Suicidi in carcere, Mattarella: “Servono interventi urgenti” di Ugo Magri La Stampa, 19 marzo 2024 “Le carceri scoppiano”, aveva alzato la voce il presidente della Repubblica non più tardi del 31 gennaio scorso. Da quel suo richiamo però nulla è successo, a parte purtroppo una dozzina di ulteriori suicidi tra i detenuti che portano a 26 il totale di quanti si sono già tolti la vita da inizio anno: come dire in media uno ogni tre giorni. Di questo passo verrà agevolmente superato il triste record del 2022 quando i suicidi in carcere furono 85. Ecco perché Sergio Mattarella c’è ritornato su con forza e in termini parecchio espliciti. L’occasione gliel’ha offerta, come spesso accade, un anniversario. Cadevano ieri i 207 anni dalla nascita del Corpo di Polizia Penitenziaria, ricordati al Quirinale con una cerimonia. Il capo dello Stato ne ha profittato per sollecitare passi concreti. Occorre intervenire sul sovraffollamento carcerario e “sopra ogni cosa sull’assistenza sanitaria” negli istituti di pena che, come ha denunciato l’ultimo Rapporto Antigone, è in grave deficit. Basti dire che, dei circa 6 mila detenuti con problemi psichici, solo il 4 per cento vengono curati. “Il numero dei suicidi nelle carceri dimostra quanto sia importante e indispensabile affrontarlo immediatamente e con urgenza”, suona la sveglia Mattarella: un appello a rimboccarsi le maniche che interpella tutte le istituzioni alle quali spetta assumere, precisa, “i provvedimenti necessari”. Verrà ascoltato almeno stavolta? Mattarella, va precisato, non ce l’ha affatto con la polizia penitenziaria, spesso al centro di polemiche e anche di inchieste; le rivolge semmai un elogio per l’impegno “assolto con grande dedizione, con grandi sacrifici e professionalità”, spesso al di là dei propri specifici compiti di vigilanza e di sicurezza. Il presidente considera gli agenti di custodia anch’essi vittime delle condizioni inumane di vita nei nostri penitenziari, dove sono attualmente ammassati all’incirca 62 mila detenuti con una preoccupante tendenza all’aumento. Per invertire la rotta il governo punta moltissimo sull’edilizia carceraria che però, notoriamente, richiede tempo; nell’immediato scommette sul recupero di vecchie caserme in disuso, da trasformare in colonie penali. Nel frattempo la maggioranza persegue la sua linea securitaria che consiste nell’aggravare le pene e nel moltiplicare i reati punibili con la detenzione laddove, secondo molti esperti del settore, bisognerebbe procedere in direzione opposta, evitando di sanzionare con il carcere certi reati minori. Le proposte non mancano. Ad esempio secondo Riccardo Magi, segretario di +Europa, sarebbe di grande aiuto istituire le Case di reinserimento sociale che accolgano chi deve scontare meno di 12 mesi di pena. Rappresenterebbero una valvola di sfogo. Mattarella ovviamente non entra nel merito delle possibili risposte all’emergenza. Ma bisogna agire in fretta, chiarisce, “per rispetto dei valori della nostra Costituzione e della dignità di chi, negli istituti carcerari, lavora e vi è detenuto”. L’aveva già detto un mese e mezza fama, in questi casi, repetita iuvant. Suicidi in carcere: domani a Roma le Camere penali denunciano la strage di Andrea Cavaliere Corriere della Sera, 19 marzo 2024 I recenti casi di cronaca ci ricordano il fallimento totale della finalità rieducativa della pena e del sistema penitenziario. Togliersi la vita in carcere a 20 anni il giorno del proprio compleanno rappresenta il fallimento totale della finalità rieducativa della pena e del sistema penitenziario, proprio nei confronti di chi, per la giovane età, avrebbe tutte le possibilità e il diritto di porre rimedio ad un proprio errore e, dopo aver scontato la pena, riprendere una vita normale. Ma questo è solo il più toccante dei 25 suicidi avvenuti dall’inizio del 2024, uno ogni 72 ore, che hanno riguardato quasi sempre detenuti prossimi alla fine della pena o ancora in attesa di giudizio, reclusi per reati non particolarmente gravi, tutti comunque ridotti in uno stato di disperazione e di abbandono, a dimostrazione del fatto che le condizioni di oggettiva illegalità per carenza dei minimi presidi igienici, sanitari e psichiatrici nelle quali sono costretti a vivere sono insopportabili. È proprio lo scandalo di una condizione carceraria lontana da ogni minimo standard di decenza e di umanità che deve richiamare la politica alle proprie responsabilità al fine di superare questo momento emergenziale determinato dalla condizione di sovraffollamento; l’azione politica dovrà poi proseguire con un intervento strutturale che porti ad una riforma del sistema penitenziario in grado di “rieducare” davvero i detenuti come recita l’articolo 27 della Costituzione. Anche per questo motivo a Roma, il 20 marzo, si terrà la manifestazione nazionale organizzata dall’Unione delle Camere Penali per denunciare questa strage in atto, con l’intervento di tutte le associazioni sensibili a tale emergenza e dei rappresentanti della politica favorevoli all’adozione di strumenti immediati volti alla soluzione della crisi, affinché si possa realizzare l’obiettivo di arrestare con urgenza il terribile fenomeno dei suicidi in carcere, perché oggi non si tratta più di tutelare solo la dignità dei condannati, ma di preservarne la vita. È necessario poi raggiungere un risultato altrettanto importante e di più ampio respiro, ossia fare comprendere alla collettività che l’universo penitenziario, abbandonato a se stesso, rischia di essere trascinato all’interno di una deriva fatta di repressione e di disperazione e che solo quando la pena è scontata in modo umano e dignitoso il detenuto viene rieducato e reso migliore rispetto al momento del suo ingresso in carcere. La conseguenza di una modalità di detenzione corretta è che per tutti i reclusi, una volta scontata la pena e rientrati in società, il rischio di recidiva sarà bassissimo, e, pertanto, la assolutamente legittima richiesta dei cittadini di maggior sicurezza troverà un riscontro immediato e positivo. Dramma delle carceri, il grido di Turati e quei 120 anni trascorsi inutilmente di Francesco Petrelli Il Riformista, 19 marzo 2024 Sono trascorsi esattamente centoventi anni da quel 18 marzo 1904 quando Filippo Turati pronunciò davanti al Parlamento il suo famoso discorso di denuncia sulle condizioni delle carceri italiane. Vi sono, in quel discorso, passaggi di straordinaria e impressionante attualità: “L’attuale regolamento - diceva Turati pronunciando quella sua drammatica requisitoria - si fonda essenzialmente su due concetti antitetici: da un lato l’intenzione di atterrire e deprimere il condannato, di fargli sentire la potenza enorme dello Stato vindice; questo è il lato innegabilmente feroce del Regolamento; ma di contro a questo, che è il lato in ombra… vi è nel Regolamento tutta una serie di precetti intesi poi a confortare il condannato, ad elevarlo … senonché, come è molto più facile rinchiudere un condannato, spaventarlo, brutalizzarlo, che non educarlo e farne un uomo nuovo; come la ferocia non richiede né intelligenza, né fatica, né mezzi pecuniari, è avvenuto che tutta la parte brutale, quella in cui sopravvive lo spirito della vendetta sociale contro il disgraziato che è nelle carceri, è larghissimamente applicata; tutta la parte, invece, che rispecchia il dovere dello Stato a provvedere alla redenzione del colpevole, è rimasta lettera morta”. Non una soluzione ma un luogo problematico - C’è da chiedersi di fronte a tale persistenza dei fenomeni quale sia la ragione di questa vischiosità, il motivo profondo di quel rimanere incagliati nella incapacità di sottrarre il sistema carcere nel suo complesso a questo stato di cose. Non che manchino le idee, le professionalità, le applicazioni virtuose. Ciò che manca è una condivisa convinzione che il carcere non sia una soluzione ma un luogo problematico sul quale investire soprattutto in termini di pensiero. Manca la sana prospettiva che quel luogo riguardi tutti noi cittadini perché specchio della nostra cultura collettiva, della nostra vita e della nostra visione del mondo. Che l’attuazione dei princìpi costituzionali non sia una strada in discesa è cosa nota, ma certo non giova ad una idea progressiva di rieducazione, nata - come ci ha ricordato di recente Giovanni Fiandaca - dall’incrocio dell’articolo 27 con l’articolo 3 della Costituzione, quella congerie di slogan escogitati negli ultimi anni che hanno invece trasformato la pena in carcere ed il carcere in un luogo il più possibile astratto e distante dalla società civile, in un contenitore di uomini sui quali riversare il rancore e il risentimento sociale. Una faticosa mutazione - Risuona nelle parole di Filippo Turati tutto lo sconforto di un’epoca che sembrava già percepire come quell’istituzione covasse in sé il germe del suo stesso fallimento, proprio in quanto geneticamente incline a riprodurre e conservare solo “quella parte brutale” della privazione della libertà “in cui sopravvive lo spirito della vendetta sociale contro il disgraziato che è nelle carceri”. Ma oggi quella divaricazione si è oggettivamente ampliata, perché mentre quella parte brutale si è attestata ubiquamente nel sentire comune, l’altra, quella relativa al “dovere dello Stato a provvedere alla redenzione del colpevole”, è finita in un vicolo cieco. Quella doverosa azione dello Stato, che non è più emenda, ma rieducazione o meglio ancora risocializzazione, stenta a darsi una forma compiuta, non riesce a farsi rappresentazione sociale, ingabbiata com’è in una insensata banalizzazione di improbabili schieramenti divisi fra buonisti e rigoristi, fra “amici dei mafiosi” e “buttare via le chiavi”. Come sempre accade, l’assenza di riforme coraggiose e lungimiranti che aspirino al superamento della forma “carcere”, induce anche oggi a presidiare l’esistente, a privilegiare le circolari (e le rispettive interpretazioni), le prassi e i regolamenti la cui applicazione finisce progressivamente con il disumanizzare, complice il sovraffollamento, i rapporti fra operatori e detenuti, fra l’interno e l’esterno. Accade così che si estenda anche la forbice fra i diritti affermati o ri-affermati dal Giudice delle leggi e la loro effettiva attuazione, che si fa sempre più un miraggio per i più, in quanto comunque segnata dall’ineguaglianza delle condizioni esistenti fra istituto e istituto. Così come già accade per la tutela della salute, per l’assistenza psichiatrica, per la fruizione dei diritti o dei “benefici” amministrati dalla magistratura di sorveglianza. 120 anni inutilmente trascorsi - Cresce in questo contesto, in mancanza di progetti e di risposte, quel sentimento di disumanizzazione, di arbitrarietà dei destini, quella “disperazione oggettiva” di cui sono il drammatico segnale gli innumerevoli suicidi susseguitisi in questi ultimi mesi in una atroce sequenza senza fine che non distingue i detenuti per età e per titolo detentivo. Quei centoventi anni inutilmente trascorsi da quel lucido discorso di denuncia, se pesano come un macigno sulle nostre coscienze per non essere riusciti a sottrarre il carcere all’inumanità e al degrado, dovrebbero tuttavia disvelarci un’altra verità. Che non possiamo chiedere alla cruda privazione della libertà, a quell’orribile e ottuso dispositivo “intramurario”, di torcersi in ciò che non può essere e non può diventare. Quei centoventi anni inutilmente trascorsi ci devono imporre una scelta non più rinviabile, quella di una riforma culturale coraggiosa che abbandoni l’idea della costruzione di nuove carceri e che sia invece premessa della realizzazione di nuove idee e di nuovi percorsi della penalità. Dobbiamo convincerci del fatto che quelle strutture, nate esclusivamente per la somministrazione di una pena illuministicamente e kantianamente retributiva, non sono adatte al conseguimento di finalità alternative costituzionalmente orientate. Conviene prendere atto di una banale verità, che tutto ciò che di buono riescono con fatica e dedizione a fare i direttori, gli operatori, il personale intero e la stessa polizia penitenziaria all’interno del carcere, viene fatto, a ben vedere, nonostante e contro il carcere. Capienza “tollerabile”. Ma tollerabile da chi? di Rita Bernardini L’Unità, 19 marzo 2024 Il minimo sindacale è la riduzione del sovraffollamento carcerario. Ha ragione l’Ucpi: non c’è più tempo. Mi vergogno di dire “ti amo” a mia moglie perché durante la videochiamata lo devo pronunciare davanti a tutti; non c’è alcuna riservatezza, è una gran confusione, ognuno ascolta quel che dicono gli altri. Accade nel carcere di Catania-Bicocca a pochi giorni di distanza dalla sentenza n.10/24 della Corte costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità del divieto assoluto di colloqui intimi tra detenuti e familiari riconoscendo il diritto all’affettività e alla sessualità in carcere. Al Carcere di Bicocca, non è garantita nemmeno la possibilità di dichiarare il proprio amore al coniuge. Non ci sono spazi, ci dicono gli operatori durante la visita di Nessuno tocchi Caino, abbiamo dovuto mettere queste sei postazioni una attaccata all’altra e senza insonorizzazione. Quello descritto è un piccolo fatto rispetto a ciò che accade quotidianamente nei 189 istituti penitenziari italiani: morti, suicidi, atti di autolesionismo, violenza, sovraffollamento, mancanza di cure, trattamento risocializzante quasi inesistente, ma credo sia comunque indicativo di quella afflittività gratuita, quel di più di dolore rispetto alla privazione della libertà, che si respira e vive in carcere. In questo recente viaggio della speranza in Sicilia, a proposito di sovraffollamento, mi è capitato di sentir pronunciare l’espressione “capienza tollerabile” sia da parte di un direttore che di un magistrato di sorveglianza. Tollerabile da chi? Le nostre istituzioni sono obbligate a riferirsi solo alla capienza regolamentare prevista dalle leggi; eppure, non mancano (per fortuna sono rari) suoi rappresentanti che dimostrano di non aver compreso né il portato della sentenza Torreggiani del 2013 con cui la Corte EDU condannò il nostro Paese per sistematici trattamenti inumani e degradanti, né tantomeno il semplice principio di legalità, tanto più stringente quando sono in gioco diritti umani fondamentali. Il minimo sindacale da richiedere subito è la riduzione del sovraffollamento che, unito alla carenza di ogni professionalità che ha a che fare con il carcere, è la causa primaria dei trattamenti condannati in sede europea. In Italia si registrano 14.000 persone detenute in più rispetto alla ricettività “legale” e, secondo l’Associazione Antigone, sono più di 4.000 ogni anno i detenuti “risarciti” per trattamenti inumani e degradanti dai nostri tribunali e questo, nonostante i diversi orientamenti della magistratura di sorveglianza e nonostante il fatto che non tutti i detenuti che ne avrebbero diritto presentino le relative istanze. Se, come prevedibile, la popolazione detenuta continuerà ad aumentare al ritmo di 400 detenuti in più al mese, dai 61.000 detenuti registrati al 29 febbraio, passeremo alla fine dell’anno a 65.000 reclusi. È questo che si vuole? Si vuole arrivare alla fine del 2024 con il record dei detenuti suicidi in Europa? Non va trascurato in alcun modo anche il disagio vissuto dagli agenti di polizia penitenziaria in forte carenza di organico. In questi primi due mesi e mezzo anche tre di loro si sono tolti la vita. Noi percepiamo la loro sofferenza quando andiamo in visita in carcere: sono gli unici lavoratori penitenziari a contatto stretto con i detenuti; su di loro si riversano tutte le inefficienze del sistema, spesso costretti a vivere nel degrado e a doversi far carico degli eventi critici che costantemente si verificano… Per tutti questi motivi, saremo presenti alla manifestazione convocata dall’Unione delle Camere Penali in Piazza Santi Apostoli a Roma alle ore 14 mercoledì 20 marzo e, come Nessuno tocchi Caino, ci teniamo a ringraziare il Presidente Francesco Petrelli per aver inserito nella piattaforma della mobilitazione dal titolo “Non c’è più tempo”, oltre alla sacrosanta richiesta di Amnistia e di Indulto, anche la nostra proposta di legge sulla riforma della “liberazione anticipata speciale e ordinamentale” incardinata a Montecitorio grazie all’opera di Roberto Giachetti e al coinvolgimento delle forze di maggioranza e di opposizione. Il Satyagraha 2024 prosegue fino a che un provvedimento concreto non vedrà la luce: ci saranno altri scioperi della fame e forse della sete perché è vero quel che dice l’UCPI, non c’è più tempo: occorre far vivere il diritto che è vita concreta e dignità per la democrazia del nostro Paese. Luciana Littizzetto scrive a Nordio: “Rendiamo le nostre carceri umane” Il Dubbio, 19 marzo 2024 A “Che Tempo che fa” la letterina di Luciana Littizzetto al ministro della Giustizia Carlo Nordio sul record di suicidi in carcere: “Chiediamo ai detenuti di cambiare, ma cosa abbiamo fatto noi in questi anni per cambiare il sistema?”