Carceri, la strage che non fa scandalo di Francesco Petrelli* L’Unità, 14 marzo 2024 La questione carceraria sembra essere estranea alla coscienza morale e civile di questo Paese. Nessuna indignazione per i 24 reclusi che si sono uccisi dall’inizio dell’anno. Il 20 marzo i penalisti chiamano a raccolta in piazza partiti e associazioni per chiedere misure emergenziali: amnistia, indulto, numero chiuso. Poi una stagione di riforme dell’esecuzione penale Il tema del carcere sembra essere estraneo alla coscienza morale e civile di questo Paese. I ventiquattro suicidi dall’inizio dell’anno non sembrano essere motivo di indignazione, di interesse o quantomeno oggetto di pura cronaca. Gli ultimi tre tragici suicidi consumatisi in soli due giorni in tre diverse carceri, all’esito di una drammatica scia di analoghi eventi, non hanno suscitato alcun allarme e alcuna angoscia. Che si tratti di un noto trapper trovato impiccato nel carcere di Pavia o di un giovane senza fissa dimora suicida a Secondigliano, o di un ragazzo che ha posto fine alla sua vita nella Casa circondariale di Teramo, nel giorno del suo ventunesimo compleanno, poco importa. Dal nord al centro al sud la crisi attraversa in maniera ubiquitaria tutte le realtà regionali sulle quali gravita l’universo della detenzione, con eguale inesorabile atroce persistenza. E, ciò nonostante, il carcere sembra collocato in uno spazio distante dalla nostra “infosfera”, in una dimensione dove non giunge il respiro della maggior parte dei cronisti e dell’opinione pubblica. Si tratta di una frattura grave e di una distanza destinata a produrre guasti ancor peggiori. Non solo perché il mondo penitenziario, abbandonato a sé stesso, rischia di essere trascinato all’interno di una cieca deriva fatta di disperazione e di repressione. Ma anche perché - come ci ha ricordato nel suo ultimo bellissimo articolo Riccardo Polidoro - senza umanità della pena non vi può essere sicurezza per i cittadini. Il sovraffollamento, causato da un eccesso di ingressi e dallo scarso ricorso a misure alternative all’esecuzione intramuraria, fa da catalizzatore a tutte le carenze sanitarie, psichiatriche e trattamentali del sistema, privando i detenuti di quel minimo di speranza e di prospettiva di una vita futura da coltivare dentro e fuori quelle mura. Per il venti marzo l’Unione delle Camere penali ha indetto un giorno di astensione per denunciare lo scandalo di una condizione carceraria lontana da ogni minimo standard di decenza e di umanità e per richiamare la politica alle proprie responsabilità. I penalisti italiani intendono così promuovere e sostenere l’iniziativa promossa dal deputato di Italia Viva Roberto Giachetti e dalla Presidente di Nessuno Tocchi Caino Rita Bernardini per l’introduzione della liberazione anticipata speciale, attualmente all’esame del Parlamento, chiamando a partecipare alla manifestazione, che si terrà a Piazza Santi Apostoli, tutti i rappresentanti della politica, dei partiti e delle associazioni sensibili alla tragica emergenza carceraria, che intendono sostenere l’adozione di interventi emergenziali necessari a far fronte al dramma dei suicidi e del sovraffollamento. Una iniziativa alla quale anche il Partito Democratico ha mostrato grande attenzione e sensibilità. Si tratta di un fronte imprevedibilmente ampio che si muove dal rilancio dell’idea dell’indulto e dell’amnistia, alla proposizione di ogni altra forma di contenimento definitivo del numero degli ingressi in carcere, come il “numero chiuso”. Prospettive dettate dall’emergenza, ma che attingono ad una idea alternativa rispetto a quella prospettata dalle politiche governative, impostate sull’idea della persistente centralità del carcere e dunque sulla necessità di dare impulso all’edilizia penitenziaria, ponendosi sulla strada non della risoluzione e del superamento del problema carcerario ma della sua radicalizzazione e moltiplicazione. Si tratta di una prima iniziativa dei penalisti che nasce proprio dalla consapevolezza della necessità di superare questo passaggio emergenziale e di impostare nella politica del Paese una nuova stagione di riforme dell’esecuzione penale, che si ponga un obbiettivo più ampio della sola decompressione della condizione di sovraffollamento. È necessario e urgente, infatti, tornare a riflettere sui destini congiunti della giustizia penale e del problema della pena. Occorre sventare quella divaricazione fra pena e processo, fondata sulla formula del “garantisti nel processo e giustizialisti nell’esecuzione della pena”, svelandone l’assurdità. Riaffermando la garanzia della dignità dell’uomo in tutte le dimensioni che caratterizzano l’esperienza del processo penale, che gravita nella sua interezza intorno al problema e al mistero e al dramma della pena. E che dal dramma terribile della pena non può essere in alcun modo separato. *Presidente Unione Camere Penali Italiane Record di suicidi e sovraffollamento: due proposte per evitare il peggio di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 marzo 2024 Gli ultimi tre casi in un solo giorno. In meno di 70 giorni 23 detenuti e 3 agenti si sono tolti la vita, con un tasso di affollamento del 128%. In Parlamento i testi su liberazione anticipata e istituzione di case di reinserimento sociale per le pene brevi. Se i suicidi, con gli ultimi tre avvenuti lo stesso giorno nel carcere di Pavia, di Secondigliano e Teramo, hanno superato ogni record, visto che negli ultimi dieci anni mai si sono registrati 23 detenuti che si tolgono la vita in meno di 70 giorni, ai quali vanno aggiunti 3 agenti. Ma il sovraffollamento non è da meno. Secondo i dati del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria diffusi dal ministero della Giustizia, alla fine di febbraio, i penitenziari italiani sono vicini alla soglia delle 61.000 presenze e affollamento del 128%. In tutta Italia, il numero di detenuti presenti alla data del 29 febbraio 2024 risulta pari a 60.924: sono cresciuti di 758 unità da inizio anno (+1,3%). Ricordiamo che i posti disponibili, sulla carta, sarebbero 51.187. Ma a questi vanno sottratti almeno 3000 celle inagibili. Si è ormai da tempo superato di gran lunga il grado di drammatico affollamento del periodo pre-pandemico: in diversi istituti penitenziari del Paese, la situazione è sempre più critica. Ci sono 142 Istituti Penitenziari su 189 che presentano tassi di affollamento effettivi superiori al 100% e, conseguentemente, sono solo due le regioni - il Trentino Alto Adige e la Sardegna - in cui il numero di detenuti è inferiore ai posti effettivamente disponibili. Quindi, a livello nazionale, il numero di detenuti è ormai vicino alla soglia di 61.000. Il garante della regione Lazio, Anastasìa, nel suo sito online ha ricordato che all’epoca della sentenza Torreggiani e in particolare al 31 dicembre 2012, i detenuti complessivamente presenti in Italia erano 65.701, per un tasso di affollamento del 140%. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con la sentenza Torreggiani, adottata l’8 gennaio 2013 con decisione presa all’unanimità, condannò l’Italia per la violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti Umani (Cedu). Il caso riguardava trattamenti inumani o degradanti subiti dai ricorrenti, sette persone detenute per molti mesi nelle carceri di Busto Arsizio e di Piacenza, in celle triple e con meno di quattro metri quadrati a testa a disposizione. La liberazione anticipata speciale - Che bisogna intervenire, non lo dicono solo le associazioni che si occupano dei diritti umani, ma anche i sindacati della polizia penitenziaria stessa. In campo ci sono due proposte di legge. Una è quella approdata in commissione giustizia. Parliamo della proposta di legge presentata dal deputato di Italia Viva, Roberto Giachetti, insieme all’associazione Nessuno Tocchi Caino, sulla liberazione anticipata (speciale e ordinamentale). L’obiettivo principale di questa iniziativa è affrontare il problema del sovraffollamento carcerario e migliorare le condizioni di vita e lavoro all’interno delle prigioni. Questo risultato, ricordiamolo, è il frutto del sacrificio di molte persone (il deputato Giachetti e Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino in primis), e centinaia di detenuti che hanno sostenuto il Grande Satyagraha. Pensiamo alla partecipazione attiva di 46 donne (le ormai conosciute “ragazze di Torino” per il loro attivismo) e 64 uomini del carcere “Le Vallette” di Torino, oltre a ben 700 reclusi del carcere di Siracusa. La proposta di legge mira ad aumentare da 45 a 60 giorni la riduzione di pena per ogni semestre di detenzione ai fini della liberazione anticipata. Non solo. Il secondo articolo prevede di introdurre per i prossimi due anni un ulteriore aumento dei giorni di sconto di pena (da 60 a 75). La modifica proposta all’articolo 54 della legge 354/1975 mira a riconoscere e incentivare la partecipazione dei detenuti all’opera di rieducazione, favorendo così il loro reinserimento sociale. Visto l’urgenza, sarebbe il caso di accelerare l’iter. Sarebbe un primo passo per arginare le criticità e nello stesso tempo favorire il recupero delle persone che hanno sbagliato. Le case di reinserimento per le pene brevi - C’è anche un’altra proposta di legge presentata l’anno scorso dal deputato Riccardo Magi di Più Europa, sottoscritta anche dal Pd, Avs, AZ e Italia Viva. Recentemente è stato proprio il capo del Dap, Giovanni Russo, a ricordarla durante la sua audizione in commissione giustizia, evidenziando quanto sia importante l’istituzione di case di reinserimento sociale per chi ha meno di un anno di pena da scontare. Quindi è stato il Dap stesso a rilanciarla. Per ora, il ministro della Giustizia Carlo Nordio tace sul punto. L’obiettivo principale della proposta di legge è quello di fornire un ambiente più adatto alla riabilitazione e al reinserimento sociale dei detenuti, riducendo al contempo il sovraffollamento nelle carceri e migliorando l’efficacia del sistema penitenziario nel suo complesso. Le case territoriali di reinserimento sociale saranno strutture di dimensioni limitate, con una capienza massima compresa tra cinque e quindici persone. Accoglieranno principalmente soggetti che devono scontare una pena detentiva non superiore a dodici mesi, condannati ammessi al regime di semilibertà e detenuti assegnati al lavoro all’esterno. Le case territoriali di reinserimento sociale possono essere istituite attraverso un decreto del ministro della Giustizia, in collaborazione con il ministro delle Infrastrutture, previa intesa con le regioni interessate e i comuni coinvolti. Questo processo deve essere completato entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge. La gestione di questi istituti potrebbe essere principalmente responsabilità dei comuni competenti, con il sindaco o un delegato come direttore della struttura. Il personale sarà reclutato tramite concorso pubblico e regolato da leggi regionali che definiscono anche le loro condizioni lavorative. Le case territoriali, ovviamente, prevedono programmi di reinserimento sociale finalizzati alla ricollocazione sociale dei detenuti. Questi programmi possono includere lavori di pubblica utilità, progetti con la partecipazione di professionisti come educatori, psicologi e assistenti sociali, oltre a collaborazioni con enti del Terzo Settore. Le spese per l’istituzione e la gestione delle case territoriali saranno coperte dallo Stato, con finanziamenti anticipati ai comuni interessati. La ripartizione dei costi tra lo Stato e i comuni può essere modificata tramite convenzioni tra la regione competente e il ministero della Giustizia. Abbiamo quindi due proposte fattibili, concrete. L’urgenza c’è, e il rischio di un collasso che potrebbe portare a una situazione non solo ai livelli della Torreggiani, ma anche alle rivolte del 2020, è concreto. Tutto ciò si può prevenire attraverso le proposte di legge che sono in campo, compreso il discorso dell’affettività come indicato dalla Consulta. Se attuate, potrebbe essere il primo passo verso una riduzione della recidiva, una maggiore integrazione dei detenuti nella società e carceri non più sovraffollate. Ventitré suicidi in carcere nel 2024: se il “ritmo” continua, raggiungeremo numeri mai visti di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 14 marzo 2024 Ventitré suicidi nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno. Tre nella sola giornata di ieri, martedì. Un ventenne a Teramo, un trentatreenne a Napoli Secondigliano, un ventiseienne nel carcere di Pavia. Quest’ultimo era il trapper Jordan Jeffrey Baby. Giovani vite perse nella disperazione all’interno di un sistema penitenziario incapace di farsene carico. In carcere ci si ammazza circa venti volte di più rispetto a quanto accada nella società libera. Il sistema penitenziario è sempre più un grande selettore di disperazione. Sempre più andiamo imprigionando le parti più deboli e meno protette della società. Non le più criminali, ma le più disperate. In carcere si sta male, e da qualche tempo si sta ancora peggio. Il sovraffollamento crescente produce assenza di spazi vitali, condizioni di vita degradate, compressione di quel poco che residuava di vita sociale, paura, abbandono, vergogna, umiliazione. Si perde la speranza, si cancella ogni possibilità di immaginare una via di uscita, di riscatto, di recupero. Si vive ammassati ma si è tragicamente soli. In celle chiuse per quasi l’intera giornata, al terzo piano di un letto a castello, dovendo fare i turni per potersi alzare in piedi perché manca lo spazio, per venti ore su ventiquattro. Anche gli operatori penitenziari sono lasciati soli a gestire una situazione indegna di un paese che presiede il G7. I detenuti si trasformano in numeri indistinguibili, tutt’al più etichettati come fastidiosi. Non pochi di loro presentano infatti problemi psichici, crisi di astinenza da droghe o da farmaci, disturbi comportamentali. Ma chi non li avrebbe nelle loro condizioni? Se mai questa tragica sequenza di morti dovesse continuare a simili ritmi, raggiungeremmo numeri mai visti nella storia repubblicana. Per fermare questa strage silenziosa il ministro della Giustizia deve subito portare in Parlamento una serie di norme per deflazionare il sistema penitenziario e garantire una vita interna dignitosa. Si conceda da subito a tutti i detenuti una telefonata giornaliera, superando le restrizioni incomprensibili che oggi prevedono che ogni persona detenuta possa parlare con i propri cari non più di dieci minuti alla settimana. Si aumentino i video-colloqui. Si aiutino diecimila persone che hanno da scontare meno di tre anni di pena ad accedere a misure alternative. Si gratifichi il personale, si esalti la loro missione costituzionale. Si emarginino coloro che invece si muovono nel solco della violenza. Si smetta di usare un linguaggio di odio. Non si dica mai più che le persone detenute devono marcire in galera o che va buttata la chiave. Si ritiri il disegno di legge governativo che introduce il delitto di rivolta penitenziaria anche per chi resiste in maniera passiva a un ordine di polizia. È un manifesto di cultura illiberale. I tre giovani detenuti che si sono tolti la vita meritano un ricordo, un risarcimento morale. Si apra quantomeno una discussione pubblica intorno al fallimento di un sistema che è stato pensato dai nostri costituenti come volto al recupero sociale ed è invece diventato una drammatica fabbrica di morti. *Coordinatrice dell’Associazione Antigone “La libertà è un bene inviolabile. Eppure troppe persone sono in carcere” di Cosimo Rossi Il Giorno, 14 marzo 2024 “La situazione è allarmante”. Mauro Palma dal 2016 al gennaio 2024 è stato il primo Garante nazionale delle persone private delle libertà: qual è l’ispirazione della Costituzione in tema di restrizione delle libertà, pene e detenzione trattate negli articoli 13 e 27? “Bisogna innanzitutto inquadrarli negli artt. 2 e 3, che affermano la dignità della persona e il dovere di solidarietà, per capire l’inquadramento della pena nella Costituzione. Il primo comma dell’art. 13 afferma che la libertà è un bene ‘inviolabile’. Si può privarne qualcuno solo in presenza di una legge e di un giudice. Si tratta anche dell’unico articolo della Carta che prevede una punizione: per chi esercita ‘violenza fisica o morale’ su persone detenute. Questo rendeva incredibile che non ci fosse una legge sulla tortura in Italia: approvata solo nel 2017, dopo le condanne seguite soprattutto ai fatti del G8 di Genova”. Che significa che le “devono tendere alla rieducazione del condannato” come dice l’art. 27? “La sentenza 313/90 della Corte Costituzionale, estensore Ettore Gallo, chiarisce che finalità rieducativa non è qualcosa di aggiuntivo, ma il cardine della finalità della pena. Si tratta di un punto dirimente. Oggi, purtroppo, sembra che si sia tornati a considerare la finalità rieducativa come qualcosa di non strutturale. Le teorie sulla pena si dividono in due grandi famiglie. Quella strettamente retributiva, sanzionare il male commesso, e quella invece di tipo utilitaristico, per cui la pena deve avere un’utilità sociale. La giustizia cosiddetta ‘riparativa’ si pone il problema della situazione che il reato ha determinato: quindi non solo l’autore da sanzionare, ma anche la vittima e il contesto, per ricucire la lacerazione sociale determinata dal reato. Dato che le persone carcerate ritorneranno alla società, c’è tutto l’interesse a sposare linea utilitaristica”. Alla luce del vecchio adagio di Voltaire, secondo cui la civiltà di un paese di misura dalle sue carceri, come sta l’Italia? “Detto oggi ne usciremmo a pezzi. Viviamo uno dei momenti peggiori del sistema per numeri, suicidi e logica detentiva, a scapito delle misure alternative. Quello che preoccupa non è solo il numero totale, ma il ritmo di crescita. Anche nella logica di aumentare le carceri, nell’attesa che siano costruite cosa si fa?”. Serrachiani: “Nessuna tregua sul carcere. Delmastro? Stesso reato di Striano” di Valentina Stella Il Dubbio, 14 marzo 2024 La responsabile giustizia del Partito Democratico al Dubbio: “Il 20 marzo saremo in piazza con l’Unione Camere penali”. “Il sottosegretario Delmastro è accusato di aver rivelato un segreto del proprio ufficio, e cioè dello stesso reato di cui è accusato Striano. È forse meno grave perché si chiama Delmastro?”