Carceri inumane e degradanti: la denuncia di Nessuno Tocchi Caino di Alessandro Fragalà sicilia.lidentita.it, 18 marzo 2024 C’è la legge da far rispettare. C’è la necessità e il dovere di punire chi sbaglia, chi commette reati. Ma c’è anche il diritto alla dignità umana e alla riabilitazione sociale di chi ha capito i propri errori e di chi vuole o vorrebbe ricominciare una vita. In questo panorama c’è la condizione, pietosa, delle carceri italiane e, in questo caso, di quelle siciliane. Una situazione che, ormai da anni, denuncia l’associazione “Nessuno Tocchi Caino” che ha lanciato un’iniziativa denominata “Grande Satyagraha” proprio per rendere nota la verità sulle condizioni di sovraffollamento delle carceri nel nostro Paese. Il Grande Satyagraha ha preso avvio il 21 gennaio con uno sciopero della fame a cui hanno aderito centinaia di cittadini e detenuti. In particolare Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino, e Roberto Giachetti hanno digiunato per 23 giorni. Un’iniziativa a cui ha aderito, in Sicilia, anche il Movimento per l’Autonomia di Raffaele Lombardo. Adesione presentata in una conferenza stampa che si è tenuta nella sede catanese del Movimento. “Che una forza politica - spiega Rita Bernardini - si schieri per il Satyagraha, che significa forza della verità, è qualcosa che a che fare con la civiltà di un paese, è qualcosa che a che fare con lo stato di diritto e con la democrazia. Io mi auguro che altre forze politiche si facciano vive, ma questa adesione del Mpa mi fa particolarmente piacere perché si faccia finalmente giustizia sulla condizione umana e degradante delle nostre carceri”. Durante la conferenza, a cui hanno partecipato anche il segretario di Nessuno Tocchi Caino Sergio D’Elia, il tesoriere Elisabetta Zamparutti, Sabrina Renna e Antonio Coniglio che fanno parte del Consiglio direttivo, è stata esposta una proposta presentata a livello nazionale. “Roberto Giacchetti - spiega ancora Rita Bernardini - ha depositato questa proposta di legge che prevede, per affrontare il problema del sovraffollamento delle carceri, di reintrodurre una legge che fu applicata già all’inizio del 2014, ovvero quella della liberazione anticipata speciale e che viene applicata nei confronti di quei detenuti che abbiano avuto un buon comportamento in carcere, che abbiano aderito alle attività trattamentali e che prevede di passare da 45 a 75 giorni per ogni semestre come sconto di pena. Per il momento è successo un piccolo miracolo laico per cui sia il centrodestra che il centrosinistra hanno calendarizzato questa proposta di legge in commissione giustizia alla camera”. Mancanza di condizioni minime vitali e, forse, anche di dignità. Mancanze che, non di rado, spingono i detenuti a togliersi la vita. In questo senso sembra necessaria una misura di governo per fronteggiare il sovraffollamento carcerario che sta avvinando i livelli che portarono, dieci anni fa, alla condanna dell’Italia da parte della Corte Europea per i diritti umani in quello che fu definito caso Torregiani Vs Italia. “I numeri registrati dall’inizio dell’anno sono di 25 detenuti che si sono tolti la vita, a cui vanno aggiunti 3 agenti di polizia penitenziaria. È un numero veramente impressionante pensando che è relativo solo ai primi mesi dell’anno. Questo andazzo, che è veramente preoccupante, significa che alla fine dell’anno noi rischiamo di superare i 100 suicidi, battendo il record italiano ed europeo. Nell’anno in cui noi abbiamo avuto più suicidi, ovvero il 2022, ne abbiamo registrati più di 80. Superare i 100 sarebbe qualcosa di insopportabile”. Durante i giorni siciliani, Rita Bernardini e i rappresentati di Nessuno Tocchi Caino hanno visitato diversi istituti di pena. Il quadro che ne viene fuori è assolutamente degradante e deprimente. “Noi - conclude il presidente di Nessuno Tocchi Caino - abbiamo visitato in questi giorni il carcere di bicocca a Catania, così come quello di Piazza Lanza sempre a Catania e quello di Siracusa. Vi garantisco che proprio il sovraffollamento e la mancanza di personale della polizia penitenziaria dell’area educativa, la mancanza di cura dell’area sanitaria provocano proprio questi trattamenti inumani e degradanti. Un conto è sentirlo dire, un conto è vedere queste persone negli occhi e vedere la loro sofferenza”. Ecco perché il lavoro in carcere serve a tutti di Raffaele Tovino L’Edicola del Sud, 18 marzo 2024 Partiamo da un dato: il 68,7% dei detenuti che in carcere non lavorano torna a delinquere. E questo valore tocca addirittura il 90% se si pensa che una parte dei reati commessi dai recidivi non viene scoperta. Quante sono, invece, le persone che, dopo aver lavorato regolarmente durante la detenzione, si mettono nuovamente sulla cattiva strada? Non più del 2%. Una statistica che andrebbe spiegata ai teorici del “buttiamo la chiave”, sempre pronti a sventolare cappi e manette, ma anche a chi non sembrano comprendere l’importanza del lavoro in carcere. Un detenuto costretto a vivere in spazi risicati e il più delle volte fatiscenti, ad accontentarsi di due ore d’aria al giorno e a comunicare con i propri familiari dietro un vetro divisorio, finisce per incattivirsi e per interpretare la pena non come un’occasione di reinserimento sociale, ma solo ed esclusivamente come una punizione. I detenuti assunti da aziende che portano i propri reparti all’interno del carcere, invece, sono occupati per otto ore al giorno, guadagnano uno stipendio regolare, pagano le tasse, hanno la possibilità di sostenere economicamente la propria famiglia, sentendosi utili e allontanandosi dalla strada del malaffare. Questa differenza, peraltro piuttosto intuitiva, non sembra essere molto chiara in un Paese come l’Italia. Basta analizzare i numeri: su poco meno di 61mila detenuti, sono soltanto 700 quelli che lavorano in carcere e ai quali se ne aggiungono circa 1.700 che prestano servizio in regime di semilibertà. Lo scenario complessivo non è migliorato dopo l’approvazione del protocollo Cartabia-Colao che avrebbe dovuto portare all’inserimento di circa 10mila detenuti nel mondo del lavoro attraverso una serie di aziende disposte a insediare le rispettive attività nelle carceri. Nel solo settore della fibra ottica erano previste 1.553 assunzioni. Alla fine, per, i detenuti effettivamente ingaggiati sono stati tre. A ostacolare la svolta sono almeno due fattori. Il primo è quello al quale si è già accennato, cioè quella linea di pensiero secondo la quale la pena deve tradursi in una semplice punizione e nei confronti dei detenuti non bisogna usare alcuna pietà. È lo stesso orientamento che, in barba alla Costituzione e a una consolidata giurisprudenza, si oppone alla possibilità che i detenuti vengano effettivamente curati, che coltivino le proprie aspirazioni e la propria affettività, che possa essere insegnato loro un mestiere. Eppure tutti i dati statistici evidenziano come la pena intesa come punizione generi una spirale negativa. Il secondo ostacolo è la burocrazia. Emblematico il caso del carcere di Verona, dove per dieci anni hanno lavorato ben due aziende. Poi, a marzo 2023, il permesso è stato revocato perché alle imprese è stata riscontrata qualche irregolarità amministrativa. E lo Stato che cosa ha fatto? Anziché aiutare le aziende a mettersi in regola, le ha sbattute fuori. Con la conseguenza che oltre 150 detenuti sono stati costretti a tornare in cella, dall’oggi al domani, senza più un lavoro. E quindi non c’è da meravigliarsi se, a Verona, dall’inizio del 2024 si siano verificati già cinque suicidi. Sarebbe il caso, quindi, che le istituzioni consentissero alle aziende di operare in carcere e ai detenuti di lavorare. Per centrare l’obiettivo, però, occorre superare, una volta per tutte, l’idea della galera come discarica sociale in cui “smaltire” persone plurisvantaggiate con dipendenza da alcol, droga e gioco o affette da problemi psichiatrici o i migranti giunti in Italia a bordo dei barconi. E, nello stesso tempo, bisognerebbe capire e far capire quanto il lavoro in carcere faccia bene non solo a chi sta dentro, ma anche a chi sta fuori. Un detenuto è un problema di tutta la società di Luciana Littizzetto twitter.com/chetempochefa, 18 marzo 2024 Caro Carlo Nordio … devoto ministro della Repubblica italiana. Tu siedi dietro una scrivania che è riuscita a passare da Togliatti a Bonafede. È quindi con tutta la delicatezza che posso questa sera vorrei parlarti di carcere. Il tema più impopolare che ci sia in questo Paese. Se ti proponessi: “Ministro, facciamo un bel dibattito sull’uso delle nacchere nella musica calabrese” riempiremmo i palasport. E invece solo a sentire la parola “carcere” il cervello della gente si affloscia. Questa settimana purtroppo un altro ragazzo si è tolto la vita. Sono già 26 i suicidi nei primi 72 giorni di questo 2024, uno ogni tre giorni. Dati tra i più alti di sempre. Ma in carcere non muoiono soltanto i detenuti, ma anche i dipendenti del corpo di polizia penitenziaria. Dall’inizio dell’anno sono tre. Perché non si muore solo in carcere: si muore anche di carcere. Ma di questo pare che non gliene freghi una beata toga a nessuno. Caro Nordio. Ti scrivo perché sento che questa è una vera e propria crisi umanitaria. Non ho una soluzione, ma so che qualcosa si può e si deve fare. In carcere ci vanno i cattivi, quelli che hanno sbagliato, che fatto del male e che devono pagare per fare giustizia alle vittime della loro prepotenza e della loro violenza e tutti noi vogliamo tornare a casa tranquilli e non vivere come dentro “I guerrieri della notte”. Però non basta stipare le mele marce e poi dimenticarsene. Ce ne siamo già dimenticati prima, di loro, e forse per questo sono finiti così. Un detenuto è un problema di tutta la società, non solo di quelli che in carcere ci lavorano. E non mi si dica che sono buonista. Al contrario. Sono egoista. Quando la fabbrica del diritto penale produce mostri di Giuseppe Losappio* L’Unità, 18 marzo 2024 Decreto Caivano, reato di Rave party: sforna senza sosta prodotti difettosissimi, ma la produzione prosegue a pieno regime. Voglio dirlo in modo pop, parafrasando De Gregori, anche se corro il rischio del sociologismo: la fabbrica del diritto penale siamo noi, oggi più che mai nell’epoca delle passioni tristi e - tra queste - della passione punitiva, come ci ha insegnato l’omonimo libro di Didier Fassin. È una situazione che non consente di indulgere all’ottimismo per - tra le altre - due ragioni complementari. La Fabbrica del diritto penale è davvero una singolare struttura produttiva. Manca del tutto il controllo di qualità a monte e a valle. Manca il controllo a monte, la catena di montaggio sforna senza sosta prodotti difettosi/difettosissimi, ma la produzione prosegue a pieno regime. Si è rivelata - e non ci voleva molto a presagirlo - una pericolosa illusione (il tornello del)la riserva di codice, che non ha minimamente rallentato il flusso della “nomorrea”. Anzi - osservo per inciso - ho l’impressione che l’effetto sia stato persino opposto. Manca il controllo a valle. Il difetto solo raramente viene corretto e ancora più sporadicamente i prodotti difettosi vengono richiamati. I percolati penalistici delle emergenze perenni o meno si stratificano nel sistema. Al massimo, si assiste a un cambiamento di casacca. Il prodotto difettoso sveste i panni del penale e assume quelli dell’illecito punitivo amministrativo. Ma questa è un’operazione che la società della passione punitiva guarda con sospetto; ne contraddice l’imperativo categorico: ius poenale nostra unica salus. Voglio ricordare un recente persino eclatante esempio, citato da Alessandro Bondi, in un articolo emblematicamente intitolato “Il passo del gambero”: il 2 febbraio del 2021, un decreto legislativo abroga la disciplina sanzionatoria in materia alimentare prevista dalla legge 30 aprile 1962 (art. 18 d. lgs. 27/2021). Il 22 marzo 2021, un decreto-legge sottolinea la “straordinaria necessità e urgenza di modificare, prima della sua entrata in vigore, la disciplina delle abrogazioni introdotta con il predetto decreto legislativo n. 27 del 2021, al fine di evitare che rilevanti settori relativi alla produzione e alla vendita delle sostanze alimentari e bevande restino privi di tutela sanzionatoria penale e amministrativa con pregiudizio della salute dei consumatori” (d.l. 42/2021). E veniamo alla seconda ragione ancora più radicale di pessimismo. Non credo che sia esagerato o semplicistico affermare che solo una è la strada per eradicare la fabbrica del diritto penale dalla nostra psicologia del profondo, dalle nostre emozioni. È la lettura costituzionale del diritto penale liberale. Per questo, vorrei ricordare tra le altre iniziative orientate in questa direzione lo straordinario viaggio nelle carceri della Corte costituzionale e la convenzione tra Miur e Unione delle camere penali che sta portando in tutte le scuole italiane le ragioni spesso controintuitive - come ha scritto Vittorio Manes - delle “garanzie”. Ma anche su questo versante dobbiamo registrare inquietanti elementi di criticità, perché, persino i giovani, i minori sono entrati nello schema del “nemico” da combattere. Senza intenzioni polemiche e con la consapevolezza di quanto rozza sia l’approssimazione delle frasi che vorrebbero essere ad effetto, lo slogan potrebbe essere che la cultura contro la devianza recede nei confronti della cultura della pena. Pensiamo al c.d. decreto Caivano, all’endemico inasprimento del diritto/sistema penale minorile, alla previsione di provvedimenti comunque sanzionatori che colpiscono persino i dodicenni. Pensiamo al nuovo articolo 570-ter c.p. che - ennesimo caso di “ripescaggio” - subentra all’abrogato art. 731 c.p.. Un raro esempio di sciatteria legislativa. Pensiamo al delitto contro il c.d. Rave party; pensiamo ancora alla proposta di ulteriore incremento delle sanzioni del delitto di oltraggio a pubblico ufficiale, già art. 341 ora art. 341-bis; un delitto che costituisce quasi un compendio dell’assenza di controlli a valle e a monte del sistema penale oltre che un altro icastico esempio di resurrezione penalistica di un reato abrogato, peraltro, all’esito di una lunga vicenda costituzionale; pensiamo alla proposta di sussunzione alla qualificazione penalistica del blocco stradale. Sono proposte o soluzioni di politica penale che possono colpire, colpire più gravemente, per esempio anche con l’arresto, le manifestazioni del dissenso giovanile gestibili e finora gestite, spesso molto bene, con un uso accorto e professionale della “forza pubblica”, con il dialogo, il confronto tra le parti, senza scorciatoie sanzionatorie. Alla fabbrica del penale tutto questo non piace, nella tragica illusione, che il diritto penale renda sicuri, anzi, permettetemi di essere scandaloso, “che il diritto penale renda liberi”. *Professore ordinario di diritto penale Università di Bari Csm, se la punizione è lieve arriva la riabilitazione: così le toghe possono fare carriera di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 18 marzo 2024 La delibera votata all’unanimità dal plenum: se c’è buona condotta la toga può “cancellare” la macchia dal proprio curriculum. I magistrati che hanno avuto una condanna disciplinare potranno essere “riabilitati” per buone condotta e così concorrere ad incarichi direttivi e nomine che sarebbero state altrimenti precluse. La delibera è stata votata all’unanimità questa settimana in Plenum. Fautori della proposta sono stati i togati di Magistratura indipendente, il gruppo moderato all’interno dell’Associazione nazionale magistrati. Relatori della “riabilitazione disciplinare”, la togata Bernadette Nicotra, presidente della Quarta commissione, competente sulle valutazioni di professionalità, e la laica Claudia Eccher (Lega). La nuova normativa procedimentalizza le forme e i modi per ottenere la riabilitazione, fino ad oggi non prevista per i magistrati. La sua assenza, hanno ricordato i proponenti della disposizione, “ha inciso non poco sulla vita professionale e sulla progressione di carriera dei magistrati condannati con una sanzione lieve (ammonimento o censura), nonostante il passare del tempo, unitamente al successivo percorso professionale virtuoso, giustificassero l’esigenza di introdurre, anche nel nostro sistema giuridico, una prudente forma di riabilitazione. Da sempre, abbiamo ritenuto che fosse necessario contemperare l’esigenza di assicurare, anche nell’interesse dell’utenza, la rigorosa osservanza dei doveri professionali e connaturati allo status di magistrato, ed, al tempo stesso, la necessità di evitare posizioni inutilmente severe tali da essere un pregiudizio senza fine nella vita professionale del magistrato”, hanno poi aggiunto. È una circolare “attesa da tempo”, ha fatto sapere il togato di Mi Edoardo Cilenti, uno storico risultato che non è tanto un “premio” alla “buona condotta” ma un “principio di civiltà giuridica”. “Una condanna disciplinare non può essere una macchia indelebile nella vita professionale del magistrato”, ha ricordato Cilenti. A questo punto non resta che sperare che anche coloro i quali hanno avuto una vicenda giudiziaria possano un domani rientrare a pieno titolo nella società. Le cronache, purtroppo, sono piene di storie di chi, solo per il fatto di essere stato sfiorato da un’indagine penale, fatica a ripartire. Sul Dubbio di qualche mese fa è stata raccontata la storia di un imprenditore siciliano, Andrea Bulgarella, a cui venne chiuso il conto corrente dalla mattina alla sera per essere stato semplicemente indagato in una indagine per mafia. E nonostante l’archiviazione già nella fase delle indagini preliminari, tutte le banche si rifiutarono poi di riaprirgli un conto. Speriamo allora che questo nuovo corso del Csm possa essere di buon auspicio anche per coloro che non vestono la toga ma che sono, loro malgrado, colpiti dai provvedimenti delle toghe. Il giudice che condannò l’imputato senza aspettare l’arringa del difensore di Maria Vittoria Ambrosone Il Riformista, 18 marzo 2024 È il 18 dicembre 2019. L’avvocato Silvia Merlino ha passato i giorni, le nottate precedenti a preparare la discussione di un processo molto delicato: il suo assistito è imputato per violenza sessuale, minacce e molestie nei confronti della figlia minorenne. Attende, con i colleghi, che chiamino l’udienza, fissata per le 12. Qualche minuto dopo l’orario stabilito, il collegio giudicante entra in aula: “in nome del popolo italiano…”, dichiara l’imputato colpevole dei reati a lui ascritti e lo condanna alla pena di 11 anni di reclusione. Il Presidente augura ai presenti “Buon Natale” e li congeda. I difensori tutti sono increduli. Si fatica a comprendere ciò che è appena accaduto. Il tempo di riacquisire lucidità e l’avvocato Merlino si avvicina allo scranno per fare presente al Collegio che l’udienza era stata fissata per la discussione della difesa dell’imputato. Tutti ricordano così, anche il Pubblico Ministero. Dopo alcune verifiche, il Presidente, dott. Amerio, si rende conto del “macroscopico errore”. Sotto gli occhi sbigottiti dei presenti, strappa il dispositivo di sentenza che aveva in mano e, stizzito, tuona - rivolto all’avvocato Merlino - “allora discuta!”. Naturalmente, il difensore si rifiuta di concludere e valuta l’opportunità di ricusare i giudicanti. A quel punto allora il Presidente dichiara che il Collegio si sarebbe astenuto e trasmette gli atti al Presidente del Tribunale. Una vicenda, questa, che fa accapponare la pelle anche ai non addetti ai lavori. Eppure, la Procura di Milano non ravvisa gli estremi di un reato - e in particolare del reato di falso per soppressione di atto pubblico - nella condotta del giudice astigiano, qualificando il fatto come un errore privo di quell’elemento psicologico che caratterizza la commissione del delitto in parola. Viene disposta così l’archiviazione. Non resta, allora, che il procedimento disciplinare. Che, almeno quello, si dice, censuri l’operato dei giudici di Asti. Difficile immaginarsi, invece, che tutto si sarebbe concluso - almeno per il momento - a tarallucci e vino. Anche su sollecitazione del Ministero della Giustizia, la Procura Generale della Cassazione promuove l’azione disciplinare contro i tre giudici. L’accusa di “grave violazione di legge” - L’accusa è quella di “grave violazione di legge” e “violazione del dovere di imparzialità, correttezza e diligenza che ha cagionato un irreparabile nocumento all’imputato e al suo difensore nonché all’amministrazione della giustizia (…), attesa la nullità assoluta e insanabile del processo e la necessità di celebrare un nuovo processo davanti ad altro collegio”. In aggiunta, per il solo Presidente, l’accusa di aver adottato un provvedimento sulla base di “grave e inescusabile negligenza”, per “aver poi consumato ulteriori conseguenti e connesse violazioni di disposizioni processuali al fine di porre rimedio all’errore commesso”. La sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, chiamata a decidere sul punto, nel 2022 - nonostante la Procura Generale avesse insistito per la condanna di tutti e tre - assolve le due giudici a latere e condanna il Presidente Amerio alla sanzione della censura per l’”ingiusto danno all’imputato, causato dalla violazione di regole basilari” correlato all’ “atto abnorme”. Un mero biasimo formale, dunque, e privo di conseguenze. La Cassazione - La questione ad ogni modo, come prevedibile, arriva in Cassazione: il 4 luglio 2023 le Sezioni Unite Civili annullano la condanna del dott. Amerio e restituiscono gli atti al CSM per la celebrazione di un nuovo procedimento disciplinare. In sostanza, la Cassazione accoglie in toto le doglianze del ricorrente, censurando le motivazioni della sentenza del CSM che - in ordine alla “scusabilità” del comportamento in esame - avrebbe liquidato, con affermazioni “apodittiche”, “gli argomenti evocati dalla difesa in ordine alla concomitanza di circostanze stressogene verificatasi nel periodo in cui è calato l’episodio in contestazione”. Ebbene sì: la difesa di Amerio, tramite un consulente di parte, aveva portato all’attenzione della sezione disciplinare la pretesa correlazione causale tra una situazione “stressogena” legata al lavoro e le condotte poste in essere. La Cassazione asseconda, ritenendo carente la motivazione del CSM, che aveva osservato che gli argomenti difensivi non apparivano tali da poter essere considerati “causa efficiente del comportamento gravemente negligente dell’incolpato, sì da renderlo scusabile”. Ma la Suprema Corte non si arresta qui e arriva ad una conclusione quantomeno paradossale: è pacifico - afferma - che l’imputato abbia “avuto, come inevitabile conseguenza della nullità del dibattimento”, un “nuovo processo”; “e quindi non solo non ha perso alcuna chance, ma addirittura ne ha avuta una in più”. Una nuova chance? Chiosa, poi, che nonostante l’”indubbio allungamento dei temi processuali, manca del tutto (…) una valutazione in concreto della dannosità di tale circostanza”. Nessuna macchia, dunque, per ora, per il Giudice Amerio, che continua ad esercitare la propria funzione presso il Tribunale di Savona. Si attende la celebrazione di un nuovo giudizio disciplinare. Vien da chiedersi, a questo punto, quale sia stata la sorte del procedimento a carico dell’assistito dell’avvocato Merlino. E se, effettivamente, la celebrazione del nuovo processo abbia offerto una nuova chance agli imputati. Qualcuno potrebbe - a torto! - pensare di sì: la difesa dell’imputato ha finalmente potuto argomentare le proprie ragioni davanti a un diverso Collegio, che lo ha condannato a 7 anni di reclusione, anziché 11. La pena è stata poi ulteriormente ridotta in appello a 4 anni e mezzo. Attualmente pende ricorso in Cassazione. Eppure, questa vicenda non può che lasciare l’amaro in bocca: davvero un magistrato “stressato” è immune da censure a fronte di una così inaudita violazione dei più basilari principi di diritto? IA e giustizia predittiva, ecco come cambierà la professione di Federico Unnia Italia Oggi, 18 marzo 2024 Tempi più veloci per i processi, gestione e valutazione di migliaia di dati, elaborazione giurisprudenziale “omogenea”, impostazione di atti e memorie endoprocessuali. Questi i vantaggi che l’Intelligenza artificiale, anche nella sua declinazione predittiva, potrebbe portare nel pianeta giustizia. Al momento, il ministero della giustizia sta portando avanti alcuni progetti, come “IustitIA” della Corte di appello di Reggio Calabria, uno della Corte d’Appello di Venezia assieme all’Università Ca’ Foscari, e uno della Corte di appello di Brescia. Queste iniziative cercano di utilizzare l’IA per ridurre il contenzioso, i tempi dei procedimenti e favorire soluzioni concordate tra le parti. Anche gli studi legali che stanno guardando con attenzione a soluzioni di Intelligenza artificiale per la propria attività sono sempre più numerosi, e alcuni di loro sviluppano al proprio interno algoritmi proprietari con i quali gestire il proprio business. Affari Legali ha provato a sondare alcuni degli studi legali che si sono dimostrati essere più sensibili alle tematiche dell’innovazione tecnologica applicata alla professione forense. “L’impiego dell’IA nel settore legale si sta rivelando dirompente e le applicazioni sono molteplici”, dice Jean Paule Castagno, responsabile del dipartimento italiano di White Collar & Corporate Investigations di Orrick. “Nel metaverso, nuovo contesto virtuale, è possibile raccogliere prove e svolgere ricostruzioni dei fatti, ma anche commettere reati quali cybercrime, truffe, furti di identità digitale, riciclaggio e terrorismo, come evidenziato da un recentissimo White Paper pubblicato dall’Interpol. Nell’ambito dei reati tributari, si assiste a un sempre maggiore uso dell’IA in fase di indagine e nella valutazione del rischio di non-compliance, per individuare soggetti ad alto rischio di evasione. La giustizia predittiva, basata su algoritmi a supporto del giudice, nonostante sia inserita tra i processi ad alto rischio nella proposta di Regolamento europeo sull’Intelligenza Artificiale, potrà trovare applicazione nella valutazione della prova, richiedendo solide competenze giuridiche e capacità tecniche. Infine, nel settore della criminal compliance, algoritmi analizzano quantità di dati al fine di individuare pattern di rischio e possibili strumenti per mitigarlo, ad esempio in materia di antiriciclaggio e adeguata verifica della clientela nel settore bancario-creditizio, in cui software di IA permettono di estrapolare dati da fonti open source per calcolare un punteggio di rischio associato ai clienti, da confrontare con le risposte fornite in sede di acquisizione di informazioni Anti Money Laundering (AML)”, spiega Castagno. “L’avvocato penalista non può prescindere dall’utilizzo di sistemi di Intelligenza artificiale. Nella nostra attività abbiamo già ampiamente fatto uso di tali sistemi, soprattutto nel campo della e-discovery: grazie alla corretta modulazione di algoritmi, è possibile affinare al massimo le attività di ricerca di informazioni ed elementi di prova conservati all’interno dei sistemi informatici o memorizzati in supporti digitali fisici, con risparmio di tempo per il professionista e di costi per il cliente. Attività ancora più rilevante quando l’analisi dei dati prescinde dall’elemento testuale: in un caso, attraverso l’analisi di numerosissimi file audio di intercettazioni telefoniche ed ambientali, siamo riusciti a isolare le voci degli interlocutori rilevanti, trascrivendo il testo delle conversazioni e individuando quelle che erano funzionali alla strategia difensiva. In ambito stragiudiziale, inoltre, si iniziano ad utilizzare algoritmi per supportare i clienti nello svolgimento di verifiche di carattere reputazionale nei confronti dei loro potenziali fornitori e partner commerciali, per prevenire il c.d. “rischio di contaminazione”. In futuro, la sfida è di fornire al giudice una panoramica complessiva dei fatti che si vuole provare in giudizio, attraverso l’interazione di strumenti comunicativi diversi, quali non solo dati testuali ma anche video, audio e realtà virtuale, che permettano all’organo giudicante non solo di ricostruire, attraverso la lettura di atti, un fatto, bensì di poterlo rivivere in una dimensione quanto più immersiva. Inoltre, la prova digitale andrà ad assumere sempre più un ruolo centrale all’interno del processo e, pertanto, sarà necessario saperla raccogliere, valutare e trasformare in argomentazione giuridica. L’utilizzo dell’IA in ausilio alle decisioni del giudice determinerà un mutamento di prospettiva nel coinvolgimento ideologico del magistrato. Si assisterà a un ampliamento di prospettiva: il giudice, prima di valutare le risultanze di una analisi svolta dall’IA, dovrà verificarne l’affidabilità. È in tale momento di verifica della correttezza dell’algoritmo decisionale che l’avvocato dovrà svolgere, con i consulenti tecnici specializzati, una attenta attività difensiva, al fine di escludere un algoritmo “inattendibile”. “L’Intelligenza artificiale, soprattutto quella generativa, si appresta a rivoluzionare il lavoro del legale, così come ha già rivoluzionato quello del giornalista o di professioni altamente compilative: si pensi alla redazione di bozze di memorie difensive o di contratti, anche elaborati. Al momento non mi risulta che questa annunciata rivoluzione abbia preso piede nel mercato legale”, dice Ugo Ruffolo già ordinario di Diritto civile all’Università di Bologna e titolare dello Studio Legale Ruffolo. “Ritengo che l’aspetto di maggior interesse e impatto sia quello connesso all’impiego di IA a supporto dell’attività del giudicante. Pur dovendosi riaffermare il primato del giudicante umano, il ricorso ad avanzati sistemi di Intelligenza artificiale dovrebbe essere seriamente valutato per affiancarne l’attività decisionale, ipotizzandone un ruolo che potremmo assimilare a una sorta di Avvocato Generale al quale affidare quantomeno la predisposizione di una iniziale bozza di decisione che il giudicante umano sarebbe poi chiamato a criticamente verificare”. “Uno degli effetti virtuosi dell’IA è che la macchina non mangia, non dorme, non ha crisi sentimentali, né preferenze personali o ideologiche e, soprattutto, esamina