. I dati allarmanti sui suicidi in carcere, 26 in meno di tre mesi, ora scuotono anche la Tv. A rompere il silenzio, sul piccolo schermo, è Luciana Littizzetto, la quale nella puntata di ieri di Che Tempo che fa, il programma di Fabio Fazio sul Nove, ha indirizzato la sua consueta “letterina” al guardasigilli Carlo Nordio. Al quale ha rivolto un appello sulle tragiche condizioni dei nostri istituti penitenziari, nei quali si registra un tasso di sovraffollamento del 128%. “Non ho una soluzione, ma so che qualcosa si può e si deve fare”, dice Littizzetto. Ecco il testo integrale della lettera. Caro Nordio, Nordio come il Polo Nordio. Caro Carlo, Fratello d’Italia, devoto Ministro della Repubblica italiana, uomo di spessore, bel tocco di toga, né rossa né nera, diciamo toga melange. Tu che siedi dietro una scrivania che è riuscita a passare da Togliatti a Bonafede senza cadere in depressione. Tu che devi dividerti tra Meloni e Salvini, fra la Presidenta de Noartri e il barbaro col mojito, hai tutta la mia solidarietà umana. Tu, che ho letto nel sito ufficiale del ministero della Giustizia, hai due gatti rossi: Rufus e Romeo Leonetto, come posso voler male a un uomo che chiama un gatto Romeo Leonetto. E quindi con tutta la delicatezza che posso, questa sera vorrei parlarti di carcere. Il tema più impopolare che ci sia in questo paese. Se ti proponessi, ministro, facciamo un bel dibattito sull’uso delle nacchere nella musica calabrese, riempiremmo i palasport e invece, solo a sentire la parola carcere il cervello della gente si affloscia. Questa settimana, purtroppo, un altro ragazzo si è tolto la vita: sono già 26 i suicidi nei primi 72 giorni di questo 2024, uno ogni tre giorni, dati più alti di sempre. Ma in carcere non muoiono soltanto i detenuti, ma anche i dipendenti del corpo di polizia penitenziaria. Dall’inizio dell’anno sono tre. Perché non si muore solo in carcere, si muore anche di carcere. Ma di questo pare che non gliene freghi una beata toga a nessuno. Caro Nordio, ti scrivo perché sento che questa è una vera e propria crisi umanitaria. Non ho una soluzione, ma so che qualcosa si può e si deve fare. In carcere ci vanno i cattivi, quelli che hanno sbagliato, quelli che hanno fatto del male e che devono pagare per fare giustizia alle vittime della loro prepotenza e della loro violenza. Giusto così. Tutti noi vogliamo tornare a casa tranquilli e non vivere come dentro i Guerrieri della notte. Però non basta stipare le mele marce e poi dimenticarsene. Ce ne siamo già dimenticati prima, di loro, e forse per questo sono finiti così. Un detenuto è un problema di tutta la società, non solo di quelli che in carcere ci lavorano. E non mi dica che sono una buonista. Al contrario sono egoista, perché un ambiente carcerario senza dignità, affollato, con 10mila detenuti in più rispetto ai posti letto, con direttori che cambiano di continuo, con una carenza di personale qualificato, senza prospettive, senza possibilità di reinserimento, non crea più sicurezza, anzi crea più insicurezza per tutti. Chiediamo ai detenuti di cambiare, ma cosa abbiamo fatto noi in questi anni per cambiare il sistema carcerario? Vogliamo riabilitare le persone e poi non muoviamo un dito. Siamo degli ipocriti. Bisogna metterli dentro e buttare la chiave, sento dire da ministri del governo. A parte che se butti la chiave poi la tua riunione di famiglia come la fai? Ma poi la prigione non è un pozzo dove buttare le chiavi. Al contrario, è un posto dove costruire chiavi per permettere a quante più persone possibili di uscire e trovare altre strade. L’articolo 27 della nostra Costituzione dice che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Se rinunciamo alla speranza che le persone possano cambiare, rinunciamo al futuro e questo è molto triste. Ho letto che la recidiva di quelli usciti dal carcere è quasi del 70%, il che dimostra quanto sia inutile il nostro attuale sistema. Chi esce di galera prima o poi finisce per tornarci. Ma il tasso di recidiva crolla al 2% per chi in carcere ha imparato un lavoro. Se la prigione ti offre una possibilità di cambiare, quindi, sei salvo. Lavoro, Nordio, non abbandono, ozio, annientamento e morte. Se n’era già accorto bene Don Gallo molti decenni fa, lui che di carcerati ne frequentava tanti. Sarebbe stato bello vedere la fiction su di lui, peccato che la Rai l’abbia cancellata. Ti saluto Nordio e scusa se ti do del tu, ma vorrei sentirti più vicino, so che ti trovi davanti un compito immane. Rendere moderne e umane le nostre carceri. Aiutaci a ricordare che chi va in galera ha sbagliato, ma non è sbagliato, come dice Don Gino Rigoldi: possiamo sempre ricominciare. Se siamo vivi, aggiungo io. Con immutata stima, sempre tua, incensurata Lucianina. Detenuti al lavoro per liberare le spiagge dalla plastica gnewsonline.it, 19 marzo 2024 Sono 9 gli Istituti penitenziari che aderiscono alla giornata ecologica di sabato 23 marzo organizzata da Plastic Free Onlus. Si rinnova così la collaborazione con Seconda Chance, associazione no profit che si occupa di realizzare accordi con il mondo dell’imprenditoria per creare opportunità di lavoro persone in esecuzione della pena. Circa 50 tra condannati in permesso premio, semiliberi e lavoranti esterni si uniranno a cittadini e volontari per dedicarsi alla pulizia di 6 spiagge del Centro Sud. Dal carcere di Secondigliano raggiungeranno la spiaggia di Castelvolturno, dagli istituti di Ancona Barcaglione e Montacuto quella di Portonovo. I detenuti di Palmi saranno coinvolti nella pulizia del lido cittadino assieme a quelli di Locri e di Laureana di Borrello, mentre a quelli provenienti dalle case circondariali di Livorno, Bari e Cagliari saranno affidati tratti delle spiagge delle rispettive città di provenienza. Come nelle precedenti esperienze i detenuti saranno accolti in punti di ritrovo da volontari della Plastic Free che li accompagneranno e guideranno anche nell’attività di pulizia. Alla raccolta possono contribuire tutti, i cittadini basta iscriversi www.plasticfreeonlus.it. La libertà al tempo delle pre-indagini: fingere di indignarsi è un modo per nascondere la realtà di Alessandro Barbano Il Riformista, 19 marzo 2024 A conferma di come nella nostra democrazia tutto finisce in giornalismo, o piuttosto in gogna, anche l’ultimo atto dello scandalo dei dossier fin qui noto si produce sulle pagine dei giornali. Del resto, il procuratore nazionale antimafia, titolare dell’apparato in cui lo scandalo è scoppiato, e il procuratore di Perugia, che sullo scandalo indaga, hanno riferito al Parlamento elementi di un’inchiesta appena iniziata. Non può stupirci che allo stesso modo facciano gli imputati, consegnando per il tramite dei propri legali la loro verità ai quotidiani. Il dibattimento è in corso, e molte cose sono state già accertate, dopo che il protagonista principale dell’inchiesta, il luogotenente Pasquale Striano, ha consegnato la sua versione ai colleghi de “La Verità”, come del resto ha fatto a stretto giro di posto anche il suo superiore gerarchico, Antonio Laudati, confidandosi con i colleghi de “La Repubblica”. In omaggio al principio per cui ognuno dei soggetti in campo ha la sua antimafia di riferimento. Investigativa, o piuttosto giornalistica. Tuttavia, anche se “La Verità” e “la Repubblica” stanno su bande opposte, i racconti incrociati ci consegnano un convergente versione. Che qui di seguito proviamo a sintetizzare. Le convergenze dei racconti - Primo. Qui non si parla di indagini, ma di quelli che i protagonisti chiamano dossier pre-investigativi. Questa distinzione lessicale e semantica smaschera la prima ipocrisia dell’inchiesta e del dibattito pubblico attorno allo scandalo. Gli indagati rispondono di accesso abusivo al sistema informatico, cioè di aver compiuto accertamenti che violano la riservatezza dei singoli in assenza di un’autorità giudiziaria che ne disponesse l’esecuzione e di una notizia criminis che li giustificasse. Dobbiamo prendere atto invece che l’Antimafia compie istituzionalmente accertamenti preventivi sulla vita e sull’attività professionale dei cittadini finiti nel radar del sospetto, dai quali solo successivamente può aprisi un’indagine penale. E in molti casi si apre invece un’indagine mediatica. Tutto questo può stupire gli ipocriti, ma non chi vuol ragionare dell’intera vicenda senza il prosciutto sugli occhi. Allo stesso modo con cui le volanti della polizia girano di notte nella realtà fisica a caccia di eventuali reati, interrogano confidenti e acquisiscono informazioni sull’attività di persone mai ufficialmente indagate, gli 007 informatici scandagliano il mondo virtuale a caccia di convergenze opache da cui possano derivare illeciti. All’Antimafia tutti sapevano? - Secondo: queste pre-indagini non erano clandestine, come vorrebbero far credere i vertici dell’Antimafia. Ma erano parte dell’attività per così dire istituzionale della struttura investigava che dal 2015 ha aggiunto ai compiti di contrasto al crimine quelli di lotta al terrorismo. Si tratta di verifiche compiute in una zona grigia della democrazia e, secondo quanto ha detto Striano a “La Verità”, in assenza di un verbale, proprio perché precedenti all’accertamento di una notizia di reato. Questi accertamenti erano conosciuti dentro tutta la catena gerarchica e spesso sollecitati dai superiori al luogotenente. Possiamo affermarlo mettendo a confronto le dichiarazioni di Striano con quelle di Laudati. Il primo dice che il secondo sapeva, il secondo dice che i vertici dell’Antimafia, cioè il procuratore generale, sapevano. Se applichiamo il modo con cui molti inquirenti validano le loro convinzioni processuali, cioè traendole da due testimonianze convergenti, possiamo desumere che all’Antimafia tutti sapevano. Ma siccome siamo garantisti, consideriamo per ora questa un’ipotesi solo probabile e nulla di più. Tutti probabilmente sapevano, e i vertici guidavano la catena informativa. Se i personaggi finiti nel mirino dell’inchiesta erano otto-nove volte su dieci uomini del centrodestra, c’è da presumere che la pre-investigazione avesse una connotazione politica. Coincidesse cioè, per opposizione, con la carriera dei procuratori nazionali antimafia, almeno degli ultimi due, e cioè Franco Roberti e Cafiero De Raho, transitati dall’apparato investigato alle aule parlamentari nelle file dei partiti di sinistra, Pd e Cinquestelle. Terzo. L’attività investigativa aveva scatenato quella che potrebbe definirsi una guerra tra bande all’interno della galassia antimafia, dove la rivalità tra i singoli centri di investigazione è effetto di un’autonomia insindacabile dal centro. Per fare solo un esempio, il luogotenente Striano racconta che “il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo, titolare dell’inchiesta sulla ‘Ndrangheta stragista, si era lamentato del fatto che alcune segnalazioni di operazioni sospette sui rapporti economici tra Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi gli fossero giunte da altri uffici, anziché dalla Procura nazionale antimafia. “Su richiesta di Melillo - dice ancora Striano - abbiamo solo verificato perché le segnalazioni dell’Antiriciclaggio non andassero a Reggio Calabria e io ho fatto un appunto e ho spiegato perché le cose andassero in quel modo. Alcuni accessi li ho fatti per dare queste spiegazioni”. La scontro tra Procure - Fin qui lo 007 “deviato”. Ci tocca ricordare che all’epoca la procura di Reggio Calabria rivaleggiava con quella di Palermo nella dimostrazione del teorema sulla trattativa Stato-mafia, cioè l’idea che, sotto la coltre dell’ufficialità, spezzoni deviati dello Stato e la mafia avessero intavolato uno scambio: l’attenuazione del regime carcerario per i boss perché finissero le stragi che insanguinarono l’Italia a cavallo tra la prima e la Seconda Repubblica. Secondo la procura di Reggio Calabria, sedici anni prima della sua discesa in campo con Forza Italia, Silvio Berlusconi se ne sarebbe andato in giro per gli agrumeti della Piana di Gioia Tauro con il suo amico Bettino Craxi a cercare i voti dei latitanti. La ricostruzione del pm Lombardo in aula, al processo sull’uccisione dei due carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo nel lontano 1994, avvalora le dichiarazioni di alcuni pentiti contenuti in una informativa della Direzione investigativa antimafia di Reggio Calabria del 2022. In cui, attorno alle vicende della ‘Ndrangheta reggina, è riscritta la storia di Italia e del mondo dal dopoguerra a oggi. Per dare un’idea di ciò che stiamo raccontando, c’è un capitolo intitolato “La politica estera filostatunitense e il suo declino: dal riformismo craxiano alla crisi di Sigonella”. Vi si afferma tra le altre cose che “alcune lobby di potere interne con frange deviate dei nostri Servizi avrebbero condizionato la rielezione del presidente uscente Carter, favorendo l’elezione di Ronald Reagan nelle presidenziali americane del gennaio 1981”. L’autore di questa rappresentazione distopica del mondo, costruita attorno alle trame delle cosche reggine, è il commissario capo Michelangelo Di Stefano, che in primo grado è stato chiamato a deporre nel processo sull’assassinio dei due carabinieri. Ha una passione per la storia, il commissario e dirigente dell’antimafia. Nel 2017 ha pubblicato il libro “Moti di regio del ‘70, le due facce della medaglia”, nel quale la saldatura tra ‘ndrangheta, eversione nera e Servizi deviati è assunta a paradigma narrativo dei moti calabresi. Poi quel paradigma avrebbe spiegato la storia d’Italia e i destini del pianeta. Nel libro “L’inganno”, pubblicato più di un anno fa, mi chiesi a che cosa servisse una procura nazionale antimafia, guidata da un magistrato di grande esperienza come Giovanni Melillo, se non poteva impedire che il discorso pubblico sulla mafia continuasse a essere “una fogna maleodorante di congetture, e che l’azione penale finisse per risultare, anziché un rimedio, un fattore di turbativa della democrazia”. Alla presentazione del libro, Melillo, che avevo invitato tra i relatori, attaccò frontalmente “L’inganno”, sostenendo il diritto dovere della magistratura antimafia di chiarire l’oscura genesi delle stragi di trent’anni fa. Questo mi pare basti a spiegare l’ideologia di un apparato cresciuto attorno a un pensiero forte di tipo congetturale che è, del resto, la matrice del pregiudizio della Trattativa Stato-mafia. Il fatto che la Cassazione lo abbia fatto a pezzi non ne prova la sua estinzione sul piano culturale. Una simile tendenza deviante della burocrazia investigativa è tanto più marcata quanto più l’apparato su cui poggia è privo di operatività effettiva. In queste condizioni, la Procura nazionale antimafia, che non può avocare a sé indagini delle singole procure e neanche svolgere compiti concreti di coordinamento, tende a strutturarsi come un servizio segreto a la page, che scambia informazioni e riconoscimento reciproco con gli altri poteri del sistema investigativo-mediatico. Oggi sappiamo che questo è probabilmente avvenuto sotto la gestione dei due procuratori Franco Roberti e Federico Cafiero De Raho. E che a queste deviazioni il loro successore, Giovanni Melillo, ha cercato di porre riparo. Se avesse il coraggio di ammettere le cose come stanno, anziché evocare il Grande Vecchio, renderebbe un miglior servigio al Paese. E veniamo al quarto e ultimo punto, quello che riguarda i giornalisti coinvolti. I quali riflettono, per evidente subalternità al moloch burocratico, le spaccature e le rivalità presenti nell’Antimafia. Si possono processare, fingendo però di ignorare che in qualunque democrazia che si rispetti i giornalisti sono autorità di ultima istanza del sistema dei poteri, e si muovono inevitabilmente in una zona grigia, senza la quale non avremmo mai conosciuto uno scandalo chiamato Watergate. Questo non vuol dire che i giornalisti coinvolti siano mammolette, soprattutto quando si provasse che abbiano approfittato dell’Antimafia come una sorta di redazione di approfondimento, commissionandole i dossier contro i nemici di turno. Ma anche in questo caso, discutibile da un punto di vista deontologico, i giornalisti, quando parlano male di qualcuno, rispondono secondo tre criteri definiti da una storica sentenza della Cassazione nel lontano 1985: e cioè verità dei fatti, utilità sociale alla conoscenza della notizia e continenza espositiva. Mettiamoci pure i limiti della privacy, che nel caso dei vip in questione risulta attenuata, e questo ci pare davvero il massimo che si può addossare alla responsabilità o piuttosto alla subalternità del giornalismo. Ma il marcio sta altrove. A volerlo cercare e vedere. Magari smettendola di gridare ai fantasmi e iniziando a discutere in Parlamento di che cosa sono diventate l’Antimafia e la polizia giudiziaria, che la rappresenta, al tempo in cui la tecnologia informatica consente agli investigatori di radiografare le viscere della democrazia. Se ci piace questa Repubblica di polizia, se la riteniamo necessaria a proteggerci dal terrorismo e dalle incombenti minacce della criminalità, teniamocela pure. Sapendo di che si tratta e a che cosa rinunciamo. Se invece, come a noi, non ci piace, non facciamoci infinocchiare dai tenutari del sistema, che difendono l’Antimafia per difendere se stessi, e riprendiamoci lo Stato di diritto. Dossieraggio, Laudati sceglie il silenzio: “Segreto violato” di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 19 marzo 2024 Il magistrato della Dna mette nero su bianco la sua decisione e punta il dito: “Su di me notizie false”. L’inchiesta per rivelazione del segreto ed accesso abusivo a sistema informatico che vede coinvolti, fra gli altri, il sostituto procuratore nazionale antimafia Antonio Laudati, l’ex maresciallo della guardia di finanza, poi promosso ufficiale, Pasquale Striano, e alcuni