È morto un altro detenuto in cella. Ecco perché siamo tutti coinvolti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 marzo 2024 È la ventiquattresima vittima dall’inizio dell’anno Se continua così sarà record di morti. E la politica tace. La tragedia continua a colpire dietro le sbarre del sistema penitenziario italiano, con un recente aggiornamento che porta il conto dei suicidi a 24 in meno di 70 giorni dall’inizio dell’anno. La voce del dolore si alza dalle famiglie distrutte, mentre le istituzioni sembrano inerti di fronte a questa crescente crisi umanitaria. Non si è fatto in tempo nel dare notizia dei tre suicidi avvenuti nel giro di 24 ore, che solo dopo giorni dal fatto è emerso che un altro giovane detenuto si è tolto la vita nel carcere di Parma. Il ragazzo, in carcere da dicembre, era dal 10 marzo in isolamento per motivi disciplinari. Il garante regionale dei detenuti, Roberto Cavalieri, si è subito recato nel carcere di Parma per un confronto con la direzione. “Il giovane - sottolinea il garante - aveva già messo in atto gesti di autolesionismo e per questo solleciteremo le autorità al fine di capire se sia stato attivato il protocollo antisuicidario come previsto in questi casi”. Ciò che rende ancora più scioccante questa serie di suicidi è l’assenza di azioni concrete da parte del governo. La proposta di legge presentata dal deputato Giachetti di Italia Viva è in commissione Giustizia e deve affrontare un lungo iter, mentre quella presentata da Riccardo Magi di + Europa giace ancora nel cassetto. In tutto ciò non si concretizza nemmeno la liberalizzazione delle telefonate in carcere e maggiore affettività. Il sistema penitenziario dovrebbe essere un luogo di rieducazione e reinserimento sociale, come sancito dall’articolo 27 della Costituzione. Tuttavia, ogni volta che un detenuto si toglie la vita, questo scopo viene tradito in modo doloroso e inequivocabile. Il sistema, che dovrebbe reinserire, fallisce in maniera eclatante. Parafrasando le parole della “Canzone del Maggio” di Fabrizio De Andrè, ogni volta che un detenuto muore suicida, anche se noi ci crediamo assolti siamo lo stesso coinvolti. A proposito di fallimenti, alcuni suicidi risultano anche singolari. È il caso di Patrick Guarnieri, un giovane ventenne, che si è tolto la vita tre giorni fa, proprio il giorno del suo compleanno, nel carcere di Castrogno a Teramo. L’associazione Sbarre di Zucchero denuncia che la versione ufficiale del suicidio viene contestata dallo zio e dal cugino di Patrick, sostenuti da testimonianze di altri detenuti nella stessa sezione. Le accuse sono precise e gravi: si sospetta che dietro la morte di Patrick ci siano delle responsabilità dirette. “Sbarre senza Zucchero” si unisce al grido di dolore della famiglia di Patrick, chiedendo che sia fatta piena luce su questo caso. L’episodio, l’ennesimo, rimane una ferita aperta che richiede risposte e azioni concrete per evitare che tragedie simili accadano in futuro. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, di fronte alla triste escalation dei suicidi in carcere, il mese scorso ha emesso una circolare ribadendo l’importanza di affrontare questo fenomeno con la massima attenzione. Per far comprendere l’importanza, ha ricordato i dati più recenti dell’Istat, disponibili fino al 2020, i quali indicano che il tasso di suicidi nella popolazione era di circa 6,18 casi per 100.000 abitanti, mentre negli istituti penitenziari per adulti nel 2023 si sono verificati 66 suicidi su circa 60.000 detenuti, con un rapporto di 111,6 casi per 100.000 abitanti. Eppure, sebbene il Dap sia impegnato nella prevenzione del suicidio, le regole attuali limitano significativamente l’efficacia di tali sforzi, richiedendo urgentemente interventi legislativi. A sollevare le critiche è stato soprattutto il segretario generale della Uilpa Polizia Penitenziaria, Gennarino De Fazio, il quale ha messo in luce le condizioni di sovraffollamento e la mancanza di risorse adeguate. Di fatto, dopo quella circolare, i suicidi non si sono fermati. Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, ha espresso profonda preoccupazione a fronte dell’escalation, definendolo un chiaro segnale del fallimento delle istituzioni carcerarie. Gonnella ha sottolineato l’urgenza di adottare politiche volte a contrastare il sovraffollamento carcerario, che deumanizza le persone riducendole a numeri senza volto. Ha criticato il disegno di legge sulla sicurezza in discussione, temendo che possa aggravare ulteriormente la situazione e aumentare il numero di sofferenze. Ha richiamato l’attenzione sulle misure proposte da tempo da Antigone, come il diritto dei detenuti di effettuare chiamate giornaliere ai propri cari anziché settimanali, sottolineando che queste iniziative potrebbero essere cruciali nel prevenire futuri tragici eventi. Ha quindi invitato governo e Parlamento a discutere pubblicamente sul tema delle carceri e ha esortato i parlamentari a visitare le sezioni più affollate e disagiate degli istituti per comprendere meglio la realtà detentiva. Infine, Gonnella ha lanciato un allarme sul nuovo reato di rivolta penitenziaria previsto nel ddl sicurezza, sottolineando il rischio di aumentare gli atti di autolesionismo, i tentativi di suicidio e i suicidi tra i detenuti. Ha auspicato il ritiro di questo provvedimento e l’approvazione di norme che favoriscano la modernizzazione, l’umanizzazione e la deflazione del sistema carcerario. Ha ribadito la disponibilità di Antigone a discutere con chiunque sia interessato ad ascoltare le loro proposte e il loro parere su come migliorare il sistema carcerario. L’urgenza di azioni immediate è evidente, considerando il crescente numero di suicidi in carcere, che ha già raggiunto cifre inquietanti all’inizio di quest’anno. Il tempo stringe, e ogni giorno senza azione significa potenzialmente un altro tragico evento. La speranza ora risiede nell’azione legislativa per affrontare questa vera e propria emergenza umanitaria. Il ddl di Giachetti e Bernardini sospeso ai calcoli del centrodestra di Simona Musco Il Dubbio, 15 marzo 2024 Mentre prosegue l’iter del ddl Giachetti, l’emergenza bussa alle porte della politica. Che rimane in silenzio. Quello di ieri, a Parma, è il suicidio numero 24. In meno di tre mesi, le carceri hanno mietuto un terzo delle vittime del 2023, quando a togliersi la vita sono state 68 persone. Numeri impressionanti, che raccontano un trend in crescita: i suicidi sono infatti stati 2mila in più tra il 2021 e il 2022 e di 4mila tra il 2022 e il 2023. “Proiettando questo dato in un anno - speriamo che non sia così - raddoppiamo il record di suicidi che c’è stato nel 2022”, quando i morti erano stati 84, aveva detto in aula l’8 febbraio scorso Roberto Giachetti. Il deputato di Italia viva è il primo firmatario di una proposta di legge - pensata con la presidente di Nessuno tocchi Caino, Rita Bernardini - che mira ad aumentare da 45 a 60 giorni la riduzione di pena per ogni semestre di detenzione ai fini della liberazione anticipata, introducendo inoltre, per i prossimi due anni, un ulteriore aumento dei giorni di sconto di pena (da 60 a 75). Non la soluzione definitiva al sovraffollamento, ma un primo passo per ridurre la sofferenza carceraria, puntando anche a incentivare la partecipazione dei detenuti all’opera di rieducazione, favorendo così il loro reinserimento sociale. Il governo sarebbe disponibile a chiudere un occhio sulla prima parte della proposta, opponendosi, invece, all’ulteriore aumento di sconti di pena, che appiccicherebbe l’etichetta “svuota carceri” su un esecutivo orientato più ad aumentare gli istituti di pena - e i reati - che a ridurre il numero dei detenuti. La via di mezzo consentirebbe, intanto, di compiere un primo passo per quella che per Giachetti è e rimane un’emergenza. “Io penso, all’opposto dell’onorevole Meloni, che bisogna diminuire i reati, che bisogna togliere la gente che sta in galera e che non ci dovrebbe stare - aveva evidenziato in Aula alla Camera -. L’unica cosa che non possiamo fare, colleghi, è far finta di niente e aspettare che a metterci di fronte al dramma dell’emergenza che si vive nelle carceri siano i morti, i suicidi. I suicidi - attenzione - anche del personale della Polizia penitenziaria per le difficoltà con cui la comunità carceraria si trova a dover vivere in una situazione di questo tipo. Vi stiamo chiedendo non di parlare di quale sarà lo scenario: costruire le carceri, costruire le caserme, lo vedremo. Ma quella non è la soluzione per il dramma che stiamo vivendo in questi giorni. Vi chiedo, vi supplico di ripensarci e di fare in modo che il Parlamento, insieme a voi, magari con le vostre proposte e non con le mie, affronti l’emergenza che sta scoppiando”. La proposta di legge Giachetti va avanti a grandi passi: martedì è stato adottato, senza obiezioni, il testo base della proposta, che è quello dello stesso deputato di Iv, ed è stato dato tempo fino a ieri per la segnalazione delle persone da ascoltare. La prossima settimana, poi, verrà stilato il calendario delle audizioni, al termine delle quali ci sarà il voto sugli emendamenti. Sul provvedimento sono al lavoro i tre sottosegretari alla Giustizia - Andrea Ostellari (Lega), Andrea Delmastro (FdI) e Francesco Paolo Sisto (Forza Italia) - che si sono divisi i compiti sui vari aspetti da affrontare per poter portare a casa la legge. Un percorso che dovrebbe far approdare il testo in aula entro fine aprile. I tempi, trattandosi di una proposta di legge, non potrebbero essere più veloci di così. Ma l’iter rischia di non essere abbastanza celere per evitare una strage. Ed è proprio per questo che sarebbe necessario un decreto, che renderebbe la norma immediatamente attuativa. Un intervento d’urgenza quanto mai doveroso, anche alla luce dei richiami del Presidente della Repubblica, che il 31 gennaio scorso ha ricevuto il capo del Dap Giovanni Russo per discutere della situazione. Anche perché il tema non è solo quello dei suicidi: le carceri scoppiano, con 62mila detenuti su 51mila posti disponibili. Numeri non troppo distanti da quelli che hanno portato alla sentenza Torreggiani, con la quale la Cedu condannò l’Italia sottolineando l’obbligo, per gli Stati, di garantire condizioni di detenzione compatibili con il rispetto della dignità umana e il benessere del detenuto. All’epoca erano 66mila i detenuti in carcere. Un numero che il nostro Paese potrebbe replicare entro fine anno, dato che ogni mese fanno ingresso in carcere tra le 450 e le 500 persone. Numeri impressionanti, ma non tanto, considerando la tendenza del governo a sfornare nuovi reati. Per frenare la crescita esponenziale delle presenze, la strada possibile è sempre indicata dalla norma Giachetti, ovvero utilizzare la liberazione anticipata speciale, che fu la risposta alla sentenza Torreggiani: 75 giorni di premialità ogni sei mesi, applicabili retroattivamente. Un vero e proprio intervento d’urto, che Meloni non sembra però intenzionata a concedere. Ciò nonostante negli ultimi giorni l’emergenza abbia ripreso a bussare, forte, alle porte della politica. Che ieri, di fronte all’ennesima morte, non ha proferito verbo. Solo un accenno, blando, tra Camera e Senato. A Montecitorio a prendere la parola è stato Fabrizio Benzoni, di Azione, che ha sottolineato l’urgenza di “un piano carceri vero, dove lo Stato metta al centro un dibattito sul carcere e sulle risorse che servono per questo carcere”. L’invito è a parlare con chi in carcere ci lavora, parlando di un problema sistemico. E “questo problema sistemico è anche il silenzio che quest’Aula pone nei confronti di questa emergenza, che oramai è dilagante”. Al Senato è stato invece il dem Alfredo Bazoli a farvi cenno: parlando dei concorsi nella polizia penitenziaria, il senatore ha evidenziato come “questi concorsi non saranno mai sufficienti se continuerà una politica criminale della giustizia, che comporta un incremento costante e continuo dei detenuti nei penitenziari italiani”, che “sta portando al collasso del nostro sistema”. Da qui l’invito a ripensare il “modello di politica criminale di questo Paese”. Carceri troppo piene e senza redenzione. Solo 2.400 detenuti hanno un lavoro vero di Michele Brambilla Il Giornale, 15 marzo 2024 La Costituzione dice che la pena è finalizzata al reinserimento. In Italia nel 68,7% dei casi chi esce di galera torna a delinquere. La recidiva scende al 2% per chi ha avuto una formazione professionale. In Italia il 68,7 per cento di chi esce di galera torna a delinquere. Questo è il dato ufficiale (fonte Cnel), calcolato negli anni su 18.654 detenuti. Quello reale supera il 90, perché di molti reati non si scopre il colpevole. La recidiva scende però al 2 per cento fra i detenuti che in carcere hanno vissuto un’esperienza di lavoro e che conservano il posto una volta scontata la pena. Ora, immaginate la giornata tipo del detenuto che non lavora. Che marcisce in gattabuia, come molti gli augurano. Dispone di due ore d’aria al giorno. Per le restanti ventidue è chiuso in cella, anche quando mangia: le tavolate con i detenuti sono roba da film americani, non da prigioni italiane. Sta spesso in pochi metri quadrati sovraffollati e sporchi. Non vede i propri familiari se non in parlatoio con i divisori in vetro, e poche ore al mese. Così ridotto, si sente più vittima che colpevole. Non elabora il male commesso. Pensa: “Perché dovrei rispettare la legge se lo Stato non la rispetta con me?”. Accumula rancore e risentimento. Quando esce è incattivito e disoccupato perché nessuno si fida a prenderselo in azienda. Il passo verso il ritorno alla delinquenza è brevissimo e quasi sempre inevitabile. Ora invece immaginate la giornata tipo del detenuto che lavora. Parliamo di lavoro vero. Cioè: non quei lavoretti passatempo tipo il fare le pulizie per conto dell’amministrazione penitenziaria o partecipare a laboratori che nascono e muoiono in carcere, senza offrire una prospettiva. Parliamo di detenuti assunti in regola da aziende che hanno portato i propri reparti all’interno del carcere. Questo detenuto è così occupato per otto ore al giorno. Percepisce uno stipendio regolare sul quale paga le tasse. Contribuisce a vitto e alloggio in carcere. Manda qualche soldo alla famiglia. Si sente utile, gratificato. Quando esce, conserva il posto nella stessa azienda che lo ha fatto lavorare in carcere e, nel 98 per cento dei casi, non delinque più. Quale delle due soluzioni è migliore non solo per il detenuto, ma anche per noi che siamo fuori? Che siamo vittime di mini e maxi criminalità? “Vuoi più sicurezza? La strada è quella del recupero”, dice Nicola Boscoletto, presidente della Cooperativa Giotto che nel carcere di Padova dà lavoro a un centinaio di detenuti. E però, oggi in Italia (dati del Ministero aggiornati al 29 febbraio), a fronte di una capienza regolamentare complessiva di 51.187 detenuti, nelle 189 carceri italiane sono rinchiuse 60.924 persone, di cui 2.611 donne, 19.035 stranieri, 1.288 in semilibertà. Bene: sapete quanti di questi 60.924 hanno un lavoro? In tutta Italia, circa 700 all’interno più 1.700 in semilibertà. Insomma 2.400 in totale. Andiamo avanti. Nel 2022 i suicidi in carcere sono stati 84. Nel 2023, 69. Nei primi due mesi di quest’anno, già 21. Prendiamo Verona. Dal primo gennaio 2024 si sono tolti la vita già in cinque. Per dodici anni, all’interno del carcere ci sono state due aziende. Nel marzo dell’anno scorso il permesso è stato revocato: alle aziende è stata contestata qualche irregolarità amministrativa: “E d’accordo”, dice Boscoletto, “ma non si poteva far sì che quelle aziende si mettessero in regola? Perché buttare il bambino con l’acqua sporca?”. Dall’oggi al domani, 150 detenuti sono dovuti tornare in cella senza più un lavoro. C’entra qualcosa con i suicidi? Forse no, però... Sul fatto che in galera si debba lavorare, ormai da qualche tempo sono tutti d’accordo, destra sinistra e centro. Il protocollo Cartabia-Colao prevedeva l’inserimento al lavoro per diecimila detenuti, con diverse aziende. Solo nel settore della fibra ottica erano previste 1.553 assunzioni. Dopo un anno e mezzo, gli assunti sono tre. “Un conto è la poesia, un conto è la realtà”, dice Boscoletto. C’è la burocrazia, ad esempio, che paralizza un mondo che evidentemente non vuole cambiare: “Da sette anni chiediamo cinquanta nuove persone da inserire al lavoro. Non ce le hanno mai fatte avere”. E cinquanta si troverebbero, anche se rispetto a qualche anno fa il lavoro è diventato più difficile pure per un altro motivo: la popolazione carceraria è cambiata. Drammaticamente. Ancora Boscoletto: “Il 90 per cento non dovrebbero essere detenuti: dovrebbero essere curati. Sono in gran parte persone plurisvantaggiate, con dipendenze da droga, alcol, gioco; quasi tutti con problemi psicologici e spesso psichiatrici. Poi ci sono i disperati arrivati con i barconi. Oggi il carcere è diventato una discarica dell’indifferenziata”. Come fa gente così a lavorare? Ci vorrebbero comunità in cui si cura e poi si insegna il mestiere: ma sono poche, ed esistono solo grazie a persone di buona volontà”. C’è poi il tema dell’affettività. O meglio, chiamiamo le cose con il proprio nome: la possibilità per un detenuto di ricevere riservatamente la propria moglie o compagna, anche per avere rapporti sessuali. È un’idea che manda in bestia i teorici del “bisognerebbe buttare via la chiave, ci manca solo che scopino”. Ma questi incontri riservati sono ammessi in quasi tutto il mondo. Anche nella Russia di Putin. Il 10 febbraio scorso la Consulta ha dichiarato incostituzionale l’articolo 18 dell’ordinamento penitenziario, che impone il controllo visivo nei colloqui fra i carcerati e i loro familiari. I giudici hanno definito l’attuale situazione una desertificazione affettiva, e in assenza di una legge hanno imposto all’amministrazione penitenziaria di creare subito, perché la sentenza è immediatamente esecutiva le condizioni per questi incontri riservati. Il Dap, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ha reagito come si reagisce sempre in Italia: annunciando l’apertura di un tavolo di lavoro. Il che vuol dire rimandare tutto alle calende greche. Anche gran parte della polizia penitenziaria è insorta: “Non vogliamo fare i guardoni di Stato”, hanno scritto alcuni sui social. “Ma al contrario, la Corte dice proprio che è incostituzionale il controllo visivo. Basta controllare chi entra, sia all’entrata che all’uscita”, dice Ornella Favero, presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia e direttrice del periodico Ristretti Orizzonti: “Anche la mancanza di sessualità contribuisce a incattivire chi sta dentro”. Storceranno il naso in molti. “Ma se non lo capiscono per spirito cristiano e umanitario, lo capiscano almeno per un tornaconto economico e di sicurezza, perché tutti i dati statistici documentano che la punizione, il non recupero, genera una spirale negativa”, chiosa Boscoletto. E va ricordato a tutti che la pena non la punizione: la pena, perché questo prevede la legge è la privazione della libertà. Quel che si aggiunge fa male a chi sta dentro e farà male a chi sta fuori. “Indulto subito!”: lo chiede anche Magistratura democratica di Angela Stella L’Unità, 15 marzo 2024 Silvia Albano, giudice, Presidente di Magistratura democratica (la storica corrente di sinistra della magistratura) interviene con una intervista al nostro giornale su alcuni dei temi scottanti che riguardano la giustizia. 