Più che pene alternative servono alternative alla pena di Diego Mazzola L’Unità, 16 marzo 2024 Da qualche tempo continuo a domandarmi perché mai dovrei insistere con le mie riflessioni sul Sistema Penale e sul carcere, se a qualcuno importa ciò che osservo e che continuo a chiedere sia reso pubblico. In sostanza mi chiedo se abbia senso sperare che abbia fine la società carceraria. Devo aggiungere che sto cercando di non perdere nemmeno una occasione di incontro con uno dei Laboratori “Spes contra spem” che Nessuno tocchi Caino porta avanti, ad esempio, nel carcere di Opera. Il motivo di ciò è presto detto: quell’impegno mi rende migliore. Ebbene: molto tempo prima della morte di Marco Pannella avevo sentito la necessità di continuare a indagare sui motivi che inducono a compiere uno dei tanti “fatti/problemi” di cui ogni giorno sentiamo parlare nei giornali e alla televisione. Aveva senso continuare a pensare che il mostro esista e che fosse “giusto” pretendere che “pagasse” per ciò che aveva commesso ed “espiasse” per il tempo che altri esseri umani avevano deciso sulla sua pelle? E poi: perché tanta disparità di giudizio? A dirla tutta mi aveva stupito anche un’affermazione di Louk Hulsman - fu docente di diritto penale e diede il via alla più profonda riforma del Sistema Penale che l’Olanda avesse mai realizzato - secondo il quale “le alternative al sistema della Giustizia penale non sono utopie lontane ma fanno parte della vita quotidiana incessantemente inventata dagli attori sociali”. Egli non crede all’opzione “reato” e ne dimostra le ragioni. Dichiara, tra l’altro, che “dal punto di vista della comunità, o del legislatore, lo stesso comportamento richiama altre opzioni. Quel che è certo è che l’opzione “reato” non è mai feconda”. Sto cercando di riassumere al meglio delle mie capacità le ragioni del mio entusiasmo per l’abolizionismo di Hulsman. E lo faccio a maggior ragione sapendo che l’idea di “reato” può essere molto diversa da Stato a Stato, da religione a religione, da consuetudine ad altre consuetudini. Poco oltre, di fronte ad alcune domande di Jacqueline Bernat durante l’intervista che diede l’ossatura al libro “Pene Perdute”, egli afferma che: “Mi sono accorto che il sistema penale, eccetto casi eccezionali, non funziona mai come richiedono gli stessi principi che pretendono di legittimarlo. Quando parliamo di alternative alla giustizia penale, non parliamo di sanzioni alternative, ma di alternative ai processi della giustizia penale. Queste alternative possono essere di natura prevalentemente legale o prevalentemente non-legale. Cercare alternative alla giustizia penale, è in primo luogo cercare delle definizioni alternative agli eventi che rischiano di scatenare i processi di penalizzazione. La risposta data in alternativa alla giustizia penale è quindi una risposta ad una situazione che ha una “forma” e delle “dinamiche” diverse dagli eventi come appaiono nel contesto della giustizia penale”. Egli, in sostanza, dà molto peso alla prevenzione, di cui può farsi parte attiva la società civile, non al giudizio di un tribunale che si dà a fatto/reato avvenuto. Come negare le differenze, anche davvero notevoli, che intercorrono tra un sistema penale e l’altro (magari anche dello Stato vicino). Basta vedere il “pienone” che è seguito alla scelta della Francia di mettere in Costituzione il diritto di aborto. E se questo dovesse essere visto come un aspetto dello scontro di civiltà, non vedo perché non ricordare gli sforzi che comporta la fine della pena di morte o il taglio della mano destra a chi si è reso responsabile di un furto nei Paesi di stretta fede Islamica. In quei casi risulta evidente che nulla è stato fatto da quelle società per la conoscenza dei motivi che a quei fatti/problemi conducono. La legge penale e la pratica dei sistemi della giustizia penale non possono essere usati come standard di autorità ultima per giudicare se un comportamento è giusto o sbagliato. Continuo a domandarmi a quali manifestazioni di indubbia crudeltà d’animo abbia dovuto assistere il Cardinal Martini durante le sue visite nelle carceri nostrane, tanto da indurlo ad affermare che “Qualsiasi pena [afflittiva] ha la distretta della pena di morte e della tortura, e che già il pensiero di affliggere un altro essere umano è intollerabile e perverso”. È evidente che è giunta l’ora di immaginare una seria alternativa alla giustizia Penale, e di imparare il dovuto rispetto per chi, anche in un Sistema Giustizia rinnovato, potrà dire di non avere più debiti con la Giustizia. Se i miei concittadini sapessero quanto sono “come noi” i detenuti che partecipano agli incontri “Spes contra spem” di Nessuno tocchi Caino, certamente smetterebbero di pensare di “far marcire in galera” quelle persone e si vergognerebbero davvero di fronte a ciò che può condurre la loro smania di punire. Fallimento carcerario di Marco Merlini collettiva.it, 16 marzo 2024 Sono 23 i suicidi in carcere dall’inizio del 2024, uno ogni 3 giorni. Basti vedere quanto è accaduto nel giro di poche ore lo scorso 11 marzo: tre giovani si sono tolti la vita rispettivamente nelle carceri di Pavia, Secondigliano e Teramo. Una sequenza che segna “il fallimento delle istituzioni”, ha dichiarato Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. L’associazione che da anni si batte per i diritti e le garanzie nel sistema penale segnala che nei tre carceri vi è un tasso di sovraffollamento che va dal 126% al 147%. A Pavia, si spiega nel sito web dell’associazione, nello scorso mese di ottobre “gli osservatori di Antigone avevano visitato il carcere, trovando alcuni reparti infestati dalle cimici e almeno un detenuto con un nido di insetti tra i capelli. Dopo quella visita si era sottolineato come la presenza di detenuti con disturbi psichiatrici richiedesse una grande attenzione nella gestione degli aspetti igienico sanitari”. Nella visita a Teramo, oltre l’elevato numero di persone con disagi psichici, veniva segnalato che il sovraffollamento non consente “un’adeguata gestione della quotidianità detentiva, una idonea organizzazione interna e una offerta di attività trattamentali e scolastiche sufficiente a coinvolgere le persone interessate”. A Secondigliano “la Direzione, nonostante l’incremento rispetto all’anno precedente, lamenta la scarsità di personale penitenziario” e il personale sanitario ha riferito che circa l’80% della popolazione detenuta fa uso di psicofarmaci”. Da qui l’appello di Gonnella al governo sul tasso di suicidi: “Una tragedia che ci dovrebbe far fermare tutti e programmare azioni e politiche di segno opposto a quelle in discussione. Fermatevi con il ddl sicurezza e approvate norme di umanità. Ogni suicidio è un atto a sé ma, quando sono così tanti, evidenziano un problema sistemico. Il sovraffollamento trasforma le persone in numeri di matricola, opachi agli operatori. Vanno prese misure dirette a ridurre drasticamente i numeri della popolazione detenuta”. Prospettive minori - Quello dei suicidi non è il solo dramma che riguarda le nostre carceri. La stesa Antigone, poco meno di un mese fa, ha pubblicato il Settimo rapporto sulla giustizia minorile, dal titolo ‘Prospettive minori’ e dal quale emerge che nei primi mesi del 2024 sono già 500 i minori detenuti, “un numero drammaticamente record nell’ultimo decennio”. Sotto la lente di ingrandimento il decreto Caivano, entrato in vigore alla fine dello scorso anno e che avrebbe dovuto contrastare il disagio giovanile, la povertà educativa, la criminalità minorile e ha invece portato a passi indietro sul fronte della rieducazione del minore. Come Sofia Antonelli, ricercatrice dell’associazione Antigone, ai microfoni di Collettiva.it. Donne, oltre l’orizzonte carcerario - Tra le criticità del sistema anche quello poco conosciuto della detenzione femminile, trascurato a causa dei piccoli numeri che comporta. Motivo per il quale Antigone ha sentito il bisogno di redigere il Primo Rapporto sulle donne detenute in Italia, per affrontare “problemi sociali complessi che vanno oltre lo stretto orizzonte carcerario”. Il titolo è ‘Dalla parte di Antigone’ e contiene il racconto dei luoghi visitati uno per uno dalle operatrici dell’associazione. “Nei mesi scorsi - spiega Susanna Marietti, coordinatrice dell’associazione - abbiamo visitato con il nostro Osservatorio i quattro istituti penitenziari femminili che si trovano in Italia, le 44 sezioni femminili collocate in carceri a prevalenza maschile, le tre carceri minorili dove si trovano ragazze, le sei sezioni che ospitano detenute trans pur all’interno di carceri considerate maschili, i cinque Istituti a custodia attenuata per madri”. Nel rapporto non mancano alcune delle proposte possibili di innovazione. Tra queste l’istituzione di un ufficio nel Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria “che si occupi di detenzione femminile” e preveda “azioni positive dirette a rimuovere gli ostacoli che le donne incontrano nell’accesso al lavoro, all’istruzione, alla formazione professionale”; l’assicurare “un servizio di prevenzione e di screening dei tumori femminili equivalente a quello delle donne in libertà”. E ancora, è necessario un servizio che accerti se le donne in carcere hanno subito violenze sessuali, così come la formazione del personale “relativa alle esigenze specifiche di genere e ai diritti delle detenute”. Sino a giungere alla sollecitazione affinché le carceri e le sezioni femminili siano improntate “il massimo possibile al modello della custodia attenuata”. La Chiesa in campo: basta suicidi in cella di Antonio Averaimo Avvenire, 16 marzo 2024 Oggi sit-in davanti al carcere di Poggioreale promosso dall’arcidiocesi partenopea e dalle associazioni. L’arcivescovo Battaglia: la pena abbia finalità educative. “I suicidi dei detenuti a cui stiamo assistendo in questi giorni sono il frutto di un albero cattivo, ovvero il carcere così com’è inteso in Italia. E da un albero cattivo non possono nascere frutti buoni”. La pensa così don Franco Esposito, direttore del Centro per la pastorale carceraria dell’arcidiocesi di Napoli, che stamattina darà vita a una manifestazione davanti all’ingresso del carcere di Poggioreale, di cui il sacerdote è cappellano. Il presidio è stato organizzato in collaborazione con le associazioni “Liberi di Volare” e “Sbarre di Zucchero”. Ieri è arrivato anche il messaggio dell’arcivescovo di Napoli, Mimmo Battaglia. “La situazione di tanti, troppi detenuti della nostra città e del nostro Paese non è degna della nostra Costituzione repubblicana, la quale considera prioritaria non solo la tutela di tutti gli esseri umani ma anche la finalità educativa della pena” ha sottolineato Battaglia. Mentre le notizie di suicidi nelle carceri italiane si susseguono con sempre maggiore frequenza, con la manifestazione di oggi il cappellano di Poggioreale vuole lanciare un messaggio chiaro alla politica e all’opinione pubblica: “I suicidi nelle carceri italiane - dice don Esposito - non riguardano solo i detenuti, ma anche gli agenti della polizia penitenziaria. Il primo funerale che ho celebrato, dopo essere diventato cappellano, è stato proprio quello di un agente. Abbiamo deciso di dare vita a questa manifestazione perché la politica è troppo sorda rispetto alla necessità di riformare il carcere e perché l’opinione pubblica deve prendere coscienza di un problema che non può essere affrontato solo quando c’è un fatto di cronaca eclatante, come l’ennesimo suicidio di un detenuto. Si cercano le motivazioni di questi gesti nei problemi psichici. In realtà, l’unico responsabile di queste tragedie è proprio il carcere così com’è, che troppo spesso, concentrandosi sulla pena da far espiare, dimentica l’umano da salvare”. Una riforma dell’ordinamento penitenziario, con un accesso maggiore alle misure alternative al carcere: questa è la richiesta che porteranno davanti alle mura del carcere di Poggioreale gli organizzatori della manifestazione. “Negli ultimi anni - racconta il cappellano ?, la Chiesa di Napoli ha dato vita a un centro per la pastorale carceraria che accoglie 50 persone cui sono concesse misure alternative al carcere e a un centro di accoglienza che ne ospita altre dieci. E anche le parrocchie fanno la loro parte. Il nostro vuole essere un segno, un modo di dire che si può fare diversamente giustizia. Certo, il carcere deve esserci. Ma è chiaro che debba esserci anche altro. La recidiva è altissima per chi sconta la pena nei penitenziari, mentre scende vertiginosamente quando si beneficia di misure alternative, fino a diventare quasi irrisoria. Un carcere così inteso non riesce nemmeno a fare da deterrente”. Davanti all’ingresso del carcere di Poggioreale, stamattina ci sarà anche il Garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello. Martedì scorso, dopo il suicidio di un detenuto 33enne nel carcere di Secondigliano, Ciambriello aveva lanciato l’allarme sull’emergenza suicidi nei penitenziari della Campania, dove dall’inizio dell’anno si sono tolte la vita cinque persone. “Il tasso di suicidi in carcere - aveva ricordato il Garante dei detenuti della Campania ? è 20 volte superiore ai suicidi delle persone libere. Occorrono risposte concrete qui e ora, prima che ci si trovi di fronte all’irreparabile”. Secondo Ciambriello, “c’è troppo silenzio politico e mediatico di fronte alla fotografia impietosa che ci offrono le nostre carceri, nelle quali ci sono migliaia di persone con problemi di tossicodipendenza e con disagi psichici, molte delle quali denunciati dagli stessi familiari. Per non parlare delle migliaia di detenuti che scontano pene inferiori ai tre anni. Bisogna immediatamente pensare a delle soluzioni: più misure alternative al carcere e più lavori di pubblica utilità, per esempio. E forse è giunto il momento anche di pensare a un indulto: l’ultimo c’è stato nel 2006, quasi vent’anni fa”. Per il Garante dei detenuti della Campania, “il carcere viene troppo spesso inteso come una risposta semplice a problemi molto più complessi. La risposta dello Stato, invece, deve essere basata sulla Costituzione, che prevede una pena per chi delinque, ma mai la perdita della dignità”. Burgio: “La sofferenza psichica è un’emergenza nelle carceri” di Stefania Cecchetti chiesadimilano.it, 16 marzo 2024 Secondo il cappellano del Beccaria, il suicidio del trapper Jordan Jeffrey Baby nel carcere di Pavia testimonia ancora una volta quanto il sistema penitenziario sia in sofferenza e come la giustizia sia tremendamente lontana dai drammi dei detenuti. La notizia del suicidio del trapper Jordan Jeffrey Baby nel carcere di Pavia ha riacceso l’attenzione sulle condizioni della detenzione in Italia. Abbiamo chiesto un commento a don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano e fondatore dell’Associazione Kayros, che gestisce alcune comunità per minori in difficoltà: “Sicuramente è una vicenda in cui andranno accertate diverse cose. Quello che è evidente è che c’era una sofferenza psichica che accompagnava questo ragazzo, da prima della carcerazione”, dice don Burgio. Un disagio che trovava voce proprio nella sua musica trap, che a un orecchio adulto può sembrare brutale e sconcertante: “La trap è diventata per molti ragazzi quasi un percorso auto terapeutico, nelle loro “barre” (strofe, n.d.r.) sfogano frustrazioni e rabbia. È chiaro che queste canzoni hanno un tratto di realismo sconcertante. A noi, abituati a situazioni tranquille di vita, sembrano impensabili. Invece dobbiamo chiederci perché questi trapper abbiano potuto vivere infanzie così. Sono le diseguaglianze a generare questi vissuti e queste reazioni. E in metropoli come Milano, le sacche di povertà ci sono e sono importanti. Anche Jordan Jeffrey Baby aveva alle spalle aveva una storia difficile e diversi reati compiuti chiaramente sotto l’effetto di sostanze”. Secondo don Burgio è questo il mix terribile a cui il carcere non può offrire una risposta: disagio mentale e uso di droghe: “Oggi le carceri sono abitate per lo più da persone con disagio psichico o tossicodipendenti, che andrebbero curate, più che imprigionate. Il carcere non può assolvere a qualsiasi tipo di funzione, anche quelle che competono alla psichiatria. Senza contare il problema del sovraffollamento che continua a essere un’emergenza e che certo non aiuta in casi come questi”. C’è un altro tema, secondo don Burgio: “Se fosse vero che il ragazzo aveva denunciato una serie di abusi subiti nel carcere di Pavia, questo evidenzierebbe ancora una volta le difficoltà della magistratura a comprendere la realtà delle persone. Invece bisognerebbe fare con tutti quello che si fa con i minori: capire qual è la situazione che c’è dietro ad ogni caso”. Cosa che non è successa per Jordan Jeffrey Baby: “Se verrà accertato che davvero è stato rimandato in carcere, dalla comunità a cui era stato assegnato, per via di un cellulare e di un pacchetto di sigarette, sarebbe sconcertante. È vero che le comunità hanno i loro regolamenti, ma dobbiamo anche chiederci che senso hanno e a che scopo ci sono. Nel caso del cellulare, la ratio è evitare che il detenuto, comunicando con l’esterno, possa inquinare le prove. Ma nel caso di una pena definitiva, com’era quella di Jordan Jeffrey Baby, quali problemi poteva dare l’uso di un cellulare? Non la vedo una trasgressione così determinante da decidere di rimandarlo in carcere, per di più lo stesso nel quale il ragazzo aveva denunciato di aver subito abusi”. Dl Caivano, il gip di Trento chiama in causa la Consulta: “Logica punitiva” di Simona Musco Il Dubbio, 16 marzo 2024 Per il giudice Gallo il decreto produce “una risposta giurisdizionale di tipo sanzionatorio piuttosto che di tipo educativo”, in contrasto con la Costituzione. Il decreto Caivano “solleva significativi dubbi di costituzionalità”. A scriverlo è Giovanni Gallo, giudice per le indagini preliminari del Tribunale per i minori di Trento, presieduto da Giuseppe Spadaro. Che con un’ordinanza articolata chiede alla Consulta di valutare la costituzionalità dell’articolo 27 bis - disposizioni sul percorso di rieducazione del minore - nella misura in cui prevede, per il minore sottoposto a procedimento penale, “una risposta giurisdizionale di tipo sanzionatorio piuttosto che di tipo educativo, in contrasto con quanto richiesto dall’articolo 31 comma II Costituzione, così come sistematicamente interpretato dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui qualsiasi trattamento punitivo nei confronti di un minore è ammesso solo e solo se è sorretto, animato e orientato da fini educativi”. Parole che rischiano di frantumare il decreto Caivano, pensato dal governo come