sempre tutto il fascicolo”, aggiunge Ruffolo. “Problema seriamente invocato è quello dei bias che possono affliggere il processo decisionale della macchina. Essenziale, anche a tal riguardo, è che l’utilizzo di sistemi di IA nel settore della giustizia sia limitato ad applicativi preventivamente verificati e “certificati” da un autorevole ente competente (in questo senso depone anche la proposta di Artificial Intelligence Act unionale).” Secondo Lorenzo Conti, partner dello studio legale Rucellai & Raffaelli, “nel contenzioso complesso, l’IA potrà dare un importante contributo per alleggerire i professionisti dai compiti più ripetitivi e meccanici, velocizzando i tempi di risposta al cliente. Tuttavia non si può nascondere che una decisione anche strategica, per quanto rapida ed efficiente, possa considerarsi corretta per il solo fatto che ad elaborarla o validarla sia stato un algoritmo. I sistemi di Intelligenza artificiale potranno rivestire dunque un ruolo ausiliario del professionista ma non certo sostituirlo. Nell’ambito del processo civile l’utilizzo di sistemi di giustizia predittiva in campo processuale potrebbe avere un indubbio effetto deflattivo di un tipo di contenzioso, soprattutto quello “seriale”. È un contenzioso che vive di trend e che, a ondate, intasa i Tribunali. Per quanto utile, andrebbe gestito con parsimonia perché potrebbe far desistere invece dal tentare di avviare battaglie giuste per il riconoscimento di diritti di nuova emersione e spegnere anche in un certo qual modo la “fantasia” che invece è il vero motore del progresso anche nel settore della litigation. Se noi avvocati non pensassimo di poter mai “ribaltare” un orientamento giurisprudenziale, anche consolidato, a mio avviso dovremmo cambiare lavoro. Il tema è delicato, e non è molto sentito in ambito civile quanto forse in ambito penale. Il rischio che vedo è una disumanizzazione dell’esercizio della funzione giurisdizionale, con la conseguente deresponsabilizzazione del giudice. La consegna al magistrato di una soluzione preconfezionata potrebbe infatti portare il Giudice ad aderirvi acriticamente, con il rischio di un appiattimento sul “precedente” e di una conseguente cristallizzazione degli orientamenti giurisprudenziali. Il giudice è indipendente e autonomo e come tale ha sempre la facoltà di discostarsi dal precedente giurisprudenziale e così deve rimanere, altrimenti si rischia l’appiattimento e dunque si frena il progresso, e l’evoluzione, anche giuridica.” Per Maurizio Bortolotto, socio fondatore dello Studio Gebbia Bortolotto Penalisti Associati “l’intelligenza artificiale avrà un impatto sempre più importante anche sulla professione forense. Relativamente al diritto penale d’impresa, il rapporto fiduciario con il cliente è un elemento più significativo rispetto ad altri settori. Per ora, siamo concentrati nella regolamentazione dell’utilizzo dell’AI all’interno di organizzazioni complesse, al fine di prevenire conseguenze per i nostri clienti, non solo di tipo patrimoniale e reputazionale, ma anche penale. Rispetto a questa prospettiva, prevediamo un importante sviluppo. Affiancando realtà industriali che stanno testando lo strumento, abbiamo avuto modo di verificare lo strumento dell’AI in relazione a tematiche connesse ai Modelli 231. Devo dire che i risultati sono accettabili se riferiti a realtà dove i processi operativi sono molto standardizzati e regolamentati, in tutte le altre situazioni siamo lontani da un prodotto soddisfacente. Credo che questi algoritmi siano, al momento, utilizzabili sono per fini scientifici e osservativi ma sarà fondamentale seguirne le evoluzioni che, come è ragionevole credere, saranno molto rapide”.Dopo la digitalizzazione del processo penale, l’AI potrà rappresentare un valido supporto ai fini dell’analisi della documentazione processuale. “Mentre questi strumenti potranno creare efficienza attraverso l’accelerazione dei tempi processuali, pensare l’IA come sostitutiva del magistrato giudicante o requirente, in grado di elaborare autonomamente un’interpretazione del diritto, credo snaturerebbe il ruolo stesso della scienza giuridica, con il rischio di privare la decisione di elementi di valutazione propri del ragionamento umano”, spiega Bortolotto. “Come si può affermare che la stessa intelligenza artificiale non possa essere influenzata? In questo caso, parleremmo di un’influenza che proviene, ad esempio, dalle notizie di dominio pubblico e dai processi mediatici. Il rischio è quello che oggi leggiamo sul rapporto tra fatto, stampa e social network, e che verrebbe esponenzialmente moltiplicato, a discapito dei diritti fondamentali e della presunzione di innocenza. La Riforma Cartabia ha modificato la regola di giudizio per l’esercizio dell’azione penale ma la sua applicazione non può prescindere dall’utilizzo dell’intelligenza umana e dal ragionamento giuridico.” “Ritengo che l’Intelligenza artificiale sia un importante ausilio per il legale consentendo di calibrare le ricerche sia di sentenze, sia di dottrina e di atti amministrativi, in maniera più precisa rispetto al caso che ci si trova a gestire e con un notevole risparmio di tempo”, dice Luca Daffra senior partner dello Studio Ichino Brugnatelli e Associati. “L’AI è stata utilizzata come supporto in attività di ricerca funzionale alla redazione di quella pareristica relativa alle attività day-by-day, per la quale i clienti richiedono sia precisione sia tempi di risposta contenuti. Il fatto che i legali possano avvalersi del supporto dell’AI nella predisposizione degli atti processuali non penso possa avere alcun riflesso né sulla causa né sul processo, intendo come suo andamento: ciò, quantomeno, fintanto che a giudicare non sarà un algoritmo ma una persona. Quello che è certo è che in questo contesto le competenze cambiano in quanto sarà sempre più importante che gli studi abbiano risorse IT interne, che si occupino della gestione degli applicativi AI anche al fine di fargli “allenare”, non solo su risorse pubbliche, ma pure su risorse proprietarie, così da poter avere output da un lato più precisi e dall’altro più personalizzati, così da distinguersi dai prodotti di mass market”. “La mia valutazione è che l’intelligenza artificiale possa migliorare la nostra attività professionale e il servizio che rendiamo ai nostri clienti a condizione che vengano rispettate alcune regole fondamentali, tra cui la trasparenza, il rispetto della privacy dei nostri clienti quando utilizziamo strumenti in cloud e la sicurezza informatica che mai come ora deve diventare una priorità per gli studi legali”, dice Giuseppe Vaciago, partner di 42 Law Firm. “Siamo lontani da un’intelligenza artificiale in grado di scrivere atti in modo autonomo, ma è indubbio che alcuni lavori attualmente svolti dai praticanti o dai giovani avvocati possono essere già sostituiti dalla macchina. Gli effetti dell’IA nello svolgimento di un processo sono sicuramente quelli di accelerare alcuni processi di redazione o di sintesi dei documenti. Tuttavia, è fondamentale che l’utilizzo dell’intelligenza artificiale all’interno di un processo sia controllato e sotto la costante supervisione dell’essere umano. Non dobbiamo cadere nell’errore di ritenere che la macchina sia infallibile. L’intelligenza artificiale potrebbe ridurre l’influenza del coinvolgimento ideologico del magistrato giudicante, ma potrebbe anche condizionarne il suo giudizio. L’esempio di Lex Macchina, software di AI vietato con una legge ad hoc In Francia, ci fa capire che un’analisi esaustiva dei precedenti potrebbe condizionare il magistrato a decidere nel senso suggerito da analisi predittive. Si è molto parlato negli ultimi mesi della potenziale perdita di posti di lavoro nel settore legale a causa dell’intelligenza artificiale. Ritengo che sia importante lavorare sul re-skilling ossia sulla formazione dei giovani giuristi verso la disciplina del legal prompting e del coding. Nulla di nuovo sotto il sole: è già successo con la digitalizzazione avvenuta con l’avvento dei sistemi di word processing, con l’utilizzo di internet e ora avverrà con l’intelligenza artificiale.” “La AI ha già impattato nella nostra professione: soprattutto le grandi organizzazioni hanno da tempo investito risorse finanziarie e capitale umano per portarsi avanti nella comprensione sul dove la AI può creare veramente un nuovo valore nel mondo legale”, dice Riccardo Rossotto, senior partner di RPLT RP legalitax. “La utilizziamo sia nella ricerca giurisprudenziale sia nella ricerca di dottrina. Abbiamo individuato dei software che possono agevolare rendendo più completo e veloce il processo gli approfondimenti che, caso per caso, la nostra quotidianità lavorativa ci propone. Certo, il nocciolo è non sbagliare la costruzione dell’algoritmo. Il primo effetto che riscontriamo è un apparente maggiore efficienza: il primo difetto potrebbe essere la disumanizzazione della relazione tra il magistrato e le parti in causa, cosa che però è già in atto con il processo telematico. Non sono un “tifoso” della disumanizzazione. Credo che la relazione umana, il guardarsi negli occhi, serva a migliorare anche il concetto di giustizia giusta. Dopo di che, non voglio fare il conservatore che si schiera contro l’innovazione portata dalla AI: tenderei a governarla non a subirla, a valorizzarne l’utilizzo, non a diventarne pigramente il destinatario. La centralità del pensiero umano resterà tale se noi la valorizzeremo in tal senso. Sugli effetti pratici ricordo i risultati di una ricerca fatta all’università di Oxford qualche anno fa, che ci pone un altro interrogativo. In un software di AI erano stati immagazzinati 100 casi decisi dalla Suprema Corte inglese, senza la sentenza finale. In neanche un’ora lo strumento di AI ha elaborato la sua analisi, emanando 100 sentenze, dei 100 casi esaminati e già decisi dalla magistratura, analizzando migliaia di pagine di materiale istruttorio. In circa l’85% dei casi la sentenza dell’AI coincideva con quella effettivamente resa dalla magistratura inglese: per il 15% era diversa! La domanda che ci si è posti è stata la seguente: le sentenze della magistratura “umana” erano state più corrette e conformi alla legge e alla giurisprudenza rispetto a quelle della magistratura robotizzata? La risposta è rimasta sospesa.” “Impossibile non tenere conto del fenomeno: quotidianamente vengono immessi sul mercato nuovi sistemi capaci di supportare la complessa professione dell’avvocato. Uno studio legale che vuole rimanere competitivo, offrendo assistenza specialistica ai propri clienti, non potrà che avvalersi, seppur con le dovute cautele, di tali sistemi. Un approccio diverso sarebbe miope e non terrebbe conto del cambiamento inevitabile della professione. La questione dell’implementazione di sistemi di IA negli studi andrebbe colta come un’opportunità e non come una minaccia” dice Marta Cogode, dello studio Previti Associazione Professionale. “Lo studio presta consulenza per una società tecnologica altamente specializzata, con la quale lavora in partnership, per la creazione e l’implementazione di strumenti tecnologici in grado di supportare i legali. Utilizziamo strumenti di AI per il monitoraggio di condotte illecite che ledono i diritti di proprietà intellettuale e industriale dei nostri assistiti. Sotto il profilo del contenzioso gli strumenti di AI non solo forniscono un valido aiuto nella ricerca degli orientamenti giurisprudenziali ma potrebbero aiutare in termini di giustizia predittiva con il vantaggio di incardinare un minor numero di procedimenti di fronte alle sedi giurisdizionali competenti, al fine di promuovere la risoluzione stragiudiziale delle controversie. Se l’uso dei sistemi di AI sarà accorto le professioni legali rimarranno professioni intellettuali prettamente umane”. “Ci sono due prospettive: quella dell’attività consulenziale che può avere ad oggetto imprese basate su algoritmi di intelligenza artificiale, e quella dell’AI come strumento di lavoro per svolgere l’attività di consulenza legale”, dice Luca Marasco senior associate di Eptalex Garzia Gasperi & Partners. “In entrambi i casi è fondamentale conoscere la tecnologia alla base di un algoritmo di intelligenza artificiale per comprenderne limiti e potenzialità. Abbiamo riscontrato che una approfondita comprensione della tecnologia migliora esponenzialmente sia l’assistenza ai clienti del settore, sia l’utilizzo di strumenti di supporto alla nostra professione. Gli algoritmi di machine learning, soprattutto quando applicati a materie tecniche e scientifiche, necessitano infatti di un accurato e profondo allenamento, nonché di una fondamentale scelta del set dei dati da cui essi imparano. L’AI Act, di auspicata prossima introduzione, regolamenta tali aspetti che dovrebbero contribuire ad algoritmi più affidabili anche per la nostra professione. Non è escluso che l’AI finisca, prima o poi, per prendere vere e proprie decisioni giuridicamente vincolanti, quantomeno in relazione a questioni di facile trattazione (magari emettendo decreti ingiuntivi o convalide di sfratto per morosità), o che si troverà ad emettere automaticamente decreti di fissazione udienza o altri atti interlocutori all’interno del processo. Ciò le permetterà sicuramente di fungere come coadiuvante rispetto al processo telematico, nonché di porsi al sostegno di figure amministrative o dei cancellieri dei tribunali, ma resta fondamentale l’apporto del giudicante essere umano. Nonostante siamo portati a pensare che il coinvolgimento ideologico possa essere nemico della giustizia, non è detto che questo sia necessariamente vero”. Sicilia. “Giocare per diritto” nelle carceri: così i bambini hanno incontrato i loro papà di Lilia Ricca ilmediterraneo24.it, 18 marzo 2024 Il progetto in 9 Istituti penitenziari della Sicilia ha previsto momenti di gioco e supporto psicologico per le famiglie. Un’esperienza di realtà 3D è stato l’evento conclusivo per conoscere i risultati. Come si fa a rendere le carceri dei modelli educativi? Oggi in Italia sono 61.000 le persone private della libertà personale e ogni anno sono 100.000 sempre in Italia le persone che le frequentano. Essere genitori a prescindere dallo stato di detenzione ed essere un figlio accudito dai genitori a prescindere dallo stato di detenzione del genitore è l’obiettivo formativo ed educativo del progetto “Giocare per diritto”, di Uisp Sicilia, che ha messo in rete 42 partner e coinvolto 9 istituti penitenziari siciliani in 30 mesi di attività. Un progetto sostenuto dall’impresa sociale Con I Bambini attraverso il bando “Un passo avanti”, nell’ambito del Fondo per il contrasto alla povertà educativa e minorile. “Dovremmo rimettere il carcere dentro la società, perchè le carceri sono nelle città, eppure, rimangono un altro terreno come se fossero una nazione diversa”, dichiara Santino Cannavò, presidente di Unione Italiana Sport per Tutti (Uisp) di Messina e coordinatore del progetto per le carceri di Messina e Barcellona Pozzo di Gotto. Giocare per diritto . Il progetto ha portato il terzo settore dentro gli Istituti penitenziari e ha agito dentro e fuori le strutture