1) La necessità di un indulto, specialmente per le persone che già hanno scontato una parte della pena. Un indulto - dice - servirebbe anche a ridurre il sovraffollamento delle carceri che sta diventando insopportabile. 2) La necessità di non tenere in cella le donne incinte. È dell’altro giorno la notizia che una signora tunisina è stata messa in cella per un piccolo reato mentre era incinta, e dopo quattro mesi in prigione ha perduto il bambino. 3) La curiosa contraddizione, nell’azione del governo, tra la convinzione che la repressione non aiuti la lotta all’evasione fiscale e la scelta di aumentare pene e reati per tutti gli altri reati. Dice Silvia Albano: “La politica penale del Governo si è caratterizzata fino a questo momento solo per l’aumento di pene per determinati tipi di reati, creare nuove fattispecie di reato - ma quanto nel frattempo ne abroga altri, come l’abuso di ufficio - e per provvedimenti come quello Caivano che sta comportando l’aumento dei minori in carcere. Come ha scritto ieri su questo giornale il presidente dell’Ucpi, Francesco Petrelli, ormai in carcere si assiste ad una strage senza fine... La situazione è intollerabile. A due mesi dall’inizio dell’anno e già ci sono stati 24 suicidi. Si tratta di un grido di allarme e di dolore rispetto alla situazione del carcere. A questa situazione non si risponde con una circolare in cui si dispone che i detenuti devono stare chiusi in cella e non uscire. Questo crea disperazione, in violazione della funzione che la Costituzione attribuisce alla pena, ossia un fine rieducativo. Il detenuto deve essere messo nelle condizioni di poter rientrare in società. Questo significa fare percorsi riabilitativi e lavorativi in carcere. Ma in questo momento tutto ciò non avviene: le carceri sono talmente sovraffollate che non ci sono neanche gli spazi per praticare le attività e in più mancano gli operatori. D’altro canto gli istituti di pena saranno sempre più sovraffollati. Perché? La politica penale del Governo si è caratterizzata fino a questo momento solo per l’aumento di pene per determinati tipi di reati, creare nuove fattispecie di reato - ma quanto nel frattempo ne abroga altri, come l’abuso di ufficio -, e per provvedimenti come quello Caivano che sta comportando l’aumento dei minori in carcere. E i nuovi reati e l’aumento delle pene riguardano per lo più fasce di marginalità sociale, per cui se non ci sono strutture in grado di accogliere questo tipo di persone è difficile prevedere pene alternative. E poi c’è il problema delle donne incinte o con figli molto piccoli. Proprio qualche giorno fa avete diramato una nota su quest’ultimo punto... Una giovane donna, tratta in arresto a novembre per possesso di stupefacente, è stata sottoposta a custodia cautelare presso la Casa circondariale di Sollicciano, in stato di gravidanza. Dopo quattro mesi è stata costretta ad abortire per motivi di salute. Leggi del 2001 e del 2011 prevedono, per le donne in stato di gravidanza il rinvio dell’esecuzione della pena (art. 146 c.p.) e l’applicazione della custodia cautelare in carcere solo in presenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza (art. 275 c.p.p.). In ogni caso, alle detenute in stato di gravidanza deve essere assicurato l’accesso all’Icam. Carcere che voi avete visitato insieme ad Antigone e alle Camere Penali... Già nel novembre del 2022 denunciavamo le gravi carenze strutturali del carcere di Sollicciano, tra cui oltre al sovraffollamento, la mancanza di acqua calda e le infiltrazioni d’acqua nelle celle. Dopo più di un anno nulla è stato fatto, non sono stati fatti investimenti per allestire nuovi Icam né per migliorare le condizioni di vita delle detenute e dei detenuti. L’unica proposta di intervento che riguarda le donne in gravidanza e le giovani madri è stata di tipo repressivo: quel ‘pacchetto sicurezza’ che ha escluso il differimento della pena ove dal rinvio derivi una situazione di pericolo, di eccezionale rilevanza, di commissione di ulteriori delitti. Questo non è accettabile. Siete d’accordo con la proposta Giachetti (Italia Viva) e Bernardini (Nessuno Tocchi Caino) sulla liberazione anticipata speciale? Non ne abbiamo discusso ma personalmente ben venga qualsiasi strumento che possa deflazionare la popolazione carceraria. E con quella del deputato di +Europa Riccardo Magi per l’istituzione delle case di reinserimento sociale, strutture alternative al carcere ove scontare una pena detentiva anche residua non superiore a 12 mesi? Si tratta di una buona proposta. Anche noi diciamo che occorrono strutture esterne al carcere che effettivamente abbiano un ruolo nel consentire il reinserimento sociale dei condannati. Si parla tanto di sicurezza in questo momento e di chiudere la gente in carcere, buttando via la chiave. Ma non si comprende che una maggiore sicurezza è legata ai migliori trattamenti rieducativi durante l’esecuzione penale che servono a scongiurare le recidiva, come dicono le statistiche. La corrente di AreaDg ha proposto anche provvedimenti di amnistia e indulto. Sareste favorevoli? È da moltissimi anni che non ci sono provvedimenti di clemenza. Soprattutto per chi ha scontato una parte della pena, l’indulto consentirebbe di far uscire una serie di persone che hanno già fatto un loro percorso trattamentale in carcere. Ora sarebbe il caso di attuarle per evitare altre condanne dall’Europa, come già avvenuto in passato. Il presidente dell’Anm Santalucia durante l’ultimo parlamentino ha detto: “Tutti i gruppi associativi si sono espressi sui problemi delle carceri. Questo argomento meriterebbe più attenzione rispetto a quello dei test psico-attitudinali”... Il carcere sicuramente deve essere una priorità per il Governo che dovrebbe cambiare rotta rispetto alle politiche che ogni qualvolta c’è una emergenza rispondono creando nuovi reati o aggravando le pene. Sentivo a Porta a Porta un esponente del Governo che sulla riforma del fisco diceva che la politica repressiva non funziona a differenza di una premiale rispetto all’evasione fiscale. Quindi questo vale solo per gli evasori e non per gli altri tipi di reati? In realtà la politica repressiva non aiuta a diminuire la criminalità e la delinquenza. E paradossalmente diminuiscono i reati e aumenta la popolazione carceraria. E per quanto riguarda i test? La proposta ha alla base una sfiducia nella magistratura che viene delegittimata. E non può neanche essere inserita nel decreto attuativo perché non rispetterebbe i parametri della delega. Si parla di un Nordio commissariato. Tanto è vero che lunedì scorso per parlare di giustizia la Meloni lo ha convocato a Palazzo Chigi, dove c’era anche il sottosegretario Mantovano e il presidente delle Commissioni Giustizia di Senato e Camera. Che idea si è fatta di questo? Non conosco tutti i retroscena e neanche mi interessano molto. Quello che vedo dall’esterno è che la politica sulla giustizia è accentrata alla Presidenza del Consiglio e non delegata a Via Arenula. Che idea si è fatta invece del dossieraggio su cui sta indagando la Procura di Perugia. Striano è solo una mela marcia? Si tratta di una vicenda molto delicata e ci sono delle indagini in corso. Devo dire che ho condiviso il tono e i contenuti del comunicato del Procuratore generale Sottani (in una nota aveva scritto di voler verificare il rispetto della presunzione di innocenza a proposito dell’audizione in Commissione Antimafia del capo dei pm del capoluogo umbro e aveva definito “inusuale” la richiesta di Cantone e Melillo di essere sentiti dalla bicamerale antimafia, ndr). Quando i due hanno chiesto di essere auditi anche dal Csm e dal Copasir mi aspettavo che ci fossero grandi rivelazioni. Invece? Allo stato non sembra che dietro Striano ci sia una organizzazione strutturata impegnata a fare accessi abusivi, non è stata contestata neanche l’associazione a delinquere. Non ho capito perché si sia sentito il bisogno di rendere subito pubblici nel pieno delle indagini i risultati ad oggi ottenuti. Comunque questa indagine non può essere il pretesto per gettare a mare le Sos e il giornalismo d’inchiesta. Ultima domanda: la Corte di Giustizia europea dice no alla procedura d’urgenza in merito al ricorso delle Sezioni Unite sul ddl Cutro: il progetto Albania ora rischia di saltare... In effetti se non cambiano le norme che ora sono all’attenzione della CGUE è difficile che il protocollo Italia Albania possa essere applicato. Dinanzi al fatto che anche le Sezioni Unite dubitano della compatibilità delle norme con la direttiva dell’Unione diventa difficile convalidare i trattenimenti delle procedure di frontiera. “Il carcere non sia più uno strumento di vendetta sociale” di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 15 marzo 2024 Bernadette Nicotra, presidente della Commissione che si occupa della valutazione di professionalità delle toghe al Csm, affronta il tema: “Non si possono avere oltre 100 morti in sei mesi nelle carceri italiane. Nella prospettiva costituzionale della finalità educativa della pena e del conseguente reinserimento sociale del detenuto, gioca un ruolo fondamentale la tutela lavorativa e lo sviluppo culturale e umano”. Consigliera Nicotra, la situazione è sempre più drammatica. Quanto influisce il sovraffollamento? Sicuramente per arginare l’elevato tasso di suicidi nelle carceri occorre intervenire sul sovraffollamento. Anche se non è l’unica causa, è certamente una delle principali. Da dove partire? Occorre intervenire con urgenza e in modo organico su una riforma del sistema carcerario. In che modo? Credo che qualunque progetto di riforma debba fare i conti con la necessità di contemperare sicurezza e libertà, tutelando, anche nella particolarissima condizione carceraria, nel momento di esecuzione della pena, i diritti inviolabili della persona. Nella prospettiva costituzionale della finalità rieducativa della pena e del conseguente reinserimento sociale del detenuto, gioca un ruolo fondamentale la tutela lavorativa e lo sviluppo culturale e umano. Diritto all’inserimento sociale del detenuto e il principio di eguaglianza sostanziale sancito dalla nostra Costituzione all’articolo 3 vanno letti insieme? Certamente. La Repubblica ha il dovere di porre in essere un programma di interventi affinché la pena sia idonea alla rieducazione e dunque al reinserimento sociale che non si può non declinare come un diritto. Che ruolo hanno le Istituzioni? Il loro impegno deve essere quello di predisporre un percorso educativo attraverso l’organizzazione di circuiti penitenziari individualizzati che tengano conto di molteplici profili e della varietà della popolazione carceraria, resa ancora più articolata e complessa per la presenza di persone appartenenti a società caratterizzate da culture assai diverse tra loro. Le carceri italiani sono un disastro. Molte sono ospitate in strutture ottocentesche. Regina Coeli a Roma è stata costruita nel 1650 per ospitare un convento... Le condizioni di sovraffollamento carcerario sono rese ancor più drammatiche proprio a causa di strutture penitenziarie sempre più fatiscenti. Quando si dice che occorre investire sul sistema penitenziario significa maggiori risorse da impiegare nell’edilizia penitenziaria per interventi strutturali e di sistema. Occorrono nuove carceri? Sì ma che siano a “misura d’uomo” e dove ci sia spazio per il lavoro quale stimolo per ridare dignità e speranza ai detenuti, dove ci sia spazio per gli incontri e i rapporti con le famiglie affinché non si mortifichi l’affettività di ogni essere umano e dove ci sia spazio per l’educazione e la formazione. Quindi un “reale” piano carceri se si vuole risolvere alla radice il problema? Il carcere deve diventare il luogo di risocializzazione e di inserimento sociale, potenziando specifici programmi contenenti attività di tipo culturale, ricreativo, sportivo, religioso e lavorativo. La formazione in carcere deve essere preordinata alla preparazione di figure professionali richieste dal mercato del lavoro. Quest’ultimo deve diventare l’autentico presupposto del reinserimento sociale dell’ex detenuto non soltanto dal punto di vista meramente economico ma soprattutto perché ne aumenta l’autostima e la gratificazione personale. È dimostrato che l’esperienza del lavoro, sia dentro l’istituto penitenziario che all’esterno, serve per impiegare il tempo in modo più proficuo per progettare un futuro una volta conclusa la situazione detentiva. Ed è anche dimostrato che le opportunità lavorative riducono i casi di recidiva e di ricaduta nella devianza. L’esito del percorso rieducativo non può non dipendere però dal livello di credibilità del sistema penale complessivo... Senza dubbio. Raramente il recupero del reo potrà avvenire all’interno di un modello ordinamentale ritenuto ingiusto e inefficiente. Occorre incentivare il ricorso alle pene alternative alla detenzione ma nello stesso tempo sottoporre a controlli sul territorio di chi ne fruisce. In questa prospettiva va accolta con favore la proposta del governo di innalzamento dello “sconto ordinario” di pena da 45 a 60 giorni. E poi c’è il tema del personale che lavora nelle carceri... Una buona riforma non può prescindere dall’attenzione ai problemi del personale penitenziario che va rimotivato perché migliorare le condizioni dei detenuti senza migliorare le condizioni del personale penitenziario sarebbe un errore. C’è urgenza di interventi che vanno dall’incremento degli agenti di polizia penitenziaria, spesso sottodimensionati e costretti a turni di lavoro estenuanti, agli incentivi economici per gratificare e rendere più allettante la professione, fino ad una più adeguata formazione per avere un personale più qualificato, preparato e consapevole della delicata funzione e dei suoi rischi. E poi soprattutto è indispensabile il potenziamento del sistema sanitario all’interno delle carceri al fine di garantire sia le cure farmacologiche specifiche sia i supporti psicologici e psichiatrici per curare il surplus di sofferenza psico- fisica connesso allo stato di detenzione e prevenire i sempre più frequenti episodi di autolesionismo. Magistratura indipendente, la corrente di “destra” di cui fa parte, è spesso accusata di avere minore attenzione ai temi legati al disagio sociale e di conseguenza a coloro che a causa di tale disagio finiscono in carcere. Cosa risponde? Guardi, la dirigenza di Magistratura indipendente ha recentemente rivolto un appello anche al Csm, per quanto di sua competenza, affinché intraprenda iniziative concrete in modo che il carcere “non sia più strumento di vendetta sociale”. Cosa può fare il Csm? Lo scorso luglio è stata rinnovata la Commissione mista per i problemi della magistratura di sorveglianza e dell’esecuzione della pena, i cui obiettivi comprendono anche lo sviluppo delle misure alternative al carcere, la tutela della salute e la rieducazione dei detenuti. L’intento è riattivare sinergie tra il Csm, il ministero della Giustizia, la magistratura di sorveglianza, per trovare soluzioni condivise alle problematiche connesse alla funzionalità degli uffici di sorveglianza, alla esecuzione della pena, alla tutela dei diritti dei detenuti e degli internati. È quindi favorevole alla proposta del deputato di Italia viva Roberto Giachetti sulla liberazione anticipata, da 45 a 60 giorni ogni 6 mesi? Potrebbe essere una delle possibili soluzioni al sovraffollamento e va nella direzione del reinserimento sociale del detenuto che abbia dato prova concreta di partecipazione all’opera di rieducazione. “Serve troppo tempo per nuovi Istituti di pena: non è così che si risponde al sovraffollamento” di Franco Insardà Il Dubbio, 15 marzo 2024 Parla Cesare Burdese, studioso di architettura penitenziaria: “Subito progetti pensati per tutta l’utenza dei penitenziari”. “Non si può realizzare nulla per risolvere il problema immediato del sovraffollamento”. L’architetto Cesare Burdese non ha dubbi alla luce della sua decennale esperienza, avendo partecipato ai lavori della Commissione ministeriale, istituita dall’ex ministro della Giustizia Bonafede e conclusasi quando a via Arenula c’era Marta Cartabia, che si è occupata di architettura penitenziaria. Architetto, quando si parla di sovraffollamento carcerario la prima risposta di molti è: costruiamo più carceri. È questa la soluzione? La costruzione di nuove carceri non risolverebbe immediatamente la questione, perché, se tutto andasse bene occorrerebbero almeno 15 anni per ultimare una struttura. Servirebbe un commissario. È l’unico modo per riuscire a costruire carceri in tempi brevi e in linea con gli standard di altri Paesi, come la Francia dove occorrono 2 anni. Bisognerebbe adottare procedure come quelle utilizzate per ricostruire il ponte di Genova. Ai tempi per la costruzione vanno aggiunti gli investimenti... Un carcere da 250 posti costa in partenza sui 30 milioni di euro, poi bisogna arredarlo, metterlo in funzione e avere il personale per gestirlo. Non basta solo costruirlo. Per anni si è parlato del mega-carcere di Nola: sa che fine ha fatto? Ho organizzato un dibattito pubblico all’Università RomaTre con il progettista, l’architetto Ettore Barletta capo dell’ufficio preposto del Dap, e il consulente Luca Zevi. A quell’incontro parteciparono con me il direttore della Fondazione Michelucci, uno dei responsabili di Antigone e il professor Ruggero Lenci della Sapienza, e facemmo delle considerazioni critiche di quella mega- struttura alla presenza dell’allora sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Ferri. Il risultato fu che la politica fermò l’operazione per le tante criticità emerse. Da allora non è più successo nulla. Il ministro Nordio ha parlato della possibilità di utilizzare le caserme dismesse: cosa ne pensa? Il primo fu Bonafede, che pensava si potesse riconvertire in un anno una caserma dismessa da decenni. Si tratta di strutture non solo abbandonate, ma in molti casi diroccate o da abbattere, come a San Vito al Tagliamento. L’argomento centrale della contrarietà, mia come di altri tecnici, che hanno la consapevolezza di che cosa è un carcere, deriva anche dal lavoro fatto nella commissione ministeriale che ha elaborato le linee guide per il carcere del futuro. Il ministro Bonafede acquisì tre caserme, ma furono restituite dalla Cartabia perché era impossibile utilizzarle. C’è una soluzione architettonica a breve per alleggerire il carico dei penitenziari? No. A fronte di una popolazione carceraria di 61mila detenuti, con circa 47mila posti a disposizione, servono 14mila nuovi posti. Ipotizzando carceri di 250 posti ci vorrebbero 56 nuovi istituti. Se un istituto costa 30 milioni di euro servirebbero 1 miliardo e 680 milioni e 56 