risposta a gravi eventi di cronaca che hanno avuto come protagonisti dei minori, e che rischia, secondo l’ordinanza firmata da Gallo, di infrangersi contro i principi costituzionali, puntando solo alla punizione e non all’aiuto dei giovani. Nel caso analizzato dall’ordinanza che ha chiesto l’intervento della Consulta, la difesa del minore - accusato di aver minacciato con un coltello da cucina il padre - aveva chiesto al pm minorile una proroga del termine per il deposito del programma rieducativo a cui sottoporre il giovane, per consentire di ottenere maggiori informazioni sulla sua situazione e creare un percorso adatto alle specifiche esigenze personali e familiari. Ovvero per rispondere al disagio che lo aveva portato a minacciare il padre. Il pm ha però negato tale possibilità, in quanto non prevista dalla norma. Una situazione che, scrive il gip, rende possibile solo valutare la proporzionalità tra il contenuto del programma rieducativo proposto e il reato contestato, in una “logica esclusivamente retributiva, anziché educativa”, contraria “agli assiomi basilari del processo minorile”. Una criticità, sottolinea Gallo, intrinseca alla norma, che rischia di determinare “possibili disparità di trattamento”. Il decreto si basa su una irragionevolezza di fondo, impedendo un adeguato approfondimento informativo e, quindi, “un’effettiva presa in carico del minore e dei suoi bisogni educativi”. E risulta ancora più irragionevole se si pensa che l’omologo istituto previsto per gli adulti prevede “un’articolata e puntuale disciplina volta a un’effettiva presa in carico del soggetto”. Perché non prevedere la stessa cautela per i minori, la cui personalità in via di sviluppo “necessita di un’attenzione maggiorata e non minorata rispetto a quella riservata a un soggetto adulto”? La cosa ha senso solo se la prospettiva è quella “preventiva e retributiva”, ma risulta sbagliata se l’intento è quello di “porre al centro il minore e di cogliere le cause esogene ed endogene dell’atto deviante”. Dietro alla commissione di un reato, infatti, “possono celarsi significativi bisogni educativi, i quali esulano dall’attività di indagine penale propriamente intesa”. Ed è proprio per tale motivo, prosegue Gallo, che è necessario un approfondimento: solo in questo modo, infatti, “il procedimento penale minorile diviene lo strumento per offrire al minore un’occasione per emanciparsi dalle cause che hanno indotto l’atto deviante e solo così risultano pienamente attuati, in tutta la loro forza semantica, i precipitati costituzionali secondo cui la Repubblica protegge la gioventù ed è suo compito rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. La norma sembra però avere come obiettivo la celerità e la razionalizzazione del processo minorile, ottenibili solo comprimendo, di fatto, “quegli strumenti, propri di un sapere scientifico-pedagogico, necessari ad assicurare quell’approccio personalistico indispensabile per garantire al trattamento giurisdizionale minorile la sua finalità educativa”. Con riferimento alla prima fase del procedimento, la redazione del progetto, “l’assenza di un approfondimento sulla situazione del minore preclude la possibilità di redigere un programma personalizzato, rispettoso delle specifiche esigenze pedagogico-rieducative del minore”. La raccolta di informazioni sarebbe, inoltre, resa difficile dai tempi ristretti previsti dal legislatore, che impone un termine di 60 giorni per la presentazione di tale progetto, le cui attività “saranno individuate secondo meccaniche seriali a discapito dei reconditi bisogni educativi del minore”. Per quanto riguarda le altre due fasi del procedimento - l’ammissione e la valutazione conclusiva del progetto -, “entrambe sono demandate al giudice monocratico per le indagini preliminari e non al giudice collegiale”, che prevede la presenza, accanto al giudice togato, “di un uomo e una donna esperti in ambito psico-pedagogico”. Tale scelta, scrive ancora Gallo, “riduce significativamente la possibilità di procedere mediante un giudizio a base personalistica”. E per quanto riguarda il giudizio, “non è specificato sulla base di quali elementi informativi debba essere svolto”, dal momento “che non è previsto l’intervento dei servizi minorili dell’amministrazione della giustizia al termine del percorso”. La loro assenza impedisce, di fatto, “di tenere in debita considerazione l’incidenza che l’espletamento del progetto ha avuto sul percorso evolutivo del minore in relazione ai profili di crescita, maturità e responsabilizzazione - conclude Gallo -. In assenza, ancora una volta, di adeguati elementi informativi, l’emissione o meno della sentenza di non luogo a procedere per estinzione del reato dipenderà dall’adempimento o meno da parte dell’imputato degli impegni presi a prescindere della valenza educativa che possono aver assunto nel suo percorso di crescita”. Lavoro e formazione dietro le sbarre di Maurizio Carucci Avvenire, 16 marzo 2024 Solo il 5,4% su circa 60mila detenuti partecipa ad attività che potrebbero ridurre la recidività e aumentare le opportunità di reinserimento sociale. Tanti i progetti e le buone pratiche. Più formazione e lavoro dietro e fuori le sbarre. Infatti solo una minima parte, il 5,4% su quasi 60mila detenuti, partecipa a corsi formativi, eppure il tasso di recidiva tra chi non è coinvolto in programmi di reinserimento è pari al 70% e scende al 2% se si considera soltanto chi ha appreso un lavoro in carcere. Tra le esperienze in campo nei 192 istituti di pena italiani, quelle che riguardano le Case circondariali di Varese e di Busto Arsizio che ospitano in tutto circa 500 reclusi, sono tra le più virtuose, con una recidiva pari a zero di chi lavora e una soddisfazione piena di imprenditori e clienti finali. Tanti comunque i progetti e le buone pratiche. Intesa Sanpaolo e Caritas italiana hanno dedicato ai detenuti la nuova edizione del programma di azione contro la povertà: Aiutare chi aiuta. La cabina di regia tra Intesa Sanpaolo e Caritas italiana ha individuato così nelle prigioni il nuovo ambito prioritario su cui intervenire. Questa partnership “strategica”, secondo il direttore Caritas Italiana don Marco Pagniello, rappresenta “un esempio di coprogettazione virtuosa fra enti non profit e organizzazioni profit”. Per questo motivo, Manpower, Fondazione Human Age Institute e Fondazione Severino Onlus hanno sottoscritto un protocollo di intesa per promuovere iniziative congiunte finalizzate a formare detenuti ed ex-detenuti e ad agevolarne l’inserimento nel mercato del lavoro. L’accordo prevede che Manpower, in collaborazione con Fondazione Human Age Institute e Fondazione Severino, agevolino l’accesso al lavoro di persone detenute ed ex-detenute attraverso un’attività di supporto e selezione di lavoratori. Inoltre, Manpower si occupa anche della predisposizione e programmazione di corsi formativi rivolti alle persone detenute con l’obiettivo di fornire loro strumenti volti a un pieno reinserimento nella società. Fondazione Severino individua, in particolare, i soggetti ristretti che parteciperanno ai corsi di formazione e i candidati più adatti alle varie opportunità lavorative e fornisce assistenza sulla normativa che regola i benefici fiscali e previdenziali per le imprese che danno lavoro a detenuti. Fondazione Adecco ha portato avanti il progetto Riparto da Me, un’iniziativa finalizzata alla formazione e all’orientamento professionale delle persone detenute del carcere di Bollate (Milano). Coinvolti 30 beneficiari, 27 dei quali hanno avviato con successo un percorso lavorativo, di cui sette con contratto a tempo indeterminato e 20 con contratto a tempo determinato. Altri tre detenuti hanno scelto di lavorare presso le strutture del carcere. Il progetto, nato nel 2018 da un’idea di Fondazione Alberto e Franca Riva e implementato da Fondazione Adecco con il supporto di partner tra cui il Centro Studi dell’Università Cattolica, la Celav del Comune di Milano, la Cooperativa sociale Articolo 3 e Fondazione Enaip, mira a offrire un supporto concreto e duraturo alle persone detenute nel loro percorso di reinserimento sociale e lavorativo, contribuendo così a contrastare il rischio di recidiva. Oltre a sviluppare percorsi di formazione, orientamento e accompagnamento al lavoro, prendendo in carico i partecipanti prima, durante e dopo l’ingresso in azienda, l’iniziativa si pone parallelamente l’obiettivo di sensibilizzare e formare le aziende con l’ambizione di aiutarle a superare lo stigma che spesso accompagna le persone detenute, incoraggiando la nascita di un clima e condizioni lavorative favorevoli per il loro ingresso nel mondo del lavoro. Un accordo quadro per la realizzazione di interventi qualificati finalizzati a promuovere attività formative e lavorative e a favorire il reinserimento sociale dei detenuti è stato sottoscritto in via Arenula. L’intesa vuole mettere insieme la vasta rete di oltre 335mila aziende del settore della ristorazione, dell’intrattenimento e del turismo che fanno riferimento a Fipe e l’impegno associativo dei collaboratori di Seconda Chance, che da più di tre anni operano su tutto il territorio nazionale, consolidando una collaborazione già in atto da tempo: l’obiettivo è quello di creare, promuovere e realizzare opportunità di formazione e lavoro all’esterno degli istituti penitenziari per tutti quei detenuti che, per requisiti e posizione giuridica, saranno individuati dall’amministrazione penitenziaria. Mentre il Cnel-Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro ha attivato una rete di collaborazioni sul tema del lavoro, formazione e studio in carcere come strumento di reinserimento sociale e di riduzione della recidiva. A cominciare da Assolavoro-Associazione nazionale delle Agenzie per il lavoro. L’intesa è finalizzata alla realizzazione di analisi dei fabbisogni occupazionali delle aziende presenti sui territori, individuando le competenze maggiormente richieste, che andranno sviluppate attraverso il sistema di formazione e riqualificazione professionale a favore dei detenuti, con l’obiettivo di rispondere al mutamento dei profili occupazionali e alle esigenze delle imprese. Oggetto della collaborazione è anche l’implementazione di modalità di certificazione del lavoro svolto all’interno degli istituti penitenziari, per attestare le competenze spendibili all’esterno. Cnel e Assolavoro, inoltre, collaboreranno nel valutare l’introduzione di incentivi occupazionali finalizzati a favorire l’assunzione di ex detenuti e a individuare risorse specifiche per finanziare percorsi formativi in carcere. Con Cassa delle Ammende è stato invece sottoscritto un protocollo d’intesa sul reinserimento socio-lavorativo dei detenuti e la riduzione della recidiva. La collaborazione si inserisce nel solco dell’accordo interistituzionale che il Cnel ha precedentemente siglato con il ministero della Giustizia, indirizzato a favorire un lavoro penitenziario formativo e professionalizzante, il proficuo utilizzo del tempo della reclusione e l’accrescimento delle competenze personali dei soggetti reclusi. In particolare, il Cnel fornirà consulenza e supporto tecnico alla Cassa delle Ammende per elaborare linee guida e procedure standardizzate volte a potenziare la qualità dei programmi e dei progetti di inclusione lavorativa e di formazione dei detenuti, nonché per la definizione di modelli operativi di valutazione d’impatto. Inoltre, il protocollo fa riferimento all’intesa tra Cassa delle Ammende, ministero della Giustizia e Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, per la realizzazione di un sistema integrato di interventi e servizi volti al reinserimento sociale delle persone sottoposte a provvedimenti privativi o limitativi della libertà personale. Anche la Comunità di Sant’Egidio, da sempre impegnata nel sociale, ha svolto progetti e iniziative per il reinserimento sociale, lavorativo e formativo dei detenuti, sia all’interno degli istituti di pena che all’esterno. L’intesa con il Cnel prevede la messa a punto di un’agenda condivisa in questo ambito di attività, oltre ad altre aree d’intervento congiunto legate all’inclusione dei segmenti più fragili della popolazione. Per la programmazione delle iniziative saranno attivati gruppi di lavoro ad hoc con il coinvolgimento anche di Università, Fondazioni, enti di ricerca e altre istituzioni. L’Enm-Ente nazionale per il microcredito ha sottoscritto protocollo d’intesa ha l’obiettivo di promuovere l’educazione finanziaria, la cultura dell’impresa e l’inclusione sociale dei soggetti che stanno scontando la parte finale della pena detentiva all’interno di una struttura carceraria o che stanno scontando pene alternative alla detenzione, nonché degli ex detenuti. Tra i punti più rilevanti dell’accordo c’è la promozione delle opportunità di sostegno economico e di tutoring a microimprese e professionisti. Verranno promosse in particolare le opportunità di finanziamento tramite lo strumento del microcredito. Cisco Italia opera nelle carceri con proprie Academy, tramite una cooperativa ideata e gestita dallo specialista informatico Lorenzo Lento. È intorno a lui che ruota l’insegnamento dell’informatica ai detenuti, un’attività che contribuisce in modo determinante a contrastare il fenomeno della recidiva: “Degli oltre 1.000 studenti che sono passati dalle mie classi - spiega - nessuno ha fatto ritorno in carcere. Noi li accompagniamo, non li lasciamo soli al loro destino”. Nel 2000 Lento riesce ad aprire la prima Academy Cisco nel carcere di Bollate e da lì inizia un percorso difficile, che è però arrivato a coinvolgere diversi penitenziari italiani e oltre mille detenuti. La decennale esperienza Cisco ha dimostrato che si possono trasformare in esperti digitali persone senza esperienza preventiva ma con la giusta attitudine e volontà. Tesselis, azienda nata dalla fusione di Tiscali e Linkem, ha invece sviluppato tre aree di opportunità in ambito penitenziario. La prima nasce dalla constatazione che nei magazzini vi sono moltissimi apparati di telecomunicazioni sostituiti prima di perdere il loro valore. Di qui la creazione di quattro centri operativi in carcere, che in tre anni hanno coinvolto circa cento persone, a cui è stata data una formazione e una certificazione, grazie a cui a fine pena hanno potuto trovare un lavoro. La seconda è legata alla mancanza di manodopera molto qualificata per la posa di reti in fibra e per le installazioni di apparati wireless. In questo ambito è stato effettuato un primo corso-test da parte dell’azienda Sirti nel carcere di Torino, con dodici ragazzi, poi avviati ad un’attività all’esterno. La terza riguarda esperti verticali in alcune attività digitali e in particolare quella della sicurezza informatica, dove si stima un fabbisogno di oltre 10mila addetti. Digital360 società benefit ha avviato un’azione volta a formare imprenditori del digitale partendo dalle carceri. Tutto ha inizio quando, dopo un adeguato percorso di formazione, due carcerati hanno dato vita alla cooperativa Atacama, che fa video aziendali. A Milano Opera è stato attivato un servizio per il reinserimento dei detenuti. Un’occasione per riscattarsi e costruire un percorso anche per quando si lascia il carcere. È lo sportello dedicato ai servizi del lavoro per i detenuti della casa circondariale. Una realtà nata dalla collaborazione di Galdus, scuola di formazione, con Afol Metropolitana e Regione Lombardia. Lo sportello rappresenta un nuovo modello integrato realizzato in linea con il programma Gol-Garanzia occupabilità dei lavoratori. Da segnalare la Pasticceria Giotto. Dal 2005 il laboratorio è ospitato nel carcere dei Due Palazzi di Padova. Fino a oggi più di 200 detenuti sono stati guidati in un percorso formativo e professionalizzante nell’arte pasticcera e non solo. Il laboratorio è affiancato dal reparto di confezionamento e logistica, dove i dolci vengono vestiti e preparati per la spedizione. A rendere possibile tutto questo è il lavoro di professionisti del settore che hanno scelto di svolgere le loro attività dietro le sbarre. Il Consorzio Giotto è una realtà composta da cooperative sociali impegnate principalmente nell’inserimento lavorativo di persone svantaggiate e occupa centinaia di persone tra detenuti, disabili e persone cosiddette “normali”. La pasticceria, la gelateria e la cioccolateria sono solo alcune delle attività attraverso cui il Consorzio avvia al lavoro i detenuti: presente nel carcere Due Palazzi a partire dal 1991 con alcuni corsi di giardinaggio, il consorzio svolge per conto di aziende esterne attività di call center, valigeria, digitalizzazione di documenti. Unindustria, attraverso la sezione Consulenza, Attività professionali e Formazione, porta avanti dal 2018 a Roma Rebibbia progetti di formazione dedicati alla riqualificazione professionale dei detenuti a fine pena in vista di una loro occupabilità futura. I detenuti che hanno partecipato alla formazione - 50 ore di lezione - sostengono un incontro finale con le aziende che hanno aderito all’iniziativa. Offrire una prospettiva di ripartenza attraverso l’acquisizione di nuove competenze, incoraggiando il recupero dell’autostima e promuovendo un percorso di reinserimento sociale: è questo l’obiettivo dell’iniziativa di Ance Roma - Acer e CefmeCtp (Organismo paritetico per la formazione e la sicurezza in edilizia di Roma e provincia) con il sostegno dell’associazione del Terzo settore Seconda chance, per la formazione professionale di 14 detenute del carcere di Rebibbia. Avvalendosi del CefmeCtp, l’associazione dei costruttori romani avvierà, all’interno dell’istituto penitenziario, tre corsi di formazione professionale: le detenute impareranno le basi dei mestieri di elettricista, idraulico e operatore edile. Infine Openjobmetis, durante il 2023 ha erogato gratuitamente ben 2mila corsi per un totale di 120mila ore. I settori che hanno registrato una maggiore richiesta rispondono a una necessità di specializzazione sempre più marcata. Tra questi rientrano: il settore tessile (con specifici corsi per modellisti, addetti al rammendo e al finissaggio); la pelletteria (addetti alla lavorazione delle calzature, dalla tingitura e al confezionamento); corsi per badanti e Asa-Ausiliari socio-assistenziali; e ancora: per saldatori, carpentieri, informatici e programmatori. L’attività coinvolge anche le carceri dove sono stati formati panificatori e orologiai. La destra ha un piano: il diritto a servizio della politica di Massimo Donini Il Domani, 16 marzo 2024 C’è una tradizione consolidata che teorizza il primato assoluto della forza dei numeri e dei voti su quella delle