, hanno comunicato di voler intraprendere per invocare la tutela dei loro diritti e che dovrebbe protrarsi per quattro settimane. Europa Verde si richiama dunque per la grave situazione del Carcere di Parma allo spirito del Dettato Costituzionale, che nell’art. 27 afferma con forza e chiarezza: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Proprio rispetto a questo principio fondamentale per uno Stato di diritto è un dovere della politica assumersi le proprie responsabilità per denunciare ed eliminare le cause strutturali di sistema che ledono i diritti fondamentali dell’intera popolazione carceraria. Europa Verde condivide le richieste rilanciate da Veronica Valenti, Garante comunale dei detenuti dell’Istituto penitenziario di Parma ed auspica che la politica tutta possa rispondere in modo positivo. *Consigliere Comune di Parma Gruppo Europa Verde - Verdi - Possibile Bolzano. Nuovo carcere, stallo sulla capienza. Kompatscher a Roma: “Fate presto” di Luigi Ruggera Corriere dell'Alto Adige, 1 marzo 2024 Il confronto con il sottosegretario Ostellari non sblocca il progetto. L’ex garante Dondio: “Condizioni insostenibili per agenti e detenuti”. Missione romana, ieri, del presidente della giunta Arno Kompatscher per invitare il governo ad accelerare il processo di realizzazione del nuovo carcere di Bolzano. Va ricordato che nell’ormai lontano 2015 la gara d’appalto della Provincia per la progettazione e la costruzione della nuova Casa circondariale venne vinta dalla società Condotte. Un progetto da 140 milioni che prevedeva la costruzione di una struttura, a Bolzano sud vicino all’aeroporto, in grado di ospitare ben 220 detenuti e un centinaio di agenti della polizia penitenziaria (il carcere attuale prevede 88 posti per detenuti, anche se di fatto ne ospita un numero sempre superiore). Da allora però molte cose sono cambiate: la società Condotte ha attraversato gravi difficoltà finanziarie che l’hanno portata all’amministrazione straordinaria e di conseguenza la costruzione del nuovo carcere non è mai partita, benché l’appalto sia formalmente ancora valido. A complicare ulteriormente la vicenda è stata, un anno fa, la decisione dello Stato di voler ridimensionare il progetto, considerato sovradimensionato: durante una visita effettuata nel luglio scorso alla struttura di via Dante, il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, aveva dichiarato che il progetto del nuovo carcere andrebbe ridimensionato, prevedendo solo un centinaio di posti. Per farlo, però, si dovrà modificare il precedente appalto già assegnato: bisognerà quindi cercare di evitare il rischio di ricorsi ed ulteriori rinvii. Il pallino della vicenda è dunque in mano allo Stato, che dovrà decidere come procedere, ma intanto il progetto del nuovo carcere resta, a distanza di anni, ancora un miraggio. La Provincia chiede quindi a Roma di accelerare. Ieri il presidente Arno Kompatscher, assieme alla senatrice Julia Unterberger e al segretario generale della Provincia Eros Magnago, ha quindi incontrato a Roma il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari. “Abbiamo sollecitato ancora una volta il governo a trovare finalmente una soluzione - ha spiegato Kompatscher - Abbiamo rappresentato anche al senatore Ostellari, come avevamo fatto meno di due anni fa con la ministra Cartabia, in visita alla struttura penitenziaria, la difficile realtà del carcere di via Dante: una sede sottodimensionata, fatiscente, inadatta al fine vero della pena, vale a dire la rieducazione del detenuto”. L’incontro con il sottosegretario alla Giustizia è stato “improntato alla massima collaborazione, ma ancora interlocutorio”. Ora ne seguiranno altri di natura più tecnica, già a partire dalle prossime settimane. A sollecitare una soluzione per il carcere di via Dante è anche il sindacato Uilpa di Bolzano, la cui presidente Cristina Girardi denuncia: “È gravissima la situazione di carenza degli organici di personale amministrativo presso la casa circondariale. Da oltre 25 anni non si assume personale e si assiste solo al pensionamento di quello presente. Mentre la dotazione organica prevede 23 unità, di cui 8 laureati e 15 diplomati, di fatto sono assegnati in pianta stabile solo 2 assistenti diplomati, con una carenza di oltre il 90%, ed un dirigente”. La Uilpa ricorda che l’amministrazione penitenziaria ha autorizzato il Commissariato del Governo nel 2021 a bandire concorsi pubblici per 5 laureati e un contabile diplomato, ma il tentativo di reclutamento non ha prodotto alcuna assunzione. “Questa situazione disastrosa, con carichi di lavoro aumentati ed insostenibili a rischio della salute per lo stress - conclude Cristina Girardi - comporta la necessità di valutare tutti i percorsi possibili per il reclutamento di personale civile ed auspichiamo l’intervento dell’amministrazione penitenziaria, del Commissariato del Governo e della Provincia”. Intanto interviene anche l’ex referente e garante dei diritti dei detenuti per il Comune di Bolzano, la radicale Elena Dondio: “Il carcere di Bolzano è sovraffollato e fatiscente e bisogna realizzarne in fretta uno nuovo per migliorare le condizioni di vita dei detenuti e degli agenti della polizia penitenziaria. La scorsa estate anche Rita Bernardini, dell’Associazione Nessuno Tocchi Caino, aveva visitato il carcere di via Dante, definendo il suo stato vergognoso. Non dimentichiamo infine - aggiunge Dondio - anche la piaga dei suicidi nelle carceri italiane: solo dall’inizio dell’anno sono già stati 22 a livello nazionale”. Roma. “Per abbattere recidiva investire nel reinserimento sociale dei detenuti” di Alessandra Trotta news-24.it, 1 marzo 2024 “Nella prima riunione del tavolo interassessorile per la programmazione degli interventi a sostegno della popolazione detenuta, previsto dalla legge regionale 7 del 2007 ma che non si riuniva da anni, è emersa la necessità di mettere in campo una proposta più articolata, efficace ed efficiente per sfruttare al meglio le risorse disponibili e potenziare i percorsi di reinserimento sociale dei detenuti”. Lo dichiara l’assessore al Personale, alla Sicurezza urbana, alla Polizia locale, agli Enti locali e all’Università della Regione Lazio, Luisa Regimenti. “Diversi gli ambiti sui quali stiamo lavorando e sui quali ci confronteremo con il Garante regionale per i diritti dei detenuti. Sul fronte del diritto alla salute, c’è la necessità di riconoscere le indennità per lavoro in luogo svantaggiato a medici e operatori sanitari. Riteniamo necessario offrire un percorso formativo che possa concretizzarsi in occasioni di lavoro per un percorso di uscita dal carcere che sia controllato e prevenga il rischio di recidiva. Dobbiamo lavorare anche per garantire percorsi di istruzione di scuola superiore secondaria e corsi di lingua italiana per i detenuti stranieri. Infine, riteniamo utile potenziare le attività sportive e proseguire con i percorsi teatrali, attività che promuovono inclusione e recupero”, aggiunge l’Assessore. “Il carcere non può essere solo uno strumento di punizione, ma deve avere come scopo primario quello di reinserire il colpevole nella società, offrendogli l’occasione di iniziare una nuova vita. Investire nel reinserimento dei detenuti significa investire nella sicurezza delle nostre comunità. La Giunta Rocca continuerà a seguire con attenzione il tema mettendo in sinergia il lavoro degli assessorati coinvolti che ringrazio per la disponibilità manifestata oggi: riteniamo doveroso lavorare per coniugare il rigore della pena con l’umanità della stessa ed il rispetto della dignità umana”, conclude l’assessore Regimenti. Così il 21 febbraio: “Gli ultimi decessi avvenuti a Rebibbia, segnalati dal Garante dei detenuti Stefano Anastasia, accendono, ancora una volta, i riflettori sulle condizioni delle strutture carcerarie. Il potenziamento dell’assistenza sanitaria, così come i progetti per il reinserimento sociale e per garantire il diritto allo studio, saranno temi al centro del tavolo interassessorile convocato in Regione Lazio per il 29 febbraio. Per la Giunta guidata da Francesco Rocca garantire la dignità dei detenuti e buone condizioni di lavoro per la polizia penitenziaria e gli operatori è una priorità”. Così Luisa Regimenti, assessore al Personale, alla Sicurezza urbana, alla Polizia locale e agli Enti Locali della Regione Lazio. “Il carcere non può essere un luogo di abbandono e di sofferenza, ma deve essere un posto nel quale vi sia la possibilità di trovare la strada per ricominciare una nuova vita. L’attenzione sui detenuti dev’essere a 360 gradi e deve riguardare ogni ambito della detenzione, compresa la promozione della salute. Al di là del caso specifico, c’è il tema dei suicidi che anche quest’anno continuano senza sosta in tutta Italia. Siamo al lavoro in Regione Lazio per questa battaglia di civiltà” conclude Regimenti. Pescia (Pt). C’è l’accordo con il Tribunale per lavori di pubblica utilità di Emanuele Cutsodontis La Nazione, 1 marzo 2024 Dieci detenuti, con condanne fino a quattro anni, potranno usufruire della misura rieducativa. L’amministrazione comunale di Pescia ha siglato una convenzione con il Tribunale di Pistoia. Accordo grazie al quale le persone che non hanno mai, prima, toccato il carcere, condannate con sentenze che prevedono fino a quattro anni di carcere, potranno scontare la loro pena svolgendo lavori di pubblica utilità: ogni giorno di condanna corrisponderà a due ore di lavoro. "Si va a consolidare un rapporto che era già in essere - puntualizza il sindaco Riccardo Franchi - fino a ora l’accordo prevedeva che collaborassero con noi due persone, con questa firma sono diventate dieci. Si tratta di un inserimento rieducativo di persone cui è capitato di incappare in episodi poco felici. Daremo, così, un segnale ai nostri cittadini, portando queste persone a intervenire sull’arredo urbano". L’accordo è stato presentato in un incontro cui hanno preso parte l’assessore al welfare, Cristiana Inglese, la direttrice dell’Ufficio locale esecuzione penale esterna di Pistoia, Cristina Selmi, l’assistente capo coordinatore Pietro Aprile e il sovrintendente capo della polizia penitenziaria Guido Martino e Renzo Ciofi, volontario ex articolo 78 e docente all’Università La Sapienza di Roma, che seguirà il lavoro delle persone interessate insieme ad altri sei volontari. La convenzione avrà la durata di 5 anni, il lavoro verterà soprattutto su spazzamento, raccolta dei rifiuti e pulizia delle aiuole. "Crediamo molto in questa idea