Seimila detenuti con disturbi psichiatrici gravi: nemmeno 1 su 100 riceve cure adeguate di Paolo Russo La Stampa, 17 marzo 2024 L’ultimo a togliersi la vita dietro le sbarre è stato il rapper Jordan Jaffrey Baby. Prima di lui c’è Fakhri Marouane che si è dato fuoco nel carcere di Pescara dopo aver denunciato le violenze brutali subite dietro le sbarre di Santa Maria Capua a Vetere. E poi ancora Ibrahim Ndiagne, Rodolfo Hilic, Davide Bartoli, G.Z., F.A., C.S. e F.L. Sigle che proteggono il nome di detenuti italiani suicidi. Dall’inizio di quest’anno al 15 marzo nei nostri istituti di pena se ne contano già 25. Un andamento ben più drammatico del già triste record del 2022 di 84 suicidi, uno ogni 5 giorni, venti volte tanto quelli che si verificano tra chi vive in libertà. Dostoevskij diceva che il grado di civiltà di una nazione si misura entrando nelle sue prigioni. E noi, saremo pure la patria di Beccaria, ma le nostre carceri assomigliano sempre più a luoghi di supplizio che di pena. Perché un minimo di assistenza psichiatrica la si riesce a dare appena allo 0,38% di chi ha un disturbo mentale molto grave, come quello bipolare o la schizofrenia. Mali che a volte si portano da fuori. Ma che più spesso sopravvengono dietro le sbarre, dove si sta ammassati come animali da batteria. Gli ultimi dati indicano un tasso di sovraffollamento del 112%, che in certi penitenziari supera il 150, con picchi del 190% e oltre a Latina e al San Vittore di Milano. In queste condizioni non c’è poi da stupirsi se l’equilibrio mentale finisca per saltare. Secondo l’ultimo “Rapporto Antigone” il 9,2% dei nostri 65mila detenuti soffre di disturbi psichici molto gravi, il 12,4% delle donne che vivono dietro le sbarre. Ma il problema è molto più esteso, tanto che il 20% assume stabilizzanti dell’umore, antipsicotici e anti depressivi, mentre il 40,3% fa uso di sedativi e ipnotici. “Abbiamo detenuti con patologie pregresse che le condizioni carcerarie peggiorano e che se non monitorati possono essere a rischio suicidario”, spiega il professor Massimo Clerici della Società Italiana psichiatria e psichiatra presso la casa circondariale di Monza. “Poi ci sono i soggetti più gravi, spesso autori di omicidi o anche efferati pluriomicidi, psicopatici o serial killer. Si tratta di persone pericolose, che in Italia sono spesso collocate in isolamento e che non accedono a percorsi di cura continuativi e a terapie cognitivo-comportamentale, che potrebbero aumentare le capacità di autocontrollo”. Quello che sicuramente non ha avuto Domenico Livrieri quando a ottobre ha fatto a pezzi la sua vicina di casa e che se non ci fossero state liste di attesa infinite sarebbe dovuto stare in una Rems, le residenze psichiatriche per i detenuti psichiatrici gravi e particolarmente pericolosi. E come lui ce ne sono un centinaio abbandonati in strada o nelle loro case”, denuncia il professor Giuseppe Nicolò, direttore del Centro di salute mentale di Roma 5, che siede al tavolo Interministeriale Salute-Giustizia per la riforma delle Rems. Un’emergenza non solo sanitaria ma anche di sicurezza pubblica. Le Atms che assistono in carcere lo zero virgola zero e qualcosa dei detenuti con disturbi mentali. Secondo il Rapporto Antigone il 9,2% dei detenuti in Italia, ossia circa seimila dei 65mila che sovraffollano le nostre carceri ha avuto diagnosticato un disturbo psichiatrico grave. Problemi di salute mentale lo ha quasi la metà della popolazione carceraria, almeno a osservare quanti fanno uso di psicofarmaci, anche pesanti. Per questo fa cadere la braccia il numero di quanti sono in qualche modo assistiti da un punto di vista psichiatrico dentro gli Istituti di pena: soltanto 247 detenuti nel 2022, dei quali 15 donne. Lo zero virgola zero e qualcosa di chi avrebbe bisogno di cure. Numeri persino in peggioramento rispetto all’anno precedente quando erano in 292 ad essere seguiti nelle Atms. Sigla sconosciuta ai più che sta per “articolazioni per la tutela della salute mentale”. Sezioni penali a prevalente gestione sanitaria, sorte un po’ spontaneamente senza che venissero mai realmente normate. “Specie di comunità terapeutiche dietro le sbarre che dovrebbero ospitare non più di 20 detenuti seguiti da psichiatri, psicologi, assistenti sociali, infermieri e terapisti della riabilitazione “spiega il Professor Giuseppe Nicolò, psichiatra che siede al Tavolo Salute-Giustizia voluto da Schillaci per affrontare l’emergenza psichiatrica nei penitenziari. Peccato però che di Atms ne siano state create appena 32, dislocate in 17 istituti di pena. Una goccia d’acqua nel deserto come dimostrano le sole 8,75 ore l’anno di assistenza psichiatrica ogni 100 detenuti. Le liste d’attesa infinite nelle Rems, problema di sicurezza pubblica oltre che psichiatrico - Chiuso il capitolo vergognoso degli Opg, i manicomi giudiziari da incubo, ad accogliere i detenuti socialmente pericolosi e con gravi malattie mentali dovevano essere le Rems, Residenze per non più di 20 reclusi, sottoposti al controllo del personale addetto alla sicurezza. In Italia ce ne sono 592 dove sono ricoverate attualmente 592 persone, dichiarate dall’autorità giudiziaria “incapaci di intendere e di volere” e che in quanto tali non possono essere detenute perché vanno curate. Una legge di civiltà si dirà, ma la Corte Costituzionale nel 2022 ha parzialmente bocciato le Rems, sostenendo che non si può togliere al magistrato il controllo dell’esecuzione delle misure di sicurezza che la legge 81 del 2014 ha affidato invece ai sanitari. Fatto è, come spiega lo psichiatra Giuseppe Nicolò del tavolo Giustizia-Salute istituito sul tema, “che se prima in media gli Opg ospitavano tra i 1.100 e i 1.300 pazienti nelle Rems ora ce ne sono circa la metà, con quasi 700 persone in lista di attesa, alcune altamente pericolose ma libere, non potendo essere recluse”. Per ovviare al problema gli esperti del Tavolo voluto dal Ministro Schillaci stanno ora elaborando un piano che preveda delle “super Rems” ad alta sicurezza per il 20% di malati psichici socialmente più pericolosi, strutture a più basso livello di sicurezza rispetto alle attuali per il 40% di malati meno pericolosi, mentre il restante 40% resterebbe nelle attuali Rems. L’alternativa delle Comunità terapeutiche (già piene) - Le sezioni carcerarie che dovrebbero assistere chi ha disturbi psichici non gravissimi accolgono una quota infinitesimale di chi ne avrebbe bisogno e le Rems per chi è più grave e socialmente pericoloso hanno liste di attesa difficili da smaltire senza una alternativa. Che pure ci sarebbe, furi dalle carceri e sono le comunità terapeutiche con la sola presenza di personale socio-sanitario. Luoghi lontani dall’idea di detenzione che pure nel 2022 hanno ospitato 5.587 persone in libertà vigilata. Ossia che vuoi per le loro condizioni di salute, vuoi per lo loro scarsa o inesistente pericolosità sociale per il giudice possono godere di una misura alternativa alla detenzione. Per gli esperti del Tavolo Giustizia-Salute potrebbero ospitare anche detenuti socialmente ritenuti non pericolosi ma il problema è che sono già sature e che per costruirne di nuove o ampliare quelle che ci sono già servono risorse. Basti pensare che ogni ospite in comunità costa in media 200 euro al giorno. Che sono però sempre meno dei 500 necessari per risiedere in una Rems. “Tutte le proposte di riforma delle misure di sicurezza, sia quelle di stampo abolizionista che revisionista - ricorda il Rapporto Antigone - concordano sul fatto che debbano esistere luoghi a carattere comunitario dove i ‘folli-rei’, in particolare quelli con una medio-bassa pericolosità sociale, debbano essere accolti”. Come sempre per passare dalle parole ai fatti serviranno i soldi. Il decreto Caivano rinviato alla Consulta: “Improntato su una logica punitiva” di Dafne Roat Corriere del Trentino, 17 marzo 2024 Il decreto Caivano “solleva significativi dubbi di costituzionalità nella misura in cui prevede una risposta di tipo sanzionatorio piuttosto che di tipo educativo”. Lo scrive il gip Giovanni Gallo, del Tribunale dei minori di Trento, presieduto da Giuseppe Spadaro, in un’articolata ordinanza con la quale ha interpellato la Corte Costituzionale. Secondo il magistrato, che doveva decidere sul caso di un minorenne accusato di aver minacciato il papà con un coltello da cucina durante un’accesa discussione, ha sospeso il giudizio in attesa della pronuncia della Corte Costituzionale. Nel documento il giudice solleva dubbi in particolare sull’articolo 27 bis del decreto in quanto “cela una meccanica trattamentale fortemente improntata sul paradigma punitivo - scrive - anziché assicurare un approccio trattamentale fondato su dinamiche educative e riabilitative”. Il ragionamento del giudice, se sarà condiviso dalla Consulta, rischia di scardinare l’impianto del decreto che era stato pensato dal governo come risposta ad alcuni gravi eventi di cronaca. Nel caso specifico la difesa del minore aveva chiesto al pm la proroga del termine per il deposito del programma rieducativo per ottenere maggiori informazioni sulla sua situazione e creare un percorso adatto. In concreto voleva capire il motivo che aveva spinto il ragazzo a minacciare il papà, ma il pm aveva respinto l’istanza in quanto non è prevista dalla norma. Una situazione che pone seri dubbi di costituzionalità. Il gip definisce la norma “irragionevole” perché “di fronte a un reato non occasionale prevede una procedura che non permette un adeguato approfondimento informativo e un’effettiva presa in carico del minore e dei suoi bisogni educativi”. È d’accordo l’avvocato Andrea de Bertolini e consigliere provinciale (Pd) che definisce “criminale la scelta politica posta alla base del dl Caivano. Un decreto il cui vero limite sta nell’aver enfatizzato per i minori che hanno commesso reati risposte penali nella sostanza più punitive e repressive, piuttosto che rieducative”, commenta. E gli effetti sono già evidenti. “Mai come negli ultimi mesi - sottolinea de Bertolini - il numero di detenuti minori è stato così alto nel nostro Paese. Ora, la sicurezza sociale è indubbiamente tra i primi obiettivi cui la politica deve dare risposte ed è altrettanto vero che la frequenza di fenomeni criminali minorili sta aumentando in modo preoccupante, ma nel sistema penale il carcere è ritenuto l’estrema ratio. È prioritaria la risposta educativa e curativa”. Quanti sono i magistrati bravi? Così il Governo Meloni ha aggirato la Riforma Cartabia di Paolo Pandolfini Il Riformista, 17 marzo 2024 99,89. È la percentuale dei magistrati italiani che ha avuto una positiva valutazione di professionalità da parte del Consiglio superiore della magistratura, l’organo di autogoverno delle toghe che su questa delicatissima materia ha competenza esclusiva. Per capire le polemiche di questi giorni sul futuro sistema di valutazione dei magistrati, con l’introduzione delle ‘pagelle’ e i relativi giudizi di merito, non si può non partire allora da questo dato numerico che vede i pm e giudici del Belpaese tutti meritevoli e tutti con giudizi di professionalità positivi. Il dato che stride con la realtà - Si tratta, però, di un dato che stride tremendamente con la cronaca di tutti i giorni, fatta di gente arrestata e tenuta anni in carcere pur essendo innocente, di sequestri illegittimi, di provvedimenti giudiziari non motivati, di ritardi biblici nel settore civile dove i processi durano anni e dove la prevedibilità della decisione, che dovrebbe essere un principio cardine in un sistema giudiziario che si voglia considerare efficiente, è un miraggio. Ecco, questo 99,89 di magistrati valutati positivamente fa a pugni con ciò che accade nei tribunali italiani. Da Aosta a Trapani. Quanti sono i magistrati bravi? Lo disse chiaramente anni fa anche l’allora primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio, il primo magistrato