. Così l’onorevole Debora Serracchiani, responsabile giustizia del Partito Democratico in questa lunga intervista al Dubbio, nella quale aggiunge: “Il 20 marzo saremo in piazza con l’Unione Camere penali per denunciare la grave situazione delle carceri”. Da parte della destra la Procura Nazionale antimafia è sotto attacco. C’è chi addirittura invoca un commissariamento. Mentre la Meloni esclude una commissione di inchiesta. Qual è la vostra posizione su questo? La Direzione nazionale antimafia non può essere commissariata ed è uno strumento essenziale per la lotta alle mafie e al terrorismo, di cui il Paese non può assolutamente privarsi. Piuttosto ciò che serve è adottare le cautele che consentano di superare le fragilità delle banche dati del sistema della giustizia che Melillo ha evidenziato in audizione. Vanno assicurate alla Dna risorse e strumenti che permettano alla stessa di affrontare le nuove sfide tecnologiche stando al passo con la criminalità organizzata, che quegli strumenti utilizza sempre più. Quanto alla commissione di inchiesta, ci ha stupito l’intervento del ministro Nordio che, dapprima scarica sul Parlamento la propria inerzia e poi si fa smentire dalla stessa Presidente del Consiglio, che gli ha ricordato esserci già la Commissione antimafia e il Copasir. La Procura Nazionale Antimafia ha a disposizione una banca dati enorme alla quale possono attingere magistrati inquirenti e su autorizzazione la polizia giudiziaria. Il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia ha detto: “Certamente occorre innalzare i meccanismi di tutela che impediscono accessi abusivi” ma “non è affatto saggia l’idea di eliminare queste banche dati”. Sareste d’accordo con una proposta come quella ipotizzata da Costa che mira a rafforzare gli strumenti per garantire la segretezza dei dati? Le banche dati sono fondamentali per la lotta alla criminalità e, come detto, vanno certamente innalzate le tutele relative agli accessi e al loro uso. Ma sarebbe sbagliato farne a meno. Se un treno arriva sempre in ritardo, la soluzione non è sopprimerlo ma adottare tutte quelle misure che ne garantiscano la puntualità. Proprio oggi (ieri, ndr) è stato incardinato alla Camera il ddl sulla sicurezza cibernetica, alla presenza del sottosegretario Alfredo Mantovano che la prossima settimana tornerà per esporne puntualmente il contenuto. Già quel provvedimento contiene interventi utili e necessari richiesti dalla stessa Procura nazionale. Starà a noi legislatori migliorarne il testo e renderlo utile ai fini che tutti condividiamo. Secondo lei Striano sarebbe la classica singola mela marcia che fa eccezione in un sistema impeccabile o c’è qualcosa di più diffuso e preoccupante? Sarà la magistratura ad accertare i fatti e a indicare responsabilità. Ed è importante che anche la commissione antimafia ed il Copasir stiano seguendo questa vicenda, la cui gravità è indubbia. Mi limito a rilevare che Cantone ha escluso vi sia - allo stato - una ipotesi di associazione a delinquere, di corruzione o concussione e che Striano è indagato per rivelazione di segreto d’ufficio e per accesso abusivo alle banche dati. Lei insieme ad altri 3 parlamentari del Partito democratico avete chiesto di essere parte civile nel processo a carico del sottosegretario alla giustizia Delmastro. Volete far emergere fino in fondo la presunta gratuità e offensività delle parole che vi sono state rivolte in aula dagli esponenti di Fratelli d’Italia? Vogliamo difendere la prerogativa dei parlamentari di visitare le carceri per accertare le condizioni di vita e di lavoro negli istituti di pena ed esercitare i nostri poteri ispettivi. Riteniamo inoltre molto grave quanto accaduto: il sottosegretario Delmastro è accusato di aver rivelato un segreto del proprio ufficio, e cioè dello stesso reato di cui è accusato Striano. È forse meno grave perché si chiama Delmastro? Dovrebbe essere veloce l’iter di approvazione del ddl sugli smartphone. Si tratta di una estensione di garanzie per le persone a cui vengono sequestrati i dispositivi all’interno dei quali c’è tutta una vita. Che ne pensate? Siamo d’accordo con l’introduzione di una disciplina sul sequestro degli smartphone, che avevamo sollecitata a seguito dell’indagine conoscitiva su intercettazioni. Siamo però critici sull’estendere i limiti di legge relativi alle intercettazioni anche al sequestro di chat e e- mail, poiché si rischia di ridurre eccessivamente uno strumento di indagine importante. Due giorni fa altri due suicidi in carcere. Il 20 marzo l’Unione Camere Penali ha indetto una astensione e convocato una manifestazione. Ci sarete e se sì che messaggio lancerete? Dall’inizio dell’anno i suicidi sono 23, se aggiungiamo quello intervenuto in un Cpr. La situazione delle carceri è di una gravità inaudita: sovraffollamento, edilizia fatiscente, carenze di organico, assenza di spazi per gli interventi trattamentali e potrei continuare. Aderiamo alla manifestazione e vi prenderemo parte, per denunciare e condividere proposte. Indiscrezioni di stampa ieri mattina parlavano di una distanza profonda tra Nordio e Meloni, poi arriva la smentita di entrambi. Lei che idea si è fatta? Molte volte la Presidente Meloni ha smentito il ministro. È accaduto con la commissione d’inchiesta, con il concorso esterno, col freno alla separazione delle carriere, solo per citare alcuni esempi. Oggi (ieri, ndr) il ministro ha pure rilasciato una dichiarazione grave in forza della quale il suo ministero sarebbe “importante nella forma e non gradito nella sostanza”, facendo riferimento all’assenza di risorse. Forse la distanza è diventata un solco incolmabile. La Commissione Ue ha richiamato cinque Paesi Ue, Italia compresa, al rispetto della direttiva sulle garanzie procedurali per i minori indagati o imputati nei procedimenti penali. Sembra intravedersi una critica verso i decreti Caivano e Cutro. Come commenta? Lo abbiamo detto dal primo momento. Con il dl Caivano in particolare si è stravolto il processo minorile che era sempre stato considerato un fiore all’occhiello del nostro paese. L’allarme lanciato da Antigone, che ricorda che oggi sono in detenzione 500 minori, il numero più alto degli ultimi dieci anni, conferma che la rieducazione e l’inserimento sociale non sono una priorità di questo governo, ma che lo sia solo un innegabile spirito repressivo. Nei prossimi giorni dovrebbe essere approvato il decreto attuativo della riforma su Csm e ordinamento giudiziario, che potrebbe includere anche i test psicoattitudinali per i magistrati. Qualora i test fossero destinati solo per chi ancora deve entrare in magistratura, quale sarebbe la vostra posizione? Abbiamo già espresso la nostra contrarietà ad una misura inutile e provocatoria, tendente solo ad amplificare il conflitto aperto dalla destra con la magistratura. Un giovane non deve morire in carcere di Luca Cereda Famiglia Cristiana, 14 marzo 2024 Don Burgio, cappellano dell’Ipm Beccaria: “Non si può tornare in galera perché trovati in possesso di un cellulare”. Il trapper Jordan Jeffrey Baby a 26 anni è tolto la vita pochi giorni dopo il passaggio dalla comunità al penitenziario di Pavia, dove in precedenza aveva denunciato di aver subito abusi. Le carceri italiane si sono prese un’altra vita. Nel penitenziario pavese di Torre del Gallo, il 26enne Jordan Tinti, trapper noto con il nome d’arte di Jordan Jeffrey Baby, ha deciso di farla finita trovando una corda a cui impiccarsi. Elemento sul quale le autorità dovranno far luce. Ad oggi sono già 24 le persone che si sono tolte la vita nelle carceri italiane da inizio anno: un morto ogni 72 ore. Don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano e fondatore della comunità Kayròs di Vimodrone lancia l’allarme - che è anche un appello - alle istituzioni: “I suicidi tra i giovani sono in aumento in questi anni, dentro e fuori i penitenziari. Ma in carcere succede più spesso anche perché insieme al sovraffollamento c’è un altro problema: in questi luoghi ci finiscono troppe persone che in cella non ci dovrebbero stare per via delle loro condizioni fragilità psichica e psichiatria. Casi che fanno diventare le carceri degli ospedali senza gli strumenti per esserlo”. Tinti si è tolto la vita nella notte tra lunedì 11 e martedì 12 marzo ed è stato trovato dalla Polizia penitenziaria con un cappio appeso alle sbarre. Il trapper - con milioni di streaming su Spotify e una collaborazione con Plant dei La Sad, band salita sul palco di Sanremo 2024 con Autodistruttivo - stava scontando una pena definitiva di quattro anni e quattro mesi. Insieme ad un amico aveva rapinato, con l’aggravante dell’odio razziale, un quarantaduenne nigeriano nell’estate 2022 nella stazione di Carnate in Brianza. Lo scorso dicembre il ventiseienne era riuscito ad ottenere il permesso di scontare la pena in comunità, da cui però è stato espulso una decina di giorni fa perché trovato in possesso di un cellulare e di un pacchetto di sigarette - ha fatto sapere il suo avvocato - che violano la misura alternativa e hanno portato al rientro in quel carcere, il Torre del Gallo a Pavia, in cui sarebbe stato vittima di una violenza sessuale e di maltrattamenti. Motivo per cui aveva già tentato il suicidio. “Non esiste che oggi, nel 2024, un ragazzo torni in carcere dalla comunità perché trovato in possesso di un cellulare - chiosa don Burgio. È una cosa fuori dal tempo, anche perché le indagini intorno al suo caso erano chiuse e non c’era alcun pericolo che il ragazzo alterasse le prove. La regola esiste ma è anacronistica perché i giovani, ma come tutti noi ormai, nel telefono hanno una parte della vita. Ci sono le foto degli affetti, degli amici e possono mandare messaggi e a chi è fuori, restando in contatto con quel mondo in cui il carcere e la comunità dovrebbero prepararli a tornare”. Il caso del giovane musicista suicida in carcere è destabilizzante per don Burgio, che non riesce a cogliere la ragione per cui “una persona già fragile venga sradicata dai rapporti creati in mesi di comunità. A Kayòs, ad esempio, abbiamo un educatore ogni due ragazzi, in carcere in media il rapporto è di 1 professionista ogni 300 detenuti, e passano anche mesi per avere un incontro”. Così rabbia, depressione, solitudine, unite al sovraffollamento delle carceri portano giovani con problemi di salute mentale a compiere gesti estremi”. In questo la musica può svolgere un ruolo importante: “Per i ragazzi è uno strumento terapeutico. Al di là di quello che è il messaggio che veicolano. Può essere, come nel caso di questo trapper, ma anche per i miei ragazzi della comunità, che i loro testi siano violenti. È lo specchio della sofferenza e della rabbia che covano. Questo non ci sorprenda, anzi: per gli educatori la musica e queste parole cantate diventano una prima forma di dialogo con loro. Senza giudizio. Perché ascoltarli - conclude don Burgio - anche quando sono inascoltabili è il primo passo per capirli e aiutarli a prendersi cura di loro stessi. È iniziando a buttare fuori la violenza che si aprono gli spiragli per portare dentro certi valori e la voglia di iniziare altri percorsi di vita, dallo studio al lavoro”. Antigone: “Sovraffollamento e sofferenze nelle carceri in aumento dopo il ddl sicurezza” L’Unità, 14 marzo 2024 “Tre detenuti che si suicidano in un giorno segnano il fallimento delle istituzioni. Una tragedia che ci dovrebbe far fermare tutti e programmare azioni e politiche di segno opposto a quelle in discussione. Fermatevi con il ddl sicurezza e approvate norme di umanità”, così il Presidente di Antigone, Patrizio Gonnella, ieri ha commentato gli ultimi tre suicidi dietro le sbarre avvenuti martedì a distanza di poche ore. Il primo, sul quale - precisa Antigone - si attendono conferme, riguarda il trapper Jordan Jeffrey Baby ed è avvenuto nel carcere di Pavia. Il secondo, poche ore dopo, nel carcere di Teramo, dove un ragazzo di venti anni si è tolto la vita nel giorno del suo compleanno. Mentre, sempre lo stesso giorno, si era tolto la vita nel carcere di Secondigliano una persona di 33 anni. Il totale nel 2024 è di 23 suicidi, uno ogni 3 giorni. “Ogni suicidio è un atto a sé - sottolinea Gonnella - ma, quando sono così tanti, evidenziano un problema sistemico. Il sovraffollamento trasforma le persone in numeri di matricola, opachi agli operatori. Vanno prese misure dirette a ridurre drasticamente i numeri della popolazione detenuta. Il ddl sulla sicurezza in discussione va nella direzione opposta e potrebbe costituire una esplosione di numeri e sofferenze. Le misure che da tempo sollecitiamo non sono mai state approvate. Una telefonata salva la vita, abbiamo sempre ricordato. Facciamo sì che i detenuti comuni possano chiamare quotidianamente i propri cari e non una telefonata a settimana. Se quei ragazzi che hanno perso la vita avessero potuto farlo, specialmente in momenti di profonda depressione possono essere la via di salvezza. Per questo chiediamo ancora una volta che Governo e Parlamento aprano una discussione pubblica sul tema carceri. Chiediamo a tutti i parlamentari di visitare le sezioni più affollate degli istituti di pena e quelle dove si vive peggio, come il settimo reparto di Regina Coeli. Lanciamo anche un allarme sul nuovo reato di rivolta penitenziaria, previsto nel ddl sicurezza che andrà a punire persino la resistenza passiva dei detenuti con tanti anni di carcere. La disobbedienza nonviolenta gandhiana è trattata come un crimine. Il rischio - denuncia il presidente di Antigone - è che aumentino ancora atti di autolesionismo, tentativi di suicidio e suicidi. Per questo auspichiamo che questo provvedimento venga presto ritirato e che si approvino norme nel segno della modernizzazione, umanizzazione, deflazione. Siamo pronti a discuterne con chi vuole ascoltare il nostro parere e le nostre proposte”. Carceri, il Ministero assume 2.500 agenti, ma per i sindacati di Polizia penitenziaria “non bastano” di Thomas Usan La Stampa, 14 marzo 2024 Tra chi va in pensione e chi entra il bilancio sarà positivo di poco più di quattro mila unità. Una cifra lontana dai “14 mila” richiesti da Spp. Il Ministero assume più di due mila nuovi agenti di polizia penitenziaria ma per i sindacati “non basta”. Ieri è stato pubblicato sul sito di Via Arenula il nuovo bando per i nuovi allievi. Il decreto è stato firmato lo scorso 6 marzo e coinvolgerà 2.568 candidati. L’obiettivo è quello di rafforzare un corpo delle forze dell’ordine che da anni è in sotto organico. Ma più di due mila candidati sono sufficienti? No. Almeno secondo il sindacato Spp, che ritiene siano necessarie almeno “14 mila assunzioni”, come sottolinea il segretario nazionale Aldo Di Giacomo, per permettere di intervenire sulla criticità nelle carceri italiane. “Il sottosegretario Delmastro ha esultato per le nuove assunzioni, senza però tenere conto delle unità che sono andate in pensione: sostanzialmente gli organici sono rimasti invariati”, evidenzia Di Giacomo. E questa considerazione è frutto di un semplice calcolo: “Da tempo chiediamo i dati sui pensionamenti al Dap (dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ndr), - sottolinea - ma tuttora non abbiamo mai ricevuto una risposta”. Così il sindacato ha dovuto fare ricavare i numeri: “Un agente deve andare in pensione al compimento dei 60 anni: tra inizio 2020 e fine 2023 sono andati in pensione non meno di 2400 unità. Da inizio 2024 a fine 2025, in base all’età e alle malattie a lungo termine (oltre i 12 mesi, periodo dopo il quale un poliziotto viene riformato ndr), si prevede che lasceranno almeno 2.500 persone”. E quindi come si fa a trarre un bilancio? “Se si considera - continua di Giacomo - anche il bando appena annunciato, dal 2020 sono entrati in servizio 8.957 agenti”. Il calcolo, quindi, è facile: se entro la fine del prossimo anno non saranno pubblicati altri bandi per nuove assunzioni in bilancio sarà positivo di poco più di quattro mila unità. Una cifra lontana dai “14 mila” richiesti dal sindacato. De Fazio: “Secondo i numeri ufficiali gli agenti sono meno” - Il problema sui dati però è un tema centrale. Infatti ogni sindacato, in base a numeri non certi, fa le proprie considerazioni. Per esempio, secondo Uilpa, la cifra necessaria sarebbe maggiore e servirebbero “18 mila assunzioni”, come sottolinea il segretario Gennarino De Fazio. “Dal Governo e anche dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria si continuano a vantare assunzioni nel Corpo di polizia penitenziaria - dice - omettendo però di quantificare le cessazioni dal servizio per pensionamenti e altro”. E qua emerge il problema sui numeri. “Il Capo del Dap Giovanni Russo, ascoltato il 21 febbraio dalla Commissione Giustizia della Camera, ha indicato in 35.717 le poliziotte e i poliziotti in servizio” una cifra diversa rispetto a quella riportata nei “resoconti parlamentari della risposta del Viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto, a un’interrogazione in Senato per appurare che al 12 ottobre scorso erano 35.960”. Ma non finisce qui: “Secondo l’allora ministra della Giustizia, Marta Cartabia, al 27 giugno 2022 erano 36.388 - dice -. Stando ai numeri ufficiali, a meno di non voler dare i numeri, la Polizia penitenziaria è sempre a ranghi più ridotti a dispetto delle dotazioni organiche stabilite e del reale fabbisogno, quantificato dallo stesso Dap in oltre 54 mila unità”. Da qui il sindacato Uilpa è arrivato a una propria conclusione: “La verità è che, sebbene le assunzioni da qualche tempo siano effettivamente maggiori che in passato, e ci voleva davvero poco, non bastano ancora a coprire al turn-over e men che meno i tagli della riforma che porta il nome dell’onorevole Madia”. I programmi del ministero per il 2024 - Durante l’anniversario della costituzione della polizia penitenziaria, celebrato ieri (11 marzo) a Roma, il ministro alla Giustizia Carlo Nordio ha lanciato le novità che verranno introdotte nelle carceri italiane, oltre al nuovo bando sulle assunzioni. Innanzitutto l’intenzione da parte di Via Arenula è quella di fornire della bodycam agli agenti, in modo tale da permettere loro di documentare gli episodi violenti. Si è parlato anche di sistemi antidrone, per impedire le comunicazioni tra i detenuti e l’esterno. In ultimo si valuterà se inserire delle apparecchiature per rilevare più facilmente gli oggetti non consentiti nell’istituto. Il ministro che dice male le cose giuste di Alessandro Barbano Il Riformista, 14 marzo 2024 Il ministro che dice le cose giuste nel modo sbagliato è diventato un problema per il governo Meloni. Perché questo è il Paese dove, per un politico, già parlare di giustizia è considerata una velleità. Figuriamoci azzardare riforme. Invece Carlo Nordio ha sdottoreggiato per un anno e mezzo come un conferenziere indipendente e coraggioso. Senza mai sbagliare nel merito, con l’ispirazione garantista che tutti gli riconoscono. Ma su nessuno dei nodi che ha sollevato e che fanno della nostra giustizia un fattore di declino è riuscito a imprimere una svolta. Anzi, le sue sortite hanno indotto spesso la premier a correggerlo, quando non a smentirlo apertamente. E talvolta a fare retromarcia. Come quando lui ha censurato l’indeterminatezza del concorso esterno e, subito dopo le sue parole, il governo ha esteso per decreto la disciplina antimafia delle intercettazioni ai reati compiuti con mero metodo mafioso, cancellando un’apertura garantista della Cassazione. Di fronte allo scandalo dei dossier, Nordio ha varcato la soglia. Ha proposto l’istituzione di una commissione parlamentare senza averla condivisa con Giorgia Meloni, con i suoi viceministri e i suoi uffici, e meno che mai con il Quirinale. Smentito e silenziato, il guardasigilli ha battuto in ritirata, e c’è chi vede il suo destino già segnato dopo le Europee. Di fronte alla complessità del compito Nordio paga un deficit di tatticismo, indispensabile in un sistema ostaggio delle concrezioni di poteri, ufficiali e non, di parte della magistratura e di certi apparati dello Stato. Tuttavia anche stavolta la sortita del guardasigilli è sacrosanta del merito. Un Paese che assista a un inquinamento investigativo come quello che i dossier del luogotenente Striano hanno mostrato avrebbe il dovere di discuterne in Parlamento. La scelta del governo e dei leader della maggioranza è stata invece quella di confinare il dibattito in quella ridotta parlamentare che è la commissione Antimafia, una sede che è ormai parte di un sistema politico, giudiziario e burocratico in cui il bubbone dei dossier è scoppiato. Il ministro s’ispira a una visione strategica che ha nel primato del Parlamento la risposta politica della democrazia a ogni emergenza che sia reale. Il suo governo invece è mosso da una furbizia tattica, che consiglia di lasciar decantare o piuttosto deflagrare l’incendio nel luogo in cui è scoppiato, cioè nel cuore dell’Antimafia. Sul breve la furbizia fa premio sulla strategia. Perché depotenzia le incursioni della magistratura nel campo della politica. Ma rispetto al vasto programma di riforme che la maggioranza si è assegnata di fronte al Paese, questa postura difensiva non farà mai segnare alcun gol. Ne è prova la piega che ha preso la riforma delle riforme, cioè la separazione delle carriere. I partiti di centrodestra hanno convenuto di metterla in cantiere ad aprile con un disegno di legge costituzionale. Di cui ancora non si vede traccia. E, soprattutto, non si vede autore. Perché non si è ancora deciso se sarà il governo a intestarsi la riforma, bissando la richiesta di fiducia al Parlamento e al Paese già avviata con il premierato, o se piuttosto a presentare il progetto saranno uno o più partiti della maggioranza. Realismo vuole che questa seconda ipotesi sia la tomba di qualunque speranza di cambiamento. La fotografia della divisione dei poteri nella nostra democrazia, a meno di un terzo del cammino di legislatura, immortala un guardasigilli che ha già sparato troppe cartucce a vuoto per poter far pensare di averne altre in canna. E di un governo che per ora si tiene in trincea, nel timore di essere impallinato dai colpi di risposta provenienti dal fronte opposto della barricata. Dove i cecchini non si contano più. Nordio-Meloni, scontro continuo: “La Giustizia lasciata senza fondi” di Francesco Grignetti e Francesco Olivo La Stampa, 14 marzo 2024 Restano gelidi i rapporti tra la premier e il Guardasigilli, costretto poi alla rettifica. Accelerazione sulla separazione delle carriere. Si sono seduti uno accanto all’altra, pochi sguardi, un saluto formale e poi ognuno per la sua strada. I rapporti tra Giorgia Meloni e Carlo Nordio restano gelidi come non mai. Sull’orlo di una rottura totale. Ieri i due erano in prima fila al convegno del governo sul fisco a Montecitorio, e all’uscita la premier ha cercato di attenuare le notizie sulla freddezza dei loro rapporti, in seguito alla proposta di istituire una commissione d’inchiesta sui presunti dossieraggi, avanzata dal Guardasigilli e ostacolata con durezza da Palazzo Chigi: “Abbiamo fatto una riunione tre giorni fa...”