regole. Tanto più se quei voti possono cambiare quasi tutte le regole. Oggi quell’idea serpeggia nell’azione dell’esecutivo di destra-centro. Nel panorama riguardante il controllo sulla politica da parte della magistratura e la libertà della politica da indebite invasioni di soggetti non “legittimati” dal voto democratico, occorre ripensare il tema del primato della politica sul diritto, o quello opposto del diritto sulla politica, che sembra interessare qualche élite colta, ma non la massa dei votanti. Non si tratta di una esercitazione accademica. Mentre la declinazione dello scontro politica-magistratura appartiene ai momenti più accesi della discussione quasi quotidiana, la presenza di un diritto forte o autonomo, capace di resistere alle avventure della politica dei partiti, è un dato di secondario interesse: se il potere politico può cambiare tutte le leggi, compresa la Costituzione, appare necessariamente più forte e in definitiva superiore ad essa. Il diritto, allora, risulta servente, una tecnica e quasi uno strumento della stessa politica. Il giurista (e il giudice) commenterà, applicherà, eseguirà e, in definitiva, obbedirà. Certo alcuni limiti esistono, e sono costituzionali o sovranazionali, oppure sono costituiti dalle leggi che non siano ancora state cambiate e che, finché rimangono, riducono e orientano il potere politico, il quale oggi deve sempre attuarsi in forma legale, nello Stato di diritto. C’è soprattutto una trama ordinamentale, nazionale e sovranazionale, di vincoli, scritti nelle Carte dei diritti, o nella giurisprudenza delle Corti supreme, capace di rappresentare un corpo normativo che non contiene comandi, come avviene nel caso delle leggi, ma le ragioni che spiegano le leggi e i loro limiti, che sono limiti del potere che si ancorano su principi per lo più scritti o reinterpretati da quelle sentenze o sul contributo della cultura giuridica. È il diritto come ius, non come mero comando, è la razionalità del diritto e della legge, non la legge come imperativo. Ciò premesso, veniamo alla attualità, rappresentata dal sotterraneo avanzare di una cultura di destra che afferma il primato della politica sul diritto. Può dare fastidio ad alcuni ammettere che la destra possa avere una cultura, anziché conoscere solo una prassi, o il primato della azione. Ma sorvoliamo su questi pregiudizi. Limitiamoci a una registrazione del reale. Esiste una tradizione consolidata, nelle dottrine politiche, che teorizza la pratica del primato assoluto della forza dei numeri e dei voti su quella delle regole. Tanto più se quei voti possono cambiare quasi tutte le regole o la loro interpretazione. Oggi quella cultura serpeggia dentro alla prassi del governo di destra-centro. Essa comincia con la esaltazione di un garantismo anti-magistratura, costruito sugli errori giudiziari (tanti) e sui processi a politici e amministratori pubblici e privati, processi che hanno bloccato o distrutto carriere e imprese. Questo neo-garantismo è arricchito da riforme che non interessano il penale del carcere, ma quello dei colletti bianchi o di chi resta socialmente incluso o integrato, e si accompagna a una controriforma giudiziaria, declinata mediante una certa lettura della separazione delle carriere. Raggiunta una certa normalizzazione e delegittimazione di una parte della magistratura penale (che ha dato causa a tutto ciò), si sono costruite le ‘basi’ per una svolta politica nei rapporti con il diritto come limite all’azione dei partiti, almeno nei settori più nevralgici del controllo penale sulla loro attività. Il diritto deve essere servente rispetto alla legge e dunque a chi l’ha votata o si appresta a farlo. I giuristi, singolarmente scelti e chiamati in passerella in commissione o nelle audizioni parlamentari, fanno bella mostra di sé, e questa lusinga è utile per capire come aggirare le loro generose osservazioni. Se intervengono pubblicamente con argomenti tecnici, li seguono cinque lettori, e non ottengono nessuna risposta, in quanto non hanno né audience, né voti. In parallelo, si espongono unilateralmente nei media di maggiore diffusione i profili più populisti delle scelte da adottare. Sempre a fianco delle discussioni oligarchiche più argomentate, si adottano provvedimenti di risposta immediata ai fenomeni: se c’è un particolare omicidio o una violenza o un pericolo collettivo, si inventa una nuova norma speciale che si aggiunge alla tutela già esistente, per rispondere alle richieste di protezione o di reazione all’evento accaduto. Con un accrescimento del tutto inutile e dannoso delle regole, lungo una spirale che potrebbe solo essere interrotta da un fermo legislativo di qualche anno o da una riserva di legge rinforzata per approvare le leggi penali. A questo punto, messe in cantiere o in opera riforme di garanzia processuale apparentemente rivolte verso tutti, ma in realtà più utili ai potenti (agli intercettati o ai sindaci, agli evasori “buoni” etc.) che ai diseredati destinati al carcere, la normalizzazione può cominciare. È soft questa destra. Non cerca mai lo scontro duro, ma buoni intenditori. Il magistrato che si appella a fonti sovranazionali, o reinterpreta le leggi in senso divergente dalle politiche desiderate, può essere occhiutamente osservato e censurato nella sua vita privata, oggetto di dossieraggi mirati (ma forse lo era da tempo, e non lo sapeva nessuno); i procedimenti disciplinari e le ispezioni ministeriali si minacciano o si attuano con maggior facilità. La burocratizzazione della magistratura è in fase avanzata. Hanno ottimi stipendi. Che si godano la vita privata! Se il magistrato è burocrate, deve solo fare scelte tecniche. Il diritto non è, allora, cultura, ma è tecnica del potere. La cultura sta fuori e accanto, nei convegni, non nel processo. Rinasce il tecnicismo giuridico, che fu la scuola di pensiero dominante durante il Ventennio e a lungo durante la Repubblica, prima che si scoprisse la Costituzione. Qualora ritornasse uno stylus curiae troppo critico si potrebbe anche riformare la Costituzione o la Corte costituzionale, se necessario, non solo in vista di un nuovo premierato. Ma forse non è neppure necessario, in questa nuova melassa. La stampa si può addomesticare, perché ha fatto troppi processi massmediatici. Ci sono poi eventi collettivi che creano consenso. Panem et circenses. E infine tutti a far festa a qualche cerimonia che ricompatti l’unità nazionale. Qui ritorniamo al tema di partenza. Questa destra ha posto le basi per un clima generale che consenta di mettere in discussione la stessa esistenza dei limiti che il diritto pone alla legge e alla politica. Il fatto è che quei limiti, da sempre, non sono mai stati tanto ampi o rigidi. Veramente un governo che possa durare una legislatura è in grado di operare evitando molti ostacoli. Se si disinnesca il ricatto giudiziario, il rischio penale, la strada è libera: il depotenziamento delle intercettazioni, delle inchieste possibili per abusi d’ufficio o traffico di influenze, una certa riforma dei reati contro la pubblica amministrazione, la normalizzazione e burocratizzazione della magistratura, sono premesse fondamentali dell’operazione. Altre probabilmente ne seguiranno. A questo punto dobbiamo spiegare in che cosa consiste veramente il primato della politica sul diritto. Esso significa che i giuristi sono subordinati e serventi, strumenti tecnici del potere politico. Dato che il problema più grave degli ultimi quarant’anni almeno a livello internazionale, salvo che nei regimi autoritari, è la crescita del potere giudiziario quale fattore di controllo della politica, unitamente alla necessità che ogni governo agisca secondo provvedimenti legali, come tali sottoposti a quel controllo, rendere serventi i giuristi è atto rivoluzionario. La loro normalizzazione significa indebolire l’orientamento costituzionale al diritto, spuntare le armi della critica alla legislazione attraverso le fonti sovralegislative, ricondotte a programmi della stessa politica, non a regole cogenti; significa che la Corte costituzionale, diversamente composta, conoscerà nuove stagioni di ossequio acritico; che il nazionalismo dispiegato attenuerà di molto ogni verifica di tipo europeista. Rinasceranno nuove figure di giuristi molto formalisti, risorgerà il garantismo dei potenti, che da tempo è di nuovo in attività. E alla fine sarà chiaro a tutti che prima di interpretare la legge occorre ascoltare chi l’ha emanata: può risorgere l’interpretazione c.d. soggettiva, che guarda alla volontà del legislatore storico, ai modelli originalisti d’oltreoceano. E via discorrendo. Tutto questo è cultura di destra, ed è quanto ci aspetta se non cominciamo a capire dove soffia il vento. Si noti, però, che le regole e le prassi che vengono così abbandonate e trasformate non erano “di sinistra”, ma espressione dello Stato di diritto. È in atto un mutamento occulto della forma-Stato. La truppa forzista ci crede davvero: “La separazione delle carriere si farà” di Mauro Bazzucchi Il Dubbio, 16 marzo 2024 “Calma e gesso”. La parola d’ordine, dentro Forza Italia, è “avere pazienza e non cadere nella trappola di chi vorrebbe metterci, sulla giustizia, contro la premier Giorgia Meloni”. I retroscena degli ultimi giorni vogliono il guardasigilli Carlo Nordio caduto in disgrazia agli occhi di Palazzo Chigi, soprattutto dopo le sue insistenze per la commissione d’inchiesta sui presunti dossieraggi, tanto che piazza Colonna starebbe entrando a gamba tesa nella composizione dell’organigramma di via Arenula, con l’imposizione di un capo di Gabinetto fedele al sottosegretario (ed ex- magistrato) Alfredo Mantovano al posto dell’attuale facente funzioni ed ex- parlamentare berlusconiana Giusi Bartolozzi. Fin qui siamo nel novero dei rumors di Palazzo, ma poi ci sono i fatti e gli atti parlamentari, che hanno visto negli ultimi mesi, a dispetto dei numerosi annunci, un certo stallo nell’iter di quella che, per il fronte garantista, rappresenta la madre di tutte le riforme, vale a dire la separazione delle carriere, ma anche per l’abuso d’ufficio. A sentire i bene informati, la partita è di facile lettura: da una parte ci sarebbe Forza Italia, per la quale si tratta di una bandiera imprescindibile, lasciata da Silvio Berlusconi nelle mani di Antonio Tajani, e da far divenire realtà quanto prima. Accanto a FI ci sarebbe la Lega, il cui leader Matteo Salvini è altrettanto convinto dell’urgenza della separazione delle carriere, al punto da aver firmato, due anni fa, addirittura il pacchetto di referendum a tema giustizia promosso dal Partito radicale. Su queste posizioni troviamo anche il fu Terzo polo, trainato dal responsabile Giustizia di Azione, Enrico Costa. Quest’ultimo, non a caso, negli ultimi tre giorni ha messo in fila gli indizi che a suo avviso fanno una prova sulla voglia del governo di rallentare. Ieri, sui social, dopo aver appreso che per l’abuso d’ufficio si farà l’ennesimo ciclo di audizioni, ha sbottato parlando di “melina pura”. Dall’altra parte, invece, ci sarebbero i giustizialisti, dai più agguerriti 5S, eredi della tradizione filo- pm passata attraverso il ramo La Rete- Italia dei Valori, ai dem, senza dimenticare la sinistra contro la magistratura politicizzata, come avvenuto quando un giudice non ha voluto archiviare il procedimento a carico del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro. Si parlava di fatti, ed è certamente un fatto che la commissione Affari costituzionali di Montecitorio avrebbe dovuto licenziare un testo base, in tempo utile per arrivare in Aula a partire dal 25 di questo mese, e che invece i tempi si siano allungati. Dal governo è arrivato l’input a stoppare l’esame della riforma in modo che Nordio possa mettere a punto una sua proposta e sottoporla quindi al Consiglio dei ministri. La pattuglia azzurra, anche in virtù della stagione felice che stanno attraversando i rapporti tra Meloni e Tajani, si dice tranquilla e fiduciosa: il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto assicura, dalle colonne del Riformista, che la proposta targata Arenula sta arrivando, e il deputato Pietro Pittalis, che segue il dossier in Parlamento, non dubita sul fatto che si andrà avanti. Come lui anche il capogruppo giustizia di FI alla Camera Tommaso Calderone, primo firmatario di una pdl sulle carriere separate: respinge ogni ipotesi di insabbiamento e ritiene falsa l’esistenza di una strategia dilatoria di Palazzo Chigi. “Non sta succedendo assolutamente niente”, dice il deputato, “è in preparazione un testo governativo e lo attenderemo. La separazione delle carriere si farà, perché lo vuole il nostro partito, lo vuole la maggioranza, lo vuole la Costituzione ma soprattutto lo vogliono gli italiani. Noi avevamo preparato una pdl costituzionale che prevede due Csm, e auspichiamo che la direzione sia quella, con due concorsi differenti. Anche gli altri partiti della maggioranza hanno lo stesso orientamento ed è per questo che siamo assolutamente sereni. Noi badiamo al risultato e non alle polemiche sterili, e chi sa come funziona il Parlamento capisce che si tratta di dinamiche normalissime. Sappiamo che sta arrivando un testo dal governo, e lo aspettiamo. Noi di Forza Italia - conclude Calderone - seguiremo con attenzione questo percorso ma sappiamo allo stesso modo che fare la riforma è la precisa volontà della maggioranza, quindi non ci sarà nulla da vigilare o per cui stare all’erta”. Enrico Costa: “Nordio è in ostaggio. I garantisti ci sono, ma ben nascosti” di Aldo Torchiaro Il Riformista, 16 marzo 2024 Cosa succede a via Arenula? Il ministro Nordio è guardato a vista dalla premier? Lo abbiamo chiesto all’onorevole Enrico Costa, vicesegretario di Azione e il responsabile del dipartimento Giustizia del partito di Carlo Calenda. “Nordio deve scegliere se galleggiare o lasciare il segno. Comprendo che non si possa trasformare in norma ogni sua convinzione. Però mi sembra che lui abbia dismesso i panni del giurista e vesta i panni del politico, rinunciando ad affermare la sua identità”. Se in aula votassimo sempre con il voto segreto sulla Giustizia, avremmo una serie di riforme molto liberali. La mia proposta di non pubblicare le ordinanze di custodia cautelare alla lettera, perché è passata? Il governo era orientato a dirmi di no. Ma ho costruito quella proposta con un emendamento a scrutinio segreto”, ci dice il deputato di Azione. “Secretando gli emendamenti avremmo riforme garantiste con l’85% dei voti in Aula”, assicura. E sul Terzo polo: “Ci avevo sperato. Ma mai dire mai”. Nordio deve tornare a fare Nordio? “Noi lo abbiamo applaudito quando si è insediato e ha fatto un discorso apprezzabile davanti alla Commissione Giustizia: molto fermo, chiaro e coraggioso su una serie di temi che i vari ministri della Giustizia avevano sempre cercato di non maneggiare o maneggiare con fin troppa cura”. Chi o cosa impedisce a Nordio di fare Nordio? “Penso che tocchi a Nordio scegliere se galleggiare o lasciare il segno. Comprendo che non si possa trasformare in norma ogni sua convinzione. Però mi sembra che lui abbia un po’ dismesso i panni del giurista e stia vestendo sin troppo i panni del politico, rinunciando ad affermare la sua identità. A forza di mediazioni, si perde forza e linea riconoscibile”. È diventato troppo politico? “Fare politica significa anche dire dei no, quando vanno contro le tue convinzioni. Significa astenersi dal fare le cose in conflitto con la propria storia. Sul premierato, il rapporto tra separazione delle carriere e premierato ha visto soccombere la separazione delle carriere. Mi sarei aspettato un Nordio che batte i pugni sul tavolo. Invece ha prevalso l’accondiscendenza. Io mi batto perché il pensiero di Nordio prevalga, perché so che è il mio stesso pensiero. Quelli che in Parlamento vogliono la separazione delle carriere sono la stragrande maggioranza. Dobbiamo farla emergere”. Con il voto segreto avremmo una legislazione garantista? “Se in aula votassimo sempre con il voto segreto sulla Giustizia, avremmo una serie di riforme molto liberali. La mia proposta di non pubblicare le ordinanze di custodia cautelare alla lettera, perché è passata? Il governo era orientato a dirmi di no. Ma ho costruito quella proposta con un emendamento a scrutinio segreto che sarebbe passato, e allora il Governo ha accettato di discutere, c’è stata una riformulazione e siamo arrivati ad approvarlo. Certe riforme o le fa il Governo o deve essere il Parlamento a spingere per approvarle”. Una strategia carsica per unire i garantisti sottotraccia e arrivare a dama? “Sì, adesso proporrò una gragnuola di voti segreti e non scenderò a compromessi. Ovvio che non potrò applicare questo schema alla separazione delle carriere”. Costruire il polo Nordio? “Chiamiamolo polo per una giustizia liberale e incoraggiarlo ad affrontare quegli snodi centrali sui quali per quieto vivere lo vediamo titubante”. Se si votasse l’abolizione dell’abuso d’ufficio a scrutinio segreto, quindi... “Avremmo l’85% del Parlamento a favore. Da parte del Pd e credo anche di molti Cinque Stelle. E se con lo stesso metodo mettessimo ai voti la fine dell’abuso della custodia cautelare, avremmo lo stesso risultato”. Uno snodo centrale è il potere dei magistrati fuori ruolo, una casta di decisori politici non eletti da nessuno... “Da lì dovremmo partire, e la situazione mi lascia sbigottito. Ci sono stati ripetuti tentativi di condizionamento sugli iter legislativi dei magistrati che provano a portare dalla loro parte i provvedimenti che non condividono. E Nordio che fa? Lascia crescere nella pancia dell’esecutivo, plotoni di magistrati fuori ruolo che provano a condizionare la politica seguendo il loro schema culturale. La separazione dei poteri viene svilita”. Un tema delicatissimo per la tenuta democratica, mi spieghi meglio... “Noi avevamo costruito grazie alla legge Cartabia una delega per la riduzione di queste figure ibride, a cavallo tra potere giudiziario e esecutivo. Avevamo alzato la palla al ministro: Nordio doveva solo schiacciarla, con la firma su un decreto legislativo. Invece viene fuori un atto debolissimo che li riduce da 200 a 180 e addirittura regala una deroga a quelli che stanno già nei ministeri”. Ha incardinato una casta di Mandarini... “Di più! Quando arriva alla Camera questo provvedimento, la maggioranza scrive che questa riduzione minima entra in vigore tra due anni. È il segno che il Governo si è arreso al quieto vivere. Non c’è coraggio, non c’è identità”. E mentre silenziano il ministro garantista, dilaga il panpenalismo... “Tutto diventa reato, si moltiplicano le fattispecie e si innalzano le pene. Con quale