commissari per realizzarli in due anni. In Italia abbiamo l’esempio di tre carceri, Nola, San Vito al Tagliamento e Bolzano, progettati da più di 20 anni e mai realizzati. Saranno a breve consegnati 8 nuovi padiglioni da 80 posti, nati con Bonafede, che risolveranno il problema di 640 detenuti, ma oggi parliamo di 14mila persone in più. La sentenza della Corte costituzionale sul diritto all’affettività in carcere apre un altro capitolo su come ripensare le carceri dal punto di vista architettonico... Solo tre, tra cui l’Italia, su 37 Paesi europei non consentono la sessualità in carcere. All’estero esistono due tipologie: o un appartamentino per stare con la famiglia per 72 ore, o una camera d’albergo per la coppia. C’è anche una tipologia tipo cottage. Renzo Piano ha fatto un progetto, realizzato dai detenuti di Rebibbia, per creare uno spazio per gli incontri familiari. Ci sono modelli virtuosi in altri Paesi? Esistono buone prassi e uno studio architettonico, fermo restando che parliamo comunque di carcere. Non è tutto virtuoso ovviamente. Ho visitato istituti in Austria dove mi hanno dato la brochure dell’opera architettonica e della collezione d’arte realizzata in collaborazione con la struttura. In Spagna le carceri di ultima generazione sono delle architetture vere, progettate per rispettare i bisogni degli individui e di tutta l’utenza. Purtroppo da noi chi si occupa di architettura non si occupa di carcere e poi manca una cultura progettuale da parte del ministero con il relativo mandato politico. Gemma Tuccillo: “Effetto Caivano? Carceri mai così piene di giovani” di Giulio Goria Il Riformista, 15 marzo 2024 Meno detenzione e più percorsi alternativi, così si ricostruisce il patto sociale. Grande cura va data soprattutto ai disturbi psicologici. Gemma Tuccillo, magistrato di Cassazione da un anno in quiescenza, conosce molto bene la giustizia minorile italiana; vi ha dedicato oltre vent’anni di carriera, prima nei tribunali minorili a Napoli e Potenza e dal 2017 al gennaio 2023 a capo del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità del Ministero della Giustizia. È la persona adatta per riflettere sul disagio giovanile senza farsi trasportare dall’emergenza. Dottoressa Tuccillo, cominciamo dalla stretta attualità. Il report dell’associazione Antigone fotografa una situazione preoccupante degli istituti penitenziari minorili. Anche qui scoppia il problema del sovraffollamento; in particolare, l’allarme cade sui numeri in ingresso, che raggiungono i 500 detenuti ad inizio 2024. Un incremento sostanzioso che negli ultimi 12 mesi ha visto crescere soprattutto ragazze e ragazzi in misura cautelare e per violazione della legge sugli stupefacenti. Sono i primi effetti del decreto Caivano? “È vero che questo sovraffollamento degli istituti minorili è una situazione nuova, mai registrata in passato in modo così significativo. Ed è vero che l’aumento delle misure cautelari detentive contribuisce ad alzare i numeri. D’altra parte, non si registra una diminuzione dei reati e neanche un loro aumento consistente. In realtà, il dato che più colpisce è un altro: l’aumento del numero degli imputati, anche a parità del numero di reati. Questo significa che i ragazzi delinquono in gruppo più che in passato e spesso in maniera più grave. Per questo serve una riflessione più ampia e più profonda”. Allarghiamo allora lo sguardo. Il decreto Caivano è nato sull’onda di episodi particolarmente gravi, cosa ci dicono del quadro complessivo della devianza giovanile nel nostro Paese? “Il punto è il disagio giovanile, che non è un fenomeno sempre identico a sé stesso. Cambiano le fragilità, cambiano le forme del disagio, ne intervengono di nuove, e gli anni della pandemia hanno fatto da acceleratore a un processo stratificato di questo genere. Oggi il disagio giovanile si riscontra a macchia di leopardo su tutto il territorio nazionale; sono le statistiche a dircelo. E a fronte di episodi particolarmente gravi ci troviamo davanti a una devianza diffusa, disseminata in modo capillare, espressione di un disagio che investe l’adolescenza in quanto tale, anche a prescindere dalle diverse connotazioni territoriali. Le condotte che assumono poi una rilevanza penale sono la conseguenza di questa situazione generale. Per questo non è sufficiente inquadrare il sovraffollamento soltanto come effetto del cosiddetto decreto Caivano. Dobbiamo guardare a tutto quello che di più si può fare in termini di sostegno del disagio adolescenziale. Insomma, prima ancora di parlare di prevenzione della delinquenza minorile o della recidiva, dobbiamo mettere al centro la prevenzione del disagio”. La giustizia penale minorile è un fiore all’occhiello della giustizia italiana anche in ambito internazionale. La sua tenuta oggi è a rischio? “I rischi ci sono. Di fronte al dato di cui parlavo la situazione del sovraffollamento diventa ancora più dolorosa e preoccupante: le strutture minorili, per lo più piccole e di consueto ben attrezzate per i programmi di trattamento, sono messe sotto pressione da numeri alti. Se la platea diventa troppo numerosa si rischia di non poter più offrire l’attenzione trattamentale necessaria per risolvere il problema del disagio, oltre che di non rispettare il principio di territorialità nell’esecuzione della pena”. Cosa la preoccupa di più? “Non sono particolarmente preoccupata da un eccesso di repressione. Lo sono piuttosto dal fatto che ad una maggiore severità delle sanzioni non si accompagni una risposta trattamentale altrettanto forte. Il buonismo non mi appartiene e non mi è mai appartenuto, anche la severità è un valore su questi temi. Però è fondamentale che ci sia una seria campagna di educazione alla legalità da un lato e un serissimo investimento sui programmi trattamentali. Ai giovani che entrano nel circuito penale va garantita l’opportunità di seguire percorsi reali rivolti all’inclusione e al reinserimento in società. Pensare che, da sola, la risposta sanzionatoria sia sufficiente è una illusione, ed è chiaro da questo punto di vista che il sovraffollamento delle strutture rende quei percorsi di recupero più difficili. Né, voglio aggiungere, si può auspicare la costruzione di nuove carceri. L’obiettivo ideale da perseguire semmai dovrebbe essere quello opposto”. Meno carceri e più percorsi alternativi, quindi? È così che si ricostruisce il patto sociale con chi commette reati? “Non c’è dubbio, l’implementazione delle misure alternative alla detenzione è molto importante. Non dimentichiamoci che queste misure mantengono una caratteristica restrittiva, al tempo stesso però danno la possibilità al ragazzo di condurre un percorso guidato sul territorio e nella sua comunità, senza essere sradicato. Oltre a questo, vanno rafforzate le comunità di accoglienza dell’area penale; grande cura va data soprattutto ai disturbi psicologici, che molto spesso accompagnano la commissione dei reati, soprattutto quelli legati alle sostanze stupefacenti”. Questo decreto ha riportato al centro il dibattito sulla funzione attribuita al diritto penale. Soluzione necessaria ma estrema o leva simbolica per produrre consenso? “Sono un po’ preoccupata dall’attenzione che si dà alla sanzione, in un senso o nell’altro. E polarizzare eccessivamente il tema della repressione penale mi sembra un pericolo. Il problema della devianza va affrontato con severità, senza minimizzare la gravità dei fatti. Con altrettanta consapevolezza però vanno affrontati i bisogni di chi entra nel circuito penale per potersi reintegrare. Penso ad esempio all’importanza che riveste il dialogo di tutte le istituzioni con gli uffici minorili. Capita spesso che situazioni di disagio culturale, economico, famigliare intercettate in ambito civile si ritrovano in ambito penale. E se la cerniera istituzionale funziona bene diventa un fondamentale strumento di prevenzione. Antenne dritte nella scuola e nelle forze di polizia servono proprio per intercettare i segnali di disagio prima che si commettano reati”. Fuori da ogni retorica, è questa la prevenzione che serve? “Sì, prevenzione significa creare situazioni di crescita sana e regolare che non portino il giovane alla devianza. Una scuola accogliente, la possibilità di svolgere attività sportiva, offrire ambienti inclusivi, queste sono le infrastrutture sociali e civili della prevenzione. Negli anni mi è capitato di incontrare ragazzi che hanno avuto la prima vera occasione di conoscenza quando sono entrati in carcere. Ecco: se è il carcere il posto dove un ragazzo scopre di possedere un talento, c’è qualcosa che non funziona nella società. È un fallimento di tutti. Il recupero della devianza non può aspettare che un ragazzo finisca in carcere, deve poter agire prima”. Carcere tra innovazione e pubblicizzazione mancata di Antonio Nastasio* bergamonews.it, 15 marzo 2024 L’importanza dello scrivere sul carcere e sulle proposte innovative già in discussione al Parlamento tanto importanti quanto non rese partecipe alla discussione e partecipazione pubblica come avvenne negli anni 70 con l’avvio dell’Ordinamento Penitenziario che fu più di popolo che di esperti. In un’epoca dominata da notizie fugaci e superficiali, dove l’informazione è spesso condita con un’apparenza accattivante, è essenziale comprendere il vero significato di ciò che viene comunicato. Il mondo delle comunicazioni in particolare psichico-politiche-sociale non è immune da questo fenomeno. L’uso dei segnali discorsivi gioca un ruolo fondamentale nel plasmare la percezione del messaggio. Ma come possiamo sviluppare una maggiore consapevolezza critica nei confronti delle notizie? È fondamentale chiedersi chi sia il destinatario del messaggio, nel caso specifico il mondo del Pianeta Carcere comprensivo del non detentivo che è della esecuzione in misura alternativa in un momento come attuale che sono in discussione alla Camera di disegni legge e quali siano gli obiettivi dietro la sua non pubblicizzazione nei mass media. Nei fatti vi è quasi un oscuramento di queste tre proposte le cui motivazione vanno ricercate da multiple motivazioni, dal non avere una azione di massa che pone modifiche e rallenta la loro applicazione, allo stop da chi più persegue un pensiero totalitario ed afferma un no secco e determinato che vuole il punire solo il carcere e un carcere come è. Il problema è che non manca un pluralismo delle idee ma che queste vengono ridotte a pensiero unico di cui i mass media, in particolare la televisione, e chi la gestisce, ha le sue responsabilità. La televisione interagisce con i sensi umani della vista e dell’udito, in quanto sono quelli più sensibili e quindi maggiormente esposti al percepire stimoli esterni comprese le informazioni. I destinatari dell’informazioni sono pertanto quelli maggiormente sensibile e fedeisticamente ancorati, a priori ad accogliere determinate notizie che vincola spesso al concetto di verità a quella che l’uomo consumatore intende sentire e vedere. Il problema è che non manca un pluralismo delle idee ma che queste vengono ridotte a pensiero unico di cui i mass media, in particolare la televisione, e chi la gestisce, ha le sue responsabilità. La televisione interagisce con i sensi umani della vista e dell’udito, in quanto sono quelli più sensibili e quindi maggiormente esposti al percepire stimoli esterni comprese le informazioni. I destinatari dell’informazioni sono pertanto quelli maggiormente sensibile e fideisticamente ancorati, a priori ad accogliere determinate notizie che vincola al concetto di verità in quanto quelli che l’uomo consumatore intende sentire e vedere. Al contempo, per la formazione pregressa gli viene chiesto una indiscussa adesione al pensiero comune erogato dai mass media e il formulare un pensiero contrario, teme di essere stigmatizzato come appartenente se non antisociale e pertanto non cerca strumenti alternativi in quanto lo stigma che ne deriverebbe sarebbe eccessivo da portare. È preferibile mantenere un atteggiamento di silenzio compiacente in pubblico limitandosi ad esprimere dissenso in privato. La televisione costituisce il mezzo più accessibile per ottenere informazioni grazie alla sua semplicità d’uso: basta premere un pulsante e l’informazione si presenta chiaramente attraverso colori, grafica e suoni, i quali, in base all’intensità, influenzano il grado di piacevolezza o di disagio. Pertanto, non solo la notizia stessa è alquanto non oggettiva, ma colpisce anche il mondo emotivo, contribuendo a creare una nuova forma di verità basata sui sentimenti considerati più veri e attendibili. In un’epoca segnata dalla globalizzazione, è fondamentale essere consapevoli degli interessi in gioco e della possibilità che le informazioni siano personalizzate o distorto a vantaggio di interessi economici, politici o personali. Tuttavia, ciò non dovrebbe scoraggiare la scrittura su temi come il sistema carcerario e le proposte di legge per il suo miglioramento, anche se sono stati ampiamente trattati in passato ma non ancora implementati. È importante dare voce a questa realtà spesso ignorata dalla società salvo non diventi grave fatto di cronaca, poco sull’ordinario vivere non certo umanamente accettabile. Occuparsene del sistema carcerario non riguarda solo pochi individui, ma di tutti in quanto è parte integrante del tessuto sociale. Le carceri rappresentano un microcosmo di storie umane complesse, che vanno dall’oscurità alla speranza. Scrivere su questo argomento significa portare alla luce queste storie, sfidando l’indifferenza e promuovendo una maggiore comprensione e sensibilizzazione. La pratica della scrittura e della riflessione sul carcere non solo ci aiuta a esplorare le implicazioni emotive e sociali della detenzione, ma può anche essere un mezzo per esporre ingiustizie e promuovere riforme. Attraverso la diffusione di parole scritte, si può contribuire a promuovere una visione più equa e umana del sistema carcerario, coinvolgendo tutti gli attori coinvolti, dai detenuti alle istituzioni, dai cittadini comuni agli operatori del settore. Purtroppo, sembra che tale sensibilità non sia stata riflessa nelle tre proposte attualmente in discussione in Parlamento. Scrivere è riflettere sul carcere e sulle sue modifiche legislative è fondamentale per mantenere vivo il dibattito sulle questioni umane e di giustizia. Tuttavia, è importante sottolineare che il processo di promozione del cambiamento non può essere monopolizzato da certi gruppi sociali che presumono di avere una maggiore conoscenza della realtà carceraria e di come migliorarla. È solo attraverso l’inclusione di ogni voce della società che possiamo sperare di raggiungere una comprensione condivisa e lavorare verso una vita civile all’interno delle carceri, un obiettivo auspicato da tutte le parti coinvolte. Perché persistere nell’atto di scrivere, soprattutto su temi come il sistema carcerario e proposte legislative miranti a cambiamenti nell’inclusione e nella gestione, i quali sono stati precedentemente ampiamente discussi ma rimasti inascoltati? La ragione risiede nella sfida che l’Amministrazione si trova ad affrontare nel gestire con gli attuali metodi le problematiche interne estremamente negative che si stanno manifestando in maniera sempre più intensa. Queste includono non solo il proliferare dei suicidi tra detenuti e membri del corpo di polizia penitenziaria, ma anche atti di ribellione da parte dei detenuti e risposte anomale e non autorizzate da parte del personale di custodia. Dare voce a una realtà spesso ignorata dalla società assume importanza fondamentale non solo di questo essere nelle carceri e delle misure alternative ma anche delle proposte formulate in quanto il carcere non è nel possesso di pochi ma rappresenta una proprietà del contesto sociale, come avvenne negli anni 1972 -1975 che portarono ad un cambiamento epocale della pena e della sua erogazione. Premesso che le strutture totalitarie carceri sono un microcosmo di storie umane complesse, che vanno dall’oscurità alla speranza. Scrivere su questo argomento significa portare alla luce queste storie, sfidando l’indifferenza e promuovendo una maggiore comprensione e sensibilizzazione. La pratica della scrittura e della riflessione sul carcere non solo ci aiuta a esplorare le implicazioni emotive e sociali della detenzione, ma può anche essere un mezzo per esporre ingiustizie e promuovere riforme. Attraverso la diffusione di parole scritte, si può contribuire a promuovere una visione più equa e umana del sistema carcerario coinvolgendo tutti gli attori coinvolti, dai detenuti alle istituzioni, dai cittadini comuni agli operatori del settore. Purtroppo, sembra che tale sensibilità non sia stata riflessa nelle tre proposte attualmente in discussione in Parlamento. Scrivere e riflettere sul carcere e sulle sue modifiche legislative è fondamentale per mantenere vivo il dibattito sulle questioni umane e di giustizia. Tuttavia, è importante sottolineare che il processo di promozione del cambiamento non può essere monopolizzato da certi gruppi sociali che presumono di avere una maggiore conoscenza della realtà carceraria e di come migliorarla. Bisogna invece coinvolgere una varietà di prospettive e esperienze, inclusi i detenuti stessi, per sviluppare soluzioni più efficaci e rispettose dei diritti umani. La partecipazione attiva di tutti i soggetti interessati è fondamentale per creare un sistema penitenziario che sia veramente orientato al recupero e alla rieducazione, anziché alla mera punizione. Solo tramite l’inclusione di ogni voce della nostra società possiamo ambire a raggiungere una comprensione condivisa e ad avanzare verso una convivenza civile, rispettosa dei diritti umani all’interno delle mura carcerarie. Questo imperativo non fa distinzione tra chi ha commesso reati più gravi e chi meno gravi; tra chi custodisce e chi è custodito, il rispetto è reciproco trascende qualsiasi categorizzazione e diventa un dovere innato, un obiettivo da condividere da tutte le parti coinvolte. In questo contesto, l’obiettivo primario non è solo la sopravvivenza fisica, ma la vera vita, e narrare di ciò non è solo un impegno civico, ma un imperativo morale che nessuno può eludere. Concludendo con detto latino. ““Casa Iustitiae forsitan optima posita est.” - (“La casa della giustizia forse è situata nel posto migliore.”) Questa è una citazione di Cicerone, che sottolinea l’importanza di una giustizia equa e appropriata per una società giusta e ben ordinata *Dirigente superiore Ministero della Giustizia in quiescenza Beniamino Zuncheddu, trentatré anni di carcere da innocente di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 15 marzo 2024 “Voglio imparare a usare il cellulare” dice ora. Mica facile per chi è entrato in carcere nel 1991. Prima di Mani pulite. Dieci anni prima dell’attacco alle Torri Gemelle. Durante l’invasione del Kuwait, quando George Bush senior pensò di poter umiliare Saddam Hussein bruciando i suoi pozzi. Trentatré anni dopo eccolo qui il pastore dalle due vite. Beniamino Zuncheddu da Burcei. L’assoluzione, dopo trentatré anni di carcere da innocente (il 26 gennaio scorso), ne fa una leggenda tutta sarda. I bambini del paese lo cercano per un selfie. Il sindaco, Simone Monni, lo chiama. Il parroco, don Giuseppe Pisano, lo cita dal pulpito quale esempio di mite costanza. La gente lo ferma anche solo per chiedergli come sta, che progetti gli frullano in testa, quale legge interiore lo abbia tenuto vivo durante il carcere. Un uomo stanco - Detenuto modello del famigerato penitenziario di Uta, capace di rispettare le regole quanto e più di un carabiniere, oggi Zuncheddu appare stanco. La lunga marcia verso la verità lo ha indebolito: “Sono stato da un professorone a Cagliari” confida al telefono. “Ho avuto una semi paresi e l’occhio non vede bene. Mi ha dato gli antibiotici intanto poi si vedrà...” Torna allora a parlare del suo cellulare fiammante, un regalo di Augusta, sorella e quasi alter ego. “Sai che sono su Facebook?” sorride, soddisfatto, dal divano di casa. È vero. La vita punto.com di quest’uomo senza rancore è iniziata dopo l’assoluzione: “Mia nipote” spiega “mi sta insegnando a rispondere ai messaggini ma non è facile. Ho iniziato tardi...” Cellulari. Ipad. Beniamino, 60 anni, le lancette dell’istruzione ferme alla seconda media, deve ancora familiarizzare con questi oggetti venuti da un inaspettato futuro. Piovono cuoricini sul suo profilo. Si moltiplicano i like. L’innocenza all’epoca di X esige però familiarità con le tecniche di comunicazione. E lui deve ancora imparare. Arrestato, condannato, detenuto, ha scontato la pena per una strage che non avrebbe mai potuto commettere. Il massacro di Su Enazzu Mannu a Sinnai (Cagliari) avvenuto l’8 gennaio 1991 ad opera di un killer dal braccio allenato: tre morti e un sopravvissuto divenuto in seguito supertestimone. Lui, Zuncheddu, non sapeva sparare. Mai stato neppure a caccia. Di più: già esonerato dal servizio militare per un problema alla spalla destra, non poteva poprio imbracciare un’arma. Eppure fu indicato come l’abilissimo assassino che quella sera fece fuoco su quattro persone, quasi in simultanea. In una lacunosa testimonianza il sopravvissuto Luigi Pinna lo additerà come il killer di Sinnai anche se, indagini difensive e verifiche successive, hanno fatto emergere la verità. Pinna fu pilotato dal poliziotto Mario Uda che gli mostrò la foto del pastore di Burcei, influenzandolo. L’unica testimonianza a carico di Zuncheddu era stata creata a tavolino. L’ex poliziotto, divenuto poi investigatore privato, non ha mai voluto rilasciare interviste su quel caso che lo impegnò brevemente nel 1991. Tutti, ora, cercano Beniamino. Quasi un collettivo, impellente bisogno di domandare scusa. Che è povuta, ovviamente, nel pieno della campagna elettorale per l’elezione del nuovo governatore sardo: “Anche Tajani” confida lui “mi ha cercato ma ho dovuto dire no perché non ce la facevo a raggiungere Nuoro: troppo faticoso e non mi sentivo bene...” Il ministro degli Esteri ha dovuto rinunciare a stringere la mano del pastore di Burcei. “Mi arrivano lettere dalle comunità sarde di tutta Europa: ne ho ricevute da Londra, dalla Francia e dalla Germania. Tutti tifano per me” ride lui, pastore per sempre. Ci sarà il tempo per riflettere anche su questo, intanto Beniamino annuncia un libro: un racconto autobiografico scritto assieme al difensore, Mauro Trogu, sarà pubblicato a breve per De Agostini. In quelle pagine si parlerà ad esempio di sua sorella Augusta. Domestica, allevatrice. Due figlie e il dolore affrontato a mani nude, con l’aiuto di una fede casalinga fatta di santini e qualche sassolino tolto dalle scarpe al momento giusto. Augusta sospira e Beniamino sottolinea: “Sono stato sepolto in un pozzo, quello del carcere per trentatré anni. Se non fosse stato per mia sorella una volta uscito sarei stato un barbone, senza un tetto né un tozzo di pane. Che giustizia è?”. Verrà il momento di analizzare anche il lato pratico dell’esistenza di un innocente. Appare più che probabile una richiesta di risarcimento da parte del pastore di Burcei. Questo non vuol dire che arriverà (sempre che arrivi) in tempi ragionevoli. Un’altra inchiesta - Il procuratore generale di Cagliari, nei giorni scorsi, ha trasmesso gli atti alla Procura, incluse quelle intercettazioni che hanno rivelato l’innocenza di Beniamino e l’influenza di Uda su Pinna. Il procuratore capo Rodolfo Sabelli ha in mente di riaprire l’inchiesta sul massacro del 1991. Zuncheddu sarà ascoltato quale testimone dei fatti. La pista più accreditata, ora, è che quei morti fossero collegati al rapimento di un imprenditore della zona, un sequestro, quello di Giovanni Murgia, che si risolse con il pagamento di 600 milioni di lire. Tutti in paese ne parlarono. Tutti sembravano sapere. In via ipotetica le vittime dell’eccidio - Gesuino Fadda, suo figlio Giuseppe e il loro pastore Ignazio Pusceddu - avrebbero avuto informazioni sugli autori di quel rapimento che portò con sé una coda avvelenata di sospetti e polemiche. Scrivono Trogu e la garante dei diritti dei detenuti della Sardegna Irene Testa nel loro libricino sulla vicenda L’ergastolano e l’avvocato pubblicato dalla fondazione Marco Pannella: “Leggendo le carte sorge il fortissimo dubbio che Beniamino fosse un povero capro espiatorio sacrificato per evitare che si scoprisse che quegli omicidi erano collegati a un sequestro di persona per il quale anni dopo verranno condannati alcuni importanti confidenti del giudice Luigi Lombardini (il noto magistrato impegnato nella lotta al banditismo sardo, ndr)”. Nessuno indagò quella pista e il massacro di Sinnai fu ricondotto a tutt’altro movente. Si disse che era una guerra per ragioni pastorali, di puro predominio della zona. Ad esempio restò fuori dal perimetro investigativo la lunga deposizione di Murgia che, una volta recuperata la sua libertà, testimoniò una serie di circostanze utili a individuare la banda dei rapitori. Lo scenario che assolve definitivamente Beniamino implica nuove, complesse ricerche se si considera il tempo trascorso. Zuncheddu sarà ascoltato come persona informata sui fatti dai magistrati. Sull’argomento preferisce non dire ma ripete quello che ha già scandito nel corso della conferenza stampa organizzata dal Partito radicale all’indomani dell’assoluzione: “Le accuse contro di me erano un castello di sabbia” dice “ma hanno retto più del previsto. Non provo rabbia perché so che la rabbia fa male a sé stessi e non voglio soffrirne però penso ci sia stato un complotto contro di me”. Certo, si è trattato di un caso di enorme clamore. “Vespa mi ha invitato a parlarne, forse andrò a Roma per una intervista” sorride. Il presente è scandito da lunghe camminate, affrontate quasi sempre con amici e parenti: “Sogno la campagna o la montagna, basta che sia natura a me va tutto bene” fa sapere. Respira. Come non accadeva da tanto. Il sabato qualche pizza con amici. La domenica il pranzo in famiglia. Il resto della settimana scorre quieto come i sonnellini dopo pranzo: “La cosa più importante ora è curarmi” dice. Non solo nel corpo ma forse anche nello spirito. Sisto: “Separazione delle carriere, pagelle dei magistrati e Csm, cambieremo tutto” di Alessandro Barbano Il Riformista, 15 marzo 2024 Il destino delle riforme, i rapporti tra Meloni e Nordio, lo scandalo dei dossier: parla il viceministro. La separazione delle carriere è il fantasma che appare e scompare dall’agenda di legislatura. Ieri il governo, dopo un vertice con il guardasigilli e i leader della maggioranza, ha annunciato la presentazione di un ddl costituzionale ad aprile. Oggi la maggioranza ha fatto saltare la discussione sulla proposta di legge delle camere penali, fatta propria dalla maggioranza ma non da FdI, sostenuta da Renzi e calendarizzata in Parlamento. C’è chi dice che è un modo per metterla in coda al premierato e spedirla in un vicolo cieco perché né la Meloni, né Mantovano vorrebbero la separazione? “È una tempesta in un bicchier d’acqua, unitamente a un falso ideologico. Perché il Parlamento va certamente rispettato, ma vi era la necessità che il governo partecipasse ai lavori della commissione con una qualche idea. E a brevissimo, cioè all’inizio del prossimo mese, il governo presenterà un’idea, che non sarà distante da quella che è in discussione. Si è trattato anche della necessità di far sentire al Parlamento che questo tema per noi di Forza Italia è ineludibile. La separazione delle carriere è la riforma delle riforme, quella che restituisce al cittadino una geometria piana della giustizia, cioè un triangolo isoscele al cui vertice c’è il giudice, e alla base, alla stessa distanza dal giudice, ci sono accusa e difesa, pm e avvocato. Questa giustizia percepita fa sì che il cittadino veda nel giudice un punto di riferimento, un giudice diverso tanto dall’accusa quanto dalla difesa. Significa recuperare una dimensione costituzionale della Giustizia. Non a caso la Carta dice che solo il giudice è terzo e imparziale. Il falso ideologico sono le strumentalizzazioni che vogliono privare il governo dell’adempimento di un punto del programma elettorale. Noi lo faremmo nel miglior modo possibile e rispettando i percorsi parlamentari. Nessuna cripticità”. Ha letto l’intervista del procuratore generale della Cassazione, Margherita Cassano al Foglio? Se c’è un punto in cui contravviene al proposito di astenersi dal dibattito politico, è proprio quando dice che la separazione delle carriere è un falso problema, perché riguarderebbe solo il due per cento dei magistrati che passano da una funzione all’altra. Ignorando cioè che la questione è tutt’altra e riguarda la contiguità tra inquirente e giudicante, cioè tra parte e giudice terzo. Non teme che in Parlamento e nel Paese non esista una maggioranza per sfidare la resistenza corporativa della magistratura associata? “Rispetto tutte le opinioni e in particolare quella della presidente Cassano, che sta costantemente sul pezzo e non si risparmia nel tentativo di dare efficienza al sistema. Ma il problema non sono i magistrati che passano dalla procura alla giudicante, il problema sono gli equilibri all’interno del processo e la percezione che ne ha il cittadino. Se vogliamo dirla con una metafora calcistica, non è possibile che l’arbitro appartenga alla stessa città di una delle due squadre in campo. Lo comprende chiunque. La terzietà deve essere garantita dall’ordinamento giudiziario. Quanto invece all’imparzialità, afferisce invece alla sfera del singolo giudice. In questa stereofonia tra certezza dell’ordinamento di terzietà e posizione soggettiva del giudice che deve essere imparziale c’è il disegno dell’articolo 111 della Costituzione”. In che modo sarà realizzata la separazione? Con un Csm autonomo e un controllo parlamentare, o con l’inserimento del pm sotto l’egida del ministero della giustizia? “Respingo al mittente come palla spaziale ogni ipotesi di sottomissione del pubblico ministero all’esecutivo, tant’è che l’articolo 104 della Carta non viene toccato dalla riforma e i magistrati rimangono autonomi e indipendenti. Senza nessuna possibilità di ipotetica deriva. Questo fantasma della sottomissione è solo un espediente dialettico, che lascia il tempo che trova. Per quanto riguarda le modalità, ci sono quattro proposte, se ne aggiungerà una governativa e poi sarà il Parlamento a scegliere. Ci sono state audizioni importanti, è giusto raccogliere tutti i pareri possibili. Poi però l’ultima parola spetta alle Camere. L’articolo 101 della Costituzione dice che i giudici sono soggetti solo alla legge. Vuol dire che il Parlamento non deve ingerirsi nella giurisdizione, ma anche che il giudice non deve ingerire nei percorsi parlamentari. Questa è la divisione dei poteri. Il Parlamento non giudichi e i giudici non legiferino”. Il vertice a Palazzo Chigi tra Meloni e Nordio è servito a ricomporre una frattura, dopo la sortita del ministro che aveva proposto una commissione parlamentare d’inchiesta sui dossier abusivi e il governo che l’ha smentito, affidando la questione all’Antimafia. Ha prevalso una logica difensiva, preoccupata di far decantare o deflagrare l’incendio dov’è scoppiato. Ma una vicenda di inaudita gravità non meritava di più? “L’incontro tra premier e ministro non ha riguardato il tema del dossieraggio, ma una messa a fuoco dei temi delle riforme costituzionali. Né mi è sembrato che servisse per ricomporre alcunché. È stato un incontro pacato, in cui ciascuno ha avuto modo di esprimere le sue opinioni e poi con molta sinergia si è optato per rispettare i percorsi parlamentari e dare un contributo da parte del governo”. Ma l’Antimafia è una ridotta parlamentare di cui fa parte, non a caso, l’ex capo della Procura nazionale al centro e al tempo dello scandalo... “Il fenomeno del dossieraggio è gravissimo, perché è accaduto in un luogo che dovrebbe essere il luogo del contrasto più serrato rispetto alle forme più gravi di criminalità. Cioè nel tempio della sicurezza nazionale. Però le terapie possono essere diverse. C’è una terapia delle indagini, un’altra appartiene alla Commissione Antimafia. In prima linea è naturale che tocchi a loro. Poi nulla esclude che domani non si possano immaginare altre forme di intervento”. Quindi ha torto Crosetto, quando dice di temere il rischio che non si arrivi a nulla? “Capisco le preoccupazioni di Crosetto, ma sono convinto che l’inchiesta in corso sarà capace di andare fino in fondo, è quello che vogliamo tutti”. Ma lei che idea si è fatto dello scandalo? C’è un grande vecchio, c’è un mercato delle notizie rubate, come azzardano Melillo e Cantone? Oppure le deviazioni sono frutto di una polizia giudiziaria fuori controllo, che si è trasformata in un servizio segreto à la page? “Io sono un penalista e sono abituato a giudicare le vicende giudiziarie sugli atti. Mantengo quella naturale prudenza quando quegli atti non conosco”. Ma si è chiesto almeno perché la maggior parte degli spiati appartiene al campo politico e culturale del centrodestra? “Prendo atto, da quello che si legge, che una larghissima percentuale di dossierati appartiene al centrodestra. Il dato è estremamente preoccupante, perché potrebbe dare l’idea di un disegno di tipo politico. Le indagini in corso dovranno dirci se è vero”. Però l’Antimafia è diventato un totem nella nostra democrazia, da cui la politica gira al largo per paura di scottarsi. Accade che la Cedu metta un faro sul sistema di prevenzione, che consente la confisca di patrimoni e aziende anche ai cittadini assolti, in base a un rovesciamento della colpevolezza in pericolosità. Anziché difendere un sistema feroce e illiberale, come sta facendo il governo, non sarebbe meglio prendere atto della sua contrarietà ai principi del diritto liberale e modificarne almeno gli eccessi? “La confisca senza colpevolezza è un tema che merita approfondimento. Non si può negare però che le confische siano state un efficacissimo strumento di lotta alla criminalità. Vi sono in Parlamento anche numerose proposte, anche di Forza Italia, per modificare alcuni meccanismi invasivi e provare a mitigarne gli effetti”. Tuttavia il ministero garantista, rappresentato da due profili nobili come Nordio e Sisto, fin qui ha messo la firma solo su provvedimenti che inasprivano pene, introducevano nuovi reati, e allargavano il perimetro di applicazione della legislazione speciale antimafia. Mentre l’unico provvedimento riformatore varato galleggia in Parlamento tra veti e pareri contrari. Non è un bilancio magro a un terzo di legislatura? “La sua domanda è suggestiva perché contiene dati non proprio rispondenti al vero. Innanzitutto perché al ministero siamo una squadra, di cui fanno parte anche con i colleghi Delmastro e Ostellari. E facciamo squadra. E poi perché non è vero che il numero dei reati inseriti nel sistema sia esuberante rispetto alle regole ispirate alla tutela del cittadino. Anzi, il nostro primo obiettivo è uscire da una postura inquisitoria e pensare alla protezione del cittadino. Il cosiddetto Nordio uno - che prevede l’abolizione dell’abuso ufficio, la tipizzazione del traffico di influenze, i limiti alla pubblicazione delle intercettazioni, i limiti all’informazione di garanzia, le misure cautelari collegiali e l’obbligo di interrogatorio e, da ultimo i limiti all’appello da parte pubblico ministero delle sentenze di assoluzione - non galleggia affatto. Ieri lo abbiamo incardinato in commissione giustizia alla Camera e presto sarà legge. Quanto al resto, abbiamo introdotto il divieto di intercettare i colloqui tra indagati e difensore. E il divieto di riportare nei verbali le generalità dei terzi estranei. Abbiamo rafforzato l’obbligo di motivazione per l’uso del Troyan. Perché questo è un governo che ha a cuore il cittadino. Sì, ci sono stati anche interventi di risposta all’emergenza che si possono discutere, però le riforme le stiamo scrivendo per i cittadini. E su questo si vede tutto l’amore che Forza Italia ha per la Costituzione, e che il nostro segretario Antonio Tajani ha testimoniato più volte. Non a caso il prossimo provvedimento riguarda il sequestro dei telefoni cellulari: il pm dovrà chiederlo al giudice e dovrà distinguere i documenti e i file dai messaggi privati, per i quali occorrerà una ulteriore specifica richiesta ai sensi della disciplina delle intercettazioni”. La pagella dei magistrati, introdotta dalla Cartabia, è stata svuotata, passando da una rigorosa valutazione di performance a controlli a campione. Non è un cedimento alle pressioni della magistratura associata che dal Csm tuona contro qualunque logica meritocratica? “Il decreto non c’è ancora, le commissioni hanno dato dei pareri, noi lui valuteremo rispettando la volontà del Parlamento. Che vuole i test attitudinali e chiede di prendere in esame tutti i provvedimenti e non solo quelli a campione. Di questo si terrà conto”. Ma in che modo intendete riformare il Csm e sottrarlo all’egemonia delle correnti? “C’è in commissione al Senato la proposta di legge Zanettin sul sorteggio temperato nei criteri di elezione del Csm. È un provvedimento che è oggetto di attenzione, da qui si parte. Personalmente sono favorevole alle correnti quando non diventano cordate”. È d’accordo nell’istituire il voto segreto sulle delibere che riguardano le nomine dei magistrati nelle posizioni apicali? “Il problema è complesso, deciderà il Parlamento. Ma è certamente utile riflettere su tutti i meccanismi che possano garantire alla magistratura autonomia e indipendenza”. L’emergenza carceri ha superato il livello di guardia di un Paese civile, con 62 mila detenuti e 24 suicidi dall’inizio dell’anno. Si può continuare a rispondere con i progetti di un’improbabile edilizia carceraria e non disporre misure di decongestionamento immediato? “Abbiamo fatto indagini specifiche nei luoghi dove sono accaduti i suicidi, abbiamo completato gli organici di supporto psicologico, stiamo assumendo oltre duemila agenti di polizia penitenziaria e stiamo cercando essere maggiormente attenti all’umanizzazione dei luoghi di detenzione”. È possibile farlo se si sta in dodici in una cella? “C’è una sentenza, la cosiddetta Torreggiani, che