d’Italia, sottolineando che non era nemmeno lontanamente immaginabile che in una comunità di quasi diecimila persone, quanti sono i magistrati italiani, fossero stati tutti bravi. Le pagelle, come spesso capita quando i buoi sono scappati, è stata quindi la classica ‘pezza’ da parte della politica, ovviamente perfettibile, ad un sistema di valutazione gestito dagli stessi magistrati e che si e sempre rifiutato di prendere in considerazione le inchieste flop, le sentenze sballate, i macroscopici errori in punto di diritto dei colleghi. L’emendamento - La nuova disposizione è stata prevista a seguito di un emendamento di Enrico Costa alla riforma Cartabia. Trattandosi di una legge delega, e terminata la legislatura prima del tempo, è toccato al governo Meloni il compito di dargli attuazione. L’esecutivo, appena insediatosi, nominò dunque una Commissione ministeriale per scrivere i relativi decreti attuativi. La Commissione, composta da ben 18 magistrati (di cui 10 efuori ruolo) su 26 membri, è però riuscita nell’intento di ‘annacquare’ il meccanismo che era stato previsto, cancellando l’obbligo di prendere in considerazione l’intera attività svolta dal magistrato ma solo alcuni atti “a campione”. Con la previsione, poi, di una parolina magica: “Gravi anomalie”. Per penalizzare la carriera del magistrato, l’eventuale rigetto delle richieste cautelari o la riforma e l’annullamento delle decisioni, potranno in questo modo essere prese in considerazione “ove assumano, anche in rapporto agli esiti delle decisioni e delle richieste adottate dai magistrati appartenenti al medesimo ufficio, carattere di marcata preponderanza e di frequenza rispetto al complesso degli affari definiti dal magistrato”. Tutto come prima - Il magistrato, insomma, per poter essere valutato negativamente dovrà sbagliare la maggioranza dei suoi processi. Quindi tutto come prima. Il nuovo meccanismo era stato pensato per valorizzare i più bravi, permettendogli di fare carriera senza dover chiedere favori a Luca Palamara o a chi per esso. Il risultato sarà invece che i magistrati continueranno ad essere tutti bravi e la loro carriera sarà legata a logiche spartitorie basate sulla appartenenza correntizia. Nonostante sia stata annacquata, l’Associazione nazionale magistrati è salita lo stesso sulle barricate, ed il Csm ha espresso questa settimana, su richiesta di Nordio, un parere molto critico, affermando che dare un giudizio ‘discreto’, ‘buono’, ottimo’ ad un magistrato significherebbe metterne in discussione il prestigio e l’autorevolezza. Della serie, chiunque può essere giudicato tranne chi veste la toga. Niente carcere al depresso grave cassazione.net, 17 marzo 2024 Chi è affetto da una grave depressione non può scontare il carcere neppure se ha commesso reati molto pesanti, un omicidio ad esempio. La Cassazione riconosce finalmente una malattia drammatica che impedisce di vivere dignitosamente con la sentenza 9432/24 depositata il 5 marzo 2024 avverso l’ordinanza del 28/02/23 del tribunale di Sorveglianza di Cagliari. Ad avviso della prima sezione penale, ai fini del differimento facoltativo della pena, ai sensi dell’art. 147, primo comma, n. 2) cod. pen., o della detenzione domiciliare ai sensi dell’art. 47-ter, comma 1-ter, Ord. pen., la malattia da cui il detenuto è affetto deve essere grave, cioè tale da porre in pericolo la vita o da provocare rilevanti conseguenze dannose, o comunque deve esigere un trattamento sanitario non attuabile in regime di carcerazione, dovendosi operare un bilanciamento tra l’interesse del condannato ad essere adeguatamente curato e le esigenze di sicurezza della collettività. Ad avviso degli Ermellini, infatti, di cui ha scritto il sito Cassazione.net, rileva Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, il motivo è fondato e, al riguardo, rincarano la dose hanno spiegato che “Ai fini del differimento della pena, rilevano anche le patologie di entità tale da far apparire l’espiazione della pena in contrasto con il senso di umanità a cui si ispira la norma dell’art. 27 Cost., in quanto capaci di determinare una situazione esistenziale al di sotto della soglia di dignità che deve essere rispettata anche nelle condizioni di restrizione carceraria. Fra l’altro, la patologia psichica può costituire essa stessa una causa di differimento della pena, quando sia di una gravità tale da provocare un’infermità fisica non fronteggiabile in ambiente carcerario, o da rendere l’espiazione della pena in tale forma non compatibile, per le eccessive sofferenze, con il senso di umanità. E per concludere, ecco il nocciolo della questione ad avviso del Supremo collegio, la depressione è, infatti, una patologia che, se particolarmente greve, può risultare incompatibile con la prosecuzione della detenzione in carcere, rendendo quest’ultima una fonte di sofferenze aggiuntive, incompatibili con il concetto di rispetto della dignità umana e con la finalità rieducativa della pena, o causare il peggioramento delle condizioni psichiche del detenuto.”. Campania. “Officina dei Teatranti”, una vera opportunità di formazione per i detenuti Fabrizio Geremicca Corriere del Mezzogiorno, 17 marzo 2024 Saranno realizzati laboratori dedicati alle arti sceniche in diversi penitenziari. Il teatro cone opportunità di crescita culturale e di valorizzazione di sé per chi sta scontando una pena in carcere. È il senso del progetto “Officina dei Teatranti”, che è partito già da qualche tempo e che è ora stato ufficialmente presentato in Regione. Sostenuto dall’assessorato alle Politiche Sociali, Giovanili e dell’Istruzione di Palazzo Santa Lucia, il progetto è stato ideato dall’associazione Polluce, in collaborazione con altre realtà attive nell’ambito del sociale. Prevede che siano realizzati laboratori dedicati al teatro e alle arti sceniche in diversi penitenziari. Quelli che per ora hanno aderito e sono stati coinvolti sono: Arienzo, Pozzuoli, Sant’Angelo dei Lombardi. I laboratori confluiranno poi in spettacoli teatrali. L’iniziativa riprende e valorizza un percorso che è stato già avviato alcuni anni fa dall’associazione Polluce. “Abbiamo coinvolto dal 2019 - racconta il presidente di quest’ultima, Gaetano Battista - più di 500 detenuti. Nel progetto Officina dei Teatranti parteciperanno ai laboratori ed agli spettacoli 20 detenuti e 20 detenute, tutti inseriti in un percorso di formazione ed inclusione attraverso i mestieri del teatro”. Da alcuni anni, ormai, non solo in Campania nascono iniziative finalizzate a promuovere il teatro nei penitenziari, per valorizzare il tempo che i reclusi trascorrono nell’espiazione della pena e nella speranza che la partecipazione ai laboratori ed alle rappresentazioni teatrali diventi opportunità di riflessione e di riscatto. I risultati, secondo i dati che Battista ha fornito, sono molto incoraggianti: “Più del 60 per cento dei detenuti che sono stati coinvolti nell’esperienza del teatro non è rientrato in carcere, dopo avere scontato la pena. Molti ci seguono da liberi, per continuare il progetto e per formare altri detenuti”. Ad Arienzo è nato un festival sul teatro in carcere che ha attratto un pubblico di 2000 persone. Si chiama Dialoghi di Libertà e lo scorso anno si è svolto a dicembre. Celebre è poi in Italia la storia della Compagnia della Fortezza, che partì come progetto di Laboratorio Teatrale nella Casa di Reclusione di Volterra nell’agosto del 1988, a cura di Carte Blanche e con la direzione di Armando Punzo. “C’è bisogno che questi modelli - riflette l’assessore regionale Fortini - siano seguiti anche da altri istituti penitenziari. Arte e spettacolo possono abbattere le pareti e contribuire a rimuovere lo stigma sociale che accompagna chi è stato in carcere”. Napoli. Sit-in a Poggioreale: “Basta suicidi in cella, ora dobbiamo agire” di Giuliana Covella Il Mattino, 17 marzo 2024 “La situazione di tanti, troppi, detenuti delle nostre città e del nostro Paese non è degna della nostra Costituzione repubblicana, la quale considera prioritaria non solo la tutela di tutti gli esseri umani ma anche la finalità educativa della pena”. Così ha scritto l’arcivescovo di Napoli don Mimmo Battaglia in una lettera indirizzata a don Franco Esposito, direttore della Pastorale carceraria della Diocesi partenopea, che ieri mattina ha organizzato l’iniziativa “Basta suicidi in carcere” con la collaborazione delle associazioni Liberi di Volare onlus e Sbarre di Zucchero, con il sostegno del garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello e di padre Alex Zanotelli. Con l’adesione di diverse realtà dell’associazionismo, che in corteo sono partite da piazza Cenni per arrivare davanti alla casa circondariale “Giuseppe Salvia” di Poggioreale. “Numerosi suicidi negli istituti di pena ci ricordano che evidentemente il nostro sistema va in una direzione opposta - scrive ancora Battaglia - che non tutelando i detenuti non garantisce neanche la sicurezza e il bene della comunità in cui dovrebbero essere reintegrati come persone rinnovate nella mente e nel cuore”. Oltre 300 persone sono scese in piazza sin dalla prima mattinata per dire basta ai suicidi in carcere. Un fenomeno che non riguarda solamente i detenuti, ma anche gli agenti penitenziari a dimostrazione di una vita carceraria colma di frustrazione per i ristretti e per chiunque operi all’interno degli istituti penitenziari. Tra i manifestanti Monica Bizaj, presidente dell’associazione Sbarre di Zucchero e Valentina Ilardi, della onlus Liberi di Volare. “C’è un silenzio assordante davanti alle morti, alle sofferenze, all’essere calpestati nella dignità che è all’interno delle carceri - ha detto don Franco - Vogliamo far sì che si prenda coscienza di questo male che produce solo male”. Per Ciambriello quello di ieri è “un presidio che rompe un silenzio. Si continua a morire in carcere e di carcere nell’indifferenza generale in una società civile. L’indifferenza è un proiettile silenzioso che uccide lentamente”. E sui numeri il garante insiste: “2.500 persone in Campania devono scontare meno di tre anni. Interveniamo con un provvedimento nazionale, con un indulto. Mettiamo più misure alternative in carcere. In Italia abbiamo 17mila tossicodipendenti, 1.400 in Campania di cui molti non hanno commesso un reato contro terzi ma sono stati denunciati dai familiari. Ci sono poi migliaia di persone malate di mente, di cui 400 nella nostra regione che sono recluse”. E su chi si toglie la vita in cella: “A Poggioreale sono tre i suicidi già dichiarati, per uno c’è un’indagine in corso. Non dimentichiamo poi le forme di protesta, gli scioperi per la salute: molti non vengono ricoverati, addirittura in alcuni casi si prenotano visita e operazione ma non arriva il nucleo di traduzione in ospedale”. Diversi i cartelli con gli slogan contro un sistema carcerario ritenuto inadeguato, come rimarca Zanotelli: “Vogliamo prima di tutto che le carceri vengano abolite, perché non è un luogo di rieducazione, ma dove si impara il crimine. Siamo molto preoccupati per i suicidi che stanno avvenendo da inizio anno. Questi ragazzi sono sempre rinchiusi in cella, non possono muoversi e vengono riempiti di psicofarmaci. La politica deve intervenire, prendendo in seria considerazione il problema”. Tra le associazioni intervenute al sit-in il Movimento Spazio a sinistra Napoli: “Siamo qui per mettere in evidenza la qualità di vita dei detenuti a Napoli e in Italia - dice il coordinatore Gennaro Centanni - che è pessima. La nostra è una società che forma scarti e la politica dovrebbe affrontare questo tema impopolare”. Ieri pomeriggio inoltre nella sede di Liberi di volare alla Sanità si è svolto un convegno organizzato dalla rete nazionale Sbarre di Zucchero sulle condizioni delle carceri, a cui hanno partecipato Ciro Corona, fondatore di Resistenza anticamorra, don Tonino Palmese, garante dei detenuti Comune di