di Palermo, Giarre, Catania, Enna, Trapani, Ragusa, Agrigento, Messina e Barcellona Pozzo di Gotto, creando o ristrutturando degli spazi-gioco già esistenti nelle aree di accoglienza degli Istituti. Attraverso il gioco e il sostegno alla genitorialità del progetto, è stata proposta una maniera diversa dell’essere cittadini creando un contatto tra i detenuti, le loro famiglie e i loro figli. “Molte volte si spezza questo contatto fra genitore-detenuto e figlio. A volte per vergogna nel dire che il padre è in carcere, altre volte la compagna o moglie del detenuto non dice niente sulla situazione del padre, ai figli più piccoli. Poi, il rapporto genitori-figli in carcere viene gestito da quelle poche ore di colloquio, dentro una stanza, insieme a tanti altri”, spiega Cannavò. L’esperienza di Enna - Fondamentale nel progetto è stato il supporto degli psicologici, che, come nel caso della Casa Circondariale “Luigi Bodenza” di Enna, da quanto racconta la direttrice Gabriella Di Franco: “Ha risolto dei dilemmi. Il più grande è dire ai bambini dove si trovano quando arrivano per incontrare i loro papà. Capiranno cosa mi sta accadendo? Mi giudicheranno?”, si chiedono i genitori. “Alcuni genitori riescono a risolvere questi dilemmi, in base all’età dei loro bambini, con delle favole. Altri rinunciano ai colloqui in presenza preferendo da remoto pur di non dire ai bimbi dove si trovano. Usando bugie a fin di bene, come il trovarsi sul posto di lavoro, per evitare tristezza e delusione. Un giorno verrà tutto fuori - continua la direttrice Di Franco - gli psicologi hanno sostenuto i detenuti dicendo che bisogna accompagnare i ragazzini alla comprensione, dicendo che si può sbagliare, ma poi si torna a vivere”. “Si punta su una seconda chance, sul ricucire. Noi vogliamo recuperare. Abbiamo capito che bisogna dare una nuova vita, ridando fiducia a queste persone e ricucendo famiglie che prima non erano in sintonia. Alcune non avevano voglia di esserlo. Quello che servirebbe è strutturare nelle carceri questo tipo di modello. Aumentando l’autostima migliorano tante cose intorno a queste persone: la relazione di coppia, quella con gli altri, si abbassa l’aggressività, ti proponi per un lavoro, capisci qual è il tuo talento”. Nella vita essere aiutati ha un valore aggiunto. L’isolamento o pensare che le cose capitino soltanto a te non è un pensiero corretto. Secondo la direttrice Di Franco: “Gli esseri umani in qualunque vicenda o pezzo di vita si ritrovino in fondo si assomigliano. Le cose capitano a tutti, la vita ha una sua giustizia. I dolori e le felicità capitano a tutti. Per i bambini venire al carcere ha avuto un senso di bellezza, di poetico, perché c’erano persone affezionate a loro, che le conoscevano. Dei genitori con i quali potevano giocare”. “Un genitore ha detto: ‘Bellissimo, ho visto le mie figlie in momenti differenti. Ho potuto toccarle in maniera diversa o abbracciarle con un’intensità tale che nei momenti di colloquio non avevo’. Si capisce come la vita sia fatta sia di benessere fisico, ma soprattutto mentale. Dei bambini, alla fine del progetto chiedevano di tornare l’indomani a giocare con il loro papà. Abbiamo vissuto dei momenti particolarmente emozionanti, di vicinanza e di grande umanità”. L’esperienza di Barcellona Pozzo di Gotto - “Alcune persone che arrivano in carcere non sanno di avere dei diritti e dei doveri, con un’immagine di Stato che è quella che hanno conosciuto fuori. Arrivavamo a essere 40-50 persone in un campo sportivo all’interno del carcere di Barcellona Pozzo di Gotto”, racconta ancora Santino Cannavò. “Abbiamo giocato tutti insieme sgombrando i ruoli: bambini dai 3 ai 14 anni, i loro papà detenuti e le compagne o mogli. Utilizzando gli strumenti sportivi come elementi aggregativi. In questo stare insieme si è dato spazio ai sentimenti più profondi di genitori e bambini: Il mio domani come sarà? Cosa avranno i miei figli? Perché mio padre è in carcere? Io vorrei mio padre”. “Facevamo colazione insieme. Il sabato mattina era un appuntamento fisso con il progetto, per quattro ore, tra gioco e colazione. Ci vuole una legislazione più attenta a queste tematiche, sennò questo abbandono, quest’uscita dalla vita civile rimarrà sempre tale. Uscire dal carcere dopo 10 anni e non sapere cosa fare, succede a chi ha tagliato i ponti con la famiglia, se ce l’ha, una famiglia. Tutti noi dovremmo avere un rapporto maggiore con il carcere. Sembreranno sennò dei territori abbandonati. Se il carcere è rieducazione, dobbiamo mettere in atto ambiti di rieducazione, sennò rimarrà soltanto pena”. L’evento conclusivo “Fate il nostro gioco!” - Il progetto si è concluso con “Fate il nostro gioco!”. Un’esperienza immersiva e di realtà virtuale all’Urban Center di Enna, tra oculus, mappe interattive e proiezioni video, dove è stato raccontato il prima e il dopo gli interventi del progetto negli Istituti Penitenziari. Un modo insolito per le persone di entrare dentro un carcere. Un luogo per lo più inaccessibile. Un modo per invitarle a giocare, con degli strumenti multimediali, con un progetto che sul diritto al gioco ha costruito due anni di attività e investimenti. Racconta così Vito Foderà, che ha realizzato la “Virtual Reality Experience” del progetto, ideata e curata da Laura Bonasera, responsabile comunicazione e stampa del progetto: “Abbiamo fatto delle riprese con una telecamera, che riprende a 360 gradi, e serve per fare dei video fruibili nel visore. Abbiamo ripreso il prima e dopo gli interventi nelle aree gioco degli Istituti penitenziari. Ma anche voci e testimonianze dei detenuti che raccontano il carcere e il progetto. Permettendo così al pubblico che indossava il visore di trovarsi virtualmente dentro gli Istituti”. “Abbiamo inserito delle immagini nei totem in modo che toccando degli schermi si potessero trasformare in sfere, forme e curve. Chi ha indossato il visore ha visto la trasformazione degli spazi degli Istituti penitenziari. Sono contenuti che non si finisce di esplorare, perché si osservano in modo sempre diverso. E questo è il modo in cui vogliamo che si vivano le carceri. Con l’esperienza virtuale per dare un messaggio simbolico di valorizzazione e di trasformazione possibile. E abituarci tutti noi a vivere le carceri in modo diverso”. Napoli. Sbarre di Zucchero, Liberi di Volare e No Prison al presidio contro i suicidi nelle carceri di Claudio Bencivenga linkabile.it, 18 marzo 2024 Si è tenuta sabato 16 marzo il presidio contro i suicidi nelle carceri, di fronte al carcere di Poggioreale, un’iniziativa a cui hanno preso parte padre Alex Zanotelli; don Franco Esposito direttore della Pastorale Carceraria; Livio Ferrari del movimento No Prison; Monica Bizaj, presidente dell’associazione Sbarre di Zucchero; Valentina Ilardi, dell’associazione Liberi di Volare onlus e le rispettive associazioni, insieme al Garante dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello. La manifestazione è stato un momento toccante per tutti i presenti e per i detenuti, che hanno potuto vedere i manifestati dalle finestre del penitenziario e sentire le parole dei loro portavoce. A prendere parola per primo è stato don Franco Esposito, che ha ringraziato i presenti, sottolineando la necessità di aumentare le misure alternative al carcere e di non far sentire da soli i detenuti. I numeri riguardanti i suicidi nelle carceri italiane e campane sono sempre più drastici e sottolineano le condizioni di disagio in cui sono costretti a vivere i rinchiusi. Don Franco ha mosso le coscienze dei manifestanti parlando anche della storia di Robert, l’unico detenuto che sia riuscito ad evadere dal carcere di Poggioreale, ma che anni dopo la sua ricattura è finito al carcere di Secondigliano per poi togliersi la vita nei giorni scorsi. Durante la manifestazione è intervenuto anche Mauro Costantini dell’associazione Sbarre di Zucchero, che ha parlato di come l’abbia segnato essere stato in carcere, un luogo dove “le persone non vivono”. Anche Livio Ferrari, del movimento No Prison, ha sottolineato come sia necessario che il carcere sia una misura più drastica ma che soprattutto il mondo esterno non continui a trattare il carcere come un qualcosa di distante, da cui chi ne esce è segnato. Infine, sono intervenuti anche Valentina Ilardi dell’associazione Liberi di Volare e il Garante campano Ciambriello, che hanno ringraziato i presenti e hanno sottolineato la necessità di una società che sappia abbattere i muri e che non rileghi ognuno al carcere. “Sul carcere bisogna che si applichi la Costituzione. Liberi tutti e dignità nelle carceri”, queste le parole finali del Garante Ciambriello, di fronte al carcere di Poggioreale. Catanzaro. “Basta suicidi in carcere”, la Camera Penale aderisce alla campagna nazionale catanzaroinforma.it, 18 marzo 2024 Il prossimo 20 marzo astensione e manifestazione all’Ordine degli Avvocati. La Camera Penale di Catanzaro aderisce all’astensione nazionale di giorno 20 marzo, proclamata dall’UCPI, per chiedere a Governo e Parlamento un intervento urgente per porre fine al sovraffollamento carcerario e al dramma dei suicidi in carcere. Incontro e conferenza stampa presso la sala del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Catanzaro, ore 10:00. Le politiche in materia di sicurezza realizzate dallo Stato italiano negli ultimi decenni sono la causa del fenomeno cronico del sovraffollamento carcerario e delle conseguenze inumane e degradanti dello stato di detenzione, certificate persino da pronunce di condanna da parte della CEDU nei confronti della Repubblica Italiana; fra le tante si ricorda la sentenza “pilota” emessa nel procedimento tra Torreggiani + altri contro Italia, nel 2013. Sono passati oltre dieci anni da questa storica pronuncia e, nonostante l’indice di commissione dei reati sia in costante calo, la situazione all’interno degli istituti di pena non è mutata: il numero di detenuti è superiore alle 60.000 unità e, con un aumento costante di circa 400 detenuti al mese, a breve raggiungerà il livello che valse la condanna internazionale nell’anno 2013. La verità è che, a seguito di un costante quanto immotivato aumento degli edittali di pena e di una creazione spropositata di fattispecie delittuose, promulgate in esclusiva ottica di raccolta del consenso elettorale, è oggi molto più facile entrare in carcere ed è altrettanto più difficile uscirne, visto il proliferare di condizioni ostative alla concessione di misure alternative o l’uso eccessivo della leva cautelare, soprattutto alle nostre latitudini. Il risultato è uno Stato che con frequenza sistemica è obbligato a indennizzare i propri cittadini a causa degli errori giudiziari. Le cifre sono importanti, quasi mille errori giudiziari all’anno negli ultimi trenta anni. Dal 1991 al 31 dicembre 2022 i casi sono stati 30.778: in media, poco più di 961 l’anno. Il tutto per una spesa complessiva dello Stato, tra indennizzi e risarcimenti veri e propri, pari a 932 milioni 937 mila euro (dati tratti da Errori giudiziari, ecco tutti i numeri aggiornati di B. Lattanzi e V. Maimone). Si ritiene che la soglia di fisiologico errore sia stata ampiamente superata. I detenuti negli istituti di pena, che per lo più appartengono alla fascia dei soggetti economicamente in stato di povertà e spesso sono di origine meridionale o migranti, con frequenza oramai drammatica decidono di togliersi la vita, piuttosto che soffrire una detenzione che si connota per un insopportabile, quanto illegittimo, surplus di afflittività. Dall’inizio dell’anno, in due mesi e mezzo, sono venticinque i soggetti in stato di detenzione che hanno deciso per il suicidio, uno ogni tre giorni. È necessario che il Governo e il Parlamento abbiano il coraggio politico di fare ricorso agli istituti di clemenza collettiva, l’amnistia e l’indulto, che sono stati costituzionalmente previsti e ampiamente utilizzati nella storia dello Stato italiano proprio per fronteggiare situazioni emergenziali, dalla monarchia alla repubblica passando per il fascismo. Altre soluzioni che possono essere immediatamente adottate e consentire l’equilibrio del sistema penitenziario sono l’introduzione della liberazione speciale anticipata, il sistema del “numero chiuso” e il ridimensionamento delle misure cautelari personali intramurarie, riconducendole così ai principi liberali del minor sacrificio possibile e della presunzione di innocenza. Queste le ragioni dell’astensione nazionale proclamata dall’UCPI per il 20 marzo, a cui la Camera Penale “Alfredo Cantàfora” di Catanzaro aderisce, affinché il tempo della pena sia un tempo utile a realizzare l’integrazione sociale del reo e non conduca più alla morte per pena. Pescara. Allarme suicidi in carcere, scioperano gli avvocati penalisti ilpescara.it, 18 marzo 2024 Adesione della camera penale di Pescara allo sciopero nazionale indetto per il 20 marzo quando gli avvocati si asterranno dalle udienze. Il presidente Galasso rinnova l’appello a governo e parlamento perché “abbiano il coraggio politico di fare ricorso all’amnistia e all’indulto”. Gli avvocati penalisti di Pescara diserteranno le udienze mercoledì 20 marzo per protestare contro quello che definiscono un vero e proprio allarme: i suicidi in carcere. “Dall’inizio dell’anno, in due mesi e mezzo, venticinque persone in stato di detenzione hanno deciso di cessare la propria esistenza suicidandosi, uno ogni tre giorni”, denuncia il presidente Massimo Galasso con una nota annunciando quindi l’adesione all’iniziativa promossa a livello nazionale. “Gli avvocati penalisti pescaresi non possono che evidenziare, ancora una volta, la necessità che il governo e il parlamento abbiano il coraggio politico di fare ricorso all’amnistia e all’indulto, strumenti di clemenza previsti dalla costituzione Italiana anche per fronteggiare la emergenza del momento”, prosegue. “È poi improcrastinabile - continua Galasso - introdurre la liberazione anticipata speciale e ridimensionare le misure cautelari inframurarie al fine di contenere l’insopportabile sovraffollamento degli istituti di pena”. “In carcere vanno immediatamente potenziate le strutture sanitarie e vanno concretamente effettuati i trattamenti individualizzati dei detenuti, i soli che possono scongiurare gesti estremi da parte di persone affidate allo Stato per l’esecuzione di una pena”, rimarca ancora Galasso. “Queste - conclude - le ragioni dell’astensione dalle udienze proclamata dall’Unione delle camere penali italiane alla quale la camera penale di Pescara ha con convinzione aderito. Il tempo della pena deve essere un tempo utile al reinserimento sociale e non può e non deve condurre alla morte”. Bologna. A Marzabotto un dibattito sulla condizione delle carceri in Italia sassuolo2000.it, 18 marzo 2024 Incontro con Alessandro Bergonzoni a Cellulosa. Venerdì 22 marzo alle ore 21:00 si svolgerà presso Cellulosa, mercato, arte e cucina (ex cartiera di Lama di Reno) un dibattito sulle condizioni delle carceri in Italia. Parteciperà Alessandro Bergonzoni, l’Associazione Antigone, impegnata per i diritti e le garanzie nel sistema penale e lo psichiatra Mattia Masotti. Modera Marco