giornalisti del Domani, pare ormai destinata ad essere condotta sui quotidiani e non invece nelle sedi preposte, e quindi negli uffici giudiziari. Ieri mattina Laudati era atteso presso la procura di Perugia diretta da Raffaele Cantone dove, dopo aver ricevuto un invito a comparire, avrebbe dovuto essere sottoposto ad interrogatorio. All’ultimo momento, pero, il magistrato ha fatto sapere di volersi avvalere della facoltà di non rispondere. “Dopo la massiccia ed incontrollata diffusione di notizie coperte dal segreto istruttorio, ritengo che non sussistano, al momento, le condizioni per lo svolgimento dell’interrogatorio, peraltro ampiamente preannunciato alla stampa, per esercitare concretamente il diritto di difesa”, ha scritto Laudati, difeso dall’avvocato Antonio Castaldo, in una nota. “È in atto un ampio dibattito, su tutti i media nazionali, in cui mi vengono attribuiti fatti gravissimi (e sicuramente diffamatori) che risultano differenti da quelli contestati e dalla realtà che conosco”, ha quindi aggiunto Laudati, precisando comunque di aver agito sempre correttamente. Lo stesso Laudati, a tal riguardo, nei giorni scorsi aveva rilasciato diverse dichiarazioni ai media in cui sottolineava la sua completa estraneità ai fatti contestati, affermando che nessun accertamento “abusivo” era mai stato effettuato nei confronti del ministro della Difesa Guido Crosetto, dalla cui denuncia era nato il procedimento in questione. L’accesso nei confronti di Crosetto, in particolare, era stato effettuato dagli uffici della Guardia di Finanza del nucleo di polizia valutaria nell’ottobre 2022, sulla piattaforma della banca dati “Serpico” dell’Agenzia delle entrate, che non era in dotazione alla Dna. Ed era stato proprio Striano ad effettuarlo. Nel corso degli accessi abusivi era stata acquisita la dichiarazione dei redditi di Crosetto, con l’indicazione dei compensi ricevuti, e tale documento era stato pubblicato qualche giorno dopo sul Domani. L’indagine, inizialmente incardinata presso la procura di Roma, era stata allora trasmessa alla procura di Perugia, competente per i reati eventualmente commessi dai magistrati della Capitale, sulla base delle dichiarazioni di Striano. Sentito dagli inquirenti, il finanziere avrebbe affermato infatti che Laudati, da cui dipendeva funzionalmente nei tre giorni in cui prestava servizio a via Giulia, fosse a conoscenza del suo operato. “Se è così, si tratta di dichiarazioni sicuramente false ed eventualmente caratterizzate da un intento calunnioso, al solo fine di giustificare il suo comportamento individuato con l’accesso abusivo nei confronti del ministro Crosetto, paventando un inesistente modus operandi”, era stata la replica di Laudati in una delle sue innumerevoli dichiarazioni ai media. Striano, da parte sua, in questi giorni ha anch’egli rilasciato diverse interviste alla stampa, non si sa bene se autorizzato o meno dal Comando generale della guardia di finanza, per difendere l’attività svolta in questi anni alla Dna. Come se non bastasse, Striano si è anche lasciato andare a pesanti giudizi di valore sull’Antimafia, ritenuta di fatto un carrozzone che “non ha più motivo di esistere” e con investigatori “non in grado di fare le indagini”, ironizzando anche sull’età del procuratore nazionale Giovanni Melillo, che aveva affermato di non sapere cosa facesse. In tutto ciò si inserisce la quanto mai irrituale decisione di Cantone e dello stesso Melillo di essere ascoltati dalla Commissione parlamentare antimafia, dal Copasir e dal Comitato di presidenza del Csm. Una decisione che è stata stigmatizzata dal procuratore generale di Perugia Sergio Sottani, secondo il quale è necessario “il bilanciamento tra il doveroso diritto dell’opinione pubblica ad essere informata nella fase delle indagini ed il rispetto della presunzione d’innocenza”. Compito del pg, ha ricordato Sottani, è quello segnalare agli “organi competenti quelle che potrebbero apparite eventuali anomalie comportamentali nell’esercizio della funzione giurisdizionale”. L’indagine sul dossieraggio alla Dna, ed il suo incredibile corto circuito mediatico- giudiziario, sarà sicuramente destinata ad essere ricordata a lungo. Separazione delle carriere, il testo in Parlamento è il minimo sindacale di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 19 marzo 2024 La separazione delle carriere tra giudice e pubblico ministero rischia di diventare un feticcio di tipo amatoriale. Non per la storica divisione tra garantisti e forcaioli, tra riformatori e conservatori legati al sistema inquisitorio. Ma a causa delle incertezze e delle ambiguità all’interno di quello stesso mondo politico nelle cui mani questa bandiera dovrebbe essere tenuta saldamente. Non è in discussione la buona fede di nessuno. Ma una domanda va posta. È proprio necessario, a questo punto della discussione in Parlamento, che il governo presenti anche una propria proposta di legge? Sono forse carta straccia le indicazioni dei partiti, quelli che hanno la separazione delle carriere nel proprio programma, e il testo presentato dall’Unione delle Camere penali forte di 70.000 firme dei cittadini? Occorre essere chiari. La proposta in discussione in Parlamento è il minimo sindacale di riforma, dal momento che prevede che pm e giudice facciano parte dello stesso ordinamento e si distinguano solo per funzioni, carriere e organizzazioni, con i due Csm. Non prevede che i pm escano dall’ordinamento giudiziario e diventino avvocati dell’accusa. E neanche che debbano rispondere dei propri atti al ministro della Giustizia. Neppure si parla più di quel fondamento del processo accusatorio che dovrebbe essere il superamento dell’obbligatorietà dell’azione penale. Minimo sindacale sia, dunque. Ma che sia condiviso non solo a grandi linee anche dal governo. Perché qualunque tipo di “sfumatura” che venisse applicata a questi principi base farebbe precipitare la proposta nel mondo delle controriforme, cioè dell’inutilità. Quell’Olimpo ovattato dove vivono in tranquillità le toghe e le ex toghe abituate ai vezzeggiamenti di governi di vario colore ma di uguale subalternità. Si tratta di un mondo forte nelle proprie certezze, che ha avuto un robusto baluardo nella Corte costituzionale nei momenti successivi all’entrata in vigore del codice di procedura penale “tendenzialmente” accusatorio del 1989. E poi, via via, di aggiustamento in aggiustamento, di sfumatura in sfumatura, di doppio binario in doppio binario, ecco risorgere gran parte di quel sistema inquisitorio della cultura conservatrice, ma a volte reazionaria, che molta parte della magistratura non ha mai voluto abbandonare. Il vero punto centrale della separazione delle carriere è il giudice, e la difesa del suo ruolo e della sua terzietà. Ma non è secondaria l’anomalia tutta italiana con l’esistenza di un pubblico ministero sempre più potente e incontrollabile. Ma difeso con molta pervicacia dalla parte più esibizionista e mediatica della magistratura. A partire dal sindacato, con le mille toghe che in una petizione avevano indicato la riforma come “norma pericolosa”, fino ai cinquecento, non più giovani ma decisamente forti, pensionati che li avevano preceduti nella protesta. Il loro argomento più radicato è che qualunque riforma, da quella debolissima del referendum di Lega e radicali che accentuava la separazione delle funzioni, fino a quella oggi in discussione, metterebbe in discussione la “cultura della giurisdizione” di cui il pm sarebbe oggi portatore. Ma nessuno di tutti questi togati ha mai saputo né potuto rispondere alla più banale delle domande: conoscete dieci casi in cui la cultura della giurisdizione abbia indotto un pm a cercare le prove a favore dell’indagato, cui sarebbe obbligato per legge? Ma c’è anche un altro punctum dolens da cui temiamo che il governo possa farsi irretire, se non proprio intimidire. Ed è la paura, abilmente agitata dai conservatori, che questa riforma, con la divisione dei Csm, possa aprire la strada, o addirittura un’autostrada, ad allineare l’Italia, finalmente, alla civiltà di tutto il mondo occidentale, in cui non esiste un rappresentante dell’accusa irresponsabile, come è in Italia. E un giudice che purtroppo nel processo assomiglia spesso a un vero “prigioniero politico” del pubblico ministero. Un sistema in cui il concetto stesso di magistratura come corporazione e casta puzza già di inquisizione. Come già illustrato in passato da Giovanni Falcone. Inutile citare i sistemi anglosassoni, dagli Usa all’Inghilterra. E neppure Francia, Spagna, Portogallo, Germania. Fino a Nuova Zelanda, Australia, Canada, Giappone. O ricordare che ci sono Paesi come la Francia e gli Stati Uniti che riescono persino a processare esponenti del governo in carica. Tutti sistemi evidentemente poco democratici, cui dovremmo preferire quelli dei Paesi totalitari. Ma non è una vera spinta contro- riformatrice da parte del governo a preoccupare, oggi. Giorgia Meloni e gli altri leader del centrodestra hanno un programma di governo chiaro sulla giustizia e sulla necessità di separare le carriere di giudici e pm. E il ministro Nordio e il suo vice Francesco Sisto sono due garanzie, da questo punto di vista. È il cesello della sfumatura, l’introduzione dei “salvo che”, il vero rischio. Ci sono mani abili dalle parti del governo, in questo tipo di perfezionamento del testo. Annacquare il vino con il ritocco formale, sapendo che in diritto la forma è sempre sostanza, questo sarebbe il nocivo baco nella mela della riforma. E faranno bene i (tanti, a dispetto delle apparenze) sinceri riformatori presenti in parlamento a tenerne conto. E a diffidare. Davide Faraone: “Sulla separazione delle carriere il governo bluffa” di Riccardo Tripepi Il Dubbio, 19 marzo 2024 L’esponente di Italia viva ritiene che Giuseppe Conte sia come “Jep Gambardella”: “Con Renzi segretario, abbiamo fatto le primarie e abbiamo vinto ovunque. Invece che fa Schlein? Telefona a Conte per chiedergli un nome, se invece il nome a lui non è gradito, semplicemente lo blocca”. Quali sono secondo lei le reali intenzioni del governo sulla separazione delle carriere dei magistrati? Come Italia Viva assumerete iniziative per accelerare l’iter? Le faccio un riepilogo, un anno fa, nel marzo del 2023, io fui tra coloro che applaudirono l’annuncio del guardasigilli: un ddl governativo sulla separazione delle carriere, una battaglia storica dei garantisti, quindi c’era da ben sperare. Comunque, andò che dopo la dichiarazione di Nordio, l’iter si bloccò in attesa dell’autunno, e finì che il disegno di legge, non arrivò mai. Ora, esattamente 12 mesi dopo, si fa risorgere il progetto, ma di date anche stavolta non parla nessuno. Per farla breve, temo che sia di nuovo un bluff. Mentre ci si aspetta chiarezza dall’inchiesta sul dossieraggio, Salvini è entrato a gamba tesa parlando di clima da “Unione Sovietica”… che idea si è fatto della vicenda? Una vicenda inquietante, che fotografa un sistema che definire preoccupante, è poco. L’inchiesta di Perugia evidenzia un bancomat dal quale prelevare notizie riservate, non è chiaro per quali fini e su indicazioni di chi. Come si sa, la macchina del fango iniziò il suo lavoro proprio contro Matteo Renzi. Con il famoso caso Consip è stato possibile “manganellare” Italia Viva, creare e diffondere discredito su di noi, “azzoppare” eventuali performance elettorali. Per fortuna è arrivata una sentenza che assolve per non aver commesso il fatto Tiziano Renzi e Luca Lotti, e condanna gli esecutori di quella operazione. Per tornare al dossieraggio, intanto la commissione d’inchiesta parlamentare che avevano proposto Nordio e Crosetto, e che noi avevamo da subito sostenuto, è stata azzerata dalla presidente Meloni. E proprio durante la Leopolda, il guardasigilli era stato invitato, lui aveva confermato, ed alla fine non è venuto, è stato bloccato proprio da Palazzo Chigi. La premier voleva mettere subito il silenziatore sulla commissione di inchiesta, e così è stato. Un’altra particolarità dell’inchiesta in corso è il ruolo del finanziere Striano. Da garantista sono persino contento, si dovrebbe fare con tutti così. Del titolare del “bancomat” si sa poco o nulla, sappiamo a stento che faccia abbia, non ci sono telecamere sotto casa sua, non è braccato dai giornalisti, si è limitato a concedere un’intervista con il quotidiano la Verità. Secondo lei, qualcuno lo protegge o la battaglia garantista finalmente ha vinto? Propendo per il primo caso. Complessivamente, io credo che una persona dichiarata innocente alla fine di un processo, debba essere indennizzata, in reputazione. Succede invece, per comodità uso quanto è successo con la Consip , che una persona venga distrutta, la sua immagine politica totalmente deturpata, e alla fine, la notizia dell’assoluzione, viene contenuta in poche righe. Così non va bene. Cosa faremo? Intanto presenterò alla Camera, a nome di Italia Viva un disegno di legge per istituire una commissione di inchiesta. Voglio capire anche cosa ne pensa il Pd, se Sandro Ruotolo parli a nome del Nazareno e se il campo largo si spinga fino a difendere Cafiero De Raho, vicepresidente dell’Antimafia e procuratore nazionale antimafia, proprio nel periodo dell’allegra gestione del bancomat. Quali strumenti si possono utilizzare per evitare che in futuro si possano verificare episodi simili? Molti sono quelli che a suo tempo Carlo Nordio propose, e che sono finiti sotto la scure dell’esecutivo. C’è un evidente spinta giustizialista nel governo, panpenalista, che aumenta il numero dei reati inutili per fare confusione e per cercare l’applauso facile e nell’immediato delle persone. Più in generale notiamo che ci sono ripetuti tentativi di condizionamento sugli iter dei provvedimenti da parte del partito dei giudici, alcuni evidenti (quelli del M5S), altri più silenti (quelli di Fratelli d’Italia). Qual è lo stato di salute del campo largo dopo la sconfitta in Abruzzo? Nei giorni scorsi ho detto che il campo largo ormai assomiglia di più ad un campo santo. In Abruzzo avevamo un buon candidato, Luciano D’Amico, e tutto è stato relativamente facile. Ma altrove? È una girandola impazzita, una sequela di veti che portano alla paralisi. E dire che al Pd avevano lo strumento giusto, le primarie. Con Renzi segretario, abbiamo fatto le primarie, ed abbiamo portato a vincere Dario Nardella a Firenze, Antonio De Caro a Bari, Giorgio Gori a Bergamo, Beppe Sala a Milano. Ed invece che fa Elly Schlein, che pure è arrivata al Nazareno perché ha vinto le primarie? Preferisce telefonare a Giuseppe Conte, per chiedergli un nome. Se invece il nome a lui non è gradito, semplicemente lo blocca. In pratica è il Jep Gambardella de no antri, non vuole solo partecipare al campo largo, vuole anche farlo fallire. In Basilicata avete deciso di appoggiare il candidato di centrodestra Bardi. È una scelta contingente o un avvicinamento strutturale al centrodestra? Noi stiamo con Stefano Bonaccini in Emilia Romagna, con Enzo De Luca in Campania, esattamente nello stesso modo in cui in Basilicata stiamo con Bardi. Se c’è un buon candidato, con un programma concreto di governo del territorio, è secondario se sia proposto dal centrodestra o dal centrosinistra. La nostra opposizione è pragmatica, sui temi, non è ideologica. La settimana scorsa sul terzo mandato, quelli dell’opposizione seria, hanno salvato Giorgia Meloni. Bastava votare un nostro emendamento, peraltro condiviso dalla maggioranza degli amministratori dem, per mandarla al Colle. Allora chi è veramente la ruota di scorta? In Piemonte, che voterà in concomitanza alle Europee, è una scelta che si potrà ripetere quello dello schieramento a destra? Pd e M5S, si sono mossi come d’abitudine, presentando e bruciando decine di candidati. Ora è il turno di Gianna Pentenero, vedremo, Italia Viva Piemonte prenderà la sua decisione. Guardando al futuro: come si mette insieme l’area dei moderati che Forza Italia vorrebbe attrarre a sé e che, senza Iv e Azione, verrebbe a mancare nel campo largo? Ci misureremo alle Europee, noi vogliamo contribuire al cambiamento della Commissione. Vogliamo l’elezione diretta del Presidente, politica estera e di difesa comuni, un’istituzione più vicina. Siamo liberali e riformisti, non facciamo i ‘ camerieri’ ai sovranisti, una differenza sostanziale con Forza Italia. Decreto Caivano alla Consulta. “Ha poco a che fare con una vera rieducazione dei minori” di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 19 marzo 2024 Sollevata la questione di legittimità costituzionale sul nuovo procedimento. La definizione anticipata confligge con la ricerca delle ragioni vere del disagio. Ha poco a che fare con una vera rieducazione l’istituto introdotto dal decreto Caivano per i reati di apparente minore gravità; a trasparire è invece un paradigma punitivo che ha persuaso il Gip del tribunale dei minorenni di Trento a rinviare il tema alla Corte costituzionale. Ha poco a che fare con una vera rieducazione l’istituto introdotto dal decreto Caivano per i reati di apparente minore gravità; a trasparire è invece un paradigma punitivo che ha persuaso il gip del tribunale dei minorenni di Trento a rinviare il tema alla Corte costituzionale. Elemento non secondario del provvedimento approvato dal Governo a settembre sul fronte della criminalità minorile (ma non solo, vi sono contenute, per esempio, misure contro la dispersione scolastica) il percorso