Napoli, Stefano Vecchio, presidente Forum Droghe. “Un incontro di riflessione per presentare un documento da inviare a chi deve dare risposte serie”, conclude don Franco. Viterbo. Violenze e suicidi, quella polveriera ignorata nel carcere di Romina Marceca La Repubblica, 17 marzo 2024 La senatrice Ilaria Cucchi: “Qui lo Stato è responsabile, il fallimento totale è sotto gli occhi di tutti”. I sindacati di Polizia penitenziaria che segnalano ai vertici la situazione del carcere Mammagialla con troppi pochi agenti e troppi detenuti (oltre 115 in più, ndr), un’interrogazione parlamentare dopo i fatti del dicembre scorso, un tentato suicidio, rivolte e feriti. Il penitenziario di Viterbo è una polveriera dalla quale sembrerebbe che tutti si tengano ben lontano in attesa che scoppi l’incendio. Nell’ultimo anno un uomo è stato salvato dal suicidio, un altro è morto per un malore, e sono stati diversi gli atti violenti da parte dei detenuti ai danni di altri detenuti o degli agenti della penitenziaria. Senza contare il fatto più grave: la morte di Alessandro Salvaggio. Suppellettili bruciati, risse, aggressioni fanno ormai parte della quotidianità di questo carcere. I sindacati da tempo hanno più volte lanciato l’allarme. La senatrice del gruppo di Alleanza Verdi - Sinistra, Ilaria Cucchi, da settimane si batte perché si migliorino le condizioni delle carceri italiane e si chiudano i Cpr: “A Mammagialla, come in molte altre carceri purtroppo, la cultura del rispetto dei diritti umani viene lasciata fuori dalle sbarre che la separano dal mondo civile. Solo così si spiega che un detenuto trovi tra quelle sbarre solo l’aspetto punitivo della detenzione e quasi mai quello rieducativo. E la punizione troppo spesso si spinge fino alla morte. A Mammagialla la vittima è Alessandro Salvaggio ma anche Tsvetkov Krasimir Ilyianov”. Per la Cucchi “colpevole è il sistema, colpevoli le leggi che istituiscono reati con pene sempre più sproporzionate. Colpevole l’ignoranza di chi si volta dall’altra parte. Colpevole è lo Stato. A Mammagialla, oggi, il fallimento totale dello Stato è sotto gli occhi di tutti”. È nel settembre del 2023 che un detenuto muore dentro la sua cella per un malore e un altro viene salvato da un tentativo di suicidio. Nelle stesse ore, è il 10 del mese, scoppia una rivolta rientrata dopo ore e il massiccio intervento della polizia penitenziaria col supporto delle altre forze dell’ordine. Botte con falangi staccate a morsi nei tafferugli, barricati in alcune celle con lamette e armi rudimentali, i detenuti hanno appiccato fuoco a materassi e bombolette del gas. Fumo, scoppi e grida hanno presto coinvolto tutto un reparto. Una notte di caos dopo la quale il sindacato USPP Lazio aveva messo in luce le criticità di un carcere fuori controllo, la Fp Cgil chiede l’intervento di Nordio. Già nel 2018 Hassan Sharaf, un 21enne egiziano si era tolto la vita. Sul registro degli indagati finirono l’ex direttore, due medici dell’ospedale di Belcolle, il comandante della polizia penitenziaria e due agenti. È la stessa moglie di Alessandro Salvaggio a ricordare nella denuncia che il marito le aveva segnalato anche la presenza di droga e telefonini portati dall’esterno: “Pochi mesi prima della tragedia, precisamente il 23 settembre 2023, il Garante dei detenuti del Lazio aveva denunciato pubblicamente le condizioni di detenzione all’interno del carcere di Viterbo definendo “preoccupante il tasso di affollamento sulla capienza regolamentare che ha superato il 141 per cento”. Infatti, nell’istituto penitenziario di Viterbo a fronte dei 405 posti effettivamente disponibili, sono presenti oltre 620 detenuti”. Viterbo. “Mio marito strangolato in cella da uno squilibrato sotto gli occhi chiusi di tutti” di Romina Marceca La Repubblica, 17 marzo 2024 La denuncia di Lucietta Carnazzo, moglie di Alessandro Salvaggio ucciso nel carcere Mammagialla di Viterbo: “Nessuno ha monitorato il suo assassino. Aspetto ancora delle scuse da parte dello Stato”. Dentro quel carcere non ci sarebbero le “giuste condizioni di vita che sono pessime e denigranti e irrispettose dei diritti dei detenuti”, diceva Alessandro Salvaggio alla moglie un mese prima di essere ucciso. “C’è freddo la sera, i detenuti sono senza regole, la struttura è fatiscente, le condizioni igieniche lasciano a desiderare”, questo raccontava il detenuto che aveva una lunga esperienza di carceri. Ne aveva girate diverse negli ultimi dieci anni. Alessandro Salvaggio è stato strangolato la sera del 19 dicembre 2023 dentro una cella del carcere Mammagialla di Viterbo. Aveva 49 anni e stava scontando una condanna per evasione. Nessuno si è accorto di nulla. A ucciderlo è stato il suo compagno di cella, Tsvetkov Krasimir Ilyianov, un uomo che qualche giorno prima aveva preso a calci gli armadietti e le porte senza alcun apparente motivo. “Ma nessuno lo ha spostato in una cella di isolamento o lo ha monitorato”, sono gli ultimi racconti della vittima. Le parole di Alessandro Salvaggio e la sua silenziosa protesta sono finite nella denuncia che la moglie, a distanza di tre mesi dalla morte del marito, ha presentato contro i vertici dell’istituto penitenziario. “Aspetto ancora delle scuse da parte dello Stato”, dice Lucietta Carnazzo, la vedova di Salvaggio. Perché “è inaudito che un detenuto che sconta la propria pena in carcere, e che prima di essere tale è un individuo, un cittadino e un marito, un padre, un figlio, non debba ricevere da parte degli organi preposti al controllo e alla gestione dell’istituto una minima tutela della propria salute e della propria incolumità e debba pagare con la vita il frutto di errate scelte organizzative e gestionali”, scrive in querela la donna, difesa dall’avvocato Giacomo Luca Pillitteri. Che dice: “Con la famiglia ci auspichiamo che la morte di Alessandro Salvaggio accenda in faro sulla drammatica situazione delle carceri italiane e sui detenuti reclusi troppo spesso dimenticati e costretti a delle condizioni di vita indicibili”. Ci sono troppi particolari che non si riescono a chiarire nella morte del detenuto. “La notte del 20 dicembre 2023, verso le 00,10, ho ricevuto una chiamata dal carcere, venivo informata che il giorno 19 verso le ore 22,05 mio marito, “a seguito di una lite” con il compagno di cella, era stato ucciso dallo stesso”, è quanto ricostruisce Lucietta Carnazzo nel suo esposto. Ma l’autopsia ha rivelato che sul collo della vittima c’era un solco mentre sul suo corpo e su quello dell’aggressore nessuna ferita. “Mi sembra strano che l’assassino di mio marito lo abbia strangolato con una corda perché all’interno della cella non dovrebbero esserci di regola”. La scelta di lasciare il marito in cella con un potenziale compagno violento per la donna è stata “scellerata” e contesta che “attorno all’omicidio di mio marito regnano omertà e mistero consistenti nelle notizie apparentemente fuorvianti ed imprecise che mi sono state date a fatto successo e nella assoluta indisponibilità dell’istituto penitenziario Mammagialla a discutere della tragedia in questione”. Salvaggio è stato ucciso sotto gli occhi di tutti ma quegli occhi si sono chiusi sulla sua fine. Foggia. Detenuti con disturbi psichici, l’importanza dei Centri per le cure di Saverio Serlenga immediato.net, 17 marzo 2024 Psichicità e giustizia. Se ne è parlato a Foggia nel corso di un convegno organizzato dal Consorzio Metropolis e al quale hanno partecipato oltre che gli operatori del settore, anche il procuratore capo di Foggia, Ludovico Vaccaro e Silvia Maria Dominioni, presidente del Tribunale di Sorveglianza. Entrambi hanno dichiarato l’importanza dei centri che si occupano di autori di reato con disturbi psichici. A fare da anfitrione, il presidente del Consorzio Metropolis, Luigi Paparella. “L’obiettivo di questo incontro è quello di creare un punto di riferimento e un coordinamento per quanto riguarda tutti i tipi di intervento che possono essere espletati in favore dell’autore di reato, creando formazione e informazione rispetto alla collettività”. In Puglia sono 15 le strutture di Metropolis deputate al trattamento di pazienti psichiatrici. Una di queste è stata da poco inaugurata a Manfredonia e già oggetto di polemiche. Ma Paparella fa subito chiarezza. “La struttura di Manfredonia sta restituendo sia alla magistratura che agli utenti e agli operatori della collettività quello che aveva promesso. È una struttura a regime, non ha mai chiuso, ha una lista d’attesa e sta seguendo l’iter progettuale per raggiungere gli obiettivi. La polemica riguarda meramente un aspetto amministrativo che non tocca assolutamente la gestione. La vicenda - conclude Paparella - sarà seguita dal Tar Puglia, noi siamo fiduciosi che Metropolis continuerà nel progetto”. Sondrio. “Va eletto il Garante dei detenuti” di Fulvio D’Eri Il Giorno, 17 marzo 2024 Il Partito Radicale denuncia la mancanza del Garante nel carcere di Sondrio e altre criticità della Casa circondariale del capoluogo di provincia valtellinese. “I detenuti del carcere di Sondrio sono di nuovo sprovvisti della possibilità di avvalersi dell’assistenza del garante - dicono dal Partito radicale -. La precedente Garante, Orit Liss, risulta essersi dimessa diversi mesi fa anche in relazione alle dichiarate limitazioni imposte dalla precedente direzione del carcere riguardo alle modalità di svolgimento delle proprie funzioni (particolarmente il diritto di visita senza autorizzazione)”. Il Partito Radicale ha una richiesta precisa: “Cosa aspetta il presidente del Consiglio comunale di Sondrio a presentare e pubblicizzare la possibilità di presentare candidature per l’elezione a Garante ai sensi del relativo regolamento comunale?”. Ma quali sono le condizioni, secondo i radicali, del carcere sondriese? “Dalla scheda informativa ministeriale (aggiornata gennaio 2024) il carcere risulta essere in condizioni di poco migliori rispetto alla situazione di due anni fa: dispone finalmente di un direttore e il sovraffollamento, tuttora pesante, è comunque sceso dal 142 al 130 %. Permane una grave carenza di organico mancando 1 agente, 10 amministrativi e soprattutto l’educatore”. Per far fronte ai problemi della comunità carceraria si auspica l’attivazione del Consiglio di aiuto sociale, una sorta di tavolo di concertazione tra magistratura, direttore del carcere, enti ed associazioni locali, con compiti di assistenza penitenziaria e post-penitenziaria con finalità di aiuto nelle relazioni famigliari e di reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti, nonché attività di soccorso e assistenza alle vittime del reato. I Consigli di aiuto sociale, previsti dalla Riforma penitenziaria del 1975, sono purtroppo praticamente inesistenti; si ha notizia dell’esistenza di due soli “Consigli” (in una circoscrizione in Sicilia ed in una in Piemonte). Milano. Cambia il cappellano del carcere minorile Beccaria di Zita Dazzi La Repubblica, 17 marzo 2024 Don Gino Rigoldi, dopo 50 anni in prima linea come cappellano del carcere minorile Beccaria, lascia la palla a don Claudio Burgio, da sempre il suo vice, nell’istituto di via dei Calchi Taeggi. Non è un addio, perché don Gino non sa e non vuole stare lontano dai suoi ragazzi, che continuerà ad andare a trovare in cella, e per i quali continuerà ad immaginare un futuro attraverso i tanti progetti di Comunità Nuova e della fondazione che porta il suo nome. È qui che convergono tutte le donazioni che vengono fatte a don Gino per il Beccaria e per gli altri ragazzi fragili che lui ha sempre aiutato nel corso della sua lunga vita (è nato il 30 ottobre del 1939). L’annuncio di questo nuovo tipo di impegno avverrà il prossimo sabato 23 marzo, nel corso di una giornata speciale all’interno del Beccaria, con due eventi in uno” in programma. Rigoldi assieme al Direttore dell’Istituto di prevenzione minorile ha organizzato un’asta fotografica di