impone determinati standard. Quello che posso dire è che il ministro Nordio è molto attento a questi temi e il nostro dipartimento è molto sollecitato affinché questi fenomeni siano scongiurati”. L’indulto? “Non è un giudizio che compete al viceministro della giustizia, ma al Parlamento”. “Costruire” i nuovi magistrati: più dei test serve riformare il reclutamento di Guido Salvini Il Dubbio, 15 marzo 2024 Non abbiamo bisogno di magistrati “istantanei” post-laurea ma di persone formate e complete che siano in grado di giudicare gli altri. Il vero test psicoattitudinale è l’esperienza di vita. Con la proposta governativa di introdurre test psicoattitudinali per i candidati prima del concorso si è aperto un altro fronte nella più che trentennale guerra tra politica e magistratura. I test dovrebbero essere somministrati a tutti gli aspiranti magistrati ma l’intenzione profonda del progetto riguarda soprattutto i futuri Pubblici Ministeri. A loro si pensa in particolare perché un Pubblico Ministero maldestro o disinvolto può distruggere la vita di una persona con una semplice informazione di garanzia o una iscrizione nel registro di notizie di reato che spesso vengono subito rese pubbliche. E neppure una assoluzione successiva ripara i danni subiti. Al di là di ogni valutazione di schieramento o ideologica, sempre da evitare, nel merito comunque è una proposta assai poco praticabile. Basti pensare che bisognerebbe somministrare a tutti i candidati probabilmente le 567 domande del Minnesota Multifasic Personality, il test più comune anche nelle perizie giudiziarie, che comporta anche un colloquio finale con uno psicologo o uno psichiatra. Un lavoro enorme per una macchina concorsuale già sovraccarica e comunque dai risultati incerti. Un approccio infatti che è certamente utile in altri contesti e in situazioni singole come la decisione sull’affidamento dei figli ma difficilmente lo è su una massa di persone. Il vero problema da affrontare e di cui non si parla mai è quello del reclutamento dei magistrati ormai sul piano qualitativo del tutto insoddisfacente. Oggi i magistrati sono molto frequentemente ragazzi di meno di trent’anni che spesso hanno vissuto solo in famiglia, che non hanno quasi nessuna esperienza di vita, non hanno maturato una conoscenza delle dinamiche della società, dei fenomeni collettivi in continua trasformazione, che non hanno mai conosciuto sul piano psicologico personale le difficoltà e anche i dolori. Sono anche spesso carenti di cultura generale, soprattutto in quelle materie psicologiche, sociologiche, mediche che servono per fare il magistrato. Anche l’italiano dei candidati, ci raccontano i commissari d’esame, è spesso zoppicante. Sono quelli che poi scrivono sentenze astruse, incomprensibili e piene di termini tautologici e astratti. Con la nuova disciplina del concorso, che non è più di secondo grado ma può essere affrontato subito dopo la laurea, i candidati non devono nemmeno aver svolto un tirocinio o un corso di specializzazione. Chi vince ha semplicemente azzeccato 3 temi, magari con un po’ di fortuna. C’è chi conosce perfettamente le sentenze della Cassazione ma non molto di più. Eppure il concorso dà loro diritto di decidere su ogni aspetto della vita dei loro concittadini, dalla libertà personale ai beni economici, dalla vita familiare all’onore personale. In più per gli stranieri di decidere sul loro diritto o meno di essere accolti in Italia. Una volta vinto il concorso i magistrati non vengono più sottoposti a verifiche perché tutti sappiamo che le valutazioni di professionalità sono a risultato automaticamente positivo, non solo per i mediocri ma anche per gli incapaci che rimarranno comunque sino alla pensione. Una volta vinto il concorso l’immenso potere ottenuto, non più reversibile, rischia di produrre una pericolosa dilatazione dell’Ego. Tutti ne conosciamo, e qualcuno che legge forse anche sulla propria pelle, qualche esempio. È una situazione che non ha paragoni in nessun altro settore produttivo, terziario o intellettuale. Nemmeno nel mondo politico in cui bisogna almeno essere rieletti. Per superare questa situazione il reclutamento dovrebbe essere articolato in modo diverso e più approfondito. Se ne può ipotizzare una traccia, superando l’idea del vaglio unico che dà ben poche garanzie. Si può ipotizzare un primo concorso dopo la laurea, unico anche per gli aspiranti avvocati, utile quindi anche ai fini di una comune formazione professionale, e che dovrebbe dare un iniziale titolo abilitativo. Per chi intende svolgere il lavoro di avvocato sarebbe titolo per esercitare la professione. Poi serve un periodo di almeno 3-4 anni in cui chi ha superato il primo concorso si forgia, deve svolgere un lavoro nel settore pubblico o privato che sia, avvocato, cancelliere, insegnante, dirigente d’azienda o qualsiasi altro che comporti un contatto col mondo e un sistema di regole. Oppure in alternativa deve frequentare un corso di formazione serio. Sarebbe questo il vero test psico-attitudinale con cui si dimostrano le capacità, si può ottenere la conoscenza effettiva di una persona e in cui possono venire a galla le controindicazioni anche psicologiche o comunque di equilibrio e di carattere. Poi si dovrebbe prevedere un secondo concorso, che tenga conto anche delle esperienza maturate e che quindi si svolgerebbe di norma intorno ai 33- 35 anni, per entrare, solo allora, in magistratura. In sostanza il vero test psicoattitudinale è la maturità e l’esperienza di vita. Un progetto quindi simile a quello dell’ordinamento francese in cui ad un primo concorso segue una formazione seria di 2 anni presso l’École Nationale de la Magistrature e poi un concorso finale. Solo al termine di questa formazione, in cui sono previste anche prove pratiche, si diventa magistrato. Chi frequenta il corso riceve una indennità economica per evitare scremature per censo. Sistemi più o meno analoghi esistono in Germania, Spagna e Portogallo e in altri paesi europei mentre nei paesi di lingua inglese la scelta è operata in genere su avvocati e altri professionisti che hanno una significativa esperienza nel rispettivo ambito. La cosa curiosa è che negli anni 70, quando non c’era ancora la guerra tra politica e magistratura, era stato proprio il CSM a presentare al Ministro di Giustizia un progetto abbastanza simile. Prevedeva infatti anch’esso un primo concorso di tecnica giuridica, poi un corso di 3 anni con valutazioni periodiche, non destinato a promuovere tutti ma di autentica selezione, con un giudizio di idoneità finale alle funzioni giudiziarie. Era prevista anche una prova di cultura generale per verificare il possesso delle conoscenze storiche, sociologiche economiche indispensabili per la formazione culturale del giudice. E, per un curioso paradosso della storia, nessuno lo ricorda più, il progetto del CSM prevedeva anche una valutazione medico-diagnostica in merito all’assenza di turbe o problemi comportamentali che rendessero il candidato inidoneo alle funzioni giudiziarie. Purtroppo del progetto non se ne è fatto nulla. Certo esiste oggi una buona Scuola Superiore della Magistratura ma chi segue le lezioni è già un magistrato e la Scuola non seleziona nessuno, basta la frequenza. In sintesi: a qualsiasi progetto si voglia pensare non abbiamo bisogno di magistrati “istantanei” post-laurea ma di persone formate e complete di cui essere certi che siano in grado di giudicare gli altri. Violenza di genere. Nordio: “Educazione e informazione favoriscono la prevenzione” di Fiorenza Elisabetta Aini gnewsonline.it, 15 marzo 2024 Due lavori diversi con un unico obiettivo: contribuire - attraverso la conoscenza - alla prevenzione della violenza di genere. Una raccolta di norme da una parte; un opuscolo più divulgativo, immagini e grafica, dall’altro. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha illustrato questa mattina, alla stampa nella Sala Livatino del Dicastero, i due elaborati, insieme a Maria Rosaria Covelli, presidente dell’Osservatorio permanente sull’efficacia delle norme in tema di violenza di genere e domestica, e a Angela Colmellere e Michela Pizzinat, autrici del leaflet, destinato ad una più ampia divulgazione. “Il Governo, a partire dalla presidente Meloni ha premesso Nordio - è sempre stato sensibile al tema della violenza sulle donne. Di questo lavoro il ministero della Giustizia é particolarmente orgoglioso”. Il primo lavoro è una raccolta di norme, nazionali e sovranazionali, la prima nel suo genere, realizzata dal sottogruppo dell’Osservatorio coordinato da Giuseppina Casella. Si tratta di una ricostruzione di facile consultazione, per addetti ai lavori, studiosi, e chiunque voglia approfondire un tema che é “un continuo work in progress”, come detto dalla presidente Covelli. L’altra pubblicazione punta sulla forza delle immagini e su un linguaggio più immediato, destinato ad una platea più ampia possibile. Entrambi tendono a contribuire ad una prevenzione della violenza di genere. In reati di questo tipo, “oltre alla repressione, occorre favorire la prevenzione, anche aumentando informazione ed educazione”, ha commentato il Guardasigilli. “Abbiamo, per la prima volta, abbinato la costruzione di tutta la normativa esistente in tema di violenza di genere con un opuscolo, in cui sono riassunti i segnali di allarme” di una possibile escalation di violenza, che le donne devono imparare a riconoscere. Allo stesso tempo si rivolge anche ai potenziali futuri aggressori per favorire un’educazione costituzionale al diritto e al rispetto. Il Ministro ha poi snocciolato i dati del Ministero sulle sentenze di condanna in primo grado per alcuni reati connessi alla violenza di genere: nel 2022 ci sono state 3.443 condanne per maltrattamenti in famiglia, 973 per violenze sessuali, 2.281 per atti persecutori. “Numeri impressionanti, di fronte ai quali dobbiamo intervenire” ha sottolineato il Ministro Nordio. Nordio ha poi ricordato che la prossima settimana sarà a Parigi, dove incontrerà il suo omologo Dupond-Moretti, per la seconda fase dell’attuazione del cosiddetto Trattato del Quirinale, siglato dai presidenti Emmanuel Macron e Sergio Mattarella. Uno dei temi in agenda sarà proprio un confronto anche sulle rispettive scelte in tema di contrasto e prevenzione alla violenza di genere. Attraverso la raccolta delle norme è possibile registrare l’evoluzione negli anni anche della sensibilità del legislatore rispetto al fenomeno della violenza di genere; “una storia che cammina” ha commentato Maria Rosaria Covelli, che ha anche brevemente illustrato le attività dell’Osservatorio permanente sull’efficacia delle norme in tema di violenza di genere e domestica, insediatosi nel novembre 2022. Tra le principali ultime attività, la realizzazione assieme al Csm di un questionario inviato a tutte le 140 Procure d’Italia “che hanno già tutte risposto”, come è emerso nella presentazione. “Graviano legga libri sulla mafia, nessun rischio per lo Stato” di Lucio Musolino Il Fatto Quotidiano, 15 marzo 2024 Considerato che i libri sono stati acquistati all’interno dell’istituto ove è ristretto Giuseppe Graviano, il provvedimento impugnato non ha spiegato (se non in modo apodittico) le concrete e specifiche ragioni per le quali, dall’utilizzo di essi, deriverebbe un concreto pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica”. Sono le motivazioni con cui a dicembre la Cassazione ha annullato l’ordinanza con cui il Tribunale di Reggio Calabria a luglio aveva bloccato tre libri sulla mafia acquistati dal boss di Brancaccio per il tramite dell’impresa interna al carcere di Terni dove è detenuto al 41 bis. Si tratta, in particolare, di volumi che facevano parte della collana “Storia della criminalità organizzata” pubblicata nel 2023 in allegato alla Gazzetta dello Sport. Accogliendo il ricorso dell’avvocato Vincenzo Dascola, secondo cui il blocco dei libri sarebbe avvenuto “in palese violazione di legge”, la Suprema Corte ha ribadito che “la norma non deve imporre limitazioni che appaiano inutili rispetto allo scopo del regime detentivo speciale”. La data del reato definisce il regime di prescrizione applicabile di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 15 marzo 2024 La Cassazione, sentenza n. 10483 depositata ieri, fa chiarezza sui diversi regimi della prescrizione che si sono susseguiti negli ultimi anni: partendo dalla riforma Orlando, passando poi per quella Bonafede fino ad arrivare alla Cartabia attualmente in vigore. Secondo il ricorrente - condannato per guida in stato di alterazione psicofisica dovuta alla supposta assunzione di sostanze stupefacenti, non verificata in fatto, in quanto il guidatore si era rifiutato di sottoporsi ai test - il giudice di merito avrebbe errato nel ritenere che il reato, commesso il 29 novembre 2017, non fosse prescritto, applicando non la legge Orlando ma la successiva legge Cartabia più favorevole all’imputato. Per la IV Sezione penale si deve prendere atto della coesistenza di diversi regimi di prescrizione, applicabili in ragione della data del reato commesso. In particolare, precisa la Cassazione: 1) per i reati commessi fino al 2 agosto 2017, si applica la disciplina della prescrizione dettata dagli articoli 157 e ss. cod. pen., così come riformulati dalla legge 5 dicembre 2005 n. 251 (C.d. legge ex Cirielli); 2) per i reati commessi a far data dal 3 agosto 2017 e fino al 31 dicembre 2020, si applica la disciplina della prescrizione come prevista dalla legge 23 giugno 2017 n. 103 (C.d. legge Orlando), con i periodi di sospensione previsti dall’articolo 159, comma 2, cod. pen. nel testo introdotto da tale legge; 3) per i reati commessi a far data dal 1° gennaio 2020, si applica in primo grado la disciplina della prescrizione come dettata dagli articoli 157 e ss. cod. proc. pen, senza conteggiare la sospensione della prescrizione di cui all’articolo 159, comma 2, cod. pen., essendo stata tale norma abrogata dall’art. 2, comma 1, lett. a), legge n. 134/2021 e sostituita con l’articolo 161 bis cod. pen. (C.d. riforma Cartabia), e nei gradi successivi la disciplina della improcedibilità, introdotta appunto da tale legge. Conseguentemente, il reato per il quale si procede non è prescritto. Infatti, spiega ancora la Corte, trattandosi di fattispecie commessa il 29 novembre 2017, quindi nel periodo ricompreso tra il 3 agosto 2017 e il 31 dicembre 2020 (come correttamente ritenuto dal giudice d’appello), si applica la disciplina della prescrizione prevista dalla legge Orlando (con i periodi di sospensione previsti dall’aricolo. 159, comma 2, cod. pen., nel testo introdotto da detta legge, in concreto computabili per il tempo massimo di un anno e sei mesi). La Corte ha invece accolto il ricorso, con rinvio a diversa sezione della Corte di appello, nella parte in cui riteneva carente il ragionamento svolto dai giudici di merito per negare l’applicabilità della causa di non punibilità prevista dall’articolo 131 bis cod. pen., in considerazione delle “plurime violazioni della legge in materia di stupefacenti” e, dall’altro, della condotta “sintomatica di scarsa responsabilità” tenuta nei confronti delle forze dell’ordine”. Il reato per cui si procede, si legge nella decisione, “non punisce una mera, astratta disobbedienza ma un rifiuto connesso a condotte di guida indiziate di essere gravemente irregolari e tipicamente pericolose, il cui accertamento è disciplinato da procedure di cui il sanzionato rifiuto costituisce solitamente la deliberata elusione”. Non solo, anche con riferimento al tema dei precedenti penali, per la Corte, “va evidenziato che al fine di escludere l’applicabilità della causa di non punibilità prevista dall’art. 131 bis cod. pen. non è ammessa la valutazione della vita anteatta dell’imputato in quanto l’art. 131 bis, comma 1, cod. pen. si limita a richiamare il primo comma dell’art. 133 cod. pen.”. Con riguardo alla interpretazione del sintagma “medesima indole”, conclude la Corte, sebbene nella giurisprudenza di legittimità si sia adottata un’interpretazione ampia, “non è chiarito nella pronuncia quale uguaglianza di natura possa istituirsi tra i reati di detenzione e cessione illecite di stupefacenti e la contravvenzione prevista dall’art. 187, comma 8, cod. strada.”. Parma. Detenuto si impicca in cella d’isolamento. I familiari: “La Procura faccia chiarezza” di Daniel Fermanelli Corriere Adriatico, 15 marzo 2024 Aveva 28 anni, trovato impiccato con un lenzuolo. Verrà presentato un esposto. Ancora una tragedia nelle carceri italiane. Un 28enne è stato trovato morto in una cella dell’istituto penitenziario di Parma, dove si trovava in isolamento. Si sarebbe tolto la vita impiccandosi con un lenzuolo ma la famiglia è pronta a presentare un esposto alla Procura per chiarire i contorni dell’accaduto. La vittima è A. T., di nazionalità italiana e residente a Monterubbiano (il padre è marocchino, la madre del Fermano). Il giovane, con problemi di tossicodipendenza, era in carcere da dicembre e da domenica scorsa si trovava in isolamento per motivi disciplinari. “Aveva dato in escandescenze - racconta l’avvocato Caterina Ficiarà, che assiste la famiglia della vittima - ed era stato bloccato in maniera piuttosto energica dalla polizia penitenziaria. Proprio per questo motivo gli era stato somministrato un ansiolitico ed era stato spostato in isolamento. È sempre stato un ragazzo difficile e per le sue intemperanze aveva cambiato diverse carceri. Ma ora vogliamo comprendere con esattezza le cause del decesso e per questo ci rivolgeremo alla magistratura”. La tragedia è avvenuta ieri mattina. “I familiari hanno ricevuto la terribile notizia intorno a mezzogiorno. Vogliamo capire come sia stato possibile che si sia suicidato in una cella di isolamento. Gli istituti penitenziari hanno l’obbligo di preservare la salute e la sicurezza dei detenuti”. L’emergenza nazionale - Quella dei suicidi nelle carceri è una vera e propria emergenza a livello nazionale. “Ho subito chiamato l’avvocato Giancarlo Giulianelli, garante regionale dei diritti della persona, che a sua volta ha informato dell’accaduto il garante emiliano Roberto Cavalieri”. Quest’ultimo si è recato nel carcere di Parma per un confronto con la direzione e ha ribadito che “il problema dei suicidi non può essere sottovalutato: è una vera e propria emergenza”. La morte del 28enne, una volta che l’avvocato Ficiarà formalizzerà l’esposto, finirà all’attenzione della magistratura. “Vogliamo comprendere le cause del decesso - ribadisce il legale della famiglia del giovane fermano - e accendere i riflettori sui troppi drammi che avvengono negli istituti penitenziari”. Il giovane più volte era finito nel mirino delle forze dell’ordine. “Si trovava in carcere per una rapina commessa nel maggio dello scorso anno a Civitanova. Stava scontando la sua pena dietro le sbarre. Era in contatto con una comunità terapeutica e voleva rifarsi una vita una volta tornato in libertà”. Teramo. 