risultato? Nell’immediato, ottengono bei titoli di giornale, e la gente ha la sensazione che il governo faccia “giri di vite” su questo e quello. In realtà si intasa il sistema e si ingolfano i tribunali. Finendo con l’impedire ai processi di compiersi”. E questa è una battaglia di civiltà... “Ce n’è anche un’altra a cui tengo: è una cosa sbagliatissima usare la giustizia come clava contro l’avversario politico. Il garantista deve essere garantista sempre. Lo spirito che anima le mie proposte è che lo Stato deve essere messo in condizione di chiamare le persone a rispondere dei reati. Ma quando ne una persona esce da innocente deve essere come immagine, reputazione e portafoglio la stessa persona che era prima di entrare nell’ingranaggio giudiziario. Oggi non è così”. Il fascicolo di valutazione dei magistrati è un altro problema... “È pieno di processi che non avrebbero mai dovuto iniziare. Il 50% dei procedimenti aperti da Pm con citazione diretta si risolve in assoluzioni. Perché questo non entra nelle valutazioni? Perché le inchieste flop non entrano nelle valutazioni? Se via Arenula assegna a una commissione fatto da 18 magistrati, 5 professori e 3 avvocati il compito di rivedere il meccanismo di valutazione, come si può pensare che andrà a finire? E questo vale per quelli che stanno al governo ma sono silenti. Fanno belle affermazioni di principio nelle interviste, ma poi nella realtà sono silenti”. Si parla di sostituire Nordio, girano già dei nomi... “Io non auspico rimpasti, sto all’opposizione. Auspico che quegli annunci fatti da Nordio, dei quali siamo diventati noi i difensori, diventino atti di legge. La proposta di legge sulla separazione delle carriere è la mia. La prima proposta di legge sulla riforma della prescrizione è la mia. Ora è in Senato, speriamo non si disperda. Sulla custodia cautelare le proposte nel Ddl Nordio sono mie proposte già dalla scorsa legislatura. Lo stimolo lo diamo, le cose le portiamo avanti. Però facciamo una fatica improba anche quando siamo in asse con il Ministro. Un bel paradosso”. Cosa pensa della commissione di inchiesta sul caso dossieraggio? “Non sono contrario alla commissione d’inchiesta, ma la considero intempestiva e frenante. Per approvarla passerebbe almeno un anno, tempo sufficiente per far scattare l’oblio. Piuttosto, mi chiedo perché non siano stati attivati i poteri ispettivi del Ministero della Giustizia”. Intesa tra garantisti in Parlamento, diceva. Ma con il terzo polo, con Iv e +Europa in vista delle Europee, nessun accordo? “Sono sempre stato un terzopolista convinto. Per scardinare il bipolarismo insano e radicale che c’è in questo Paese ci deve essere un progetto organico comune, che è fallito e di questo sono molto dispiaciuto”. Su Renzi i veti hanno senso? “Sono amico di Renzi, sono stato suo ministro e ho lavorato molto bene con lui”. Il terzo polo è fallito per sempre? “Sono molto contento di occuparmi di giustizia. Ma in politica mai dire mai”, dice. E si ferma qua. In Calabria la legge non è uguale per tutti, tra ‘ndrangheta e regime di polizia un imputato su due è innocente di Mimmo Gangemi Il Riformista, 16 marzo 2024 La Giustizia è una dea bendata, come la Fortuna. In una mano tiene la spada, nell’altra la bilancia e sugli occhi ha, appunto, la benda. Qualcosa dev’essere andato storto se capita che, quella benda, la scosti di quanto basta per sbirciare con chi ha a che fare e che, nel farlo, i due piatti della bilancia perdano la simmetria, con quello della colpevolezza che grava in basso. È un pensiero che mi assale da un bel po’ e che è risorto prepotente di fronte alla condanna in primo grado dell’avvocato Armando Veneto, insigne giurista, maestro di diritto, prestigioso, e raro, politico la cui voce è stata tra le poche in grado di attraversare il Pollino, una bandiera e un punto di riferimento e, specialmente, un galantuomo. Il reato contestato era, nientemeno, concorso esterno in associazione mafiosa - ce lo spiegheranno presto o tardi cosa significhi, in cosa consista davvero - e corruzione in atti giudiziari aggravati dalle modalità mafiose. Di recente il processo d’appello ha ribaltato la sentenza: è innocente per non aver commesso il fatto. Ed è la scoperta dell’acqua calda per quanti lo conoscono. A loro, a noi, non occorreva il processo d’appello per saperlo e per intravedere forzature sia nel rinvio a giudizio che nella condanna in prima istanza, in questo suffragati anche dalla tardiva e sospetta riesumazione di un caso già morto e sepolto, archiviato più di dieci anni fa per assoluta inconsistenza. Allora, davvero “le sentenze si rispettano”? Io non mi allineo alla vulgata: si rispettano le sentenze che meritano rispetto. E quella era carta straccia per tanti motivi, non ultimi il non aver tenuto conto della specchiata professionalità di oltre sessant’anni, del percorso umano, della sofferenza inflitta a un signore già anziano e dai trascorsi limpidi - tutti elementi che avrebbero dovuto avere un peso. E gridano orrore i quattro anni di crocifissione e di dignitosa attesa che hanno inciso non poco sull’uomo innocente, oltre ai danni collaterali, sulla famiglia, sulla salute, sulla reputazione. Del resto, che la sentenza non fosse degna di rispetto, lo conferma che sia stata ribaltata in sede d’appello. Da questa vicenda è nata una passionale protesta di tutte le Camere Penali calabresi, espressa attraverso i rispettivi Presidenti, all’indomani dell’assoluzione. E ne è scaturita la corrucciata reazione dell’Associazione Nazionale Magistrati, l’anomalo sindacato delle toghe - anomalo nel senso che, connotandosi le correnti in un ambito in qualche misura politico, viene quantomeno a zoppicare l’idea della piena imparzialità, magari per induzione inconscia, ché tutti umani siamo. Capisco il risentimento dell’ANM, è un sindacato e fa da scudo ai suoi iscritti. E appartiene ormai alla normalità che all’interno dei gruppi chiusi magari ci si scanni ma si è solleciti a compattarsi e a chiudersi a riccio se attaccati dall’esterno. Capisco, ma mi schiero con le Camere Penali, che evidentemente non ne possono più di una giustizia a dir poco febbricitante, di più nelle Procure antimafia dove alcuni elementi, pochi ma che fanno cassa di risonanza per la nazione, hanno la febbre alta e in Calabria mietono vittime a tutto spiano. Gogna Calabria, uno su due è assolto in via definitiva - Affermazione gratuita? No, perché suffragata dai numeri. Da una personale e minuziosa ricerca, relativa alle importanti operazioni di polizia svoltesi contro la ‘ndrangheta e alle risultanze processuali, emerge che, alla fine dei tre gradi di giudizio, l’innocenza maltrattata - messa in carcere o ai domiciliari o incriminata - è superiore al 50%. I numeri non mentono. E sono di tale portata da non poterli assorbire e assolvere come meri errori giudiziari, eventi fisiologici, imperfezioni che appartengono all’uomo, anche perché nelle altre parti d’Italia i dati sono molto più contenuti. Uno studio del Corriere della Sera ha determinato che dal 1992 al 2016 in Italia si sono verificati 24mila rimborsi per ingiusta detenzione, con la maggiore incidenza in Calabria. Ed è un dato che si mantiene pressocché costante, lo si evince dalle relazioni annuali del Ministero della Giustizia al Parlamento. L’ingiusta detenzione e il rimborso-miraggio - I 1.000 indennizzi riparatori, un numero comunque allarmante, porterebbe a ritenere che 1.000 siano stati anche gli arresti ingiustificati. E non è così. Si attesta almeno sul doppio, più facile sul triplo, essendoci i respingimenti e le mancate richieste. Non hanno infatti diritto al risarcimento quanti nella fase istruttoria si sono avvalsi della facoltà di non rispondere e quanti avevano solide premesse di colpevolezza, indizi a sfavore da aver indotto gli inquirenti alla valutazione scorretta, con quest’ultimo che è un elemento soggettivo, in teoria applicabile a chiunque. E c’è l’aggravante che da qualche anno il rimborso per ingiusta detenzione è diventato un miraggio, perché ne sconsigliano la richiesta gli stessi avvocati, per non scatenare ire e ricascarci. Ed ecco che i 1.000 diventano 2.000, 3.000. Ecco che i 28mila si trasformano in 60mila, 70mila. È tollerabile in uno Stato di diritto? Fino a quale incidenza è accettabile l’errore giudiziario? Non dovrebbe esserci affatto, ma lo capisco inevitabile, se però raggiunge simili vette urge correre ai ripari. La procura dell’ex Gratteri sul podio dell’inefficienza - È la Procura di Catanzaro a essere o prima o sul podio dell’inefficienza che comporterebbe i risarcimenti. Lo è da anni. E nulla conta che il Procuratore Gratteri abbia asserito che, nel periodo di sua gestione, non ci sono state liquidazioni in tal senso. Ha affermato una grande verità falsa. Un ossimoro? No. Perché è vero che non ci sono state, ma soltanto perché non si era concluso l’iter giudiziario e non potevano essere avanzate le richieste, pioveranno a tempesta a breve, purché quanti ne hanno diritto mettano da parte la paura di esporsi. E in massima parte non si tratta di “colpevoli che l’hanno fatta franca”, come fiorì infelice sulla bocca di Piercamillo Davigo - se non fossi garantista, lo definirei un “colpevole che franca non l’ha fatta” e aggiungerei che ci ha messo la mano il buon Dio per castigarlo delle parole e del veleno nelle parole; ma, siccome garantista lo sono, non lo riterrò colpevole fino alla conclusione dei tre gradi di giudizio, mi auguro anzi che emerga la sua innocenza, l’aiuterebbe a spostare l’ottica e a capire cosa significa essere stato maltrattato dalla giustizia. La ‘ndrangheta e il regime di polizia - La verità è che in Calabria la presenza della ‘ndrangheta ha comportato quasi un regime di polizia, con i cittadini stretti in una morsa tra criminalità e criminalizzazione e con due paure con le quali convivere, una dei mafiosi che appestano l’aria, l’altra della giustizia che non va per il sottile, ramazza senza badare se si tratta di mondezza o meno e solo in un secondo tempo opera la cernita, con buona pace di chi, pur estraneo, si è ritrovato mescolato alle fetenzie. Certo, sono due paure diverse, e tuttavia sono entrambe paure. Invece, si dovrebbe confidare nella giustizia, non temerla. E gli inciampi succedono persino ai più ligi, a personaggi per i quali si potrebbe impiantare già in vita la pratica per la beatificazione. Di tutto questo ne risente per prima la giustizia, che ne perde in credibilità - le statistiche lo rilevano nell’intera nazione - e in questa terra la sua credibilità occorre più del pane. È una giustizia tarata dal pregiudizio. È una giustizia che talvolta persegue fini diversi. E opporre critiche, come democrazia concede, ha la valenza del reato di lesa maestà nei confronti di quanti - pochi e tuttavia incidenti sull’opinione pubblica - presumono d’essere alle dirette dipendenze del Padreterno, d’essere investiti della missione di anticipare in terra il giudizio divino. E c’è che mai sui magistrati rei di vistose leggerezze compaiono colpe da contestare, provvedimenti sanzionatori, nemmeno un buffetto sulla guancia, un vago rimprovero, un distinguo. La risposta squallida del pm - “Tanto, pure a essere condannati in prima istanza, c’è il processo d’appello e l’eventuale terzo grado, che ripristinano la verità” obiettò un magistrato in carriera quando gli manifestai quelle che a mio parere sono le storture del sistema giudiziario. Risposta squallida, se non ha tenuto in alcun conto i tempi lunghissimi dei processi e il calvario di poveri cristi, innocenti costretti a subire l’onta del carcere, la gogna mediatica, la reputazione danneggiata per sempre e il tant’altro che ne consegue. “A buttare per terra un pugno di farina, tutta non si riesce più a raccoglierla” recita un vecchio detto. E, ahinoi, appartiene a quanto sto qui annotando. Tornando al caso Veneto, la domanda ricorrente è come mai la Procura di Catanzaro abbia ripreso il fascicolo senza che fossero emersi nuovi elementi. “A pensar male talvolta si azzecca” diceva Andreotti. No, che vado a pensare, non è applicabile a questa vicenda. A invogliare l’incriminazione non sono stati la caratura e la visibilità del personaggio e il fatto che fosse un boccone prelibato. Dai, non arrivavano a tanto, vanno in chiesa, sono timorati di Dio. E ce l’avranno pure una coscienza, inutile che il diavoletto che ognuno di noi si porta dentro insista che per certuni essa è un optional. Comunque sia, di sicuro a perseguire un qualsiasi poveraccio non ne deriva gloria né quanto alla gloria si appiccica, se non merita manco un trafiletto sui giornali locali. Invece, troppo spesso le disavventure giudiziarie colpiscono chi siede a cassetta. La carriera di chi mette alla gogna - Mettere alla berlina nomi eclatanti porta lustro, visibilità, medaglie, stellette, carriere sveltite, soddisfa la vanità, e non a caso da quaggiù decollano le fortune professionali di molti magistrati. E le promozioni fioccano persino quando le operazioni di polizia che le hanno indotte finiscono a tizzoni e cenere, si sgonfiano più delle ceramelle aspro-montane accartocciate alla chiusura della tarantella. Un’anomalia da addebitare al clamore in uscita, alle strombazzature televisivo, sui giornali. E al silenzio sulle assoluzioni che svelano essere stato un fiasco il risultato che ha sveltito la carriera. Di solito il primo grado di giudizio avalla le tesi della Procura e commina condanne, si è troppo porta a porta, giudicanti e pubblici ministeri, per guastarsela. Il blitz a Platì: 215 indagati, 8 colpevoli definitivi - Il secondo grado e la Cassazione tendono a ripristinare la verità, onore al merito. Senza che il ribaltamento valga anche per chi ha preso l’abbaglio, quel che è dato è dato e non si restituisce indietro. E invece dovrebbe. In nessuna nazione civile avrebbe raggiunto certe vette l’artefice del più vistoso flop investigativo della storia, l’operazione Marine, a Platì, con l’intero paese accerchiato dalle forze dell’ordine e 215 tra arrestati e incriminati e, al riscontro processuale, 8 colpevoli, il 3,7%. Verrebbe da ridere, se non ci fosse da piangere, pensando che la prova principe del reato la si riconobbe in una delibera comunale dove, secondo l’accusa, si specificava che le opere fognarie venivano realizzate per favorire i latitanti. Bastava un minimo di buonsenso per capire che nessuno era così sprovveduto da renderlo palese in un atto pubblico, peraltro affisso all’albo pretorio - la parola incriminata, “latitanti”, lì contenuta, era la correzione automatica del termine “latistanti”. Ma tant’è… Dalla giustizia malferma sulle gambe derivano danni irreparabili per le persone che ci incappano e per l’intera regione dipinta a tinte molto più fosche di quanto meriti, da avere il terrore di metterci piede. La volta che invitai in Aspromonte due coppie di francesi - c’era tra loro l’inviato in Italia di Le Monde - registrai le resistenze, si convinsero infine e scoprirono la Magna Grecia, l’accoglienza e la cordialità, e che dietro i tronchi di faggio non c’erano banditi o latitanti pronti a usare violenza. Lungo il viaggio del ritorno, notarono alcune indicazioni stradali con i nomi dei paesi illeggibili. Fecero una foto e la misero sui social per denunciare la disfunzione. Beh, in tanti, francesi e italiani, scrissero che erano stati dei pazzi a venire dalle nostre parti. Eccolo, il pregiudizio, alimentato da quanti sono protesi a scalare le vette del cielo, a scapito di chiunque, senza crearsi scrupoli a piallare le vite. Ci mettono del loro anche certi giornalisti. Non c’è sentenza su operazioni di polizia riguardanti la ‘ndrangheta che nei media locali non abbia un attacco più o meno così: “regge l’impianto accusatorio della Procura”, salvo scoprire, scorrendo il pezzo, che c’erano dei condannati ma erano molti di più gli assolti. Proprio dalla cattiva informazione è derivata l’equazione calabrese uguale ‘ndranghetista e, peggio, garantista uguale ‘ndranghetista, nel senso di posizioni ideologiche vicine alla ‘ndrangheta, senza riflettere che la prima a essere garantista è la Costituzione, quella di cui ci riempiamo la bocca come la migliore del mondo e che nei fatti disprezziamo. Non a caso sono spuntate leggi basate su indizi vaghi, congetture, sentito dire, su roba fumosa insomma, che sanno di incostituzionale, così per le interdittive antimafia alle aziende, per lo scioglimento dei Comuni, per i sequestri di beni. E sono fumosità che distruggono uomini e cose, tolgono lavoro, martorizzano innocenti, inchiodano la Calabria come terra irredimibile. Mentre dilagano il sospetto e la condanna. La disavventura dell’avvocato Veneto ha assonanza con quella del già governatore della Calabria Mario Oliverio, a cui furono spennate le ali politiche come si usava per le galline per impedirle al volo. Con lui tutto si concluse in Cassazione con l’annotazione di “chiaro intento persecutorio” nei suoi confronti. Questo, in altri settori, avrebbe distrutto la carriera, invece il Procuratore Gratteri - protagonista negativo sia nel caso Veneto che nel caso Oliverio, nonché con la palma d’oro in quanto a numero di innocenti arrestati - è stato premiato e oggi dirige la più importante Procura d’Italia, in verità per la gioia dei calabresi che ragionano, mentre Oliverio, pur vittima, è dovuto scendere giù dal treno della Regione. E, allora, il merito? E il guaio è peggiore perché le presunte punte di diamante sono infettive, nel senso che diventano esempio malato per i colleghi alle prime armi e con smania di carriera. Così, capita che, più che perseguire un reato, si va in cerca di un personaggio in vista a cui appiccicarlo un reato, scavandogli intorno per trovare un inciampo, qualcosa che ci assomiglia. E qui sorge la questione dei concorsi in magistratura. Strutturati come sono, li vincono i più bravi a scuola e non nella vita, quanti in classe chiamavamo secchioni, tra invidia e disprezzo. E quella del magistrato è una professione troppo seria per lasciarla appannaggio di sprovveduti, freschi di laurea e di concorso e magari con l’unico merito di aver mandato a memoria, meglio dell’Ave Maria, i codici. Occorrono quantomeno test attitudinali dai quali emergano solidità caratteriale, personalità, equilibrio, maturità, senso della missione. Argomenti come questo mi sarebbe piaciuto che affrontasse l’ANM, più che la sterile difesa di una situazione indifendibile. E confido in una riforma vera e sostanziale della Giustizia, perché serve sì al cittadino, ma ne ha urgenza la Giustizia stessa per riacquistare la credibilità perduta, e troppo necessaria. La Cassazione annulla l’estradizione in Cina e