scatti d’autore donati alla Fondazione Don Gino Rigoldi e un pranzo speciale a favore dei ragazzi di area penale, sia dentro che fuori dal carcere, e delle attività dell’Istituto. L’asta fotografica “A noi ci frega lo sguardo” è arrivata alla sua quinta edizione e vede la partecipazione di 20 famosi fotografi e i loro scatti, battuti dalla celebre Casa d’Aste Christie’s: Tina Cosmai, Ninni Pepe, Carlo Borlenghi, Gloria Aura Bortolini, Maurizio Galimberti, Settimio Benedusi, Archivio Carlo Orsi, Giorgio Galimberti, Gioia Valerio, Oliviero Toscani, Massimo Vitali, Valerio Minato, Sasha Benedetti, Gianni Berengo Gardin, Claudio Argentiero, Marco Glaviano, Laura Pellerej, Pietro Paolini, Patricio Reig, Giulio Cerocchi.Il pranzo sarà invece realizzato da alcuni nomi d’eccezione della cucina italiana: gli chef Andrea Aprea, Alessandro Borghese, Riccardo Monco, Davide Oldani e il Maestro Pasticcere Diego Crosara (dalla Pasticceria Marchesi 1894 di Milano). A presentare l’intera giornata sarà l’attore comico Germano Lanzoni, che aiuterà don Gino a spiegare i suoi mille nuovi progetti, che non si arrestano mai e non smettono di attirare l’attenzione dei benefattori milanesi, sempre molto attenti al sociale. Per partecipare al pranzo e all’asta è necessario andare sul sito della Fondazione e compilare il form in fondo alla pagina per avere maggiori informazioni e prenotare un posto. Bolzano. Cpr all’aeroporto, via libera da Piantedosi di Enzo Coco Corriere dell’Alto Adige, 17 marzo 2024 Il Cpr per l’Alto Adige sorgerà nei pressi dell’aeroporto di Bolzano. Lo ha confermato il ministro Piantedosi in occasione dell’incontro che si è tenut a Roma tra il presidente altoatesino Arno Kompatscher, l’assessora alla sicurezza Ulli Mair e il ministro dell’interno. Tra i temi trattati, la realizzazione di un Cpr (Centro di permanenza per rimpatri) in Alto Adige. Se ne era discusso già in campagna elettorale, e arrivano nuove conferme: sarà “legato strettamente alle esigenze locali” (e cioè delle dimensioni più contenute possibile, e sorgerà nella zona dell’aeroporto di Bolzano, disi stante dalla città. Inoltre, si è discusso della possibilità di rilasciare molto più rapidamente i permessi di soggiorno: “Un modo - spiega Mair - per evitare che si generi insicurezza. Non è giusto dover aspettare anche un anno senza poter lavorare o avere una casa”. Più in generale, come ha aggiunto Kompatscher “si trattava di capire come la Provincia autonoma di Bolzano possa supportare al meglio le forze dell’ordine nell’ambito della pubblica sicurezza, tenendo conto del programma di coalizione”. Sul tavolo anche il lavoro del nuovo questore: “Il ministro ci ha assicurato il suo pieno sostegno all’approccio del nuovo questore di Bolzano, Paolo Sartori. Conosce bene l’Alto Adige e ha mostrato comprensione per il nostro desiderio di aumentare le misure per la percezione della sicurezza da un lato e per la sicurezza concreta dall’altro”, ha dichiarato l’assessora Mair. Nel frattempo, l’azione del questore sul territorio si è concentrata su Merano. Controlli nei centri commerciali e sulle passeggiate, espulsioni e fogli di via, sequestri di droga svolgono quasi giornalmente ad opera delle forze dell’Ordine; contemporaneamente il nuovo questore si muove sul territorio e incontra le varie realtà. Accompagnato nella circostanza dal vicequestore e dirigente del commissariato di Polizia di Merano Carlo Casaburi, Sartori ha incontrato il sindaco Dario Dal Medico. Un incontro valso come occasione per una conoscenza reciproca e per mettere più a fuoco i temi della sicurezza e della collaborazione istituzionale per un più mirato ed efficiente controllo del territorio e per la prevenzione dei fenomeni di microcriminalità e di devianza: “Sul fronte della sicurezza, l’amministrazione comunale sta facendo tutto quanto è in suo potere e di sua competenza” ha ribadito il sindaco facendo presente che il Comune per l’incremento di organico della Polizia ha messo a disposizione alloggi a prezzi d’affitto calmierati. “Ho espresso poi al questore l’auspicio che il presidio del territorio meranese possa essere rafforzato, magari attraverso una redistribuzione delle risorse assegnate ad altri commissariati”, ha chiarito dal Medico, che ha manifestato anche il suo personale compiacimento per i tempestivi provvedimenti che il questore ha adottato, fin dal suo insediamento, nei confronti delle persone irregolarmente presenti sul territorio e sorprese a delinquere. Dal Medico ha quindi ricordato il progetto pilota di controllo di vicinato, che l’amministrazione comunale ha fortemente voluto e che partirà nel corso dell’estate. Proprio questo fine settimana il primo cittadino sarà a Verona e a Cittadella, dove il progetto è già realtà, per confrontarsi con quelle amministrazione locali e sentire la loro esperienza: “È un progetto per il successo del quale le sinergie con la Polizia di Stato sono fondamentali, così come essenziale è il suo apporto per le campagne istituzionali di educazione alla legalità nelle scuole”. Napoli. Raccontare le sentenze della Corte di giustizia: un workshop all’Università Federico II Il Mattino, 17 marzo 2024 Un progetto di ricerca esplora il contributo del cittadino al processo d’integrazione europea. Il 21 e 22 marzo si terrà nell’Aula Guarino dell’Università Federico II il workshop “Raccontare le sentenze che hanno fatto l’integrazione europea”, secondo incontro del progetto “Rediscovering European Integration Through Legal Storytelling” (PRIN 2022), coordinato dai professori Amedeo Arena (Università Federico II), Maria Eugenia Bartoloni (Università Vanvitelli) e Mario Riberi (Università di Torino). Tale progetto di ricerca, che coinvolge tre unità di ricerca (Università Federico II, Università di Torino e Università Vanvitelli), si propone di analizzare le pronunce più importanti della Corte di giustizia europea alla luce del loro contesto storico di riferimento, mettendo inoltre a fuoco i protagonisti delle vicende giudiziarie che hanno profondamente influenzato il processo d’integrazione europea. L’incontro del 21 e 22 marzo, che fa seguito all’evento inaugurale tenutosi lo scorso autunno presso gli Archivi Storici dell’Unione Europea a Firenze, costituirà un’occasione di confronto tra esperti di diverse discipline giuridiche e storiche. Oltre venti studiosi, provenienti da università italiane ed estere, si riuniranno a Napoli per presentare i risultati preliminari delle proprie ricerche o per fornire suggerimenti e spunti di riflessione agli altri ricercatori partecipanti al progetto. La prima sessione del workshop si terrà la mattina del 21 marzo, a partire dalle 10:30, e sarà presieduta da Amedeo Arena, dell’Ateneo federiciano. Dopo i saluti di Fabio Ferraro (Università Federico II), Giulia Rossolillo (Università di Pavia), esplorerà le radici del principio del primato del comunitario attraverso il caso “Humblet”, Alessandro Rosanò (Università della Valle d’Aosta) approfondirà il ruolo dei tribunali arbitrali nel rinvio pregiudiziale, soffermandosi sul caso “Vaassen-Goebbels”, e Alberto Miglio (Università di Torino) discuterà il caso “Internationale Handelsgesellschaft”, analizzando il rapporto fra il primato del diritto comunitario e la tutela dei diritti fondamentali a livello nazionale, una questione che continua a essere centrale nel dibattito sull’integrazione europea. Roberto Cisotta (Università La Sapienza), quindi, presenterà un’analisi del caso “AETS”, evidenziandone la valenza nel contesto del contenzioso tra le istituzioni comunitarie. Stefaan van den Bogaert (Università di Leiden) concluderà la sessione discutendo il caso “Reyners”, illustrando come questa sentenza abbia promosso il funzionamento del mercato interno nel settore delle professioni regolamentate. La seconda sessione avrà inizio alle 14:30 del 21 marzo e sarà presieduta da Maria Eugenia Bartoloni dell’Università Vanvitelli. I primi due interventi riguarderanno la figura del giurista italiano Nicola Catalano (1910-1984): Marco Fioravanti (Università La Sapienza) si soffermerà sulle idee di Catalano in ordine alla costruzione dell’Europa al termine del proprio incarico come consigliere giuridico presso la Zona internazionale di Tangeri; Amedeo Arena (Università Federico II), si soffermerà sulle successive esperienze di Catalano come consigliere dell’Alta Autorità della CECA, membro del gruppo di redazione dei Trattati di Roma, giudice della Corte di giustizia delle Comunità Europee, avvocato del libero foro, ecc. Ida Ferrero e Matteo Traverso, poi, discuteranno il caso “Commissione c. Italia (causa 7/68)”, esaminando il delicato equilibrio tra la tutela del patrimonio artistico nazionale e la libera circolazione delle merci all’interno del mercato unico. Luca Rubini presenterà un’analisi del caso “Limburg c. Alta Autorità”, evidenziando come questa pronuncia abbia contribuito a definire l’approccio comunitario alla disciplina degli aiuti di Stato. Mario Riberi esaminerà la causa “78/70, Deutsche Grammophon / Metro SB”, offrendo una rilettura storico-giuridica della tensione tra il diritto esclusivo di incisione e l’abuso di posizione dominante. Stefania Torre concluderà la sessione esplorando la condizione dei lavoratori europei tra gli anni 50 e 70, mettendo in luce come gli interventi normativi e giurisprudenziali dell’epoca abbiano gettato le basi per la successiva tutela dei diritti dei lavoratori nell’ambito del mercato comune europeo. La terza sessione, presieduta da Mario Riberi (Università di Torino), inizierà alle 9:30 di venerdì 22 marzo. Stefaan van der Jeught (Vrije Universiteit Brussel) aprirà la sessione con un’analisi della sentenza Unger, esaminando come questa pronuncia abbia condotto ad un’interpretazione autonoma del concetto di “lavoratore assimilato” nel diritto comunitario. Dimitri Zurstrassen (Università di Leuven e LUISS) offrirà una panoramica sulla politica industriale e di concorrenza della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio. Jacopo Alberti discuterà i casi Meroni, concentrandosi su come il significato attribuito a tali pronunce si sia modificato nel tempo. Angela Festa rifletterà sul caso van Duyn, esplorando le sue implicazioni per la libertà di circolazione e di soggiorno dei cittadini comunitari. Infine, Giulia D’Agnone presenterà il caso Vandeweghe, soffermandosi sulla competenza della Corte di giustizia ad interpretare le norme di diritto internazionale. “Il diritto dell’Unione europea è percepito da molti come un fenomeno che si colloca lontano dal cittadino” ha commentato Amedeo Arena, ideatore del progetto e responsabile dell’unità incardinata presso l’Università Federico II, “eppure, tale diritto si è sviluppato proprio grazie all’iniziativa dei cittadini che hanno deciso di adire un giudice per affermare i propri diritti. Tali azioni hanno infatti dato luogo a pronunce giurisprudenziali che enunciano principi applicabili a tutti i cittadini europei. Questo progetto di ricerca intende perciò spingersi al di là del testo delle sentenze della Corte di giustizia, per individuare e conoscere questi protagonisti, talvolta inconsapevoli o dimenticati, del processo d’integrazione europea”. La prof.ssa Bartoloni, responsabile dell’Unità di ricerca dell’Università Vanvitelli, ha aggiunto “Le sentenze della Corte di giustizia che definiamo “storiche” sono spesso cristallizzate in una narrativa che, pur cogliendone il senso di innovazione, non esaurisce affatto la loro portata innovativa. Il workshop del 21 e 22 marzo, attraverso il metodo dello storytelling, ci consentirà di evidenziare anche i profili non esplorati o poco valorizzati di queste sentenze. Ogni studioso, attraverso la propria sensibilità scientifica, ci accompagnerà nel contesto storico, fattuale e politico che ha fatto da cornice a ciascuna sentenza e che l’ha resa una grande o piccola pietra