20enne suicida in carcere, i parenti denunciano: “È stato pestato”. Oggi l’autopsia di Antonio D’Amore Il Fatto Quotidiano, 15 marzo 2024 Mentre infuria la polemica e il caso diventa inevitabilmente anche una questione politica, sarà oggi l’autopsia il primo atto ufficiale dell’inchiesta sulla morte di Patrick Guarnieri, il 20enne suicidatosi mercoledì nel giorno del suo compleanno, impiccandosi all’inferriata della finestra del bagno della sua cella nel carcere di Castrogno, a Teramo. A muovere l’inchiesta non è solo l’interesse della Procura, ma anche la denuncia dei parenti del ragazzo, appartenente a una delle più antiche famiglie rom di Giulianova, che ha ventilato addirittura l’ipotesi di un pestaggio, circostanza sulla quale però allo stato attuale non c’è alcuna conferma, ma anche su questa ipotesi l’autopsia sarà determinante. Il giovane era entrato nel carcere teramano due giorni prima del suicidio, per una violazione degli obblighi di dimora. Aveva un lungo curriculum giudiziario, ma soffriva anche di una serie di patologie, tra le quali una sordità quasi invalidante, e da tempo era seguito dall’equipe di neuropsichiatria della Asl teramana. Nel viaggio verso il carcere, il giorno dell’arresto, aveva accusato un malore, ma non era stato ritenuto così grave da richiedere un ricovero, così Patrick era andato in isolamento. Una condizione, questa, che deve essergli sembrata insopportabile, anche alla luce dell’avvicinarsi di quel compleanno, che non avrebbe potuto festeggiare con gli amici e i parenti. Una solitudine amplificata anche dall’arresto della madre, alla quale era legatissimo, detenuta nello stesso carcere. Quello di Patrick Guarnieri è il terzo suicidio in un anno a Castrogno, un carcere da tempo al centro di polemiche e di denunce sindacali, che ospita il 75% in più dei detenuti previsti, ma sorvegliati dal 25% in meno degli agenti di custodia necessari. Anche per questo il suicidio del giovane Patrick è molto più di un doloroso evento, è un tragico atto d’accusa su una realtà che nessuno potrà più ignorare. Reggio Emilia. Torture a un detenuto, l’avvocato: “Ora si sente confortato sul fatto di ottenere giustizia” di Alessandra Codeluppi Il Resto del Carlino, 15 marzo 2024 Pestaggio ai danni di un tunisino nell’aprile scorso, udienza preliminare per dieci agenti della Polizia penitenziaria. Hanno chiesto la costituzione di parte civile il Garante nazionale dei detenuti e quello regionale, nonché due associazioni Antigone e Yairaiha. Si è aperta stamattina in tribunale l’udienza preliminare a carico di dieci agenti della polizia penitenziaria del carcere di Reggio imputati, a vario titolo, per tortura e lesioni, oltreché per falso, nei confronti di un tunisino 44enne, in passato detenuto alla Pulce. Nel registro degli indagati erano stati iscritti 14 nomi: le restanti quattro posizioni sono state momentaneamente stralciate, in attesa del deposito delle motivazioni del riesame sull’appello promosso dalla Procura su coloro ai quali il gip Luca Ramponi non aveva dato la misura cautelare. L’indagine si riferisce ai fatti avvenuti il 3 aprile 2023, vicenda che fu anticipata dal Carlino. Secondo la ricostruzione investigativa, basata sulla videosorveglianza e testimonianze, il detenuto uscì dalla stanza del direttore, dopo essere stato sanzionato con l’isolamento per condotte che violavano il regolamento. Venne incappucciato con una federa stretta al collo. Poi fu colpito con pugni al volto mentre veniva spinto, con le braccia bloccate, verso il reparto di isolamento. E fatto cadere a terra con uno sgambetto, poi colpito con schiaffi, pugni e calci. Gli sarebbe stato torto un braccio dietro la schiena e poi sarebbero saliti sulle caviglie e sulle gambe calpestandolo con le scarpe d’ordinanza. Poi fu sollevato di peso, denudato degli indumenti e condotto nella cella di isolamento. Qui, non più incappucciato, sarebbe stato preso di nuovo a calci e pugni e poi lasciato del tutto nudo dalla cintola in giù per oltre un’ora, malgrado si fosse autolesionato e sanguinasse. Stamattina, davanti al giudice Silvia Guareschi, al procuratore capo Calogero Gaetano Paci e al pm Pantani, erano presenti nove sui dieci imputati per i quali il pubblico ministero Maria Rita Pantani ha chiesto il rinvio a giudizio, accompagnati dai loro legali: nello staff difensivo figurano gli avvocati Alessandro Conti, Federico De Belvis, Nicola Tria, Luigi Marinelli, Sinuhe Curcuraci, Carlo De Stavola e Pierfrancesco Rossi. Erano presenti in tribunale anche parenti e colleghi degli imputati. Hanno chiesto di costituirsi parte civile, depositando la richiesta di risarcimento - la cui quantificazione è diventata obbligatoria - cinque soggetti. Innanzitutto il detenuto, tutelato dall’avvocato Luca Sebastiani: il legale ha domandato una provvisionale ritenuta di giustizia e 180mila euro per danni fisici, psicologici e morali, frutto di una stima tabellare scaturita da una consulenza di parte redatta dal medico legale Matteo Tudini di Bologna. Inoltre l’avvocato Sebastiani ha chiesto la citazione come responsabile civile del ministero della Giustizia, a cui fa capo la polizia penitenziaria: significa che, nel caso gli agenti dovessero essere condannati, il dicastero di via Arenula sarà chiamato in causa per risarcire. “All’inizio di questa vicenda, nell’aprile scorso, quando il mio assistito sporse denuncia, nutriva qualche timore sul fatto di non essere creduto. Ma in seguito, dopo che la Procura ha avviato l’inchiesta, ha preso fiducia e ora si sente più tranquillo e confortato sul fatto di ottenere giustizia”, ha dichiarato l’avvocato Sebastiani. Oltre al detenuto, hanno chiesto la costituzione di parte civile il Garante nazionale dei detenuti (rappresentato dagli avvocati Michele Passione e Gianpaolo Ronsisvalle) e quello regionale (avvocato Daniele Vicoli), nonché due associazioni per la tutela dei detenuti, cioè Antigone (avvocato Simona Filippi) e Yairaiha (avvocato Vito Daniele Cimiotta). Le difese hanno chiesto un termine per analizzare le richieste di costituzione di parte civile e sollevare eventuali osservazioni e l’udienza è stata rinviata all’8 aprile. Il mese scorso è stato diffuso un video con spezzoni di quanto sarebbe avvenuto. Era intervenuto il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, secondo cui “fermo restando che tutto dev’essere accertato nelle sedi competenti, è ovvio che non sono cose accettabili”; nonché il ministro della Giustizia Carlo Nordio, parlando di “immagini indegne per uno Stato democratico”. In passato alcune voci difensive avevano sostenuto che la fattispecie di tortura non era integrata, e che al massimo si è trattato di abuso dei mezzi di correzione, e avevano rimarcato alcuni aspetti particolari della ricostruzione, come il rifiuto del detenuto di sottoporsi a visita psichiatrica per certificare il trauma e la sua condotta costellata da numerosi rapporti disciplinari in tutte le carceri che lo avevano ospitato. Teramo. Due sorelline in cella insieme alla madre: hanno appena 4 e 18 mesi di Teodora Poeta Il Messaggero, 15 marzo 2024 Hanno iniziato la loro vita in carcere perché è lì che si trova la loro mamma. Due sorelline di appena 4 e 18 mesi costrette a dormire in una cella con le sbarre e a giocare tra il grigio delle mura senza la possibilità di guardarsi attorno e vedere i colori quando invece sarebbero dovute essere accolte in una sezione della struttura penitenziaria teramana destinata proprio alle madri detenute, ufficialmente inaugurata nel 2015, ma mai autorizzata dal Dap e rimasta per questo motivo chiusa. L’ennesima beffa che ha indignato, ieri, l’onorevole Giulio Sottanelli, che insieme a Libera D’Amelio del direttivo di Azione, si è recato a Castrogno per un’ispezione. “La situazione dei detenuti, vittime di un sovraffollamento selvaggio, è assolutamente inumana e non degna di un Paese civile - dice all’uscita - Ho visto una mamma allattare i bambini all’interno della cella e quei bambini muovere lì dentro i primi passi e tutto ciò è assolutamente da condannare. Inspiegabile soprattutto quando, all’interno della struttura, si può osservare un settore, realizzato intorno al 2015, completamente chiuso al cui interno sarebbero disponibili zone già pronte e arredate per permettere un corretto rapporto genitoriale”. Sottanelli si è detto “scioccato” per la situazione che ha trovato, addirittura peggiorata dopo la sua ultima interrogazione parlamentare che risale a novembre del 2022 al ministro del Giustizia, Carlo Nordio. “Ci sono 370 detenuti, 120 in più rispetto alla capienza massima, e solamente 150 dipendenti in servizio su un numero previsto di 217”. Ha annunciato una nuova interrogazione parlamentare e un esposto alla procura che verrà presentato per chiedere accertamenti. “Voglio ringraziare per il lavoro che ogni giorno svolgono i dipendenti di questa struttura - prosegue l’onorevole di Azione - che continuano a svolgere con professionalità e dovere il proprio lavoro, nonostante la mancanza di personale che, in questi anni, produce un monte ore di straordinario di oltre 60mila ore ogni anno e oltre 18mila giorni di ferie arretrate”. Al ministro Nordio, Sottanelli chiederà l’invio di ispettori a Castrogno perché, aggiunge, “al contrario di quanto affermato nelle sue risposte ai miei precedenti atti, questo Governo sta dimostrando gravi mancanze di controllo nei confronti di questo penitenziario”. Milano. Per la prima volta in Italia un protocollo d’intesa per la cura dei figli dei detenuti agensir.it, 15 marzo 2024 Per la prima volta in Italia il 20 marzo 2024 viene firmato il Protocollo di Intesa tra Tribunale di Milano e l’Associazione Bambini senza sbarre Ets, che definisce come promuovere e attivare interventi di attenzione e cura per i bambini che entrano in carcere per incontrare il genitore e mantenere il legame durante il periodo di attesa di giudizio, spesso lungo e difficile per la separazione da sostenere. Il Tribunale è il primo interlocutore delle famiglie per ottenere l’autorizzazione ad accedere in carcere per lo svolgimento della prima visita con il genitore detenuto. Il Protocollo impegna il Tribunale Ordinario di Milano, contestualmente al rilascio dei permessi di visita ai familiari, ad informare le famiglie che possono accedere a servizi di supporto senza oneri economici per essere accompagnate in particolare ad affrontare il primo ingresso dei bambini negli istituti penitenziari in occasione della visita al genitore detenuto. Il Protocollo, mette in evidenza questo momento cruciale di attenzione ai bambini coinvolti loro malgrado nella detenzione del genitore, e rappresenta un traguardo fondamentale per l’applicazione della “Carta dei diritti dei figli dei genitori detenuti” al compimento del suo decennale (2014-2024). La “Carta dei diritti dei figli dei genitori detenuti”, in progressiva applicazione nelle carceri italiane e non solo - e modello per quelle europee -indica, nei suoi nove articoli, le linee guida di come accogliere e seguire le decine di migliaia i bambini che entrano quotidianamente in carcere per mantenere la relazione genitoriale diritto sancito dalla Convenzione Onu sui diritti dell’Infanzia e dell’adolescenza (20 novembre 1989). La famiglia deve sapere che può avere sostegno psicologico e informativo per prepararsi al primo colloquio e affrontare il periodo della carcerazione del genitore con un accompagnamento da parte di operatori preparati. La conoscenza preventiva delle procedure, dei regolamenti e dei vincoli diminuisce il senso di disorientamento e l’ansia generati dall’improvvisa separazione dal genitore arrestato e dall’impatto con il carcere che investe la famiglia e soprattutto i figli, in particolare nel periodo di incertezza e vuoto informativo che caratterizzano l’attesa di giudizio. Asti. “Una penna per due mani”: un libro scritto da detenuti e studenti dentrolanotiziabreak.it, 15 marzo 2024 Un volume dalla doppia copertina e dalla doppia lettura, con il punto di vista di chi sta dentro e chi sta fuori le mura. Questa mattina nella sala Gianni Basso del Teatro Alfieri si è tenuta una conferenza stampa di presentazione del progetto “Una penna per due mani”, ideato dall’Associazione Effatà. Si tratta della realizzazione un libro, scritto dai detenuti della Casa di Reclusione di Asti e dagli allievi delle classi 5ª UA e 5ª UC dell’Istituto A. Monti. Alla presentazione dell’iniziativa c’erano Maria Bagnadentro presidente di Effatà con il segretario Giuseppe Passarino, l’assessore alla Cultura Paride Candelaresi, la direttrice del carcere Giuseppina Piscioneri con la capo area Trattamentale Monica Olivero, il regista Simone Schianocco e la direttrice della Biblioteca Astense Alessia Conti. Un libro dalla doppia copertina e doppia lettura, dove da una parte si troveranno i testi scritti dagli autori intramurari e dalla parte opposta le pagine degli extramurari. Le due modalità di lettura fronte e retro convergeranno nelle due pagine centrali dove due disegni, uno di un detenuto e, nella speculare pagina opposta, quello di uno studente, rappresenteranno la loro stanza: quella dentro le mura e quella fuori le mura. Il progetto è risultato al primo posto della graduatoria del bando della Regione Piemonte del 21 novembre 2023: “Contributi destinati alla realizzazione di iniziative di animazione sociale e culturale, tutela del patrimonio ambientale, artistico e naturale, realizzati da ODV, APS e Fondazioni del terzo settore, in attuazione della scheda di programmazione triennale finanziata da Cassa delle Ammende”. Un principio importante è quello che prevede la partecipazione della comunità esterna, quindi la possibilità di uno scambio tra popolazione detenuta e popolazione libera, finalizzato alla rieducazione e al reinserimento, dove e quando sarà possibile, dei detenuti nella società. I soggetti esterni, inoltre, saranno stimolati a riflettere sull’assoluta necessità di azioni di prevenzione nel campo sociale in aree degradate o a forte rischio marginalità, parafrasando una famosa frase: “una biblioteca in più, un carcere in meno”. Con questa iniziativa, Effatà vuole stimolare la cultura dell’accoglienza e dell’accettazione delle diversità. L’attività di sensibilizzazione ha come destinatario il mondo giovanile. Si intende favorire l’avvicinarsi dei giovani a realtà sconosciute, qual è il carcere, per superare i pregiudizi che creano emarginazione; sopperire alla cronica mancanza di informazione e correggere quella distorta proveniente da alcune realtà del mondo della comunicazione, che preferiscono porre l’attenzione sui singoli eventi violenti dimenticando di approfondire quali siano le reali cause che li scatenano. L’Associazione mira a far comprendere che il detenuto possiede risorse di ricostruzione della propria identità, in quanto persona capace di cambiamento. I ragazzi del Monti stanno affrontando un percorso diviso in varie fasi: i primi due incontri, sui temi del carcere di Asti e sulla figura del detenuto, si sono tenuti nella scuola stessa. Il terzo momento, che si terrà a fine aprile nella Casa di Reclusione di Quarto, permetterà agli studenti di incontrare i detenuti che hanno partecipato al progetto e quindi il proprio “scrittore gemello”. Stasera 14 marzo al Teatro Alfieri andrà in scena la rappresentazione teatrale “Fine pena ora”, che vede la regia di Simone Schinocca. Lo spettacolo sarà riproposto in carcere mercoledì 20 marzo. Sempre stasera si potrà vedere la mostra itinerante “Art. 27”, allestita nel foyer del Teatro Alfieri, già ospitata dagli Istituti Castigliano, Vercelli, Monti, Artom e in precedenza allo spazio culturale Fuoriluogo, che collabora con l’Associazione per l’intero progetto. Venezia. Il padiglione Vaticano alla Biennale sarà alla Giudecca e sarà pieno di artisti celebri di Giulia Giaume artribune.com, 15 marzo 2024 Per la mostra “Con i miei occhi”, che celebra anche la prima visita di un pontefice alla manifestazione artistica, sono stati coinvolti artisti e collettivi di primo piano. Che occuperanno tutto il carcere femminile della Giudecca. Sarebbe stato difficile da immaginare in quel lontano 2001, quando Maurizio Cattelan presentò alla Biennale Arte un modello in resina a grandezza naturale di Papa Giovanni Paolo II colpito da un meteorite, che lo stesso artista sarebbe stato invitato a rappresentare il Padiglione del Vaticano a Venezia ventitré anni dopo. Insieme a lui, ha annunciato il cardinale José Tolentino de Mendonça, che dirige il Dicastero della Santa Sede per la Cultura, saranno ospitati al Padiglione della Santa Sede alla Biennale Arte 2024 artisti e collettivi di primo piano: Corita Kent, Sonia Gomes, Claire Fontaine, Bintou Dembélé, Simone Fattal, Claire Tabouret, Marco Perego & Zoe Saldana. La collettiva della Santa Sede nel carcere femminile della Giudecca - Curata dalla direttrice del Centre Pompidou-Metz Chiara Parisi e dall’ex presidente della Biblioteca nazionale francese Bruno Racine, la mostra collettiva Con i miei occhi si concentra sul tema dei diritti umani e sulla figura degli ultimi, perno del pontificato di Papa Francesco, che - in un primato di non poco conto - visiterà la stessa Biennale. È nell’ottica di puntare i riflettori sugli ultimi che il Vaticano ha deciso di allestire tutto il percorso espositivo all’interno della Casa di detenzione femminile della Giudecca. Un’altra novità per questa Biennale, che vedrà il coinvolgimento di alcune delle 80 persone qui recluse nelle stesse opere: da una parte queste guideranno i visitatori attraverso la mostra, contribuendo con poesie e fotografie alle installazioni artistiche, e dall’altra reciteranno in un cortometraggio di dodici minuti diretto da Saldana e Perego. Il Padiglione del Vaticano alla Biennale di Venezia - Non è “certo un caso che il titolo del Padiglione della Santa Sede voglia focalizzarci sulla drammaticità delle rappresentazioni dello sguardo”, spiega Tolentino de Mendonça, “ma non uno sguardo metaforico, distaccato dalla realtà, comodamente protetto da quell’anonimo voyeurismo che la contemporaneità ha globalizzato. Il titolo ‘Con i miei occhi’ contiene in sé qualcosa di distruttivo e profetico, propone un passo in una direzione culturale diversa, interpellando questo nostro tempo in cui la visione umana è sempre più differita e meno diretta, catturata dall’artificio degli schermi e dall’esplosione dei dispositivi digitali. Sapremo ancora cos’è ‘vedere con i nostri occhi’?” Guardando nello specifico alle opere, stando alle anticipazioni Cattelan porterà all’esterno della facciata della Cappella un’opera dal forte impatto emotivo, oltre a contribuire al numero per la Biennale del periodico L’Osservatore di Strada dell’Osservatore Romano in collaborazione con le detenute. Nel cortile centrale il duo di Claire Fontaine presenterà il neon We are with you in the night, in dialogo con l’installazione White Sight alla fine del corridoio d’ingresso; il ballerino e coreografo Dembélé porterà una coreografia energica e vibrante, creata appositamente per le detenute; Fattal porterà delle tele ricavate da placche laviche smaltate, con versi e narrazioni delle donne della Casa di detenzione; Tabouret realizzerà dei ritratti