di giustizia riabilitativa - aggiunge Inglese - che mette al centro la persona per essere recuperata. C’è una ricaduta importante sulla comunità". "La riforma Cartabia - spiega Selmi - ha dato ulteriore impulso al ruolo delle istituzioni locali. Condanne e imputazione fino a quattro anni vengono scontate con lavori per la comunità. Le vite delle persone si sono inceppate, dovendo fare i conti con una vicenda giudiziaria. I numeri sono importanti: 134.000 persone a livello nazionale, 800 all’anno nella nostra provincia. Persone che hanno avuto la sospensione automatica della carcerazione. Pescia si sta dimostrando estremamente sensibile, sia ai lavori di pubblica utilità che alla giustizia ripartiva. L’Ulepe - conclude svolge attività di promozione della cultura, curando percorsi che vanno in carico alla comunità e al territorio". Pavia. “La città deve sentirsi sempre più coinvolta nei problemi del carcere di Torre del Gallo” di Bruno Contigiani Il Ticino, 1 marzo 2024 Intervista esclusiva alla direttrice Stefania Mussio. “Tanti progetti avviati, ma serve un legame con le imprese”. Quando incontri Stefania Mussio la direttrice della Casa Circondariale Torre del Gallo di Pavia, nel giro di poco ti trovi in compagnia di un grande di questa città: il Professor Vittorio Grevi, il giurista che tanto ha dato al diritto italiano al quale tutti dobbiamo il nuovo Codice di Procedura Penale. Proprio da qui, con una tesi su questa procedura parte la scelta di Stefania per arrivare a occuparsi di carceri. Indecisa dopo la laurea se tentare la carriera di magistrato, per arrivare a essere giudice o occuparsi dell’applicazione della legge nel suo stadio terminale ha lasciato scegliere al destino e ora si trova a dirigere una struttura non certo semplice come una casa circondariale con oltre 650 detenuti. È forse più breve elencare nel suo curriculum le carceri della Lombardia che non ha diretto che quelle in cui ha operato, tra massima sicurezza, case circondariali e istituti di pena, con reparti femminili e non. Stefania Mussio si aggiunge al lungo elenco di donne che praticano questa attività portata alla cronaca da Stefania Miserere, funzionaria in diversi istituti di pena, morta suicida, alla cui vita sono stati dedicati alcuni libri e un film. Quando le chiedo come mai tante donne, in una professione apparentemente immaginata per il cosiddetto sesso forte, senza esitare mi risponde con ironia: “Perché, molto banalmente, siamo più brave”. Iniziata con una visita a Porto Azzurro e successivamente alla Colonia Agricola di Pianosa, non si può dire che il cambiamento non faccia parte della sua carriera. Ama per scelta la desinenza in “ice” in un’epoca in cui ancora si discute se una donna debba continuare a utilizzare il maschile per definire la propria professione. E cambiare le strutture è il primo compito a cui si è dedicata in una situazione “molto carente da questo punto vista a Pavia”. Portatrice di speranza: una dirigente umana - La bussola che la guida è molto semplice, una direttrice in questi luoghi deve essere portatrice di speranza, una dirigente umana, che assieme alla polizia penitenziaria, agli educatori (anche in questo caso dovremmo usare il femminile) al cappellano e alla parte amministrativa, si occupa della vita di tante persone. Non sono stati certo in discesa il suo approccio e la sua attività iniziale, in buona parte dedicati al miglioramento di quello che se stessimo parlando di informatica, definiremmo l’hardware. Me lo racconta davanti a un caffè, con un certo orgoglio, proprio nel bar che devo ammettere ha cambiato completamente aspetto guadagnando in luminosità. La concretezza e il supporto dello studio sono il filo conduttore del lavoro di questa donna nata a Mortara, che porta con sé una conoscenza della situazione carceraria non certo comune, e che deve combattere ogni giorno con la carenza di fondi e soprattutto del numero di collaboratori a ogni livello. Giunti a questo punto mi consento un appunto personale: quand’anche le educatrici raggiungessero il numero previsto di otto, potrebbero non essere sufficienti per svolgere al meglio un lavoro cruciale, in grado di trasformare la vita tra le mura in una prospettiva per il domani. Se da una parte i numeri sono deficitari, anche per quanto riguarda gli agenti di polizia, non lo sono certo per il numero di persone accolte, visto che Pavia si allinea quantitativamente con quella che resta la piaga del nostro sistema carcerario: il sovraffollamento, acuito dalla presenza (attorno al 50 per cento) di detenuti provenienti da varie parti del mondo. Il lavoro da fare è ancora molto, sebbene tanto sia stato fatto anche grazie al supporto del Provveditorato Regionale diretto con grande sensibilità da Maria Milano. Proseguendo nella metafora informatica e prima di raccordare le strutture al “software”, le idee e i progetti non mancano: si è messo mano alla ristrutturazione del teatro, della Chiesa, della Moschea, mentre è iniziata l’attività di una piccola sartoria nata dalla collaborazione con “Afilolibero” una vera e propria novità per Torre del Gallo, che raccoglie commesse dei prodotti realizzati, anche grazie a un sito dedicato. La gestione del Covid e il dramma dei suicidi -Sono tanti gli argomenti che vorrei trattare, ma non si può non affrontare quello della gestione del Covid: “Mi trovavo a Voghera a quei tempi, non abbiamo avuto rivolte e soprattutto grazie alla collaborazione con il medico del lavoro siamo riusciti a governarlo molto bene, abbiamo avuto una perdita, un detenuto che è stato immediatamente curato a Milano ma che non ce l’ha fatta”. Mi viene spontaneo chiedere che cosa pensa del numero di suicidi, superiore alla media nazionale in questi luoghi, non solo tra le persone ristrette, ma anche tra gli agenti di polizia. I cardini di come si può provare a ridurre questa silenziosa tragedia secondo la nostra direttrice partono dalla formazione degli agenti, nella ricerca del rafforzamento delle motivazioni della loro scelta professionale e l’apertura di sportelli psicologici. “Spesso ci troviamo di fronte a eventi non annunciati e la causa del suicidio va ricercata individualmente, noi dobbiamo intercettare a tutti i costi il problema anche se le risorse a nostra disposizione sono veramente esigue, visto che possiamo contare al momento su 102 ore al mese per 650 detenuti. Personalmente ho vissuto questo lutto due volte, con persone da cui non mi aspettavo certo un gesto del genere”. Siamo al mistero che avvolge questi eventi anche fuori. Il punto di vista strutturale emerge ancora nella conversazione con la dottoressa Mussio quando si parla di celle aperte: “Quello che conta è il coinvolgimento delle persone detenute in attività che le occupino attivamente, la semplice apertura, che si trasforma in un girovagare per il corridoio è di scarsa utilità, comunque abbiamo avviato una riapertura, in due sezioni nei rispettivi padiglioni, come nell’esperienza che ho personalmente verificato a Lodi nella sezione Olmo”. “Un maggiore coinvolgimento della società civile” - Le chiedo che cosa servirebbe oggi a Pavia e come pensa di procedere: “Abbiamo bisogno di un maggiore coinvolgimento della società civile, una città dovrebbe comprendere che il carcere è anche un problema sociale si dovrebbe sentire coinvolta. Questo già accade con alcune realtà, anche se i volontari potrebbero essere di più. La collaborazione con Don Dario ci offre un grande supporto, e anche con l’Unitre, c’è un bel progetto di Pet therapy con l’associazione Amici della Mongolfiera e altre persone con cui abbiamo avviato corsi di musica, sport, cultura. C’è un legame con l’Università e i Collegi universitari, in particolare il Collegio Borromeo che ha assunto tre detenuti in borsa lavoro, con il conservatorio Vittadini, ma sarà fondamentale raccordare un legame con le imprese per offrire a queste persone una prospettiva di lavoro che parta da qui e si sviluppi all’esterno, dando loro la speranza di una vita futura”. Ci sarebbero ancora tanti temi da affrontare, dal regime di 41bis che Stefania Mussio ha conosciuto in varie situazioni, ai ragazzi provenienti dalle carceri minorili. La sua è anche un’azione di consapevolizzazione dei temi della reclusione e del crimine, di cui spesso si sottovaluta il danno sociale, che affronta anche negli incontri con gli studenti di varie università, ma di questo spero avremo modo di parlarne con la ripresa delle uscite di Numero Zero, il periodico culturale redatto dai detenuti, che proprio sulle pagine de “il Ticino” ha trovato a lungo una preziosa ospitalità in passato. Mesagne (Br): “Linfa”: lavorare la terra, una seconda possibilità per i minori a rischio Corriere della Sera - Buone Notizie, 1 marzo 2024 L’iniziativa dell’Associazione Acqua2O è dedicata alla reintegrazione sociale dei ragazzi attraverso l’agricoltura ed è stata selezionata dall’impresa sociale Con i Bambini. “La difficoltà è dare ai ragazzi una motivazione tanto forte quanto quella che li ha spinti a commettere un reato”. E offrire così loro “una speranza di futuro”. Silvia Delle Grottaglie sintetizza così il suo impegno da educatrice. “Vi racconto la storia di un nostro beneficiario. ? un ragazzo arrivato nel progetto L.In.F.A. a 15 anni, aveva commesso reati, non frequentava la scuola, viveva in una comunità. All’inizio era diffidente, ma svolgendo le attività, giorno dopo giorno, è riuscito ad avviare un percorso di auto-imprenditorialità”. Anna Franza spiega così la sua esperienza di assistente sociale. Silvia e Anna fanno parte della squadra del progetto L.In.F.A. (Lavoro, Inclusione, Formazione in Agricoltura), selezionato da Con i Bambini nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile e promosso a Mesagne (Brindisi) dall’Associazione Acqua2O. L.In.F.A. è un’iniziativa innovativa dedicata alla reintegrazione sociale dei minorenni autori di reato attraverso l’agricoltura. Il progetto, fondato sull’idea che il contatto con la natura e gli animali possa avere un forte impatto rieducativo e terapeutico, offre percorsi individualizzati attraverso attività dedicate alla gestione di un apiario e la cura dei cavalli. Con il supporto di una vasta rete di partner, tra cui associazioni, centri di formazione e comuni locali, il progetto sta creando opportunità lavorative concrete per i partecipanti, promuovendo al tempo stesso lo sviluppo personale e professionale. A Mesagne, i ragazzi coinvolti sono stati 30. Il progetto è strutturato in diverse fasi, tra cui