miliare dell’integrazione europea”. “Questo secondo workshop è un punto importante nello sviluppo del nostro progetto, soprattutto per quanto riguarda la metodologia applicata, secondo me davvero innovativa, dello storytelling” ha dichiarato il prof. Riberi, responsabile dell’Unità di ricerca dell’Università di Torino. “Si tratta, in altre parole, di raccontare le sentenze che hanno fatto l’Europa, contribuendo alla pace ed all’integrazione tra nazioni che, per secoli, sono state costantemente in lotta. Ci stiamo soffermando inoltre sul ruolo dei giudici, degli avvocati generali, dei referendari, delle parti. Si tratta, insomma, di un progetto a più voci, di un incontro tra la storia delle sentenze e il contesto storico-politico in cui sono state pronunciate”. “La Seconda Vita”. Voglia di ricominciare fuori dal carcere di Caterina Sabato artribune.com, 17 marzo 2024 Un film diretto da Vito Palmieri con Marianna Fontana e Giovanni Anzaldo, prodotto da Articolture in collaborazione con Rai Cinema. “La Seconda Vita” uscirà in sala il 4 aprile 2024 distribuito da Articolture e Lo Scrittoio, preceduto da un tour nelle carceri. Film di apertura del concorso ItaliaFilmFest/Nuovo cinema italiano al Bif&st 2024 il nuovo lungometraggio di Vito Palmieri con protagonisti Marianna Fontana e Giovanni Anzaldo. Prodotto da Articolture in collaborazione con Rai Cinema, il film uscirà in sala il 4 aprile distribuito da Articolture e Lo Scrittoio, preceduto da un tour nelle carceri. La trentenne Anna dopo aver pagato il suo debito con la giustizia per un reato gravissimo compiuto quando era adolescente, tenta di reinserirsi nella società, cercando un lavoro e sperando di ricominciare a vivere nonostante sia ancora tormentata dal ricordo del suo terribile gesto. Si trasferisce in una piccola città dove trova lavoro come bibliotecaria, Marco (Lorenzo Gioielli), il direttore che l’ha assunta, appare da subito fin troppo premuroso nei suoi riguardi: ha intuito il suo passato scomodo e cerca di manipolarla, promettendole di mantenere il suo segreto. Almeno fino a quando Anna non incontra Antonio (Giovanni Anzaldo), un ragazzo timido e introverso, che riesce a instaurare con lei un rapporto puro, anche se lei fatica ad aprirsi totalmente. Gli ostacoli e le difficoltà, l’angoscia e lo smarrimento di chi lascia il carcere dopo tanti anni sono ben descritti nell’intenso dramma di Vito Palmieri, “La seconda vita”, scritto insieme a Michele Santeramo, che inquadra una condizione comune a chi ha il diritto di ricominciare anche dopo essersi macchiato di un delitto, “vittima” di pregiudizi, diffidenza e paura. A portare sullo schermo tutta l’angoscia e le incognite verso il futuro è la bravissima Marianna Fontana (“Indivisibili”, “Capri - Revolution”) nei panni di Anna che non può perdonarsi, che vive ogni giorno con il rimorso e il pensiero fisso a quell’estate di molti anni prima quando con un gesto ha cambiato la sua vita per sempre. Forse per lei c’è una piccola speranza, la possibilità di un amore, di un lavoro onesto ma la società sembra non dimenticare, sempre pronta a giudicare. Cosa che non fa Vito Palmieri, lasciando al pubblico la possibilità di seguire le vicende della protagonista e di riflettere sulla vera durata di una condanna: per Anna sembra un “fine pena mai” anche fuori dal carcere, una condizione di solitudine anche quando si trova in compagnia di Antonio che tenta di decifrare il suo universo impenetrabile. “Tu devi decidere, o rischi di essere felice oppure stai tranquillo”, dice il padre di Antonio al figlio quando si trova di fronte all’incognita se accettare o meno il passato di Anna. “La Seconda Vita” mette lo spettatore di fronte a un argomento scomodo e spinge a chiederci quanto saremmo capaci noi di perdonare e di dare una seconda possibilità ad Anna, ergendoci a giudici senza averne il diritto o lasciandola semplicemente vivere senza il peso del pregiudizio. “Blindati”, utile viaggio di D Max nelle carceri di Andrea Fagioli Avvenire, 17 marzo 2024 Raccontare la vita in carcere può essere di per sé positivo, anche per contrastare l’opinione di chi vorrebbe buttare via le chiavi o sostiene che i detenuti abbiano troppi privilegi, come se la privazione della libertà non fosse già una dura pena. Raccontare la vita in carcere può anche dimostrare la fatiscenza di certi penitenziari, il sovraffollamento, la promiscuità tra detenuti per reati gravi e meno gravi, la mancanza di lavoro all’interno e l’impossibilità, molto spesso, che la reclusione possa portare alla rieducazione del condannato. Per questo abbiamo posto attenzione al debutto in Italia, venerdì in prima serata su DMax, di Blindati: viaggio nelle carceri, un format internazionale scritto nella versione nostrana da Cristina Gobetti e condotto da Luigi Pelazza, che da tempo si occupa di tematiche legate alla criminalità. Blindati racconta la vita dei detenuti in alcuni delle carceri più dure al mondo, dal Brasile all’Est Europa e alle Filippine. In una delle prossime puntate si parlerà, tanto per capirci, della famigerata prigione statunitense di Alcatraz, oggi trasformata in museo. Mentre è tuttora attivo, sia pure in pessime condizioni, il carcere di Zenica, in Bosnia, teatro della prima puntata, un penitenziario dove la violenza tra detenuti è un rischio costante, dove non fanno sconti nemmeno le guardie carcerarie, dove per punizione si può finire nella “prigione in prigione”. Già da queste sottolineature si può intuire l’aspetto non positivo del programma in onda sul canale 52 del digitale terrestre, ovvero l’estrema durezza di un viaggio con pochi filtri, una sorta di tragica spettacolarizzazione di un microcosmo all’interno del quale prevale la legge del più forte. Poi il conduttore rimette un po’ le cose a posto nel finale affermando che si è fortunati a nascere dove i diritti umani fondamentali sono rispettati. Gazzoli, insegnante in una classe di stranieri: “Racconto i migranti come persone vere” di Silvia M.C. Senette Corriere della Sera, 17 marzo 2024 “La scuola era il mio destino. Non ho mai sognato di insegnare, ma sapevo che sarebbe successo”. Inizia con una confessione “Estranei. Un anno in una scuola per stranieri” (Nottetempo, 180 pagine, 15,50 euro), il nuovo libro di Alessandro Gazzoli. Un romanzo che è il viaggio lungo un anno scolastico di un insegnante di soli alunni stranieri. “A scuola a mia insaputa” - In attesa del Salone del Libro di Torino, Gazzoli presenta il libro mercoledì alle 19 all’Arcadia di Rovereto. “Sono venuto a Trento dalla Val Camonica nel 2005, a 19 anni, per frequentare l’università e mi sono fermato - racconta Gazzoli -. Dopo la laurea e il dottorato, sono entrato nella scuola quasi a mia insaputa”. “Quasi senza volerlo - scrive nel primo capitolo - ogni 30 e lode mi ha sospinto dentro questo collo di bottiglia dove una dopo l’altra sono cadute tutte le alternative, le ipotesi farlocche con cui un laureando in Lettere crede fino all’ultimo di poter truccare un cammino già scritto che lo riporterà inesorabilmente dentro un’aula scolastica”. Quello dell’insegnamento ai migranti, ammette l’autore, è però “un mondo a parte” rispetto al vasto universo della scuola e, per lui, era “il destino nel destino”. “Dopo un pellegrinaggio tragicomico bussando, con il curriculum in mano, a tutte le scuole private di Trento, ero stato preso come insegnante mentendo su quanto fossi cattolico e praticante - ricorda sorridendo -. Poi, tramite concorso, ero finito di ruolo in Val di Non alle medie e lì, per un susseguirsi di disguidi informatici, sono stato assegnato all’insegnamento agli adulti stranieri a Cles. È stata la mia fortuna, nonostante i colleghi mi compatissero: “Ti è andata male, ma prima o poi riuscirai ad andartene”. E invece da sei anni sono al “Pilati” e non penso minimamente di cambiare”. Le lezioni - La mattina insegna italiano, storia e geografia in una 3° media adulti, mentre al pomeriggio tiene lezioni di italiano a corsisti dai 16 ai 65 anni provenienti da India, Pakistan, Colombia, Ucraina, Marocco e Tunisia. “In questo contesto nasce, a febbraio, un articolo per una rivista online che giunge fino alla casa editrice Nottetempo e mi chiedono di farne un libro - ricorda lo scrittore -. Temevo di non avere abbastanza da dire, invece non riuscivo a farci stare tutto”. Il romanzo è diviso in nove capitoli tematici che seguono una scansione cronologica. ““Fuori”, “Dentro” e “Al centro” spiegano come sono giunto all’Eda di Cles - anticipa Gazzoli -. La parte centrale, invece, è divisa nei capitoli “Dio”, “Patria” e “Famiglia”, e racconta il rapporto con la religione dei miei corsisti e le discussioni di gruppo, il rapporto con la loro nazione di origine in una narrazione legata ai Mondiali di calcio che l’inverno scorso hanno visto l’exploit della nazionale del Marocco, e storie private dei miei studenti per sondare come i rapporti familiari vengono vissuti nelle varie culture”. Il fenomeno migratorio - Temi che hanno sollevato dibattiti, talvolta accesi. Aneddoti che lo scrittore ha trasposto su carta e che sono funzionali a una narrazione ironica e pungente per stimolare una lettura critica del fenomeno migratorio. “Abbiamo un’idea stereotipata dell’emigrato; magari in positivo, dando per scontato che chi ha un’esperienza di migrazione abbia un’apertura mentale maggiore. Può invece succedere che chi si trasferisce in un altro Paese non abbia tutta questa tolleranza verso le altre culture”. In classe, però, si riscopre la volontà di confrontarsi, consapevoli che questo aiuterà l’integrazione e migliorerà la loro vita. “Gli scontri dialettici producono effetti notevoli che ho cercato di descrivere uscendo da una descrizione ideologica dell’”altro”. Ho voluto mostrare vite e caratteri, pregi e difetti, miserie e difficoltà, sgretolando l’immagine dell’immigrato come pericolo o come santino da brandire in discorsi retorici. Spero di essere riuscito a descrivere individui a tutto tondo che ci interessano in quanto esseri umani, non in quanto stranieri, massa umana in movimento da un Paese all’altro”. Quando la giustizia richiede di scegliere il meglio tra il peggio di Vittorio Pelligra* Il Sole 24 Ore, 17 marzo 2024 In quale modo i due principi “di libertà” e “di differenza” vanno a comporre la visione della giustizia come equità di Rawls. La giustizia è per John Rawls questione che attiene alle istituzioni fondamentali che regolano la vita di una comunità, alla sua “struttura di base” come egli la definisce, istituzioni giuste se capaci di favorire lo sviluppo di una società “ben ordinata”. Tale questione riguarda, dunque, i criteri, le regole, le istituzioni, appunto, che i cittadini si danno per procedere alla ripartizione dei benefici derivanti dalla vita associata. Nell’impostazione contrattualista rawlsiana, a tali regole si perviene attraverso un processo di negoziazione portato avanti da individui liberi e uguali. Soggetti liberi in quanto dotati di un naturale senso di giustizia e capaci di concepire il bene in virtù della loro razionalità e soggetti uguali, perché il possesso di queste facoltà li rende ugualmente capaci di contribuire al benessere della società. Tale processo di negoziazione che ha come punto di arrivo la sottoscrizione di quel contratto sociale che specifica i principi di giustizia, ha come punto di avvio ciò che Rawls definisce la “posizione originaria”, lo “status quo iniziale che garantisce l’equità degli accordi fondamentali in esso raggiunti”. In tale situazione i soggetti hanno piena informazione circa lo stato del mondo ma con una notevole eccezione. Affinché vanga garantita l’imparzialità è necessario, infatti, che essi operino dietro un “velo di ignoranza”, ne abbiamo discusso la settimana scorsa; un dispositivo, cioè, che “filtra” le informazioni a disposizione dei soggetti in modo da evitare che questi propendano per