. Mentre Nordio senza troppa convinzione aggiungeva, “ma quale lontananza?”. Ma siamo solo al mattino e la giornata ha ancora molto da offrire. La presidente del Consiglio fa riferimento a una riunione che si è svolta lunedì sera a Palazzo Chigi. Al tavolo oltre a Meloni e Nordio, c’erano i due vicepremier Matteo Salvini e Antonio Tajani, i tre sottosegretari di via Arenula e i presidenti delle commissione Giustizia di Camera e Senato. Il vertice è rapido, quaranta minuti in tutto, si discute delle riforme da portare avanti, a cominciare dalla separazione delle carriere tra pubblica accusa e giudici. È una delle storiche bandiere di Nordio, ma il ministro viene descritto come silenzioso e ombroso, visti gli scontri dei giorni precedenti sul caso dei dossieraggi. A parlare sono quasi soltanto i vicepremier, il Guardasigilli dice che entro aprile può arrivare un disegno di legge. Fratelli d’Italia aveva chiesto di evitare la sovrapposizione con il premierato (un intento dilatorio, secondo Forza Italia), ma la riforma costituzionale è già incardinata e quindi non ci sono più argomenti per rimandare. I tempi saranno lunghi e questo rassicura quella parte di FdI che non vorrebbe aprire uno scontro con la magistratura. Il 25 marzo è in calendario alla Camera l’esame della proposta di legge di Forza Italia sulla separazione delle carriere, ma nel partito della premier sono certi che non si arriverà al voto. Al contrario si potrebbe anticipare l’approvazione del ddl che abolisce il reato di abuso d’ufficio. Ieri si è riaccesa una polemica sul ministro della Giustizia. Poco dopo l’evento pubblico alla Camera, il ministro della Giustizia si sposta alla Corte d’Appello di Roma e da lì lancia messaggi di chiaro malumore: “La Giustizia non dà un riscontro. Non dà un rientro politico favorevole. Se un ministro costruisce un ospedale gli dicono “bravo”, se io costruisco un carcere mi dicono “utilizzi soldi per far stare bene chi spaccia droga”“. In sostanza, per Nordio il suo è “un ministero ancillare”. Così, Nordio trae delle conseguenze: “Le risorse sono dunque limitate perché vi è scarsa attenzione finanziaria, è un ministero importante nella forma e non gradito nella sostanza”. Parole durissime, lette a Palazzo Chigi come una risposta allo stop alla commissione d’inchiesta e in ogni caso come l’ennesima prova della tendenza a non trattenere le proprie considerazioni. Sull’ultima uscita di Nordio cala il silenzio della maggioranza, ma in compenso interviene l’opposizione: “Il ministro denuncia un fatto di estrema gravità: per il governo Meloni le risorse per la giustizia sono limitate perché il ministero è visto dall’attuale esecutivo importante nella forma ma “non gradito” nella sostanza” dice Debora Serracchiani responsabile Giustizia del Pd. “Secondo Nordio, la Giustizia negli equilibri del governo Meloni è un ministero di serie B - attaccano le capogruppo M5S nelle commissioni Antimafia e Giustizia, Stefania Ascari, Valentina D’Orso e Ada Lopreiato -, il ministro lascia intendere che secondo il centrodestra si tratta di un ministero che non porta voti. Ma non si vergogna?”. La bufera è tale che Nordio è costretto a chiarire: “Sono indignato dal grave e strumentale travisamento - dice -. I dati parlano da soli sul tema degli investimenti e delle risorse previste in bilancio per il funzionamento del sistema giudiziario, penitenziario, minorile e di comunità- Rispetto al 2021, sono aumentati, anche grazie al Pnrr, di circa 2,25 miliardi di euro”. Per finire con un omaggio che in molti hanno ritenuto riparatorio: “Ringrazio ancora una volta Meloni per la grande attenzione che pone alla priorità delle riforme della giustizia, confermata anche nell’ultimo incontro di lunedì durante il quale è stato definito il cronoprogramma delle riforme”. A sera una fonte vicina alla premier chiarisce: “Oggi ha chiarito. Vediamo cosa dirà domani”. “Deciso: la separazione delle carriere si farà”. Ma intanto la bloccano di Simona Musco Il Dubbio, 14 marzo 2024 Vertice di governo: Forza Italia reclama la riforma, Meloni dice a Nordio di riscriverla. E così l’iter si ferma di nuovo. Mentre il lavoro sulla separazione delle carriere va avanti in commissione alla Camera, la premier Giorgia Meloni e il ministro della Giustizia Carlo Nordio pensano a un ddl governativo sulla stessa materia. L’iniziativa di fatto farebbe slittare ulteriormente la riforma, attesa in Aula per il 25 marzo, ma intanto già “sostituita”, nel calendario, con il ddl penale che porta la firma del guardasigilli. Si tratta del testo che comprende l’abolizione dell’abuso d’ufficio e che, se approvato, senza modifiche, anche a Montecitorio diventerebbe legge. La volontà del governo di “avocare” la stesura della riforma sulle carriere - che conta quattro proposte in commissione Affari costituzionali, dove i lavori sono ormai in fase avanzata - è stata smentita, nella giornata di ieri, dai partiti di maggioranza, che oggi si apprestano a discutere il testo base a Montecitorio. Ma in serata più voci hanno confermato l’intenzione dell’Esecutivo di accelerare sulla separazione delle carriere e sul riassetto del Csm, con il via libera a un secondo pacchetto di riforme della giustizia. Meloni e Nordio ne avrebbero discusso lunedì, a Palazzo Chigi, in una riunione sulla giustizia alla quale hanno partecipato - e questa è una novità assoluta - anche altri esponenti della maggioranza, tra i quali i presidenti delle competenti commissioni di Senato e Camera, Giulia Bongiorno e Ciro Maschio. E secondo quanto emerso da ambienti di governo, Nordio avrebbe preso l’impegno di mettere a punto, sul “divorzio” tra giudici e pm, una bozza entro i primi di aprile. Il motto - ostentato in maniera evidente mentre sui giornali si ipotizzano dissidi tra la premier e il suo guardasigilli - è: “Perfetta sintonia” sulla giustizia. Ma la scelta di intervenire personalmente sul tema potrebbe essere avvertita come l’ennesima delegittimazione del Parlamento, giacché si rischia di rendere inutile il lavoro già svolto. “Se fosse così - commenta al Dubbio il responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa, firmatario di una delle proposte sulle “carriere” attualmente in commissione - sarebbe l’ennesimo atto dilatorio del governo sulla riforma”. E così sembra essere. Che Nordio volesse mettere il cappello sulla legge costituzionale era emerso chiaramente già il 7 febbraio, quando al congresso dell’Unione Camere penali aveva annunciato l’intenzione di scrivere un ddl governativo molto simile alla proposta già formulata anni fa dai penalisti. La priorità, aveva però sottolineato, rimane la riforma sul premierato. Che, a fronte della speditezza con cui procedeva il lavoro parlamentare sulla separazione, rischiava, forse, di arrivare più in là rispetto alla data del 25 marzo, giorno in cui, come ricordato, si attendeva l’approdo in Aula della riforma più odiata dalla magistratura. Ma la chiave di lettura potrebbe essere ancora più complessa. E potrebbe riguardare anche il peso specifico acquisito nella coalizione da Forza Italia dopo il più che positivo risultato elettorale in Abruzzo. Un risultato che ha consentito agli azzurri di “battere cassa” sulla separazione, pretendendone finalmente l’approvazione. Da qui il compromesso: per evitare che questa riforma “sorpassi”, nella tempistica parlamentare, il premierato, bisogna rallentarne la corsa. E per farlo l’unica soluzione è quella di un ddl Nordio, che da un lato allungherebbe i tempi e, dall’altro, consentirebbe a Forza Italia di presentarsi all’appuntamento delle elezioni europee con una promessa elettorale di peso, ovvero il divorzio tra giudici e pm. In ambienti parlamentari, il cambio di calendario, con l’approdo in Aula del ddl penale, è stato bollato come una questione logistica: troppo pochi 10 giorni per mettere a punto tutto e arrivare preparati a Montecitorio. Sulla separazione delle carriere tocca ancora lavorarci - questo è il succo - e quindi lo slittamento sarebbe “naturale”. Il lavoro della commissione, ha però commentato un’altra fonte parlamentare, “va avanti”. Al netto pure dell’”ingorgo” creato da nuove urgenze, quale, ad esempio, il ddl cybersicurezza, avvertito come prioritario dopo il caso del presunto dossieraggio alla Direzione nazionale Antimafia. Sul punto, il sottosegretario alla Presidenza Alfredo Mantovano è stato audito ieri nelle commissioni congiunte Affari costituzionali e Giustizia, annunciando una stretta con “sanzioni più adeguate per chi compie accessi illeciti alle banche dati”, già comunque richiamata nel disegno di legge approvato lo scorso 25 gennaio in Consiglio dei ministri e diventato, appunto, imprescindibile. “Con la legislazione attuale, se ad esempio nel caso dell’inchiesta di Perugia si arriverà a una condanna per gli indagati, le sanzioni sono di un’efficacia dissuasiva nulla: il ddl punta proprio a rendere più seri i presidi contro questi comportamenti”, ha dichiarato Mantovano a margine della seduta. Le prime audizioni in commissione sono previste la prossima settimana. E l’esame di questo provvedimento, spiegano ancora fonti parlamentari, comporterà un “rallentamento dei lavori anche per le altre leggi”. Insomma, non ci sarebbero figli e figliastri, ma priorità. Meloni commissaria la Giustizia: ad aprile disegno di legge sulle carriere separate dei pm di Paolo Pandolfini Il Riformista, 14 marzo 2024 Vertice a Palazzo Chigi per smentire il gelo e dare il segnale di un’accelerazione, ma di fatto l’iniziativa della premier vale un commissariamento dopo lo stop sui dossier alla commissione proposta dal ministro. Carlo Nordio e Giorgia Meloni sono separati in casa o si tratta solo di un eccesso di dietrologia giornalistica? Che i rapporti fra i due si siano ultimamente raffreddati è però un fatto concreto. La prova è stata la sortita di Nordio sulla istituzione della Commissione d’inchiesta sul dossieraggio di Pasquale Striano in un momento in cui è già al lavoro la Commissione antimafia. Una proposta, quella di istituire una Commissione d’inchiesta, che peraltro non era stata preventivante condivisa con la stessa premier, gli alleati, il Quirinale, e che secondo indiscrezioni avrebbe trovato sponda nella vice capo di gabinetto Giusi Bartolozzi che da tempo avrebbe l’ultima parola su tutti i dossier più scottanti a via Arenula. A parte ciò, dopo quasi un anno e mezzo dall’insediamento del governo Meloni il bilancio in materia giustizia è quanto mai insoddisfacente. Il Guardasigilli, ex procuratore aggiunto di Venezia e fortemente voluto dalla premier a via Arenula, non è riuscito ancora a far approvare mezza riforma. La totalità dei provvedimenti sulla giustizia che hanno avuto il via libera in questo primo scorcio di legislatura sono infatti il frutto del lavoro del Ministero dell’interno retto da Matteo Piantedosi: dal decreto “Rave”, al decreto “Cutro”, al decreto “Caivano”. Tutti provvedimenti che, peraltro, vanno contro le idee liberali di Nordio, prevedendo generalizzati aumenti di pena e la creazione di nuove fattispecie di reato. Il ddl 808, intitolato pomposamente “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale, all’ordinamento giudiziario e al codice dell’ordinamento militare”, meglio noto come “riforma Nordio”, dopo una interminabile discussione è stato approvato il mese scorso al Senato ed è in attesa di essere votato, si spera senza stravolgimenti, alla Camera. Il teso prevede l’abolizione del reato di abuso d’ufficio, una modifica a quello del traffico d’influenze, una stretta sulle misure cautelare e, in alcuni casi, il divieto per il pm di appellare le sentenze di assoluzione. Poca cosa se si considera che la parte riguardante le misure cautelari, con l’introduzione del giudice collegiale, andrà in vigore solamente quando sarà a regime l’aumento della pianta organica dei magistrati. Quindi almeno fra quattro o cinque anni, considerando i tempi necessari per l’espletamento dei concorsi in magistratura. Il ritardo è palese. Anche perchè il ddl 808, sulla carta, dovrebbe costituire il primo pezzo del progetto riformatore voluto da Nordio finalizzato a ridisegnare, entro la fine della legislatura, la giustizia nel Paese, con un approccio rispettoso dei diritti e delle garanzie. Via Arenula in questo anno e mezzo ha dunque prodotto pochissimo. Leggendo attentamente i testi in materia di giustizia che sono in discussione alle Camere, si scopre infatti che si tratta di provvedimenti di iniziativa parlamentare: dalle modifiche in tema di sequestro degli smartphone, all’utilizzo del trojan, al divieto di intercettare gli avvocati, alla riforma della presunzione d’innocenza con il divieto di pubblicare le ordinanze di custodia cautelare. La stessa riforma della prescrizione è un provvedimento di iniziativa parlamentare. Se il Parlamento è molto attivo a differenza del Ministero della giustizia, quest’ultimo è invece accusato di ‘annacquare’ le riforme volute da ministra Marta Cartabia, che erano state approvate nella scorsa legislatura, con i previsti pareri sui decreti legislativi. Ad esempio, sui magistrati fuori ruolo che dovevano essere diminuiti dagli attuali 200. Nordio ha fissato il loro numero a 180 ma non devono essere conteggiati quelli presso gli organi costituzionali, come le Camere, la presidenza della Repubblica, la Corte costituzionale. E comunque tutto va rinviato alla prossima legislatura in quanto fino al 2026 le toghe fuori ruolo sono impegnate nella realizzazione del Pnrr. Altro ‘annacquamento’, poi, il fascicolo per la valutazione del magistrato, con la previsione di un controllo solo a campione dell’esito dei provvedimenti giurisdizionali. Su grandi temi, come quello del sovraffollamento delle carceri con il dramma dei suicidi, Nordio continua a ripetere che bisogna costruirne di nuove e di utilizzare le caserme dismesse. Progetti non se ne vedono e anche il ripristino delle caserme dismesse non è di facile realizzazione. La quasi totalità di esse si trova al Nord, nelle zone di confine come il Friuli dove durante il periodo della guerra fredda decine di migliaia di soldati erano schierati a difesa di un eventuale invasione dalla Jugoslavia. Il problema principale di Nordio è quello di essere un tecnico in un governo politico che vede al suo interno tutti i capi dei partiti di maggioranza ed i loro rappresentanti più in vista. Non essendo un politico, Nordio in questi mesi si è affidato alle persone che conosce e con cui ha rapporti consolidati di stima. Ad iniziare proprio da Giusi Bartolozzi, magistrata siciliana che nella scorsa legislatura era stata eletta alla Camera con Forza Italia prima di andarsene dopo uno scontro con i colleghi di partito in Commissione giustizia. Oltre ad essere sui dossier più importanti, influenzando anche le scelte sull’organizzazione del Ministero avvalendosi di magistrati a lei vicini, Bartolozzi accompagna spesso Nordio a tutti gli eventi pubblici e partecipa agli incontri con i vertici della struttura. Un attivismo che avrebbe avuto la conseguenza di far fare un passo indietro a molti collaboratori di prima fascia di Nordio. Il primo ad abbandonare il dicastero è stato il capo di gabinetto Alberto Rizzo, in passato presidente del Tribunale di Vicenza. Rizzo nei giorni scorsi ha rassegnato le dimissioni, chiedendo di essere rimesso in ruolo. Magistrato da tutti riconosciuto per essere un grande organizzatore, a Vicenza aveva rimesso in piedi un tribunale disastrato, ricevendo il plauso, fatto molto raro, dell’intera avvocatura. In due anni, dopo 115 udienze, Rizzo aveva portato a termine il maxi processo per il crac della Banca popolare di Vicenza, con oltre 5000 parti civili. Al Ministero, in pochi mesi, era riuscito a stipulare per la prima volta accordi con le amministrazioni locali finalizzati allo scorrimento delle graduatorie dei concorsi per gli amministrativi, in modo da sopperire, ad esempio in Veneto, alla cronica carenza di personale. Nordio al suo posto vorrebbe ora promuovere proprio la sua vice ma l’idea è stata subito stroncata da Palazzo Chigi che vorrebbe una figura meno divisiva. Nessun magistrato però pare abbia intenzione di fare la fine di Rizzo, pur essendo il posto di capo di gabinetto molto ambito. Sullo sfondo, comunque, ci sono le prossime elezioni europee ed il quasi sicuro rimpasto di governo alla luce di quelli che saranno i mutati rapporti di forza all’interno della compagine di governo. Cosa accadrà è presto per dirlo. In un rimpasto la prima casella potrebbe essere quella di via Arenula. Per quel posto si fa già il nome del vice ministro Francesco Paolo Sisto, oppure di Alfredo Mantovano. Il nome di Sisto, avvocato molto stimato, era comunque già stato fatto in passato prima che Meloni si impuntasse su Nordio. Sisto dalla sua parte ha la padronanza della macchina ministeriale, essendo stato sottosegretario nella scorsa legislatura. Ha poi ottimi rapporti con i magistrati e con la categoria forense. Mantovano, invece, godrebbe della piena fiducia della premier. Certamente Meloni ha bisogno di una figura che si concentri sui dossier e porti a casa qualche risultato. Ieri la premier ha annunciato di voler accelerare sulla separazione di carriere. Sul punto c’è stata una riunione lunedì scorso a Palazzo Chigi alla quale hanno partecipato anche esponenti della maggioranza: è da intendersi come la risposta del governo alle voci di un gelo tra la premier e il guardasigilli. Sulla giustizia, hanno fatto sapere fonti di Palazzo Chigi, ci sarebbe “perfetta sinergia”. Ma l’isolamento di Nordio è sotto gli occhi di tutti. Il tempo per questa riforma se non è scaduto, poco ci manca. trattandosi di una riforma costituzionale, deve essere messa in cantiere all’inizio della legislatura in quanto serve un doppio voto parlamentare a distanza di almeno sei mesi e, se non si raggiunge la maggioranza assoluta, c’è poi bisogno di un referendum costituzionale. Ieri, comunque, Nordio ha fatto un nuovo scivolone, affermando che il Ministero della giustizia è importante nella forma e non gradito nella sostanza, avendo poche risorse. Immediata la polemica politica da parte della responsabile giustizia del Pd Debora Serracchiani che ha chiesto alla premier di chiarire il senso delle parole di Nordio. In serata è arrivata una dichiarazione dello stesso in cui affermava di essere stato travisato. Processo mediatico, paletti ai pm e governo. Parla Margherita Cassano di Claudio Cerasa Il Foglio, 14 marzo 2024 “Cari magistrati, la giustizia che insegue l’etica è espressione di uno stato autoritario”. Un anno fa, Margherita Cassano venne eletta come prima presidente della Corte di cassazione: era il 6 marzo del 2023 e molti osservatori si complimentarono con la signora Cassano per essere diventata la prima donna a ricoprire un incarico così importante. Nel corso di quest’anno ci si sarebbe aspettato da parte degli organi di informazione del nostro paese una qualche forma di curiosità rispetto alle idee