spiccano l’assessment iniziale per individuare le esigenze e le potenzialità dei minori, i corsi di formazione professionale in apicoltura e nella cura dei cavalli, fino ad arrivare a quello che al momento è il risultato più importante: la creazione di un’impresa sociale. La neocostituita cooperativa Linfa è infatti un elemento chiave nel progetto e rappresenta un modo per ridurre significativamente il tasso di recidiva, offrendo ai giovani non solo un’occupazione, ma anche un ruolo attivo nel loro percorso di reintegrazione. “Siamo riusciti a costituire una cooperativa di lavoro insieme ai ragazzi autori di reato, con cui cercheremo di portare avanti diverse attività: produzione di miele e derivati, produzione di attrezzature in legno e lavori per conto di terzi”, spiega Marcello Ostuni, responsabile dell’équipe multidisciplinare del progetto. Grazie all’approccio basato sulla peer education e sull’imprenditorialità, i giovani coinvolti hanno acquisito non solo competenze lavorative, ma anche una maggiore consapevolezza di sé e un senso di appartenenza alla comunità. La testimonianza e l’esperienza diretta diventano strumenti potenti per stimolare il cambiamento, con i partecipanti che diventano esempi positivi per i nuovi ingressi e contribuiscono attivamente alla prevenzione della devianza giovanile. “La cosa più difficile che abbiamo riscontrato lavorando con ragazzi autori di reato è quella di far nascere in loro una motivazione tanto forte quanto quella che li ha portati a sbagliare - racconta Silvia Delle Grottaglie, educatrice del progetto -. Grazie all’azione educativa, i ragazzi hanno preso coscienza delle loro capacità, delle quali non erano consapevoli. La fiducia nei loro confronti li ha aiutati a un riconoscimento della propria identità”. I ragazzi coinvolti hanno acquisito non solo competenze lavorative, ma anche una nuova prospettiva di vita. L’esperienza del progetto L.In.F.A. dimostra l’importanza di approcci innovativi e inclusivi nella gestione della devianza giovanile, offrendo speranza e opportunità concrete per un futuro migliore. “Carcere”: storia e futuro dell’istituzione penitenziaria L'Opinione, 1 marzo 2024 La collana Voltairiana, ultima nata in casa Liberilibri, si arricchisce di un nuovo volume - il quarto - dedicato al Carcere. Ne è autrice il magistrato Silvia Cecchi, sostituto procuratore presso la Procura di Pesaro, che ripercorre qui la storia dell’istituzione carceraria e ne delinea una riforma possibile. Nella prefazione, il criminologo Adolfo Ceretti scrive che l’autrice “riesce a tracciare un quadro esaustivo e rigoroso dei temi costitutivi di un’istituzione che contraddistingue in modo marcato la modernità e la tarda-modernità di tutti i Paesi occidentali”. Nel pur breve spazio di questo agile volume dedicato, come tutti quelli di Voltairiana, a una singola parola e a un singolo tema, Silvia Cecchi riesce anche a proporre al lettore una riflessione estremamente approfondita, che prende spunto da una forte convinzione: oggi il carcere dovrebbe essere “altro” da quello esistente, ovvero deve perdere quella che è ancora la sua funzione punitiva e spesso criminogena. A tal fine, sostiene l’autrice, va ripensato il concetto di rieducazione, in modo tale da attivare effettivamente delle condizioni di vita in carcere in grado di far maturare e di responsabilizzare il detenuto: dal lavoro all’istruzione, ma anche nel campo dell’affettività e delle relazioni personali, sempre nel rispetto della sua dignità e della sua salute. Bisogna dunque distinguere la persona dal reato che ha compiuto e dalla pena che gli è stata inflitta, perché la persona vale di più e deve poter sperare in un futuro possibile una volta fuori dal carcere, dove ricostruire la propria personalità sotto tutti gli aspetti. È necessario, scrive Cecchi, “che l’autore sia messo in condizione di sperimentare e verificare in prima persona una condotta di vita diversa, ciò che avviene solo in una dimensione relazionale, dialogica e lavorativa, sia pure, e ove occorra, all’interno di forme di contenimento istituzionale”, poiché è dimostrato come “i tassi di recidiva diminuiscano drasticamente in relazione inversa all’elevazione degli standard carcerari, fra i quali la quantità e qualità dell’attività lavorativa retribuita, sia interna sia esterna al carcere, assumono ruolo determinante”. Silvia Cecchi, per Liberilibri ha già pubblicato: Giustizia relativa e pena assoluta. Argomenti contro la giuridicità della pena carceraria (2011) con Postfazione di V. Mathieu; Sulla pena. Al di là del carcere, insieme a G. Di Rosa, P. Bonetti, M. Della Dora (2013) con una nota introduttiva di G. Fiandaca; Partire dalla pena. Il tramonto del carcere, insieme a G. Di Rosa, T. E. Epidendio, con Prefazione di L. Eusebi (2015), Antonio e la lucertola. Dal paradigma imputatocentrico al paradigma offesocentrico (2021) con Postfazione di Rosario Salamone. Carcere, di Silvia Cecchi, Liberilibri 2024, Collana Voltairiana, prefazione di Adolfo Ceretti, XIV-78 pagine, 14 euro Il governo stretto tra le nuove piazze e il richiamo arrivato dal Colle di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 1 marzo 2024 Le trattative per la gestione delle proteste. Quella di domani si annuncia come un’altra giornata complicata per l’ordine pubblico. Assicura il ministro Piantedosi che “il rischio di incidenti e di scontri è pari a zero se i manifestanti non pongono in essere comportamenti pericolosi o violenti, rispettando le regole”. Una constatazione quasi ovvia, che però nel clima creatosi dopo gli scontri di una settimana fa rischia di essere meno scontata di quanto ci si potrebbe aspettare. Perché nel “rispetto delle regole” il responsabile del Viminale inserisce, ad esempio, l’avviso delle manifestazioni e la comunicazione del percorso tre giorni prima dei raduni, ma in vista del corteo annunciato per sabato a Pisa questo non è ancora avvenuto. E chissà se avverrà, visto che per adesso gli organizzatori non hanno risposto alle chiamate della Questura. Del resto, se tra loro c’è chi reclama le dimissioni del questore dopo le manganellate sugli studenti di venerdì 23 febbraio, è difficile immaginare che accettino di rispondere ai suoi appelli. Quella di domani si annuncia come un’altra giornata complicata per l’ordine pubblico. Nella città della torre pendente è stato lanciato un appuntamento con lo slogan “in piazza contro bombe e manganello”; le bombe sono quelle sganciate sulla Palestina, i manganelli chiamano in causa direttamente l’Italia e il governo in carica, attraverso le forze di polizia che saranno anch’esse in piazza per evitare degenerazioni. Da parte di chiunque. Se i manifestanti non accetteranno di concordare un percorso (com’è successo venerdì scorso, secondo la ricostruzione fatta dal ministro), per evitare l’avvicinamento ai cosiddetti “obiettivi sensibili” (sinagoga, cimitero ebraico e altri luoghi considerati a rischio assalto) i responsabili dell’ordine pubblico dovranno scegliere tra due opzioni: seguire il corteo e decidere sul momento le chiusure necessarie, con tutte le incognite del caso, o limitarsi a presidiare i posti dove i manifestanti non devono arrivare. Anche a Firenze ci sarà un raduno, annunciato davanti al consolato statunitense che a sua volta è considerato un sito da proteggere, e dunque sono in corso trattative per cercare di spostare altrove il concentramento. Ma più in generale, in tutte le piazze d’Italia dove sono previsti cortei - da Milano a Roma, ad altri capoluoghi - le forze dell’ordine cercheranno di indirizzare i percorsi e saranno chiamate a preservare più di un possibile bersaglio delle contestazioni. Si tratta di scelte tecniche, da valutare città per città, che però hanno acquisito un valore squisitamente politico, visto che da una settimana i partiti si accapigliano sugli incidenti di Pisa e Firenze. Tutti si dicono d’accordo con le parole del presidente Mattarella (l’allarme per le manganellate sui ragazzi sintomo di “un fallimento”, ma pure le solidarietà ai politici colpiti da iconiche offese durante i cortei, e ai poliziotti aggrediti mercoledì a Torino), ma subito dopo si dividono accusandosi l’un l’altro: chi di fomentare la repressione sui dimostranti e chi gli insulti e gli assalti alle divise. E quando la premier Giorgia Meloni ha evocato il pericolo che “le istituzioni” tolgano sostegno alle forze dell’ordine ha scelto un termine così ampio da poter essere letto come richiamo alle opposizioni ma persino al Quirinale; un altro elemento che accende gli animi del dibattito politico, anziché placarli. Sebbene dal Colle continui a filtrare la “serenità” del capo dello Stato, che non ha alcun bisogno di mostrare la propria vicinanza agli uomini e le donne in divisa. Anche l’informativa di Piantedosi può suonare come il tentativo del governo di sminuire - o quantomeno “relativizzare” - le responsabilità di chi, sul campo, non ha fatto le scelte giuste. La decisione di lasciare al proprio posto, almeno per adesso, i vertici cittadini della sicurezza dimostra la volontà non solo di non scaricare la polizia, ma di confinare tutto a eventuali singoli errori nella gestione del singolo evento. La sostituzione della dirigente del Reparto mobile di Firenze, peraltro divulgata come un avvicendamento già previsto, è finora l’unica risposta del Viminale; per il resto si attendono i risultati dell’inchiesta avviata dalla magistratura, che ha già in mano molti elementi trasmessi proprio dalla Questura di Pisa e ha affidato le deleghe d’indagine alla stessa polizia. Un segnale di fiducia nei confronti dell’istituzione finita al centro delle polemiche e degli accertamenti. Nella ricostruzione del ministro in Parlamento si parla di una “carica di alleggerimento per allentare la pressione dei manifestanti” sullo schieramento di caschi e divise, ma non si dice nulla sui manganelli branditi anche dopo che la pressione s’era allentata. E la contabilità dei feriti (due funzionari di polizia e 17 dimostranti di cui 11 minorenni) lascia comunque intuire la disparità delle forze nel fronteggiamento. Si sottolinea che i quattro denunciati per resistenza a pubblico ufficiale hanno tutti precedenti “per reati attinenti all’ordine pubblico”, come a dire che davanti allo sbarramento c’era pure qualche professionista (o semiprofessionista) dei disordini. E si rivendicano “equilibrio, prudenza e proporzionalità”. Anche pensando ai prossimi appuntamenti. O si Mattarella o si manganella di Alessandro Bergonzoni