di rieducazione del minore è stato inserito, come articolo 27bis, nel Codice del processo minorile. Nel dettaglio a venire prevista è una proposta di definizione anticipata del procedimento durante le indagini preliminari su istanza del pm quando i reati per i quali si procede non hanno pena superiore a 5 anni e i fatti non rivestono particolare gravità. Un istituto caratterizzato dall’esercizio informale dell’azione penale, dall’accertamento del fatto in forma sommaria, da una significativa restrizione dei tempi, dall’assenza di coinvolgimento della persona offesa, dalla natura negoziale del programma rieducativo, dall’affidamento della decisione al giudice unico (Gip), dall’intervento ridotto dei servizi minorili. A non convincere però il gip di Trento (ordinanza del 6 marzo 2024) è però il ragionamento per cui a fronte di un reato non particolarmente offensivo e tuttavia non occasionale è possibile arrivare, in tempi brevi, a una sentenza di proscioglimento per estinzione del reato come esito finale del corretto svolgimento di determinate attività individuate dallo stesso minore, a sfondo socio-lavorativo. Un sillogismo viziato da irragionevolezza per il Gip trentino perché prevede, in presenza di un reato non occasionale, una procedura che non permette un adeguato approfondimento informativo e, di conseguenza, neppure “un’effettiva presa in carico del minore e dei suoi bisogni educativi”. “In altre parole - sottolinea l’ordinanza - dietro alla commissione di un reato, non particolarmente grave né punito severamente dalla legge, possono celarsi significativi bisogni educativi, i quali esulano dall’attività di indagine penale propriamente intesa”. Il fatto reato, in questa prospettiva, diventa occasione per intercettare il disagio giovanile e il procedimento penale minorile diventa strumento per offrire al minore per emanciparsi dalle cause che hanno prodotto la condotta criminale. Soltanto così, sostiene il gip, risultano attuati di principi costituzionali di protezione della gioventù da parte della Repubblica e di rimozione degli ostacoli allo sviluppo della persona. Parma. Giovane impiccato in carcere: aperto un fascicolo di Christian Donelli parmatoday.it, 19 marzo 2024 La famiglia ha incaricato un legale: approfondimenti per far luce sulla vicenda. La Procura della Repubblica di Parma ha aperto un fascicolo d’indagine relativo al suicidio in carcere di un detenuto di 29 anni, avvenuto nella mattinata del 14 marzo all’interno del penitenziario di via Burla. Secondo le prime informazioni il giovane, con problemi di tossicodipendenza e che si trovava nel reparto di media sicurezza, si sarebbe impiccato utilizzando un lenzuolo. Al momento della morte il ragazzo, di origine nordafricana ma con cittadinanza italiana, si trovava in isolamento per motivi disciplinari. Era in carcere dal dicembre del 2023, per reati legati alle sostanze stupefacenti. Secondo le prime informazioni e come riportato dal Garante dei detenuti della Regione Emilia-Romagna Roberto Cavalieri il 29enne avrebbe già messo in atto, nei mesi precedenti, atti di autolesionismo. Gli inquirenti dovranno accertare se la direzione del carcere parmigiano abbia o meno attivato, come previsto in questi casi, il protocollo anti-suicidario. Il Garante: “Il carcere può trasformarsi in un luogo infernale” - “Con oltre 15 casi ogni 10mila persone, l’incidenza di suicidi in carcere è di 20 volte più alta rispetto alla media nazionale. Possiamo parlare di una vera e propria epidemia: dall’inizio dell’anno sono già più di 20 i casi di suicidio in carcere”, sottolinea il garante dei detenuti della Regione Emilia-Romagna Cavalieri commentando quanto accaduto a Parma. “Il problema - rimarca il garante - non può essere sottovalutato, in quanto si tratta di una vera e propria emergenza. Occorre intervenire velocemente e la soluzione sta nel rendere la detenzione, come afferma la stessa carta costituzionale, un periodo di ricostruzione della persona che deve poter riprendere in mano la propria vita. Molto spesso, invece, il carcere si trasforma per il detenuto in un luogo che ne alimenta le fragilità, in un’esperienza infernale, fino al punto di indurlo a mettere in atto gesti estremi”. Foggia. “Tortura” su due detenuti di cui uno è malato psichico di Eleonora Martini Il Manifesto, 19 marzo 2024 Le immagini riprese dalle telecamere interne al penitenziario questa volta immortalano quattro, cinque, sei o più agenti accerchiare e colpire con schiaffi, calci e pugni un detenuto. I volti, nei filmati mostrati, sono oscurati ma le movenze sono eloquenti. I video insieme alle testimonianze sono le prove che hanno portato ieri all’arresto di dieci agenti della polizia penitenziaria del carcere di Foggia, accusati a vario titolo di tortura nei confronti di due detenuti compagni di cella, abuso d’ufficio, abuso di autorità contro arrestati o detenuti, omissione di atti d’ufficio, danneggiamento, concussione, falsità ideologica commessa da un pubblico ufficiale in atti pubblici, soppressione, distruzione e occultamento di atti veri. Una delle due vittime ha patologie psichiatriche, con pregressi tentativi di suicidio e atti di autolesionismo. I fatti accertati dai carabinieri risalgono all’11 agosto 2023 e sono riportati nelle 96 pagine dell’ordinanza con cui la Gip di Foggia, Carla Protano, ha stabilito gli arresti domiciliari per i dieci indagati: un ispettore, la sua vice e altri, con ruoli ed età diverse (nati tra il 1968 e il 1998). Sono indagati a piede libero anche due medici e un altro agente. Secondo i militari, “nel corso delle indagini sarebbe stata documentata la predisposizione e la sottoscrizione di atti falsi finalizzati a celare le violenze perpetrate e a impedire che venissero emesse a carico delle persone offese le diagnosi delle lesioni riportate. Sarebbero state, inoltre, accertate minacce e promesse di ritorsioni attraverso le quali due indagati avrebbero costretto le vittime a sottoscrivere falsi verbali di dichiarazioni, in cui fornivano una versione dei fatti smentita dagli esiti delle indagini”. Uno dei due detenuti vittime del pestaggio dell’11 agosto è affetto, scrive la Gip, da patologie psichiatriche anche sfociate in atti autolesivi e tentativi di suicidio, e quindi maggiormente vulnerabile. Questa persona, invece di essere curata, è stata sottoposta, secondo la giudice, “ad un trattamento inumano e degradante” consistente “in un’aggressione protratta nel tempo da parte di più persone” e ha subito “lesioni al capo, ad un occhio e al torace, acute sofferenze fisiche e un verificabile trauma psichico”. L’esposto che l’uomo ha fatto uscire dal carcere di nascosto è arrivato in procura il 17 agosto. Vi si racconta di come sarebbe stato “punito” per un atto di autolesionismo compiuto davanti ad un’ispettrice che è rimasta offesa dal gesto. Come fa notare Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, questo è uno dei tanti casi di agenti indagati, imputati o già condannati nei primi gradi di giudizio per tortura. “Se ci fosse una modifica dell’attuale legge, approvata nel 2017, come il Ministro Nordio ha dichiarato e ribadito essere nelle intenzioni del governo, tutte queste indagini e processi potrebbero saltare. Per questo - conclude Gonnella - difenderemo strenuamente l’attuale impianto normativo”. Foggia. Botte e torture ai detenuti: arrestati dieci agenti penitenziari di Francesco De Felice Il Dubbio, 19 marzo 2024 Dieci agenti della Polizia penitenziaria, in servizio nel carcere di Foggia, sono finiti ai domiciliari nell’ambito delle indagini su un pestaggio nei confronti di due detenuti, che sarebbe avvenuto l’11 agosto 2023 nel penitenziario dauno. Le telecamere del carcere hanno anche ripreso le torture subite da uno dei due detenuti. I reati contestati nel provvedimento del gip sono, a vario titolo, tortura, abuso d’ufficio, abuso di autorità contro arrestati o detenuti, omissione di atti d’ufficio, danneggiamento, concussione, falsità ideologica commessa da un pubblico ufficiale in atti pubblici, soppressione, distruzione e occultamento di atti veri. Le ordinanze sono state eseguite dai carabinieri di Foggia che hanno eseguito le indagini. Contestualmente all’aggressione i due detenuti sarebbero stati inoltre arbitrariamente sottoposti a misure di rigore non consentite. Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, chiede che si “accertino le responsabilità”. Ma aggiunge: “Si tratta dell’ennesimo caso emerso nelle cronache da quando, nel 2017, è stata approvata la legge che punisce i torturatori. Una legge che ha aiutato a superare quel clima di impunità che, troppo spesso, si registrava. Sono diversi gli agenti penitenziari in questo momento indagati, imputati o già condannati nei primi gradi di giudizio per tortura. Se ci fosse una modifica dell’attuale legge, come il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha dichiarato e ribadito essere nelle sue intenzioni e in quelle del governo, tutte queste indagini e processi potrebbero saltare. Per questo difenderemo strenuamente l’attuale impianto normativo - prosegue -. Questi casi si inseriscono in un clima che, in alcune carceri, è sempre più teso a causa della crescita del sovraffollamento e una popolazione detenuta che nel tempo sta cambiando sempre di più e richiede una gestione che gli operatori, a causa dell’assenza di aggiornamento professionale e del loro ridotto numero, non riescono a garantire. Per questo crediamo che il governo dovrebbe impegnarsi urgentemente su questi fronti. Le inchieste nulla tolgono all’impegno di quei tanti operatori penitenziari che si muovono nel solco della legalità e che avrebbero bisogno di una mano per continuare a farlo”. E Ilaria Cucchi, senatrice dell’Alleanza Verdi e Sinistra, in una nota sottolinea: “Atti falsi, minacce e promesse di ritorsione. Gli anni passano ma la cultura ed i metodi restano sempre gli stessi. E sempre ai danni dei più deboli. Ma anche ai danni della Polizia penitenziaria. La storia terribile dei dieci agenti della Polizia penitenziaria, accusati di tortura per le violenze contro due detenuti, sarebbe potuta rimanere, come tante altre, coperta dal silenzio. Dieci persone contro due detenuti inermi. I responsabili hanno creduto di poterla fare franca, forti del senso di impunità delle tante inchieste mai aperte. Invece no. Stavolta a Foggia i magistrati sono intenzionati ad andare fino in fondo nell’accertamento delle responsabilità rispetto a quanto sarebbe accaduto nel carcere. La legge è uguale per tutti. Se mai ce ne fosse bisogno, questa è l’ennesima dimostrazione dell’importanza di aver approvato nel 2017 una legge che punisce la tortura. Le tante inchieste e i tanti procedimenti in corso dimostrano come il reato di tortura sia necessario e non si può modificare. Il governo e la maggioranza di destra non pensino di toccare il reato di tortura che punisce gli abusi commessi dai pubblici ufficiali. Sarebbe una cosa gravissima che rischierebbe di ostacolare, se non bloccare, i tanti processi in corso”. Concetti ribaditi anche dal capogruppo di AVS nella commissione Giustizia della Camera Devis Dori: “Chiediamo di accertare subito le responsabilità dei gravi fatti avvenuti nel carcere di Foggia. Un fatto scioccante che fa tornare di attualità anche il tentativo del governo, confermato dal ministro Nordio, di rivedere l’attuale legge che punisce il reato di tortura che per noi di AVs non va toccata. Sarebbe un segnale devastante di impunità e tolleranza verso crimini insopportabili”. Per Carla Giuliano del Movimento 5Stelle, componente della commissione Giustizia della Camera, “Quanto sarebbe accaduto nel carcere di Foggia è grave e inquietante, è indispensabile che si faccia piena chiarezza per accertare fatti e responsabilità, parliamo della violazione di diritti fondamentali della persona, che devono essere sempre sacri e intoccabili. Il carcere di Foggia è una realtà particolarmente critica, con una grave carenza di organico della Polizia Penitenziaria e con una tipologia di detenuti estremamente problematici, forse questa grave vicenda giudiziaria sarà utile per destare l’attenzione del governo, che fino a ora si è solo distinto per chiacchiere e per aver rivendicato gli investimenti in assunzioni fatti dai governi precedenti”. Sulla vicenda è intervenuto anche Gennarino De Fazio, segretario generale della UilPa Polizia Penitenziaria: “Da donne e uomini dello Stato, riponiamo incondizionata fiducia negli inquirenti e auspichiamo che si faccia piena chiarezza sull’accaduto nel più breve tempo possibile, sperando peraltro che gli operatori coinvolti possano dimostrare la correttezza del loro operato. Al di là di quale sarà l’esito della vicenda penale, tuttavia, emergono ancora una volta la totale disfunzionalità del sistema penitenziario e la persistente emergenza mai affrontata compiutamente dalla politica” De Fazio aggiunge: “Accuse come quelle di Foggia vanificano il diuturno sacrificio e infangano la straordinaria professionalità di 36.000 donne e uomini del Corpo di polizia penitenziaria che quotidianamente, in sottorganico di 18mila unità, fanno del loro meglio per tentare di garantire la sicurezza dentro e fuori le carceri e costituiscono al tempo stesso l’ultimo e talvolta l’unico baluardo di umanità negli infernali gironi penitenziari”. Ravenna. Giovane suicida in carcere. Processo allo psichiatra di Lorenzo Priviato Il Resto del Carlino, 19 marzo 2024 Ieri la prima udienza, subito aggiornata ad aprile, per l’accusa di omicidio colposo a uno specialista che avrebbe sottostimato lo stato di un detenuto. È iniziato ieri, sebbene subito aggiornato ad aprile per ragioni formali, il processo che vede alla sbarra per omicidio colposo un 66enne, psichiatra del carcere di Ravenna, in relazione al suicidio di un giovane detenuto. Era il 16 settembre 2019 quando le guardie trovarono il 23enne Giuseppe Defilippo impiccato a un cappio rudimentale. Dell’iniziale procedimento per istigazione al suicidio, a carico di ignoti, fu chiesta l’archiviazione. Ma la madre, Elisabetta Corradino, non si era mai rassegnata a quel tragico epilogo, convinta del fatto che le richieste di aiuto del figlio fossero rimaste inascoltate. A novembre 2022 il caso era stato riaperto e il Gup Andrea Galanti, accogliendo la richiesta dalla Procura, aveva rinviato a giudizio il professionista, tutelato dagli avvocati Guido Maffuccini e Delia Fornaro. La famiglia del 23enne si è costituita parte civile con la tutela dell’avvocato forlivese Marco Catalano, che aveva ottenuto l’autorizzazione dal giudice a citare come responsabile civile l’Ausl e l’assicurazione dello specialista. La psichiatra, consulente esterno della Casa circondariale e accreditato come medico Ausl, secondo l’accusa nel corso dell’ultima visita medica del giovane detenuto ne avrebbe considerato lo stato clinico al di sotto delle tematiche autolesive depressive, abbassando il rischio suicidiario dal livello medio a lieve, con contestuale revoca della necessaria sorveglianza, favorendo in questo modo il tragico epilogo. La famiglia, di origini calabresi, ha abitato a Cervia per 23 anni. Dopo la morte di Giuseppe i genitori sono tornati a Catanzaro. In seguito all’iniziale richiesta di archiviazione, Elisabetta Corradino aveva chiesto ulteriori verifiche, allegando documentazione medica in baso alla quale i campanelli d’allarme per capire la gravità della situazione si erano ampiamente manifestati. Giuseppe, in carcere, era finito per un’accusa di furto, cui si era aggiunta quella di stalking da parte della ex fidanzata. Era in attesa della risposta di una comunità di recupero di Marradi, ma dopo meno di un mese dall’inizio della detenzione fu trovato impiccato. In uno scritto pensato come testo di una canzone, il giovane aveva manifestato tanto disagio. Nel testo poneva in evidenza tutta la propria sofferenza per la detenzione in cella, l’amore che provava per la ex compagna e il timore di non avere un futuro. All’udienza fissata ad aprile le parti faranno le prime richiesta di prova e di ammissione dei testimoni. Bologna, carcere sovraffollato: 831 detenuti. Ma 287 potrebbero scontare la pena altrove di Giuseppe Baldessarro La Repubblica, 19 marzo 2024 Gli avvocati: “Mancano le strutture”. La denuncia dei legali in visita alla Dozza. Alcuni hanno i requisiti per essere ammessi all’affidamento in prova ai servizi sociali, altri alla semi-libertà o ai domiciliari. A 57 detenuti resta meno di un anno da scontare, a 82 solo 2 anni, ad altri 83 quasi tre. Poi ci sono quelli che di anni da trascorrere dietro le sbarre ne hanno 4, e sono 65. Messi assieme, sono 287 i detenuti della Dozza che potrebbero stare altrove. Un terzo degli 831 attualmente presenti in via del Gomito potrebbe finire di scontare il debito con la società all’esterno risolvendo così i problemi di sovraffollamento. Alcuni hanno i requisiti per essere ammessi all’affidamento in prova ai servizi sociali, altri alla semi-libertà o ai domiciliari. Ma mancano le strutture in grado di accoglierli fuori dalla Dozza. Strutture indispensabili, perché si tratta di persone senza fissa dimora e stranieri senza permesso di soggiorno che sul territorio non hanno alcun punto di riferimento. Il dato è confermato dalle avvocate Elisabetta D’Errico (membro esterno commissione diritti umani) e Antonella Rimondi (referente della commissione penale del Consiglio dell’Ordine) che, assieme