alcuni principi o per altri solo sulla base del fatto che questi tutelano maggiormente i loro personali interessi. Ogni soggetto, quindi, dietro il velo di ignoranza, conoscerà tutto circa la sua identità e quella che avrà dopo la sottoscrizione del contratto, tranne che aspetti come la razza, il genere, gli orientamenti sessuali, il reddito, la propria concezione del bene o il credo religioso. Tutti quegli elementi, insomma, che potrebbero introdurre distorsioni nelle valutazioni e partigianeria nelle decisioni. Il “velo di ignoranza”, dunque, è pensato per rendere le valutazioni e le decisioni non solo razionali, ma anche imparziali, per evitare, quindi, che differenze di questo tipo possano generare situazioni nelle quali coloro che occupano un posto privilegiato nel sistema sociale lo possano sfruttare a proprio vantaggio. Un tema importante nell’ambito del processo di individuazione dei principi di giustizia a partire dalla “posizione originaria” riguarda il fatto che Rawls assume che i soggetti che lì si trovano a negoziare sono soggetti razionali. Ma cosa vuol dire “razionalità” per Rawls? Questo requisito si rifà direttamente alla nozione di razionalità economica che si fonda sull’idea di preferenze “coerenti”. Nella sua versione minimale la “coerenza” equivale alla proprietà di “transitività” degli elementi di un insieme. Si richiede, cioè, che le preferenze individuali soddisfino un requisito in virtù del quale posto che indichiamo con x, y e z degli elementi, siano essi beni, allocazioni di beni, distribuzioni di diritti, opportunità o qualunque altro elemento sul quale un soggetto A può esprimere delle preferenze e che può ordinare in termini di preferibilità, la transitività impone che se A preferisce x a y e y a z non è possibile che preferisca contemporaneamente z a x o che sia indifferente tra i due elementi. Sulla base di queste preferenze coerenti, dice Ralws, il soggetto “segue poi il piano che soddisfa la maggiore quantità dei suoi desideri, e che ha le maggiori possibilità di essere portato a termine con successo”. A questa definizione standard di razionalità, per descrivere i partecipanti alla negoziazione nella “posizione originaria”, si aggiunge un ulteriore requisito, quello di “assenza di invidia”. Ciò significa, ci spiega Rawls, che un soggetto immune da invidia “Non è disposto ad accettare una perdita per sé stesso solo perché anche altri subiscono le stesse perdite. Non è danneggiato dalla consapevolezza o dalla sensazione che altri possiedano un indice maggiore di beni primari sociali”. Un soggetto razionale non è disposto, detto in altri termini, a vedere peggiorare la propria situazione anche se questa dovesse implicare un peggioramento ancora maggiore della situazione di un soggetto che originariamente stava meglio di lui e quindi una riduzione della disuguaglianza tra i due. Se il soggetto A possiede 10 e tutti gli altri hanno 20, non è socialmente desiderabile che A rinunci a 5 per far perdere 10 a tutti gli altri. Sarebbe una perdita netta sociale, un peggioramento Paretiano, direbbero gli economisti. Non per niente Kant definisce l’invidia un “vizio di misantropia” e Rawls assume che i suoi agenti razionali ne siano immuni. Almeno fintantoché il nostro agente “non comincia a credere che le ineguaglianze esistenti sono basate sull’ingiustizia, o sono il risultato di un’azione incontrollata del caso, priva di qualunque scopo sociale compensativo”. Quando, cioè, le diseguaglianze vengono percepite come il frutto voluto di un’organizzazione sociale consolidata. Il “reciproco disinteresse” - Per completare la descrizione della “posizione originaria” e dei suoi protagonisti occorre tenere in considerazione un ulteriore elemento correlato alla assenza di invidia. Ciò che Rawls indica come “reciproco disinteresse”. Ogni agente persegue i propri interessi sulla base di ordinamenti coerenti di preferenze, senza provare invidia ma anche senza alcun riguardo per gli effetti che le proprie scelte produrranno sul benessere degli altri agenti o sulle possibilità che questi riescano a raggiungere i loro scopi. Naturalmente Rawls sa bene che questi requisiti definiscono un modello di agente sociale che è una rappresentazione alla meglio “stilizzata” delle persone reali, ma sostiene che se un accordo sui principi di giustizia è valido per soggetti di tal fatta, a maggior ragione dovrebbe essere valido per soggetti che oltre ad un innato senso di giustizia tengono, in un modo o nell’altro, anche a ciò che capita a chi li circonda, agli altri membri della comunità. “Posizione originaria”, “velo di ignoranza”, agenti razionali, mutuamente disinteressati e non invidiosi; questo è il set che Rawls prepara per garantire libertà e imparzialità; questi sono gli attori di cui egli lo popola. La rappresentazione che si svolgerà è data da quel processo di negoziazione che da questo momento può avere inizio. Quale il risultato? La determinazione dei due principi di giustizia che, secondo Rawls, le parti deciderebbero di porre a fondamento delle loro istituzioni, della struttura di base di una società ben ordinata: si tratta del “principio di libertà” e del “principio di differenza”. Discuteremo più avanti e nel dettaglio i due principi. Concentriamoci per ora sul processo che porta alla loro individuazione. La qualità del processo, infatti, è necessaria per determinare la legittimità dei principi che vengono individuati e la plausibilità di un accordo sulla loro adozione. A tal proposito si possono scegliere strade differenti. “Si possono sviluppare le conseguenze dei principi per ciò che riguarda le istituzioni - per esempio, spiega Rawls - e notare le loro implicazioni per politiche sociali fondamentali”. Oppure si può provare una strada alternativa e “tentare di trovare argomenti decisivi a loro favore dal punto di vista della posizione originaria [considerando] i due principi come la soluzione di maximin al problema della giustizia sociale”. Quest’ultima è una mossa interessante che consente a Rawls di utilizzare un ben noto principio della teoria delle decisioni, quello del maximin, appunto, applicandolo ad un contesto nuovo, che è quello che interessa a lui, e cioè, al tema della giustizia sociale. Il principio del maximin funziona in questo modo: immaginiamo che ci si ponga il problema di scegliere tra differenti azioni. Ogni azione produrrà un esito differente in relazione alle circostanze, agli “stati del mondo”, nei quali queste verranno compiute. Se decido di uscire con l’ombrello questa scelta avrà conseguenze differenti in base al fatto che pioverà oppure no: ombrello-utile in un caso, ombrello-peso-inutile, nell’altro. La regola del maximin - Il principio del maximin prevede che per decidere cosa è meglio fare occorre ordinare le varie azioni in relazione al peggiore degli esiti possibili e scegliere tra le azioni a disposizione quella che garantisce l’esito migliore (max) tra i peggiori (min). Non entriamo nei particolari del ragionamento e limitiamoci all’immagine che usa Rawls per sostanziare l’analogia tra i principi di giustizia e la regola decisionale del maximin. “I due principi - scrive il filosofo - sono quelli che un individuo sceglierebbe per un modello di società in cui è il suo avversario che gli assegna il posto. La regola del maximin ci dice di classificare le alternative secondo il loro peggior risultato possibile: dobbiamo adottare l’alternativa il cui peggior risultato è superiore ai peggiori risultati delle altre”. Immaginiamo, dunque, tre possibili principi di giustizia: P1, P2 e P3. Questi principi possono operare in differenti “stati del mondo”, per semplicità limitiamone il numero a quattro e chiamiamoli S1, S2, S3 e S4. Ogni principio nei quattro “stati del mondo” può determinare quattro esiti possibili, che per semplicità misuriamo attraverso degli indici numerici: 1,0,3,0, nel caso di P1, 2,1,3,1, per quanto riguarda P2 e, infine, 2, -1, 3, 0. Dati questi scenari quale principio decisionale sarebbe razionale scegliere? Il maximin, in maniera prudenziale, suggerisce di individuare gli esiti peggiori tra tutti quelli possibili - in questo caso 0 per P1, 1 per P2 e -1 per P3 - e di selezionare il principio che garantisce il migliore tra questi esiti peggiori e cioè, in questo caso, il principio P2 che al peggio, garantisce l’esito 1. Se dovessimo decidere senza poter conoscere la posizione, in termini di reddito, genere, opportunità, etc., che andremo ad occupare in una ipotetica costituenda società, quali principi di giustizia ci piacerebbe che regolassero tale società? Questo è in sintesi il problema che si pone agli agenti nella “posizione originaria” e dietro al “velo di ignoranza”. E la soluzione intuitiva cui fa riferimento Rawls è quella di scegliere i principi che ci garantirebbero la posizione migliore tra le peggiori possibili, tra quelle, cioè, in cui vorrebbe vederci finire un nostro ipotetico nemico. Critica alla prospettiva utilitarista - Tale ragionamento sembra astratto e molto lontano dalle nostre intuizioni sulla giustizia, ma a pensarci bene non è così. Occorre non dimenticare che la teoria di Rawls viene sviluppata come critica alla prospettiva utilitarista allora dominate. Per gli utilitaristi la regola decisionale migliore, se vogliamo continuare ad utilizzare la terminologia della teoria delle decisioni, è quella del maxi-mean, quella cioè che farebbe prevalere quell’ordine sociale che massimizza (max) la media (mean) delle utilità individuali. Il maxi-mean è solo un altro modo per indicare il principio utilitaristico della “massima felicità per il massimo numero”. Attraverso l’analogia dei suoi principi di giustizia con la regola del maximin Rawls ci sta dicendo che l’obiettivo di una società ben ordinata non può essere quello di massimizzare la media del benessere dei cittadini, perché in questo caso potremmo voler sacrificare la libertà di qualcuno che sta peggio per far star ancora meglio coloro che già stanno bene. Questo sarebbe perfettamente coerente con un approccio utilitarista ma decisamente in contrasto con il nostro più profondo senso di giustizia. La proposta di Rawls, legata ai suoi due principi di giustizia, invece è quella che ci dovrebbe portare a focalizzarci sugli interessi di chi sta peggio e spingerci a migliorare (max) il loro benessere (min). In questo modo operano infatti i due principi “di libertà” e “di differenza” che vanno a comporre la visione della giustizia come equità di Rawls. *Professor of Economics, Department of Economics and Business - University of Cagliari Libertà d’espressione, tira una brutta aria di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 17 marzo 2024 Due guerre che ci toccano da vicino inaspriscono le contrapposizioni, anche lontano dai campi di battaglia, dove è immenso il numero dei morti, dei feriti, delle distruzioni, dei patimenti. Cresce l’insofferenza per le opinioni altrui. Si vuole zittire, non si vuole ascoltare, si pretende di impedire l’esposizione delle idee altrui e quindi a tutti gli altri di ascoltarle. A chi vorrebbe ascoltarle non viene permesso. Si tratta delle posizioni assunte sulla guerra scatenata dalla Russia contro l’Ucraina, nonché di quelle che riguardano il massacro compiuto da Hamas e la condotta dell’esercito israeliano, con la carneficina in corso a Gaza. Ma l’insofferenza per le idee degli altri non riguarda solo questi drammatici temi. Tira una brutta aria per la libertà di espressione, pilastro della democrazia: essa riguarda soprattutto le idee, le valutazioni, i fatti che infastidiscono o offendono questa o quella parte dell’opinione pubblica, della società o delle forze di governo. Una libertà che non è solo di chi vuole esprimersi, ma anche di coloro che vogliono ascoltare. Chi zittisce l’avversario dimostra non solo arroganza, ma anche una singolare mancanza di curiosità, insieme