coltivate dalla presidente sul mondo della giustizia italiana. Nulla di tutto questo è successo. E nulla è successo non perché il pensiero di Margherita Cassano sia poco interessante rispetto alle tematiche legate all’attualità. Ma perché se si accende il microfono quando parla la presidente della Cassazione si avrà la netta sensazione di ascoltare un alieno pronto, con il gusto della semplicità, della linearità e della razionalità, a offrire grosse delusioni a tutti coloro che ogni giorno cercano di dare spazio ai temi della giustizia solo quando questi aiutano a portare acqua al mulino della cultura della gogna. Se si ha invece a cuore la cultura delle garanzie, accendendo il microfono quando parla la presidente Cassano si ricaveranno soddisfazioni. Lo abbiamo fatto ieri pomeriggio, incontrando la presidente, e ne è venuta fuori una conversazione interessante. Contro la cultura dello scalpo, il metodo della gogna, le esondazioni dei magistrati e il populismo penale portato avanti da chi sogna di affidare al codice penale la risoluzione di ogni problema che riguarda la contemporaneità. “Ci sono alcuni tabù che andrebbero affrontati con urgenza quando si parla di giustizia”, ci dice Cassano. “Il primo tabù riguarda la necessità di acquisire una nuova consapevolezza: in una moderna democrazia, l’intervento giudiziario deve essere la extrema ratio, non la norma, e la giustizia penale dovrebbe essere l’ultimo approdo, non la regola”. Il ragionamento, dice Cassano, vale sia quando si parla di attività dei magistrati sia quando si parla di attività della politica. “Rispetto al tema dei delitti, dall’epoca di Mani pulite in poi si è registrata una tendenza evidente. Non sono rari i casi di magistrati che si occupano erroneamente di fenomeni, e non di reati e di fatti, e non sono rari i casi di magistrati che agiscono, per esempio quando in ballo vi sono reati legati alla pubblica amministrazione, senza chiedersi se le prove di colpevolezza permettano di essere convinti di un eventuale fatto commesso oltre ogni ragionevole dubbio”. D’altra parte, dice Cassano, se la politica offre alla magistratura occasioni per ampliare il proprio potere discrezionale, moltiplicando i casi in cui un pm può essere sollecitato, non ci si può poi stupire più di tanto se poi ci si trova di fronte a qualche magistrato che esonda. “Le decisioni di un legislatore sono insindacabili e non sta a me commentarle, ma ciò che si può dire è che il sistema giudiziario ha bisogno di poche regole chiare e ha bisogno di avere un quadro normativo stabile non caratterizzato da continue oscillazioni. Più un quadro normativo è mutevole, e poco chiaro, e più si lascia spazio alle interpretazioni e alla discrezionalità”. Cassano ci offre un bignè prelibato quando dice che un magistrato deve considerare “insindacabile” ciò che mette in cantiere il legislatore. Le chiediamo se i magistrati che commentano le leggi e che a volte minacciano di combattere contro una qualche norma studiata dal governo rientrino all’interno del perimetro del buon magistrato. Cassano sorride. “Un moderno magistrato che opera in un ordinamento complesso, che desidera portare avanti una leale collaborazione con le istituzioni e che non faccia di tutto per delegittimare la nostra professione dovrebbe intervenire pubblicamente solo per questioni tecniche. Un magistrato moderno, rispettoso del ruolo che riveste, dovrebbe ricordarsi, ogni giorno, quanto siano importanti tre elementi chiave della nostra professione: terzietà, autolimite e responsabilità. Uscire fuori da questo perimetro è pericoloso”. Cassano è molto preoccupata dai magistrati che esondano ma nota che nel mondo della giustizia qualcosa sta cambiando. “Sta avvenendo una rivoluzione silenziosa nel mondo della giustizia: i magistrati, al pari degli avvocati, sono sempre più consapevoli del fatto che sia in ambito civile sia in quello penale sia necessario accorciare i tempi dei procedimenti incontrandosi, parlandosi e arrivando a una forma di mediazione. Vi riporto un dato che mi ha colpito: nel settore civile le pendenze sono diminuite dell’8,2 per cento nei tribunali e del 9,8 nelle Corti d’appello. La durata media dei procedimenti si è ridotta in primo grado del 6,6 per cento e in appello del 7. Il disposition time è sceso del 6,4 per cento nei tribunali e del 6,4 nelle Corti d’appello”. Accanto a questi numeri positivi ve ne sono degli altri meno incoraggianti e sono quelli che riguardano il sovraffollamento carcerario che attualmente, come descritto dalla stessa Cassano nella sua relazione di inizio anno, conta una presenza di 62.707 detenuti (di cui 2.541 donne) rispetto ai posti disponibili pari a 51.179. “Superare una logica della giustizia carcerocentrica significa convincersi del fatto che il sovraffollamento carcerario dipende da due fattori: dal fatto che talora si è portati a enfatizzare la risposta penale come unica risposta a fenomeni sociali che meriterebbero diverse forme di intervento e dal fatto che non vi siano differenze quando si manda qualcuno in carcere tra chi ha una carica di pericolosità sociale alta e chi invece non ce l’ha”. Oltre a suggerire, temiamo vanamente, un nuovo approccio sulle carceri, Margherita Cassano accetta di inserire tra le priorità assolute dell’agenda giudiziaria italiana una battaglia culturale che la presidente considera necessaria: affrontare il processo mediatico e provare a smontarlo dal suo interno. “Non faccio fatica a definire il processo mediatico una patologia del nostro stato di diritto e non faccio fatica a definire una oscenità l’enfatizzazione dei processi mediatici in pendenza nella fase delle indagini preliminari, enfatizzazione che porta a considerare la persona nei cui confronti è formulata un’ipotesi di accusa tutta da verificare come soggetto già colpevole, attribuendogli loro uno stigma sociale che non si recupera nel tempo. Lo schema è sempre lo stesso: più è forte il divario temporale tra le indagini e il processo maggiore sarà l’attenzione dedicata all’accusa rispetto alla notizia legata a una sentenza. Si tratta di un danno doppio. Un danno per chi viene accusato, e ogni accusato ha diritto non solo, come prescrive l’articolo 27 della Costituzione a essere considerato innocente fino a sentenza definitiva ma anche, come prevede l’articolo 2, ad aver riconosciuti e garantiti i propri diritti inviolabili. Ma è un danno anche per il processo stesso, perché spesso la grancassa mediatica ha un effetto negativo e distorsivo sull’acquisizione delle prove: pensi a cosa succede quando un giudice popolare si ritrova a dover giudicare su un fatto condizionato dall’onda emotiva generata dal processo mediatico. Sento spesso parlare di una dialettica tra garantisti e giustizialisti. Ma onestamente non capisco il senso di questa dialettica: i garantisti conoscono e rispettano la Costituzione, i non garantisti non conoscono e non rispettano la Costituzione”. Serve limitare l’utilizzo delle intercettazioni irrilevanti? “Ripeto: abbiamo un apparato normativo chiaro, si tratta di applicarlo”. Insistiamo: cosa occorre fare, per Margherita Cassano, per disinnescare gli ingranaggi del processo mediatico? “C’è un tema certamente che riguarda la stampa. Non sta a me dire se servano o no nuove regole, mi limito a osservare che sarebbe sufficiente conoscere le regole che vi sono oggi provando a farle rispettare, anche quando si tratta per esempio di fughe di notizie, e mi limito a notare che chi informa trasformandosi nella buca delle lettere dell’accusa non aiuta a combattere il processo mediatico. Occorre anche dire però che vi è un tema culturale che riguarda la magistratura. Non sta a me dire quali sono gli strumenti che alimentano il circo mediatico ma sta a me dire che alla base delle storture del nostro stato di diritto vi è l’idea che da parte dei magistrati vi sia una missione morale. Lo dico chiaramente: guai a una giustizia che abbia una dimensione etica perché quella è espressione di uno stato autoritario. E le dico di più”. Prego. “Le dico che a mio avviso chi ha responsabilità nella fase delle indagini dovrebbe tornare ad avere come regola prioriaria l’applicazione del metodo popperiano della falsificazione, e chiedersi dunque sempre, in qualsiasi momento, se quella che ha di fronte è l’unica spiegazione plausibile nella ricostruzione di un fatto o se ci sono alternative”. Per offrire maggiore equilibrio nel mondo giudiziario è necessario separare le carriere? Cassano sorride ancora. “Guardi, sono la persona sbagliata a cui chiederlo: sono stata prima magistrato requirente e poi giudice. Mi sembra un falso problema, che riguarda appena il due per cento del totale dei magistrati. Fin dalla riforma del 2006, le norme che sono state introdotte sono così rigorose che hanno inibito il passaggio di ruolo nello stesso distretto: se vivi in un distretto e fai il magistrato con funzioni penali, per fare il giudice penale devi cambiare distretto. Le norme ci sono, anche qui, basterebbe solo rispettarle”. Cassano infine sostiene, a proposito di processi fatti sui giornali, che il sistema mediatico dovrebbe anche aiutare a far emergere la differenza che vi è tra l’Italia percepita e quella reale e Cassano non capisce come sia possibile, per esempio, che “a fronte di dati sulla corruzione in Italia che testimoniano la presenza di un problema che per nessuna ragione può identificarsi come una degenerazione incontrollata sia un racconto del paese così lontano dalla realtà, dove il percepito si trova anni luce da ciò che risulta nella realtà”. Meno fuffa, più realtà. Lo stato di diritto, volendo, lo si difende anche così. La Consulta e le intercettazioni ai parlamentari. L’allarme di Nicolò Zanon di Ermes Antonucci Il Foglio, 14 marzo 2024 L’ex giudice della Corte costituzionale evidenzia le conseguenze rischiose della sentenza sul caso Ferri: “A un pm accorto basterà evitare di iscrivere il parlamentare nel registro degli indagati per intercettarlo a piacere”. “A un pm accorto basterà evitare di iscrivere il parlamentare nel registro degli indagati per partire da una posizione di vantaggio, intercettandolo a piacere. Una posizione di vantaggio inquietante, proprio nel momento in cui si assiste alla diffusione di strumenti tecnologici che consentono micidiali intrusioni nella comunicazione di chiunque”. A lanciare l’allarme non è una persona qualsiasi, ma Nicolò Zanon, ex giudice della Corte costituzionale, nel suo libro “Le opinioni dissenzienti in Corte costituzionale: dieci casi” (Zanichelli), da lunedì nelle librerie. Infrangendo definitivamente il segreto della camera di consiglio, Zanon racconta dieci casi che hanno diviso la Consulta negli anni in cui lui ne ha fatto parte (2014-2023). Una delle sentenze più controverse è quella pronunciata il 20 luglio 2023 sul “caso Ferri” (la n. 157). Nella sentenza la Corte ritenne sostanzialmente legittime le intercettazioni realizzate nei confronti di Cosimo Ferri (all’epoca deputato) tramite il trojan inoculato nel cellulare di Luca Palamara, in occasione della famosa riunione all’Hotel Champagne del 9 gennaio 2019. La riunione coinvolse i due, cinque componenti togati del Csm e il deputato Luca Lotti, e fu incentrata sulla nomina del nuovo procuratore di Roma. Da quella intercettazione esplose lo scandalo sulle cosiddette nomine pilotate al Csm. Secondo la Camera dei deputati e i legali di Ferri, l’intercettazione non avrebbe mai dovuto essere realizzata né utilizzata dai magistrati, in quanto finalizzata a captare un deputato protetto dalle garanzie della Costituzione. La Sezione disciplinare del Csm ritenne invece l’intercettazione “casuale”, e questo nonostante la frequentazione fra Ferri e Palamara fosse nota da tempo, i due si fossero sentiti al telefono nei giorni precedenti e l’Hotel Champagne fosse notoriamente la residenza romana del deputato. La procura di Perugia, inoltre, aveva invitato la polizia giudiziaria a non attivare le captazioni qualora fosse emerso un incontro fra Palamara e membri del Parlamento. In maniera del tutto anomala rispetto alla giurisprudenza in materia, i giudici costituzionali hanno tuttavia stabilito che se il parlamentare non è indagato, né persona offesa o informata sui fatti non può dirsi destinatario dell’atto di indagine e quindi è liberamente intercettabile, a meno che il carattere mirato degli atti di indagine non emerga da “elementi connotati da particolare evidenza”. “La definizione di ‘particolare evidenza’ del carattere mirato dell’atto di indagine, ovviamente, affida alla Corte una larga discrezionalità definitoria, che si tradurrà con forte probabilità in letture (arbitrariamente?) diverse”, sottolinea Zanon. “Ma soprattutto - aggiunge - la soluzione escogitata lascia nelle mani dell’autorità inquirente, fin dall’inizio della partita, tutte le carte del gioco”, attraverso il ricorso al metodo riportato in apertura di questo articolo: al pubblico ministero basterà evitare di iscrivere il parlamentare nel registro degli indagati e poi intercettarlo, partendo così da una posizione di vantaggio. Evidenziato il pericolo che corre il libero esercizio del mandato parlamentare, è un peccato che nel volume Zanon non sia ritornato sulle dichiarazioni da lui fatte lo scorso dicembre alla presentazione dell’ultimo libro di Alessandro Barbano. Zanon rivelò che “nel non detto di quella motivazione” si cela un argomento che venne speso da diversi giudici della Corte in camera di consiglio e che “a noi fece inviperire”: “Non è pensabile che si dia ragione alla Camera, perché se si dà ragione alla Camera le intercettazioni acquisite diventano prove non più valide e il rischio a catena è che tutti i processi disciplinari di fronte alla sezione disciplinare, quei cinque che erano stati imbastiti contro quegli sventurati partecipanti alla serata dell’Hotel Champagne, finissero in un nulla”. Insomma, “non era possibile smentire la Cassazione e la sezione disciplinare” del Csm, altrimenti sarebbe saltata la condanna alla sospensione dalle funzioni e dallo stipendio nel frattempo comminata nei confronti dei cinque togati del Csm che parteciparono alla riunione all’Hotel Champagne. Ragionamenti non propriamente di carattere giuridico, e non è un caso che il giudice Franco Modugno (oggi vicepresidente della Corte) decise di esprimere il suo dissenso rifiutandosi di stendere le motivazioni della decisione. Nel suo libro Zanon evita purtroppo di fornire maggiori dettagli su questo retroscena. Violato ormai il segreto della camera di consiglio, l’ex giudice costituzionale sarebbe potuto andare fino in fondo e svelare cosa effettivamente accadde prima della sentenza. Un’occasione persa. Gratteri: “Per favore non fate più riforme della giustizia. Non tutelano le parti offese” di Gisella Ruccia Il Fatto Quotidiano, 14 marzo 2024 “Nel governo dei migliori, dove ci sono state le peggiori riforme del sistema giudiziario, c’erano tutti i partiti tranne Fratelli d’Italia. Adesso questo governo sta continuando le riforme che ha fatto il governo dei migliori, con l’aggiunta delle opposizioni (Azione e Italia Viva, ndr) che intervengono con gli emendamenti nella Commissione Giustizia. Se vuole, il sottosegretario Delmastro può intervenire per smentirmi”. È una delle tante pungenti frecciatine che Nicola Gratteri, procuratore della Repubblica al Tribunale di Napoli, ha riservato al sottosegretario della Giustizia Andrea Delmastro, durante un incontro con gli studenti tenutosi all’Università del Piemonte Orientale, a Novara. Il magistrato, che nell’evento organizzato dall’Ateneo e da Confindustria Novara, Vercelli e Valsesia ha presentato il libro Il Grifone, scritto con Antonio Nicaso, stronca le riforme della giustizia promulgate da Marta Cartabia nel governo Draghi, non mancando di punzecchiare il politico di Fratelli d’Italia, presente tra il pubblico e più volte richiamato dal magistrato (“Ho di fronte il sottosegretario della Giustizia ed è uno stimolo vederlo qui”, esordisce sorridendo Gratteri). Tema cruciale del convegno è costituito dalla stretta sulle intercettazioni, su cui Gratteri, tra gli applausi degli studenti universitari, osserva: “Quando il ministro della Giustizia dice che si fanno troppe intercettazioni, che queste costano troppo e che bisogna tornare ai pedinamenti, io mi chiedo: ma come è possibile? Se il mafioso non si muove dal suo divano e commette reati col suo telefonino, chi è che devo pedinare? - continua - Nordio dice che le intercettazioni costano troppo. In realtà costano 170 milioni di euro l’anno. Abbiamo una legge finanziaria da 50 miliardi e secondo Nordio 170 milioni di euro sono un costo eccessivo. No - aggiunge - le intercettazioni non costano nulla rispetto al risultato. Ma come faccio a mettere in discussione le intercettazioni telefoniche? Tutti viviamo con questo strumento. La politica prima o poi dovrà rispondere a questa mia domanda. Non gliela faccio passare questa. Ma attenzione, sono delle riforme che stanno piacendo a tutti”. Gratteri ripropone l’esempio del proprietario di un negozio che spaccia cocaina e che con un funzionario concorda una mazzetta su un appalto: “In base alla riforma Nordio, l’intercettazione della conversazione tra i due non la posso utilizzare, perché quella intercettazione è stata concessa dal giudice per il reato di associazione a delinquere finalizzata allo spaccio di stupefacenti e non per il reato di corruzione, per il quale è previsto l’arresto in flagranza”. E continua, rivolgendosi al pubblico: “Ma questo vi sembra normale nel 2024 e in un mondo dove questa tipologia di reati riguardanti la pubblica amministrazione sta gomito a gomito, da un lato, con certa politica e dall’altro lato con la mafia? Se invece in quel negozio entra un tossicodipendente che ha in mano una bottiglia di whisky e che al negoziante dice di averla rubata in un supermercato, io posso utilizzare l’intercettazione di quella conversazione. Vi sembra normale? Eppure questo accade e non c’è un solo politico che proponga una modifica di questo punto”. Il magistrato rifila un’altra staffilata al Guardiasigilli, citando il reato di concorso esterno in associazione mafiosa: “Nordio dice anche che il mafioso non parla al telefono. E cosa volete che dica il mafioso al telefono? “Ciao, stasera non posso venire perché a cena perché devo ammazzare uno”? Non sentirete mai questo, ma potreste sentire il mafioso che dice a un incensurato: “Ci vediamo al bar” - prosegue - Per me investigatore, che ha sempre fatto indagini di mafia, contrariamente a gente che non ha mai scritto un 416 bis in vita sua e che non ha mai letto gli articoli 110 e 416 bis, quella telefonata è oro, perché so cosa è il contrasto alle mafie”. E aggiunge: “C’è poi la storia di quel termine aulico che è stato usato contro le intercettazioni, cioè ‘lo sputtanamento’. Ricordo però che è da anni che non si possono pubblicare sui giornali intercettazioni riguardanti la vita privata delle persone e che non hanno nulla a che fare col capo d’imputazione. È inutile insistere su questo - continua, rivolgendosi a Delmastro - Almeno alziamo le mani, facciamo un fermo pesca sulle riforme. Per favore, non fate più riforme”. Per la terza volta Gratteri sollecita Delmastro a dare una risposta, tra le risate del pubblico. E il sottosegretario della Giustizia è costretto a salire sul palco e a intervenire, dando vita a un serrato botta e risposta col magistrato. “Non me lo sarei mai aspettato”, esordisce il deputato meloniano che, dopo aver accreditato stima e amicizia a Gratteri, vanta la normativa antimafia italiana. “È la migliore di tutto il mondo - afferma Delmastro - E la dobbiamo a persone come Falcone e Borsellino, di cui ci sono pochi eredi tra cui tu. La dobbiamo a tutti quelli che come te in questi anni l’hanno difesa e la dobbiamo anche in parte a questo governo che ha salvaguardato le intercettazioni di mafia”. “E ci mancherebbe pure”, commenta Gratteri, mentre la sala esplode in una fragorosa risata. “Le hanno tolte i tuoi colleghi di Cassazione - insorge Delmastro - Anche questo dobbiamo dire, se vogliamo essere sinceri fino in fondo”. “Però