La Repubblica, 1 marzo 2024 Considerazioni semiserie (ma molto serie) di un attore comico sui fatti di Pisa. Bello sarebbe se le istituzioni facessero scuola, passando alla storia, per esserne parte a prescindere dalla propria barricata, arma, o dal tal governo. Invece accade il contrario. O si Mattarella o si manganella. Cosa “colpisce” di più di certi poliziotti e incerti governi? Dopo il contundere fisico, colpisce che siano incerti sul fatto che si possa chiedere scusa, si possa passare a parlare con chi hai davanti e non solo soverchiarlo. Incerti che creare paura non paga né uno stipendio basso né la convivenza tra istituzioni e cittadini tanto meno adolescenti. Sui morti, si sa, decide la scientifica, su feriti e contusi la classica, verità, il rispetto non della scienza ma della coscienza, prima ancora della conoscenza; deciderà una nuova arte del viversi, capirsi, ascoltarsi, non del vicendevole convincersi o peggio volerla vinta. I partiti, i partenti, i patiti, i patenti, la viltà, la civiltà, l’integrità, la folla, la follia… Il bastone è la carota? Come si conquista una generazione che non vuole degenerare ma generare, sapere, dire, fare, dare? Chi sarà il “bastone” della loro vecchiaia? E la sicurezza del loro e nostro sviluppo? Ci vogliono le prove per accusare? Le stanno già facendo, le prove, per vedere se chi ha la testa dura impara e cede. Ma cedevole è un governo che non vaglia ma reprime, non insegna a chi vuol protestare e conoscere ben altro, per imparare e non imperare: questo ce lo possono insegnare proprio i ragazzi, ci avete mai pensato? La situazione evolve? È ormai evoluta o è voluta, per dare un segnale esemplare sullo scontro evitabilissimo? Esemplare deve essere il rispetto dell’altro anche se sembra infastidisca o si ribelli come a Pisa: chi è governo, senza omertà o connivenze, deve essere preparato a responsabilità maggiori e trasparenza totale, pronto al massimo a contenere, non accanirsi. A quando uno studio ed una nuova ricerca sul metodo di formazione di un agente per dire che fa il suo dovere, non potere? Che poetica cambiare per trovare nuovi “versi” adatti, e rispondere per le rime senza che si versi sangue? Viola violino violenza, fiore colore musica o indecenza, “colpi di grazia” e garbo, che favoriscano il convivere, o solo veemenza preventivo strategica? Violazioni: gradazioni del livido che resta su chi è arrestato e “battuto” ma anche sul corpo dello Stato (che non dovrebbe avere altre cicatrici da nascondere). Non parlo solo di studenti ma anche detenuti, migranti e dissidenti di coscienza, in tutto il mondo sedicente democratico. Non tutti gli agenti sono uguali: atmosferci, patogeni, penitenziari, speciali o reagenti, chimici, fisici, cinici, lucidi… Non tutti i “guardiani” dell'ordine e delle vite in sicurezza, eccedono e proprio per questo si deve isolare, fermare certo sadismo ridente e irridente, perfino davanti alle telecamere. Figuriamoci senza essere visti cosa si può immaginare accada. Non è certezza ma dubbio sì, e tanto, permettetecelo, senza essere bollati di sfiducia nella polizia, ma proprio per poter dire un giorno serenamente il contrario. Certo che c’è differenza tra rei e non rei, tra un sit in e irruzioni in luoghi sensibili, ma c’è differenza anche tra rinchiusi senza un motivo perché fuggiti dalle guerre e dalla fame e violentatori seriali, o condannati con pena passata in giudicato. I numeri parlano da soli? Feriti venti manifestanti, dieci poliziotti, due passanti? L’uomo non è un numero, il casco però può averlo, un numero identificativo, (al pari di un ministro che oggi vuole “identificare” il primo che passa), per vedere chi è consapevole o inconsapevole, se eccede per non cedere, se abusa del suo dovere. Servirebbe per riconoscere il corpo, l’anima, il cuore, la testa di chi lo indossa, non per vendicarsi! È così difficile da accettare? Magari (è una mia accalorata proposta-richiesta) dopo i necessari provvedimenti del caso sui responsabili, si potrebbe farli incontrare in un luogo sicuro, come una classe, per parlare dei loro gesti inconsulti, e tranquillamente scambiarsi opinioni non colpi. Per non dover arrivare a riconoscere un ennesimo cadavere in obitorio, ma conoscersi per la prima volta direttamente, come tra padri e figli, e leggere e tradurre insieme concetti come sostenibilità (anche di chi reputiamo insostenibile), clima (anche quello che si respira nei luoghi di pena, cura, lavoro e studio), pace e non violenza (da indossare ed abitare in qualsiasi situazione e dentro qualsiasi camice, divisa o tuta col cappuccio), cambiamento (interiore e di regole da migliorare per il bene di tutte le categorie). Bello se le istituzioni facessero scuola, passando alla storia, per esserne parte a prescindere dalla propria barricata, arma, o dal tal governo. Bello studiare, come fare scuola senza disfarla e terrorizzare nessuno, magari servirebbe a convincere che bullismo e violenza, di genere e in genere, hanno i giorni contati se si parlasse davvero di non violenza in assoluto. Bella la contrapposizione se si sa che può esistere senza contusi né danneggiare vetrine, macchine, negozi, senza punire, umiliare, atterrire e atterrare chi fa costituzione attiva: è un dovere di quel mestiere saper proporzionare la reazione a seconda della condizione, altrimenti non si è adatti. Mi hanno chiesto se volessi ricoprire una qualche carica dello Stato ed io ho subito chiesto ricoprire di cosa? Credo nelle istituzioni (fino a prove contrarie e vergognose), ma soprattutto credo nelle “restituzioni”: della dignità, della libertà di manifestarsi e manifestarci che non è solo mobilitazione ma nobilitazione. Certo che chi invade una Nazione (ma anche una nozione: la nozione di lecito, necessario, rifiuto e critica) resta il principale colpevole, i reati vanno puniti (non con altri reati), gli irriducibili vanno contenuti e arrestati non torturati da un sevizio d'ordine. Essere forze di Polizia necessita di una formazione assoluta a 390 gradi, non di pregiudizio, per nessuno, e non lasciata al fai da te. Così come armare ha un limite invalicabile quando ha a che fare col mercato e la vendita indiscriminata per fini biecamente economici, la pace non è utopia ma vita da dare per risarcire popolazioni occluse da guerre intestine a volte accese da noi, non pensando ai civili che si sa bene vengono usati come scusa per propendere dalla parte di chi li cita a turno, per approfittare del fine che giustifica i mezzi militari di pulizia etnica di impoverimento colposo). Per fortuna molti genitori e soprattutto professori, a cui son grato per la grazia costante tenace e pura, vogliono aprire la testa degli studenti in un’altra maniera, per non farli sentire “minorenni non accompagnati”, per non lasciarli soli in mezzo al mare di guai, (imbottigliati in una strada che dovrebbe essere quella del sapere con tante vie di uscita), come ONG che s’occorre l’educazione, per arrivare all’istruzione di massa, bomba non atomica né nucleare, che non parla di torto e ragione, ma chiede il ragionamento. È ragionevole auspicare ci sia presto una grande “Manifestazione d’Affetto” internazionale dove si scenderà nelle piazze d’ogni terra per amore comune, per essere di nuovo un bene ed il bene. Amore per il diritto (non per il più dritto), per la salvezza dell’essere, per capire lo sconosciuto, e ideare, creare, rivoluzionare l’animo umano, da dove nasce ogni odio o beltà, come in chiunque si senta o no “superpotenza”. Per non dire più: come siamo ridotti, e ridurci a un punto nero regimental sulla faccia della terra (che questa generazione Z adora più di noi, senza compromessi). Come sei ridotto se colpisci un ragazzo fuori da una scuola, con foga e derisione e senza lasciare alcuna via di fuga? Come sei ridotto se non sai sederti attorno a un tavolo e rimetterci qualcosa per finire ogni battaglia senza vincerla? Come sei ridotto se te la prendi con un carcerato inerme in dieci contro uno, in una cella a Reggio Emilia Italia, per esempio, non solo in Iran, Egitto, Ungheria, Russia, Libia, America…Sei ridotto a mestiere, a divisa, a ruolo, non a persona, essere e anima e neanche a vero agente. Questo è ciò che per me, non poliziotto, studente, politico né legislatore, ma solo artista e cittadino sconfinato, è “manifesto”. Il verbo di questa parola non sia mai voce strozzata né silenziata. Il poliziotto, le multe e la Costituzione di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 1 marzo 2024 Noi vi lasciamo manifestare, ma voi fate i bravi, evitate “comportamenti provocatori”, rispettate “le prescrizioni”, chiedete il permesso. Non fate avvicinare “esponenti dell’area antagonista”, qualsiasi cosa voglia dire, o dio non voglia “estremisti”. Altrimenti capiterà ancora che qualcuno si farà male. Non si sa come e perché, visto che la polizia a Firenze e a Pisa ha solo “contenuto” o “alleggerito” e diciassette manifestanti di cui undici minorenni si sono feriti, probabilmente da soli. Il poliziotto Piantedosi era stato chiamato in parlamento per dare conto del pestaggio, violento e immotivato, che ha mandato in ospedale ragazzini e ragazzine che sfilavano per la Palestina. Pestaggio per il quale il ministro era stato richiamato anche dal capo dello stato che ha parlato con chiarezza di un “fallimento”. Il primo poliziotto ne ha approfittato per fare il contrario. È arrivato in aula impettito e orgoglioso e per prima cosa ha chiamato un applauso dei parlamentari per i picchiatori. E lo ha avuto, lungo e osceno. Siamo già qui dunque, ed era prevedibile che con questo governo ci saremmo arrivati presto: alla rivendicazione della violenza. Il prefetto elevato a ministro tiene sulla scrivania il Testo unico di pubblica sicurezza e pazienza se è un codice del 1931 firmato da Vittorio Emanuele II, Rocco e Mussolini. La Costituzione prevede la libertà di riunione e nessuna autorizzazione? Conta poco, il suo codice dice che bisogna avvertire tre giorni prima. I manganellati se lo sono dimenticati e così in piazza hanno avuto il fatto loro perché erano “in totale violazione della legge”. Rischiavano al più un centinaio di euro di multa, ma non si può pretendere che Piantedosi sappia distinguere tra la Costituzione e un verbale di contravvenzione. Con in mano le sue carte di questura, il ministro davanti ai parlamentari non è arretrato. Ha caricato anche lui. Ha negato che ci siano state esplicite direttive repressive da parte del governo alle forze dell’ordine, eppure stiamo parlando