Tamarri. “È un incontro voluto fortemente perché? negli ultimi anni stanno arrivando dei segnali importanti con l’aumento del numero dei suicidi nelle carceri - spiega Valentina Franco, Presidente della Consulta del turismo e della cultura del Comune di Marzabotto che con l’amministrazione ha organizzato l’evento. - In particolare bisogna mantenere alta l’attenzione sul 41bis, che dispone il regime detentivo speciale del carcere duro. Un dibattito diventato attuale in particolare dopo il caso di Alfredo Cospito che per mesi ha portato avanti uno sciopero della fame contro l’applicazione del carcere duro nei suoi confronti. Il rischio e? quello di un aumento della mentalità repressiva e poco comprensiva. L’altro e? percepito come il nemico. Occorre pensare il carcere come un momento di recupero e non come un momento punitivo. La maggior parte dei carcerati non ha compiuto reati di sangue non serve il carcere duro. Di esempio devono essere le esperienze che aiutano il detenuto nel suo percorso, quali l’arte in carcere e le varie esperienze creative: e? un mondo che può interagire con quello che e? fuori”. Bari. Incontro e mostra fotografica sul tema della maternità in carcere borderline24.com, 18 marzo 2024 La mostra “Senza colpe” sarà inaugurata il 25 marzo. La sorte dei bambini, figli di donne detenute, a titolo cautelare o in fase di esecuzione della pena, rappresenta uno spaccato di realtà talvolta ignorato: fanciulli segnati dallo stesso destino delle loro madri, prigionieri “senza colpe”, che non possono essere privati dell’affetto materno, ma neppure della vita da bambini liberi. Per accendere i riflettori su questa zona d’ombra, lunedì 25 marzo, alle 15,30, presso il Centro Polifunzionale Studenti (ex Palazzo delle Poste), sito in Piazza Cesare Battisti, 1, avrà luogo una Tavola rotonda in tema di “Maternità in carcere”, alla quale parteciperanno esponenti di spicco del mondo accademico e giudiziario. A partire dalla presentazione del volume Detenzione e maternità della prof.ssa Marilena Colamussi, ci si interrogherà sull’opportunità di ripensare i luoghi e i modi della detenzione delle madri, e sulla necessità di ricalibrare il loro trattamento in relazione all’interesse superiore del bambino. Queste riflessioni prenderanno forma entro la suggestiva cornice della mostra fotografica “Senza colpe” dell’artista Anna Catalano, che fa tappa a Bari, proponendo struggenti ritratti di bambini dietro le sbarre che convivono con le mamme detenute. Organizzata presso il Centro Polifunzionale Studenti (ex Palazzo delle Poste), l’esposizione aprirà ufficialmente al pubblico il 25 marzo 2024 e rimarrà accessibile fino al 26 aprile 2024. Con il patrocinio di istituzioni quali il Ministero della Giustizia, l’Università degli Studi di Bari Aldo Moro, il Dottorato di Ricerca in Diritti, Istituzioni e Garanzie nelle società in transizione, il Centro Interdipartimentale di Ricerca sul Diritto internazionale e dell’Unione europea “Vincenzo Starace” e l’Ordine degli Avvocati di Bari, questa iniziativa rappresenta un esempio di collaborazione interdisciplinare. Anche grazie al coinvolgimento delle principali associazioni studentesche; è previsto il conferimento di 0.5 crediti formativi agli studenti di Giurisprudenza. Milano. “Caterpillar”: una puntata speciale in diretta dal carcere di Bollate fm-world.it, 18 marzo 2024 La radio entra in carcere, in diretta. “Dentro”, insieme a “Caterpillar” - in onda martedì 19 marzo alle 18.00 su Rai Radio2 e anche in visual radio sul canale 202 - per raccontare con Massimo Cirri e Sara Zambotti, tra gli studi di corso Sempione, a Milano, e il carcere di Bollate, la rilettura de “I fratelli Karamazov”, attraverso le riflessioni di persone detenute, studenti, familiari di vittime della criminalità organizzata e operatori penitenziari che si confrontano sui temi della pena, della colpa, del cambiamento, del debito e del credito, del “diritto” al rancore e della “riparazione”, a partire dalla rilettura del romanzo di Dostoevskij. Ad animare la narrazione le voci e le storie di persone detenute al carcere di Bollate ed ex detenuti; di Marisa Fiorani e Paolo Setti Carraro, familiari di vittime della criminalità organizzata; di Manuela D’Alessandro, giornalista; di Andrea Spinelli, illustratore giudiziario; di Giorgio Leggieri, direttore del carcere di Bollate; di Francesco Cajani, pubblico ministero a Milano; di Angelo Aparo, psicoterapeuta e fondatore nel 1997 del Gruppo della Trasgressione, ora attivo in tutte le carceri milanesi; e di un gruppo di studenti di giurisprudenza e di psicologia che hanno partecipato alla ricerca collettiva sui conflitti della famiglia Karamazov. La puntata di “Caterpillar”, anche in vista della Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie del 21 marzo, darà voce, in questo modo, a un esempio concreto di applicazione della Costituzione e di una pena che tende alla rieducazione e riduce la recidiva. L’incontro nel carcere di Bollate è stato organizzato dal Gruppo della Trasgressione e dal comitato scientifico del progetto “Lo strappo. Quattro chiacchiere sul crimine”. Trani (Bat). La musica oltre le sbarre di Adele Lapertosa rainews.it, 18 marzo 2024 Un documentario racconta il progetto che ha coinvolto i detenuti del carcere di Trani. Cosa accade dietro le sbarre, poco importa al mondo di fuori. È da questa considerazione che parte il lavoro di Behind Bars Collective, band musicale interessata ad aprire una finestra sul mondo del carcere. E lo ha fatto con un progetto particolare, che ha dato più frutti. A partire da un laboratorio tenuto nel carcere di Trani, grazie alla cooperativa i bambini di Truffaut. Un’esperienza raccontata nel documentario ‘Rock oltre le sbarrè, dove Bob Cillo, Livia Monteleone e JJ Springfield suonano e fanno musica assieme a un gruppo di detenuti del carcere pugliese. Gli artisti hanno fatto anche un lavoro di ricerca musicale, tra le cosiddette prison songs, le canzoni che hanno trattato della detenzione carceraria. Il risultato è Break free, una ricca antologia tra cover e originali, che spaziano tra blues e rock. Un repertorio di brani intensi, toccanti, appassionati, per portare a testimonianza le storie di persone rinchiuse nelle galere del mondo. L’album verrà presentato in anteprima venerdì 22 marzo all’officina degli esordi a Bari, preceduto dalla proiezione del documentario, che raccoglie anche le testimonianze dei detenuti. A impreziosire scritti e testi dell’album, c’è anche un fumetto e le illustrazioni di Michele Rech, meglio conosciuto come Zerocalcare, che ha anche disegnato la copertina dell’album. Un tema, quello delle carceri, da sempre caro all’artista romano, che ha dedicato più lavori alla vita oltre le sbarre e alla rivolta avvenuta nel carcere di Rebibbia durante il primo lockdown. Franco Basaglia: il medico, filosofo, umanista e rivoluzionario che ha abbattuto i muri dell’esclusione di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 18 marzo 2024 Cento anni fa nasceva il grande psichiatra: la legge che porta il suo nome e che ha segnato la chiusura dei manicomi è una delle più importanti della storia repubblicana. una legge unica che fa dell’Italia il primo e ancora solo Paese al mondo ad aver abolito, per sempre, l’orrore degli ospedali psichiatrici. Si diceva, e ancora oggi si dice: “Matto da legare”. Prima di Franco Basaglia e della sua rivoluzione, quell’espressione non era affatto un’iperbole, al contrario: nei vecchi manicomi venivi legato davvero. Legato al tuo letto, a una sbarra di metallo, a un termosifone, con delle semplici catene d’acciaio oppure avvolto dalle cinghie di cuoio della camicia di forza, l’importante era che non ti potessi muovere. Dovevi stare fermo, immobile nella contenzione, come un giocattolo rotto che nessuno può più aggiustare, buono solo per la demolizione. Nel frattempo ti avevano annientato, con la violenza degli elettroshock, con la brutalità delle lobotomie, ti avevano inoculato il virus della malaria o una siringa di insulina per calmarti, imbottito di cloroformio e di psicofarmaci e poi buttato via, lungo i corridoi squallidi e screziati dal neon degli istituti di cura, a fissare il vuoto e farfugliare lamenti, a dimenticare te stesso, come una creatura mostruosa, da nascondere al resto della società, allo sguardo dei “sani”. La totale mancanza di specchi all’interno dei quasi cento ospedali psichiatrici della penisola non rispondeva solo a rigidi protocolli di sicurezza ma era anche la crudele metafora di un sistema che cancella l’identità personale che ti spossessa rendendoti poco più di un oggetto animato. Quando Basaglia nel 1961 accetta di dirigere l’ospedale psichiatrico di Gorizia si trova di fronte un film dell’orrore: in quel labirinto di torture e supplizi i malati sono trattati come subumani, degli zombie senza volontà, delle cavie, quanto di più simile ai campi di concentramento nazisti, nello spirito e nei metodi. Quello stesso anno era uscito un libro fondamentale: Asylums del sociologo canadese Erving Goffman, una potente esplorazione sulle conseguenze dell’isolamento e della solitudine sociale che influenzò in profondità il pensiero di Basaglia, il quale scriverà la prefazione per l’edizione italiana. E sempre in quello straordinario 1961 Michel Foucault pubblica Storia della follia nell’età classica, illuminando i dispositivi di esclusione e criminalizzazione di ogni forma di “devianza” dalla norma da parte del potere, dal tardo Medioevo ai prodromi della rivoluzione industriale con la nascita dei moderni manicomi e dell’ “assoggettamento psichiatrico”. Un’altra lettura fondamentale per inquadrare la logica politica che governa l’allontanamento dei reietti e il suo intreccio con le raffinate tecniche di controllo delle società contemporanee, l’uso clinico dell’emarginazione. In Italia i manicomi erano stati istituiti con la legge 36 del 1904 varata dal governo Giolitti, un testo raggelante che pone sotto custodia “le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri e riescano di pubblico scandalo”. Chi veniva rinchiuso spesso non soffriva di alcuna malattia mentale, di nessun disturbo nervoso, così gli ospedali psichiatrici erano pieni di omosessuali, di prostitute, di donne adultere, “ninfomani”, “indemoniate” o semplicemente “umorali 2 e “malinconiche”, una panoplia di outsider e diversi, quasi tutti appartenenti alle classi sociali più indigenti e indifese. Durante il fascismo aumentano in modo esponenziale i ricoveri coatti e i manicomi svolgono il ruolo di comodi dimenticatoi dove far marcire gli oppositori politici: con il codice Rocco, tutti gli internati vengono iscritti in automatico nei casellari giudiziari. Di fatto le strutture mediche svolgono funzione di pubblica sicurezza e nessuna aveva come obiettivo il miglioramento della salute dei pazienti. A differenza di quasi tutti i suoi colleghi, Basaglia possedeva una brillante formazione umanistica, l’essere umano era il fulcro dei suoi interessi intellettuali, in tal senso aveva approfondito la fenomenologia di Edmund Husserl e la sua variante francese, divorando gli scritti di Maurice Merleau Ponty, poi l’esistenzialismo di Karl Jaspers e Jean Paul Sartre, correnti che rimettevano al centro della propria riflessione il corpo umano, spogliato dalle sue proprietà meccaniche, dal suo funzionamento biologico, e restituito alla dimensione di “persona”, un corpo cosciente, espressione non separata del vissuto e della soggettività di ogni individuo. Nella clinica delle malattie nervose dell’università di Padova, un ambiente intriso di positivismo scientista e lombrosiano lo chiamavano “il filosofo”, ma a mo’ di scherno, per irriderlo, non certo per fargli un complimento. Le sue idee libertarie e anticonformiste erano quotidianamente osteggiate dall’antiquata comunità accademica, fedele alla tesi organicistica che vede la malattia mentale come la conseguenza di tare biologiche congenite. Dopo tre anni di insegnamento, di litigi e frustrazioni, Basaglia decide di troncare di netto con il mondo universitario per dedicarsi integralmente alla cura dei malati. A Gorizia, una struttura lugubre che gli ricorda le carceri del ventennio, il suo primo gesto da direttore è, tra lo stupore del personale, l’abolizione della contenzione; nessun paziente deve più essere legato, le porte delle stanze vengano lasciate aperte, via le reti, le recinzioni, ogni forma di ostacolo materiale. Eppoi un comodino per tutti, da mettere al fianco dei letti con una piccola luce per poter leggere libri o giornali, un armadietto dove riporre gli oggetti personali, uno specchio dove ritrovare la percezione visiva di sé, e pazienza se qualcuno si farà male, sono in un ospedale e saranno in grado di curarlo. Nella riconquista dell’identità spogliata e offesa dalle istituzioni sanitarie anche il cibo rappresenta un passaggio cruciale: i pasti non saranno più uguali per tutti, i pazienti possono scegliere cosa mangiare tra una lista di pietanze. Progressivamente gli spazi vitali aumentano, ci sono i laboratori di pittura, i corsi teatrali, i lavori socialmente utili, gli incontri con gli assistenti sociali, la formazione continua degli operatori, da punitiva la terapia si trasforma in riabilitativa. Gli infermieri inizialmente sono interdetti da quelle novità, ma in poco tempo dimenticano le vecchie abitudini, approfittano anche loro di quel clima effervescente di libertà, collaborando attivamente con Basaglia nel rendere l’ospedale un luogo umano, suggerendo soluzioni ai problemi, diventando protagonisti, gli stessi malati ora sembrano meno malati e lontani, con qualcuno di loro si può persino chiacchierare, può nascere addirittura un rapporto, uno scambio, un affetto. Come tutte le rivoluzioni, anche quella di Franco Basaglia è stata un’impresa collettiva, una marcia verso la consapevolezza di tutti soggetti coinvolti nel cambiamento, medici, personale sanitario, i pazienti e le loro famiglie e infine la società esterna. Un tentativo, riuscito, di ricollocare la “follia” nel cerchio della normalità. Con in mente un orizzonte ambizioso; far chiudere i manicomi in tutto il territorio italiano: “È un fatto urgentemente necessario, se non semplicemente ovvio” esclama nel 1964 a Londra, invitato al primo congresso mondiale di psichiatria sociale. Basaglia non è stato il primo a evocare questa prospettiva, sulla bocca di filosofi, sociologi e studiosi di psicologia da decenni, ma è stato il primo ad attuarla nella pratica, il primo psichiatra ad applicare quei principi e ad abbattere concretamente i muri dell’esclusione. La sua battaglia ostinata e contraria, ha varcato le mura degli ospedali e della comunità medica, è tata un luminoso esempio e uno sprone per la politica e ha segnato la modernizzazione della nostra società, come il divorzio e l’aborto. La legge 180 del 1978 che porta proprio il nome di Basaglia; essa impone la chiusura definitiva dei manicomi, che verranno sostituiti dagli istituti pubblici di igiene mentale. Si compie così la rottura con la vecchia psichiatria cautelare ridefinendo alla radice i concetti di patologia mentale e intervento