dobbiamo tornare all’utilizzabilità di tutte le intercettazioni”, replica Gratteri. “Noi riascoltando i tuoi suggerimenti le abbiamo ripristinate - rilancia Delmastro- Abbiamo anche ripristinato la procedibilità d’ufficio per tutti i reati con l’aggravante mafiosa che aveva cancellato la professoressa Cartabia”. E Gratteri: risponde: “Dovrebbe valere anche senza l’aggravante mafiosa, perché questa la si riconosce dopo aver fatto le indagini, non prima”. La Cartabia ha aperto la strada a una maggiore tutela dei diritti primari riconosciuti dall’Ue di Leonardo Arnau* Il Dubbio, 14 marzo 2024 In qualità di Coordinatore della Commissione diritti umani e protezione internazionale del CNF parteciperò oggi ad un convegno presso la Corte di Cassazione dedicato alla revisione e revocazione europea dopo la riforma Cartabia, rivolgendo lo sguardo allo stato dell’arte e alle prospettive di sviluppo. Ringrazio in modo sentito e non formale l’avvocato Anton Giulio Lana e l’Unione forense per la tutela dei diritti umani per aver organizzato questo importante confronto, ad un anno e mezzo dall’adozione D. lgs. 10 ottobre 2022 n. 149 (c. d. Riforma Cartabia), che come sappiamo ha introdotto nel codice di procedura penale e nel codice di procedura civile strumenti normativi specifici volti a dare effettività al diritto alla restitutio in integrum, laddove una violazione dei diritti fondamentali della persona, riconosciuti dalla Convenzione europea del 1950, sia stata accertata dalla Corte di Strasburgo. Si tratta, a ben vedere, di un risultato di portata considerevole, raggiunto al termine di un lungo e travagliato percorso giurisprudenziale, teso a regolamentare, a livello normativo, le ricadute a livello di diritto interno delle violazioni dei diritti fondamentali riconosciuti dalla Cedu. Un traguardo importante, visto che viviamo un’epoca caratterizzata da difficoltà crescenti a rendere effettiva la tutela dei diritti fondamentali riconosciuti dalle convenzioni internazionali. Si è data, così, una risposta alle diverse sollecitazioni che nel tempo sono state formulate dal Consiglio d’Europa: pensiamo che sono trascorsi più di vent’anni, dalla Raccomandazione Rec(2000) 2 del 19 gennaio 2002. In sede penale l’art. 36 del d. lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, ha integrato il Libro IX del codice di procedura penale, dedicato alle impugnazioni, con l’adozione di un nuovo titolo III-bis, rubricato “Richiesta per l’eliminazione degli effetti pregiudizievoli delle decisioni adottate in violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali o dei suoi Protocolli addizionali”. Al perdurante vuoto legislativo aveva supplito la magistratura con i gli importanti interventi della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione, volti a dare delle risposte di giustizia anche a fronte dell’evoluzione del corpus giurisprudenziale della corte di Strasburgo e all’affermarsi di quella tutela multilivello dei diritti fondamentali in Europa che si è realizzata negli ultimi decenni, attraverso il dialogo e il confronto tra le Corti sovranazionali e quelle nazionali. Ricordiamo poi la restituzione nel termine per proporre impugnazione per l’imputato contumace ex art. 175, commi 2 e 2- bis, c. p. p. (quando l’imputato non ha avuto effettiva conoscenza del provvedimento), il ricorso straordinario per errore di fatto (quando la violazione sia perpetrata in Cassazione) e l’incidente di esecuzione per ottenere l’ineseguibilità del giudicato di cui all’art. 670 c. p. p. (per le violazioni sostanziali). Abbiamo adesso uno strumento legislativo specifico, l’art. 628- bis c. p. p., per dare esecuzione alle decisioni del giudice europeo, che dovrebbe porre fine ai dubbi e alle incertezze applicative registrate in passato. Il legislatore ha optato per l’introduzione di un mezzo di impugnazione specifico e straordinario, perché riguarda provvedimenti giudiziari, sentenze o decreti penali irrevocabili, tutte le volte in cui la Cedu abbia accolto in via definitiva il ricorso e riconosciuto una violazione da parte dello Stato. Un mezzo di impugnazione specifico, e pertanto diverso da quello della revisione e “flessibile”, tenuto conto della molteplicità ed eterogeneità delle violazioni delle garanzie offerte dalla Convenzione europea per i diritti dell’Uomo e della necessità di offrire riparazioni sia alle violazioni di tipo sostanziale che a quelle procedurali. *Avvocato, consigliere Cnf Minorenni alla sbarra, l’altolà dell’Ue: “L’Italia rispetti i loro diritti” Il Dubbio, 14 marzo 2024 L’Italia non rispetta appieno i diritti dei minori coinvolti in procedimenti penali. A stabilirlo la Commissione europea, che ha invitato il nostro Paese, insieme a Spagna, Cipro, Lussemburgo e Polonia a recepire pienamente le norme Ue sulle garanzie procedurali per i minori nei procedimenti penali, contenuti nella direttiva 2016/800. La direttiva rientra nella strategia globale dell’Ue volta a stabilire norme minime comuni per garantire il diritto a un equo processo e i diritti di indagati e imputati nei processi penali in tutta l’Ue, ma nessun rimedio specifico è stato introdotto nel quadro giuridico italiano per affrontare violazioni dei diritti previsti dalla direttiva dopo la sua entrata in vigore. Essa stabilisce norme comuni sulle garanzie procedurali per i minori, quali il diritto a una valutazione individuale, il diritto a un trattamento specifico in caso di privazione della libertà personale (come la separazione dai detenuti adulti e l’accesso alla formazione e istruzione) e il diritto di essere accompagnati dal titolare della responsabilità genitoriale durante il procedimento. Mentre la Polonia non ha recepito pienamente l’ambito di applicazione della direttiva e alcuni requisiti sostanziali, ad esempio per quanto riguarda il diritto a una valutazione individuale e all’assistenza del minore da parte di un avvocato, nei casi relativi a Italia, Lussemburgo e Spagna sono stati individuati problemi di completezza, ad esempio per quanto riguarda il diritto all’informazione del minore e il diritto a una visita medica. Nella legislazione italiana, infatti, non esiste una disposizione specifica che preveda questo diritto per i minori privati della libertà, per valutare le condizioni fisiche e mentali generali. Al momento dell’arresto, infatti, il minore viene informato soltanto del diritto ad accedere all’assistenza medica d’urgenza. In ogni caso, le parti possono in ogni momento chiedere e il giudice su sua istanza può ordinare accertamenti sulla salute mentale dell’indagato o imputato se sussistono dubbi sulla sua capacità di partecipare consapevolmente al processo. Contrariamente al minore e al suo avvocato, il titolare della responsabilità genitoriale non può chiedere d’ufficio questo o qualsiasi altro accertamento. Per questo aspetto, quindi, la normativa italiana non è in linea con la Direttiva, che invece ammette questa opzione. Infine, in Italia la visita medica può essere effettuata ogniqualvolta sia richiesta. Cipro ha ricevuto un primo parere motivato nel maggio 2020 per mancata comunicazione alla Commissione delle misure di recepimento della direttiva. Dopo aver ricevuto la risposta di Cipro, la Commissione ha concluso che le misure notificate non rispettano l’obbligo della direttiva di garantire un trattamento specifico dei minori in caso di privazione della libertà personale. La Commissione ha pertanto deciso di inviare lettere di costituzione in mora a Spagna, Italia, Lussemburgo e Polonia e un parere motivato supplementare a Cipro. Gli Stati membri dispongono ora di due mesi per rispondere e rimediare alle carenze rilevate dalla Commissione, trascorsi i quali, in assenza di una risposta soddisfacente, la Commissione potrà decidere di inviare pareri motivati a Spagna, Italia, Lussemburgo e Polonia e di deferire Cipro alla Corte di giustizia dell’Ue. Teramo. Suicida in carcere un ragazzo di 20 anni. Reato: furti di Eleonora Martini Il Manifesto, 14 marzo 2024 Tre detenuti si tolgono la vita nel giro di poche ore. Sono 24 dall’inizio dell’anno, uno ogni 3 giorni. Cercare le motivazioni di un suicidio è sempre esercizio vano ma quello che sta accadendo nelle nostre carceri ha i connotati di una tragedia che non si arresterà finché non si prenderanno le misure caldeggiate dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa ormai quasi un anno fa. Tre giovani di 20, 26 e 33 anni, si sono suicidati nelle ultime ore nei penitenziari di tre regioni italiane, diversi tra loro ma con tratti comuni: il sovraffollamento e la mancanza di qualsiasi percorso di reinserimento sociale. Davanti a sé i tre giovani non sempre avevano un fine pena lungo. Ma la vita libera, probabilmente, faceva loro paura almeno quanto quella da detenuti. Il totale nel 2024 è di 24 suicidi, “uno ogni 3 giorni”, denuncia l’associazione Antigone. Patrick Guarnieri aveva 20 anni, li avrebbe compiuti ieri ma ha deciso di impiccarsi con un lenzuolo all’inferriata della finestra della sua cella di Castrogno, la Casa circondariale di Teramo. Di etnia rom, era finito poche ore prima all’ospedale Mazzini per un malore che lo aveva colto subito dopo l’arresto, probabilmente un attacco di ansia. Nello stesso carcere è rinchiusa anche sua madre che due giorni prima aveva dato in escandescenze e aveva aggredito una dottoressa al pronto soccorso del Mazzini dove era stata trasportata perché si era ferita con la lametta con cui minacciava di tagliarsi la gola. Malgrado la sua giovanissima età, Guarnieri aveva alle spalle una serie di furti e altrettanti arresti e, da ultimo, aveva violato l’obbligo di dimora a Giulianova. Il carcere di Teramo è da tempo considerato problematico per via della cronica mancanza di personale (secondo i sindacati di polizia supera il 35% della pianta organica) e per il sovraffollamento (a fine febbraio il tasso era 147%: 375 detenuti in 255 posti). Il 25 settembre scorso era stato teatro di una rocambolesca evasione di un detenuto tuttora latitante, e alla fine di gennaio era riuscito a suicidarsi un recluso macedone in attesa di giudizio che aveva già tentato di farla finita dopo aver accoltellato sua moglie. Poche ore prima della morte di Guarnieri, il trapper Jordan Tinti, in arte Jeffrey Baby, aveva deciso di morire nel penitenziario di Pavia dove era tornato 10 giorni prima, dopo tre mesi trascorsi in una comunità terapeutica. Aveva già tentato due volte di uccidersi in 17 mesi di detenzione durante i quali aveva denunciato (inchiesta archiviata) maltrattamenti e abusi. L’anno scorso era stato condannato per rapina aggravata dall’odio razziale a poco più di 4 anni di carcere. I suoi fan sui social puntano il dito contro il sistema carcerario e le “condizioni disumane e inaccettabili in cui Jordan era costretto a sopravvivere”, ma sul caso il Garante nazionale Felice D’Ettore sta raccogliendo informazioni e non è esclusa neppure l’autopsia sul corpo. “Il carcere di Pavia - riferisce Antigone - a fine febbraio aveva un tasso di affollamento del 126%, con 650 persone a fronte di 515 posti disponibili. Nello scorso mese di ottobre avevamo visitato il carcere trovando alcuni reparti infestati dalle cimici e almeno un detenuto con un nido di insetti tra i capelli. Una delle difficoltà di gestione riscontrate era connessa alla fragilità psichica di molti dei ristretti”. Sempre martedì, nell’istituto napoletano di Secondigliano si è suicidato anche Robert Lisowski, 33 anni. “Era un senza fissa dimora entrato in carcere per omicidio - racconta il Garante regionale Samuele Ciambriello - Era balzato agli onori della cronaca nell’agosto del 2019 per essere stato l’unico detenuto evaso dal carcere di Poggioreale in cento anni di storia”. In Campania dall’inizio dell’anno sono 5 i detenuti che si sono tolti la vita. A gennaio 2023, a Secondigliano erano ristrette 1.368 persone in 1.077 posti (tasso del 127%) e “come riferito dal personale sanitario - scrive Antigone - circa l’80% della popolazione detenuta fa uso di psicofarmaci”. “Ogni suicidio è un atto a sé - commenta Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - ma quando sono così tanti evidenziano un problema sistemico e segnano il fallimento delle istituzioni. Vanno prese misure dirette a ridurre drasticamente i numeri della popolazione detenuta. Il ddl sulla sicurezza in discussione va nella direzione opposta e potrebbe costituire una esplosione di numeri e sofferenze. Chiediamo ancora una volta - conclude Gonnella - che Governo e Parlamento aprano una discussione pubblica sul tema carceri”. Teramo. Suicida in carcere a 20 anni. I parenti: “C’è stato un litigio, poi le grida” di Teodora Poeta Il Messaggero, 14 marzo 2024 Patrick Guarnieri aveva problemi di udito dalla nascita e “difficoltà cognitive” dicono gli amici. “Non si sarebbe mai ammazzato”. “Patrick non si può essere ammazzato da solo perché non era la prima volta che entrava in carcere. Quell’ambiente lo conosceva da quando era un ragazzino, è entrato e uscito tante volte, e noi siamo sicuri che non lo avrebbe mai fatto quel gesto”. Una certezza che arriva da alcuni parenti del giovane ritrovato impiccato con un lenzuolo all’inferriata della finestra della sua cella nel reparto comuni del carcere di Castrogno a Teramo, nel giorno del suo ventesimo compleanno. Patrick Guarnieri aveva problemi di udito dalla nascita, ma a quanto pare, così come confermano i suoi parenti, “anche altre difficoltà cognitive” a questo punto probabilmente mai certificate fino in fondo o comunque compatibili con il regime carcerario. Alle spalle, invece, precedenti per furti commessi in varie città d’Italia. Due giorni fa l’aggravamento della misura che l’ha portato in carcere dopo un obbligo di dimora violato. “Un ragazzo come lui non poteva stare in carcere e invece ce l’hanno mandato. Patrick era buono. Quando stamattina (ieri per chi legge, ndr) mi hanno chiamato per dirmi che si era impiccato, non ci potevo credere”. Davanti all’ obitorio dell’ospedale di Teramo in decine, tra amici e parenti, sono arrivati per stringersi al dolore dei familiari. Il posto è rimasto presidiato da polizia e carabinieri. Seduto in lacrime il papà di Patrick che avrebbe già presentato una denuncia per fare chiarezza sull’accaduto, con l’autopsia disposta dalla pm. Secondo i parenti, martedì sera il giovane potrebbe aver litigato con qualcuno in carcere. “Ci hanno riferito che c’è stato un litigio - raccontano - ma non sappiamo con chi. Ci hanno anche detto che il giubbotto di Patrick è stato ritrovato strappato”. Dichiarazioni che ora dovranno trovare un riscontro da parte degli inquirenti. Così come gli altri particolari che hanno aggiunto: “Ieri mattina uno dei nostri ragazzi è uscito dal carcere e ci ha raccontato che proprio l’altra notte ha sentito urlare”. Il loro sospetto è che si trattasse proprio di Patrick. Ma chi avrebbe potuto fargli del male o spingerlo a togliersi la vita? “Noi vogliamo che venga fuori la verità”, dicono. E il primo passaggio in questo senso sarà proprio l’autopsia. Dopo che la mamma del 20enne, che si trovava pure lei detenuta a Castrogno, ha purtroppo visto il figlio immediatamente dopo i fatti. “L’hanno portata nella cella per farglielo vedere e si è sentita male”. Pavia. Si indaga sulla morte di Jeffrey Baby: “Dubbi che si sia suicidato” di Luca Rinaldi milanotoday.it, 14 marzo 2024 Disposta l’autopsia sul corpo del trapper trovato morto in carcere. Le parole del legale. L’obiettivo è uno: fare chiarezza. La Procura di Pavia disporrà l’autopsia nelle indagini aperte sulla morte di Jordan Tinti, il trapper famoso con il nome d’arte di Jordan Jeffrey Baby, trovato impiccato martedì mattina in carcere. Il legale del giovane, l’avvocato Federico Edoardo Pisani, che rappresenta ora anche il padre, incontrerà giovedì il pm titolare dell’inchiesta, Alberto Palermo. L’avvocato e il papà del 26enne hanno chiesto “giustizia” e vogliono “sapere cosa è successo”, anche perché, secondo il legale, ci sono pure “fondati dubbi che si sia trattato di un atto volontario”. “Non so neanche se hanno trovato una corda o altro, a me hanno solo detto ieri che è stato trovato appeso in cella”, ha chiarito. E se di suicidio si è trattato, ha spiegato ancora il legale, “bisogna chiedersi perché Jordan era ancora in carcere a Pavia, dopo che aveva denunciato di aver subito là maltrattamenti e abusi sessuali” da altri detenuti. Per i maltrattamenti, ha chiarito il legale, è imputato un altro trapper, lo stesso condannato in primo grado con la vittima a Monza per rapina aggravata dall’odio razziale. L’artista accusato dall’avvocato, che nel primo periodo di detenzione era in carcere con Jordan, per quei presunti maltrattamenti sarà processato a partire da venerdì prossimo a Pavia. “Il padre di Jordan sarà parte civile nel processo”, ha annunciato l’avvocato. Tinti aveva anche denunciato di essere stato vittima di violenza sessuale da parte di un altro detenuto. “Ci siamo opposti alla richiesta di archiviazione della Procura”, ha detto il difensore. A novembre, poi, il magistrato di Sorveglianza, subito dopo che la pena era diventata definitiva, aveva concesso al 26enne l’affidamento terapeutico in una comunità, dopo che la difesa aveva evidenziato “gravi pregiudizi” per lui a stare ancora in carcere perché aveva necessità di curarsi dalla tossicodipendenza e aveva subito violenze e maltrattamenti. Il 2 marzo, però, il provvedimento provvisorio di affidamento è stato sospeso, perché “nella sua stanza hanno trovato un cellulare e sigarette” e il 26enne era tornato in carcere. “Qui il tema è che lui è stato rimesso in carcere malgrado fosse già stato certificato che c’erano dei gravi pregiudizi - ha aggiunto Pisani - e anche che è stato rimesso di nuovo in carcere a Pavia, dove aveva denunciato di aver subito abusi e sappiamo come funziona la vita nelle carceri”. Lui, ha aggiunto l’avvocato, “piangeva in carcere, era terrorizzato”. Attendeva l’udienza fissata per il 19 marzo, quando la Sorveglianza di Milano avrebbe dovuto decidere se confermare l’affidamento terapeutico o revocarlo, dopo la sospensione. Gli restavano “meno di 2 anni da scontare” e sulla sua denuncia “per gli abusi subiti c’era stata richiesta di archiviazione perché, secondo la Procura, non aveva subito riferito l’accaduto all’operatore presente”. Il trapper era stato arrestato nel mese di agosto del 2022 insieme a un altro trapper con l’accusa di avere rapinato un nigeriano di 42 anni alla stazione ferroviaria di Carnate. Urlandogli “ti vogliamo ammazzare perché sei nero” e minacciandolo con due coltelli, Jeffrey Baby e il complice avevano rapinato il 42enne dello zaino e della bicicletta. Poi avevano lanciato lo zaino sui binari del treno e tagliato con i coltelli le ruote della bicicletta, filmando il gesto con i cellulari. Infine avevano preso un treno in direzione Milano. Dopo un periodo di detenzione a Monza, il trapper era stato trasferito a Pavia per aver ricevuto minacce. Verona. Bigon: “Troppi suicidi in carcere, incrementare personale sanitario e attività lavorative” veronasera.it, 14 marzo 2024 “Montorio è in stato di fortissimo stress per l’elevato numero di detenuti, ben 552 a fronte di solo 335 posti disponibili, con un preoccupante sovraffollamento del 165%”, spiega l’esponente dem, che ha annunciato una mozione sul tema. “Ho avuto modo di visitare nuovamente il carcere di Montorio, al centro delle recenti e drammatiche cronache legate ai cinque suicidi che si sono verificati nella casa circondariale tra il novembre e il febbraio scorsi. Nel confronto con la direttrice, il responsabile della medicina e lo psichiatra, è emerso un quadro rispetto al quale è necessario che il Consiglio regionale assuma una posizione unanime per spingere Regione e Governo ad assumere le doverose misure per scongiurare una scia di morte e sofferenze dei detenuti che sono inaccettabili per un Paese civile”. Così la consigliera regionale del Partito Democratico veneto, Anna Maria Bigon, annuncia la presentazione di una mozione sulla situazione in cui versa il carcere veronese. “Montorio è in stato di fortissimo stress per l’elevato numero