salva una donna dalla tortura di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 marzo 2024 La sentenza numero 21125 della Corte Suprema di Cassazione, Sezione Penale, ha portato alla luce un caso di estradizione verso la Cina, annullandola e mettendo in evidenza gravi preoccupazioni riguardanti i diritti umani e il rischio di trattamenti disumani e degradanti all’interno del sistema penitenziario cinese. Questa sentenza, insieme ad altre simili rivolte a paesi stranieri dove i diritti dei detenuti sono trascurati, mette in discussione l’approccio tradizionale delle destre, incluso il movimento Cinque Stelle, che proponeva di far scontare la pena degli stranieri nei loro paesi d’origine per risolvere il sovraffollamento. Senza fare i conti, però, con l’importanza del rispetto dei diritti umani. Il caso coinvolge la cittadina cinese Zhao Chunxia, oggetto di una richiesta di estradizione avanzata dall’autorità giudiziaria della Cina, per il reato di “assorbimento illecito di depositi pubblici”, secondo la legge penale cinese. Sebbene la Corte di appello di Ancona avesse originariamente accettato la richiesta di estradizione, la Cassazione ha ribaltato la decisione. I motivi dell’annullamento dell’estradizione sono stati evidenziati in quattro punti principali, sottolineando la violazione di diverse disposizioni della legge italiana e delle norme internazionali, nonché il rischio concreto di trattamenti inumani e degradanti nel sistema carcerario cinese. Il primo motivo di ricorso riguardava la violazione dell’art. 2 della legge italiana sull’estradizione con la Repubblica popolare cinese, che richiede la presenza del principio della doppia incriminazione e la punizione con la reclusione. Tuttavia, il reato contestato a Zhao Chunxia sembrava corrispondere a una contravvenzione, non rispettando quindi i requisiti per l’estradizione. Il secondo motivo si basava sulla mancanza di determinazione della pena massima edittale, contraddicendo i principi di predeterminazione della sanzione. Inoltre, le fonti legali cinesi non fornivano rassicurazioni circa la pena applicabile nel caso di truffa o di appropriazione indebita, aumentando il rischio di arbitrarie e ingiuste condanne. Il terzo motivo sottolineava il rischio di sottoposizione a trattamenti inumani e degradanti, citando fonti internazionali e la recente sentenza della Corte europea dei diritti umani sul caso Liu c. Polonia. Quest’ultima aveva evidenziato la persistente sottoposizione dei detenuti a trattamenti disumani, inclusi mezzi di tortura, senza garanzie di protezione. Infine, il quarto motivo evidenziava il rischio derivante dalle opinioni politiche pubblicamente espresse da Zhao Chunxia, soprattutto riguardanti le repressioni in atto a Hong Kong. Questo sollevava preoccupazioni sulla possibilità di un trattamento deteriore in Cina. Entrando nel dettaglio, le argomentazioni della ricorrente cinese si fondano anche sulle condizioni di detenzione riportate dal fratello, documentate in una nota acquisita nel processo, la quale denuncia una detenzione illegalmente ordinata e mirata a costringere la sorella a tornare in Cina. Tuttavia, gli elementi più significativi derivano dalle fonti internazionali e dalla recente sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel caso Liu c. Polonia. La Cassazione ritiene che gli argomenti esposti in questa sentenza siano pienamente applicabili anche al caso in esame, considerata la loro portata generale e non limitata alla situazione specifica trattata dalla Corte. È importante notare che il caso in questione riguardava un cittadino cinese accusato di reati comuni e non soggetto a rischi specifici di discriminazione basati su motivi personali come politica, etnia o religione. Di conseguenza, le carenze evidenziate dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo riguardo al rispetto dei diritti umani hanno un’importanza sistemica e si applicano anche ad altri individui soggetti a estradizione in Cina. Sintetizzando il contenuto della sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, emergono alcuni punti chiave: il Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura ha espresso preoccupazione per l’uso diffuso della tortura e dei maltrattamenti in Cina, nonostante gli sforzi dello Stato per affrontare il problema. Nonostante siano state apportate alcune modifiche normative, persistono gravi accuse di violazioni dei diritti umani nel sistema giudiziario penale cinese, con condizioni carcerarie considerate degradanti e pericolose per la vita dei detenuti. Le fonti internazionali, tra cui i rapporti del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, Amnesty International e Human Rights Watch, confermano la continua violazione dei diritti umani in Cina, con un tasso di condanne del 98% spesso basato su confessioni estorte con la tortura e condizioni carcerarie inadeguate. Inoltre, le informazioni riguardanti il sovraffollamento, l’assistenza medica e la scarsa igiene non sono accessibili, in quanto considerate segrete dalle autorità cinesi. Di conseguenza, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha concluso che, considerando le prove presentate dalle parti e dalle organizzazioni internazionali e nazionali, la tortura e altri maltrattamenti sono diffusi nelle strutture di detenzione cinesi, creando una situazione generale di violenza. Oltre alla sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, vengono citate anche le risoluzioni del Parlamento europeo che evidenziano il persistente rischio di trattamenti inumani o degradanti nei confronti dei detenuti in Cina. Ancora più allarmanti risultano le conclusioni espresse nella Risoluzione del Parlamento europeo datata 5 maggio 2022, che affronta la questione dell’espianto degli organi. La gravità della situazione è tale che il Parlamento europeo ha espresso profonda preoccupazione riguardo alle segnalazioni di espianto coatto di organi, che avviene in modo continuo, sistematico e disumano, con il tacito sostegno dello Stato, nei confronti dei prigionieri nella Repubblica popolare cinese. Nella stessa Risoluzione, il Parlamento ha richiesto alle autorità cinesi di rispondere tempestivamente alle accuse di espianto coatto di organi e di permettere un monitoraggio indipendente da parte dei meccanismi internazionali per i diritti umani. Alla luce di queste considerazioni, la Cassazione ritiene necessario annullare la sentenza impugnata senza rinvio. Si sottolinea che la Corte di appello, pur avendo precedentemente richiesto ulteriori informazioni e ottenuto solamente rassicurazioni generiche, non potrebbe procedere a ulteriori verifiche nel merito che possano portare all’accoglimento della richiesta di estradizione. Con l’annullamento della sentenza che aveva ordinato l’estradizione, si determina automaticamente la revoca della misura cautelare in corso. La donna è libera, evitando così l’inevitabile tortura che avrebbe subito in Cina. La prescrizione non autorizza a insinuare che il reato sotto sotto c’era di Paola Balducci Il Dubbio, 16 marzo 2024 Il diritto di difesa e la presunzione di non colpevolezza non possono essere pregiudicati da una richiesta o da un decreto di archiviazione per prescrizione del reato. Così la Corte Costituzionale, con la pronuncia 41/ 2024, ha tra le righe inviato un segnale molto forte a difesa dei principi e delle garanzie fondamentali dell’indagato nel procedimento penale. Nello specifico, la Consulta, ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Lecce. Il quesito sottoposto all’attenzione del giudice delle leggi riguardava la mancata previsione dell’obbligo di comunicazione da parte del pubblico ministero nei confronti della persona offesa e dell’indagato della richiesta di archiviazione per estinzione del reato per intervenuta prescrizione, estendendo a tale ipotesi la medesima disciplina prevista per il caso di archiviazione disposta per particolare tenuità del fatto. Il tribunale salentino si è confrontato con una vicenda riguardante una persona sottoposta a indagini, casualmente venuta a conoscenza di un provvedimento di archiviazione per prescrizione già pronunciato nei suoi confronti. Particolarità di tale provvedimento era stata tuttavia rintracciata nel contenuto dello stesso, in quanto nel testo il giudice affermava sostanzialmente la colpevolezza dell’indagato, ribadendo come le accuse sollevate contro lo stesso fossero “suffragate da molteplici elementi di riscontro, puntualmente elencati”. Un provvedimento di archiviazione con simultanea affermazione della responsabilità dell’indagato. Tutto ciò appare quasi ossimorico: come può un’azione penale non essere promossa ma allo stesso tempo un indagato (e non un imputato) essere considerato anche indirettamente colpevole? La persona interessata, proprio alla luce di questa contraddizione, aveva proposto reclamo contro il provvedimento, manifestando anche la propria volontà di rinunciare alla prescrizione. Davanti a questo empasse procedurale, il giudice salentino aveva deciso di rivolgersi alla Consulta, chiedendo al giudice delle leggi di introdurre un generalizzato obbligo, a carico del pubblico ministero, di avvisare preventivamente la persona sottoposta alle indagini dell’eventuale richiesta di archiviazione per prescrizione del reato nei suoi confronti, in modo tale da consentirle di rinunciare alla prescrizione e ottenere una pronuncia che riconosca la sua innocenza. La Corte Costituzionale, con la pronuncia in esame, ha ricordato come la Consulta in passato avesse riconosciuto il diritto dell’imputato a rinunciare alla prescrizione, in seguito all’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero, sottolineando come “tale diritto non necessariamente deve riconoscersi anche a chi sia soltanto sottoposto ad indagini preliminari, senza che l’ipotesi di reato a suo carico sia mai stata fatta propria dal pubblico ministero”. D’altro lato, la Consulta ha finalmente posto l’accento sulla “specifica patologia” rappresentata da un provvedimento di archiviazione per prescrizione che presenta la persona sottoposta alle indagini come colpevole, senza averle dato alcuna possibilità di difendersi dalle accuse. Troppo spesso difatti, non potendo perseguire l’azione penale per sopravvenuta estinzione del reato, vengono emessi provvedimenti di archiviazione che si pongono quali sostituti di una sentenza di condanna, riproducendone il contenuto tipico, con “gravi pregiudizi alla reputazione dell’indagato, nonché alla sua vita privata, familiare, sociale e professionale. Ciò che, in ipotesi potrebbe dare altresì luogo a responsabilità civile e disciplinare dello stesso magistrato che ha richiesto o emesso il provvedimento”. Lungi dall’essere provvedimenti “neutri”, molto spesso le richieste e i decreti di archiviazione si spingono ben oltre la mera valutazione sulla fondatezza della notitia criminis, indicando elementi che nulla o poco hanno a che vedere con la scelta di non esercitare l’azione penale, con conseguenze stigmatizzanti e segnanti anche dal punto di vista mediatico, in quanto troppe volte ripresi e travisati dai mezzi di comunicazione. L’importanza di questa decisone della Consulta si radica nella volontà di porre un freno ad un diritto penale troppo spesso in balia dell’opinione pubblica, con conseguenti processi mediatici che scaturiscono dalla mera notizia dell’apertura di procedimenti penali, celebrati all’interno di una società che punta il dito contro l’indagato ancor prima di avergli dato la possibilità di difendersi nelle sedi opportune. E il giudice delle leggi ha anche mosso un importante passo verso la responsabilizzazione dei magistrati, chiamati a tutelare l’indagato sin dall’inizio del procedimento penale nei propri confronti, al fine di recuperare quello spazio per il diritto di difesa che la nostra Costituzione ha sancito come principio inalienabile del processo penale. Maltrattamenti, anche una sola condotta agita davanti al minore aggrava il reato di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 16 marzo 2024 I maltrattamenti in famiglia sono aggravati se anche una sola delle condotte viene posta in essere alla presenza di un minore o nei confronti di una donna in stato di gravidanza. E non costituisce alcuna “scriminante” dell’aggravante il fatto che il minore sia un infante. Per quanto attiene, invece, al reato di atti persecutori la Cassazione chiarisce due punti: primo che il reato risulta aggravato se commesso con minaccia “grave” e se è commesso anche in danno di minore; secondo che il ritiro della querela da parte della vittima “adulta” non ha effetti sull’azione penale: il reato, infatti, resta comunque perseguibile d’ufficio se connesso a quello agito in danno del minore. La Corte di cassazione penale - con la sentenza n. 11097/2024 - ha perciò respinto il ricorso dell’imputato condannato a due anni e sei mesi che contestava di essere stato condannato per lo stalking nonostante la sua compagna avesse ritirato la querela inizialmente sporta contro di lui. La Cassazione ha respinto, inoltre, anche il motivo con cui il ricorrente lamentava la mancanza di una stabile coabitazione con la compagna durante la gravidanza, ciò che avrebbe escluso la contestazione del reato ex articolo 572 del Codice penale e, soprattutto, l’illegittimità dell’altra ritenuta aggravante per la presenza del figlio minore in quanto troppo piccolo per poter asserire che egli avesse subito un danno psicologico dagli eventi verificatisi alla sua presenza. Maltrattamenti in famiglia - La Cassazione rigetta il ricorso anche in ordine al requisito della convivenza - quale presupposto del reato di maltrattamenti in famiglia - dove si faceva rilevare che era stata sporadica e che l’uomo aveva per diversi periodi abitato presso la propria madre. La Cassazione sul punto risponde che la coabitazione non è l’unico dato che dimostri una comunanza di vita tra carnefice e vittima. E, appunto, anche brevi periodi di convivenza non possono portare a escludere il presupposto “familiare” quando il reato è addirittura commesso verso la madre - anche solo futura - del proprio figlio. Inoltre, risultava che la donna si recava regolarmente a trovare l’imputato quando questi trascorreva lunghi periodi presso la casa materna a causa di restrizione domiciliare. Ciò che appunto sostanzia l’esistenza di quel legame intimo tra due persone atto a creare quell’affidamento che viene violato proprio con la condotta maltrattante. Per quanto attiene poi al motivo difensivo che mirava a escludere l’aggravante di aver commesso il reato in presenza del figlio minore, la Cassazione spiega l’irrilevanza tanto dell’età del bambino quanto del fatto che “solo una volta” questi avrebbe assistito al comportamento maltrattante del padre verso la madre. Dice, infatti, la Cassazione che anche una volta è sufficiente a far scattare l’aggravante. Infine, sul punto della tenera età che secondo il ricorrente escluderebbe la percezione della violenza da parte del bambino, la Cassazione - rifacendosi anche agli approdi della più moderna neuropsichiatria infantile - afferma che anche se il piccolo non capisce cosa avvenga subisce comunque gli effetti e l’influenza negativa di un contesto violento. Stalking - Il ricorrente dopo la commissione dei maltrattamenti aveva anche agito in modo persecutorio verso la ormai ex (?) compagna e i genitori di lei che la ospitavano, al fine di poter far visita al figlio. La donna aveva poi ritirato la querela, ma il giudice e ora la Cassazione hanno affermato che il reato rimaneva comunque perseguibile d’ufficio, in quanto lo stalking era stato subito anche dal minore. E ciò determina il permanere dell’azione penale, poiché il reato commesso in danno di figure adulte se è connesso a quello aggravato, che vede vittima un minore, viene attratto alla procedibilità d’ufficio. Pavia. Il suicidio del trapper in cella non convince i pm di Eleonora Martini Il Manifesto, 16 marzo 2024 La Procura di Pavia ha aperto un’inchiesta sul suicidio di Jordan Tinti, il trapper 26enne di Bernareggio (Monza) conosciuto come Jordan Jeffrey Baby, trovato impiccato nella notte tra l’11 e il 12 marzo nella sua cella del carcere pavese Torre del Gallo, con a fianco una lettera per i familiari. Il reato ipotizzato nell’inchiesta coordinata dal pm Alberto Palermo è, al momento, di omicidio colposo a carico di ignoti, in attesa dei risultati dell’autopsia. Il padre del trapper ha sollevato per primo dubbi sul suicidio di Jordan Jeffrey Baby, che però aveva già tentato due volte di togliersi la vita (l’ultima volta nel febbraio 2023) e che era tornato da poco in carcere dopo alcuni mesi passati in una comunità terapeutica da cui era stato espulso per aver violato le regole interne. Secondo l’avvocato di famiglia Federico Edoardo Pisani, ci sarebbero “fondati dubbi che si sia trattato di un atto volontario, ci sono diverse anomalie”, motivo per il quale il legale intende depositare una querela per chiedere di indagare “ad ampio raggio” per verificare se si sia trattato “di un’istigazione al suicidio, di un omicidio colposo o in altra forma”. Certo è che il giovane, condannato in primo grado nel 2023 per rapina ai danni di un operaio nigeriano con l’aggravante dell’odio razziale, commessa insieme al trapper romano Traffik (accusa riqualificata in Appello in violenza privata), era recluso nella sezione protetti. Doppiamente controllato, perché recidivo nel tentativo di suicidio, e perché in preda da tempo ad una grave depressione aggravata dalla detenzione e da due presunti episodi di violenza su cui sono ancora aperte le indagini. A questo proposito, ieri si è aperto a Pavia il processo a Gianmarco Fagà, in arte Traffik, denunciato da J. J. Baby per maltrattamenti. Jordan Tinti aveva anche denunciato un altro detenuto per abusi sessuali, e il suo legale si è opposto alla richiesta di archiviazione da parte della procura. In questa situazione, come afferma l’avvocato Pisani, effettivamente prima di tutto “bisogna chiedersi perché Jordan era ancora in carcere a Pavia”. Un istituto, quello di Torre del Gallo, che è da tempo in emergenza per il sovraffollamento (giunto a febbraio al tasso di 126%, con 650 persone a fronte di 515 posti disponibili) e per la carenza di personale. E, come riferisce Antigone che lo ha visitato nell’ottobre scorso, alcuni reparti sono “infestati dalle cimici” e contengono molti detenuti con elevata “fragilità psichica”. Parma. Morto in carcere, preparato l’esposto. Il legale: “Un consulente per l’autopsia” di Pierpaolo Pierleoni Corriere Adriatico, 16 marzo 2024 Si attende l’autopsia sul corpo del giovane detenuto, suicida