psichiatrico; nessuna terapia deve più violare i diritti della persona ma mettere al centro la cura, il recupero e il reinserimento sociale dei pazienti, Si tratta di una delle norme più importanti dell’intera storia repubblicana, unica nel suo genere, che fa dell’Italia il primo e tutt’oggi il solo paese al mondo ad aver abolito per sempre la barbarie degli ospedali psichiatrici. E nel 1978 arrivò la Legge 180, la più avanzata del mondo. Poi divenne la più tradita di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 18 marzo 2024 Quella “rivoluzione” è ancora un modello: Consiglio d’Europa e Commissione Ue raccomandano di ispirarsi alla nostra legislazione, “esemplare” per il rispetto dei diritti umani e per aver seguito la strada della sostenibilità economica. La legge 13 maggio 1978 n. 180 in materia di “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”, meglio conosciuta come “legge Basaglia”, ha rappresentato una svolta per il nostro Paese. Parole come manicomi, pazzi e camicie di forza erano il corredo tipico della malattia mentale. Un po’ come avviene adesso con le carceri, delle quali si preferisce non parlare e relegarle mentalmente e fisicamente sempre più lontane da noi, anche in passato i manicomi venivano considerati luoghi da tenere a debita distanza con tutto il loro carico di disperazione e dolore. Ancora oggi la legge n. 180, presentata in Parlamento da Bruno Orsini, psichiatra e politico democristiano, a distanza di quarantasei anni dalla sua approvazione, viene considerata la fautrice di una vera e propria rivoluzione culturale. La figlia dello psichiatra veneziano, Alberta Basaglia, definì il padre in una intervista rilasciata a Repubblica nel 2014 “una sorta di padre Pio che liberò i matti dalle catene” e un ribelle velleitario che chiuse i manicomi infischiandosene delle conseguenze. Ma dove sta il carattere rivoluzionario dell’impianto normativo ispirato da Franco Basaglia, di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita? Il primo elemento ha riguardato la chiusura degli ospedali psichiatrici, che, comunque, suscitò non poche critiche. In molti sostennero che con la scomparsa dei manicomi i pazienti psichiatrici sarebbero stati scaricati sulle loro famiglie con un duplice scombussolamento. Con la legge Basaglia siamo stati il primo Paese al mondo a fare una scelta di coraggio e umanità. In tanti, anche all’estero, riconoscono all’Italia di aver realizzato in maniera decisa - e anche un po’ radicale - un “processo di deistituzionalizzazione”. Il modello italiano avviato con la legge 180/1978 non ha lasciato indifferente l’Europa. Le più importanti istituzioni comunitarie, il Consiglio d’Europa e la Commissione Europea, raccomandano di ispirarsi alla nostra legislazione, distintasi per il rispetto dei diritti umani e per aver seguito la strada della sostenibilità economica. Regno Unito, Spagna, Portogallo e Grecia hanno ascoltato Bruxelles; nei Paesi dell’Est, invece, il processo di deistituzionalizzazione è ancora fermo al palo o molto lento. La legge Basaglia è stata inserita all’interno della legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale (la n. 833 del dicembre 1978). Le principali caratteristiche vertono sull’eliminazione del concetto di pericolosità, riferito al paziente, per sé e per gli altri con il trattamento sanitario in psichiatria basato sul diritto della persona alla cura e alla salute. La legge 180 tiene conto del rispetto dei diritti umani (con il diritto di comunicare e diritto di voto). In alternativa agli ospedali psichiatrici è stata prevista la costruzione di strutture alternative al manicomio con la previsione di servizi psichiatrici territoriali, asse portante dell’assistenza psichiatrica. Sono stati inoltre istituiti i Servizi psichiatrici di diagnosi e cura (Spdc) negli ospedali generali per il trattamento delle acuzie e il trattamento sanitario di norma volontario, basato sulla prevenzione, sulla cura e sulla riabilitazione. Altro elemento caratterizzante la “Basaglia” è il Tso (Trattamento sanitario obbligatorio), che consiste in interventi terapeutici urgenti in caso di rifiuto di cure e mancanza di idonee condizioni per il trattamento extra-ospedaliero. È stato pure introdotto il concetto di “correlazione funzionale” tra Spdc o strutture di ricovero e servizi territoriali, sulla scia del principio di continuità terapeutica. Sulla carta, dunque, la legge Basaglia è stata una conquista importante. Nella pratica assistiamo ancora a una frammentarietà, dovuta alle diverse condizioni in cui versa il sistema sanitario nazionale da Nord a Sud. Inevitabilmente, le Regioni che occupano i primi posti nell’assistenza sanitaria offrono servizi molto accettabili nell’ambito delle patologie psichiatriche. Anche in questo caso maggiori possibilità di investimenti sortiscono effetti positivi sul versante abbracciato dalla “Basaglia”. Oltre alle risorse, all’applicazione delle leggi e alla sensibilità che possono presentare le istituzioni a più livelli, continua a essere prezioso il lavoro sulla parte concernente lo stigma, che continua a interessare le persone con problemi di salute mentale. I manicomi sono stati chiusi, le distanze tra i pazienti psichiatrici, liberati dalle camicie di forza, si sono ridotte, ma sul versante della malattia mentale è utile superare i sospetti e le paure verso l’altro, verso il diverso. La chiusura dei manicomi può essere una magra consolazione, se il cantiere della diffidenza continua ad alzare muri. Ecco perché oggi, come ieri, le parole di Franco Basaglia sono ancora attuali: “La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d’essere. Aprire l’istituzione non è aprire una porta, ma la nostra testa di fronte a “questo” malato”. Il giorno in cui Zavoli incontrò il dolore di Alda di Sergio Zavoli Il Dubbio, 18 marzo 2024 Sergio Zavoli, padre del giornalismo italiano, incontrò Alda Merini mentre preparava il suo libro “Il dolore inutile, la pena in più del malato”. Ne venne fuori un’intervista memorabile con una delle più grandi poetesse del nostro Paese. Alda Merini si ritrovò a ripercorrere i momenti chiave della sua esistenza, compresa la dolorosissima esperienza: “Mi è venuto un accidente quando m’hanno chiuso i cancelli dicendomi che quella sera non sarei tornata a casa. L’idea della separazione da mio figlio mi ha fatto impazzire... Quello che ha scatenato veramente la follia è stata l’idea di non vedere la famiglia”, racconta Alda Merini nel suo fitto dialogo con Zavoli. Una testimonianza unica che fa capire più di ogni altra cosa la violenza delle “istituzioni totali”. Lei, una delle più reputate poetesse contemporanee, ha conosciuto il più subdolo dei dolori, quello psichico. Recentemente, intervistata in occasione del suo compleanno, è sembrata voler sminuire la drammaticità della lunga esperienza in manicomio, parlandone come di un luogo a suo modo protettivo. Perché? Dopo la chiusura dei manicomi, questa gente è andata un po’ tutta allo sbando. C’è chi ne ha approfittato! Avrebbero forse dovuto creare altri ospedali, magari generici, con meno connotazioni psichiatriche... Perché una volta lei ha detto che ha sofferto, in certo qual modo, più fuori che dentro l’ospedale? La visione della follia è molto personale, il manicomio poteva regalarla al paziente, è successo anche a me, fino a imparare che ci si può vivere dentro. Invece, fuori, la follia viene castigata, i malati sono veramente perseguitati. Diciamo, allora, che la vera follia è la normalità, secondo me. Anche Seneca diceva “Beati quelli che cureranno coloro che si ritengono sani”... Si ritengono sani proprio perché mentre il manicomio registrava i nostri dubbi, le nostre paure, le nostre manie persecutorie, fuori questo dialogo non è possibile. Una volta lei ha parlato di una ferita lacerante, di una ferita d’amore che forse è stata anche una delle cause scatenanti di questo suo grave malessere... Sì, ho avuto una passione durante il matrimonio, ma per niente al mondo avrei lasciato mio marito! Sì, l’amore, la passione per un altro può essere una causa scatenante, però quando c’è una fede solida, e si è sposati, bisogna superare queste tentazioni. Le abbiamo avute un po’ tutti. È uno degli inconvenienti che possono capitare. Allora, a volte, il manicomio si presenta come un crepaccio in cui si rischia di affondare. Il venire da un giorno all’altro catapultato in un ambiente restrittivo deve essere stato tremendo, scusi se glielo ricordo... Ah, guardi, è stata una cosa di uno spavento incredibile! Io non sapevo nemmeno che ci fossero i manicomi, a quei tempi. Ci sono andata con una certa esultanza perché pensavo di fare una passeggiata, una visita. Anzi, l’avevo anche un po’ desiderato, perché ero stanca, in quel periodo ero depressa. Ma lei sapeva che sarebbe andata in un manicomio? No. La condussero i suoi genitori, i suoi parenti? No, no, mio marito, credo. Il fatto che non le fu detta la verità, la ferì? Beh, sì, mi sconvolse; mi venne una tale rabbia... mio marito mi venne a prendere due-tre giorni dopo, ma non tornai a casa più. Non volli più tornare. Perché non avevo capito! Mi è venuto un accidente quando m’hanno chiuso i cancelli dicendomi che quella sera non sarei tornata a casa. L’idea della separazione da mio figlio mi ha fatto impazzire... Quello che ha scatenato veramente la follia è stata l’idea di non vedere la famiglia. Ed è successo quella sera stessa del ricovero? Sì, perché probabilmente era un giorno in cui non c’era il medico di guardia. Io ho pensato, più che altro, allo spavento dei miei bambini e sono impazzita di terrore. E la diagnosi qual era... La mia era ebefrenia o schizofrenia giovanile. In quale ambiente familiare ha vissuto l’infanzia, la giovinezza? In un ambiente di amore assoluto. Io ho avuto una famiglia meravigliosa, dove non c’è mai stato un dissapore, dove tutto era bello, era proporzionato, dove si dava un grande valore ai bambini. E veramente eravamo i piccoli re, le piccole regine, i nostri genitori erano orgogliosi di noi, non si montavano la testa. E l’ambiente esterno le diede delle sofferenze? A scuola, per esempio? No, sono sempre stata una privilegiata. Sono sempre stata dotata di grande memoria e ho fatto poca fatica a studiare. Imparavo sùbito. Come si è fatto strada in lei questo progressivo malessere? Mah, credo sia stata un po’ una depressione post partum. Non curata, sottovalutata. Io, per esempio, sto seguendo questa storia di Cogne. Penso che il malessere e la pericolosità, sono stati poco considerati. Spesso la pazzia scoppia e si preannuncia sempre come una forma di nevrosi, se non viene presa in tempo è come una bronchite che può diventare broncopolmonite. Ricorda i primi momenti in cui provò una forma di dolore mentale, o interiore? Le fu possibile comunicare agli altri la sofferenza di quei momenti? Ebbe qualche occasione per stabilire relazioni positive? Con chi? Mi accorgevo che stavo in uno stato un po’ confusionale, questo sì. Ero molto confusa. Poi avevo avuto una delusione per un libro che non mi era stato pubblicato, che ritenevo mi fosse stato rubato. Avevo ventisei o ventisette anni. Se di lei qualcuno avesse detto, e forse sarà successo, che era folle, o gravemente disturbata, quale reazione avrebbe avuto? E le anomalie degli altri, magari nascoste sotto un’apparente salute, le vide mai? Quante volte avrebbe avuto motivo di far sua la frase di Seneca “Chi dunque guarirà coloro che si credono sani”? Mi fanno molta pena quelli che credono di essere qualche cosa di più. La salute e la vita possono esserci tolte in qualsiasi momento. Questa provvisorietà della vita, ma anche le gioie, dovrebbero farci riflettere molto di più. Qual è la sua interpretazione di questo pensiero di Soren Kierkegaard: “Io dico del mio dolore quel che l’inglese dice della sua casa: il mio dolore è il mio castello”? Quando se ne capisce le potenzialità... Bisogna renderlo dinamico, il dolore. Perché se lei nel dolore fa un vuoto, scava un orrore, lei ne muore, ne muore sepolto. Se invece lo rende attivo, cerca di capirlo, di entrarvi senza paura di conoscerlo, penso che lei abbia raggiunto una certa felicità. Il dolore è anche il demonio. Questo corpo a corpo con il demonio, una malattia mentale, questa voglia di superarlo, di sopravanzarlo può esser già un buon incentivo, una buona partenza. Esiste un dolore di cui si parla poco: secondo alcuni studiosi con un apparente paradosso, le persone molto creative e dotate al contempo di spiccata sensibilità etica, sembrano come tagliate fuori da quello che viene chiamato “sistema”. Il dolore di chi, pur valendo, vive ai margini: ha mai riflettuto su questo aspetto del dolore? Certo, ci vuole molta fatica, molta fatica a percorrere questo viaggio all’interno di noi, è faticosissimo, è una perlustrazione che serve a renderci la vita più interessante. Poi è una richiesta continua dell’intelletto di conoscerci. Quali sono stati i momenti più oscuri, più chiusi, più laceranti? Non me li ricordo più. Francamente, alle volte rispondo anche “nessuno” perché mi si presenta un passato pieno di felicità - fatta eccezione per il fatto che i miei figli sono cresciuti lontano da me - si è creato un angolo di felicità, di accettazione, di apparizioni continue, di isolamenti continui. In che senso apparizioni continue? Stavo guardando adesso Bernardette, e sento quello stato di grazia. C’è un proverbio cinese che dice: “Dopo aver pianto si guarda meglio il cielo”... Ah, certo! Ma bisogna saper piangere. Comunque al di là di tutto quello che si può dire, la sofferenza mentale resta dura! È una delle torture peggiori che possa capitare a un uomo. Perché l’intelletto è la cosa di cui l’uomo va più orgoglioso, anche più della sua immagine fisica, della sua bellezza. L’intento dell’ospedale era proprio, come è capitato a me, voler rubare la creatività, abbrutirla, appiattirla. Nel caso di un poeta voleva dire ucciderla!i(...). A fronte di tanto stress che porta qualcuno persino a uccidere per dei motivi futili, chi ha avuto un grande dolore come lei dà un senso diverso alla vita? Ah, certo, una volta che si esce dal manicomio trovi che il mondo è ancora lì ad aspettare da tanti anni. Io spesso racconto questo aneddoto: a un certo punto è venuta una ragazza e mi dice “lei fa qualcosa di strano nella vita?”, “sì mi piace tanto fare le pulizie di casa e lavare i pavimenti”, rispondo, “ma è normale”, dice lei..., “si ma io li lavo con lo champagne”. “Ma è matta?” “Sì, perché quando uno esce da un lager dice champagne per brindare alla vita”! Ma questo è un lungo discorso sul giudizio, la possibilità e l’arbitrio dell’uomo di rinchiuderne un altro. Trovo ciò talmente crudele, talmente arbitrario! Alle volte, si poteva essere rinchiusi perché eri un poeta, come nel mio caso. Alcuni perché erano belli! Per i medici un poeta era una persona inutile, che non produceva. Lei venne ritenuta, dal loro punto di vista, anche una persona malata oltre che un artista? Ma io avevo una depressione, una forte depressione, certo non da castigarsi in manicomio! Lei ha mai avuto scarsa autostima? No, no. Si è amata e si ama abbastanza? Molto, io