di detenuti, ben 552 a fronte di solo 335 posti disponibili, con un preoccupante sovraffollamento del 165%. Contemporaneamente, a fronte di questi numeri, si assiste ad una carenza del personale sanitario e, come rilevato anche dal portavoce nazionale della Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, di figure di ascolto e mediazione. Ho presentato al proposito una richiesta di accesso agli atti per un raffronto tra pianta organica prevista ed effettiva presenza numerica degli operatori”. Nel testo della mozione Bigon ricorda inoltre che “il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Verona lamenta che nell’istituto penitenziario veronese l’attività lavorativa e formativa risulta essere carente e svolta da un numero esiguo di detenuti”. Secondo l’esponente dem “questa carenza impatta in maniera determinante sulla vita quotidiana dei carcerati i quali, in assenza di attività lavorative, trascorrono la propria reclusione in uno stato di alienazione”. La mozione quindi fissa una serie di impegni per la Giunta regionale: “Promuovere la digitalizzazione del sistema informatico sanitario, al fine di diminuire il carico di lavoro burocratico e garantire l’accesso aggiornato alle situazioni cliniche dei detenuti in tempi ridotti; incrementare il personale sanitario, in particolare il numero di psichiatri, psicologi, infermieri e medici; individuare le soluzioni per garantire un incremento della possibilità di accesso all’attività lavorativa da parte dei detenuti”. Santa Maria Capua Vetere. Torture, no a incriminazione dei detenuti che non hanno denunciato agenti casertanews.it, 14 marzo 2024 Per i giudici si rifiutarono di testimoniare per paura. Respinta la richiesta da parte delle difese di incriminare per favoreggiamento i detenuti picchiati dagli agenti ma che si rifiutarono di testimoniare. Lo ha deciso la corte d’assise di Santa Maria Capua Vetere, presieduta dal giudice Roberto Donatiello, nel processo a carico di 105 persone accusate, a vario titolo, del pestaggio avvenuto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile 2020. La corte ha evidenziato che nei tre testimoni non vi fosse alcuna volontà di favorire i responsabili dei pestaggi ma solo timore per le conseguenze derivanti dalle loro dichiarazioni. I tre detenuti furono sentiti dopo i fatti dagli agenti del Nucleo Investigativo Centrale (Nic) della Penitenziaria, e dopo aver ammesso di essere stati picchiati il 6 aprile, affermarono di non voler più continuare a dare dichiarazioni, e di volersi consultare con i propri avvocati. Quindi si è proceduto con le loro testimonianze. “Alcuni detenuti hanno denunciato di avere ricevuto più colpi di quelli che avevano effettivamente avuti e hanno indicato come colpevoli più agenti di quelli che li avevano realmente pestati”, ha detto uno di loro. Anche sulla modalità della protesta del giorno precedente ha stigmatizzato l’atteggiamento degli altri detenuti: “Minacciavano e offendevano, ed erano aggressivi verso di noi, verso gli agenti e la commissaria Costanzo che intervenne per portare la calma”. Nel corso dell’udienza l’imputato Gaetano Manganelli, all’epoca dei fatti comandante della Penitenziaria a Santa Maria Capua Vetere, ha reso dichiarazioni spontanee per confutare l’accusa formulata dal testimone parte civile Massimo Flosco (uno dei 15 portati in isolamento dopo il 6 aprile) secondo cui, la sera del 5 aprile, durante le proteste in cui i reclusi si barricarono in reparto, non fu data l’insulina al detenuto Tommaso Izzo. “Non è vero - ha raccontato Manganelli - che non gli abbiamo dato l’insulina. Un mio agente, su mia sollecitazione, gli ha passato la puntura attraverso le sbarre, pur non potendolo fare a termini di regolamento”. Manganelli ha poi mostrato un video in cui si vede il passaggio della puntura con l’insulina. Treviso. Carcere minorile, le critiche dei 5 Stelle: “Sovraffollato e con carenze d’organico” trevisotody.it, 14 marzo 2024 Erika Baldin, capogruppo del Movimento in consiglio regionale oggi 13 marzo si è recata in visita all’Istituto Penitenziario Minorile e al Centro di Prima Accoglienza di Treviso. “Ci sono state delle segnalazioni relative ad alcune parti della struttura che non sarebbero a norma. Problematiche, queste, alle quali va trovata rapidamente una soluzione: è un appello che lancio al ministro Nordio, che è un trevigiano”. “Il ministro della Giustizia Carlo Nordio venga a vedere gli effetti del decreto Caivano qui, nel carcere minorile della sua Treviso. Parliamo di 19 giovani contenuti in una struttura che sarebbe autorizzata ad ospitarne al massimo dodici”. Così Erika Baldin, capogruppo del MoVimento 5 Stelle in Consiglio regionale, che oggi si è recata in visita all’Istituto Penitenziario Minorile (IPM) e al Centro di Prima Accoglienza (CPA) di Treviso, secondo quanto previsto dall’articolo 67 dell’ordinamento penitenziario. Il minorile di Treviso è uno dei quattro IPM a livello nazionale e accoglie i minori delle tre regioni del Nordest. “La visita di oggi rientra tra le prerogative dei consiglieri regionali, oltre che dei parlamentari”, spiega Baldin, “e si inserisce nell’ambito di una serie di visite che sto effettuando negli istituti penitenziari del Veneto a partire dal luglio scorso, quando mi sono recata al carcere di Santa Maria Maggiore a Venezia, e che proseguirà con una visita al carcere femminile di Venezia”. “Oggi durante la visita ho incontrato anche il Garante dei detenuti del Comune di Treviso, Lorenzo Gazzola. Ringrazio il direttore dell’IPM di Treviso Girolamo Monaco, che mi ha accompagnato nella visita assieme al personale di polizia penitenziaria. In loro mi hanno colpito la passione e la cura con cui svolgono l’importantissimo servizio a cui sono chiamati, la funzione rieducativa che in un carcere minorile assume evidentemente un’ulteriore rilevanza”, sottolinea Baldin. “Questi agenti si trovano ad operare in un contesto di gravi carenze d’organico: nell’IPM di Treviso sono presenti soltanto 28 unità a fronte delle 36 previste sulla carta, una pianta organica che pure rischia di essere ridimensionata. Anche il personale amministrativo è ridotto all’osso, tanto che manca la ragioneria. Gli educatori, che al momento sono due, dovrebbero aumentare a sette nelle prossime settimane”. “Oltre al sovraffollamento, l’altro problema che salta subito agli occhi è la mancanza di spazi: sia per la scuola, tanto che le lezioni si devono alternare tra mattina e pomeriggio, che per le altre attività, comprese quelle ludico-ricreative. La chiusura temporanea del campo da calcio impedisce ai giovani detenuti di svolgere attività sportive all’aria aperta, che pure sarebbero importantissime dal punto di vista educativo e della salute. Ci sono state poi delle segnalazioni relative ad alcune parti della struttura che non sarebbero a norma. Problematiche, queste, alle quali va trovata rapidamente una soluzione: è un appello che lancio al ministro Nordio, trevigiano. Senza dimenticare che il carcere minorile di Treviso, che sconta la vicinanza agli adulti della casa circondariale e una struttura con caratteristiche ormai obsolete, dovrebbe essere chiuso quando sarà pronto il nuovo carcere minorile di Rovigo. Al ministro chiedo anche: quanti anni dovremo ancora aspettare per la nuova struttura?”, conclude Baldin. Sondrio. Detenuti ancora privi del Garante e altre criticità del carcere intornotirano.it, 14 marzo 2024 Il carcere di Sondrio continua ad affrontare gravi problemi strutturali e di gestione, mettendo a rischio i diritti dei detenuti e la sicurezza della comunità. Il Partito Radicale Transnazionale esprime profonda preoccupazione per la situazione attuale e sollecita azioni immediate da parte delle autorità competenti. Privazione del Garante: secondo il partito è stata constata l’ennesima privazione dei detenuti della possibilità di accedere all’assistenza del Garante. La dimissione della precedente Garante, dott.ssa Orit Liss, a causa delle restrizioni imposte dalla Direzione del Carcere, è un segnale allarmante delle criticità nella tutela dei diritti dei detenuti. Il Presidente del Consiglio Comunale di Sondrio è chiamato a intervenire immediatamente, avviando il processo di selezione per il nuovo Garante, come previsto dall’art. 4 del Regolamento Comunale. Situazione Carceraria: Nonostante alcuni miglioramenti minimi, il carcere di Sondrio rimane in una condizione precaria. Se da una parte si registra la nomina di un nuovo Direttore e una lieve riduzione del tasso di sovraffollamento, dall’altra persiste una grave carenza di personale, in particolare di un educatore, essenziale per il processo di riabilitazione dei detenuti. Attivazione del Consiglio di Aiuto Sociale: Di fronte a queste sfide, il Partito Radicale Transnazionale sottolinea l’importanza di attivare il “Consiglio di Aiuto Sociale”. Questo organismo, previsto dalla Riforma Penitenziaria del 1975 ma purtroppo poco diffuso, sarebbe un’importante risorsa per garantire un supporto adeguato alle esigenze dei detenuti, facilitare il loro reinserimento sociale e lavorativo e offrire assistenza alle vittime di reato. In conclusione, il Partito Radicale Transnazionale invita le istituzioni locali, la Magistratura e le associazioni civili a unire gli sforzi per affrontare con determinazione questi problemi, garantendo il rispetto dei diritti umani e la sicurezza pubblica. Napoli. Sabato davanti a Poggioreale un presidio contro il suicidio nelle carceri anteprima24.it, 14 marzo 2024 Il Centro di Pastorale Carceraria della Diocesi di Napoli, insieme con l’associazione Liberi di Volare onlus e con l’associazione Sbarre di Zucchero, ha organizzato il giorno sabato 16 marzo, a partire dalle ore 10.30, un presidio con corteo presso la Casa Circondariale di Napoli “Giuseppe Salvia” a Poggioreale, per dire basta ai suicidi in carcere; un fenomeno che non riguarda solamente i detenuti, bensì anche gli agenti penitenziari, a dimostrazione di una vita carceraria colma di frustrazione per i ristretti e per chiunque operi all’interno degli istituti penitenziari. Prenderanno parte all’iniziativa: padre Alex Zanotelli, Livio Ferrari del movimento No Prison, don Franco Esposito, direttore della Pastorale Carceraria; Samuele Ciambriello, garante dei detenuti per la Regione Campania; Monica Bizaj, presidente dell’associazione Sbarre di Zucchero; Valentina Ilardi, dell’associazione Liberi di Volare onlus. “Una manifestazione che vuole scuotere le coscienze perché il problema carcere, con la sua violenza e le sue morti, è un problema di tutti. Per i tanti “forse uccisi dalla disperazione, dalla paura o dalla violenza di qualcuno”, ma sicuramente lasciati morire dalla violenza di una istituzione “di potere”, che troppo spesso pensando alla pena da fare espiare dimentica l’umano da salvare”, ha dichiarato don Franco Esposito. L’appuntamento è a Piazza Cenni e, dopo breve corteo, verrà raggiunto l’ingresso principale del carcere di Poggioreale, per ribadire con determinazione che “NON C’E’ PIU’ TEMPO”: tanti, troppi, continuano ad essere i suicidi dietro le sbarre; un bisogno urgente di misure concrete ed immediatamente attuabili per ovviare al sovraffollamento, per trovare adeguate soluzioni per i detenuti affetti da disagio psichiatrico e/o tossicodipendenza, anche per “semplificare” il lavoro di tutti gli operatori penitenziari, vittime anche loro dell’assenza totale dello Stato, per riportare l’art. 27 della Costituzione al centro della detenzione in carcere. Una manifestazione per vincere il silenzio della politica ed andare oltre le mura dell’indifferenza. “Sul tema della giustizia mediatica, sulle intercettazioni, sulle sue barbarie, sulla custodia cautelare, sui suicidi in carcere, sul sovraffollamento, sull’aumento dei giorni di liberazione anticipata e gli errori giudiziari è calato da tempo un silenzio. Eppure, c’è un numero sproporzionato di persone private della loro libertà contro le regole del diritto. Quasi la metà delle custodie preventive sono indebite ed illegittime. Migliaia di persone devono scontare meno di due anni di carcere e non hanno misure alternative e i tempi della giustizia si allungano”, nella dichiarazione di Samuele Ciambriello, garante dei detenuti per la Campania. Nel pomeriggio dello stesso giorno, l’associazione Liberi di volare onlus, sita in Napoli alla via Buonomo n. 39, con inizio alle ore 16.30, ospiterà un convegno organizzato dalla rete nazionale Sbarre di Zucchero, sulle drammatiche condizioni delle carceri. Alla tavola rotonda, moderata da Andrea Aversa, giornalista de L’Unità, interverranno: don Franco Esposito, direttore della Pastorale Carceraria di Napoli, Ciro Corona, fondatore di (R)esistenza anticamorra, Samuele Ciambriello, garante dei detenuti per la regione Campania, don Tonino Palmese, garante dei detenuti di Napoli, Stefano Vecchio, presidente del Forum Droghe. Previste le testimonianze degli ospiti della casa di accoglienza della Pastorale Carceraria. Bergamo. Nelle colombe dei detenuti il lievito del riscatto ecodibergamo.it, 14 marzo 2024 Prodotte dal “Forno al fresco” di via Gleno, dove i carcerati lavorano per costruirsi una seconda possibilità. Nell’impasto, oltre alla qualità degli ingredienti, c’è il lievito del riscatto. In vista della Pasqua il forno del carcere di Bergamo - gestito dalla cooperativa sociale “Calimero” - sforna colombe in tre diverse varietà, grazie al lavoro quotidiano di otto detenuti. Un’occasione preziosa per apprendere un mestiere e costruirsi una seconda opportunità. Da alcuni mesi i prodotti di via Gleno hanno assunto il nuovo marchio “Forno al fresco”: “La parola Pasqua deriva dalla parola ebraica pesach, che significa “passare oltre” - spiega Mauro Magistrati, presidente di “Calimero” -, un significato calzante con lo spirito del progetto, che nel claim del marchio esplicita “sforniamo una seconda possibilità”. Non sono solo prodotti da forno, ma strumenti per ridare significato ai percorsi di vita delle persone e mezzi per raccontare le loro storie, renderle visibili e favorire i percorsi di reinserimento”. L’impegno etico è ad ampio raggio: tra le materie impiegate ci sono le farine di “Libera Terra”, ricavate da grano coltivato sui terreni confiscati alle mafie nel Sud. È stata allargata la rete di vendita: le colombe possono essere acquistate presso Libreria Terzo Mondo (Seriate), Dolci Sogni Liberi (Nembro), Cooperativa Aretè (Torre Boldone), Cooperativa Amandla (sedi di Bergamo, Calusco, Gazzaniga, Seriate), Cooperativa Altromercato (Clusone e Casazza), Mascobado (Presezzo), Bondequo (Villa d’Almè) e Bo.po. (Ponteranica). Milano. Al carcere di Bollate dialogo tra detenuti, vittime, studenti e… i fratelli Karamazov di Sara Tirrito Il Fatto Quotidiano, 14 marzo 2024 “I fratelli Karamazov”, uno dei romanzi più celebri di Fëdor Dostoevskij, usato per capire come si gestisce la libertà, cos’è il diritto a provare rancore, perché si commette un reato. Al carcere di Bollate, detenuti, familiari di vittime della criminalità organizzata, magistrati, studenti universitari di Psicologia e Giurisprudenza si sono confrontati sui conflitti della famiglia Karamazov. Lo hanno fatto seduti in cerchio per cinque mercoledì di fila tra febbraio e marzo nel teatro del penitenziario, in uno spazio ribattezzato Aula Dostoevskij. Poi, davanti al pubblico della società civile, hanno portato sul palco non una rappresentazione dell’opera, ma i risultati di una ricerca sulle motivazioni che spingono alla devianza. Il progetto è stato ideato dallo psicoterapeuta Angelo Juri Aparo e dal pubblico ministero Francesco Cajani, che da circa 20 anni collaborano per comprendere nei rispettivi ruoli le ragioni di chi delinque, oltre il processo penale. Alla base dell’iniziativa, da un lato il lavoro portato avanti dal Gruppo della trasgressione, cooperativa sociale fondata da Aparo, che dal 1997 aiuta i detenuti a riflettere sull’auto-percezione del reato. Dall’altro il comitato scientifico de Lo strappo - Quattro chiacchiere sul crimine, che ha realizzato un documentario omonimo per promuovere un approccio al delitto basato sul confronto tra le parti coinvolte: chi lo commette, chi lo subisce, chi lo racconta sui media, chi amministra la giustizia. Lo strumento principale di questo metodo è il dialogo, accompagnato da una progressiva riflessione su di sé. I fratelli Karamazov, con una selezione di brani guidata dal professore di Letteratura russa Fausto Malcovati, è stato l’ultimo dei romanzi usato come spunto. Prima, anche Delitto e Castigo, portato al carcere di massima sicurezza di Opera lo scorso gennaio. “Tutti ci siamo sentiti in credito con la società per qualcosa che non ci vedevamo riconosciuto”, dice Giuseppe, uno dei detenuti che ha partecipato agli incontri di Bollate. “In Alëša mi sono rivisto per la fede, al pari di Smerdjakov ho ucciso, come Dimitrij ero un ribelle, in modo simile a Ivan ho creduto e mi sono allontanato”, spiega Salvatore. “Non ho mai riconosciuto mio padre come guida, sono cresciuto in un quartiere degradato e la piccola criminalità è sfociata in gesti più gravi. Il reato per me veniva prima della paura di perdere la libertà”, racconta Fabio. “Dai 14 ai 44 anni ho seguito la strada del rancore. Solo quando sono finito in carcere sono riuscito ad avere un confronto lucido con i miei errori, con il dolore che ho provocato agli altri, con la libertà”, dice Stefano. Ad alimentare le coscienze nel corso degli incontri su Dostoevskij, due familiari di vittime della criminalità organizzata: Marisa Fiorani - madre di Marcella Di Levrano, massacrata a 26 anni a colpi di pietra in un bosco da sicari della Sacra corona unita perché testimone di giustizia - e Paolo Setti Carraro, fratello di Emanuela Setti Carraro, assassinata il 3 settembre 1982 in un agguato di Cosa nostra al marito, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. “La mia libertà è stata quella di non farmi distruggere dal dolore per la morte di mia figlia - ha detto Fiorani - Per molto tempo ho cercato solo la verità sulla sua morte. Quando l’ho trovata, ho visto che anche dall’altra parte c’era dolore, che in ognuno di noi c’è uno dei 4 fratelli Karamazov. Per questo entro nelle carceri”. La presenza di Marisa Fiorani e Paolo Setti Carraro nell’Aula Dostoevskij è il filo rosso che restituisce il senso di tutti gli incontri. “Quando ti rendi conto che il passato ti impedisce di essere lieve, vuol dire che è il momento di cambiare. È a quel punto che ho deciso di rinunciare al rancore per la morte di mia sorella”, spiega Setti Carraro. Tante le persone intervenute sul palco, anche fra i rappresentanti delle istituzioni. Tra queste Elisabetta Canevini, presidente della V sezione penale del tribunale di Milano, che ha ricordato l’importanza dei ruoli nel processo. “Non si può passare alla consapevolezza del reato se prima non si dà un nome alle cose, e questo è il compito del Tribunale”, ha detto. Accanto a lei, la pm Alessia Menegazzo, che rappresenta l’accusa nel processo Impagnatiello, e che ha ricordato come anche il dolore degli imputati entra nei fascicoli di indagine: “In molti delitti commessi in ambito familiare la scena del crimine parla di rabbia soffocata: ci troviamo a contare 30 coltellate quando per uccidere una persona basta meno”. Ad assorbire i frutti di questa ricerca, sono soprattutto gli studenti. Sono intervenuti a turno e hanno parlato di coscienza, rieducazione della pena, libertà. Tutti hanno detto di aver capito una cosa nell’Aula Dostoevskij: nel processo penale si accerta la responsabilità personale di chi ha commesso un reato, ma in altre sedi va stabilita la responsabilità collettiva di quello stesso crimine. Terni. “Una zampa tesa”, progetto di reinserimento sociale e formazione professionale La Repubblica, 14 marzo 2024 Un programma di impiego formativo per tecnici veterinari, presso la clinica per animali che si trova proprio accanto alla struttura detentiva. AniCura, Clinica Veterinaria Tyrus di Terni, ha avviato il progetto “Una Zampa Tesa” che promuove il reinserimento sociale e la formazione professionale per i detenuti presso la Casa