in cella mercoledì mattina al carcere di Parma. Il 28enne, residente a Monterubbiano, si è tolto la vita mentre era in una cella di isolamento da circa tre giorni per motivi disciplinari. Si tratta dell’ennesimo episodio di questo genere nelle strutture di detenzione e la famiglia, assistita dall’avvocato Caterina Ficiarà, chiede chiarezza. Il punto - “La salma resta a disposizione della Procura di Parma - nota il legale -: siamo in attesa che ci comunichino la data dell’esame autoptico, nomineremo un nostro consulente per assistere alla procedura. Ho ultimato la stesura di un esposto che presenterò nelle prossime ore alla magistratura, per fare piena luce sul caso”. Emerge tra l’altro che il giovane, già in una precedente detenzione, avesse palesato intenti suicidi. “Si tratta di un episodio avvenuto un paio di anni fa, quando si trovava in un altro istituto ed aveva manifestato la volontà di compiere un gesto di autolesionismo - spiega ancora l’avvocato -. Avevo segnalato i problemi di questo giovane. Sappiamo che dopo una lite era stato bloccato dalla polizia penitenziaria, poi spostato in isolamento. È necessario ricostruire nel dettaglio cosa sia accaduto e come sia stato possibile questo decesso”. La visita - Anche Roberto Cavalieri, garante per la Regione Emilia Romagna per i diritti dei detenuti, si è recato nel carcere di Parma e sta seguendo la vicenda. Il 28enne, di padre magrebino e madre italiana, aveva diversi precedenti penali e problemi di tossicodipendenza. Si trovava in carcere per una rapina consumata a maggio del 2023 a Civitanova ai danni di una donna: era stato rapidamente individuato e fermato dalle forze dell’ordine. Il suo è stato il ventiquattresimo suicidio di detenuti nelle carceri italiane dall’inizio del 2024, in una settimana nerissima che ha visto in appena 48 ore ben 4 decessi. Caserta. “Lavoro in Carcere”, incontro per combattere stereotipi, pregiudizi e disinformazione di Giuseppe Pagano edizionecaserta.net, 16 marzo 2024 Si è svolto ieri mattina presso il palazzo della Provincia di Caserta l’incontro “Lavoro in Carcere - gli stereotipi, i pregiudizi e la disinformazione” organizzato dall’ETS Generazione Libera insieme a Csv Assovoce Caserta, Associazione Italiana Giovani Avvocati (Aiga) sezione di Santa Maria Capua Vetere ed Acli Caserta con il patrocinio di Provincia di Caserta, Regione Campania, Garante dei Detenuti della Regione Campania e dall’Ordine degli Avvocati di Santa Maria Capua Vetere. L’evento ha visto la presenza di quattro realtà campane impegnate i progetti di lavoro e formazione dei detenuti, un tema di fondamentale importanza sia per combattere l’alienazione dell’ambiente carcere che per ridurre significativamente i tassi di recidività. La costruzione di nuove opportunità e di occasioni in grado di accrescere il livello di formazione dei detenuti sono, infatti, lo strumento migliore per evitare la ricaduta tra le file della criminalità di quanti lasciano il carcere dopo il periodo di detenzione. A discuterne sono stati Rosario Laudato, presidente dell’ETS Generazione Libera, Elena Pera, presidente Csv Assovoce Caserta, Sergio Carozza, presidente provinciale Acli Caserta, Rita Caprio, della Coop L’Uomo ed il Legno, Francesco Pascale, della Coop Terra Felix, Giuliana Tammelleo, presidente Aiga sezione di Santa Maria Capua Vetere, Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della regione Campania, e Carlo Brunetti, direttore del carcere di Carinola. I saluti istituzionali sono stati tenuti da Gianni Solino, direttore del Museo Provinciale Campano di Capua, in vece del presidente provinciale Giorgio Magliocca, e da Angela Del Vecchio, presidente dell’Ordine degli Avvocati di Santa Maria Capua Vetere. Al centro del dibattito si è posto il dualismo tra la diffidenza ed il pregiudizio che vivono i detenuti e l’esperienza che l’ETS Generazione Libera vive quotidianamente nel carcere di Carinola - attraverso il progetto “I faRinati”, un laboratorio di produzione di prodotti da forno di alta qualità - così come l’esperienza di produzione agricola vissuta presso la casa circondariale di Secondigliano dalla cooperativa L’Uomo e il Legno. “In Italia ci sono circa sessantamila detenuti, di questi solo il 30% lavora - ha dichiarato Rosario Laudato - e solo mille all’esterno delle carceri. Gli esempi virtuosi sono tutti al Nord, costruiti realizzando sinergie importanti tra Terzo Settore, istituzioni e case penitenziarie. In provincia di Caserta ci sono ben cinque carceri (Arienzo, Aversa, Carinola e due a Santa Maria Capua Vetere, militare e non) ai quali va aggiunto anche il centro semiresidenziale per minori (anch’esso a Santa Maria Capua Vetere). Tante case circondariali, tanti detenuti e tante occasioni da cogliere e far cogliere, soprattutto agli imprenditori che, con la Legge Smuraglia, possono godere di una serie di sgravi contributivi e fiscali assumendo detenuti in stato di reclusione o ammessi al lavoro all’esterno. Ma c’è anche tanto da fare per sostenere i progetti già in atto”. “Conosciamo bene i problemi delle carceri che l’Europa continua a sottolinearci - ha commentato il garante Samuele Ciambriello - come il sovraffollamento ed il delicatissimo problema dei suicidi, i quali hanno anche incidenza sul personale penitenziario. Dobbiamo pensare agli istituti di pena sempre più come comunità ed aiutarli a costruire relazioni sia interne che esterne per facilitare progetti di lavoro e permettere la circolarità dei prodotti realizzati dietro le sbarre. È, altresì, necessario creare rete tra queste realtà costruendo anche una filiera virtuosa tra produttori della materia prima e trasformatori finali, sempre nelle carceri”. “Il lavoro è un elemento imprescindibile dell’impegno educativo rivolto ai detenuti - ha concluso il direttore Carlo Brunetti - e precisato sia nell’art.27 della Costituzione che nella Riforma Penitenziaria del 1975. Ci sono tanti esempi virtuosi, che includono anche realtà formative e scolastiche, ma, purtroppo, ci vuole tempo per passare dalle parole ai fatti, spesso troppo tempo. Questo non vuol dire che le cose non possono cambiare ma, al momento, è necessario lavorare sui territori. Per combattere i pregiudizi è necessario comunicare e sensibilizzare, a partire dal Terzo Settore e dal mondo dell’impresa del territorio”. Milano. Supporto psicologico gratis per i bambini che vanno a trovare i genitori in carcere milanotoday.it, 16 marzo 2024 L’iniziativa di un’associazione insieme al Tribunale di Milano. Dare ai figli dei detenuti un supporto gratuito per affrontare il primo ingresso in carcere, per fare visita ai genitori. È il contenuto di un’intesa che verrà firmata nei prossimi giorni dal Tribunale di Milano e dall’associazione Bambini senza sbarre. È il Tribunale, infatti, il soggetto che rilascia l’autorizzazione ad accedere al carcere per fare visita ai familiari. Sulla base dell’intesa, il Tribunale dovrà informare le famiglie che possono accedere a servizi di supporto, senza oneri economici, per essere accompagnate, in particolare, ad affrontare il primo ingresso dei bambini negli istituti di pena, in occasione della visita a un genitore detenuto. È la prima volta in Italia che un protocollo del genere viene proposto. L’obiettivo è di applicare pienamente la ‘Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti’, adottata 10 anni fa, che stabilisce le linee guida sull’accoglienza delle decine di migliaia di bambini che, ogni giorno, entrano nelle carceri per mantenere il legame con i genitori detenuti. I percorsi specialistici di consulenza e accompagnamento sono forniti (gratuitamente) dall’associazione Bambini senza sbarre, attraverso il cosiddetto ‘Telefono Giallo’ (392.9938324) o via mail (telefonogiallo@bambinisenzasbarre.org). “La famiglia - affermano i promotori - deve sapere che può avere sostegno psicologico e informativo per prepararsi al primo colloquio e affrontare il periodo di carcerazione del genitore con un accompagnamento da parte di operatori preparati”. L’obiettivo è “diminuire il senso di disorientamento e l’ansia generati dall’improvvisa separazione dal genitore arrestato e dall’impatto col carcere”. Massa Carrara. “Passaggi”, il teatro oltre le sbarre. I detenuti sul palco degli Animosi di Daniele Rosi La Nazione, 16 marzo 2024 Il Comune ha organizzato un festival con le associazioni Experia ed Empatheatre che lavorano nelle carceri. Gea Dazzi: “Un modo per sensibilizzare sul rispetto dei diritti umani e per conoscere la casa di reclusione”. Comincia dagli Animosi la prima edizione del festival di teatro in carcere ‘Passaggi’. L’iniziativa, per incentivare la cultura dell’accoglienza e il riconoscimento di ognuno in quanto essere umano, offre spettacoli teatrali che vedono protagonisti detenuti delle carceri toscane. Il progetto è organizzato dal Comune di Carrara in collaborazione con Experia ed Empatheatre: due compagnie con 13 anni di esperienza che realizzano laboratori teatrali nelle case di reclusione di Massa, Lucca e San Gimignano, oltre a numerose attività collaterali denominate ‘Fuori e dentro le mura’ che prevedono eventi in teatri, sedi istituzionali e scuole. Il festival gode della partecipazione della compagnia ‘Oltre la Tempesta’ del carcere di Massa più le compagnie ‘Talibè Teatro’ di San Gimignano, ‘MetroPopolare’ di Prato, e compagnia gli ‘Scarti’. Ideatori Donatella Bennati, Giulia Tonelli, Alessandro Bianchi, Umberto Moisè e Claudia Volpi. “Si tratta di un mini festival per aprire il nostro teatro ad esperienze di teatro sociale - ha spiegato l’assessore alla Cultura Gea Dazzi -: riteniamo sia un’opportunità per sensibilizzare sul rispetto dei diritti umani, oltre che conoscere meglio i progetti e le condizioni di vita del nostro carcere”. Saranno due le giornate di festival: la mattina di venerdì 12 aprile agli Animosi si inizia con lo spettacolo riservato alle scuole ‘Ali’ con la regia e rielaborazione di Alessandro J. Bianchi. Al termine incontro con la compagnia Talibè. Sabato 13 aprile alle 21 un doppio spettacolo agli Animosi: prima la replica serale di ‘Ali’ e poi ‘It’s just a game’ per la regia di Livia Gionfrida. Sempre il 13 aprile, alle 16.30, nel ridotto degli Animosi, Carlo Mazzerbo, ex direttore del carcere della Gorgona, presenterà il libro dal titolo ‘Ne vale la pena’ edito da Nutrimenti. Previsto inoltre uno spettacolo interno al carcere di Massa riservato alle famiglie il 17 marzo. “Il teatro è qualcosa che raccoglie e crea riflessione - ha spiegato il direttore artistico Alessandro Bianchi - e tengo a precisare che non si tratta della ricerca di facili applausi o retorica, perché vi assicuro che c’è molto lavoro di preparazione, perfezionamento e studio da parte dei detenuti, che hanno quindi tutto il diritto di poter stare su un palcoscenico e mostrare le loro capacità”. Per la prevendita la biglietteria degli Animosi sarà aperta venerdì 5 e sabato 6 aprile dalle 10 alle 12.30 e dalle 17 alle 18.30. Domenica 7 aprile dalle 10 alle 13 e dalle 18 alle 21, infine sabato 13 aprile dalle 18. Un memoir militante dagli anni Settanta indaga il nodo drammatico della violenza recensione di Alessandro Barile Il Manifesto, 16 marzo 2024 “Ricordi a piede libero” di Gianfranco Pancino, per Mimesis. Gianfranco Pancino ha avuto la sorte di vivere molte vite: militante politico e poi latitante, esiliato in Messico e poi in Francia, ricercatore di prestigio e infine parte dell’equipe di lavoro di Françoise Barré-Sinoussi - Nobel per la medicina 2008. Proprio nel 2008, Pancino è potuto tornare in Italia da uomo libero, 31 anni dopo i processi del 7 aprile 1979. Oggi possiamo leggere della sua vita nei Ricordi a piede libero (Mimesis, pp. 468, euro 28). Sono memorie sofferte - quelle di una vita in fuga. Eppure, sono anche storie di vita intensa. Il 900, accanto ai suoi orrori, è stato anche questo. Il secolo in cui un giovane laureato avviato alla carriera medica abbandona la professione e sceglie la rivolta, senza rimorsi. Prima a Marghera, poi a Milano, dove l’ala operaista di Negri si trova a riorganizzare una presenza politica dopo la crisi di Potere operaio (maggio ‘73). Pancino non segue i “romani” (Piperno e Scalzone), convinto della necessità di fondersi con il movimento operaio - in quella fase al suo apice - piuttosto che irrigidirsi in una soluzione partitica leninista. A Milano, però, per Negri e compagni si tratta di riorganizzarsi daccapo. Ci provano con Controinformazione rivista “coordinata” con le Br. La cosa non dura. Nella tarda primavera incrociano il Gruppo Gramsci, nato a Varese ma ben presente nelle fabbriche milanesi. Soprattutto, il collettivo pubblica da poco una rivista - Rosso - che diviene lo strumento attraverso cui si coagula l’area dell’autonomia milanese, di cui Pancino sarà uno dei dirigenti fino al ‘77 - anno in cui verrà raggiunto da diversi mandati di cattura e sarà costretto alla latitanza. Due anni di clandestinità in Italia, poi l’espatrio in Messico. La rete di solidarietà politica, anche dall’altra parte del mondo, lo aiuta a ricostruirsi una vita dignitosa. Nel 1982 - grazie alle garanzie mitterrandiane - lui e famiglia tornano in Europa, in Francia. Qui Pancino non è più solo, c’è una comunità di esiliati italiani e una vasta rete di solidarietà politica francese ad alleviare le pene dell’irregolarità amministrativa ed economica. Pancino ricomincia da capo. Fino al “lieto fine” accademico - nel ‘95 è nominato direttore di ricerca presso l’Istituto nazionale di sanità e ricerca medica a Parigi. Sono dunque memorie drammatiche, ma non reticenti. Il tema della violenza politica è affrontato con equilibrio. Il ‘73 è l’anno in cui tutte le forze del movimento operaio, dal Pci all’estrema sinistra, si convincono dell’impossibilità di raggiungere il potere politico in una condizione di legalità. Lo stallo rafforza, nel Pci, la soluzione del “compromesso storico” - già avanzata da Berlinguer nell’autunno del ‘72; nell’estrema sinistra il dibattito spinge verso le varie declinazioni armate. L’autore giudica oggi “impraticabile” quella soluzione. Eppure, indica ancora Pancino, tra il ‘73 e il ‘78 si è avuta una continua escalation di partecipazione e violenza che obbligava alla presa d’atto, se non di una possibilità reale, di una disponibilità effettiva di un pezzo di proletariato urbano ad un qualche tentativo rivoluzionario. Un progetto “anomalo”, lo definisce giustamente Pancino, perché non guidato “da un partito né da un Lenin o un Mao” in grado di tenere le fila. La storiografia ci svela l’illusione collettiva, e va bene. Ma per completare il quadro, una testimonianza come quella di Pancino è ancora utile, come fonte, come interpretazione e anche, perché no, come esempio. Flussi migratori, paure e muri che l’economia non giustifica di Emiliano Brancaccio Il Manifesto, 16 marzo 2024 Se ci chiedessero di menzionare il sentimento politico più potente della nostra epoca, nostro malgrado probabilmente citeremmo il terrore collettivo suscitato dagli immigrati. La diffusione di questa paura è tale da aver determinato uno dei mutamenti politici più visibili di questo secolo: una stretta progressiva all’immigrazione regolare. L’indice Demig, a cura dell’International Migration Institute di Amsterdam, segnala sempre più ricorrenti restrizioni nelle politiche migratorie. Dal 2008, dei 36 paesi appartenenti all’Ocse ben 32 hanno irrigidito le procedure di immigrazione legale: tra questi c’è l’Italia, assieme a Francia, Germania, Regno unito, Stati uniti e altri. Eppure, quanto già fatto non sembra bastare. La destra reazionaria insiste con i vincoli burocratici, i muri di filo spinato e i blocchi navali. E anche tra i partiti cosiddetti liberali si avverte uno spostamento sempre più accentuato verso le politiche anti-immigrazione. Se a giugno liberali e reazionari raggiungeranno un’intesa sul governo europeo, sarà certamente intorno a una lotta ancor più serrata contro lo straniero entrante. Per le sinistre si tratta invece del tema più spinoso, quello su cui è più facile perdere consensi. Uno dei motivi è che la paura degli immigrati ha fatto breccia anche tra le lavoratrici e i lavoratori nativi. Gli immigrati sono infatti visti come una minaccia “economica”, che accresce l’esercito di disoccupati, spinge verso condizioni di lavoro peggiori e salari più bassi, crea pressione sugli affitti, e così via. Queste tesi appaiono ormai talmente consolidate che non mancano sedicenti leader “di sinistra” pronti a incorporarle nei loro programmi. Le cose, tuttavia, stanno davvero in questi termini? La ricerca scientifica prevalente dice di no. Nei contributi del premio Nobel David Card e di altri esperti in tema, la tesi che l’immigrazione deteriori le condizioni di vita dei lavoratori nativi trova crescenti smentite. I dati indicano che i migranti si recano soprattutto lì dove c’è una forte esigenza di manodopera da parte delle imprese, il che spiega per quale ragione il loro arrivo non risulta correlato a una crescita della disoccupazione. Questo significa pure che gli immigrati vanno soprattutto dove la pressione sui salari non è al ribasso ma al rialzo, il che aiuta a capire perché nemmeno l’idea che l’immigrazione riduca le retribuzioni trova riscontri empirici adeguati. Persino George Borjas - l’economista che venne citato da Donald Trump per difendere il muro di separazione col Messico - porta risultati tutt’altro che univoci, molti dei quali segnalano che l’immigrazione può esser correlata a crescita e benessere dei lavoratori nativi. Insomma, se guardiamo i dati scopriamo che le politiche di respingimento dei migranti, giustificate con l’intenzione di difendere le condizioni economiche dei nativi, non sono supportate dall’evidenza scientifica. C’è invece una diversa evidenza che emerge chiaramente dalle ricerche in materia. È quella secondo cui i danni principali alla classe lavoratrice non provengono dai flussi migratori di persone ma derivano piuttosto dai flussi internazionali di capitali. I veri guai, cioè, vengono dal fatto che l’attuale libertà di circolazione dei capitali consente ai grandi possessori di ricchezza di spostare a piacimento i loro denari da un luogo all’altro del mondo, alla continua ricerca di alti profitti, bassi salari e nuove opportunità di sfruttamento del lavoro. Altro che minaccia migratoria, dunque. Il vero problema, come sempre, sta dal lato del capitale e delle sue scorribande. Anziché inseguire le destre sull’arresto dei migranti, allora, le sinistre potrebbero recuperare la bandiera alternativa dell’arresto dei movimenti internazionali di capitali. Per adesso, tuttavia, di questa opzione non si parla. Le destre continuano a prosperare agitando il mistificante spauracchio dell’immigrazione, mentre sui veri guasti del capitale resta la congiura del silenzio. La cittadinanza negata. Così vengono respinte le richieste dei migranti che hanno partecipato a proteste e manifestazioni di Gaetano De Monte e Marika Ikonomu Il Domani, 16 marzo 2024 Basta una segnalazione della Digos e dei servizi, senza reati, per respingere la richiesta di un cittadino straniero. In tre anni sono 600 coloro che sono stati considerati “potenzialmente pericolosi”. Ma non si sa il perché. Urlare “viva l’Italia antifascista!” non è reato. Anzi, l’antifascismo è un valore protetto dalla Costituzione, così come protestare per quello che le istituzioni non stanno facendo per il clima. Al Festival della letteratura di Mantova, un attivista climatico aveva esposto un cartello con la scritta “ma non sentite il caldo?”