a una delegazione dell’Ordine degli avvocati e della Camera penale hanno visitato il carcere e incontrato la direttrice Rosalba Casella. “L’accesso alle pene alternative previste dal codice - dicono le legali - è l’unica soluzione per alleggerire il carico della casa circondariale. Ma perché vi si possa accedere sono necessarie convenzioni, accordi, e la volontà delle istituzioni”. Dire che tra le mura della Dozza la situazione è esplosiva appare quasi un eufemismo. Il problema del sovraffollamento è il più evidente, ma non è l’unico. Dicono le avvocate: “La situazione strutturale è migliorata, con alcune opere di rifacimento, nella sezione infermeria e nuovi arrivi, ma se si va in altre sezioni è un disastro”. Il “giudiziario” (dove sono detenute le persone con condanne definitive) e l’alta sicurezza, sono da incubo: “Muri scrostati e finestre che fanno passare l’acqua sono solo un esempio. Poi c’è il problema delle 73 donne e quello dei giovani detenuti: ragazzi poco più che maggiorenni, insofferenti e difficili da gestire. Il tutto mentre i numeri, purtroppo, sono in costante aumento”. Padova. Suicidi e condizioni nelle carceri italiane, domani la protesta della Camera Penale di Ivan Grozny Compasso padovaoggi.it, 19 marzo 2024 L’associazione che raccoglie gli avvocati penalisti, ha organizzato per il giorno 20 marzo un punto informativo in Piazza dei Frutti per condividere con la cittadinanza le ragioni dello “sciopero” dei penalisti indetto dall’Unione delle Camere Penali Italiane. L’appuntamento è per le 9.30 in piazza dei Frutti a Padova per protestare contro le condizioni dei carcerati negli istituti di pena in tutto il paese. Per questo la Camera Penale di Padova, l’associazione che raccoglie gli avvocati penalisti, ha organizzato per il giorno 20 marzo un punto informativo in Piazza dei Frutti per condividere con la cittadinanza le ragioni dello “sciopero” dei penalisti indetto dall’Unione delle Camere Penali Italiane. “Si tratta di un’iniziativa volta a sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema delle condizioni carcerarie nel nostro Paese, che versano in uno stato ormai insostenibile. Dopo che il 2022 e il 2023 hanno registrato i più alti numeri di suicidi in carcere in Italia dal ‘90 ad oggi (rispettivamente 85 e 68 morti), lo scenario nel 2024 si è ulteriormente aggravato: è già arrivato a 25 il macabro conteggio delle morti volontarie negli istituti detentivi italiani dal primo di gennaio”, spiega l’avvocato Michele Grinzato. Un numero, quello citato dal legale, spaventoso ma che non è l’unica causa di morte nelle carceri italiane. “Vanno aggiunte le morti per malattia, in uno stato complessivamente aggravato dall’insostenibile sovraffollamento carcerario, dalla patologica carenza negli organici di agenti penitenziari, di medici e psichiatri e di operatori sociali. Nonostante l’emergenza umanitaria in atto imponga un cambio di passo immediato, non si è ancora registrata una chiara e netta presa di posizione del Governo volta a rimediare all’ingravescente fenomeno del sovraffollamento, che non può essere affrontato prescindendo da atti di clemenza quali amnistia e indulto, oltre ad una legiferazione urgente in materia di concessione della liberazione speciale anticipata”, prosegue l’avvocato Grinzato. Infine una considerazione che racchiude il senso dell’iniziativa che anche la Camera Penale Nazionale replicherà a Roma nello stesso giorno. “Governo, Parlamento e tutte le forze politiche, dietro la spinta dell’opinione pubblica, devono adottare ogni soluzione possibile per porre fine a questa strage, con la consapevolezza che ogni giorno trascorso senza che siano attuati rimedi idonei a scongiurare la morte, per malattia e per suicidio, negli istituti penitenziari non può che accrescere le responsabilità, politica e morale, di coloro che tale fenomeno hanno l’obbligo di affrontare con rimedi urgenti e inderogabili. Non c’è più tempo”. Trento. Allarme suicidi nelle carceri italiane, gli avvocati penalisti si asterranno dalle udienze ildolomiti.it, 19 marzo 2024 “In Trentino sovraffollamento dei detenuti, situazione grave serve intervenire”. L’astensione si riallaccia all’iniziativa dello scorso febbraio, con la quale le Camere Penali avevano già posto con forza all’attenzione di tutti, tra l’altro, anche la gravissima situazione delle carceri italiane e del loro indicibile sovraffollamento. Stop ai suicidi in carcere. La Camera penale di Trento aderirà alla nuova giornata di astensione dalle udienze dalle attività penali che avrà luogo il prossimo 20 marzo 2024 in tutta Italia da parte dell’avvocatura penalista associata nell’Unione delle Camere Penali Italiane. L’astensione si riallaccia all’iniziativa dello scorso febbraio, con la quale le Camere Penali avevano già posto con forza all’attenzione di tutti, tra l’altro, anche la gravissima situazione delle carceri italiane e del loro indicibile sovraffollamento (oltre 60.000 presenze su una capienza massima di 50.000 posti) e del drammatico fenomeno dei suicidi in carcere, nella totale assenza, da parte del Governo, di urgenti iniziative volte alla decompressione ed alla salvaguardia della dignità dei detenuti. I penalisti trentini sottolineano che il fenomeno tocca purtroppo anche gli istituti penitenziari della nostra Regione, che ospitano un numero di detenuti superiore alla loro potenzialità e l’emergenza umanitaria in atto impone un cambio di passo immediato. Sono 25 i suicidi che sono avvenuti in carcere da inizio anno fino al 14 marzo. Fino ad oggi, però, sono stati attuati rimedi idonei a scongiurare la morte, per malattia e per suicidio, negli istituti penitenziari. A Roma il 20 marzo si terrà una manifestazione in Piazza dei Santi Apostoli a partire dalle ore 14. L’iniziativa organizzata dall’Unione Camere Penali - alla quale prenderà parte anche una delegazione trentina. Napoli. Da detenuto a (quasi) architetto: “Così sono rinato” di Davide Cerbotte Il Mattino, 19 marzo 2024 Il bene più prezioso adesso non ha condizioni. “Vediamoci quando vuole, posso muovermi liberamente”, ti comunica con l’entusiasmo di un ragazzino che ha conquistato l’emancipazione. Liberamente, già: il senso di una rinascita sta tutto in questo avverbio. Il carcere - “Fui arrestato nel 2014 per traffico di droga e associazione a delinquere: 26 anni di carcere che con il rito abbreviato sono stati ridotti a 16 e in appello a 12”, tiene la contabilità di un’esistenza interrotta Enzo Baldetti, 52 anni compiuti a novembre. “Appena entrai, andai ad iscrivermi a scuola, sono stato uno dei primi diplomati a Poggioreale. Subito dopo, la mia educatrice, la dottoressa Di Stefano, alla quale sarò per sempre riconoscente, mi propose di andare all’università. E, sapendo che avevo lavorato per una società che gestiva impianti di depurazione, mi consigliò il corso di Sviluppo sostenibile e reti territoriali, alla facoltà di Architettura. Così, nel 2019 sono stato trasferito al carcere di Secondigliano, che ospita un polo universitario”. La svolta - Da quel momento la sua vita, come un imbuto rovesciato, si è allargata sempre di più. E con quella il respiro sul domani. Ogni mattina l’aspirante architetto parte dalla collina dei Camaldoli, dove da settembre è tornato a vivere con sua moglie e sua figlia e scendere fino a via Caracciolo per prestare servizio all’acquario della Stazione zoologica Anton Dohrn. Qui, dove il mare ti entra negli occhi e nelle narici, la libertà ha un sapore ancora più intenso. “Da luglio scorso ho ottenuto la semilibertà ai servizi sociali e, grazie ad una convenzione con il carcere, sono arrivato all’Anton Dohrn, dove mi occupo dell’alimentazione dei pesci e del controllo dei macchinari. Ho un contratto di tirocinio, spero tanto che venga prorogato”, confessa. “Lavoro dalle 9 alle 15, poi vado a prendere mia figlia a danza o a fare la spesa con mia moglie”, dice Baldetti, delineando il perimetro di una normalità che ha ricostruito con fatica. Nuova vita - Il percorso di riabilitazione morale e culturale lo ha avvicinato anche ad un obiettivo che dieci anni fa sembrava impensabile: la laurea. “Ho fatto 14 esami, me ne mancano 4. Dovrei discutere la tesi a fine anno”, spiega, assaporando l’uscita dal purgatorio dopo anni amari nei quali non ha mai perso di vista un obiettivo: diventare un uomo nuovo. E l’investitura accademica potrebbe coincidere con un altro traguardo: il fine pena è fissato a settembre 2025, ma potrebbe essere anticipato. Anche adesso che tutto sta tornando a posto, però, arrivano i rimpianti a presentare il conto. “Mi è pesato molto sapere che mia figlia cresceva lontana da me: alla sua comunione non ci sono stato e non c’ero la prima volta che è andata in bicicletta. Niente potrà restituirmi quei giorni, ma oggi provo a riempire ogni vuoto”, assicura. In mezzo secolo, Enzo Baldetti ha vissuto due vite e forse qualcuna di più. E tra non molto ne inizierà un’altra, la più bella. “Il cambiamento è possibile, ma deve nascere dentro di te. A un certo punto mi sono guardato allo specchio e ho capito che era stato tutto sbagliato. Ho visto la parte buona di me, mi sono ritrovato”, ricorda il quasi ex detenuto. “Il carcere - aggiunge - mi ha insegnato a rispettare gli altri. Invece io, senza rendermene conto, sono stato parte di un sistema che uccide”. Ora che tutto è quasi passato, resta la voglia di ricominciare. Resta il presente, resta il futuro. Milano. “Ho abbracciato il killer che ha ucciso mio fratello” di Francesco Nania La Sicilia, 19 marzo 2024 “Chiedo scusa e perdono a tutti”. Antonio Aparo, da oltre un trentennio detenuto in carcere per essere stato a capo dell’omonimo gruppo mafioso, che operava nel territorio di Solarino e Floridia, ribadisce quanto due anni fa ha scritto all’allora sindaco. Aparo - condannato per associazione mafiosa, omicidi ed estorsioni - parla in quest’intervista, della lunga detenzione, della rieducazione ma, soprattutto, della sua resipiscenza. Due anni fa, scrivendo al sindaco di Solarino, ha detto che “se qualcuno si dovesse presentare a voi facendo il mio nome vi prego, denunciateli subito senza indugiare, perché quella persona è un vigliacco e un perdente come lo sono stato io”. Oggi si sente di ribadire questo concetto? “Non solo lo ribadisco ma ne faccio un pilastro della mia vita. Denunciare è un atto civile e chi si nasconde dietro alla violenza è un uomo fallito. L’uomo che si nasconde dietro a un altro non è uomo: fare prepotenza nei riguardi di una vittima a nome di un altro è un doppio fallimento”. In quella lettera lei ha scritto: “Chiedo scusa a ogni familiare al quale ho causato tanto dolore, provo vergogna del mio passato”… “Durante il processo avviene una presa di coscienza del danno causato alle famiglie delle vittime. Non posso restituire il danno arrecato e nemmeno la vita a chi di questa l’ho privata. Spero, un giorno, di poter restituire tutto quanto sia nelle mie forze. Nel frattempo, sto restituendo alla comunità la mia vita anche se questa è poca cosa per il male che ho fatto. Chiedo scusa e perdono a tutti”. Lei è stato arrestato il 5 luglio 1990. Come descriverebbe questi lunghi anni di detenzione? “Sono detenuto da 33 anni e mezzo di cui fino al 2017 al 41 bis. Provo a descriverli: vuoti, desolanti, privi di senso ed evanescenti. T’impediscono di crescere e pensare. Il modo di come sei trattato, trasforma la persona che subisce quel trattamento cattivo e rancoroso”. Durante questi anni di detenzione in carcere ha studiato e imparato a ricamare... “Io credo che ogni persona possa redimersi e cambiare idea ma ciò può avvenire in questi luoghi attraverso gli studi o l’impiego del tempo vuoto. Ricamare per me significa rigenerarsi. Mentre ricamo mi sento vivo, sviluppo il senso del tatto, della vista dell’udito. L’udito mi serve per sentire frusciare i fili che scorrono velocemente tra i polpastrelli delle dita. È una gioia vedere una tela informe che, dopo pochi attimi, si riempie di colori, figure, ritratti”. Lei crede alla finalità rieducativa della privazione della libertà personale? “Credo nella finalità rieducativa; i pochi operatori che ci sono, purtroppo, fanno un lavoro immane quasi come un Sisifo. La rieducazione avviene anche con i volontari. Il recluso ha bisogno di confrontarsi giornalmente con persone che ti restituiscono speranza, che ti facciano interrogare sul perché ci si trovi rinchiuso in carcere”. Lei ha incontrato in carcere uno dei killer di suo fratello. Che cosa ha provato? “Quando ho incontrato il killer di mio fratello, è successo quello che credevo imponderabile. E’ svanito l’odio. Quell’odio che mi aveva tenuto per ventisette anni al 41 bis. In un secondo mi è passato nella mente la mia vita. Mi sono trovato di fronte a una persona sofferente, tremante, che non poteva difendersi. L’ho abbracciato e ci siamo salutati. Adesso, siamo detenuti assieme, qui in Opera”. Abbiamo ascoltato alcuni suoi interventi in convegni, battersi per i diritti dei detenuti... “Da cinque anni faccio parte del comitato “Nessuno tocchi Caino” e mensilmente mi occupo del laboratorio Spes contra spem. Non è che mi batta per i diritti dei detenuti, mi batto per i miei diritti perché non devo dimenticare chi sia e che sia detenuto. I diritti meno rispettati sono di carattere familiare e del trattamento umanizzante, vedi affollamento”. Che differenza c’è tra pentimento e riconoscere i propri sbagli? “C’è una grande differenza: il pentimento che intendo io, è resipiscenza personale, riconoscere i propri sbagli. Non posso essere io a toccare la coscienza di un’altra persona che abbia errato. Io non posso né voglio giudicare alcuno, né voglio scagliare pietre contro altri. Ho i miei peccati e mi bastano. Il pentimento come collaborazione con la Giustizia non è da me condiviso perché applicato indiscriminatamente ed è qualificato come un do ut des”. A luglio, la Corte di Appello di Catania ha confermato la sua assoluzione per l’operazione San Paolo. Che cosa significa per lei questa sentenza? “A me restituisce speranza e fiducia nella giustizia ma soprattutto che sono oggi sulla strada retta”. Varese. Lo scrittore Sandro Bonvissuto incontra i detenuti varesenews.it, 19 marzo 2024 Un’iniziativa inserita nel Progetto “Un passo alla volta” promosso e gestito da Oblò Teatro e Associazione 100venti per “Incontrarsi grazie a un libro”. Un incontro all’interno del carcere di Varese nella mattina di lunedì 18 marzo quando si è tenuta la presentazione del libro “Dentro” di Sandro Bonvissuto (ed. Einaudi). Un’iniziativa inserita nel Progetto “Un passo alla volta” promosso e gestito da Oblò Teatro e Associazione 100venti con il contributo della Fondazione Comunitaria del Varesotto e voluto dal Direttore della Casa Circondariale di Varese Carla Santandrea e dal Capo Area Pedagogica della stessa Domenico Grieco. All’incontro hanno assistito il Consigliere Regionale Samuele Astuti, tre ragazzi della Consulta Provinciale, gli insegnanti del CPIA2 di Varese e alcuni operatori della comunità esterna. “L’obiettivo di questa iniziativa è incontrarsi (scrittore, detenuti, studenti, operatori) in carcere grazie a un libro. Mettere in relazione persone che vivono dentro e fuori il carcere, che provengono da contesti sociali e culturali differenti, da storie di vita distanti. È un modo come altri di dare un po’ di concretezza all’art. 27 della Costituzione, quello in cui si riconosce la funzione rieducativa della pena, mettendo in relazione chi sta dentro e chi sta fuori dal carcere. Incontrarsi con un libro che racconta l’incontro tra due mondi e la contaminazione degli ambienti, con la scrittura come mezzo per lasciare un segno di sé. Un esempio di felice collaborazione tra la Casa Circondariale di Varese e il territorio”, sottolineano gli organizzatori. “Dentro” è un libro che tocca le corde dell’anima. L’esistenza di un uomo raccontata a ritroso, dall’età adulta all’infanzia, attraverso tre momenti capitali della sua vita: l’esperienza del carcere, la nascita casuale di una grande amicizia, il giorno in cui, imparando ad andare in bicicletta, scopre all’improvviso come è fatto suo padre. Narrare l’esperienza cruda del carcere significa apprezzare con uno spirito diverso tutto ciò che odora di libertà e di vita. È l’esperienza di chi deve combattere con la variabile tempo e con una convivenza forzata. Il carcere rappresenta il muro tra ciò che sta fuori e ciò che vivono il protagonista e i suoi compagni di cella dentro. Dentro è il posto dove le gioie e i dolori di quando si è bambini pulsano più forti, destinate a rimanere per sempre. L’autore trascina il lettore in lunghe e appassionate riflessioni sul tempo, sullo spazio, sulla vita e sulla morte. Con un linguaggio coerente e lirico, Bonvissuto ci porta dentro il mondo di questo singolo essere umano che noi tutti siamo. Sandro Bonvissuto ha 54 anni, fa il cameriere in una Osteria romana ed è laureato in Filosofia. Ha vinto il Premio Chiara nel 2013. “L’iniziativa - sottolinea la Direttrice Carla Santandrea - ha l’obiettivo sia di avvicinare i detenuti alla cultura, che di far incontrare la comunità esterna con i detenuti presenti in questa struttura. L’interazione tra i detenuti e lo scrittore Sandro Bonvissuto ed il mondo esterno oltre agli stimoli culturali che ha prodotto, ha suscitato interesse e coinvolgimento nei detenuti, realizzando una mattinata ricca di emozioni per tutti i