mi voglio molto bene. Ma mi voglio bene in un modo giusto, sereno, senza pensare che sono una poetessa. Io mi voglio bene perché sono una persona, ecco. Mi voglio bene perché il mio corpo, poverino, con tutti i suoi difetti mi ha sempre tenuto compagnia e qualche volta mi ha anche salvato la vita. Saul Bellow ha scritto: “La sofferenza è forse l’unico mezzo valido per rompere il sonno dello spirito “. Questa frase non le sembra un po’ enfatica, non si cresce, non si diventa consapevoli anche nella gioia o, almeno, nella quiete? Molti fanno della letteratura. Io le dico che il vero poeta crede in ciò che dice. Molti vogliono essere eccentrici o intellettuali, il poeta invece è un cuore. E credo che forse, dopo, capisce quello che ha detto. Io penso che il poeta, in principio, non capisce mai niente, anche nel mio caso. Questa è la vera felicità. Lei ha detto: “Il poeta non è mai solo, è sempre accompagnato dalla meraviglia del suo pensiero “. Ma le succedeva anche quando era in manicomio? No, lì non pensavo perché non ne avevo materialmente il tempo. Poi, ero impaurita. Se lei è contratto dalla paura diventa interiormente rachitico. Non esce né la bellezza fisica, né quella morale, c’è questa contrazione da manicomio, questo svenimento, questo cercare di non farsi vedere, di non essere continuamente puniti, che determina un abbrutimento del proprio essere. La paura non ha mai saziato l’universo! E neanche l’uomo. Ha sempre fatto morire di spavento. Non me, però! Lei prova rabbia nei confronti di qualcuno? Sì, sì. Io provo rabbia per quelli che sono indecisi, quelli che non vengono all’appuntamento all’ora giusta, quelli che d’abitudine non tengono in conto l’altro, che mi prendono così, per una qualunque, e pensano che sia facile far poesia, che sia facile diventare celebri, che sia facile anche soffrire! Non tutti, invece, sanno soffrire. Lei sa soffrire? Percepisce la sofferenza come un’amica o come un’insidia? Io sì, so soffrire. E percepisco la sofferenza come un fatto di vita perché fa parte della vita. Perché si parla più del dolore che della letizia? Ippolito Nievo diceva che l’uomo ha novantanove sensi per il dolore e uno per la felicità... Perché l’uomo è talmente arrogante che è sempre perennemente offeso. Tutto quello che gli capita è un’offesa personale. Lei faccia caso, i santi, i filosofi hanno sempre visto che purtroppo accade anche il brutto. Insomma ogni tanto piove, e non lo si vuole accettare; cioè si crede, e qui nasce proprio l’idea dell’aldilà, del paradiso, della vita terrena, di stare qui sulla terra in eterno e allora si è continuamente alla ricerca di una stabilità che non è di questo mondo; senza voler fare della polemica cattolica. L’uomo cerca di stare il meglio possibile, non ci riesce, non ci riesce perché è fatto per la provvisorietà. Il vittimismo presente nelle sue varie forme in ognuno di noi quanto l’ha riguardata? L’altro giorno sono scesa e sulla via una mi ha detto: “Oh, povera cara”, e io le ho detto: “Povera sarà lei, e cara non lo voglio sentir dire”. Mi danno fastidio le vittime perché o sono cattive d’animo o cercano di attirare su di sé l’interesse degli altri. Il vittimismo è un po’ come il capriccio del bambino che tante ne fa finché lei lo pesta ben bene perché non ne può più. Bisogna capire che ognuno soffre a modo suo, alle volte ci si può anche uccidere per un gatto che muore, dipende dal modo di amare. Ricorda qual è stata l’esperienza che le ha dato più sollievo? La libertà. “Il manicomio? C’è ancora, però non lo vediamo: non è più un luogo ma una pratica” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 18 marzo 2024 I manicomi non sono più come ce li immaginiamo. Ma questo non vuol dire che non esistano, dice Piero Cipriano, psichiatra e scrittore. Il pensiero di Basaglia l’ha incontrato dopo la specializzazione, in Friuli, cioè la Regione che ne custodisce l’eredità. Ne ha seguito l’insegnamento terapeutico, lavorando negli Spdc (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura). Ma ora la celebrazione del medico che ha liberato i “pazzi”, nel centenario della sua nascita, gli risulta un po’ consolatoria: “Gli facciamo il francobollo e poi ce ne dimentichiamo...”. Cento anni dalla nascita di Basaglia, oltre 40 dalla legge 180 del 1978 che porta il suo nome. Una riforma mancata? In qualche misura sì. Non perché fosse imperfetta quando è stata scritta, allora è stata la migliore legge che si potesse scrivere, data la circostanza storica. Vale a dire un gruppo di psichiatri che si fece minoranza egemone e riuscì a imporre l’eliminazione dei manicomi contro la maggioranza. Fu una legge di compromesso, che a Basaglia per certi versi stava anche un po’ stretta: all’inizio la definì antidemocratica. Riteneva che il Tso potesse diventare un arresto sanitario o un sequestro ospedaliero. Temeva che gli Spdc nascenti potessero diventare dei piccoli manicomi posti dentro gli ospedali generali. Poi ne assunse la paternità, essendo un pragmatico. Ma di certo non un ingenuo: capii che una legge non sarebbe bastata, se non ci fosse stato un cambiamento culturale generale della società. Ed è stato così, gli Spdc sono diventati dei mini- manicomi? Il presupposto della legge è che il malato psichiatrico non sia più deportato in luoghi a parte, in questi manicomi che sono piccoli lager, ma che torni all’interno della società civile, e quindi anche nell’ospedale generale, al cui interno torna il reparto psichiatrico. Si può però osservare che su circa 300 Spdc, solo una ventina sono aperti come gli altri reparti ospedalieri. Gli altri sono tutti chiusi, adottano una triplice forma di contenzione. Ovvero? Non solo quella meccanica. C’è anche una contenzione ambientale: la porta è chiusa e non puoi uscire. Poi c’è una contenzione che possiamo definire farmacologica, cioè attraverso l’uso dei farmaci. La dinamica del manicomio non corrisponde al luogo, che è stato abolito. È il tipo di pratica, lo stile di accudimento psichiatrico: e in questo senso si è replicato in luoghi più piccoli. Chi è ricoverato vive in una dimensione di regolamenti ossessivi e sanzioni, di simil-carcerazione. Che intende per sanzione? L’aumento della terapia oppure il legamento al letto. Pratica molto diffusa e abbastanza taciuta fino a qualche anno fa, quando la contenzione meccanica era lo scheletro nell’armadio della psichiatria, che un po’ si vergognava di questa pratica sopravvissuta alla fine dei manicomi. Oggi se ne parla molto di più, ma nonostante i proclami del ministro Speranza per abolire la contenzione e il progetto ben finanziato a questo scopo, non mi pare che ci siano molti risultati. Legare o non legare è anche una questione di tipo ideologico e culturale. Si riferisce a un approccio “securitario” della psichiatria? Questo c’è sempre stato, sin dagli albori del manicomio. Come racconta Foucault, prima della nascita del manicomio, cioè a fine ‘700 con Philippe Pinel che inventa il manicomio in Francia, tutti i tipi di “deviati” - i criminali, i rei, i vagabondi, i malati mentali - finiscono in maniera indifferenziata in carcere. Pinel poi stacca i folli dai delinquenti, ritagliando per loro un luogo di cura. Ma nonostante le buone intenzioni, fin da subito questo assumerà una connotazione carceraria, securitaria. I principi che Foucault ci dice sottendere al manicomio sono la reclusione, l’isolamento, il dominio per proteggere la società dal pericolo e dal disordine che il malato mentale rappresenta per la società stessa. Ecco, noi pensiamo che l’ideologia del dominio rispetto a questo tipo di sofferente psichico sia superata, ma non è così. Ci sono forme più sofisticate di dominio. Vale a dire? Alcune come la semplice sedazione farmacologica, e altre come il legamento al letto e la chiusura che non sono diverse da quelle che si esercitavano nel grande contenitore manicomio. Lei prima parlava di “minoranza egemone”, ai tempi di Basaglia. Oggi? Non è mai stata maggioranza e oggi meno che mai. Il contesto storico è assolutamente diverso rispetto a quello degli anni ‘70, anni in cui c’era un fermento e un’attività di riforma che potremmo dire quasi rivoluzionarie. Oggi sembra che molte conquiste possano involvere o addirittura essere perdute. Perciò questa celebrazione di Basaglia, per il centenario, ha il sapore di un contentino. Qual è il concetto di cura che Basaglia sperava di diffondere? Voglio rifarmi a ciò che lui disse in una serie di conferenze in Brasile nel 1979. Alla domanda “cos’è per lei ‘terapia’?”, rispose che è “lotta contro la miseria”. E se andiamo a vedere, la povertà ammala, sia fisicamente che dal punto di vista psichico. Cioè un malato non è solo un malato, ma un uomo con tutte le sue necessità. Nei luoghi più virtuosi, cioè a Trieste, dove Basaglia ha lasciato la sua eredità, hanno saputo dare risposta terapeutica in questo senso: invece di sostituire alla tecnica manicomio la tecnica psicofarmaco, come è successo nella maggior parte d’Italia, hanno creato luoghi sempre aperti e attraversabili: un bar di Dakar, come disse Franco Rotelli. Nel suo libro “Basaglia e le metamorfosi della psichiatria” parla della nascita di un “manicomio chimico”... Cercavo di sottolineare che la morte di Basaglia, negli anni ‘80, è stata una cesura tra il prima e il dopo: terminati i manicomi, c’è stata per impulso degli Usa una ridefinizione sofisticata e apparentemente scientifica del manicomio costituito dall’uso pervasivo della diagnosi. Per esempio, l’eccessiva timidezza oggi diventa fobia sociale, il lutto è depressione. E a questo consegue un uso a pioggia degli psicofarmaci. Addirittura, farmaci intesi come “cosmetici” psichici per aderire alla società della performance. Insomma, il manicomio ci è cambiato sotto il naso senza che ce ne accorgessimo, solo perché non è più un luogo visibile. Patto anti-migranti di Eleonora Camilli La Stampa, 18 marzo 2024 Dall’Europa 7 miliardi all’Egitto: 200 milioni contro l’immigrazione illegale. Al Cairo dialogo sul Medio Oriente: “Evitare operazioni militari su Rafah”. Una “giornata storica”, un “passo importante” per l’attuazione del Piano Mattei e per “far fronte al flusso migratorio”. Non risparmia i toni trionfalistici la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, per la visita di ieri al Cairo. Una missione congiunta europea con un doppio obiettivo: la firma della dichiarazione sul partenariato strategico tra Unione europea ed Egitto, e l’avvio di una serie di accordi intergovernativi con il nostro Paese. Insieme alla premier, a incontrare il presidente Abdel Fattah al Sisi, una delegazione formata dalla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, dal presidente di Cipro, Nikos Christodoulidis, e dai Primi Ministri di Belgio, Alexander De Croo, Grecia, Kyriakos Mitsotakis, e Austria Karl Nehammer. I rappresentanti europei hanno messo sul piatto del leader egiziano i 7,4 miliardi del piano di aiuti in tre anni (2024-2027) divisi per aree di intervento: 5 miliardi di prestiti agevolati; 1,8 miliardi di investimenti aggiuntivi; 600 milioni di sovvenzioni. Di questi, 200 milioni sono destinati al delicato capitolo delle migrazioni e del controllo delle frontiere marittime e terrestri. In un Paese, l’Egitto, considerato strategico come terra di transito per tanti migranti subsahariani, che una volta superato il confine con la Libia prendono la via del mare. “Aspiriamo a lavorare insieme più di prima per aiutare gli Stati di origine e quelli di transito” attraverso “investimenti e assistenza per prevenire l’immigrazione illegale e per aiutare questi Stati a fronteggiare i trafficanti di migranti” ha detto Meloni. Poi durante i colloqui bilaterali col presidente egiziano si è concentrata sull’attuazione del Piano Mattei nel Paese, a cominciare dalla cooperazione nel settore della produzione agricola e della sicurezza alimentare. E sulla questione dei migranti “che sarà uno dei temi del G7” ha detto la premier, ricordando che l’Italia “sta lavorando per lanciare un’alleanza internazionale per la lotta contro i trafficanti di esseri umani”. Intanto in queste ore sono ripresi gli arrivi sulle coste italiane, con duemila persone approdate a Lampedusa in soli tre giorni. E l’ennesima tragedia sfiorata nel Mediterraneo: solo l’intervento della nave di Medici senza frontiere, Geo Barents, ha permesso infatti di portare in salvo 45 persone, finite in acqua dopo che il barchino su cui viaggiavano si era rovesciato a poche miglia dalle coste libiche. Anche per questo la missione al Cairo della premier, nella ricerca di un accordo per bloccare i flussi, sul modello di quello stipulato con la Tunisia è al centro di aspre polemiche politiche. A cui la stessa Meloni ha voluto replicare: “Ho letto la segretaria del Partito democratico Elly Schlein che dice che è una vergogna che mezza Europa venga in Egitto per cercare di fermare l’immigrazione irregolare. Capisco che per loro sia vergognoso, ma se avessi voluto mettere in piedi il programma del Pd mi sarei candidata col Pd, invece mi sono candidata contro il Pd proprio perché non sono d’accordo con loro”. Ha poi rimarcato l’importanza di lavorare sulla “dimensione esterna” perché “l’Africa gioca nell’attuale contesto geopolitico un ruolo assolutamente strategico” è dunque importante “mantenere alta la nostra presenza, il nostro dialogo, la nostra capacità di incidere”. Nel corso dei colloqui tra il leader egiziano e la delegazione europea si è parlato anche del conflitto in Medio Oriente e di come arrivare a una de-escalation. “Insieme ai leader europei abbiamo concordato di respingere l’ipotesi di un’operazione militare da parte di Israele a Rafah, che raddoppierebbe la misura della catastrofe umanitaria di cui soffrono i civili nella Striscia di Gaza”, ha detto Al Sisi, sottolineando che l’Egitto rifiuta “ogni spostamento forzato di palestinesi oltre la Striscia, che avrebbe come effetto una liquidazione della causa palestinese”. Una posizione condivisa anche dall’Italia: “L’Egitto sulla vicenda di Gaza è un attore di primo piano e un attore prezioso. Il lavoro che Usa, Egitto e Qatar stanno facendo per portare a una de-escalation, il cessate il fuoco, l’aiuto umanitario, l’accordo che abbiamo firmato per i malati a Gaza lo dimostra” ha sottolineato la presidente del Consiglio, aggiungendo che la linea da seguire è quella del dialogo: “Sto parlando con tutti per arrivare alla cessazione delle ostilità, al rilascio degli ostaggi. Sono cose molto complesse che si costruiscono con il contributo di tutti”. Ma la giustizia non può piegarsi alla realpolitik di Francesca Paci La Stampa, 18 marzo 2024 C’era un convitato di pietra al tavolo dell’accordo che la premier italiana Giorgia Meloni ha firmato ieri con il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi e lo sapevano tutti, a quel tavolo c’era Giulio Regeni. Ancora Regeni a distanza di otto anni, diranno adesso i cinici che si nascondono dietro le altisonanti ragioni della realpolitik? Sempre. Fin quando il Cairo non avrà risposto delle torture e della morte inflitte al giovane ricercatore friulano, restituendo alla famiglia prima e poi al nostro Paese quantomeno