. Tra gli sponsor c’era Eni. In entrambi i casi il dissenso politico è stato criminalizzato e le persone sono state identificate. Le informazioni raccolte sono confluite nella banca dati SdI del ministero dell’Interno. In assenza di motivi validi e comunicati, però, c’è il rischio che si affermi una forma arbitraria di schedatura. E che chi sta esercitando la libera manifestazione del proprio pensiero venga trattato come un soggetto pericoloso, un sovversivo. Non sfugge che le conseguenze di questa nuova “prassi” possano essere ben peggiori per chi non è cittadino italiano e si ritrova a presentare alla pubblica amministrazione la richiesta di cittadinanza. Un “mero sospetto” può infatti portare a un diniego. “Dall’istruttoria sono emersi elementi che non consentono di escludere possibili pericoli per la sicurezza della Repubblica e per tale motivo ostativo alla concessione della cittadinanza”. Con queste poche parole, tre righe senza nessun’altra spiegazione, solo un semplice sospetto, il ministero dell’Interno, negli ultimi tre anni, ha rigettato le domande di cittadinanza di centinaia di cittadini stranieri che avevano tutto il diritto di acquisirla. E lo ha fatto senza che queste persone avessero mai commesso un reato, fossero mai state indagate o imputate in un procedimento penale, dunque, senza che avessero una macchia sul proprio casellario giudiziario. Punire il dissenso - È il caso, per esempio, di un uomo di 31 anni che è nato in Marocco ma vive da 15 anni a Verona. Karim (nome di fantasia) ha chiesto di rimanere anonimo per proteggere la sua identità e il suo ricorso contro il diniego della cittadinanza. Nella città scaligera è molto conosciuto e stimato, soprattutto nel mondo universitario e dell’associazionismo dove opera da tempo come volontario e operatore. Fa parte del Laboratorio autogestito Paratodos, uno degli spazi sociali più grandi di Verona che svolge diverse attività di carattere sociale, come la scuola di italiano, lo sportello sociale, corsi ed eventi culturali. Ma anche un importante luogo di critica e politica dal basso, attraverso l’organizzazione di manifestazioni di piazza. Sul piano lavorativo e sociale, professori universitari, dipendenti dell’azienda ospedaliera della città, assessori e consiglieri del comune hanno raccontato che l’approccio di Karim è quello di apertura e collaborazione, capace di avvicinare culture diverse, di costruire ponti. Una professoressa dell’università di Siena, che conosce il suo lavoro, ha sottolineato la sua capacità di confronto pacifico, altruismo e senso civico, definendolo “un giovane uomo che sta rendendo l’Italia un paese migliore”. Non ha precedenti, né procedimenti penali in corso e non ha mai commesso reati. Ma il ministero dell’Interno su di lui nutre un sospetto, e Karim l’ha scoperto quando gli è stata notificata una comunicazione secondo cui vi sarebbero “elementi che non consentono di escludere possibili pericoli per la sicurezza della Repubblica” che, ovviamente, costituiscono un ostacolo alla concessione della cittadinanza. In situazioni analoghe alla sua, alla base della decisione c’era un rapporto delle forze dell’ordine. Per questo l’uomo ipotizza di essere stato attenzionato dalla divisione locale, per la frequentazione e partecipazione alle attività del centro sociale e per il suo impegno da attivista sul territorio in favore dei più deboli. Già, perché queste storie sembrano essere un passo oltre la criminalizzazione del dissenso attraverso l’identificazione nelle banche dati della polizia di cui questo giornale ha già dato conto. Cittadino modello - Karim ha raccontato a Domani di aver presentato la domanda di cittadinanza per naturalizzazione, avendone i requisiti, nel febbraio 2019. L’uomo è arrivato in Italia con la famiglia nel 2008, quando aveva 15 anni, e ha ottenuto prima un diploma di scuola superiore e poi la laurea nel 2021. Nel frattempo ha partecipato attivamente a progetti formativi all’interno dell’istituto, ed è stato rappresentante della sua scuola all’Expo di Milano, alla presenza delle più alte cariche dello stato. Insomma, siamo di fronte a un “cittadino modello” che ha intrecciato, negli anni in cui ha vissuto in Italia, molteplici relazioni sia professionali, con associazioni del terzo settore, università e istituzioni pubbliche locali, sia personali, aiutando persone in difficoltà. “In quanto ragazzo, diciamo così, di seconda generazione è come se non avessi il diritto al dissenso, alla critica e alla partecipazione politica. In generale alla conoscenza del mondo che mi circonda”, racconta Karim. “Si preferisce una persona che vive una vita casa e lavoro, non esce e non partecipa”, continua, “invece di considerare un cittadino modello chi prende parte alla vita politica”. I suoi avvocati, che hanno presentato ricorso al Tar, fanno notare come sia già membro attivo della società civile italiana e come quotidianamente dia corpo ai valori della Costituzione. Il tribunale amministrativo avrà quattro anni di tempo per decidere. Al di sopra di ogni sospetto - Eppure, per il ministero dell’Interno che ha valutato e firmato il rigetto della domanda di cittadinanza, l’uomo è considerato potenzialmente pericoloso. Secondo il dicastero, “gli elementi ostativi provengono da organismi istituzionalmente preposti a operare per la sicurezza dello stato, riconducibili a fonti affidabili di cui non è dato dubitare, e quindi, non risulta possibile esplicitare ulteriormente i suddetti elementi ostativi”. E ancora, i funzionari del Viminale ritengono che “la verifica della sussistenza di motivi inerenti alla sicurezza della Repubblica non si riduce all’accertamento di fatti penalmente rilevanti ma si estende all’area della prevenzione dei reati”. Detto in altri termini: per vedersi respinta la domanda di cittadinanza basta un semplice sospetto dell’intelligence, non è necessario aver commesso alcun reato. Basta essere stato citato in un report durante una manifestazione o fare parte di un movimento di contestazione, anche senza denunce o formali identificazioni. Informative non conoscibili dall’interessato. “L’ho vissuta come un’intimidazione”, commenta Karim, “ma ho continuato a far parte del movimento”. Nonostante il ricorso, poi, i suoi legali non hanno avuto alcun dettaglio sulle accuse mosse, dato che questo genere di atti è secretato. L’avvocato non può quindi ricevere altra indicazione utile per sapere le motivazioni del diniego e così difenderlo come la legge prevede. Non solo. La difesa dell’uomo, pur riconoscendo l’ampia discrezionalità del ministero dell’Interno in materia, ha evidenziato che la discrezionalità non può giustificare “l’assenza di un minimo di contenuto motivazionale”. La decisione sulla base del mero sospetto, sottolineano gli avvocati, non può degenerare in libero arbitrio: non spiegare con rigore le ragioni significa non consentire alla persona di difendersi. Il ministero dell’Interno non ha risposto alle richieste di commento inviate via mail da Domani. Non sono casi isolati - Secondo quanto emerso da un accesso agli atti presentato dall’Associazione studi giuridici sull’immigrazione, “il numero di istanze rigettate sulla base di ragioni inerenti alla sicurezza della Repubblica era di 233 nel 2020, 169 nel 2021 e 218 nel 2022”. Per il 2023 il dato ancora non è disponibile, ma è possibile ipotizzare che segua la tendenza. L’autorità giudiziaria avrebbe il compito di vigilare sul potere discrezionale della pubblica amministrazione ma di fatto non entra nel merito, limitandosi a verificare la coerenza della spiegazione data dalla Digos da un punto di vista logico. Di solito sono poche righe di motivazione, molto generiche, e gli avvocati non solo non possono fare una copia degli atti di indagine - possono solo trascrivere sotto gli occhi dell’autorità - ma non hanno nemmeno la possibilità di opporre un’eccezione oltre la manifesta illogicità. “Sono evidentemente valutazioni funzionali a una politica di prevenzione che, svincolandosi dalla commissione di un fatto concreto, resta facilmente in balìa di pregiudizi razziali e valutazioni politiche”, dicono i legali. Resta il fatto che da questi sospetti è impossibile difendersi, proprio per il carattere discrezionale dei provvedimenti in materia di cittadinanza che sono affidati alla decisione esclusiva del ministero dell’Interno. Migranti. Così abbiamo strappato al mare e ai libici altri 227 disperati, ma per Roma sono degli invasori di Angela Nocioni L’Unità, 16 marzo 2024 Ci imbattiamo in un gommone pieno zeppo: ci sono 88 persone, 24 sono bimbi. Alzano le mani, piangono e salutano. Hanno la pelle bruciata dal sole e dal carburante. Li trasciniamo a bordo appena prima che i miliziani libici possano catturarli e portarli nei lager. Seduto accanto alla mamma vede il bordo verde del gommone, il verde si alza e si abbassa sulle onde. Stira il collo verso l’alto, per guardare. Ovunque giri lo sguardo vede il mare. Un mare che non finisce mai. Sempre tutto uguale. Da tante ore è tutto uguale. Cambiano solo i colori, dell’acqua, del cielo, del giorno e della notte. Il giorno abbaglia, affatica. La notte gela, spaventa. All’orizzonte spunta una cosa rossa. Una nave. Avvicinandosi il rosso diventa sempre più grande. *** Dal radar del ponte di comando si vede un tassello in mezzo al mare. Binocoli: un cespuglio di teste nere con uno pneumatico issato su un bastone, non si vede il colore: “rubber boat” stracarica con persone a cavalcioni sui tubolari, il passaggio che costa meno, il biglietto di terza classe della traversata dalla Libia alla Sicilia. Allarme via radio: “Ready for rescue, ready for rescue” la voce dal ponte di comando, “pronti al soccorso”. Tre minuti e i soccorritori sono seduti sui gommoni, retti da un cavo di ferro, a 4 metri dal mare fuori dallo scafo della nave. Battute dell’equipaggio sospeso per aria. - Cosa aspettiamo? - Che l’Italia ci autorizzi a non lasciare morire persone in mare. - E se ci non autorizza ci andiamo a preparare un caffè mentre affogano? “Ok, let’s go” via radio. Il pilota parte veloce sulle onde basse. Sono le nove di mattina, il mare è calmo. Eccoli. Gambe nere penzolanti, una selva di mani alzate, bambini piccoli stretti a prua: sono 24 bambini. Il gommone è verde ma il verde non si vede, è lungo 8 metri e loro sono 88. Forte odore di benzina. Ci avviciniamo piano, si alzano in piedi: “No, giù”. Nessuno si siede. Un uomo saluta il cielo e piange. Una ragazza con una bambina piccolissima la alza sulle braccia, ha una felpa chiara, grida per mostrarcela in alto tra le sue mani sopra alle teste degli altri. Avrà 10 mesi. Vedere un naufrago tra le onde è un’allucinazione, un’immagine a tentoni, una visione a metà, qualcosa che non può essere, che il cervello si rifiuta di elaborare. C’è un tempo di reazione, un lungo istante di irrealtà. Un interprete è già in piedi a prua: “Non saltate”. Quelli a cavalcioni si sporgono con le braccia in acqua come per lanciarsi verso di noi. Altri si muovono con più prudenza, ma sempre in piedi, instancabili, come se la vista dello scafo li caricasse di una energia inesauribile. Una donna a prua piange, stringe un fagottino coperto con una sciarpa a righe, lo bacia sulla fronte e piange. Passiamo giubbotti di salvataggio. Una selva di mani tese. Una ragazza nascosta da un cappuccio viola ha un bambino piccolo in mano, non parla, nessuno le passa i salvagente. Un urlo dell’interprete “dallo a lei o ce ne andiamo”. Un giubbotto a lei, uno piccolo al bambino. Gli occhi le si accendono di gioia, di una gratitudine che ferisce. Uno a uno, sorretti da un ragazzo algerino e da un francese saltano dal loro gommone al nostro. Non riescono a fare lo scalino, cadono tutti di spalle tranne i bambini, li spingo a poppa. Puzzano di carburante, i più piccoli hanno il viso pieno di sale, sono fradici. Voce via radio dal ponte di comando “Visitors are coming in 3 minuts”. La guardia libica a tre minuti di distanza. Non bastano tre minuti per far saltare 80 persone una a una. Ci accostiamo, i soccorritori trascinano di peso i più grossi nel tender vuoto allacciato al nostro. “Visitors are coming in 2 minuts”. Quando la motovedetta della Guardia costiera libica arriva, i naufraghi sono tutti dentro i nostri gommoni ma ancora lontano dalla Ocean Viking, che ferma laggiù aspetta. Tengo stretto un bambino piccolissimo senza salvagente che si divincola, piange, chiama: “maman maman”. La mamma sta oltre trenta teste, non glielo posso passare. Due più grandi ubbidientissimi restano immobili, afferrati con una mano alla cima nera fuori bordo. Quello col cappuccio blu trema. “No foto, no cellulari”. Ai miliziani non piace essere fotografati. Non succede nulla, la motovedetta non spara, non gira intorno ai tender, non si mette in mezzo tra i tender carichi di naufraghi e la nave, ci punta con la prua, si avvicina ma non crea incidenti. Fa un giro largo intorno e se ne va. Sul ponte di coperta della Ocean Viking, due ore dopo, Mohammed, 5 anni, si tira l’elastico dei pantaloni, non sa come chiedere. Lo accompagno davanti alla porta dei bagni di coperta, mi fa cenno spaventato di seguirlo a poppa. Con la mano indica una macchiolina grigia piccola sul filo dell’orizzonte: “Madame, la gard”. Riconosce il profilo delle motovedette libiche, ha paura che tornino a prenderlo. *** Cielo stellato, un filo di luna arancio bassa sull’orizzonte, il buio interrotto da una lunga fila di luci. Sono barche di pescatori, in fila sembrano una città costiera illuminata. Nel nero del mare compare una barchetta che sembra di carta. Solo teste fitte fitte, corpi che sporgono da ogni lato dello scafo e si reggono con una catena di braccia infilate nell’arancio fluorescente dei giubbotti galleggianti. Sono 114 persone, 112 adulti e due bambini, uno piccolissimo, in uno scafo di legno lungo 7 metri. È un double deck, una barchetta a doppio strato fatta di pallet, sotto coperta i più poveri. Sono afghani, siriani, pakistani. Sono pieni di pacchi e pacchetti, borse e zainetti. C’è un siriano bianco, occhi verdi, faccia medioevale. Una donna anziana con un lungo velo nero fradicio di carburante e acqua salata ha perso in mare una borsa blu. Con i documenti. Il pilota la tira su col mezzo marinaio prima che affondi. Sorridono, portano la mano sul cuore. Un afghano, magro magro, prega. Sono tutti disidratati, intossicati di carburante, non ci sono emergenze. La Golden hour questa volta dura poco. L’Ora d’oro è sulla Ocean Viking la grande bolla di protezione che si chiude attorno ai naufraghi appena salvati e portati a bordo perché lentamente riemergano, perché si rendano conto di essere vivi, in salvo. *** L’atmosfera in coperta la mattina dopo è quasi allegra. I più giovani fumano a poppa, sono felici di farsi la doccia, si scattano fotografie col cellulare. Il container d’argento, il più piccolo, rimane socchiuso. Lì stanno i 23 ragazzini soccorsi mercoledì mattina, dopo dieci giorni in balia delle onde, forse sette, non ricordano. Erano cento, hanno visto morire uno a uno chi la madre, chi il fratello, hanno vegliato i cadaveri e li hanno dovuti lanciare in mare. Sono sotto choc, rintanati in uno stato di irrealtà. “Un altro giorno alla deriva e sarebbero morti anche loro”. Uno di dodici anni continua a chiedere dov’è sua sorella, dice che era accanto a lui e non la trova. Un uomo del Senegal viaggiava con il figlio di un anno e la moglie. “Stavamo da due anni in Libia. Sono partito con loro. Lui è morto il primo giorno senza acqua, lei quattro giorni dopo”, dice. Uno dei medici: “Hanno bevuto solo sorsi di acqua salata e non mangiavano da più di una settimana”. Il mare l’aveva quasi uccisi, era un’acqua verde spessa ormai come vernice dentro gli occhi, nei polmoni. Dodici di loro sono adolescenti, hanno visto un elicottero volare per giorni sulle loro teste e guardarli morire, uno a uno, dall’alto. Non c’erano navi di soccorso a salvarli perché un decreto incostituzionale del governo italiano - della cui illegittimità si è accennato a discutere ieri al tribunale di Bari in un’udienza di un processo contro la Ocean Viking - sequestra per venti giorni la nave delle ong che non lascia deportare i naufraghi in Libia. *** Nel piccolo container d’argento l’unico ragazzino non nascosto sotto la coperta si alza solo per pregare. Ha lo sguardo interamente triste. C’è la tua mamma? “No”. C’è tuo padre? “No”. Sei partito da solo? “Sì”. Non c’è qui un tuo amico? “È morto”. Nella barca? “No, in Libia. Nella barca dopo, tanti tanti, tanti, tutti morti, piccoli, morti”. Nessuna nave li ha visti, nessuno li ha salvati. Niente croci. Non sono morti in pace. Sono morti implorando un aiuto che non gli abbiamo dato. Tajani: “Nessuno nella Nato parla di intervento diretto in Ucraina, si rischierebbe la guerra nucleare” di Paola Di Caro Corriere della Sera, 16 marzo 2024 Il ministro degli Esteri. Chiara la posizione del governo italiano: con Kiev, ma non in guerra con Mosca. E al G7 si vaglieranno tutti gli scenari. La nostra posizione, quella del governo italiano, è “chiarissima”, e per Antonio Tajani non può assolutamente essere messa in discussione: “Siamo dalla parte dell’Ucraina fin dal primo momento. Lo siamo dal punto di vista finanziario, economico in vista della ricostruzione, progettuale come testimonia l’accordo per Odessa, materiale e anche militare. Ma non siamo in guerra con la Russia. Non lo siamo mai stati”. E questo significa, secondo il ministro degli Esteri e segretario di FI, che non è previsto “alcun intervento diretto dei nostri militari in quel conflitto, con carrarmati, aerei o uomini. Non se ne è mai parlato in ambito Nato e non capiamo perché oggi si debba evocare uno scenario del genere, che avrebbe conseguenze