partecipanti”. Milano. Fotografi e chef per i ragazzi del carcere Beccaria Il Giorno, 19 marzo 2024 Sabato 23 al carcere minorile Beccaria di Milano si terrà “Il sapore del ri-scatto”, pranzo di beneficenza con asta fotografica per sostenere i ragazzi di area penale. Chef e fotografi famosi parteciperanno all’evento organizzato dalla Fondazione Don Gino Rigoldi. Sarà un giorno importante, sabato 23, al carcere minorile Beccaria: insieme al direttore Claudio Ferrari, la Fondazione Don Gino Rigoldi ha promosso l’evento “Il sapore del ri-scatto”, un pranzo di beneficenza con asta fotografica di scatti d’autore donati alla Fondazione. Come spiega don Gino, cappellano storico del Beccaria, “vogliamo aiutare i ragazzi di area penale a pensarsi diversamente, perché non sono gli errori che hanno commesso e il loro futuro non è già scritto”. L’asta fotografica “A noi ci frega lo sguardo” è alla quinta edizione e vede la partecipazione di 20 famosi fotografi, i cui scatti saranno battuti dalla celebre Casa d’Aste Christie’s: Tina Cosmai, Ninni Pepe, Carlo Borlenghi, Gloria Aura Bortolini, Maurizio Galimberti, Settimio Benedusi, Archivio Carlo Orsi, Giorgio Galimberti, Gioia Valerio, Oliviero Toscani, Massimo Vitali, Valerio Minato, Sasha Benedetti, Gianni Berengo Gardin, Claudio Argentiero, Marco Glaviano, Laura Pellerej, Pietro Paolini, Patricio Reig, Giulio Cerocchi. Il pranzo sarà a cura degli chef Andrea Aprea, Alessandro Borghese, Riccardo Monco, Davide Oldani e il Maestro pasticcere Diego Crosara (dalla Pasticceria Marchesi 1894 di Milano). Prevista la partecipazione dell’attore e webstar Germano Lanzoni. Il ricavato della giornata andrà a sostegno della campagna “Cambio rotta” grazie alla quale la Fondazione si occupa dei ragazzi di area penale, sia dentro che fuori dal carcere, e dell’Istituto penale. Tra le iniziative, un percorso formativo per favorire la cooperazione tra tutti coloro che operano dentro al carcere, progetti educativi per responsabilizzare i ragazzi ed evitare ricadute. Per prenotazioni (entro domani): Francesca Benigno, f.benigno@fondazionedonginorigoldi.it, 3382225130. Per info sull’asta: Beppe Peloia, b.peloia@fondazionedonginorigoldi.it, 3755534588. Comunicare la giustizia: un libro e un dibattito per ordinare il caos di Errico Novi Il Dubbio, 19 marzo 2024 Ieri in Cassazione l’incontro sul “manuale” promosso dalla Scuola delle toghe “Il rapporto coi media sia affidato a professionisti”, dice la presidente Cassano. Se non li puoi battere unisciti a loro. È un vecchio adagio. Vale anche per la giustizia rispetto alla comunicazione. Nello specifico, l’adagio può tradursi così: anziché subirlo, il processo mediatico bisogna governarlo. Sembra l’obiettivo, in fondo apprezzabile, individuato dalla Scuola superiore della magistratura e scelto come stella polare del prestigioso seminario ospitato ieri in Cassazione, nell’aula Giallombardo. Un incontro al quale, con il presidente uscente della Scuola delle toghe Giorgio Lattanzi, sono intervenuti tra gli altri la “padrona di casa” Margherita Cassano, prima presidente della Suprema corte, il pg di Cassazione Luigi Salvato e il vertice del Cnf Francesco Greco, con il numero uno dell’Ordine dei giornalisti Carlo Bartoli a coordinare i lavori. In realtà la stella polare è già stata individuata, e affidata a un “manuale” edito da Giappichelli dal titolo identico a quello del seminario di ieri, “Comunicazione e Giustizia”, in cui spiccano i capitoli curati da un altro relatore intervenuto a piazza Cavour, lo storico Federigo Bambi, dal consigliere segretario del Cnf Giovanna Ollà e dall’inedito ma efficacissimo tandem costituito da Edmondo Bruti Liberati e Raffaella Calandra. Il “cammino” verso la “stella polare” è dunque tracciato, suggeriscono i relatori dell’incontro, a cominciare dal magistrato Gianluigi Pratola, componente della formazione decentrata che la Scuola delle toghe cura presso la Suprema corte. Un’idea, su tutte: la necessità, dichiarata da Cassano, che gli uffici giudiziari, a cominciare da piazza Cavour, “possano avvalersi del contributo di esperti della comunicazione”. È l’obiettivo a cui guardano gli stessi Bruti Liberati (anche lui tra i relatori del seminario) e Calandra (coautrice del capitolo conclusivo del manuale in virtù della propria esperienza di cronista giudiziaria), seppur con una “tappa intermedia”: “Formare magistrati in grado di coadiuvare il capo dell’ufficio proprio nelle attività di comunicazione”, come spiega l’ex capo dei pm milanesi. Sembra strano, ma a fronte di una consapevolezza che sembra maturare nella magistratura, si fa fatica a immaginare un quadro valoriale di riferimento che possa essere condiviso con avvocatura e operatori dell’informazione. A sollecitarlo è il presidente del Cnf Greco, che nel proprio intervento parte da un’osservazione: “Noi avvocati abbiamo regole chiare che riguardano anche la sobrietà nella comunicazione pubblica, e che confliggono con la tendenza di alcuni colleghi a cercare pubblicità nel racconto giornalistico dei processi in cui sono coinvolti. Tanto che forse sarebbe interessante ipotizzare una regola aurea per cui nella cronaca giudiziaria si evita di segnalare il nome del difensore e del pm, in modo da raffreddare le tensioni che attraversano l’informazione in questo campo”. L’ipotesi in realtà è solo esemplare di quel “codice etico” che Greco, appunto, auspica sia “condiviso tra magistrati, giornalisti e avvocati: se non possiamo pretendere di arrivare a regole deontologiche comuni, possiamo però convergere su principi valoriali che ispirino tutti gli operatori del sistema giustizia”. È un’ipotesi che vede favorevole Bartoli, ma che i magistrati intervenuti all’incontro non vedono così vicina. D’altra parte, Cassano, come Salvato, a propria volta autore di un discorso assai pragmatico, sono consapevoli dei limiti che oggi le toghe devono affrontare nel rapporto con la stampa. “Da presidente delle sezioni unite ho constatato il paradossale rovesciamento del messaggio, nelle cronache del giorno dopo, della sentenza sul saluto romano: noi abbiamo rafforzato le tutele, ma in virtù della lettura proposta dai media ci siamo trovati con le rimostranze della comunità ebraica”. Da qui Cassano arriva ad auspicare appunto, con ammirevole senso del limite della magistratura, “degli esperti di comunicazione negli uffici giudiziari”. Anche Salvato ritiene necessario “affidarsi ai professionisti dell’informazione, giacché è impensabile “confondere la motivazione, sola forma comunicativa a cui il giudice è vincolato, con una sorta di giustificazione della decisione assunta: se un atto giudiziario andasse incontro alle aspettative dei social media, finiremmo per mettere a rischio le libertà fondamentali”. Idee chiare, anche se per la “Costituente della giustizia mediatica” a cui guarda Greco ci sarà da lavorare. Ma intanto Bartoli è autore di un richiamo esemplare quando ricorda che “non è possibile continuare ad assistere a talk show che pretendono di offrire una parodia del processo: la giustizia si compie nelle aule dei tribunali, non in contesti gestiti da intrattenitori o, peggio, da imbonitori”. Ed è imperdibile il decalogo per la buona comunicazione del magistrato che Bruti Liberati estrapola, dal manuale di Giappichelli, a beneficio delle centinaia di avvocati e magistrati collegati via “Teams”: spicca, tra gli altri, il condivisibile richiamo a “non dire ciò che non si vuole finisca poi sui giornali: la logica dell’off the record è sbagliatissima, perché se tu magistrato una cosa al giornalista la dici, quest’ultimo ha il diritto di pubblicarla”. C’è un’ampia retrospettiva sul modello francese, in cui sono stati i giornalisti a “formare” i giudici, e all’uso delle nuove conferenze stampa previste dalle norme sulla presunzione d’innocenza: “Vanno preparate bene: sono strumenti efficaci ma delicati. Certo migliori del microfono- gelato che costringe il procuratore a rispondere senza riflettere. La distanza fisica si traduce anche in qualche istante in più per ponderare la risposta”. La grammatica c’è, ed è ben scritta, in attesa di una sintassi condivisa. Diritti, la latitanza della politica di Carlo Galli La Repubblica, 19 marzo 2024 Sono le sfide che si stagliano davanti alle democrazie liberali lo sfondo della relazione annuale che il presidente della Corte Costituzionale, Augusto Barbera, ha svolto ieri in un documento la cui importanza travalica lo specialismo degli addetti ai lavori, e merita di entrare nel più ampio discorso pubblico. Il punto di vista è ovviamente quello del giurista, ma l’elemento più significativo sta proprio nel fatto che l’argomentazione ha un ampio respiro e mette in gioco, con tutte le cautele del caso, oltre all’attività della magistratura ordinaria anche la politica e l’evoluzione della società. Come dire che la democrazia non vive nella sola dimensione del diritto - pure, evidentemente, imprescindibile - ma che il suo obiettivo costituzionale, la fioritura della persona umana, esige la collaborazione fra diritto e politica. Certo, nella distinzione dei ruoli, ma nella comune proiezione verso la realizzazione del disegno che la Carta reca in sé. Se la Consulta è il Custode della Costituzione, non può costruirsi, secondo le parole di Barbera, una “fragile Costituzione dei Custodi”, un santuario autosufficiente di norme avulse dalla realtà. La crisi della democrazia in Occidente è dovuta a dinamiche economiche che acuiscono le diseguaglianze sociali, al crescente dominio della tecnica che soffoca il cittadino in una rete di crescenti adempimenti e controlli, al proliferare delle emergenze interne ed internazionali che generano ansie e aggressività nella società; ma è dovuta anche al fatto che il motore politico della democrazia fatica a intervenire per normare le nuove esigenze individuali e le nuove sensibilità a cui dare risposte in linea con i principi costituzionali. Questa latitanza della politica è un potente fattore di delegittimazione delle procedure democratiche, e dello Stato al cui potere legislativo spetterebbe il compito di agire. Il caso del “fine vita”, richiamato nella relazione, è l’esempio più evidente, e il più doloroso, di un’incapacità del parlamento già da tempo denunciata dalla Corte, che ha anche provvisoriamente stabilito alcune linee guida per indirizzare il riluttante legislatore. Non un’invasione di campo, ma un sentiero aperto perché un diritto - quello di morire in libertà e dignità - possa essere fruito. Ma, nella perdurante assenza della legge nazionale, è un percorso molto lungo, davanti alla giustizia ordinaria, e ciò ha spinto alcune regioni, prima il Veneto e poi l’Emilia-Romagna, a tentare la via della legislazione regionale. Una tutela dei diritti “fai da te”, discutibile, e anch’essa di difficile applicazione (in Veneto già bocciata). Allo stesso fenomeno di disunione della compagine della democrazia repubblicana appartiene un’altra prassi criticata da Barbera: la disapplicazione immediata, senza passare per la Consulta, da parte dei magistrati ordinari, delle norme che essi ritengono in contrasto con la Costituzione. Dopo avere ricordato la vasta gamma di opzioni pratiche che la Corte ha messo in campo per consentire il buon funzionamento dell’iter giudiziario anche in presenza di eccezioni di costituzionalità, il presidente ha insistito sull’esigenza che sia la Corte l’unica istanza decidente, perché vengano tutelate l’uniformità e la certezza del diritto. Anche a livello giudiziario il “fai da te” è una china pericolosa. Di fatto, le sfide alla democrazia esigono, per essere superate, il buon funzionamento dello Stato democratico - la dimensione europea è ovviamente fatta salva, ma se lo Stato non c’è non sarà l’Europa a supplirlo, proprio come l’attività del parlamento non può essere supplita dalle regioni o dai singoli magistrati giudicanti, né (se non provvisoriamente) dalla stessa Corte. È quindi una democrazia complessa quella disegnata da Barbera - fatta di molti livelli e di molte funzioni, in dialogo e in collaborazione - in cui ciascuno deve fare la sua parte, se si vuole evitare che l’inazione di alcuni e l’iniziativa di altri generino una diffusa sfiducia nelle istituzioni democratiche e trasformino la società in una giungla in cui ciascuno - e ovviamente prima di tutto i gruppi più forti e agguerriti - si prende da sé i propri diritti (o quelli che presume tali) a scapito dei diritti altrui. Una società “fai da te”, in cui i diritti diventano desideri, pretese, e poi intolleranza e prevaricazione. Della democrazia, ci dice Barbera, tutti - il parlamento e l’intera politica, la Corte e l’ordine giudiziario, lo Stato e l’Unione Europea - devono essere leali fautori e custodi. Per rimettere la democrazia sulle sue gambe, e per consentire ai cittadini di esserne protagonisti, si deve insomma capire che i diritti non sono solo una questione individuale, ma anche di sistema. E di un sistema che deve tornare presto a funzionare. Barbera: cari politici, non chiedete ai giudici di fare il vostro mestiere di Sergio Soave Il Foglio, 19 marzo 2024 La Corte non aspira ad assumere impropri poteri legislativi, teme anzi di essere costretta a farlo. La relazione del presidente sull’attività della Corte costituzionale e il richiamo sul fine vita e sulle coppie dello stesso sesso. La relazione di Augusto Barbera sull’attività della Corte costituzionale si è concentrata sull’equilibrio dei poteri e soprattutto sull’esigenza di leale collaborazione tra il Parlamento, cui spetta di legiferare, e la corte che deve assicurare il rispetto dei principi costituzionali. La preoccupazione di Barbera è che l’inerzia del legislatore di fronte a temi sui quali la Consulta ha rilevato problemi di aderenza alla Costituzione, finisca per trasformare le sue sentenze in atti “manipolativi” della legislazione. La Corte non aspira ad assumere impropri poteri legislativi, teme anzi di essere costretta a farlo. È con questo spirito che ha espresso “un certo rammarico per il fatto che, nei casi più significativi, il legislatore non sia intervenuto, rinunciando ad una prerogativa che ad esso compete, obbligando questa corte a procedere con una propria e autonoma soluzione, inevitabile in forza dell’imperativo di osservare la Costituzione”. Barbera chiede un intervento legislativo che dia seguito alla sentenza Cappato “sul fine vita” e uno “che tenga conto del monito relativo alla registrazione anagrafica dei figli di coppie dello stesso sesso”. Sottolinea anche che l’assenza di norme precise provoca una proliferazione di decisioni delle regioni sul fine vita, dei Comuni sulle iscrizioni anagrafiche, il che conferma che se chi deve farlo non si assume la responsabilità di decidere, si crea un caos istituzionale. Il punto chiave del suo ragionamento sta nella frase in cui si sottolinea che la Corte è stata obbligata ad assumere proprie soluzioni di merito: è l’esatto contrario di una rivendicazione di una surrettizia supplenza legislativa della Consulta. Barbera ha anche spiegato che in casi complessi, come quelli citati e in altri più attinenti a questioni economiche e sociali, la Consulta si trova di fronte alla duplice necessità di sanzionare norme che non corrispondono alla costituzione ma anche di evitare che la loro abrogazione, in assenza di nuove norme, crei situazioni in cui si determinano altre inadempienze costituzionali. Se si dichiara illegittimo l’articolo del codice penale che sanziona l’aiuto al suicidio, perché è stato usato per giudicare comportamenti considerati legittimi, si finisce per togliere le sanzioni anche a quelli illegittimi. La Corte ha in vari casi chiesto al Parlamento di legiferare entro un certo termine temporale, in modo da superare questa contraddizione, ma non sempre, non soprattutto nei casi citati, il tempo concesso è stato utilizzato dal legislatore per trovare le soluzioni richieste. Sono note le cause politiche di questa inerzia, anche se naturalmente Barbera non ne ha parlato: c’è chi preferisce “subire” una sentenza piuttosto che assumersi la responsabilità di emanare norme su materie controverse e sulle quali pesano prevenzioni culturali e ideologiche. Naturalmente sono del tutto legittime anche le posizioni di chi vuole evitare che la delimitazione dell’assistenza al suicidio diventi una specie di legalizzazione generalizzata dell’eutanasia, o di chi vuole evitare che attraverso il riconoscimento anagrafico dei figli di coppie omogenitoriali passi anche l’accettazione delle pratiche di utero in affitto. Però anche queste esigenze devono trovare il modo di esprimersi in un confronto che si concluda con un atto legislativo, altrimenti restano petizioni di principio che vengono nei fatti sommerse dal caos istituzionale che si crea per effetto dell’assenza di una legislazione adeguata. Il monito di Barbera dovrebbe servire a superare queste ambiguità e queste inutili furbizie. Il richiamo di Barbera. Lezione su fine vita e figli di coppie gay di Mario Di Vito Il Manifesto, 19 marzo 2024 Il presidente della Corte costituzionale richiama i parlamentari. E ai giudici dice: “Non disapplicate le norme, rivolgetevi a noi”. Di certo non si risparmia, Augusto Barbera. Nel giorno della riunione straordinaria della Corte costituzionale, il presidente tiene banco per una mattinata intera, prima con un’ora di relazione sull’anno passato, e poi con con un’altra ora di risposte ai