di queste donne e dei loro cari più piccoli, che comporranno una quadreria nella sala adiacente alla Cappella; Gomes presenterà l’installazione di sculture sospese Sinfonia, in bilico tra le balconate e i confessionali della Cappella; Kent, attivista oltre che artista, invaderà l’area caffetteria con le proprie opere pop, mentre la coppia di regista e attrice Perego-Saldana farà immergere gli spettatori in un film (visibile nella sala riunioni) che faccia parlare direttamente le persone qui recluse. “Detenuti che diventano camerieri e chef. Così vi racconto l’altro volto del carcere” di Gabriele Stanga iltquotidiano.it, 15 marzo 2024 Michele Rho a Trento presenta il suo documentario “Benvenuti in galera”. Raccontare il carcere attraverso gli occhi dei detenuti, oltre la visione stereotipata di film americani e serie tv. Con questo obiettivo nasce “Benvenuti in galera”, il docufilm di Michele Rho, che, dopo il successo riscontrato nel resto d’Italia, arriva oggi in programmazione anche in Trentino. Quattro le date del tour: al Cinema Valsugana di Borgo Valsugana ieri e domenica 17 marzo (ore 20.30), al cinema Modena di Trento oggi (ore 20.30) e al Teatro Cinema Vallelaghi domani (ore 20). Al Cinema Modena, in particolare, è prevista sia la presenza del regista che del sindaco di Trento, Franco Ianeselli, che parteciperanno a saluti istituzionali e dibattito. Il film parte da un’esperienza piuttosto particolare, anzi unica: quella del primo ristorante al mondo aperto dentro un carcere. Ideatrice e supervisore del progetto è Silvia Polleri, la madre di Michele, che da anni lavora dentro il carcere. Da qui parte il racconto dei ragazzi che vi lavorano e delle loro storie umane. Storie di lavoro e del tentativo di ricostruirsi una vita oltre le mura del carcere. Di tutto questo ha parlato in anteprima il regista stesso, in un’intervista con “il T Quotidiano”. Ciak, si gira. La scena si svolge a Bollate e “In galera” è il primo ristorante al mondo all’interno di un istituto penitenziario. Com’è stato raccontare questa storia da regista? “Mia madre lavora da vent’anni dentro il carcere di Bollate, se ne è sempre parlato in casa, l’idea del ristorante è nata ormai quasi 8 anni fa. Non sapevo come avvicinarmi ad esso, avevo molte remore. Alla fine, però ho deciso di cimentarmi con questa avventura. È stato un percorso di tre anni, cercavo un’occasione particolare per chiudere l’arco narrativo. Personalmente, quando giro un documentario seguo lo svilupparsi delle vicende, finché non percepisco che in qualche modo la storia è arrivata ad una conclusione. È stato un vero e proprio viaggio di scoperta”. Il tema della vita in carcere viene trattato, in modo un po’ romanzato, da alcune serie tv molto popolari. Basti pensare a “Mare fuori” o “Il re”. Cosa pensa di questi prodotti? “Che si parli di carcere è un bene a prescindere. Tendenzialmente fa paura, è un bene. Sono state fatte diverse cose, belle e brutte, stereotipate e meno. Di fondo in queste opere c’è una visione che deriva dal cinema americano e si fonda su un’idea filmata e raccontata in un certo modo”. Come cambia l’approccio a questa realtà nel suo documentario? “Ho voluto liberarmi dall’immagine precostituita del carcere. Per questo ho deciso di raccontarlo attraverso gli occhi di chi è dentro. Il film tratta il reinserimento dei detenuti, il loro lavoro, come i ragazzi di Bollate possono trovare una loro dimensione. La forma del documentario mi ha permesso di non avere filtri. Da qui deriva la scelta del bianco e nero, per dare un’immagine elegante. La macchina da presa è molto ferma, non tenuta a mano o fuori fuoco come da eredità delle serie americane. Volevo allontanarmi da quella visione”. Quelle che lei racconta sono storie umane in cui il lavoro diventa redenzione... “Storie di ragazzi che attraverso il lavoro hanno trovato un percorso nella vita c’è chi ha aperto un’azienda di pulizie, poi c’è il cuoco del ristorante che è un detenuto ma è chef a tutti gli effetti. Ha studiato con Marchesi e aveva già la cucina nel sangue. Sono tutte storie di gente che sta provando a riprendere in mano la propria vita”. Quest’anno Trento è Capitale Europea del Volontariato, che rapporto c’è tra quest’ultimo e il percorso dei detenuti che lei racconta? “Il volontariato è importantissimo per l’attività di chi si avvicina a questo mondo e per l’aiuto che può dare nel migliorare le condizioni dei detenuti e porne in luce le criticità. Mi preme però sottolineare che quello che fanno i ragazzi protagonisti del mio documentario è lavoro pagato. Non è il ristorante della carità, qui nel carcere ci sono energie umane che possono fare cose di altissima qualità. I soldi permettono prima di tutto a loro di avere prospettive. Il detenuto paga per stare nel carcere, contrae dei debiti verso lo Stato, che poi deve ripagare. Quando esce gli viene presentata una cartella esattoriale, che rappresenta questo debito da estinguere verso lo Stato”. A proposito di questo, ci sono tanti luoghi comuni in Italia, come quello di chi vede il carcere come un albergo e dice “stanno meglio di noi”... “Purtroppo, sì, ci sono tanti luoghi comuni come questo. Per tale ragione mi piace portare il tema dentro le scuole. I ragazzi non hanno sovrastrutture, non pensano che i detenuti stiano in albergo e debbano marcire lì dentro. Se lo pensano è perché glielo ha messo in testa qualcun altro. Sulle coscienze dei ragazzi si può lavorare molto. Sono il futuro del Paese”. Un altro problema fondamentale è quello del sovraffollamento, come pensa si possa porvi argine? “Il sovraffollamento è un dato di fatto, la vera domanda, però è perché siamo arrivati a questa situazione. Semplicemente non c’è un meccanismo virtuoso per cui chi sta in carcere, possa non tornarci quando esce. Se la recidiva è al 70%, vuol dire che c’è un problema alla base. È un serpente che si morde la coda. Il problema è che chi sta dentro non ha nulla da fare, sta male in carcere e poi finisce per ritornarci. Bollate è una situazione particolare, ma spesso i detenuti vengono spostati e girano l’Italia. Mia madre prende solo ragazzi che hanno una pena lunga, in modo che riescano a fare effettivamenteun percorso. Il mio documentariofinisce con una frase: “Lei cosa vuol fare? Lavorare”. Non c’è cosa peggiore per un detenuto che restare senza nulla da fare”. Che cosa pensa della giustizia riparativa? “Non conosco bene questo tipo di percorsi ma penso debbano avere due prerogative fondamentali: il reo deve credere in questo percorso e in secondo luogo è giusto prestare la giusta attenzione anche alla vittima. Non dobbiamo dimenticarci che dall’altra parte ci sono parti lese. Io non voglio rendere i ragazzi di cui parlo né degli eroi né dei delinquenti. Rispetto la parte lesa ma anche della dignità di chi ha sbagliato. Qualcuno mi ha chiesto perché non facessi un documentario dalla parte delle vittime. Io non penso di essere in grado e non voglio immergermi in quel dolore. Ho visto, però, molte interviste a parenti di vittime americane, che avevano il visto reo sottoposto alla pena capitale. Nessuno di loro stava bene. La pena di morte non porta mai a nulla. La finalità della pena è rieducativa, troppo spesso ci si dimentica di ciò”. Migranti. Nessuno speculi sulla pelle di chi fugge di Francesca Paci La Stampa, 15 marzo 2024 Sessanta persone che muoiono di fame e di sete in mezzo al mare sono il prezzo delle nostre paure. Quelle paure che, fondate su concreto disagio sociale o talvolta solo percepite, gonfiano il vento in poppa ai populisti. Perché, ripete giustamente l’ex premier Romano Prodi fotografando lo spirito del tempo, “chiunque picchi in testa ai migranti vince le elezioni”. I migranti sono l’ultima trincea identitaria quando tutte le altre hanno ceduto alla prova della realpolitik e alle spietate contraddizioni del governare. Domenica la premier Giorgia Meloni sbarcherà al Cairo anche per negoziare con il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, l’ennesimo “dittatore necessario”, un accordo sul controllo delle frontiere del genere sdoganato mesi fa con la Tunisia di Kais Saied. Un precedente che fa scuola: sebbene infatti continuino senza tregua le partenze dalla Tripolitania, i flussi dalla Tunisia sono diminuiti e siamo passati dai 19.937 sbarchi di un anno fa ai 5.968 attuali, un crollo netto del 70%. Peccato che, a fronte di tanti arrivi in meno, siano aumentati i morti. Con l’ultimo naufragio raccontato dalla Ocean Viking, il Mediterraneo centrale, la rotta più pericolosa, conta già 275 vittime, donne, uomini e bambini che, disidratati, ustionati, consumati dalla traversata, hanno aspettato invano i soccorsi. Le partenze invece no, con buona pace delle mille promesse del Piano Mattei e dei volenterosi propositi di “aiutarli a casa loro”, quelle non si fermano se non previo rastrellamenti selvaggi del tipo in corso in queste settimane dalla Tunisia o detenzione feroce nei famigerati centri libici. E non si fermeranno: per quanto Meloni, accompagnata dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, scommetta sulla stabilità del regime di al Sisi - lo stesso che nega verità e giustizia su Giulio Regeni - la sponda sud del Mediterraneo è un confine incontrollabile. L’Egitto con i suoi 110 milioni di abitanti è teoricamente too big to fail ma boccheggia sotto il peso di una crisi economica senza precedenti su cui incombe la crisi della Striscia di Gaza, il Niger della nuova giunta golpista ha cancellato la legge che bloccava il passaggio dei migranti subsahariani e rischia di trasformarsi in un’autostrada, il Sudan resta un incognita. Le partenze non caleranno ma anzi, con la buona stagione all’orizzonte, potrebbero moltiplicarsi. E chiunque prometta il contrario picchia in testa ai migranti per vincere le elezioni. Propaganda. I due mesi e mezzo che ci separano dalle europee saranno una corrida in cui verrà agitata a oltranza la spaventosa muleta dell’invasione. Ne ascolteremo di ogni sorta. La soluzione non c’è, i flussi non sono contenibili a meno di istituire ingressi legali e prevedere corridoi umanitari. I dati lo confermano, gli elettori lo capiscono. Ma, a partire dal popolo delle destre per allargarsi oltre, il voto ha premiato finora chi ha promesso di fare qualcosa, chi ha mostrato i muscoli, chi si è fatto paladino delle paure sociali. L’anatema più che la soluzione. È un pattern tattico, sul momento paga. A dicembre il presidente francese Emmanuel Macron ha fatto passare con il voto del Rassemblement National di Marine Le Pen una legge sull’immigrazione che, sebbene depotenziata poi dal Consiglio Costituzionale, vorrebbe limitare le prestazioni sanitarie per i migranti a vantaggio dei cittadini della Republique e che raccoglie il consenso della stragrande maggioranza della popolazione. L’Europa virtuosa dei Paesi nordici ha da tempo ripensato le politiche di accoglienza. Oggi la premier Meloni, al cui governo cominciano tra l’altro a chiedere conto le categorie storicamente amiche come i balneari, distoglie l’attenzione dalla luna e mostra il dito, i migranti, il feticcio dei migranti. Quelli veri, le donne egli uomini in carne e ossa muoiono di fame in mezzo al mare, il prezzo delle nostre paure. Tutto normale? Qualcuno in qualche campo, largo o stretto che sia, dovrebbe, se c’è, battere un colpo: a costo di non vincere le elezioni Sessanta migranti uccisi dalla fame e dalla sete nel Mediterraneo. Ignorato l’Sos di Eleonora Camilli La Stampa, 15 marzo 2024 Alla deriva per giorni senza cibo né acqua, inghiottiti in mare. I 25 superstiti in viaggio verso Ancona sulla Ocean Viking. Morti di fame e di sete dopo una settimana alla deriva ai confini dell’Europa. Sono almeno 60 le vittime dell’ultima tragedia nel Mar Mediterraneo. Nessuno ha risposto all’Sos lanciato dal centralino dell’ong Alarm phone per soccorrere il gommone partito dal porto di Zawija, in Libia, con a bordo circa ottanta persone, tra cui donne e bambini. Quando nella notte tra martedì e mercoledì, la nave umanitaria di Sos Mediterranée, Ocean Viking, ha individuato il relitto fantasma, con 25 superstiti, si è trovata davanti a una scena mai vista prima, in sette anni di attività. Persone gravemente deperite e disidratate, allo stremo delle forze, sopravvissute bevendo solo acqua di mare. Tra loro anche 12 minori non accompagnati. Tutti sotto choc per aver visto morire ad uno ad uno i compagni di viaggio. E per esser stati costretti a gettare i loro corpi in mare. Un uomo, di origine senegalese, con un filo di voce, ha raccontato ai soccorritori di aver assistito alla morte del figlio e di sua moglie: il piccolo di appena un anno e mezzo non ha superato il secondo giorno, la madre è morta due giorni dopo. Stando ai racconti dei sopravvissuti il motore del gommone si sarebbe rotto dopo poche ore dalla partenza dal porto libico. E i migranti sarebbero rimasti senz’acqua e senza cibo per giorni, appesi solo alla speranza che prima o poi qualcuno sarebbe arrivato a salvarli. Ad avvistarli sono stati, però, solo gli operatori dell’organizzazione umanitaria dal ponte della loro nave. “Se non avessimo agito tempestivamente quanto tempo ancora avrebbero resistito? Probabilmente molto poco. E di queste persone, e delle altre morte durante il viaggio, non avremmo mai avuto notizia” sottolinea Valeria Taurino, direttrice generale di Sos Mediterranée. “È inaccettabile che un’imbarcazione in avaria resti in mare una settimana, senza che nessuno se ne accorga”. Data la situazione particolarmente critica dei superstiti, il team medico a bordo ha dovuto attivare una procedura speciale d’urgenza. Due persone sono state evacuate. “Erano incoscienti, in condizioni cardiache e respiratorie molto gravi, altri erano in ipotermia - racconta Anne, il medico della nave -. Ci sono poi persone che presentano sul corpo gravi ustioni da carburante”. Dopo il recupero dei naufraghi, l’ong ha operato due soccorsi, salvando altre duecento persone, tra cui 20 donne e 30 minori, anche piccolissimi, sotto i quattro anni. Che toccheranno terra però solo fra cinque giorni. Alla nave dell’ong è stato infatti assegnato il porto di sbarco di Ancona, nelle Marche, a 1.450 chilometri di distanza. “È una decisione che aggiunge solo sofferenza a una situazione già terribile, alcuni naufraghi sono ancora attaccati all’ossigeno per riprendersi - tuona Taurino -. Quella dei porti lontani è ormai una prassi, ma spesso è disumana”. L’organizzazione ha chiesto formalmente al Viminale l’assegnazione di un porto più vicino senza ricevere risposta. Anche per Filippo Ungaro, portavoce dell’Unhcr, “non è opportuno che la nave faccia un viaggio così lungo dopo una tragedia del genere”. “Un evento orribile - aggiunge - che conferma come la rotta del Mediterraneo sia tra le più pericolose al mondo”. Negli ultimi dieci anni si contano già 30mila vittime. “Bisogna fare di più da tutti i punti di vista: aprire canali legali e rafforzare la ricerca e il soccorso in mare, anche condividendo la responsabilità a livello europeo”. E dall’inizio dell’anno sono già 360 i migranti morti in mare, in Italia il totale degli arrivi è di 5.968. Nello stesso periodo dello scorso anno erano stati 347 a fronte, però, di un numero molto più alto di sbarchi, circa 19mila. “In numeri assoluti c’è una diminuzione, ma percentualmente c’è una crescita evidente - sottolinea il portavoce dell’organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) Flavio Di Giacomo -. In mare, dunque, si muore sempre di più. E c’è un vuoto di soccorso enorme, come dimostra quest’ultimo caso. Non è possibile che un gommone resti in mare così a lungo senza che nessuno intervenga”. Di Giacomo ricorda, inoltre, che “il porto sicuro deve essere anche vicino” perché chi è sopravvissuto a un naufragio “deve poter ricevere la necessaria assistenza a terra il prima possibile. Specialmente in un caso come questo”. E sulle responsabilità del naufragio è già polemica politica, con l’opposizione che accusa il governo di cinismo e di aver reso sempre più difficile il salvataggio in mare con i decreti Piantedosi. Parole che arrivano alla vigilia del viaggio della premier Meloni in Egitto insieme a Ursula Von der Leyen per la stipula di un accordo con Al Sisi per bloccare le frontiere. Nonostante dalle coste egiziane non si parta più da anni, il Paese è infatti una terra di transito per tanti migranti subsahariani che poi, una volta arrivati in Libia, tentano la via del mare. Compresi gli stessi egiziani, un tempo lavoratori frontalieri nel Paese. L’accordo ripropone il modello del memorandum stipulato con la Tunisia di Kais Saied, su cui ieri una risoluzione del Parlamento europeo ha chiesto di fare chiarezza perché non soddisfa criteri fondamentali in termini di diritti. Un provvedimento che potrebbe compromettere sul nascere anche il patto con Il Cairo. Migranti. Il ragazzo pestato dai carabinieri a Modena: “Solo in Libia mi hanno trattato così” di Filippo Fiorini La Stampa, 15 marzo 2024 Parla il cuoco 25enne che ieri ha subito pugni e spintoni da un carabiniere che cercava di arrestarlo: “Mi hanno picchiato anche in caserma, ma io non ho fatto niente di male”. Da 24 ore a questa parte Diallo Idrissa gode di una notorietà che non ha cercato. Il video dell’arresto violento che ha subito da una coppia di carabinieri, moltiplica visualizzazioni sui social e colleziona commenti contrastanti. Secondo la versione ufficiale, questo guineano di 25 anni avrebbe fatto resistenza all’arresto e danneggiato la gazzella, per questo, i militari, (temporaneamente destinati ad altro incarico mentre si cerca di fare chiarezza), hanno fatto uso della forza. Lui, però dall’ospedale in cui è venuto a farsi refertare le contusioni, smentisce categoricamente, sostiene di essere stato aggredito dai carabinieri senza avere la possibilità di produrre i propri documenti e di aver subito percosse anche in caserma. Idrissa, le immagini mostrano un carabiniere che la trattiene e l’altro che la colpisce ripetutamente con pugni al volto e alla schiena, che cosa è accaduto prima? “Ero alla fermata dell’autobus e i Carabinieri si sono avvicinati per chiedermi i documenti. Io con me non li avevo, stavo andando a lavorare, sono un aiuto cuoco. Gli ho detto che abitavo lì vicino e avrei potuto chiamare un amico perché li portasse, ma loro hanno smesso di ascoltarmi e mi hanno trascinato verso la macchina”. Dalle immagini lei sembra resistere ai loro tentativi di farla sedere nella gazzella, perché si opponeva? “Perché non avevo fatto assolutamente niente e non volevo essere arrestato. Sono in Italia da sette anni e non ho mai avuto problemi con la legge. Niente droga, non tiro tardi, ho sempre lavorato”. I Carabinieri sostengono che lei abbia danneggiato la loro auto di servizio, è vero? “Non sono stato io, ma il Carabiniere che mi strattonava, ha colpito la macchina involontariamente”. Dopo che l’hanno arrestata, che cosa è successo? “Mi hanno portato in caserma, mi hanno sfilato i pantaloni e mi hanno insultato e picchiato anche lì. Poi mi hanno portato in tribunale e mi hanno rilasciato”. I