del governo che ha esordito con una decreto anti raduni e ora vuole sbattere anni e anni in galera chi fa resistenza passiva. “La polizia - ha giurato il prefetto ministro - non segue indicazioni del livello politico”. Voleva rassicurarci? Ci sta invece dicendo che è inutile chiedergli di darsi una calmata, al più risponderanno, come quel carabiniere a Milano, che il capo dello stato non li rappresenta. Siamo già qui e forse anche oltre, visto che la presidente del Consiglio che in genere sta zitta quando è in difficoltà stavolta ha scelto di polemizzare con il presidente della Repubblica. Ce l’aveva con lui, con chi altri, quando ha infilato il casco e alzato lo scudo dicendo che “è molto pericoloso togliere il sostegno delle istituzioni alla polizia”. Cosa che Mattarella non aveva fatto. Il presidente aveva però, e lui da solo, condannato la brutalità dei pestaggi. Quelli che Meloni e Piantedosi evidentemente difendono, al più concedendo la seccatura di un’indagine interna (ma gli “antagonisti” li hanno identificati e sanzionati subito). E per difenderli, la presidente del Consiglio non esita a forzare la coabitazione istituzionale, ad anticipare l’incoronazione diretta che sta cercando di introdurre in Costituzione e a sfidare apertamente il presidente della Repubblica. Questo sì un gioco molto pericoloso. Ma anche, ormai, molto chiaro. Piantedosi torna alla carica: “Cortei totalmente illegali” di Mario Di Vito Il Manifesto, 1 marzo 2024 Il ministro in parlamento difende gli agenti, ma non dice una parola sui ragazzi feriti. E Tajani fa la parafrasi di Pasolini: “I poliziotti sono figli del popolo, quelli che li attaccano figli di papà”. Il tono è piatto, burocratico, grigio. Come se fosse la lettura di un atto amministrativo qualsiasi, di un verbale come un altro. Matteo Piantedosi - che non a caso prima di diventare ministro è stato per tanto tempo un prefetto -, ieri, è andato prima alla Camera e poi al Senato per informare “con urgenza” i parlamentari sulle manganellate prese dagli studenti a Pisa e a Firenze la settimana scorsa. E non sono arrivate scuse, nel senso di espressioni di dispiacere, ma solo scuse da intendere come giustificazioni. Quindi, “non bisogna fare processi sommari alla polizia”, perché gli agenti “meritano il massimo rispetto”. E il problema non risiede nelle violenze in divisa, ma casomai nel “clima di crescente aggressività nei confronti delle forze dell’ordine”, che a dire del ministro potrebbe anche andare a peggiorare “per crisi internazionali, problematiche socioeconomico e impegni elettorali”. Così, se da un lato Piantedosi si associa alle parole di Mattarella e concede che “quando si giunge al contatto fisico con ragazzi minorenni è comunque una sconfitta ed è necessario svolgere ogni verifica con puntualità obiettività e trasparenza”, dall’altro segue il percorso giustificazionista tracciato da Meloni in persona: le manifestazioni toscane sono andate in scena “in totale violazione della legge”. Per non parlare di chi è sceso in piazza: i quattro denunciati sono maggiorenni, “tutti con precedenti per reati attinenti all’ordine pubblico”. La spiegazione pratica di quanto accaduto è la stessa fornita lunedì in consiglio dei ministri: la manifestazione di Pisa non era autorizzata, né era stata fatta una qualche comunicazione alla questura. Piantedosi, appoggiandosi al Tulps, sostiene che si tratti di qualcosa di illegale, ma in realtà la Costituzione, all’articolo 17, dice che in Italia la riunione in luogo pubblico sarebbe libera. Per quello che riguarda Firenze, invece, il ministro giustifica le botte con il fatto che ci sarebbero stati “dieci minuti di pressione” dei manifestanti sul cordone degli agenti di polizia. Tutto regolare allora. E in ogni caso, “non vi è e mai vi potrà essere alcuna direttiva ministeriale né indicazioni volte a cambiare le regole operative di gestione dell’ordine pubblico”. Spazio anche a un suggerimento: “Il rischio di scontri è pari a zero se i manifestanti non pongono in essere comportamenti pericolosi o violenti rispettando le regole”. E infine il canonico invito ad “abbassare i toni”. Peccato che ad alzare i toni siano soprattutto gli esponenti della destra, che approfittano di quanto accaduto mercoledì sera a Torino - una ventina di persone ha provato a bloccare una macchina della polizia per ostacolare un trasferimento in un Cpr. Risultato: cinque denunciati a piede libero - per accusare “la sinistra” di star organizzando autentiche campagne d’odio contro le forze dell’ordine allo scopo di delegittimarle, umiliarle, usarle come antagonista politico e chissà cos’altro. L’ineffabile vicepremier Tajani spiega quanto successo negli ultimi giorni facendo la parafrasi del Pasolini più bolso, quello di Valle Giulia: i poliziotti sono “figli del popolo e spesso quelli che li attaccano sono figli di papà radical chic, violenti che non hanno nessun rispetto della legge, dell’autorità dello Stato”. Nessuno esprime una parola di solidarietà verso gli studenti feriti dalle manganellate, molti dei quali minorenni. “Fratelli d’Italia in una nota l’altro giorno ha detto che “la sinistra spalleggia i violenti ed è causa di questi disordini” - dice la segretaria del Pd Elly Schlein -. Sono parole irresponsabili, segno di una totale mancanza di senso delle istituzioni da parte di chi governa. Se c’è una parte politica che sta strumentalizzando in modo becero questi eventi che hanno scosso il paese è proprio il partito che esprime la presidente del consiglio, alla quale chiediamo di esprimersi finalmente su questo episodio”. Meloni, dopo i fatti di Torino, in effetti però aveva parlato. Non degli episodi toscani, ma di quelli torinesi. “Pericoloso togliere il sostegno delle istituzioni a chi ogni giorno rischia la sua incolumità” è il senso del discorso. Il fatto è che non si capisce a chi sia diretta la reprimenda, se alle opposizioni o se al presidente Mattarella. Probabilmente ai primi perché anche il secondo intenda. Migranti. Domani a Ferrara manifestazione regionale contro i nuovi Cpr di Damiano Borin* Il Manifesto, 1 marzo 2024 In meno di tre mesi, tra il novembre scorso e il gennaio di quest’anno, il sindaco leghista di Ferrara Alan Fabbri è passato dal celebrare l’apertura di un nuovo Centro di permanenza per i rimpatri come “un’opportunità” per il territorio estense a farsi fotografare con l’aspirante vicesindaco Alessandro Balboni su un cartellone che dice “Grazie a Fratelli d’Italia il Cpr non si farà”. Complici le elezioni amministrative del prossimo giugno, e la maggioranza dei cittadini contraria, la destra ha fatto un’inversione a U. Di certo non basta, di certo non ci si può fidare: per questo sabato prossimo nelle strade del capoluogo emiliano sfilerà un grande corteo contro l’apertura di nuove strutture per la detenzione amministrativa dei migranti. A Ferrara o altrove. Dal decreto Cutro in poi il governo Meloni ha rilanciato la mala accoglienza di tipo emergenziale e il sistema dei Cpr dichiarando di volerne imporre almeno uno per regione. A ottobre dello scorso anno, dopo le notizie sull’apertura di uno di questi centri a Bologna, una manifestazione cittadina ha rispedito al mittente la proposta. Successivamente si è parlato di realizzarlo a Ferrara. Nel frattempo era nata la rete regionale “No Cpr-No grandi centri” decisa a opporsi anche a questa eventualità. La rete, che ha lanciato una serie di presidi sotto le prefetture e la manifestazione cittadina che si terrà domani, è memore di quanto successo qualche anno fa a Bologna dove un Cpr è stato fatto chiudere (e letteralmente smantellato da chi protestava) dopo una lunga stagione di lotte. Quelle mobilitazioni furono in grado di allargare il consenso e far cambiare opinione anche alle amministrazioni territoriali. Così gli amministratori regionali e comunali del Pd che prima appoggiavano tali strutture adesso sono contrari ad aprirne di nuove. Attualmente i Cpr in Italia sono 10, tre dei quali sotto indagine per reati come truffa, maltrattamenti, violenza privata pluriaggravata, falso ideologico e crimini di natura fiscale. A essere inquisiti sono gli enti gestori ma anche agenti di polizia e personale medico. Tra le accuse quella più odiosa è la somministrazione di massicce dosi di psicofarmaci ai migranti a loro insaputa, con lo scopo di sedarli. I Cpr sono luoghi inaccessibili dove di continuo avvengono soprusi e violenze che spesso portano ad autolesionismo e persino a suicidi. L’ultimo è quello di Ousmane Sylla, avvenuto a inizio febbraio a Ponte Galeria dove il ragazzo era stato trasferito dal Cpr di Trapani. Basta un documento di soggiorno scaduto, ovvero un reato amministrativo e non penale, per ritrovarsi dietro le sbarre di luoghi peggiori delle carceri. Luoghi dove spesso finiscono persone usate come forza lavoro senza diritti finché servono, da rispedire al mittente quando non sono più utili. A Ferrara e in Emilia-Romagna si sta alzando un’opposizione composta da cittadine e cittadini contrari a modelli di reclusione e segregazione che va insieme a quella di tante realtà che ogni giorno praticano un’accoglienza degna, a favore di percorsi di autonomia e integrazione in spazi urbani aperti e plurali. Città che guardano a un’Europa di ponti, libertà e giustizia sociale, contro muri, discriminazioni e politiche suprematiste e nazionaliste. Città in cui non devono nascere nuovi Cpr ma vanno chiusi quelli ancora aperti. Città in cui non si deve alzare il livello di repressione partendo dai migranti per poi arrivare a studenti e attivisti. I Cpr, come i manganelli nelle piazze e le misure cautelari contro gli attivisti bolognesi, riguardano tutti. *L’autore è tra gli organizzatori del corteo a Ferrara e uno dei sei destinatari dei divieti di dimora nel comune di Bologna disposti martedì scorso, per la resistenza allo sgombero di un’occupazione abitativa Migranti. Sette anni di illazioni sui “taxi del mare”, un danno allo stato di diritto di Claudio Cerasa Il Foglio, 1 marzo 2024 Al di là della storia giudiziaria, costosa e inutile, c’è il fallimento di un teorema politico che ha coinvolto buona parte dei partiti politici, dal M5s alla Lega fino a FdI, che riducevano il fenomeno migratorio alla presunta connivenza fra trafficanti e ong. La decisione della procura di Trapani di chiedere, dopo ben sette anni, il non luogo a procedere nei confronti della ong tedesca Jugend Rettet e dell’equipaggio della sua nave di salvataggio Iuventa apre interrogativi profondi sull’incapacità