cronisti. A quasi 86 anni, forte di cinque legislature parlamentari con Pci e Pds e 9 anni da giudice costituzionale, l’incedere retorico di Barbera è piacevolmente old school, a tratti implacabile e a tratti imprendibile. La parte implacabile riguarda le stoccate date a parlamento e giudici. Quella imprendibile è nelle risposte ai giornalisti, che provano in tutti i modi a far sbilanciare il presidente su questioni politiche, ricevendo però in cambio solo risposte elusive. Così, davanti a Mattarella, Barbera non si è fatto alcun problema ad affondare il colpo sul parlamento, che sì sarebbe “attore costituzionale” ma che spesso se lo scorda. Come nei casi citati del fine vita e della “condizione anagrafica dei figli di coppie dello stesso sesso”. Ecco, dice il presidente della Consulta, “in entrambi i casi il silenzio del legislatore sta portando, nel primo, a numerose supplenze delle assemblee regionali; nel secondo, al disordinato e contraddittorio intervento dei sindaci preposti ai registri dell’anagrafe”. Da qui la domanda “se non sia da mettere in evidenza l’importanza del dovere di cooperazione tra Corte costituzionale e legislatore, ciascuno nel rispetto e nei limiti, anche procedurali, delle proprie competenze”, con la Corte che la sua parte la sta già facendo, visto che è passata “dai moniti alle sentenze additive di principio; dalle pronunce di inammissibilità per discrezionalità legislativa si è passati all’incostituzionalità prospettata, ma non dichiarata, o, in modo ancora più penetrante, alle decisioni a incostituzionalità differita”. Il potere legislativo non è l’unico bersaglio di Barbera. Colpi secchi, infatti, arrivano anche su quello giudiziario, con la citazione dei “disinvolti tentativi di taluni giudici comuni di disapplicare le norme nazionali da essi reputate in contrasto con la Convenzione europea”. Eventualità definite “marginali”, anche se il riferimento al caso della giudice di Catania Iolanda Apostolico che decide di disapplicare il decreto Cutro - con conseguente codazzo di polemiche, veri dossieraggi e ricorsi ancora pendenti - appare in controluce. Sostiene Barbera: “Si può comprendere, ma non giustificare, che il giudice avverta l’esigenza di approntare una risposta, la più rapida ed efficace possibile, a fronte di assetti normativi reputati in contrasto con la Costituzione, e, più specificamente, di offrire una tutela ai diritti inviolabili che essa riconosce”. Un errore perché “è un orientamento dei giudici di merito praticamente immotivato, alla luce del fatto che la Corte è in grado, ormai, di definire un incidente di legittimità costituzionale nel giro di pochi mesi e che, nel frattempo, sono comunque esercitabili da parte del giudice comune i necessari poteri cautelari, affinché non vi sia un vuoto di tutela costituzionale”. L’ora finale in compagnia dei giornalisti vede un Barbera meno formale, capace di notevoli acrobazie per evitare di esprimere opinioni sull’esecutivo, e con tratti addirittura bruschi, come quando scansa senza pensarci troppo le domande su carcere e ingiusta detenzione. Più esteso il capitolo sul caso dell’ex vicepresidente Nicolò Zanon, che negli ultimi mesi si è messo a raccontare vari dettagli delle decisioni della Consulta, violando la sacra regola del silenzio sulle camere di consiglio, le cui discussioni interne dovrebbero rimanere sempre e per sempre riservate: “Va comunque rispettato, e lo sottolineo con forza, il segreto della camera di consiglio, volto non a garantire sorpassati arcana imperii, ma istituto necessario per assicurare la libertà e l’indipendenza della Corte costituzionale”. Quando gli viene fatto notare che anche Amato, nel suo ultimo libro scritto insieme a Donatella Stasio, ha svelato il retroscena di una sentenza, Barbera, un po’ a sorpresa, resta quasi spiazzato e ammette di non aver ancora letto tutto il poderoso volume del suo predecessore. Resta il punto di principio sulle cosiddette dissenting opinion, le “relazioni di minoranza” previste da altre corti costituzionali europee. Barbera ora dice che “fin dai primi anni di vita della Corte non si è avvertita l’esigenza” di introdurre qualcosa del genere. Ma in un suo articolo uscito sulla rivista dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti il parere sembrava diverso: si chiedeva infatti “almeno l’espressione delle opinioni dissenzienti”. Correva l’anno 2015. Barbera non era ancora giudice costituzionale. Lo diventerà poco dopo. Cambiare la scuola seguendo i ragazzi di Dacia Maraini Corriere della Sera, 19 marzo 2024 Torno a parlare di scuole perché le frequento sempre più spesso. La voce dei media nazionali ripete affranta che gli studenti ormai sono delle larve, incapaci perfino di leggere e scrivere, prigionieri dei social e di altre diavolerie tecnologiche. È vero che ci sono gli svogliati e gli incapaci, ma non sono la maggioranza. Sono solo i più visibili. La scuola è sempre stata piena di pigri e di ignoranti, basta leggere Pinocchio o il libro Cuore. Ma mentre un tempo erano intimiditi dalla sacralità della istituzione, oggi si sentono in diritto di esprimere la propria negligenza in piena classe, e addirittura, quando possono, in forme di violenza contro compagni o insegnanti. L’ultima scuola che ho visitato è la Einaudi di Chiari (Brescia). Presieduta da una donna tenace, Vittorina Ferrari. Alla Einaudi si sente quanto la vecchia idea che l’insegnante sia colui che sa e l’alunno quello che non sa, sia ormai arcaica. Oggi i ragazzi vogliono partecipare al processo di conoscenza, ma in un rapporto orizzontale, ovvero dialettico. Quando vengono dotati di stimoli alla consapevolezza e alla creatività, i ragazzi rispondono con gioia. Isotta, una vivace e sapiente ragazzina ha condotto il nostro incontro. Niente insegnanti, ma solo studenti che non facevano domande, ma esprimevano il loro pensiero. Insomma l’”Io ti insegno” si è trasformato in “noi impariamo”. Isotta, dalle trecce bionde che spiccano su una pelle scura, ha raccontato che nessuno l’ha fatta sentire diversa fra i compagni. Solo una volta una bambina le ha chiesto: Ma perché hai la pelle nera? E la risposta: Perché in Africa c’è il sole che brucia e per difendersi la pelle tira fuori la melanina, come fa anche sulla tua pelle quando stai al sole d’estate. Come Isotta sono tanti le ragazze e i ragazzi nati in Italia che meriterebbero subito la cittadinanza. Basterebbe rendersi conto di questa metamorfosi del sistema di apprendimento per migliorare le scuole. Sono sicura che una volta preso di mira il rapporto, verrebbe spontaneo anche rendere piacevoli i luoghi fisici in cui si impara. La scuola è stata dissacrata dalla pessima idea riformatrice che dovesse trasformarsi in azienda produttiva. Il preside è diventato dirigente e invece di occuparsi di cultura, deve stare dietro ai conti. Ma la scuola non è una azienda, è un luogo di formazione e su quello si deve puntare, investendo sia economicamente che culturalmente. Molti insegnanti lo fanno già. Ma non sono aiutati dalle istituzioni. Minori stranieri non accompagnati: l’Italia attui le sentenze della Cedu di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 marzo 2024 Arriva il richiamo del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa. Nell’ombra delle decisioni politiche e delle leggi emanate, si cela spesso la realtà dei diritti umani violati, dei minori abbandonati a un destino incerto e degli individui privati della loro dignità. È quanto emerge dalla recente pronuncia del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, che ha posto sotto la lente d’ingrandimento la situazione dell’accoglienza dei minori non accompagnati in Italia. Il caso che ha catalizzato l’attenzione è quello di Darboe e Camara c. Italia, una sentenza del 2022 che ha condannato l’Italia per aver collocato un minore straniero non accompagnato per più di 4 mesi in un centro di accoglienza per adulti, sovraffollato e privo di strutture e assistenza sanitaria adeguate, e per averlo identificato come adulto, solo sulla base di un esame radiografico del polso e senza garantirgli la possibilità di presentare ricorso. Nonostante questa sentenza, l’Italia sembra non aver intrapreso misure sufficienti per garantire il rispetto dei diritti umani nei confronti di questi minori vulnerabili. Il governo italiano, nel 2023, ha chiesto la chiusura della procedura di supervisione della sentenza, affermando di aver preso le misure necessarie per porre fine alle violazioni riscontrate. Tuttavia, le affermazioni delle autorità italiane sono state contestate dall’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi), che ha segnalato al Comitato dei Ministri la persistenza di violazioni sistemiche analoghe a quelle per cui l’Italia era stata condannata. La situazione si è ulteriormente aggravata con l’entrata in vigore del decreto legge 133/ 23, convertito in legge 176/ 23, che ha notevolmente ridotto le garanzie relative alla procedura di accertamento dell’età dei minori stranieri non accompagnati. Questo passo indietro legislativo ha sollevato serie preoccupazioni sia all’interno che all’esterno del paese. Il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha espresso profonda preoccupazione per la legislazione emanata, che ha fornito la base giuridica per collocare i migranti non accompagnati di età superiore ai 16 anni in strutture per adulti, violando così il divieto assoluto di trattamenti inumani o degradanti. Questo è in netto contrasto con le norme stabilite dalla Corte Europea dei Diritti umani e ha sollevato il timore di ulteriori violazioni dei diritti umani fondamentali. Inoltre, il Comitato ha rilevato gravi carenze nel sistema di accoglienza dei minori non accompagnati, definendo la capacità del sistema “largamente insufficiente”. Questo scenario, già critico, è stato ulteriormente complicato dall’attuale emergenza migratoria, mettendo a rischio la tutela e il benessere dei minori più vulnerabili. Di fronte a questa situazione, il Comitato dei Ministri ha invitato le autorità italiane a intraprendere misure concrete per garantire il rispetto dei diritti umani dei minori non accompagnati. In particolare, sono richieste ulteriori azioni per migliorare le procedure di accertamento dell’età e per assicurare che i minori non accompagnati siano collocati in strutture adeguate alle loro esigenze e rispondenti al loro superiore interesse. Le autorità italiane sono tenute a fornire informazioni dettagliate sulle misure adottate entro il 15 settembre 2024, in vista del prossimo esame dell’attuazione della sentenza da parte del Comitato dei Ministri. È un momento cruciale per l’Italia, chiamata a dimostrare il suo impegno per i diritti umani e per il rispetto degli standard internazionali nell’accoglienza dei minori non accompagnati. Zuppi: “Ma l’Europa non ripudia la guerra?” di Luca Kocci Il Manifesto, 19 marzo 2024 Presto in visita da Macron. Il cardinale rivendica le parole del Papa sul “coraggio di negoziare”. E critica sull’autonomia differenziata il governo italiano. “Non possiamo rassegnarci a un aumento incontrollato delle armi, né tanto meno alla guerra come via per la pace”. Il cardinale presidente della Cei Matteo Zuppi, aprendo ieri pomeriggio a Roma il Consiglio episcopale permanente, ha messo al centro del suo intervento il tema della pace, “priorità” assoluta visti “i conflitti di cui l’umanità si sta rendendo protagonista in questo primo quarto di secolo”. In particolare è la guerra in Ucraina a cui guarda il capo dei vescovi italiani, che ha ripreso - e difeso - le dichiarazioni di papa Francesco alla Radiotelevisione della Svizzera italiana della scorsa settimana (“Occorre avere il coraggio di negoziare”), criticate da Nato, Usa, Europa e Kiev per il sentore di resa che secondo loro emanavano. “Le parole del papa sono tutt’altro che ingenuità”, ha spiegato Zuppi, ribadendo la necessità di trovare una via pacifica per la “composizione dei conflitti”, “facendo trionfare il diritto e il senso di responsabilità sovranazionale”. La storia, ha aggiunto, “esige di trovare un quadro nuovo, un paradigma differente, coinvolgendo la comunità internazionale per trovare insieme alle parti in causa una pace giusta e sicura”. “Possiamo ancora accettare che solo la guerra sia la soluzione dei conflitti? Ripudiarla non significa arrestarne la progressione o dobbiamo aspettare l’irreparabile per capire e scegliere?”, ha chiesto il presidente della Cei, che nelle prossime settimane volerà a Parigi per incontrare il presidente francese Macron - principale sponsor dell’invio di truppe a sostegno dell’Ucraina - dopo essere stato già a Kiev, Mosca, Washington e Pechino per conto di papa Francesco. “L’Italia ripudia la guerra, l’Europa no?”, ha concluso Zuppi (e “quale Europa in un mondo in guerra?” è il tema di un incontro promosso a Roma domani alle 18 da Pax Christi e Movimento dei Focolari con l’ex direttore di Avvenire Marco Tarquinio). Il presidente della Cei ha parlato anche in termini non proprio amichevoli del governo italiano. A proposito di fine vita, ha invitato a utilizzare “senza alcuna discrezionalità” le cure palliative (“disciplinate da una buona legge ma ancora disattesa”) e ad applicare pienamente la norma “sulle disposizioni anticipate di trattamento”, il cosiddetto testamento biologico. Sull’autonomia differenziata, poi, la bocciatura è netta, prefigurando anche un impegno diretto della Cei contro la legge voluta soprattutto dalla Lega. “Suscita preoccupazione la tenuta del sistema Paese, in particolare di quelle aree che ormai da tempo fanno i conti con la crisi economica e sociale, con lo spopolamento e con la carenza di servizi - ha detto Zuppi -. Non venga meno un quadro istituzionale che possa favorire uno sviluppo unitario, secondo i principi di solidarietà, sussidiarietà e coesione sociale. Su questo versante, la nostra attenzione è stata costante e resterà vigile”. Processo Regeni, la Procura chiede aiuto alla Farnesina per ascoltare i testimoni di Youssef Hassan Holgado Il Domani, 19 marzo 2024 Il pm Colaiocco ha detto che servirà il ministero degli Esteri per chiamare a raccolta tutti i testimoni. Sulla visita di Meloni al Cairo i genitori di Regeni: “Non commentiamo”. La legale: “Fortunatamente c’è la separazione dei poteri, a differenza di quello che succede nei regimi”. Le coincidenze a volte sono beffarde. Mentre in Egitto e in Italia i giornali di ieri titolavano sulla visita al Cairo di domenica della presidente del Consiglio Giorgia Meloni e degli altri leader europei, al tribunale di Roma si è tenuta la seconda udienza del processo sull’assassinio di Giulio Regeni iniziato il 20 febbraio scorso. Una vicenda sulla quale sembra oramai calato il silenzio istituzionale ma non quello delle opposizioni e della società civile che continuano a chiedere giustizia per il ricercatore friulano barbaramente torturato e ucciso nel 2016. L’udienza si è aperta con la seconda corte d’assise di Roma che ha respinto le eccezioni di nullità del processo avanzate dalla difesa dei quattro agenti dei servizi di sicurezza egiziani imputati, a cui le autorità del Cairo non hanno mai notificato gli atti giudiziari in tutti questi anni. Secondo i giudici hanno condotto una “brutale e gratuita violenza fisica”, “che non possono che avere prodotto, per la loro imponenza, gravissimo dolore e tormento in senso stretto, in un crescendo che ha originato l’evento morte, anche a voler trascurare il dato del patimento psicologico”. Per queste motivazioni il procedimento che vede coinvolti i colonnelli Husan Helmi, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, il maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif e il generale Tariq Sabir si celebra in contumacia, dopo la pronuncia n.192/23 della Consulta. I punti contro gli imputati - Il procuratore aggiunto di Roma Sergio Colaiocco, che indaga sul caso da anni, ha la certezza che da settembre 2015 Giulio Regeni è finito sotto il mirino dei servizi segreti egiziani, i quali lo avevano scambiato erroneamente per una spia. Gli agenti non avevano capito che il cittadino friulano si trovava in realtà in Egitto per lavorare al suo progetto di ricerca con l’università di Cambridge che vedeva coinvolti i commercianti ambulanti e alcuni sindacati dei lavoratori. Per i procuratori intorno a lui è stata creata una “ragnatela” con “l’acquisizione del passaporto a sua insaputa”, con le “perquisizioni in casa in sua assenza”, con i “pedinamenti”, le “fotografie e i video” e tanto altro. A carico degli imputati sono stati infatti annunciati in aula dieci elementi che inchioderebbero il loro operato, tra quelli acquisiti ci sono i video della fermata della metro del Cairo dove il 25 gennaio del 2016 Giulio è stato rapito (e non è un caso se al video mancano i minuti del momento del rapimento), il pc di Regeni che ha fornito elementi utili sul movente, i tabulati telefonici. E poi sarebbero tre i depistaggi che secondo la procura capitolina i servizi di sicurezza egiziani avrebbero messo in piedi per coprire il brutale omicidio: il primo è quello con cui hanno cercato di creare un movente sessuale, il secondo è quello di una rapina finita male e infine è stato inscenato il ritrovamento dei documenti di Giulio in una abitazione di un gruppo criminale poi ucciso dalla polizia egiziana. La richiesta di aiuto - “Lo diciamo sin da ora: servirà un proficuo lavoro del ministero degli