Circondariale di Terni. Il progetto è stato concepito per offrire opportunità di riabilitazione e formazione a tre persone attualmente in carcere a Terni, inserite in un programma di impiego formativo per tecnici veterinari, presso la clinica per animai che si trova proprio accanto alla struttura detentiva. Lo sviluppo dell’empatia per il reingresso sociale. Sotto la guida di esperti, i partecipanti al progetto avranno l’opportunità di apprendere le competenze necessarie per qualificarsi in questa professione. Con questa esperienza, non solo acquisiranno conoscenze nel campo della medicina veterinaria, ma potranno anche sviluppare abilità relazionali e di lavoro di squadra, fondamentali per il loro reinserimento futuro. “Una Zampa Tesa” rappresenta non solo un’opportunità di apprendimento professionale, ma anche un importante passo verso il reingresso sociale e la riabilitazione dei partecipanti. Il contatto e la cura con gli animali domestici offronto un’esperienza di responsabilità, sviluppano empatia e compassione, qualità essenziali per un’integrazione positiva nella società. Cos’è AniCura. AniCura è un gruppo di ospedali e cliniche veterinarie leader in Europa per la fornitura di cure di alta qualità per gli animali da compagnia. Nata nel 2011 nei Paesi Scandinavi da una fusione di ospedali veterinari per piccoli animali, cura ogni anno milioni di animali da compagnia, è presente oggi in 15 Paesi europei con quasi 500 cliniche e 11.000 collaboratori. AniCura è presente in Italia dal 2018 e vanta un network di 35 strutture e un Team di circa 1.400 collaboratori di cui più di 1000 veterinari che comprendono oltre 40 diplomati al college Europeo. AniCura. Modena. Due Carabinieri prendono a calci e pugni un uomo che si oppone all’arresto di Filippo Fiorini La Stampa, 14 marzo 2024 Un cittadino ha ripreso la scena e ha consegnato le immagini a un social network. I due militari già destinati ad altri servizi. In pieno centro a Modena, davanti all’indifferenza dei passanti che proseguono a piedi o in bicicletta, due carabinieri hanno dato pugni al volto, sulla schiena e diversi spintoni per costringere a entrare nella gazzella un sospettato che resisteva all’arresto. È accaduto martedì, lo documenta un video diffuso su Welcome To Favelas, attribuito a un privato cittadino che lo ha consegnato spontaneamente al social network. Tutto sarebbe iniziato in un giardino pubblico, a pochi passi dal teatro Storchi, il principale luogo di spettacoli in città. Due carabinieri della tenenza locale stanno procedendo al fermo di un uomo senza documenti che ha opposto resistenza per evitare di essere portato in caserma. Il più alto dei due militari in divisa lo trattiene per il braccio destro mentre il collega lo afferra per quello sinistro. Poi colpisce il sospettato una prima volta con forza, sferrandogli un pugno al volto. Seguono diversi altri pugni ai reni, e poi di nuovo in faccia. L’uomo si dimena. Parla, sembra rivolgersi a qualcuno nei dintorni, chiedendo forse aiuto. I carabinieri lo spingono per farlo sedere sul retro della gazzella, ma lui afferra uno dei militari per il bavero, e questi - lo stesso che lo ha picchiato in precedenza - riprende a colpirlo nuovamente alla testa e sulla schiena. Nelle immagini sono ritratte diverse persone che passano, senza apparentemente rendersi conto di quanto sta accadendo. I carabinieri a questo punto volgono lo sguardo verso chi sta riprendendo la scena con un cellulare: è possibile che si siano accorti di essere filmati. Al momento, non c’è notizia di un fascicolo d’indagine sull’episodio, che probabilmente però sarà aperto nelle prossime ore. In serata, il comando provinciale dell’Arma di Modena ha comunicato che i due carabinieri “sono stati temporaneamente reimpiegati in altri incarichi”. L’uomo fermato, sottolinea sempre il comando, “si è rifiutato di fornire le generalità e di esibire alcun documento, costringendo gli operanti ad accompagnarlo in caserma per le operazioni di fotosegnalamento e il conseguente arresto per resistenza a pubblico ufficiale e danneggiamento”. Nel corso dell’intervento, prosegue il comando provinciale dell’Arma, “l’uomo ha colpito ripetutamente l’autovettura di servizio”. A seguito del rito direttissimo, con convalida dell’arresto, l’uomo fermato è stato rimesso in libertà in attesa della successiva udienza. Il video fatto dal cittadino “è stato acquisito dai carabinieri di Modena e trasmesso alla Procura della Repubblica per le valutazioni di competenza”, conclude l’Arma modenese. La ricostruzione della pena tra teatro e dibattito di Ivo Silvestro La Regione, 14 marzo 2024 Che cosa significa vivere in carcere? Qual è la quotidianità di una persona in quello che, nell’asettico linguaggio del diritto, viene definita “esecuzione della pena”? E, soprattutto, perché è importante conoscere questi vissuti per chi quella detenzione la vede soltanto come numero di anni o mesi indicati negli articoli di cronaca giudiziaria? L’Istituto di diritto dell’Università della Svizzera italiana ha deciso di affrontare queste domande con un incontro che unisce la forza comunicativa del teatro e l’approfondimento con un’esperta. Domani, venerdì 15 marzo, alle 18 nell’Aula magna dell’Usi a Lugano, avremo prima lo spettacolo ‘House we left’ della compagnia di Reggio Emilia MaMiMò, seguito da un dibattito con Antonia Menghini, professoressa di diritto penale all’Università di Trento nonché Garante dei diritti dei detenuti della Provincia di Trento. L’incontro, gratuito, è organizzato in collaborazione con rjustice.ch e lo Swiss RJ Forum; informazioni e registrazione: www.usi.ch/it/feeds/27466. Scritto e diretto da Alessandro Sesti e interpretato da Cecilia Di Donato accompagnata in scena dai musicisti Andrea Tocci, Debora Contini e Filippo Ciccioli, ‘House we left’ racconta la detenzione partendo dai vissuti delle persone condannate o, cosa molto frequente in diversi Paesi, in attesa di giudizio. Al centro del racconto c’è una mancanza: chi vive in carcere non ha più una casa, non ha più un luogo protetto, uno spazio in cui essere sé stessi. ‘House we left’, partendo dalle esperienze di Cecilia Di Donato che è anche insegnante di teatro nel carcere di Reggio Emilia, si sofferma in particolare sulle storie di donne e di persone transgender, per le quali la dimensione del mancato riconoscimento della propria identità è particolarmente sentito. “Ho voluto portare questo spettacolo perché racconta con forza quello che si perde lasciando la propria casa per il carcere, quei piccoli gesti quotidiani che si danno per scontati e dei quali è difficile comprendere il valore finché non li perdiamo” ha spiegato Annamaria Astrologo, direttrice dell’Istituto di diritto dell’Usi e organizzatrice dell’evento. Non è solo una questione di condizioni di detenzione degradanti o contrarie ai diritti umani: la pena detentiva, ha sottolineato Astrologo, non può limitarsi a togliere, ma deve anche dare qualcosa alle persone condannate. Perché se si limita a togliere, il carcere diventa un momento di imbruttimento, quando invece potrebbe e dovrebbe essere occasione di crescita. Si parla di reinserimento e di risocializzazione, ma sono aspetti che spesso restano sulla carta e questo è un problema che va al di là delle condizioni carcerarie e che riguarda anche la Svizzera, indietro rispetto ad altri Paesi. L’idea di un carcere che aiuti le persone a crescere può suscitare qualche perplessità, dal momento che si parla di persone che hanno commesso dei reati e che quindi “si meritano” la punizione. “Ma il reinserimento delle persone che hanno scontato una pena è nell’interesse di tutta la società” ha risposto Astrologo. Diversi studi mostrano che il rischio di recidiva è più alto nei sistemi penali che non investono nella funzione rieducativa: “Se la detenzione si limita a togliere, è molto probabile che una volta uscite dal carcere queste persone commetteranno nuovamente dei reati”. Spesso, ha proseguito Astrologo, chi commette dei reati lo fa per mancanza di strumenti ad esempio su come gestire situazioni di conflitto. Per prevenire tutto questo la società dovrebbe innanzitutto cercare di fornire questi strumenti. Il titolo dell’incontro di domani contiene una domanda molto forte: “È possibile ‘riparare’ la giustizia penale?”. “Il diritto penale è in crisi da molti punti di vista: questo appuntamento riguarda l’esecuzione della pena, ma i problemi sono tanti e riguardano anche le vittime e il riconoscimento della loro identità e dignità durante il procedimento penale” ha concluso Astrologo. Il “Cuore nero” di Silvia Avallone. “Il male non passa, ma non dovremmo sprecare il dolore” di Mattia Insolia Il Domani, 14 marzo 2024 Una delle scrittrici più lette di questo inizio anno racconta il mondo di Sassaia, dove ha ambientato il suo romanzo “Cuore nero”. Per parlare del male che si fa e che si riceve, della nostra relazione con i traumi, della difficoltà di costruire il bene. “Dobbiamo salvarci dalla solitudine”. Sassaia è un borgo piccolo, incastrato tra boschi e montagne, non ci vive quasi nessuno e quando Emilia ci s’insedia Bruno, assistendo all’arrivo di questa estranea misteriosa e bella, è sorpreso, e da lei si sente subito attratto. Quando le loro vite s’incrociano, non è solo l’incontro tra due corpi, ma tra solitudini spaventate, esistenze difficili e rabbuiate da colpe profonde, mai scandagliate da altri. Hanno entrambi conosciuto il male, quello commesso e quello subito, e sono certi che la fuga sia la sola via possibile, per la loro. S’innamorano, però, e cambia tutto. Silvia Avallone, Sassaia è impermeabile al Tempo. Perché ha scelto un luogo del genere per ambientare Cuore Nero? Volevo raccontare un posto in cui fosse possibile ricominciare - ricominciare a respirare, a vivere. Emilia e Bruno hanno trascorsi difficili e un nuovo inizio ho pensato potesse passare solo da un luogo così. Come l’ha scoperto, Sassaia? Per caso. Dopo la pandemia ho preso a girare per le valli in cui sono cresciuta, desideravo il contatto con la natura, e sono capitata in questo borgo - e ci sono arrivata con una mulattiera, come nel romanzo. Emilia e Bruno s’innamorano subito l’uno dell’altra, qualcosa li attrae e si ha la sensazione siano pure le rispettive sofferenze. Il nostro dolore può fiutare quello degli altri? Sì, ne sono convinta. La loro condizione, però, è molto specifica. A trent’anni vivono in un paesino perso tra i boschi perciò lo sentono subito, che la persona che hanno di fronte ha traversato dei grandi tormenti. Intuiscono che se l’altro si trova lì è perché è abitato da un irreparabile. Sboccia l’amore, sboccia la vita... Finché sei al mondo, la vita ti chiama - ti chiamerà sempre. Ha parlato di irreparabile... È una parte di loro - è una parte di ciascuno di noi. Cosa possiamo fare con le parti insanabili di noi stessi? Questa è la domanda: la domanda che si pongono Emilia e Bruno, la domanda alla base del romanzo. È riuscita a trovare una risposta? Non ho delle risposte, ho solo delle ipotesi. Siamo sfaccettati, e abitati da così tante cose: non credo ci sia spazio nel mondo per distinzioni così nette. Prenda Emilia: è la ragazza di cui s’innamora Bruno ed è quella che ha commesso un atto orribile: è, al tempo stesso, momenti diversi della sua esistenza. Dunque quale possibilità per le nostre parti irreparabili? Possiamo solo costruirci attorno quanto più bene possiamo. Il male non passa, resta nella nostra vita e in quella degli altri ma possiamo edificare, tutt’attorno a quel male, un nuovo bene. Viene fuori che nessuno si salva da solo... Abbiamo sempre bisogno dell’amore di chi abbiamo accanto. Avallone, lei da chi è stata salvata? Anzitutto, dai miei genitori. Da bambina mi dicevano sempre che il mondo è un bel posto, un luogo in cui i sogni possono essere azzardati, a volte realizzati e che avrei dovuto fare ciò che mi accende, che mi fa star bene. Poi le amiche, per me fondamentali - sono la mia piccola comunità. Mio marito, le mie figlie. Alcune insegnanti. E i libri. Da cosa crede che dobbiamo salvarci l’un l’altro? Dalla solitudine. La solitudine ci fa perdere fiducia nel mondo. Torniamo a Cuore nero: un altro pilastro del romanzo è che non siamo i nostri traumi. Cosa sono, allora, i nostri traumi rispetto a noi stessi? Per risponderle, credo sia necessario operare una distinzione tra il male subito e quello commesso. Iniziamo dal più facile. I traumi che le hanno inflitto sono quelli che scatenano in Emilia la rabbia che la porta a fare ciò che ha fatto da adolescente, che la avvelenano. È inevitabile, nel corso della vita, perdere una persona che amiamo, venir delusi, derubati, traditi. Ognuna di queste ferite è una crepa, la possibilità di un cambiamento, e può diventare la condizione per migliorare, crescere, diventare persone più consapevoli. Il dolore purtroppo è necessario: è conoscenza, attraversamento e un’occasione che non dovremmo sprecare, che anzi dovremmo usare. Sprecarlo coincide con il lasciarsi andare alla rabbia che segue la sofferenza, utilizzarlo è fortificarsi, imparare qualcosa in più di noi stessi e del mondo. I momenti più dolorosi per lei sono stati insegnanti? Sì, assolutamente. Sono stati necessari al mio percorso. Senza, oggi, non sarei la madre, la moglie, l’amica, la scrittrice che sono - e che fortuna, mi dico ora, aver attraversato quelle sofferenze. Stava facendo la distinzione tra il dolore subito e quello commesso. Ecco, dunque: che farci con il male che abbiamo operato in passato? Ritornerei a quel che le ho detto prima: possiamo solo costruirci del bene tutto attorno. Il bene è più faticoso del male, è meno banale. E ostinarsi nel bene è, a mio avviso, qualcosa di gigantesco. A Emilia e Bruno è stata sottratta l’adolescenza, ciascuno per un motivo, e parrebbe cerchino di recuperarla anche traverso il loro amore - e tant’è che s’innamorano subito, proprio come due adolescenti, una notte vanno a ballare in discoteca, due trentenni circondati da ragazzini. Tra loro c’è, difatti, un trasporto che sembra adolescenziale. Le chiedo però: possiamo recuperare ciò che ci è stato tolto o dobbiamo seguire l’ordine del tempo? Questo romanzo ha sempre un resto: per ogni domanda che pongo, e risposta che trovo, viene fuori qualcosa di nuovo. No, l’adolescenza non possiamo più recuperarla, una volta persa, ma possiamo sempre trovare quello slancio vitale che credevamo non esistesse più. Lei ha sempre raccontato dell’adolescenza... Sì, credo questa sia l’ultima, quella che mancava: l’adolescenza in negativo. Un altro ritorno in questo libro è il tema della dualità: non soltanto ne ha parlato spesso - da Acciaio a Un’amicizia - ma, guardando alla letteratura contemporanea, pare ricorrere spesso - Ammaniti con Io e te e Io non ho paura, Giordano con La solitudine dei numeri primi... Non a caso i libri che ha citato hanno per protagonisti dei ragazzi. Sono storie di formazione e la contraddizione è il motore di ogni crescita: amori, alleanze, amicizie: in questi libri sono i rispecchiamenti da cui si trae la forza necessaria al cambiamento - e il cambiamento è alla base della crescita. A proposito di dualità, ma tirandoci fuori da Cuore nero: lo scorso agosto è nata Ingrid, e oggi Nilde ha una sorellina - ha due figlie... L’ho molto desiderato questo due. Sono figlia unica e da bambina una sorella, un fratello l’avrei tanto voluto; per questo nei miei libri la protagonista ce l’ha sempre. Mi è mancata, crescendo, una figura del genere. Ritornando a ciò che dicevo prima sulla contraddizione e il rispecchiamento: sorelle e fratelli sono, di fatto, i primi, le prime con cui accade. Scrivere un romanzo con tanto buio dentro in un momento così vitale? Pesante, non lo nego. Da una parte avevo a che fare con una storia complicata, difficile da digerire, e, dall’altra sentivo un’apertura alla vita gigantesca e una felicità proprio grande. Un momento in particolare? Sono andata con Nilde, la mia primogenita, mio marito e suo fratello, quando ero già incinta di Ingrid, al cimitero di Ravenna, dove nel romanzo capita una cosa importante e volevo vederlo prima di scrivere. Ecco, eravamo lì, assieme e in una bella giornata, gli uccellini cantavano, il sole era alto, il cielo azzurro, limpido. E mi sono ritrovata a pensare di essere in un luogo triste, un luogo fatto di dolore, di ferite che non si rimarginano, però con tanta vita dentro di me. Scrivere Cuore nero, per certi versi, è stato così. I suoi protagonisti sono entrambi orfani di madre... La madre è ingombrante. Si sente ingombrante? Vorrei non esserlo, cerco di non esserlo. Desidero solo dar loro la fiducia nella vita che ho ricevuto io, dar loro l’idea che il mondo è un bel posto, che devono coltivare le passioni, essere curiose, cogliere le possibilità, non identificarsi con i loro errori. Avallone, questa domanda la faccio a tutti: immagini di avere ottant’anni e che sia domenica mattina: dov’è, con chi è, cosa fa? Nella valle Cervo, in una vecchia casa in mezzo ai boschi. Sto aspettando che arrivino le mie figlie, pranzeremo qui tutti assieme. Giovanni, mio marito, sta cucinando, mentre io scelgo il libro che leggerò oggi alle mie nipoti. L’irreparabile? Circondato dalla mia famiglia, le mie figlie e le nipoti: è il bene tutt’attorno. Persone senza dimora. A Roma 300 accampamenti abusivi: 9mila vivono per strada di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 14 marzo 2024 Dal censimento del 2018 della polizia municipale c’è stato un aumento di circa 100 insediamenti di senza tetto. A Castro Pretorio sono ricomparse le tende dopo gli sgomberi. Il caso del sottopasso a ponte Duca d’Aosta. Da una parte un cumulo di indumenti abbandonati su una panchina che ormai non si vede più. Sommersa da maglioni, tute, giacconi che qualcuno ha ammucchiato nel piccolo parco in viale Pretoriano, proprio davanti alla nuova pista ciclabile e alle auto parcheggiate accanto. L’inizio della tendopoli ricostruita nell’arco di qualche notte da una quarantina di senzatetto che passano le giornate sulle altre panchine in attesa di potersi recare alla mensa Caritas poco distante. Alla fine, nonostante gli sgomberi iniziati nel 2022 e ripetuti lo scorso anno, l’accampamento al riparo delle Mura Aureliane di San Lorenzo è tornato al suo posto: una ventina di tende colorate sono state montate sul prato, qualcuno si è anche costruito una sorta di letto di cartone coperto che si preoccupa di imballare ogni mattina con il nastro da pacchi per proteggerlo dalla pioggia. Incendi e disperazione - Quello di viale Pretoriano è solo uno dei circa 300 micro insediamenti sparsi in diversi quartieri. Alcuni sorti nei mesi scorsi, molti altri rimasti al loro posto. Alcuni anzi si sono anche ingranditi, aumentando il numero di “inquilini”: è il caso di quello che ormai si trova da anni sotto ponte Duca d’Aosta, di fronte allo stadio Olimpico. Nemmeno l’incendio forse doloso di un anno fa, che aveva distrutto letti e suppellettili, all’interno di quelle che erano diventate vere e proprie stanze, isolate dalle altre con una sorta di separé posticci, ha spinto gli occupanti ad allontanarsi e a cambiare zona. E così anche le scalinate che portano alla banchina del Tevere - e a uno spiazzo erboso - sono diventate parte integrante dell’accampamento al coperto, dove sulle pareti dello storico ponte e anche sul marciapiede sono evidenti le tracce nere di bruciato lasciate dai focolai accesi per riscaldarsi ma anche per cucinare. La Sala operativa sociale e i numeri in evoluzione - La situazione non sembra essere molto cambiata dal 2018, quando un censimento dei vigili urbani rivelò la presenza a Roma di 218 bidonville grandi e piccole, molte composte da poche tende e qualche baracca, fra le quali c’erano tuttavia 28 situazioni di degrado preoccupante. A distanza di sei anni e nonostante le operazioni di bonifica si siano susseguite anche con regolarità, ci sono zone della Capitale, compreso il Centro, dove i disperati - circa 9 mila - continuano ad accamparsi. In media, secondo i vigili urbani, ogni mese si oscilla fra i 200 e i 300 accampamenti, monitorati dalle pattuglie, molti dei