di questo paese di maneggiare un tema delicato e complesso come quello dell’immigrazione. Il primo governo Conte, quello con la Lega, si costituì parte civile contro l’equipaggio e da allora i giornali hanno dato enorme risalto alla teoria dei “taxi del mare” collusi con i trafficanti che gestiscono l’immigrazione clandestina. Una vicenda raccontata dai giornali in modo più scandalistico che razionale, con le gesta degli ex agenti di polizia infiltrati a bordo della Iuventa pomposamente celebrate sui giornali in lunghe interviste e racconti. Una vicenda che però, dopo sette anni, non ha prodotto alcuna prova della presunta collusione con gli scafisti. Al di là della storia giudiziaria, costosa e inutile, c’è il fallimento di un teorema politico che ha coinvolto buona parte dei partiti politici, dal M5s alla Lega fino a Fratelli d’Italia, che riducevano il fenomeno migratorio alla presunta connivenza fra trafficanti e ong. Il caso Iuventa testimonia che questa erronea visione del problema è stata recepita dalla politica italiana al punto che tutti i governi che si sono susseguiti hanno sempre mantenuto la costituzione come parte civile nel processo. È facile cercare dei colpevoli da punire quando non si riesce ad affrontare un fenomeno dalle cause ben più ampie e profonde, ma aver cavalcato questa semplificazione non è solo un errore politico, è il sintomo di una logica propagandistica che prevale sull’esame serio dei problemi. Giornalisticamente è grave che la conclusione dell’intera vicenda che per anni ha rimpolpato le prime pagine con virgolettati che somigliavano a sentenze - “L’ong lavorava con gli scafisti”, tuonava Rep. il 3 agosto 2017 - e fatti non verificati sia relegata oggi a qualche riga nelle cronache del giorno. Ha prevalso la caccia al capro espiatorio ma, come ha detto Francesca Cancellaro, legale di Iuventa, “non è così che funziona uno stato di diritto”. Migranti. Dal mare in carcere, così si criminalizzano i “capitani scafisti” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 marzo 2024 Il 14 febbraio scorso, davanti al Tribunale di Napoli, è iniziato il processo a tre giovani del Sud Sudan, in carcere da oltre 5 mesi per aver condotto un’imbarcazione in condizioni precarie, con a bordo 80 persone, dalle coste Libiche fino al salvataggio nel Mar Mediterraneo. Allo sbarco, il 28 agosto, i tre uomini, poco più che ventenni, sono stati sottoposti a interrogatori serrati, riconosciuti come capitani, quindi arrestati e tradotti nel carcere di Poggioreale. Come accade sistematicamente nei confronti dei capitani l’applicazione della misura cautelare del carcere è stata motivata con l’assenza di una dimora stabile in Italia, che diviene sintomatica del “pericolo di fuga”, e con il “rischio di reiterazione del reato”. In altre parole, le circostanze in cui avviene la migrazione, e in particolare la fuga dalla Libia, vengono lette immediatamente attraverso la prospettiva del traffico internazionale di persone e gli schemi del reato associativo. Semplificando, per la Destra il cosiddetto scafista è stato costruito come il colpevole principale di una “invasione di extracomunitari”. Per la Sinistra, invece, il cosiddetto scafista troppo spesso è stato individuato come il colpevole dei naufragi e delle morti in mare. In entrambe le visioni è comunque una figura che lucra e sfrutta, se non addirittura un carnefice all’interno dei meccanismi prodotti dai regimi di frontiera. Parliamo appunto dei cosiddetti “scafisti”. Come spiegano, in un comunicato, le associazioni Legal Clinic Roma Tre, Progetto “dal Mare al Carcere”, Arci Porco Rosso, Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione, Antigone Campania, Mem. Med- Memoria Mediterranea, i tre capitani hanno ammesso le condotte loro imputate, ribadendo di aver agito in stato di necessità, per salvare se stessi e le altre persone a bordo. Per essere accusati e processati per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare non è necessario che vi sia un qualsivoglia fine di profitto, né servono prove dell’appartenenza a presunte organizzazioni di trafficanti. Le accuse, infatti, criminalizzano quelle azioni da cui - proprio come nel film “Io Capitano” di Matteo Garrone - può dipendere la vita o la morte di chi attraversa il mare per raggiungere l’Europa. Come sottolineano le associazioni, il caso dei capitani sudanesi mostra quello che nel film di Garrone rimane sullo sfondo, ovvero il carcere che ogni anno in Italia attende allo sbarco centinaia di persone migranti. Per capire questo fenomeno volto alla criminalizzazione degli scafisti, basterebbe leggere il rapporto del progetto “Dal mare al carcere” redatto dal circolo Arci “Porco Rosso” di Palermo con il sostegno della rete transnazionale “Watch the Med - Alarm Phone”, in collaborazione con le onlus Borderline Sicilia e borderline-Europe. Ebbene, negli ultimi dieci anni sono, infatti, almeno 3.200 le persone arrestate e processate per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. Eppure, come analizza bene il rapporto, sono accuse molto spesso dannose. Si tratta di un fenomeno molto complesso, in cui le persone che guidano le barche lo fanno per un’ampia serie di motivi che sono difficili da semplificare, ma che di base sono l’ultimo anello di una rete molto più grande, i cui vertici rimangono nell’ombra. In più, queste persone, lontane dall’essere colpevoli per le morti in mare, sono spesso anche loro migranti ai quali è stato impedito l’ingresso in Europa, e che rischiano le proprie vite per attraversare le frontiere. Queste vicende si dispiegano nelle maniere più varie: dalle persone inserite in sistemi di sfruttamento, violentemente forzate a guidare un’imbarcazione, a persone che si rendono protagoniste di importanti atti di eroismo e solidarietà per salvare le vite delle altre persone che trasportavano. In alcuni casi, entrambe le cose. La violazione del principio di innocenza - Il progetto “Dal mare in carcere” ha quindi gettato luce su una verità scomoda ma fondamentale: la criminalizzazione degli “scafisti” non solo manca di garantire la sicurezza dei migranti nel Mediterraneo, ma contribuisce attivamente a mettere a rischio le loro vite. Il rapporto mette in discussione l'approccio politico e giudiziario che, sotto il pretesto di perseguire coloro che facilitano il transito dei migranti attraverso il mare, finisce per compromettere gravemente i diritti umani e aggravare la già precaria situazione dei migranti. Un punto cruciale evidenziato nel rapporto è l'osservazione che il perseguimento degli “scafisti” spesso si basa su metodi approssimativi e parziali, trascurando l'approfondimento delle dinamiche reali dei fatti. Questo approccio non solo compromette la possibilità di una difesa piena ed effettiva per gli imputati, ma può anche portare a condanne ingiuste e pesanti, violando il principio di presunzione di innocenza. Inoltre, la vita in carcere per coloro che vengono condannati come “scafisti” è spesso più afflittiva, con maggiori difficoltà di accesso alle misure alternative alla detenzione. Una conseguenza diretta di questa politica è che i migranti si trovano spesso ad affidarsi a capitani inesperti o a essere coinvolti in viaggi clandestini più rischiosi a causa della paura delle conseguenze legali. La criminalizzazione nei paesi di partenza può anche accelerare i tempi di organizzazione dei viaggi, portando a scelte affrettate e pericolose. Durante il viaggio stesso, le pratiche adottate dagli “scafisti” per evitare l'identificazione mettono ulteriormente a rischio la vita dei migranti, come nel caso delle rotte in cui ai passeggeri è vietato emergere dalla stiva, aumentando il rischio di asfissia. Inoltre, durante le operazioni di soccorso, le risorse vengono spesso concentrate sull'identificazione degli “scafisti”, invece che sulla cura e l'assistenza immediata ai migranti. Questo approccio distorce le priorità, ritardando interventi cruciali e mettendo a repentaglio ulteriormente la vita di chi è in pericolo in mare. Le associazioni che hanno redatto il rapporto, presentano quindi una serie di raccomandazioni volte a porre rimedio. In primo luogo, si sottolinea l'importanza di rivedere le politiche migratorie attuali, abbandonando l'approccio basato sulla militarizzazione e la chiusura delle frontiere. Allo stesso tempo, si invita a porre fine alla criminalizzazione dell'aiuto alle persone che attraversano i confini e a concentrare le risorse sull'accoglienza anziché sulla persecuzione penale dei migranti e di coloro che li assistono. Tra le raccomandazioni chiave, vi è la richiesta di abolire gli articoli di legge che criminalizzano il trasporto dei migranti senza una chiara prevalenza dell'interesse alla tutela dei confini sulle vite e i diritti dei migranti stessi. Si insiste inoltre sull'importanza di garantire un accesso equo e completo alla difesa legale per coloro che sono accusati di favoreggiamento, nonché sulla protezione dei diritti dei testimoni coinvolti nei procedimenti giudiziari. Il rapporto solleva anche la questione della revoca delle restrizioni alla detenzione domiciliare per coloro che sono condannati, evidenziando la necessità di valutare la pericolosità sociale su base individuale anziché attraverso misure generalizzate e discriminatorie. Un punto critico delle raccomandazioni è la necessità di riconoscere lo stato di necessità nei procedimenti penali, consentendo alle persone coinvolte di difendersi dalle accuse in base alla necessità di salvare sé stessi o gli altri. Questo approccio, sostenuto dal principio fondamentale della solidarietà umana, potrebbe contribuire a ridurre la criminalizzazione delle azioni volte a salvare vite umane. Infine, esortano le autorità a porre fine all'abuso delle misure cautelari e a garantire un trattamento umano e rispettoso dei diritti fondamentali dei migranti detenuti, compresi i richiedenti asilo. Migranti. Così la lotta alle Ong ha provocato almeno 11mila morti in sette anni di Simona Musco Il Dubbio, 1 marzo 2024 Iuventa, la memoria della difesa: privati indispensabili per la gestione dei soccorsi in mare: coprono quasi la metà delle operazioni. “Nell’arco temporale compreso tra il 2017 (anno a partire dal quale vengono avviati i primi procedimenti penali nei confronti dei membri di Ong tra cui quello nei confronti dell’equipaggio della Iuventa) e settembre 2023, il numero dei dispersi supera le 11 mila unità”. Basterebbe questo passaggio della memoria depositata ieri dagli avvocati