pericolosissime, anche una terza guerra mondiale”. Cosa vuol dire che non siamo in guerra? Il conflitto esiste, e noi siamo schierati... “Certo, siamo schierati in aiuto di un paese aggredito, in violazione di ogni regola internazionale, ed è un paese alle porte dell’Europa. Ma il nostro obiettivo è ottenere la pace, non allargare la guerra. Per questo aiutiamo l’Ucraina a resistere, per questo non resteranno soli, per arrivare ad una fine delle ostilità senza che uno Stato abbia occupato l’altro. Ma non ha a che fare, lo scandisco, con un nostro intervento diretto”. È una posizione dell’Italia o è condivisa dagli alleati? “È assolutamente condivisa da tutti direi, nessuno in ambito Nato ha mai parlato di intervento diretto, sappiamo bene quali conseguenze potrebbe avere un conflitto che rischierebbe di sfociare in nucleare. Dico di più: anche nella stessa Nato è stato deciso che l’Ucraina potrà entrare a farne parte solo dopo la fine del conflitto, perché se l’ingresso fosse immediato saremmo costretti ad intervenire a difesa di un paese dell’alleanza attaccato”. Però Macron evoca la possibilità di un intervento diretto. Perché lo fa? “Non capisco, non so se ad incidere sia la campagna elettorale, che influenza l’atteggiamento di tanti leader alla prova del voto. Magari vuole evidenziare le differenze con partiti filorussi come quello della Le Pen. Ma noi siamo su tutt’altra posizione”. Se però l’Ucraina cedesse, se fosse invasa, è vero che la Russia sarebbe alle porte dell’Europa... “Ma per questo noi siamo pronti ad ogni aiuto e non tentenniamo. Ne parleremo già ad aprile al G7 dei ministri degli Esteri e poi a quello dei leader a giugno dopo le Europee. È un tema cruciale. Anche per arrivare ad una pace, e speriamo che Paesi come Iran e Cina non rafforzino la Russia con armamenti ed aiuti, perché è un pericolo enorme per tutto il mondo che la guerra abbia esiti infausti”. Quindi l’Italia è pronta a dare più aiuti militari ma non uomini o mezzi per interventi diretti? “Anche di questo si parlerà in ambito G7, Nato ed europeo. E una cosa è certa: diventa sempre più urgente coordinare, rafforzare, unire l’Europa in una difesa comune. Perché quando Trump dice che l’America non penserà più a difendere tutti, tocca un tema delicato. Noi come Ue dobbiamo avere una forza autonoma, non perché siamo militaristi, ma perché “si vis pacem, para bellum”. La storia ce lo insegna. Avere forze armate forti è un deterrente alla guerra”. Ma l’Italia non dà nemmeno il 2% del Pil che dovrebbe come contributo alla Nato... Pensate per caso a una nuova leva obbligatoria? “Assolutamente no. È vero che il nostro esercito ha un’età media piuttosto alta, ma certo non si risolve il problema con una leva a cui nessuno ha mai pensato. Sul 2%, va anche considerato quanto un Paese spende per le tante missioni in cui è impegnato: noi lo siamo in Libano, in Mar Rosso con la missione Aspides difensiva ma strutturata, nei Balcani, in Africa, siamo su tanti fronti, questi sono costi che vanno considerati”. Libano. Le loro prigioni di Valeria Rando Il Manifesto, 16 marzo 2024 Paralisi giuridica, sovraffollamento e rischio di fame: come incide la crisi economica nella vita dei detenuti del paese mediterraneo. La prima volta che ha fumato una Cedars (nota marca di sigarette libanesi), Ahmad era in carcere, in una cella sovraffollata della prigione di Tripoli (città del nord del Libano ndr). Quattro giorni di sentenza nel 2021 “per la sola ragione di essere siriano,” dice e non avere i documenti in regola. Al terzo giorno, incapace di dormire, si è steso sul pavimento dei bagni comuni, e finalmente ha goduto di un po’ di spazio per sé, per il suo corpo magro. “Con i muscoli non rilassati per settantadue ore, in cella era impossibile chiudere occhio.” Venti persone in una stanza di pochi metri quadrati, accovacciati o in piedi, senza aria né luce ad eccezione della piccola, unica finestrella sbarrata sulla porta, da cui le guardie facevano passare i beni provvisti dai famigliari. Ma lui non aveva famiglia, non qui almeno. Nessuno che gli procurasse le sigarette che era solito fumare. “Capitava che un unico sandwich venisse passato dalla finestrella, ricevuto dalla cura di una madre, di una moglie o chessoio. E allora, senza sapere da chi fosse stato portato, a uno a uno ce lo si passava, un morso a testa. È la legge non scritta della cella, insieme al non fare domande.” Sicché, da quel giorno, un morso a una crosta di pane piena di muffa, un tiro di fumo a una sigaretta offerta dal compagno - condivisa tra tutti i detenuti - Ahmad ha iniziato a fumare Cedars, a temere le autorità, ad evitare la strada di Qoubbeh, Tariq Al Jesh, dove il carcere di Tripoli - il più grande istituto penitenziario del nord del Libano - dovrebbe ospitare un massimo di 264 detenuti, ma ne accoglie almeno il triplo, con circa 700 uomini in detenzione amministrativa. L’infrastruttura fisica del sistema carcerario libanese si è rivelata, per decenni, gravemente insufficiente e insoddisfacente. Dei 29 istituti di detenzione ufficiali del paese, solo due - le carceri di Roumieh e Zahle - sono stati espressamente progettati per fungere da strutture penali, ha rivelato una valutazione dei bisogni pubblicata nel 2022 dalla ONG ARCS. I restanti locali, originariamente destinati e precedentemente utilizzati come stazioni di polizia e magazzini, sono ubicati nei sotterranei delle caserme militari; all’interno degli uffici e dei centri di vari rami delle forze di sicurezza; e in serragli fatiscenti risalenti all’era ottomana. In termini pratici, ciò significa che la stragrande maggioranza delle celle carcerarie sono attualmente prive di un’adeguata ventilazione e luce naturale, tanto meno di riscaldamento e aria condizionata. Inoltre, nel contesto di una devastante crisi economica che ha aggravato le già pessime condizioni all’interno delle carceri libanesi, dove il sovraffollamento e la mancanza di assistenza medica provocano regolarmente proteste, la dura realtà affrontata dai detenuti è diventata particolarmente acuta negli ultimi anni. Secondo un rapporto pubblicato da Amnesty International nel 2023, le carceri libanesi superano del 323% la capacità consentita e circa l’80% dei detenuti è in attesa di giudizio: numeri confermati da Human Rights Watch, secondo i cui dati - forniti dalle Forze di Sicurezza Interna del Paese - i centri di detenzione in tutto il Libano hanno una capacità totale di 4.760, ma detengono circa 8.502 persone, di cui solo 1.094, ad agosto 2023, erano state condannate. La combinazione di sovraffollamento e pessime condizioni di detenzione ha ulteriormente portato all’allarmante deterioramento della salute della popolazione carceraria, dove il rischio di fame è in rapido aumento. Nel frattempo, alla luce del deprezzamento della valuta e dell’inflazione alle stelle, le risorse per la fornitura di assistenza sanitaria e generi alimentari sono drasticamente diminuite. La crisi alimentare delle carceri libanesi è infatti direttamente collegata al collasso economico del paese. Il governo è diventato incapace di saldare i debiti dei fornitori e degli appaltatori, che forniscono alle Forze di Sicurezza i generi alimentari da distribuire ai detenuti. Lo scorso dicembre, sei delle aziende che forniscono cibo alle carceri libanesi hanno minacciato di tagliare le consegne entro la fine dell’anno a causa dei conti non pagati del governo negli ultimi tre anni. I fornitori - Dirani Group, Abdullah Group, Marcel Zakhia al-Duwaihy, Antoine Badawi Iskandar, Bernard al-Hayek Trading and Contracting e Hunida Elias Iskander - che distribuiscono cibo alle carceri di Roumieh, Zahle e Tripoli, e a quelle femminili di Baabda, hanno dichiarato di interrompere la fornitura di cibo a “diverse carceri libanesi entro il 31 dicembre 2023, poiché il periodo contrattuale con le autorità libanesi è terminato senza una nuova gara d’appalti e senza lo stanziamento dei fondi necessari per continuare il nostro lavoro,” si legge in una lettera inviata alla Direzione Generale delle Forze di Sicurezza Interna, in cui si denunciano i ritardi di pagamento dal 2020. Le società avevano già lanciato un altro ultimatum a marzo, inviando una simile lettera al ministro dell’Interno Bassam Mawlawi, e successivamente in agosto, avvertendo che avrebbero interrotto la fornitura di generi alimentari alle carceri del Libano se i sette mesi di pagamenti in sospeso non fossero stati saldati entro il primo settembre. Fondi che sono stati infine stanziati per pagare parte degli importi dovuti. Ma già più di due anni prima, nel marzo 2021, il Procuratore Generale del Libano, Ghassan Oueidat, aveva ordinato un’indagine a seguito delle notizie diffuse relative al rischio di fame nelle carceri del paese. Allo stesso tempo, con l’aumento del sovraffollamento delle carceri e della conseguente domanda di cibo fornito, a causa dell’aumento generale del tasso di criminalità, della lentezza dei processi, della paralisi cronica del sistema giudiziario e dell’incapacità di molti detenuti che hanno scontato la pena di pagare le rette necessari per il loro rilascio - l’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari e la svalutazione della valuta libanese hanno reso più difficile pagare i fornitori alimentari a contratto, hanno confermato le Forze di Sicurezza Interna libanesi (ISF) a Human Rights Watch, come citato in un rapporto pubblicato dall’organizzazione ad agosto. Per rispondere, da allora, l’ISF, in collaborazione con i ministeri delle Finanze e dell’Interno, ha predisposto soluzioni patchwork che hanno garantito pagamenti mensili fino alla fine dell’anno. Tuttavia, le famiglie dei detenuti riferiscono che, anche con le consegne di cibo assicurate, il cibo rimane insufficiente e di così scarsa qualità da essere spesso inadatto al consumo. A rischio fame - Un grave deterioramento dell’accesso al cibo per i detenuti è stato segnalato dai rapporti delle organizzazioni umanitarie fin dal 2019, poiché - nelle carceri in cui le autorità consentono alle famiglie dei detenuti di portare provviste dall’esterno - queste ultime, a causa dell’aggravarsi della crisi economica, non dispongono più dei mezzi sufficienti per acquistare cibo extra o coprire i costi spesso inaccessibili del trasporto. Pertanto, la distribuzione alimentare statale, nonostante fornisca cibo di qualità inferiore e solitamente in quantità insufficienti, è diventata il principale fornitore su cui fare affidamento. “Prima della crisi, soltanto un numero molto ridotto di prigionieri dei quali le famiglie non chiedevano informazioni - non più del 25-30% della popolazione più povera - dipendeva dai pasti forniti dall’amministrazione carceraria,” ha dichiarato Mohamad Sablouh, direttore del Centro per i diritti dei prigionieri presso l’Ordine degli avvocati di Tripoli. “Oggi, quella percentuale ha superato il 90%”. Sablouh si occupa di documentare i casi e assistere le vittime di tortura, i detenuti arbitrari e i rifugiati siriani a rischio deportazione - subendo, a causa del suo lavoro, minacce e intimidazioni. Ha inoltre presentato diversi casi a livello nazionale ai sensi della Legge anti-tortura n. 65 del 2017, mentre, a livello internazionale, fornisce regolarmente alle organizzazioni non governative informazioni documentate, con l’obiettivo di presentare casi alle procedure speciali delle Nazioni Unite. Teoricamente, secondo le norme internazionali, le Regole minime standard per il trattamento dei prigionieri delle Nazioni Unite - note anche come Nelson Mandela Rules -, “a ogni detenuto deve essere fornito dall’amministrazione penitenziaria, alle ore consuete, cibo di valore nutrizionale adeguato per la salute e la forza, di qualità sana e ben preparato e servito.” Le norme prevedono inoltre che l’acqua potabile debba essere a disposizione di ogni prigioniero ogni volta che ne ha bisogno, e che i detenuti dovrebbero avere accesso gratuito ai servizi sanitari necessari senza discriminazioni sulla base del loro status giuridico, mentre le autorità statali dovrebbero sforzarsi di ridurre il sovraffollamento carcerario e, dove possibile, ricorrere a misure non-detentive come alternative alla custodia cautelare. Nella dura realtà fattuale delle carceri libanesi, tuttavia, queste norme vengono sistematicamente disattese. L’acqua potabile non è accessibile ai detenuti, né i fondi di cui dispongono sono sufficienti per acquistare acqua in bottiglia; i servizi medici sono inadeguati, i detenuti soffrono la mancanza di posti letto, di cibo, di spazi ricreativi e luoghi di incontro, nonché di supporto psicologico. Inoltre, a causa dell’incapacità dell’amministrazione carceraria di curare i malati e di provvedere alla loro ospedalizzazione, in un anno sono morte tragicamente più di 23 persone: alcune a causa dell’impossibilità di assicurare le spese di cura, altre per negligenza medica statale: morti d’infarto e di ritardo, a causa dell’incapacità amministrativa di essere trasferiti all’ospedale più vicino; uccisi da lentezze burocratiche e interminabili routine. Inoltre, medici e infermieri sono attualmente in sciopero a causa dei bassi salari. Quello della carenza di cibo, poi, è un problema certo aggravato dalla crisi economica - ma ad essa preesistito. Le soluzioni approssimative a cui lo stato ricorre per rispondere alla minaccia delle aziende fornitrici di interrompere le consegne alimentari - ulteriormente rinnovata a gennaio 2024 -, e a quella dell’aumento dei prezzi nelle mense - in cui i prodotti costano a volte il doppio o il triplo del loro valore di mercato -, indicano chiaramente che il problema è ben lungi dall’essere risolto radicalmente: ma piuttosto in modo parziale, distratto, e carente di una visione completa e a lungo termine. Sollecitato dalla mia domanda sul futuro della popolazione carceraria in Libano, Sablouh non sembra dubitare dell’imminente rischio di fame per migliaia di detenuti. La protesta - Nel mezzo di quella che Mohamad Sablouh ha definito una cultura di violenza e intimidazione, quando un presunto criminale viene trasferito in carcere per scontare la pena, viene trattato duramente e privato dei suoi diritti più elementari, compreso quello a mangiare; e se prende posizione per manifestare pacificamente la sua opposizione, è esposto a violenze, percosse e torture. Lo dimostra l’episodio della caserma di Fakhr al-Din, avvenuto nell’agosto 2021 e documentato da diverse ONG locali. Il 15 agosto 2021, Sablouh presentò una denuncia per maltrattamenti ai sensi della Legge anti-tortura n. 65 dopo che, il giorno precedente, uno dei suoi clienti era stato duramente picchiato da agenti di polizia militare nella caserma di Fakhr al-Din a Beirut, dove era detenuto. In quel periodo, a causa dell’aggravarsi della crisi economica, l’esercito - non più in grado di garantire cibo in quantità sufficiente sia ai suoi membri che ai prigionieri - iniziò a ridurre progressivamente i ritmi dei pasti, costringendo il personale di sicurezza a spartirsi ulteriormente il già scarso cibo fornito. “Hanno detto ai prigionieri che il loro turno di mangiare sarebbe stato rinviato al giorno successivo perché il cibo scarseggiava, e questo ha scatenato una rivolta. I prigionieri hanno afferrato centinaia di cucchiai e hanno iniziato a sbatterli contro i muri e le sbarre in segno di protesta, rifiutandosi si accettare che venisse loro negato il pasto quotidiano e che alle loro famiglie venisse proibito di portare alimenti dall’esterno.” In risposta alla protesta, le guardie hanno fatto irruzione nelle celle e hanno aggredito fisicamente i detenuti con bastoni e armi, compresi i calci dei fucili. Sablouh, che all’epoca difendeva il caso di uno dei detenuti, Rabih Al-Dhahibi, ha immediatamente presentato una relazione sull’incidente al Procuratore Generale, Ghassan Oueidat, che ha poi deferito la denuncia al Commissario Governativo presso il tribunale militare, il giudice Fadi Akiki. “Ho visitato i prigionieri dopo aver presentato denuncia,” ha detto Sablouh, “e ho visto le tracce di percosse e torture con i miei stessi occhi, le tracce di sangue sulle mani e sulla schiena dei prigionieri, compreso il mio cliente Rabih”. Secondo la Legge 65/2017, che criminalizza la tortura, la magistratura è tenuta ad adottare misure rapide per proteggere il detenuto e garantire i suoi diritti, la più importante delle quali è nominare un medico legale indipendente entro un massimo di 48 ore per esaminare la vittima e confermare o negare il verificarsi della tortura, conducendo indagini trasparenti sulle accuse, proteggendo il prigioniero e trasferendolo in un carcere diverso da quello in cui è stato esposto alla presunta violenza. Sfortunatamente, però, il cliente di Sablouh sarebbe stato esaminato solo il 22 settembre 2021, più di un mese dopo i presunti maltrattamenti. Dopo essersi assicurato che le tracce delle percosse e delle torture fossero scomparse, il giudice Akiki ha incaricato un medico legale di esaminare solo il cliente di Sablouh. Senza la presenza di altri, neppure dell’avvocato, Akiki ha convocato Rabih nel suo ufficio e lo ha interrogato, spingendolo ad affermare che Muhammad Sablouh era un bugiardo e a negare di essere stato picchiato, promettendogli - come ricompensa - il rilascio. “Il mio cliente, Rabih, ha rifiutato e mi ha subito informato della questione,” ha detto Sablouh. “Due giorni dopo, sono stato sorpreso dalla notizia che il Commissario Governativo presso il tribunale militare, il giudice Fadi Akiki, mi aveva accusato di insulto all’istituzione militare. Aveva chiesto all’Ordine degli avvocati di Tripoli il permesso di perseguirmi penalmente, ma il sindacato ha respinto la richiesta e ha risposto al giudice che stavo praticando la mia professione nel rispetto della legge libanese”. Nonostante le dichiarazioni di solidarietà provenute da associazioni di avvocati di tutto il mondo - Londra, Washington, Ginevra, nonché dall’Unione Europea e dalla Relatrice Speciale delle Nazioni Unite sui difensori dei diritti umani, Mary Lawlor - l’episodio della caserma di Fakhr al-Din solleva preoccupazioni allarmanti sulla sorte dei detenuti nelle carceri libanesi - dove migliaia di uomini e donne languono per mesi senza processo - e getta una nuova, inquietante luce sulla questione della tortura. Apre inoltre la porta a nuove discussioni sull’impatto della crisi economica ed energetica sul tipo di servizi forniti all’interno delle carceri, sulla loro qualità nel rispetto delle norme internazionali, oltre all’ombra dei lunghi periodi di detenzione senza processo a cui migliaia di detenuti libanesi e stranieri, soprattutto siriani, sono costretti.