all’impermeabilità a ogni dubbio: paura, anzi, del dubbio che gli argomenti altrui possono far nascere. Perché sentire cosa hanno da dire gli altri, anche se ritenuti avversari, può rafforzare le proprie idee, ma può invece indurre a cambiarle o, più probabilmente, può arricchirle nutrendole di sfumature o dubbi. Ma ora, sempre più spesso, chi non si schiera anche militarmente a fianco dell’Ucraina è insultato come putiniano; chi trova intollerabile ciò che si commette a Gaza è, per ciò solo, insultato come antisemita. Ne seguono, per non essere ingiuriati, dolorose forme di autocensura. E sempre più spesso, soprattutto ma non solo sulle questioni che derivano dalla guerra in Palestina, avvengono nelle Università aggressioni di chi la pensa diversamente e forme varie di imposizione del silenzio. Si sono visti simili gravi esempi, soprattutto contro gli Ebrei, negli Stati Uniti, in Inghilterra, Francia e ora Italia. E sembra sia rimasta assente la protesta di chi vorrebbe ascoltare le opinioni degli uni e degli altri: dappertutto, ma specificamente nelle Università che, come ha scritto il presidente Mattarella in solidarietà con Maurizio Molinari, sono luoghi incompatibili con chi pretende di imporre le proprie idee impedendo che possa manifestarle chi la pensa diversamente. Affrontando la gazzarra che gli ha impedito di parlare all’Università di Napoli del “Ruolo della cultura in un Mediterraneo conteso”, Molinari ha saputo gestire il conflitto con maggior maturità dei suoi contestatori. Infatti, ha rinunciato a parlare per evitare rischi al pubblico, ma ha invitato i suoi contradittori ad un confronto di idee. Ne ha ottenuto un rifiuto e così ha dimostrato da che parte integralmente stesse il torto. Ma episodi come questi non dovrebbero concludersi così. Né è necessario rinviare alla discussione del grande tema dei limiti della tolleranza verso gli intolleranti. O dire -come è pur vero- che si pone un’esigenza di evoluzione culturale e civile. Poiché nel frattempo va ricordato anche alle autorità di governo che si tratta di gravi violazioni di libertà individuali e pubbliche e che vi è il dovere positivo di intervenire perché non si ripetano. Migranti. Alle Ong assegnati solo porti lontani. Il motivo è “segreto di Stato” di Nello Scavo Avvenire, 17 marzo 2024 Il governo non risponde alla richiesta di accesso agli atti e si trincera dietro sconosciute operazioni Nato, indagini giudiziarie coperte da riservatezza, relazioni internazionali messe a rischio Uno dei documenti ministeriali con ui si rifiutadi spiegare le motivazioni dell’assegnazione di porti lontani. La ragione per cui le navi umanitarie vengono spedite a centinaia di miglia e a molti giorni di navigazione dalle operazioni di soccorso non può essere resa nota. Un “segreto di stato” coperto da spiegazioni in ombra: misteriose operazioni della Nato, indagini giudiziarie coperte dalla riservatezza, relazioni internazionali a rischio. A scriverlo sono il Ministero dell’Interno e il Comando delle Capitanerie di porto. Documenti che arrivano quando su ordine delle autorità italiane la Ocean Viking ha consegnato 23 feriti gravi a un rimorchiatore che li ha poi affidati alla Guardia costiera di Catania, mentre la nave di Sos Mediterranee è costretta a proseguire con gli altri 330 naufraghi verso il porto di Ancona, dove arriverà non prima di domani. Una prassi, quella dei “porti lontani”, affinata dall’attuale governo mentre alla prima finestra di bel tempo Lampedusa è tornata a riempirsi: oltre 1.200 persone giunte in meno di due giorni. Solo la “Life Support”, nave di Emergency, da dicembre 2022 al novembre 2023 su 105 giorni trascorsi in mare, 56 li ha impiegati per trovare l’approdo: 22.600 chilometri per raggiungere i “porti lontani” scelti dal governo. Ogni 7 giorni di navigazione, metà del tempo è stato speso per essere tenuti alla larga dalle aree di intervento. E quasi 1 milione di euro è stato sprecato per raggiungere le destinazioni lontane, un terzo dell’intera spesa per i salvataggi. Come è accaduto l’8 novembre 2023. Dopo aver salvato 118 persone in due soccorsi richiesti dalla Centrale di coordinamento della Guardia costiera a Roma, sul ponte di comando della “Life Support” arriva l’ordine di sbarcarli a Brindisi. Quando l’organizzazione umanitaria scrive al Comando della locale capitaneria di porto, viene risposto che nessuno nello scalo marittimo “ha partecipato al procedimento di individuazione ed assegnazione del porto di Brindisi”. Le decisioni, dunque, vengono prese altrove, senza neanche sentire gli ufficiali che poi sul posto dovranno coordinare le operazioni di sbarco. Due analoghe richieste di accesso agli atti vengono indirizzate agli uffici del ministro dell’Interno e al Comando generale delle Capitanerie di porto, che il 15 gennaio replica in seguito a nuovo dirottamento di Emergency, stavolta avvenuto il 23 novembre con 21 persone portate fino a Marina di Carrara. Le motivazioni devono restare sconosciute perché riguardano “programmazione, pianificazione e condotta di attività operative-esercitazioni Nato e nazionali”. Messa così sembra che le organizzazioni umanitarie vengano allontanate di proposito per evitare che diventino testimoni scomodi di attività militari riservate. A prendere per buone le “non risposte”, sembrerebbe che intorno ai migranti si stia giocando una partita geopolitica talmente complessa da mettere a repentaglio la stabilità di tre continenti (Europa, Asia e Africa) e le sorti politiche dei 26 Paesi Nato. Uguale accortezza non è però destinata per tutte le altre migliaia di navi in transito sulle stesse rotte, a cui mai è chiesto di deviare dalla rotta originaria. Anche al ministero dell’Interno, in data 10 gennaio 2024, ribadiscono che ci sono motivi “in particolare legati alla salvaguardia delle relazioni nazionali ed internazionali ed alla tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica”. E nessuno spiegherà perché, come avvenuto ieri, la Ocean Viking possa sostare davanti al porto di Catania per trasbordare 23 feriti gravi, ma nello stesso scalo non possa sbarcare tutti gli altri superstiti. “Soldi per bloccare i migranti in Egitto”, Meloni e Von der Leyen oggi da Al Sisi di Ilario Lombardo La Stampa, 17 marzo 2024 La missione al Cairo per il memorandum: sul tavolo un pacchetto da 7,4 miliardi di euro. “L’Unione europea e l’Egitto continueranno a cooperare per sostenere gli sforzi dell’Egitto nell’ospitare i rifugiati ed entrambe le parti sono impegnate a tutelare i diritti dei migranti e dei rifugiati”. Nemmeno le cautele del linguaggio diplomatico di questo passaggio, infilato verso la fine della bozza delle dichiarazioni congiunte tra Bruxelles e Il Cairo, riescono a nascondere il vero obiettivo della missione che oggi riunirà in Egitto, di fronte al presidente Abdel Fattah Al-Sisi, la presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen e la premier italiana Giorgia Meloni. Soldi uguale stabilità, uguale meno partenze di migranti: l’equazione è la stessa ovunque nei Paesi del Nord Africa che finiscono fin dentro il Mediterraneo, tutti più o meno schiacciati da regimi autocratici, da raìs in cerca di finanziatori che siano in grado di compensare una crisi economica e sociale permanente. L’Egitto, in tal senso, è un gigante infragilito con cui l’Ue deve fare i conti al più presto. Non c’è solo l’Italia a temere la bomba economica e sociale su cui è seduto Al-Sisi. Che sia un timore diffuso lo prova anche la composizione della delegazione europea in visita oggi a Il Cairo. Assieme a Von der Leyen e Meloni ci saranno Alexander De Croo, premier belga e qui nelle vesti di presidente di turno dell’Ue, il premier greco Kyriakos Mitsotakis e il presidente cipriota Nikos Christodoulidis, due Paesi che hanno enormi interessi convergenti con l’Egitto e in chiave anti-turca nella zona orientale del Mediterraneo. Ci sarà anche il cancelliere austriaco Karl Nehammer. La presenza di quest’ultimo non era scontata. I confini in comune con l’Italia, la questione non risolta delle migrazioni secondarie, rendono l’Austria un Paese interessato ai progetti di contenimento dei flussi. E per Meloni è significativo che a far parte del Team Europa ci siano anche i leader del Nord dell’Ue, e non solo chi è immediatamente coinvolto dalle frontiere del Mediterraneo. Il capitolo immigrazione è appena un paragrafo, poche righe al termine delle dichiarazioni che oggi saranno cofirmate dalla delegazione Ue e da Al-Sisi, e dove si parla di “sostegno finanziario” che Bruxelles continuerà a “fornire” per sostenere i programmi legati alla migrazione: 7,4 miliardi secondo il programma Ue. In realtà nel documento c’è molto di più. Perché il tema fa da sfondo agli altri obiettivi e alle preoccupazioni italiane, a partire dal capitolo della “stabilità economica”. L’Egitto è un Paese piegato dall’inflazione, con un debito gigantesco, un esercito che grava sulla sostenibilità delle finanze pubbliche. Fattori tutti interni che vengono complicati dalla geografia. Il Paese è incastonato tra la Libia smembrata, il Sahel dei colpi di stato a catena, e quella striscia di terra che è la ferita sanguinante di Gaza. Sono i tre fronti in Egitto che preoccupano il governo italiano. Dal Sud, quasi tutti dal Sudan martoriato dalla guerra civile, sono arrivati 9 milioni di sfollati. Come la Turchia, spiegano fonti diplomatiche, da Paese di transito si è trasformato in Paese di destinazione. I numeri però si fanno sentire di più quando l’economia non gira al meglio, i prezzi salgono, il grano scarseggia, il malessere sociale aumenta. Una realtà che è pronta deflagrare se a questo disagio si sommano i problemi che deriverebbero se il fiume umano di palestinesi prigionieri a Rafah, al confine di Nord est, dovesse riversarsi nel territorio egiziano. Un fronte, quello che ha incendiato il Medioriente, aggravato dagli Houthi, i ribelli yemeniti affiliati a Teheran che a colpi di missili tengono sotto scacco il corridoio di Suez. Meloni non nutre dubbi sulla strategia di stabilizzare l’area nordafricana, per evitare nuovi arrivi dei profughi, finanziando i regimi. Anzi, a Palazzo Chigi si mostrano i dati degli sbarchi nei primi tre mesi dell’anno, in netta diminuzione sullo stesso periodo, che va fino al 15 marzo, del 2023. Dati che dicono meno 67%, perché da 19.937 si è scesi a 6.562. Cifre che non frenano Elly Schlein: “Trovo gravissimo - attacca la segretaria del Pd - che la presidente della Commissione Von der Leyen voli in Egitto con Meloni per promettere risorse al regime di Al-Sisi in cambio del controllo e dello stop alle partenze”. Un approccio che “in questi anni ha solo calpestato diritti fondamentali e non ha prodotto una soluzione di solidarietà europea”. L’Europa è appena entrata in campagna elettorale ma le dichiarazioni di Schlein, membro del Pse, sono di un certo impatto, visto che con Von der Leyen, presidente uscente in quota Ppe e in corsa per il bis, condivide la stessa coalizione a Bruxelles. Nell’incertezza degli scenari sui futuri equilibri europei, Von der Leyen sembra ormai seguire Meloni. Sicuramente sui migranti. Era con lei a Tunisi la scorsa estate, ed è oggi con lei al Cairo a firmare un patto simile a quello siglato con Kais Saied. A nulla è valsa la risoluzione votata a maggioranza dall’Europarlamento contro gli aiuti finanziari a un autocrate che soffoca i diritti umani. Né è pesato l’appello di Amnesty International ai leader che oggi incontreranno Al-Sisi, ognuno in un breve bilaterale. Eve Geddie, capo dell’ufficio europeo dell’organizzazione internazionale ha ricordato come le autorità egiziane arrestino e detengano “arbitrariamente e in condizioni disumane rifugiati, richiedenti asilo e migranti”. Abusi che gli europei in visita dal presidente egiziano “non possono ignorare”. Gli interessi di Stato hanno vinto anche sul tabù diplomatico dell’omicidio