Nicola Canestrini, Francesca Cancellaro e Alessandro Gamberini per capire l’effetto dell’indagine sulla Iuventa. Un’indagine che rappresenta il primo tentativo - sconfessato anche dall’accusa, che ha chiesto il non luogo a procedere - di trovare un legame tra le Ong e i trafficanti, in modo da riempire di senso l’espressione propagandistica “taxi del mare”. Ma le prove, stando a quanto affermato mercoledì dalla stessa procura di Trapani, non ci sono. E per tentare di trovare sono trascorsi sette anni, durante i quali migliaia di migranti sono morti in mare e una nave che avrebbe potuto salvarli è rimasta ad arrugginire. Il tutto costando allo Stato 3 milioni di euro. In mezzo ci sono leggi e decreti che hanno tentato di azzoppare i volontari disposti a uscire in mare per aiutare i disperati partiti alla ricerca di fortuna a bordo di bagnarole marce. Come quelli morti a pochi metri dalla spiaggia di Cutro, che forse avrebbero potuto essere salvati. L’ipotesi della procura è sintetizzabile nell’idea secondo cui tra il 2016 e il 2017 l’equipaggio della Iuventa, “anziché effettuare veri e propri soccorsi di persone in pericolo”, agisse “di concerto con le reti dei trafficanti libici, organizzando “consegne concordate” in acque internazionali di migranti che successivamente venivano trasportati sul territorio italiano”. Agli indagati è stato contestato anche il fatto che tali operazioni garantivano loro “maggiore visibilità pubblica e mediatica, con conseguente incremento della partecipazione - anche economica - dei propri sostenitori”. Un’ipotesi infamante, secondo la difesa, in linea con la narrazione pubblica di quegli anni. “Per molte delle sue caratteristiche il processo alla Iuventa rimarrà un unicum si legge nella memoria -. Ad esempio, è l’unico procedimento nel quale il sequestro preventivo di un’imbarcazione soccorritrice risulta ancora in essere dopo sette anni”. I legali mettono in fila tutte le norme che impongono l’obbligo di intervenire in soccorso dei migranti in mare, alle quali si aggiungono le numerose sentenze intervenute nel frattempo. Dal caso Mare Jonio a quello Open Arms, passando per la vicenda di Carola Rackete, sono anche i Tribunali a sostenere che le Ong sono “ambulanze del mare” e non “taxi”. Anche perché a seguito dell’interruzione, nel 2014, dell’operazione Mare nostrum (disposta dopo il tragico naufragio del 3 ottobre 2013 e accusata da più parti di incentivare partenze e sbarchi), i naufragi sono aumentati, sancendo il fallimento del sistema dei soccorsi degli Stati. Da qui l’indispensabilità delle Ong per la gestione dei soccorsi in mare, coprendone quasi la metà. Ma se in una prima fase tale ruolo veniva visto positivamente, l’avanzata delle destre e del M5S hanno contribuito a ribaltare la percezione: le Ong, all’improvviso, sono diventate brutte e cattive. “Sono molteplici i fattori che hanno contribuito a questo passaggio trasformativo in quel particolare frangente temporale - si legge nella memoria -: l’intensificarsi di campagne politico- mediatiche anti- Ong, la pubblicazione del Rapporto Risk Analysis for 2017 dell’Agenzia Frontex nel quale le Ong vengono presentate come pull factor anche in ragione della loro presenza attorno alle 12 miglia dalla costa libica, il Memorandum d’intesa Italia-Libia firmato a Roma il 2 febbraio 2017 che ha legittimato e valorizzato esponenzialmente la cooperazione tra i due Stati, la Commissione parlamentare sull’attività delle Ong e, da ultimo, la scelta di prevedere un “codice di condotta per le Ong impegnate nelle operazioni di salvataggio dei migranti in mare” (luglio 2017)”. Fatti ai quali sono seguiti i decreti Salvini, quello Lamorgese e infine quello Piantedosi, tutti nell’ottica di togliere ossigeno alle Ong. La critica “riguarda il fatto che la loro attività non consisterebbe, semplicemente, nel soccorrere persone in pericolo, ma comprenderebbe, a monte, il pattugliamento delle acque marittime, alla ricerca di imbarcazioni da soccorrere”, con lo scopo “di aprire corridoi per l’ingresso (irregolare)”, di fatto incentivando “le partenze delle coste nordafricane”. Un presupposto falso, però: “Tale costrutto - scrivono gli avvocati - non è fondato giuridicamente e soprattutto non determina alcuna responsabilità penale in capo ai membri degli equipaggi”. In primis, “la libertà di navigazione in alto mare” è un diritto internazionalmente riconosciuto e “nessun trattato contempla un divieto espresso di condurre attività di ricerca prodromica al soccorso”. Anzi, le convenzioni Solas e Sar chiariscono “che le questioni relative alla salvaguardia della vita in mare hanno la precedenza rispetto a quelle relative allo status giuridico dei naufraghi”. Per quanto riguarda l’argomento del “pull factor”, “è stato accertato come non vi sia corrispondenza tra maggiore presenza delle navi delle Ong in mare e aumento del numero delle partenze, quest’ultimo dato essendo prevalentemente collegato alle previsioni metereologiche e a fattori geopolitici (in particolare, situazioni di instabilità nei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo) che nulla hanno a che vedere con l’intensità delle attività di soccorso”. Quello che invece è certo è l’obbligo dei comandanti delle navi - pubbliche o private - “di prestare immediatamente soccorso alle persone che si trovano in condizioni di pericolo, indipendentemente dal modo in cui siano venuti a conoscenza della situazione”. Oggi e domani si tornerà in aula con i legali di Save the Children e Medici Senza Frontiere, tra i quali l’avvocata Alessia Angelini. La sentenza è prevista il 19 aprile. Migranti. La domanda di asilo per intervenuta conversione religiosa non è abusiva in sé Il Sole 24 Ore, 1 marzo 2024 Il richiedente che aderisce a diverso credo dopo aver lasciato il Paese d’origine non può vedersi respinta la richiesta in base a un automatismo. Va valutata la non strumentalità della scelta. Con la sentenza sulla causa C-222/22 la Corte di giustizia dell’Unione europea ha affermato l’illegittimità del respingimento pressoché automatico della domanda di asilo fondata sui rischi connessi alla conversione religiosa del richiedente asseritamente avvenuta dopo che lo stesso aveva già lasciato il proprio Paese di origine. Da tali circostanze la domanda non può essere bollata come abusiva senza ulteriori verifiche. Il caso a quo - Un cittadino iraniano, la cui prima domanda di protezione internazionale era stata respinta dalle autorità austriache, ha presentato sempre in Austria una nuova domanda “reiterata”. Lo straniero affermava di essersi convertito “nel frattempo” al cristianesimo e temeva pertanto di essere perseguitato nel suo Paese d’origine. All’interessato è stato successivamente concesso il beneficio della protezione sussidiaria e un diritto di soggiorno temporaneo. Infatti, le autorità austriache hanno constatato che egli aveva dimostrato in modo credibile di essersi convertito “per intima convinzione” al cristianesimo in Austria e che praticava attivamente tale religione. Per questo motivo, egli correva il rischio di essere esposto, in caso di ritorno in Iran, a una persecuzione individuale. Però le stesse autorità austriache hanno rifiutato di riconoscere all’interessato lo status di rifugiato, in quanto per il diritto nazionale il riconoscimento dello status di rifugiato in base a una domanda reiterata è subordinato alla condizione che la “nuova circostanza” determinata dal comportamento del richiedente sia espressione e continuazione di una convinzione già manifestata nel Paese di origine. Il giudizio della Cgue - La Cgue ha risposto negativamente al giudice austriaco che chiedeva se tale condizione fosse compatibile con il diritto Ue. La cosiddetta direttiva “qualifiche” non consente di presumere che qualsiasi domanda reiterata basata su circostanze determinate dal richiedente stesso dopo la sua partenza dal paese d’origine derivi da un’intenzione abusiva e di strumentalizzazione della procedura di riconoscimento della protezione internazionale. La Cgue afferma quindi che “qualsiasi domanda reiterata deve essere valutata individualmente”. Pertanto, se si constata, come nel caso di specie, che l’interessato ha dimostrato in modo credibile di essersi convertito “per intima convinzione” e di praticare attivamente tale religione, ciò è tale da escludere l’esistenza di un’intenzione abusiva e di strumentalizzazione della procedura. Se un tale richiedente soddisfa le condizioni previste dalla direttiva per essere qualificato come rifugiato, deve essergli riconosciuto tale status. Le conseguenze della strumentalizzazione - Per contro, precisa la Cgue, se vengono accertate un’intenzione abusiva e una strumentalizzazione della procedura, il riconoscimento dello status di rifugiato può essere negato anche quando l’interessato teme a ragione di essere perseguitato nel suo Paese d’origine, come conseguenza delle circostanze che egli stesso ha determinato. Egli conserva tuttavia, in tale ipotesi, la qualità di rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra. In tal caso, l’interessato deve beneficiare della protezione garantita da tale convenzione, che vieta in particolare l’espulsione e il respingimento verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo, segnatamente, della sua religione. Gaza, gli spari sulla folla di civili e il pressing USA su Netanyahu: lo scenario che preoccupa Washington di Lorenzo Vita Il Riformista, 1 marzo 2024 La strage di Gaza è l’ultima tragica conferma: la situazione umanitaria nella Striscia si fa sempre più difficile. Ieri, una folla di palestinesi è rimasta uccisa mentre ha preso d’assalto decine di camion carichi di aiuti. Le forze armate israeliane hanno comunicato che i soldati hanno sparato in aria dei colpi d’avvertimento, ma anche proiettili contro chi si stavano dirigendo i camion o era ormai troppo vicino ai mezzi delle Israel defense forces. Da quel momento, da quando sono stati avvertiti i colpi delle Idf, è iniziato l’inferno. Più di cento vittime - Per Israele, i morti per arma da fuoco sono stati circa dieci. Le altre decine di vittime (secondo le autorità della Striscia sono più di cento) sarebbero invece rimaste travolte dai camion o dalle persone in fuga. Una versione confermata anche da alcuni testimoni oculari e da un giornalista palestinese che ha parlato alla Cnn, Kahdeer al Zàanoun, che ha detto che “la maggior parte dei morti sono stati travolti dai camion durante il caos e mentre cercavano di scappare dal fuoco