medici dell’ospedale che cosa le hanno detto? “Mi hanno appena fatto le lastre. Ho delle contusioni alla testa, al braccio sinistro, alla schiena e a una gamba”. Intende sporgere denuncia? “Si, quei carabinieri mi hanno attaccato senza motivo”. Le era mai capitato di avere esperienze di questo tipo con le forze dell’ordine? “In Italia, mai. Solo in Libia mi hanno trattato così”. Ha visto il video di cui è protagonista? “Si, sono grato alla persona che l’ha girato e a tutti quelli che scrivono commenti di solidarietà”. Migranti. Dalla Corte Ue possibile stop al protocollo Italia-Albania di Valentina Stella Il Dubbio, 15 marzo 2024 Una decisione sul decreto Cutro può avere ripercussioni sull’accordo tra Roma e Tirana. La Corte di giustizia europea, su parere dell’avvocato generale, non ha accolto la domanda pregiudiziale d’urgenza avanzata dalle Sezioni Uniti Civili della Corte di Cassazione sull’applicazione del decreto Cutro. La decisione è del 26 febbraio scorso ed è stata resa nota dall’avvocata Rosa Emanuela Lo Faro, legale di migranti già trattenuti a Pozzallo, su cui è incentrato il ricorso trattato anche dal giudice di Catania, Iolanda Apostolico. Il caso davanti alla Corte europea sarà trattato dunque con la procedura ordinaria: “Adesso - ha spiegato l’avvocata - ho due mesi di tempo per presentare una memoria e poi i giudici fisseranno la data dell’udienza”. “Dalla Corte di giustizia europea - ha proseguito la legale - ho ricevuto soltanto la comunicazione sintetica che non è stata approvata la procedura d’urgenza, ma non ne conosco le motivazioni. Ritengo probabile che i giudici hanno ritenuto non sussistere l’urgenza perché i destinatari del provvedimento sono liberi”. Tale previsione l’aveva anticipata al Dubbio la professoressa Chiara Favilli, ordinario di Diritto dell’Unione Europea all’Università di Firenze, quando ci disse che sarebbe stato “difficile” che la Corte di Giustizia Europea accogliesse la richiesta di una pronuncia in via d’urgenza che avverrebbe entro tre mesi. “Accade raramente - spiegò la giurista -. Più probabile che si decida entro i canonici 17 mesi di media”. Le Sezioni Unite Civili della Cassazione avevano emesso l’8 febbraio due ordinanze interlocutorie con le quali chiedevano alla Corte di Giustizia Europea di pronunciarsi in via d’urgenza sulla garanzia finanziaria di circa 5mila euro che un richiedente asilo deve versare per evitare di essere trattenuto in un centro alla frontiera in attesa dell’esito dell’iter della domanda di protezione. Le SU erano state chiamate a vagliare dieci ricorsi del Ministero dell’Interno sulle ordinanze con cui il tribunale di Catania non aveva convalidato, nei mesi scorsi, i trattenimenti di alcuni migranti tunisini a Pozzallo, in applicazione di quanto disposto dal decreto Cutro. In particolare le SU avevano chiesto se fosse compatibile con la legislazione europea “una normativa di diritto interno che contempli quale misura alternativa al trattenimento del richiedente (il quale non abbia consegnato il passaporto o altro documento equipollente) la prestazione di una garanzia finanziaria il cui ammontare è stabilito in misura fissa anziché in misura variabile, senza consentire alcun adattamento dell’importo alla situazione individuale del richiedente, né la possibilità di costituire la garanzia stessa mediante l’intervento di terzi, sia pure nell’ambito di forme di solidarietà familiare, così imponendo modalità suscettibili di ostacolare la fruizione della misura alternativa da parte di chi non disponga di risorse adeguate, nonché precludendo la adozione di una decisione motivata che esamini e valuti caso per caso la ragionevolezza e la proporzionalità di una siffatta misura in relazione alla situazione del richiedente medesimo”. Già la conseguenza più forte della decisione delle SU era stato quella di congelare il dl Cutro fino alla pronuncia dell’Europa, adesso c’è il rischio per il Governo Meloni che si metta un freno anche al protocollo Italia- Albania che prevede che ai migranti soccorsi nel Mediterraneo da navi militari italiane vengano applicate le procedure accelerate di frontiera, compresa la medesima cauzione da 5.000 euro. “C’è stato - ha osservato ancora l’avvocata Lo Faro - un rimpallo tra le varie istituzioni, e adesso la palla torna al centro e ci vorrà del tempo per le decisioni, in attesa delle quali tutto resta fermo, compresa l’applicazione del decreto Cutro, e non solo in Italia perché le procedure accelerate, con il pagamento della cauzione di 5.000 euro, sono previste anche nel protocollo firmato con l’Albania”. Dal Silos al campo scout, il controverso progetto Piantedosi per i migranti di Trieste di Marinella Salvi Il Manifesto, 15 marzo 2024 Secondo il ministro Matteo Piantedosi la situazione del Silos a Trieste è risolta. Si è trovata la soluzione, questione di poco. Un futuro migliore per i migranti che si rifugiano la notte sotto le arcate fatiscenti del Silos, poco o niente riparati dalla pioggia e dal vento, tra macerie fango topi e travi cadute. Poi il Silos sarà venduto, ha detto ieri il ministro al question time al Senato: “La prefettura ha acquisito all’inizio di quest’anno la disponibilità della proprietà a interventi di messa in sicurezza in vista della compravendita della struttura, programmata nel mese di giugno”. Sarà vero? “Io di questi non me ne occupo” aveva detto pochi mesi fa il sindaco Roberto Dipiazza a proposito dei migranti che arrivano a Trieste. Lo si era capito, lo si vedeva da anni: l’amministrazione di quella che è la porta d’ingresso dalla rotta balcanica non si è mai dotata di una politica per l’accoglienza. Se qualche aiuto, qualche spazio si è trovato è stato grazie al volontariato o alla Chiesa. Meglio, le istituzioni hanno smesso di occuparsene da quando la destra ha imposto le sue logiche raccontando la favola della chiusura dei confini per evitare l’invasione. Pattuglie a percorrere il Carso, fotocellule, respingimenti anche illegali, anche brutali e una città cieca e sorda chiamata a lamentarsi se non a inveire per difendere il proprio “decoro” e il proprio modello di “civiltà”. Passati i tempi dell’accoglienza diffusa, quella nata con lo sgretolamento della Jugoslavia e l’arrivo massiccio dai Balcani di gente in cerca di futuro: corsi di lingua e professionalizzanti, occasioni di impiego, appartamenti in affitto… una realtà rimasta viva soltanto per la caparbietà del Consorzio italiano di solidarietà (Ics) e pochi altri ma con sempre meno soldi e meno supporto mentre il numero dei migranti in arrivo è, ovviamente, quantomeno costante. Nel tempo il caso Silos è esploso. Troppo estreme le condizioni di quel “rifugio” perché non arrivasse ai giornali e alle televisioni, perché non diventasse scandalo e vergogna anche fuori dall’Italia. E, a Trieste, anche il nuovo vescovo che ha attrezzato un nuovo piccolo dormitorio, si è fatto vedere di persona, le scarpe nel fango, dentro il Silos, a portare una parola, un momento solidale a quei giovani. Nella piazza davanti alla stazione (e al Silos) non c’è più da tempo soltanto Lorena Fornasir, la rete è cresciuta: ogni sera ci sono gruppi di volenterosi che arrivano da tutta Italia e portano cibo e legna e farina, ci sono “fornelli resistenti” a cucinare e imbandire tavolate, qualche sera si fa musica o si gioca a palla con i ragazzi afgani e pakistani e da un po’ i curdi che arrivano con i loro bambini spesso piccolissimi. Tanto che un paio di settimane fa sono stati i ragazzi che trovano rifugio sotto le arcate fatiscenti a invitare la popolazione a una giornata di incontro per mangiare assieme, per parlare, per condividere. Ma il vero blitz è stato quello di un gruppetto (la documentazione anche fotografica è pubblicata sul sito di meltingpot.org) che è riuscito a entrare dentro un enorme spazio a pochi metri dal Silos: c’era stato un mercato coperto lì, dismesso da pochi anni, ma lo spazio c’è ed è riparato e c’è la luce, ci sono i bagni e perfino le docce. Abbandonato. Nel 2022 l’allora prefetto di Trieste aveva proposto proprio quei locali come rifugio temporaneo per i migranti ma il sindaco Dipiazza aveva detto un secco “no” pressato dall’estrema destra che fa il bello e cattivo tempo in Comune (a cui lui si adatta perfettamente, peraltro). La soluzione era lì, a portata di mano, con quale scusa si poteva continuare a negarla? Stava davvero per esplodere uno scandalo. Poi, una settimana fa, è partita una petizione su change.org dove si chiede al presidente Mattarella, che a maggio sarà a Trieste, di occuparsi del Silos, di far finire questo orrore e le firme sono arrivate a migliaia perché evidentemente anche la disattenta Trieste comincia a provare vergogna, esiste un “troppo” anche per gli stomaci più forti. Insomma, situazione ormai abbondantemente insostenibile, necessario porvi rimedio ed ecco la proposta fatta dal sindaco e accolta da tutti, Viminale in testa: si caccia definitivamente il Campo Scout che occupa da decine di anni un bel terreno in mezzo al Carso e tutti i migranti che arrivano a Trieste si mettono lì in attesa di trasferimento. Quel bellissimo luogo è stato gestito per anni da una associazione, “Amici delle iniziative scout”: il prato, gli alberi, gli edifici con le camerate, i bagni, la grande cucina e la sala da pranzo. È stato un luogo di ritrovo per tutti, lì si sono svolti matrimoni e battesimi, si sono organizzate feste e si sono raccolte compagnie di scout da tutto il mondo. Con l’arrivo della pandemia nel 2021, il Comune, proprietario del terreno, ha fatto saltare tutto e ha chiuso lì in quarantena i migranti che arrivavano e che erano tanti e le camerate non bastavano e allora le tende dell’esercito e decine di ragazzi ad aspettare chissà cosa e chissà quando. Non c’è fognatura al Campo Scout, c’è un pozzo nero che era anche tracimato fino a rendere il prato un acquitrino maleodorante. E lì che in quattro e quattr’otto si realizzerà il trasferimento dal Silos. Sì, certo, lo ammette perfino il sindaco, occorrerà pensare alle fognature e poi anche a una bella nuova recinzione (?) ma che vuoi che sia, detto e fatto. Sono contenti gli scout di restare senza più un luogo dove riunirsi o di trovarsi a contrattare qualche alternativa chissà dove e chissà quando? Ci crede davvero qualcuno che in brevissimo tempo si realizzano fognature nuove tra le pietre del Carso? Perché non si approfitta degli spazi del vecchio mercato che ci sono già, che basterebbe aprire il portone? A dirla tutta, in città c’è un certo scetticismo anche perché non sarebbe la prima volta, anzi, che dal sindaco arrivano idee fantasmagoriche che poi si perdono nel dimenticatoio. Staremo a vedere. Droghe e stigma, prevale l’ipocrisia di Lorenzo Camoletto Il Manifesto, 15 marzo 2024 Un educatore impegnato nella Riduzione del Danno (RdD) nelle scorse settimane è stato trovato in possesso di party drugs mentre, nel suo tempo libero, era in stazione diretto verso una festa. Il suo arresto per spaccio solleva questioni profonde riguardanti la percezione sociale delle sostanze psicoattive e l’importanza di un approccio scientifico alla gestione dei consumi. La lettera con cui ha rivendicato l’uso personale e al tempo stesso cercato di rompere lo stigma, è il punto di partenza. È cruciale riconsiderare il concetto di “uso compatibile” e abbracciare l’approccio della RdD, riconosciuto come uno dei pilastri delle politiche comunitarie sulle droghe e inserita in Italia nei livelli essenziali di assistenza nel 2017. Da decenni, la RdD ha dimostrato che il paradigma del “drug-free”, con l’astinenza come unico obiettivo, è irrealistico. Inoltre, ha evidenziato che un uso compatibile delle sostanze può coesistere con uno stile di vita gratificante. È essenziale comprendere la distinzione tra uso, uso problematico e abuso, evitando di patologizzare le sostanze in quanto tali, come non si metterebbe in discussione pregiudizialmente un coltello indipendentemente dall’uso che se ne possa fare. Questo è particolarmente importante considerando il bias sociale che spesso distorce la percezione delle droghe illegali rispetto a quelle legali. Per tutti, ma in specifico per chi opera in professioni di aiuto, è importante non incorrervi: rende alto il rischio di sottostimare un consumo problematico se è di una sostanza legale come l’alcol, o addirittura di non riconoscere un disagio in chi non usa sostanze; al contempo fa leggere per forza come malata una situazione in cui è presente una sostanza psicoattiva illegale. Le controversie sull’uso di sostanze da parte di Elon Musk confermano questi bias: nonostante le evidenze dimostrino che l’uso di droghe non pregiudica necessariamente il successo personale, e nel caso di Musk, l’uomo più ricco del mondo, questo è lampante, persiste una preoccupazione irrazionale che favorisce il pregiudizio anziché l’evidenza. Per i professionisti che operano nei servizi orientati alla RdD, l’esperienza personale dell’utilizzo di sostanze può essere un valore aggiunto nella relazione educativa. Questo principio è supportato dalle pratiche di peer support, che dimostrano che l’esperienza diretta può migliorare significativamente l’efficacia dell’intervento. Tuttavia, molti professionisti trovano difficile fare coming out riguardo al proprio utilizzo di sostanze al di fuori dei confini della propria equipe, perché è molto concreto il timore che possa comportare come minimo una perdita di credibilità tale da mettere in discussione la professionalità acquisita. Questo paradossale stato di cose impedisce non solo un progresso culturale globale, ma anche la possibilità di offrire un supporto più efficace a coloro che ne hanno bisogno. Per cui a meno di essere Carl Hart (il professore della Columbia University che usa eroina, ndr) e di avere il suo potere contrattuale si finisce di permanere in una zona perlopiù grigia se non di negazione, con tutti i danni correlati. È urgente superare l’approccio moralistico in favore di uno laico, pragmatico e scientifico. Un approccio che riconosca la complessità dei comportamenti legati all’uso di sostanze e che miri a ridurre i danni associati, anziché moralizzare o stigmatizzare. È tempo di abbracciare una visione più umana e inclusiva, che ponga al centro il benessere e la salute delle persone, senza pregiudizi né discriminazioni. L’episodio potrebbe diventare un’occasione estremamente utile ed interessante per riflettere a partire dall’interno dei servizi pubblici e del privato sociale per fare tutti insieme un salto di qualità. Non perdiamola. La vicenda su Fuoriluogo.it Export di armi. Italia da record nel mondo di Davide Depascale Il Domani, 15 marzo 2024 Le guerre in Ucraina e in Medio Oriente hanno innescato una crescita senza precedenti del business della difesa. Secondo il rapporto dell’istituto di ricerca Sipri, nella top ten degli esportatori il nostro Paese è quello che ha fatto segnare l’incremento maggiore. Gli Usa restano di gran lunga i maggiori venditori al resto del mondo. Gli Stati Uniti restano di gran lunga il maggior esportatore di armi, ma tra i primi dieci Paesi quello che ha aumentato di più i volumi dell’export di armamenti è l’Italia, che nel quinquennio 2019-2023 ha registrato un incremento dell’86% rispetto al lustro precedente. È quanto emerge dal rapporto pubblicato pochi giorni fa dallo Stockholm International Peace Institute (Sipri), prestigioso think tank svedese che monitora i conflitti nel mondo e il business che li alimenta, su tutti il commercio di armi. Chi esporta di più - L’Italia vede anche raddoppiare il suo peso globale nelle esportazioni di prodotti bellici, passando da una quota del 2,2 per cento al 4,3 per cento, classificandosi al sesto posto di questa speciale classifica. Dietro gli Usa troviamo il primo Paese europeo, la Francia, che costituisce l’11 per cento dell’export globale e ha registrato una crescita del 47 per cento. A completare il podio la Russia, che però scende di una posizione e accusa il colpo della guerra in Ucraina, che l’ha costretta a tenere per sé le armi prodotte: se nel 2014-2018 incideva per il 21 per cento nella quota globale, nell’ultimo quinquennio la sua quota si è praticamente dimezzata, scendendo all’11 per cento. Da registrare anche il sorpasso della Cina sulla Germania, che passa così al quarto posto, con una quota del 5,8 per cento, mentre i tedeschi si fermano al 5,6 per cento, davanti proprio all’Italia. Entrambi però registrano una diminuzione rispetto al lustro precedente, rispettivamente del 5,3 per cento e del 14 per cento. Un dato in forte controtendenza quello tedesco, legato alla “zeitenwende” decisa dal cancelliere Scholz subito dopo la guerra in Ucraina, con il riarmo delle proprie forze armate che ha intaccato le esportazioni verso altri lidi. A completare la top ten, dietro al nostro Paese, ci sono Regno Unito, Spagna, Israele e Corea del Sud, mentre appena fuori si registrano gli exploit di Turchia (11esima) e Polonia (14esima), che hanno aumentato le loro esportazioni rispettivamente del 103 per cento e addirittura del 1138 per cento. Numeri significativi che mettono in evidenza lo stato di ottima salute di cui gode il settore, che prospera in uno scenario geopolitico sempre più caratterizzato dalla proliferazione di conflitti armati. I destinatari delle armi - L’Europa dice la sua non solo nel campo dell’export, ma anche per quanto riguarda le importazioni, che nel 2019-2023 sono cresciute del 94 per. A farla da padrone è per ovvi motivi l’Ucraina, con una quota del 23 per cento del totale. A seguire troviamo Regno Unito (11 per cento) e Olanda 9 per cento. Più della metà delle importazioni europee totali - il 55 per cento - viene dagli Stati Uniti, un aumento di venti punti rispetto al periodo 2014-2018. Gli Usa sono anche di gran lunga il primo fornitore militare dell’Ucraina, fornendo il 39% totale del materiale bellico, seguiti da Germania e Polonia, rispettivamente al 14 e al 13 per cento. Per quanto riguarda le altre aree del mondo, si registra una diminuzione dell’import da parte dei paesi africani, che hanno registrato un calo del 52 per cento, dovuto al crollo dei due principali importatori del continente: l’Algeria (che ha registrato un meno 77 per cento) e il Marocco (meno 46 per cento). Qui resta forte la quota della Russia, che costituisce il 24 per cento delle importazioni africane, nettamente davanti a Stati Uniti (16 per cento) e la Francia, che ha ormai perso il suo ruolo egemone nell’Africa subsahariana e si ferma al 10 per cento. Dietro l’Ucraina, i due maggiori importatori di armi al mondo si trovano nella penisola arabica, con Arabia Saudita e Qatar che costituiscono rispettivamente l’8,4 per cento e il 7,6 per cento. L’area del Medio Oriente vede tre paesi tra i primi dieci importatori, dove ai paesi del Golfo si aggiunge l’Egitto. Un mercato dove l’Italia gioca un ruolo importante, essendo il terzo maggior esportatore dell’area, costituendo il 10 per cento dell’import totale, appena dietro la Francia (12 per cento). Anche qui a farla da padrone sono gli Usa, con una quota del 52 per cento.