la verità e la giustizia. Meloni e al Sisi hanno parlato di energia, di cooperazione e soprattutto di controllo dei migranti, quello sì un tema che non retrocede mai nella scala delle priorità politiche e per cui Bruxelles si accinge a versare all’ennesimo “dittatore necessario” oltre 7 miliardi di euro. Tutto secondo programma. E Regeni? Silenzi imbarazzati, rimandi al lavoro della Procura di Roma che senza alcun sostegno istituzionale prosegue in solitaria la ricerca dei responsabili, depistaggi mediatici. Di Regeni non s’è parlato. Non è la prima volta che i rapporti tra Italia ed Egitto mostrano una solidità ben più importante delle proteste e delle reciproche rimostranze. Il gas, l’industria bellica, l’economia ma anche il turismo, che dopo il 2016 aveva abbandonato le coste egiziane e che invece è tornato negli anni sempre più massiccio (+48%), forse addirittura in virtù della convinzione che dopo quell’”errore” fatale gli italiani sarebbero stati paradossalmente ancora più al sicuro all’ombra delle piramidi. Sin dall’inizio, non potendo negare l’omicidio di Regeni massacrato sul proprio territorio, gli apparati egiziani hanno lasciato intendere di considerare un “errore” quella morte, non diversa dalla morte che sempre più frequentemente, a partire dal 2015, è toccata in sorte a migliaia di loro giovani connazionali sospettati di tramare contro il regime. I torturatori non avevano calcolato che Giulio Regeni era uno straniero e che la cosa non si sarebbe chiusa così. Di quell’”errore” però, abominevole eufemismo, tutti i governi italiani hanno finora chiesto conto ad ogni incontro ufficiale con le autorità del Cairo, mettendo sul tavolo sia pur solo pro-forma il caso Regeni all’inizio di qualsiasi colloquio e ricevendo in cambio la solita promessa di fare luce. L’ha replicato anche Meloni all’inizio di novembre 2022 arrivando a Sharm el Sheik per la Cop27. Allora si notò come la tensione tra i due governi si fosse allentata e la scorta mediatica che accompagna da otto anni la famiglia Regeni denunciò la normalizzazione in arrivo, ma poche settimane dopo la Farnesina ribadì che su Regeni l’Italia non avrebbe mollato. E quindi? Ha mollato oggi l’Italia sovranista la verità sulla morte di un suo cittadino? Ha mollato sull’altare del controllo dei flussi migratori, la più bieca delle realpolitik? Ci spiegheranno che trattandosi di un incontro con altri leader europei non c’era modo di parlare di Regeni, come se fosse un caso tutto italiano e non invece un caso che tira in ballo l’Europa e il suo rapporto con le dittature? C’è un convitato di pietra all’incontro del Cairo, pesantissimo. Chi non fa finta niente è la Procura di Roma che domani riprenderà il processo contro i quattro ufficiali egiziani che considera i responsabili dell’assassinio. Fino alla verità e alla giustizia. “Se lo Stato fosse presente, non ci sarebbe bisogno delle Ong per i migranti” di Umberto De Giovannangeli L’Unità, 18 marzo 2024 “Se vuoi evitare che ci siano barconi alla deriva devi introdurre canali di ingresso legali e sicuri. Poi però non puoi coltivare il consenso che fa leva sulla paura. Non è inefficienza, è calcolo. Salvini, quando tutti ci spiegavano quanto era bravo, è andato proprio in questa direzione”. Il Mediterraneo, il “Mar della morte”. Dove si susseguono le stragi di migranti. L’Unità ne discute con Pierfrancesco Majorino, responsabile nazionale immigrazione del PD. “E voi burocrati e becchini volete che affoghino tutti?”. È il titolo di prima pagina dell’Unità ad un emozionante racconto della nostra cronista, Angela Nocioni, che ha partecipato a un drammatico salvataggio della Ocean Viking. Siamo ai becchini di Stato? Di più. Siamo alla banalità del male. Quello che tollera il sacrificio di vite, di vite spezzate, che disumanizza completamente la questione migratoria, che riduce il tutto a fiera della contrapposizione politica, nell’accezione più negativa. Uno spettacolo osceno di fronte al quale l’operato delle organizzazioni non governative andrebbe, peraltro, tutelato e salvaguardato. E il modo migliore per farlo sarebbe poter dire loro: guardate, grazie per quel che avete fatto, e da ora non c’è più bisogno di voi, perché a salvare le vite, a permettere vie d’accesso legali e sicure, ci pensiamo “noi”, le “istituzioni”. Sessanta migranti morti di fame, sete e ustioni su un gommone partito dalla Libia. Inascoltati gli Sos. Le parole hanno un peso. Quelle che si susseguono nel Mediterraneo sono “tragedie”, “incidenti” e non invece “stragi” di innocenti con tanto di mandati, esecutori e complici? Le parole hanno un peso ed esprimono sentimenti e scelte. Siamo di fronte ad una strage permanente, operata dall’immobilismo istituzionale. Avete parlato di “strage di Stato”: avete fatto bene. Un immobilismo, tuttavia, che non è frutto di un’inefficienza, - smettiamola, anche a sinistra, di auto rassicurarci dicendoci che “non sono capaci” - ma di calcolo preciso. C’è una parte della politica, quella che ha saputo con tanta sapienza drogare completamente il dibattito pubblico in tutti questi anni e in qualche modo “fare egemonia” che scommette sull’emergenza permanente. L’immigrazione non gestita e non governata porta con sé deresponsabilizzazione e tragedie. E questo fa crescere insicurezza diffusa e allarme sociale. Se davvero vuoi evitare che ci siano i “barconi” alla deriva o le immagini periodiche di Lampedusa stracolma di persone devi cambiare le regole e realizzare canali d’accesso legali e sicuri, nonché nell’immediato mettere in campo la “Mare Nostrum” europea. Ma se lo fai si abbassa la temperatura sulla questione migratoria e non puoi coltivare il consenso che fa leva sulla paura. Matteo Salvini, quando erano tutti a spiegarci quanto fosse “quello bravo”, in modo molto esplicito andò proprio in questa direzione: cancellare forme di protezione umanitaria per sbattere per strada le persone, cioè i migranti dalla “pelle nere” e poter gridare “Avete visto quanti sono?!”. Il securitarismo impera, edulcorato da una stampa mainstream con l’evocazione, da Istituto Luce 2.0, dei “piani Mattei” tanto cari alla presidente del Consiglio... Il “piano Mattei” non esiste. È una bufala totale. Il modo per la Presidente del Consiglio di poter dire “avete visto? Vogliamo aiutarli a casa loro”. Peccato che quella parte politica sia la stessa che al parlamento europeo tante volte in passato si sia mostrata ostile nei confronti della politica di cooperazione allo sviluppo e non concepisca, come hanno onestamente ricordato i rappresentanti dell’Unione africana, il partenariato tra pari come condizione ineludibile di ogni politica di sostegno allo sviluppo. Ma del resto, a proposito di Istituto Luce 2.0, sono in attesa dei filmati che arriveranno dall’Albania, quando si racconterà che quella mostruosità sociale e giuridica dell’accordo porterà alla riduzione degli arrivi. Il tema migranti sembra essere uscito o comunque marginalizzato, nel dibattito politico ed elettorale. Sarà perché i migranti non votano? Questo è certo. Ma dobbiamo anche dirci che ciò è accaduto anche in ragione di una certa assuefazione collettiva. Mi ha molto colpito in tutti questi anni il modo in cui, per fare un esempio tra i tanti, non sia stata valorizzata (in passato colpevolmente perfino a sinistra) l’opera impressionante realizzata da Cristina Cattaneo e dall’equipe di lavoro del LABANOF. Cioè da parte di chi identifica i morti del Mediterraneo e si è battuto (con alcuni di noi) per una cosa semplice, perfino nella sua tragicità potrei definirla “banale”: garantire il diritto all’identificazione di chi ha perso la vita in quel gigantesco cimitero, in quel grande blu pieno dei resti delle vite spezzate, colmo, per dirla proprio con Cattaneo, di “naufraghi senza volto”. Se non vuoi identificare chi è morto del resto non vuoi occuparti dei vivi. Alla fine della fiera la musica è sempre la stessa: rimuovere la questione migratoria come fatto di vite, di vite reali e vere e di progetti legittimi connessi alla propria dignità (quella che si esprime ad esempio attraverso la ricerca del lavoro). Su questo terreno possiamo e dobbiamo dirci che la peggiore destra d’Europa al momento ha vinto. Perché i migranti non sono le persone ma il danno permanente da ridurre. Una sinistra che non ha un punto di vista forte su grandi temi come la pace (vedi la mattanza di Gaza) o sulla difesa dei più indifesi (vedi i migranti), non rinuncia ad essere se stessa? Sì, certo, e proprio perché ne sono convinto mi faccia dire che però non è assolutamente il caso del Partito Democratico di Elly Schlein. Su questo punto sono in dissenso con alcune delle cose che ho letto sul vostro giornale in questi mesi. Il PD non solo è quello, e ci mancherebbe pure! che ha presentato in Parlamento una limpida mozione contro il terrorismo di Hamas, per il “Cessate il fuoco”, per la liberazione degli ostaggi israeliani, per il riconoscimento dei due popoli due stati. È anche quello che proprio in termini di politiche migratorie sta dicendo varie cose importanti. Le riassumo, rivendicando totalmente il nostro nuovo “posizionamento”. Proprio alcune settimane fa abbiamo presentato i lineamenti di una nuova proposta di legge riguardante il superamento della Bossi-Fini (in Italia la madre di tante sciagure), al fine di introdurre forme di permesso temporaneo per chi è alla ricerca del lavoro, di realizzare vie d’ingresso legali e sicure, di sviluppare un grande piano nazionale per l’inclusione sociale dei migranti. Inoltre, insistiamo su un punto: applicare fino in fondo la “Legge Zampa”, ripartire da lì in relazione ai minori non accompagnati. Infine, sempre in questo quadro di rovesciamento del pensiero dominante, abbiamo, grazie anche al protagonismo diretto e attivo di numerosi iscritti al PD di cosiddetta “seconda generazione”, annunciato l’avvio di una nuova mobilitazione sullo Ius Soli. La Riforma della Cittadinanza è infatti il campo di battaglia culturale obbligato per sconfiggere il disegno politico della destra che fonda tutto il suo portato sulla cultura dell’emergenza. Non solo. In questi mesi abbiamo anche intensificato il monitoraggio di quella spudorata vergogna costituita dagli attuali CPR. Insomma, noi crediamo che si debbano tenere assieme il rispetto dei diritti umani, mi viene da dire di un nuovo senso di “umanità”, con regole e scelte che favoriscano l’emersione della questione migratoria e la gestione nella legalità del fenomeno. Ciò chiede una nuova legislazione a livello nazionale e una svolta in Europa. E proprio sull’Europa vorrei concludere. Noi crediamo, lo hanno ripetuto Elly Schlein e Pietro Bartolo con grande lungimiranza, che il nuovo “Patto” europeo sia una clamorosa occasione sprecata e che lo avremmo voluto molto molto differente. Si dovrebbero infatti rivedere l’impianto dei cosiddetti accordi di Dublino, affermare l’obbligo alla redistribuzione della responsabilità dell’accoglienza, riformare Frontex, potenziare i corridoi umanitari, favorire la mobilità interna all’Europa, istituire nel mentre di questi processi la Mare Nostrum europea. Queste sono le nostre parole, e le nostre proposte. Non altre. Medio Oriente. L’Idf e le torture sui detenuti: nessuno ne parla di Fabio Scuto Il Fatto Quotidiano, 18 marzo 2024 Una settimana fa il quotidiano Haaretz ha raccontato in prima pagina di 27 detenuti palestinesi - catturati fra Gaza e la Cisgiordania - morti per i maltrattamenti subito durante la prigionia, come testimoniavano i loro corpi brutalizzati dalle percosse. Sono oltre 1.000 le denunce raccolte dall’Unrwa di prigionieri palestinesi - poi rilasciati - che hanno subito violenze durante la prigionia. Sbarre di ferro per i pestaggi, scosse elettriche, cani e bruciature di sigaretta, finte esecuzioni: questo nei loro racconti sulle torture. Il portavoce dell’Idf si è rifiutato di commentare o fornire spiegazioni su quali erano le reali condizioni di prigionia. La condotta di Israele nella guerra contro Hamas a Gaza è già oggetto di un caso della Corte Internazionale di Giustizia dove è accusato di genocidio e di un’indagine in corso su crimini di guerra da parte della Corte Penale Internazionale. La scorsa settimana persino il New York Times - quotidiano americano notoriamente poco incline a indagare sui misfatti di Israele - ha riportato i dettagli di un’indagine inedita dell’Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, che denunciava abusi su centinaia di prigionieri detenuti durante la guerra a Gaza. Tenuti in boxer nonostante le temperature rigide, docce gelate, e poi i morsi e graffi dei cani. I detenuti sono stati costretti a dormire nudi in gabbie scoperte, senza coperte, sul pavimento con la musica ad alto volume per tutta la notte. C’è un vasto capitolo che riguarda anche i furti e le ruberie, nelle case, negli uffici, ai prigionieri palestinesi stessi a cui non è mai stato restituito il denaro che avevano nelle tasche al momento dell’arresto. I trattamenti non sono stati differenti per le donne palestinesi fermate o arrestate. Allontanate dai figli minori, pestate da donne-soldato, umiliate, denudate, abusate sessualmente con oggetti, private del cibo e di cure mediche e poi il tormento psicologico. Ma di tutto questo al Consiglio di Sicurezza dell’Onu ancora non si è mai fatto parola. La Siria, 13 anni dopo. La tragedia dei bimbi di Marta Serafini Corriere della Sera, 18 marzo 2024 Sono oltre 7 milioni e mezzo i bambini che necessitano di assistenza umanitaria: 650 mila sotto i cinque anni sono colpiti da malnutrizione cronica. Siria, 13 anni dopo. Dimenticare una guerra non si può: i numeri parlano di mezzo milione di vittime, 20 milioni di persone costrette ad abbandonare le proprie case, rifugiati all’estero o sfollati nel loro Paese. E - il dato è stato diffuso da Unicef - di 7,5 milioni di bambini che necessitano di assistenza umanitaria, più che in qualsiasi altro momento del conflitto: in 650.000 sotto i cinque anni sono colpiti da malnutrizione cronica. La situazione umanitaria, ulteriormente aggravata dal terremoto che ha colpito Turchia e Siria nel febbraio dell’anno scorso, resta disastrosa secondo le Nazioni Unite. Le sanzioni occidentali, assieme alla distruzione delle infrastrutture, hanno complicato la già grave crisi economica, con il 90% della popolazione che - secondo l’Onu - vive al di sotto della soglia di povertà. Nonostante questo quadro e le tensioni regionali alimentate dal conflitto tra Hamas e Israele, il regime di Bashar Assad, alleato di Mosca e Teheran, pare saldo al potere, soprattutto dopo il sisma che ha permesso a Damasco di ottenere l’allentamento delle sanzioni. Da un anno, inoltre, la Lega Araba ha riammesso la Siria dopo una sospensione durata quasi un decennio. Allo stato attuale, la Siria nord occidentale resta sotto controllo delle milizie jihadiste sostenute da Ankara, quella nord orientale è sotto amministrazione curda, mentre nel resto del Paese rimane la presenza militare statunitense, quella russa e delle milizie libanesi di Hezbollah. Un quadro che non può certo migliorare la vita quotidiana dei civili. E soprattutto quella dei bambini.