israeliano”. Il massacro ha fatto scattare le indagini interne alle forze armate, ma anche l’ennesima presa di posizione della comunità internazionale, a partire dagli Stati Uniti. Il presidente Joe Biden ha detto di non avere risposte riguardo alla strage (per il portale Axios l’amministrazione Usa ha chiesto spiegazioni al governo israeliano) ma ha ammesso che la tragedia può avere ripercussioni negative sui negoziati in corso. “La speranza è l’ultima a morire, sono stato al telefono con persone nella regione, probabilmente non lunedì, ma ho speranza”, ha continuato il capo della Casa Bianca. Pressione elevata - Una dichiarazione che, se da un lato mostra la volontà di proseguire l’impegno nel raggiungere un accordo, dall’altro lato certifica che quell’auspicio di arrivare entro il fine settimana a un’intesa sia ormai da considerare più che remoto. Mentre Izzat al-Rishq, uno dei dirigenti di Hamas, ha detto ad Al Jazeera che il suo gruppo non lascerà che le trattative “attraverso cui cerchiamo di porre fine alle sofferenze umane del nostro popolo, causate dall’occupazione, diventino una copertura per i crimini del nemico contro il nostro popolo nella Striscia di Gaza”. Per il governo di Benjamin Netanyahu, la pressione a questo punto diventa sempre più elevata. Ieri, il segretario alla Difesa degli Stati Uniti, il generale Lloyd Austin, in un’audizione alla Camera ha detto che i morti civili nella Striscia, tra cui donne e bambini, sono circa 25mila. Un numero estremamente alto, abbastanza in linea con quanto affermato anche dalle stesse autorità locali, e che indica che anche da parte del Pentagono vi è la volontà di porre l’accento sugli effetti dell’azione militare israeliana scattata dopo la strage del 7 ottobre. Ma l’esecutivo di Bibi non sembra al momento intenzionato a fare marcia indietro. L’allarme sul Libano - Il ministro della Difesa, Yoav Gallant, ha confermato proprio ieri che le truppe sono pronte ad avanzare verso Rafah, città dove sono rifugiati più di un milione di palestinesi provenienti dalle altre aree della Striscia. “Ci stiamo avvicinando ad Hamas. Ci stiamo preparando ad agire a Rafah, così come nelle zone centrali, per raggiungere la fase successiva che decideremo in base alle nostre priorità”, ha detto il ministro, “utilizziamo le informazioni che abbiamo recuperato dagli archivi di Hamas. Ci sono enormi quantità di informazioni che abbiamo raccolto nei luoghi che abbiamo raggiunto, computer, dischi rigidi, server e altro. Tutte queste informazioni vengono decodificate, utilizzate per distruggere i tunnel e i centri nevralgici di Hamas”, ha dichiarato Gallant secondo il Times of Israel. E mentre gli occhi dello Stato ebraico si rivolgono all’ultima città a sud della Striscia, gli Usa lanciano l’allarme anche sul Libano. Il timore di Washington è che Israele possa dare il via a un’operazione militare su vasta scala contro Hezbollah entro la tarda primavera o l’inizio dell’estate. Uno scenario che preoccupa gli Usa ma soprattutto Beirut. Stragi Nato in Libia, una breccia si è aperta di Marinella Correggia Il Manifesto, 1 marzo 2024 Documenti desecretati. La Danimarca ha ammesso la partecipazione dei suoi aerei ai raid che causarono vittime civili. Khaled el Hamedi, unico sopravvissuto della sua famiglia, può ancora sperare di avere giustizia. Torna l’attenzione sui civili uccisi dai bombardamenti Nato in Libia nel 2011 durante l’operazione “Protettore unificato”. Nel 2012, un documento del comando militare danese aveva ammesso il ruolo dei propri F16, insieme a quelli di un altro paese, in alcuni attacchi che secondo inchieste svolte al tempo da commissioni Onu e da alcune ong avevano fatto vittime civili. Ma era rimasto segreto. Solo di recente il documento è stato desecretato. Una causa contro l’Alleanza, portata avanti da Khaled el Hamedi, che aveva perso tutta la famiglia, era finita nel 2017 davanti a un tribunale del Belgio (sede dell’Alleanza militare) che aveva dichiarato di non avere giurisdizione. Ma la prima ammissione di responsabilità da parte di un singolo paese Nato potrebbe cambiare le cose. Alcuni parenti delle vittime avranno qualche chance di ottenere una compensazione e delle scuse. Una breccia nell’impunità. Ma molti altri episodi di quella guerra rimangono nell’ombra. L’Italia - che offriva anche le basi agli altri paesi Nato - ha mai condotto un’indagine del genere? “Dunque è stata la Danimarca”. Dopo oltre 12 anni di attesa da quando la sua famiglia era stata sepolta da un bombardamento aereo a Sorman, il cittadino libico Khaled Khweldi el Hamedi ha reagito con queste parole alla lettura di un documento militare danese risalente al maggio 2012 e finalmente desecretato e divulgato. All’epoca il comando militare del paese scandinavo aveva incrociato la lista delle proprie operazioni aeree in Libia nel 2011 con le inchieste sulle vittime civili dei bombardamenti, condotte da Nazioni unite e gruppi per i diritti umani, trovando corrispondenza in quattro episodi. Così, le autorità danesi comunicavano all’Alleanza atlantica: “I nostri aerei hanno partecipato ad alcuni specifici attacchi, elencati fra quelli che avrebbero causato vittime civili”. Insomma: dal 2012 sapevano, ma non hanno detto nulla, fino a pochi giorni fa. Già nel luglio 2011, Tripoli aveva presentato un elenco con oltre mille nomi di vittime civili dell’operazione “Protettore unificato” che il Patto atlantico, strumentalizzando incaute risoluzioni del Consiglio di sicurezza Onu, aveva avviato a marzo e che si sarebbe conclusa a ottobre. L’arrivo al potere dei “ribelli” archiviò i tentativi di body count. Il documento-ammissione danese del 2012 riemerge solo quando il giornalista Rasmus Raun Westh, appellandosi a una norma sulla libertà di informazione, a forza di chiedere ottiene risposta. Decine di pagine. Naturalmente, il comando militare nell’atto non confermava né escludeva le vittime civili (è la prassi consolidata in questi casi); ma ammetteva che i suoi F16 erano stati della partita. La Danimarca si è impegnata a ricercare le ragioni della mancata indagine pubblica dopo la pubblicazione su The Guardian dell’inchiesta giornalistica svolta da Westh, dal suo collega britannico Joe Dike e dall’esperta forense libanese Maia Awada (con il sostegno di Journalismfund.eu e insieme ai siti Altinget e Airwars). I tre hanno dedicato mesi alla ricerca dei parenti delle vittime negli episodi “danesi”. In particolare, non è stato facile arrivare a Khaled el Hamedi. El Hamedi aveva perso moglie e figli moglie e figli sotto le bombe. In tutto 12 morti, fra parenti e amici, il 20 giugno 2011. Secondo la Nato, l’isolata abitazione era un “target militare legittimo in quanto segnalato come centro di azione e comando pro Gheddafi” (fatto negato dai superstiti e privo di conferme; in ogni caso l’evidente presenza di civili avrebbe dovuto impedire l’attacco, sulla base del diritto umanitario bellico). Un altro episodio si riferiva a un palazzo a Sirte, gli altri due a Tripoli. Dinamiche simili, soffiate e incuria. Al tempo, il ricercatore di Human Rights Watch Sidney Kwiram aveva cercato spiegazioni presso la Nato, a Napoli. Muro di gomma. Adesso Marc Garlasco, che aveva guidato l’indagine Onu in Libia, ritiene “molto significativa” l’inchiesta basata sul documento danese desecretato. Finora, nessun paese aveva accettato il collegamento fra i propri aerei e un bombardamento specifico. Un muro che Khaled, ora residente al Cairo, aveva provato a scalfire. Dopo il lutto e lo smarrimento creò l’associazione “Vittime della Nato in Libia”; il suo avvocato, il belga Ian Fermon, portò il caso in Belgio, sede legale dell’Alleanza atlantica. Naturalmente all’epoca era impossibile sapere chi avesse “operato” a Sorman, dei dieci paesi coinvolti nell’operazione libica: Usa, Regno unito, Francia (la grande iniziatrice, con Sarkozy), Danimarca (paese molto attivo anche perché patria dell’allora segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen), Italia (oltre a partecipare alle operazioni, forniva anche le basi di partenza - Berlusconi nicchiò, la Lega anche, ma nessuno si dimise), Belgio, Norvegia (ritiratasi dopo 4 mesi), Usa, Canada, nonché due monarchie del Golfo, Qatar ed Emirati. Una particolarità delle moderne coalizioni militari internazionali è che quando le operazioni sono condotte in modo collettivo, le richieste di risarcimento per danni ai civili possono essere rivolte solo a singoli Stati membri dell’Alleanza. Al tempo stesso, in quasi tutti i casi, gli attacchi vengono condotti ufficialmente dalla coalizione nel suo insieme; lo Stato membro non è nominato. Diventa allora una mission impossible cercare il responsabile: occorrerebbe sapere quale Stato ha colpito, ma la coalizione nel suo insieme tace. Un omertoso “meccanismo per organizzare l’impunità”, secondo Ian Fermon. La Corte d’appello di Bruxelles, infatti, il 23 novembre 2017 aveva dichiarato di non avere giurisdizione. E ora? Khaled sembra intenzionato a presentare il suo caso in Danimarca. Nel comunicato stampa dopo la rivelazione ha scritto: “La nostra causa è giusta ed è stata oscurata a lungo. Sono state tante le vittime dai missili Nato. Cerchiamo la verità. Un raid uccise perfino un gruppo di leader religiosi, in viaggio per mediare la pace fra i fratelli libici schierati su sponde opposte. Le organizzazioni per i diritti umani e i cittadini dei paesi coinvolti facciano pressione sui loro governi affinché le responsabilità vengano alla luce”. Il comando militare danese indica la presenza di aerei di un altro Stato nell’operazione su Sorman, ma ne occulta il nome. E il mistero rimane anche su molti altri casi, diversi da quelli ammessi dalla Danimarca. A Mejer, chi bombardò ad esempio? Fra l’8 e il 9 agosto, a sud di Zliten, 85 civili, compresi i soccorritori, caddero sotto le bombe sganciate in rapida sequenza. La Nato pochi giorni prima aveva impunemente dichiarato che anche obiettivi civili erano legittimi se potevano nascondere militari pro-Gheddafi. Così furono distrutte Sirte e Bani Walid, si tollerò la deportazione degli abitanti di Tawergha (uccisi o cacciati dagli armati di Misurata), tanti lavoratori subsahariani sparirono nel caos della guerra, altri furono ritrovati cadaveri (per esempio quelli annegati in mare perché che la Nato non soccorse il loro barcone, come l’Onu stessa aveva chiesto). Per non parlare del crollo di un intero Stato e della diffusione delle spore jihadiste ben armate che da anni lacerano diversi paesi africani.