del ricercatore italiano Giulio Regeni e dei depistaggi del Cairo. Migranti. L’accordo Italia-Albania non risolve il problema di Stefano Allievi Il Riformista, 17 marzo 2024 Il “no” dell’Europa. Gli sbarchi non si fermano, e le morti nel Mediterraneo neppure: è di questi giorni l’ennesima tragedia, con forse una sessantina di decessi, a fronte di venticinque sopravvissuti, raccolti e salvati per caso dalla Ocean Viking, la nave dell’organizzazione francese SOS Méditerranée. E questa è la prima notizia d’attualità. La seconda è che la Corte di giustizia dell’Unione Europea ha ritenuto di non concedere la procedura d’urgenza per l’esame di un aspetto del cosiddetto decreto Cutro: la garanzia finanziaria da quasi cinquemila euro che gli immigrati, anche appena sbarcati che non vogliono entrare nei CPR, i Centri per il rimpatrio, dovrebbero versare allo stato. L’assenza totale di una strategia - È in apparenza un tecnicismo, ma potrebbe avere conseguenze anche sull’applicazione dell’accordo tra Italia e Albania per la gestione in terra albanese delle pratiche dei richiedenti asilo che tentano di arrivare in Italia. Insieme, queste due notizie mostrano l’assenza totale di una strategia seria di gestione delle migrazioni, e il ricorso a sole iniziative di facciata, quasi sempre contraddittorie e prive di un obiettivo pratico reale. Cominciamo dagli sbarchi. Che, di per sé, non sono certo colpa del governo: né di questo né dei precedenti. Ma che mostrano la mancanza di coraggio degli uni e degli altri nell’affrontare il problema alla radice. Il cambio di rotta - La questione è più semplice di quello che sembra. In passato esistevano dei flussi regolari di manodopera immigrata, e una quota percentuale molto più piccola di ingressi irregolari. Da alcuni decenni a questa parte, per rispondere alle paure della pubblica opinione - di per sé comprensibili, ma che andrebbero informate e guidate, non seguite - sono stati progressivamente chiusi la gran parte dei canali regolari di ingresso, in particolare per lavoro. L’inevitabile risultato è stato il rovesciarsi delle percentuali: una maggioranza di immigrazioni irregolari, e una quota percentuale relativamente piccola di ingressi regolari. L’unica cosa seria da fare per combattere le immigrazioni irregolari sarebbe dunque (ri)aprire canali di immigrazione regolare con gli stessi paesi di origine e di transito da cui arrivano i flussi irregolari, coinvolgendoli nella responsabilità della gestione dell’irregolarità in cambio del vantaggio di canali sicuri, di cui peraltro abbiamo noi stessi un enorme bisogno (quantificabile in almeno duecentomila ingressi l’anno per l’Italia, e due milioni per l’Europa, solo per mantenere in relativo equilibrio la forza lavoro necessaria, a fronte di una demografia completamente squilibrata, in cui calano drammaticamente le nascite e aumentano i pensionati). Per non dover ammettere questa evidente verità, di cui stiamo già pagando il prezzo, ci si limita a ostacolare con provvedimenti improvvisati una immigrazione irregolare che, in mancanza di alternative, non potrà che crescere. Come si fa con i provvedimenti, meramente punitivi, contro le ONG, con l’assegnazione di porti lontani (che produce solo più costi e più morti, senza alcun vantaggio per nessuno), o l’impedimento di salvataggi multipli. La stessa Ocean Viking era appena ripartita dopo un fermo amministrativo di mesi, proprio per questa ragione: che è come se a ciascuno di noi, dopo aver salvato la vittima di un incidente stradale, sulla strada per l’ospedale ci fosse vietato - per legge! - di salvare un altro ferito trovato lungo il percorso. La cauzione inventata - La seconda questione riguarda la singolare proposta, uscita dal cappello di un consiglio dei ministri dell’autunno scorso e mai discussa prima, di inventarsi una cauzione da 4938 euro che gli immigrati provenienti da paesi detti ‘sicuri’ dovrebbero pagare per non entrare nei CPR. A parte l’inapplicabilità e la totale assenza di senso della realtà (si parla di fidejussioni, trattandosi di persone neosbarcate che difficilmente quella cifra la possiedono, quando anche per un italiano una polizza fidejussoria presuppone dichiarazione dei redditi, proprietà, un lavoro fisso e banalmente una residenza), anche questa norma, come quelle sulle ONG e molte altre, mostra di essere improntata a un inutile cattivismo, che pare ben più reale del buonismo di cui sono accusate, un giorno sì e l’altro pure, le organizzazioni che queste politiche contrastano. È destinata, come del resto l’accordo con l’Albania, non a risolvere un problema, ma solamente a mandare un segnale politico e propagandistico all’opinione pubblica: un modo di dire che si sta facendo qualcosa, tamponando o terziarizzando il fenomeno, senza nemmeno cominciare ad affrontarlo davvero. Un fallimento annunciato - Veniamo, per l’appunto, alla ratio degli accordi siglati. Pensare di gestire le richieste d’asilo rivolte all’Italia dall’Albania è come pensare di risolvere il problema dei ritardi nella sanità aprendo un ospedale a Tirana, portandoci medici, infermieri e pazienti italiani: sarebbe un costo enorme (non solo le centinaia di milioni di euro per attrezzare una base, ma costi di gestione gonfiati oltre tutto anche dalle indennità di trasferta all’estero…), non velocizzerebbe le pratiche (se lo facesse non si capisce perché le stesse persone non potrebbero analizzarle negli stessi tempi in Italia), creerebbe un sacco di problemi pratici (possiamo immaginare celerità ed efficacia, oltre che rispetto dei diritti, di udienze svolte tramite interprete con giudici e avvocati in videoconferenza). Si tratta di un fallimento annunciato, a cui tuttavia la lentezza di risposta della UE rischia di dare un alibi: se non si riesce a farlo in tempo per le elezioni europee (questa era probabilmente la vera ragione della decisione: raggiungere un elettorato spaventato con un messaggio di furbesca anche se inefficiente protezione), sarà pur sempre possibile dare colpa all’Europa della mancata attuazione. Non che non si debbano fare accordi con gli altri paesi: al contrario, è la cosa giusta da fare. Ma su altre basi. E, aggiungiamo, con altri obiettivi: selezionare e formare la manodopera in accordo con i bisogni dell’economia, per esempio. Non fare finta che se ne possa fare a meno lanciando segnali generici e anche un po’ obliqui di rifiuto e di esternalizzazione. Prendere in mano, insomma, i problemi, nei loro termini reali. Con più spirito pragmatico e meno vocazione ideologica. Allo scopo di risolverli, non di rilanciare slogan più o meno nazionalistici (che peraltro vanno contro l’interesse nazionale). Intelligenza Artificiale, l’Ue per i diritti umani, non per i migranti di Teresa Numerico Il Manifesto, 17 marzo 2024 IA Act. La pratica del divieto di riconoscimento delle emozioni vale invece nel contrasto alla migrazione. È come se per i richiedenti asilo ci fosse una deroga al principio di uguaglianza. Il 13 marzo 2024 è stata definitivamente approvata la regolamentazione sui sistemi di intelligenza artificiale (IA) in Europa e per la prima volta al mondo. Il testo è consolidato dopo una serie di trattative e compromessi tra le pressioni delle lobby tecnologiche e la tutela dei diritti umani. Si tratta di un nuovo modo di legiferare, un sistema di soft law, perché in larga misura si interviene con delle raccomandazioni pressanti nelle quali si fatica a identificare obblighi precisi, con rare eccezioni, prevalentemente di carattere burocratico. I sistemi di intelligenza artificiale sono definiti come sistemi di machine-learning capaci di adattività per generare output come predizioni, contenuti, raccomandazioni che riguardano ambienti fisici e virtuali. Una definizione generica, ma che esclude i vecchi sistemi di IA basati su regole. Si individuano livelli di rischio inaccettabile, alto, limitato o minimo. La regolazione vieta solo i sistemi a rischio inaccettabile, e non vincola prodotti a rischio minimo come sistemi di raccomandazione, filtri antispam, o i videogiochi, ai quali viene solo proposto di aderire a dei codici di condotta. I sistemi inaccettabili riguardano il social scoring, l’esplicita volontà di manipolazione delle persone, l’uso di sistemi di riconoscimento biometrico individuale o la creazione di database sulla raccolta a strascico delle immagini dei volti presenti nei video delle telecamere di sorveglianza. Per quanto riguarda i sistemi a rischio limitato come quelli di IA generativa che producono contenuti sintetici, si instaurano obblighi di trasparenza per garantire di essere informati quando interagiamo con un chatbot o di identificare contenuti sintetici con un meccanismo riconoscibile dalla macchina - una procedura che deve ancora essere inventata (Art. 52). La pericolosità dei sistemi generativi aumenta se superano 1015 floating point operations (FLOPs), cioè si introduce una misura della richiesta di sforzo computazionale nell’addestramento, oltre la quale scatterebbero ulteriori controlli, ma non è esplicitato il motivo di questo limite. Sono previste alcune eccezioni rispetto all’uso di sistemi inaccettabili, aspetto piuttosto inquietante (Annex III). Se il divieto di identificazione biometrica in tempo reale a distanza è proibito perché non rispetta i diritti umani, come è possibile recedere dal divieto per ragioni di sicurezza nazionale, terrorismo o altri reati che prevedono una pena massima almeno di quattro anni, nei casi di urgenza anche senza l’autorizzazione alla deroga? Il divieto di riconoscimento delle emozioni - una pratica la cui scientificità è indimostrata, come viene segnalato anche nei lavori preparatori - riguarda la scuola e il lavoro, ma non ragioni di salute e sicurezza, ed è consentita per esempio nel contrasto alla migrazione, dove sono utilizzabili molti dei sistemi vietati altrove, come se i richiedenti asilo o le altre soggettività marginali costituissero uno spazio di sperimentazione, un terreno liminale. Una deroga al principio di uguaglianza tra le persone, particolarmente odiosa sui migranti. Il centro dello sforzo legislativo riguarda i sistemi ad alto rischio (Art. 6) che, pur non essendo proibiti, richiedono una serie di adempimenti per giustificare la propria aderenza agli standard, gran parte dei quali riguardano la sfera burocratica. Non sono previsti controlli di terze parti, se non su base volontaria. I produttori o i soggetti utilizzatori (deployer) dei sistemi hanno la facoltà di dichiarare che i propri sistemi non siano ad alto rischio e, attraverso un processo tutto documentale, sottrarsi agli obblighi (Art.6.2b). Sono, inoltre, esclusi da vincoli e divieti i sistemi opensource che non prevedano una commercializzazione dei propri servizi, e quelli di ricerca e sviluppo scientifico, oltre a consentire una serie di facilitazioni per la sperimentazione in sandbox predisposte per le piccole imprese. Sarà difficile riconoscere la distinzione tra i sistemi di ricerca e gli altri nel settore dell’IA. Tutti nascono in un ambiente di ricerca, come ci hanno dimostrato diversi scandali sul trattamento dei dati, a cominciare da Cambridge Analytica. Una legislazione complessa che indubbiamente segna una prima volta rispetto alla tutela dei diritti dei cittadini verso i sistemi di intelligenza artificiale. Favorirà le grandi imprese nell’accreditare strumenti pericolosi per la tenuta democratica, creando una crisi per i piccoli attori, senza difendere davvero le persone reali dal potenziale di iniquità e ingiustizia di decisioni predittive che seguono metodi di addestramento sostanzialmente oscuri e inspiegabili, i cui obiettivi e criteri di ottimizzazione restano segreti. Molto dipenderà da come verrà scritta l’ampia legislazione secondaria prevista, da come la normativa verrà recepita dagli stati e dall’operato dell’AI office e delle autorità nazionali.