Esteri che dovrà suscitare la collaborazione delle autorità egiziane. Solo la polizia egiziana, infatti, può notificare gli atti e dare il via libera per ascoltare a processo i 27 testimoni inseriti nella nostra lista e che vivono in Egitto. Questa collaborazione sarà fondamentale per una compiuta ed esaustiva ricostruzione dei fatti”, ha detto ieri il pm Colaiocco. Ora la paura è che i testimoni, molti dei quali hanno deciso di parlare sotto anonimato, non vengano a deporre in aula. La mancata collaborazione delle autorità del Cairo è sempre stato un nodo politico che ha attraversato tutti i governi succedutesi dal 2016 a oggi. Chi è stato seduto a Palazzo Chigi, che sia di destra, di centro o di sinistra, ha sempre avuto buone relazioni diplomatiche con il presidente Abdel Fattah al Sisi considerato un partner strategico importante soprattutto dal punto di vista energetico ma anche per arginare i flussi migratori. Ieri il presidente del Copasir e deputato del Partito democratico, Lorenzo Guerini, ha detto che bisogna mantenere un dialogo aperto insieme all’Egitto. “Questo però non significa nascondere le difficoltà che questa interlocuzione comporta, e non significa tacere sui diritti civili o arretrare sulla richiesta di procedere nell’individuazione dei responsabili dell’omicidio Regeni”. Intanto, domenica al Cairo insieme alla premier c’era anche il vice ministro degli Esteri Edmondo Cirielli che con la controparte egiziana ha firmato due accordi di cooperazione. La stessa Farnesina a cui la procura chiede aiuto per il processo. I genitori di Giulio Regeni hanno preferito non commentare la visita di Meloni al Cairo, poche parole le ha dette in loro nome la legale Alessandra Ballerini. “Non commentiamo le parole della premier Meloni, diciamo solo che nel nostro paese fortunatamente c’è la separazione dei poteri, a differenza di quello che succede nei regimi”. Secondo Ballerini il processo “si farà con un ritmo anche serrato di udienze. Possibile che si concluda anche in poco tempo. Grazie al supporto di tutti, anche della stampa”, ha detto la legale. Prossima tappa è il 9 aprile quando verranno ascoltati i testimoni per ricostruire la vita di Giulio Regeni. Netanyahu ha distrutto Gaza senza una strategia. E ha provocato una crisi umanitaria permanente di Thomas L. Friedman* Il Dubbio, 19 marzo 2024 Migliaia di morti ma nessun piano politico. Così il dopo-Hamas sarà persino peggiore. Israele oggi è in grave pericolo. Con nemici come Hamas, Hezbollah, gli Houthi e l’Iran, dovrebbe godere della simpatia di gran parte del mondo. Ma non è così. A causa del modo in cui il primo ministro Benjamin Netanyahu e la sua coalizione estremista hanno condotto la guerra a Gaza e l’occupazione della Cisgiordania, Israele sta diventando radioattivo e le comunità ebraiche della diaspora ovunque sono sempre più insicure. Temo che tutto stia per peggiorare. Nessuna persona imparziale potrebbe negare a Israele il diritto all’autodifesa dopo che l’attacco di Hamas del 7 ottobre ha ucciso circa 1.200 israeliani in un giorno. Le donne hanno subito abusi sessuali e i bambini sono stati uccisi davanti ai loro genitori e i genitori davanti ai loro figli. Decine di uomini, donne, bambini e anziani israeliani rapiti sono ancora tenuti in ostaggio in condizioni terribili, ormai da più di 150 giorni. Ma nessuna persona imparziale può guardare alla campagna israeliana per distruggere Hamas che ha ucciso più di 30mila palestinesi a Gaza, solo un terzo dei quali combattenti, e non concludere che qualcosa è andato terribilmente storto. Tra i morti ci sono migliaia di bambini e tra i sopravvissuti molti orfani. Gran parte di Gaza è ora una terra desolata di morte e distruzione, fame e case in rovina. La guerra urbana fa emergere il peggio in assoluto delle persone. Questa è una macchia sullo Stato ebraico. Ma Israele non è il solo a creare questa tragedia. Anche la macchia su Hamas è nera. La milizia islamista ha iniziato il conflitto il 7 ottobre senza alcun avvertimento, protezione o rifugio per i civili di Gaza, e lo ha fatto ben sapendo che Israele avrebbe risposto bombardando le sue roccaforti nascoste sotto case, moschee e ospedali. Hamas ha mostrato un totale disprezzo per la vita dei palestinesi. Ma Hamas era già etichettato come organizzazione terroristica. Non è un alleato degli Stati Uniti. Israele potrebbe subire un altro duro colpo per un motivo che mi ha reso scettico fin dall’inizio: Netanyahu ha inviato le forze di difesa a Gaza senza un piano coerente per governarla. C ‘ è solo una cosa peggiore per Israele di una Gaza controllata da Hamas: una Gaza dove nessuno è al comando, una Gaza dove il mondo si aspetta che Israele garantisca quell’ordine che non può o non vuole garantire. Così la crisi umanitaria sarà permanente. La mia recente visita al confine di Gaza mi ha suggerito che è esattamente lì che siamo diretti. Basti pensare alla caotica la distribuzione del cibo. Israele sta rompendo il dominio di Hamas, rifiutandosi però di assumersi la responsabilità dell’amministrazione civile a Gaza - e rifiutandosi di arruolare l’Autorità Palestinese, che ha migliaia di dipendenti a Gaza, per svolgere tale compito. Si comporta in questo modo perché Netanyahu non vuole che l’Anp diventi il governo palestinese in Cisgiordania e a Gaza, il che potrebbe darle una possibilità per diventare un giorno uno Stato palestinese indipendente. Israele ha un premier che preferirebbe vedere Gaza devoluta alla Somalia, governata dai signori della guerra, e mettere a rischio il disarmo di Hamas piuttosto che collaborare con l’Autorità Palestinese o con qualsiasi governo palestinese legittimo perché i suoi alleati di estrema destra, che sognano di cotrollare tutto il territorio tra il fiume Giordano e il Mediterraneo, inclusa Gaza, lo estrometteranno dal potere se lo farà. A quanto pare Netanyahu spera di arruolare i leader dei clan palestinesi locali, ma dubito seriamente che funzionerà. Israele ha provato e fallito questa strategia in Cisgiordania negli anni 80, poiché questi locali erano spesso stigmatizzati come collaborazionisti e non hanno mai ottenuto l’appoggio del governo. Confesso che mentre contemplavo tutto questo dal confine, ho avuto due flashback che erano una sorta di incubi diurni. Il primo è stato ricordare l’invasione americana dell’Iraq con l’obiettivo di costruire un nuovo ordine democratico che sostituisse la tirannia di Saddam Hussein, cosa che io ho sostenuto. Ma quando si è trattato di attuarla, l’amministrazione Bush ha distrutto l’esercito iracheno e il partito Baath al potere senza un piano coerente per creare una governance alternativa. Ciò spinse molti iracheni anti- Hussein contro gli Usa e creò le condizioni per l’insurrezione anti- americana. Allora scrissi: “L’America ha distrutto l’Iraq, ora ha la responsabilità primaria di normalizzarlo. Se l’acqua non scorre, se non arriva il cibo, se non arriva la pioggia e se non splende il sole, adesso è colpa dell’America. Sarà meglio abituarci, sarà meglio sistemare le cose, sarà meglio farlo presto e sarà meglio ricevere tutto l’aiuto possibile”. Israeliani e palestinesi sono interdipendenti, Chissà se un giorno riusciranno a creare una sana interdipendenza o se saranno condannati a un’interdipendenza malsana. Ma saranno interdipendenti. Ogni comunità ha bisogno di un leader le cui azioni siano motivate da quella verità fondamentale. In questo momento, nessuno dei due ne ha uno. *New York Times Ruanda. I figli innocenti dell’odio: “Hutu o Tutsi non conta più” di Michele Farina Corriere della Sera, 19 marzo 2024 Nei 100 giorni del genocidio più rapido della storia 800mila persone furono uccise. Oggi i ragazzi vivono in un mondo diverso “dove vittime e carnefici si parlano”. “La cosa più importante è cosa ti metti in testa. Se ti ostini a pensare in malafede, tu diventi ciò che pensi. Se ritorno a ciò che è successo 30 anni fa, io da ruandese avrei preferito che le persone mi avessero messo in testa l’unione e l’amore. In questo modo, insieme, saremmo andati lontano”. “Oggi in Ruanda la cosa che più mi tocca” dice Leonille Niyigena “è che carnefici e sopravvissuti si parlano”. Leonille è nata ventisei anni fa, ed è un volto dei “nuovi ruandesi”. È nata quando Julien ha cominciato a fare il reporter. In Ruanda il genocidio del 1994 è lo spartiacque di ogni cronologia: nel parlare comune, per collocare un evento nel tempo, si dice semplicemente “prima” e “dopo”. Come prima di Cristo e dopo Cristo. Leonille è nata “dopo”, come il ventiquattrenne Patrice Muttilwa: “Mio padre mi ha raccontato quanto è successo. Mi ha detto che hanno ucciso sua madre, mia nonna, davanti ai suoi occhi. È qualcosa di molto doloroso ancora oggi, anche per me. Qualcosa di molto difficile da capire. Come si può fare una cosa simile? E i killer erano i loro vicini di casa”. A ogni ricorrenza, e a ogni latitudine, il più rapido genocidio del mondo contemporaneo fa pensare a qualcosa di oltremodo doloroso e impensabile. Come ha scritto Rory Stewart citando Saul Friedlander, “un genocidio è troppo pesante per essere dimenticato, e troppo ripugnante per essere integrato in una normale narrativa della memoria”. Come e cosa ricordano i nuovi ruandesi arrivati “dopo”? L’età media nel Paese delle Mille Colline è 19 anni. La maggior parte dei 14 milioni di abitanti non era ancora venuta alla luce quando, in cento giorni, dall’aprile al luglio 1994, almeno 800 mila individui (compresa la nonna di Patrice) furono massacrati in 29 modi diversi, con il fuoco e con le pallottole ma soprattutto a colpi di machete e di mazza chiodata (masu). I carnefici furono probabilmente 250 mila, di cui meno del 3% donne, anche se le autorità di Kigali ritengono che 3 milioni di persone abbiano avuto delle responsabilità nei massacri. Un genocidio pianificato - Il governo degli estremisti di etnia hutu ordinò e pianificò il genocidio della minoranza tutsi (15% della popolazione) mentre il Sudafrica celebrava la fine dell’apartheid e l’elezione di Nelson Mandela a primo presidente nero. A Kigali, capitale di un Paese grande all’incirca come la Lombardia incastonato nel cuore dell’Africa, i governativi mobilitarono l’esercito, le forze paramilitari Interahamwe (“coloro che attaccano insieme”) e i civili che normalmente venivano chiamati a raccolta per le corvée collettive denominate umuganda. Questa volta “il lavoro da fare”, così era chiamato, non era il disboscamento di un’area incolta ma quello di un’intera comunità, che viveva fianco a fianco con la maggioranza hutu, in una società che i matrimoni misti avevano reso sempre più aperta e intrecciata. Il lavoro era il genocidio dei tutsi, e della minoranza dei “lavativi” hutu che si opponevano all’opera di “pulizia etnica”: alla radio gli speaker invitavano ogni cittadino a “finir le travail” uccidendo i restanti “scarafaggi” in circolazione. Addio alle etichette illegali - “Oggi in Ruanda quando ci presentiamo a qualcuno non usiamo più le vecchie etichette di tutsi e hutu” dice Carmel Joe Muligande, 23 anni. “È illegale, e se lo fai finisci in prigione. Siamo semplicemente ruandesi”. Uno dei paradossi della memoria, in particolare della memoria di un evento “irricordabile” come un genocidio, è che porta con sé (a volte per legge) una certa dose di oblio. Ricordare il genocidio degli hutu sui tutsi, e al tempo stesso cancellare il fatto che ci siano (ancora) gli uni e gli altri. Come si riesce a vivere nel “dopo” senza dimenticare “il prima”? Ester Iranzi, 21 anni, un paio di occhiali dalla grande montatura e un giubbetto jeans, ha detto a Julien Daniel: “Ciò che metti nella testa è ciò che ti fa essere quello che sei. Pensando a quanto è successo trent’anni fa, avrei preferito che la gente mettesse nella mia testa pensieri come unione, amore e benessere. Solo così si può andare avanti insieme”. È un modo un po’ arzigogolato per esprimere la voglia di futuro e “la stanchezza da ricorrenza”? Il disagio per gli anniversari? Per la memoria in sé? È anche un segno che per i giovani ruandesi quel passato “tossico” è ormai superato? Vittime e carnefici si parlano - “Mettere i pensieri nella testa delle persone”, come dice Ester Iranzi, è ciò che fa la cultura, o la narrativa di regime. “I giovani ruandesi” fotografati e intervistati da Julien Daniel fanno parte di questa narrativa? I giudizi sul presidente Paul Kagame, che da trent’anni governa il Paese, sono tutti positivi. Se “vittime e carnefici si parlano” dice Leonille Niyigena “è grazie alla leadership del nostro presidente”. E Sandrine Uwizeye, 23 anni, vorrebbe che “il presidente restasse al potere per sempre, fino alla sua morte”. Cosa che, al momento, sembra molto probabile. Quest’anno si terranno nuove elezioni e Kagame non ha concorrenti. L’ultima volta che i ruandesi sono andati alle urne, l’ex generale ribelle del Fronte Patriottico che sconfisse il governo dell’Hutu Power e mise fine al genocidio ha ottenuto il 99 e passa per cento dei voti. Nel 1994 Kagame, cresciuto tra i rifugiati tutsi scappati nel vicino Uganda dopo i massacri del 1959, aveva 36 anni e a Massimo Nava del Corriere della Sera dalla foresta raccontava: “Questo non è uno scontro tribale, come pensano molti in Europa, ma una guerra di liberazione. La gente è dalla nostra parte, perché ha capito che senza diritti non ha senso vivere”. Diritti ancora calpestati - Oggi in Ruanda i diritti degli individui vengono spesso calpestati. I rapporti di associazioni come Amnesty International e Human Rights Watch denunciano l’evidente e capillare repressione governativa nei confronti di oppositori e voci fuori dal coro. La risposta sprezzante di Kagame tocca i nervi scoperti dell’Occidente (“da quale pulpito ci date lezioni”), ricorda le colpe della comunità internazionale in quei cento giorni di massacri, la vergognosa omissione di soccorso (che riguarda l’Onu, gli Stati Uniti, l’Europa) se non l’appoggio al regime genocida (un’accusa che tocca la Francia). E gli altri attori? Trent’anni fa Cina e Russia erano fuori dai grandi giochi del potere globale. Quello era il mondo in cui si vaticinava la fine della storia, con Mosca alle prese con la caduta dell’Urss e Pechino ancora in disparte. Sono passati trent’anni, il mondo è cambiato ma l’atteggiamento internazionale nei confronti del Ruanda di Kagame è rimasto quello di chi si sente giustamente in colpa per le assenze e i silenzi del passato: distratti allora, quando i tutsi venivano massacrati sotto gli occhi dei Caschi Blu, e distratti oggi davanti alle pieghe autocratiche di chi ha dimenticato che “non ha senso vivere senza diritti”. Povertà cronica nelle campagne - Il Ruanda di Leonille, Patrice, Ester corrisponde all’immagine che vuole dare il governo e che vogliamo avere anche noi: quella di un Paese che dalle violenze dei machete e dei masu è passato alla modernità dell’information technology. È un’immagine molto metropolitana, Kigali-centrica, dimentica del fatto che la grande maggioranza dei ruandesi vive nelle campagne, in un contesto di povertà cronica e di campicelli a gestione familiare. Il Ruanda come la Singapore o la Svizzera dell’Africa: hub aereo, tecnologico, finanziario, lindo e ordinato. All’avanguardia sui temi di genere, con una maggioranza femminile in Parlamento. Un Paese pronto ad accogliere i migranti deportati dalla Gran Bretagna, con un discusso e (per Kigali) lucroso accordo che probabilmente non decollerà mai. Il fronte congolese - L’immagine di un Paese pacificato, che ha dimenticato per legge la divisione tutsi/hutu, salvo continuare a esserne ossessionato ai piani alti del potere. L’intervento militare e l’appoggio ruandese alle milizie tutsi nella vicina Repubblica Democratica del Congo non è mai venuto meno dal 1994, quando due milioni di hutu (tra cui i responsabili del genocidio) fuggirono oltre confine. Negli ultimi mesi, l’avanzata dell’M23 (esercito rivoluzionario congolese ndr) sostenuto da Kigali ha acuito la crisi umanitaria nella regione congolese del Nord Kivu, arrivando a circondare Goma. La tensione con il governo di Kinshasa è ai massimi, missili ruandesi avrebbero colpito forze internazionali dispiegate sul terreno. Ong come Medici Senza Frontiere denunciano una situazione sempre più drammatica nei campi con milioni di sfollati. Kigali accusa Kinshasa di appoggiare milizie hutu come le “Forze democratiche di liberazione del Ruanda”, le stesse che inizialmente furono accusate per l’uccisione dell’ambasciatore Luca Attanasio, in un’area storicamente fuori controllo governativo, con un centinaio di gruppi armati in azione e un tesoro di minerali da sfruttare selvaggiamente. Pressioni Usa - Gli Stati Uniti premono su Kagame perché fermi l’M23. Il presidente-generale fa spallucce. La preoccupazione del Ruanda per i miliziani hutu è giustificata? Giovanni Carbone, ricercatore dell’Ispi esperto di questioni africane, mi dice che i discendenti dei fuoriusciti hutu “probabilmente costituiscono ancora in una certa misura una minaccia esterna” per il Ruanda post-genocidio. “La vicenda personale dello stesso Kagame, figlio di tutsi rifugiati in Uganda, è espressione di questa realtà ciclica, la prova che generazioni successive di rifugiati possono costituire una minaccia per chiunque governi a Kigali”. Il Ruanda del “dopo”, smartphone e vestiti alla moda, deve ancora aver paura del “prima”, machete e masu. E questa forse è la cosa più spaventosa.