quali resistono appena qualche giorno. Dopo ogni intervento della municipale, coloro che rifiutano l’assistenza della Sala operativa sociale si spostano altrove. E per questo motivo il numero cambia di continuo. Sulle banchine del Tevere - Anche vicino a San Pietro. Sotto ponte Vittorio Emanuele sono aumentati gli igloo di tela montati sotto le arcate e anche sulla banchina. Proprio nei giorni scorsi una tenda è stata trascinata via dalla corrente sul Tevere in un momento di piena. Non si tratta soltanto di punkabbestia, come accadeva fino a qualche anno fa, ma di senzatetto che non hanno altra scelta se non quella di accamparsi sulle sponde del fiume. La conferma di una situazione di disperazione e degrado che l’inverno mite ha solo in parte nascosto ma che adesso, con l’aumento delle temperature, si potrebbe manifestare più degli anni passati in tutta la sua drammaticità. A confermarlo ci sono altri tipi di insediamenti di piccole dimensioni lungo le consolari e la Tangenziale est, nei sottopassi, come a Porta Maggiore, ma anche vicino ai binari della ferrovia. Migranti. Cpr, ricorso alla Cedu dopo tentato suicidio: liberato un 24enne di Giansandro Merli Il Manifesto, 14 marzo 2024 Il ragazzo era a Ponte Galeria dallo scorso novembre. È stato rilasciato prima della decisione dei giudici di Strasburgo. A Milano “situazione fuori controllo”: 30 atti di autolesionismo in una settimana. Le associazioni: è colpa del governo che ha alzato il tetto massimo di detenzione a 18 mesi. Le porte del Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Ponte Galeria si sono aperte all’improvviso martedì a pranzo. Così Mohamed Elbriky ha potuto varcare la soglia dell’incubo in cui era precipitato il 7 novembre 2023 e ritornare in libertà. Durante i quattro mesi di trattenimento è stato trasferito tre volte in pronto soccorso di ospedali esterni alla struttura detentiva per “gesti anticonservativi”. Tradotto: autolesionismo o, per ultimo, tentato suicidio. Solo tra fine febbraio e inizio marzo sarebbero stati ben sei i trattenuti che hanno provato a uccidersi. In due sono stati ricoverati d’urgenza il 4 marzo, tra questi Elbriky. Il ragazzo ha 24 anni, è nato in Marocco e soffre di tossicodipendenza e disturbi psichiatrici. Domenica aveva incontrato il suo legale, l’avvocato Gennaro Santoro, che il giorno seguente ha presentato un ricorso d’urgenza alla Corte europea dei diritti umani (Cedu) per chiederne l’immediato rilascio. Martedì i giudici di Strasburgo avevano comunicato il numero di riferimento del caso e sospeso il giudizio sulla misura provvisoria in attesa che il governo italiano fornisse informazioni precise su tre punti. Primo: il quadro dettagliato delle condizioni psichiatriche del cittadino marocchino e tutti i documenti relativi (dai certificati sanitari al registro degli eventi critici). Secondo: le condizioni igieniche e di sicurezza che la persona affronta nel Cpr. Terzo: i servizi medici, di tipo specialistico o generale, disponibili in caso di emergenza. Non sono domande qualsiasi. Lo si capisce leggendo il ricorso presentato da Santoro. Sul primo punto, ad esempio, denuncia che il ragazzo non è stato sottoposto a una nuova valutazione dell’idoneità alla vita in comunità ristretta dopo il tentato suicidio. Significativa la richiesta del “registro degli eventi critici”: il regolamento sui Cpr di maggio 2022 dispone che l’ente gestore tenga traccia in maniera tempestiva e regolare di tutti i fatti che turbano la vita nella struttura, eppure dall’ispezione realizzata dal Garante nazionale lo scorso dicembre questa documentazione risultava carente. Le condizioni dei migranti rinchiusi a Ponte Galeria si sono ulteriormente deteriorate dopo la rivolta del 4 febbraio scorso seguita al suicidio di Ousmane Sylla. Nel ricorso si parla di docce non utilizzabili, carenza di biancheria pulita e coperte, acqua spesso sporca e comunque disponibile solo a intermittenza. C’è poi una testimonianza agghiacciante raccolta dalla difesa. “Sono stato in quel Cpr per circa tre mesi. È la peggiore struttura che abbia mai visto - racconta K.R., ex compagno di cella di Elbriky - Sono entrato che pesavo 93 kg e sono uscito che pesavo circa 80 kg”. La parte più dura è quella relativa alla somministrazione di psicofarmaci, problema sollevato anche in altri centri di detenzione amministrativa da inchieste giornalistiche e penali. “Quasi tutti i detenuti sono resi dipendenti da sostanze psicotrope e/o psicofarmaci - continua K. R. - Basta che vai in infermeria una volta e loro ti danno pasticche. Non puoi più farne a meno. La dipendenza è esacerbata dal fatto che le pasticche non te le danno con regolarità. Vai fuori di testa. Puoi scegliere un pacchetto di sigarette o una scheda telefonica al giorno, ma quando sei sotto psicofarmaci fumi tantissimo per cui nessuno chiama più a casa”. Con l’improvvisa liberazione del ragazzo disposta dalle autorità italiane la materia del contendere davanti alla Corte di Strasburgo potrebbe cessare. Così le domande formulate dai giudici rischiano di rimanere senza risposta. “Ci auguriamo che l’Italia chiarisca comunque quale protocollo adotta dopo tentati suicidi e atti di autolesionismo nei Cpr - afferma Santoro - Temo che in questo caso non ci sia mai stata visita psichiatrica nonostante tre tentativi”. I segnali di allarme, comunque, non arrivano solo dal centro di detenzione della capitale. In quello di via Corelli a Milano, sequestrato e commissariato lo scorso dicembre, “la situazione si fa sempre più grave”. Lo denuncia la rete Mai più lager-No ai Cpr, il cui lavoro ha contribuito all’inchiesta dei giudici sull’ente gestore e sugli abusi contro i migranti, che in poco più di una settimana ha contato una trentina di atti di autolesionismo tra vene tagliate, lamette ingoiate e arti fratturati. Dalle testimonianze raccolte dagli attivisti emerge come a far precipitare la situazione sia stato il decreto del governo che lo scorso settembre ha alzato a 18 mesi il periodo massimo di detenzione amministrativa. Brutto clima in tribunale: (in)giustizia è fatta! di Marica Di Pierri* Il Manifesto, 14 marzo 2024 Che siano i tribunali attraverso gli strumenti legali, che siano mobilitazioni o azioni di pressione, l’impressione è che non ci sia ascolto possibile. Nei giorni scorsi due sentenze hanno popolato le pagine dei giornali e richiamato l’attenzione del mondo ecologista. Una riguarda la pronuncia esemplare emessa dal tribunale di Roma contro tre giovani attiviste a attivisti climatici. Si tratta della condanna a 8 mesi di reclusione arrivata la settimana scorsa per i tre attivisti di Ultima Generazione che nel gennaio 2023 avevano imbrattato con vernice lavabile la facciata di palazzo Madama. L’azione non aveva causato danni permanenti alla facciata, che era stata ripulita il giorno successivo. Oltre alla pena detentiva, il giudice li ha condannati a pagare 60mila euro di risarcimento, sui 190mila chiesti dal pm. Non si tratta di un unicum: negli ultimi mesi molti giovani attivisti sono stati denunciati, messi sotto processo o sottoposti a misure cautelari per azioni di questo tipo, promosse per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla necessità di politiche ambiziose per fermare i cambiamenti climatici. Alcuni di loro sono già stati condannati in primo grado, sempre con pene esemplari. La seconda è una sentenza emessa dal tribunale civile di Roma e questa volta non è di condanna. Riguarda però un oggetto assimilabile: l’azione climatica, la necessità di spingere per politiche efficaci, la volontà di incalzare la politica e inchiodare chi decide alle proprie responsabilità. In questo caso l’attivismo climatico non era sul banco degli imputati, ma dall’altra parte, impersonata dai 203 ricorrenti e dalle più di 100 organizzazioni promotrici della campagna Giudizio Universale. Sul banco degli imputati invece c’era lo Stato, la sua tepidezza, l’incapacità di mettere in campo politiche climatiche efficaci, gli insufficienti target di riduzione, la volontà di continuare a investire sulle energie fossili anziché sul futuro. Ebbene, dopo due anni e mezzo di udienze e migliaia di pagine di documentazione, la giudice Assunta Canonaco ha stabilito che no, non può decidere, anzi che nessun tribunale in Italia potrebbe decidere su una domanda del genere. Risultato: una pronuncia di inammissibilità contro la quale già si preannuncia battaglia e che dopo tutto questo ulteriore tempo perso, in quella che è a tutti gli effetti una corsa contro il tempo, appare beffarda, oltre che di retroguardia. Fa nulla che in molti altri paesi europei (Olanda, Francia, Germania, Belgio) e di tutto il mondo i tribunali hanno dimostrato di poter avere un ruolo cruciale nel valutare se i governi stiano facendo abbastanza per ridurre le emissioni di gas serra e salvaguardare i diritti fondamentali dei loro cittadini. In Italia no. Così, un tribunale decide di sottrarsi al suo dovere costituzionale (quello di assicurarsi che lo Stato rispetti i suoi obblighi giuridici e mantenga gli impegni presi per affrontare l’emergenza climatica) mentre un altro tribunale stabilisce che l’attivismo climatico va sanzionato con la prigione, anche se l’azione, in verità, non nuoce proprio a nessuno. Leggere di seguito queste sentenze fa impressione e ne esce un quadro insopportabile e distorto. Un quadro in cui sembrano non esserci più spazi democratici utili a incalzare la politica. Che siano i tribunali attraverso gli strumenti legali, che siano mobilitazioni o azioni di pressione, l’impressione è che non ci sia ascolto possibile, che non ci sia cittadinanza per le voci di dissenso che pure si levano di continuo. Mentre l’Italia compare tra i cinque paesi europei con la peggiore performance complessiva in ambito di clima e energia, i combustibili fossili continuano ad essere i principali vettori del sistema energetico nazionale (con 63 miliardi di dollari di fondi pubblici sono stati erogati per sussidiarli nel solo nel 2022 secondo il FMI), mentre l’ISPRA definisce gli scenari di riduzione delle emissioni al 2030 per l’Italia “poco promettenti”, l’assurda scelta del governo è approvare una legislazione che inasprisce le pene contro gli ecoattivisti. E quella dei tribunali è fare da watch dog. O lavarsene le mani, come Ponzio Pilato.La quadratura del cerchio pare bella e fatta. Ma nessun recinto, per quanto rinforzato, può contenere le spinte sociali. Anzi, più il recinto è stretto, più le spinte sono destinate a diventare forti. *A Sud Il premio Nobel Nadia Murad. “Stupri come arma di guerra. Non sono stata l’ultima” di Sara Lucaroni Avvenire, 14 marzo 2024 La ex schiava dell’Isis, ora attivista per i diritti delle donne, racconta la sua tragica vicenda e come la pace debba passare attraverso l’azione delle donne. La forza della donna di pace Nadia Murad non sta tanto nel coraggio, nella lotta per la giustizia come un dovere, nel diritto di rimarginare ferite. Sta nella schiettezza con cui racconta da dieci anni la sua storia ai leader della terra e nell’esercizio dell’umanità più pura: “Voglio essere l’ultima ragazza al mondo con una storia come la mia”. Rapita il 15 agosto 2014 poco più che ventenne dal suo villaggio, Kocho, nel nord dell’Iraq, durante la campagna genocidaria dello Stato Islamico contro le minoranze, in particolare quella yazida, Nadia Murad quel giorno ha perso la madre e sei fratelli. Con le sorelle è stata venduta ai mercati delle sabaya, le schiave, e comprata dai miliziani islamisti che l’hanno più volte violentata e rivenduta. Dopo 4 mesi di torture è riuscita a fuggire e nel novembre 2015, arrivata in Germania grazie ad un programma umanitario, ha deciso di testimoniare per la prima volta la tragedia delle donne yazide ad un forum delle Nazioni Unite. Nel 2016 è stata nominata Ambasciatrice Onu per la dignità dei sopravvissuti alla tratta di esseri umani e insignita dal Parlamento europeo del Premio Sakharov per la libertà di pensiero. Nel 2018 ha vinto il premio Nobel per la pace, insieme all’attivista e medico congolese Denis Mukwege, “per i loro sforzi volti a mettere fine all’uso della violenza sessuale come arma di guerra e conflitto armato”. Impegno portato avanti anche attraverso la sua fondazione, Nadia’s Initiative, in prima linea sia nella ricostruzione dei servizi nei villaggi della sua comunità distrutti dall’Isis, sia nell’impegnare governi e organizzazioni internazionali a sostenere i sopravvissuti alla violenza sessuale e soprattutto a prevenirla. Gli yazidi sono una minoranza etno-religiosa originaria del nord iracheno. La loro storia affonda le radici nelle culture dell’antica Mesopotamia e nei secoli hanno sempre subito discriminazioni, persecuzioni e uccisioni di massa. Le donne e i bambini rapiti dal Daesh durante l’occupazione di vaste aree dell’Iraq e della Siria nell’estate 2014 sono state quasi 7.000. Ad oggi ne mancano ancora all’appello la metà: in parte sono nelle mani dei rapitori, rientrati nei paesi di origine. Di altri non si ha nessuna notizia. Nadia Murad, le donne impegnate nei processi di pace, per i diritti e l’uguaglianza sono più concrete degli uomini e possono ottenere più risultati. È possibile affermarlo? Conosco molti uomini in gamba che sono altrettanto impegnati per la pace e l’uguaglianza, e non sono sicura che sia utile o vero dire che le donne lottano per la pace mentre gli uomini sono per la guerra. Se vogliamo pace ed equità durature non è solo responsabilità di una parte della società, ma una responsabilità collettiva per tutti noi, specialmente per coloro che occupano posizioni di potere e sono in grado di apportare cambiamenti significativi. Tuttavia, la ricerca ci mostra che quando le donne ricoprono posizioni di leadership e sono attivamente coinvolte nella costruzione della pace nelle loro comunità, questa dura più a lungo. Quindi, penso che sia importante che le donne siano incluse in ogni fase della costruzione della pace e, inoltre, che le ragazze credano che un giorno potranno guidare le loro comunità. Allo stesso modo, gli uomini devono essere alleati nella convinzione che le donne siano capaci di input e leadership significativi. Abbiamo bisogno di fratelli, mariti e figli che ci aiutino ad amplificare le nostre voci e le nostre idee. C’è una persona, una donna, a cui si ispira, un punto di riferimento che la guida e la motiva ogni giorno nelle sue battaglie e nell’impegno per la pace? Mia madre era e rimane la mia luce guida e ispirazione. Era una madre single, con poca istruzione, che cresceva 11 figli nelle zone rurali dell’Iraq. Ha instillato in me il senso di giusto e sbagliato, la compassione e avere obiettivi. Ha fatto commuovere leader politici e capi di Stato con la sua storia personale. Siamo tutti colpiti dal suo forte senso di giustizia. Qual è la caratteristica personale che le ha permesso di ottenere così tanto? Sono assolutamente determinata a garantire che gli attacchi perpetrati contro le mie sorelle, i miei nipoti, i miei amici e me - insieme a migliaia di altre ragazze yazidi - non si ripetano in nessun’altra parte del mondo. Guidata da questo principio ho parlato più e più volte, rivolgendomi ai leader politici non solo per proporre problemi, ma anche per proporre soluzioni. Ho scritto nel mio libro che volevo essere “l’ultima ragazza” che ha subito la violenza sessuale legata ad un conflitto. Purtroppo così non è stato: la violenza sessuale è endemica nelle zone di guerra di tutto il mondo. Tuttavia non smetterò di fare campagne, di sostenere o di dire la verità a chi è al potere. Perché è difficile per ogni vittima di violenza, anche sessuale, denunciare e far rispettare i propri diritti? È un paradosso... Penso che le vittime della violenza siano spesso le più vulnerabili della società, tanto per cominciare; minoranze, donne, poveri. Quindi, quando vengono attaccati, le strutture non sono in grado di aiutarli o proteggerli. In più, per le sopravvissute alla violenza sessuale legata al conflitto, vi è lo stigma e la vergogna associati ai crimini che hanno subito, il che rende ancora più difficile la loro denuncia. Denunciare un crimine può essere di per sé traumatico. Soprattutto se la giustizia non è garantita. Una volta che i crimini sono stati denunciati e magari anche indagati, è normale che non succeda altro. In Iraq, l’Unitad ha documentato l’omicidio, la violenza sessuale e la riduzione in schiavitù di migliaia di yazidi, ma i combattenti dell’Isis sfuggono ancora alla giustizia. Solo tre membri dell’Isis sono stati chiamati a rispondere dei loro crimini di genocidio. Sapendo che il sistema è a scapito delle vittime, diventa molto più difficile denunciare i crimini. “Nadia’s Initiative”, la sua fondazione, è un progetto che sta aiutando molto la vostra comunità nel nord dell’Iraq e le azioni di pace. Qual è l’emergenza più importante ad oggi? Penso intanto che ci troviamo di fronte a un’emergenza sfollati globale. 110 milioni di persone sono state costrette con la forza a fuggire dalle proprie case in tutto il mondo. Molte di loro vivono in campi che offrono solo soluzioni a breve termine e non sono certamente case adeguate in cui le famiglie possano prosperare. La ricostruzione e il ripristino delle zone post-conflitto per permettere il ritorno a casa degli sfollati dovrebbero essere una priorità globale, per ragioni economiche, politiche e morali. L’ISIS ha distrutto gran parte di Sinjar durante l’invasione nel 2014 e, dieci anni dopo, Nadia’s Initiative lavora duramente con i sopravvissuti per ricostruire le infrastrutture, le fattorie e le scuole che sono la linfa vitale delle comunità. Molte donne sono state lasciate da sole a prendersi cura delle proprie famiglie, quindi dare loro istruzione, e le competenze e gli strumenti di cui hanno bisogno per vivere è una parte importante del nostro lavoro. Un lavoro reso più difficile dal fatto che Sinjar è ancora una regione contesa, priva di una governance chiara o infrastrutture burocratiche. Abbiamo un disperato bisogno di rappresentanza politica e di un sindaco, nonché di finanziamenti e sostegno da parte del governo iracheno. Quest’anno ricorre il decimo anniversario dell’attacco dell’ISIS a Sinjar. Dieci anni dopo, gli yazidi si sentono sicuri, c’è pace oppure no? La comunità yazida è più diffusa di quanto lo fosse in passato. Molti sono partiti per rifarsi una vita all’estero, centinaia di migliaia rimangono nei campi profughi e nonostante tutte le sfide, più di 160.000 sono tornati a vivere a Sinjar. Ma penso che tutti gli yazidi si sentirebbero più sicuri se coloro che ci hanno attaccato fossero ritenuti responsabili delle loro azioni. Se sapessimo che l’agosto 2014 non si ripeterà perché è stata fatta giustizia ed esistesse un deterrente per chi decidesse di agire ancora in questo modo. Ci sono anche problemi di sicurezza più immediati. Per le donne yazide nei campi profughi c’è una reale mancanza di sicurezza e privacy. E le famiglie yazide in Germania sono preoccupate per i rimpatri, poiché il governo ha introdotto una nuova legge che obbligherà alcuni a tornare in Iraq. Ci sono problemi di sicurezza da molto tempo per coloro che vivono a Sinjar. Credo fermamente che dobbiamo ricostruire la nostra patria in modo che le famiglie possano lasciare i campi e crearsi vite con uno scopo per se stessi. Abbiamo bisogno che il governo iracheno contribuisca a stabilizzare la regione e a garantire un po’ di sicurezza a Sinjar. Ci sono ancora donne e bambini che riescono a tornare a casa dopo essere stati rapiti dieci anni fa? Si, ci sono. L’anno scorso siamo riusciti ad aiutare un numero maggiore di donne a ritornare dalle loro famiglie. Ma quasi 3.000 sono ancora detenuti dall’Isis e da persone affiliate. Garantire il loro rilascio dovrebbe essere una priorità. In Germania ci sono stati i primi processi contro membri dell’Isis grazie alla giurisdizione universale. Perché altri paesi hanno paura di fare giustizia? Questa è una buona domanda. Suppongo che siano preoccupati per i soldi e il tempo che ci vorrebbe. Molti paesi occidentali non vogliono assumersi la responsabilità delle azioni intraprese dai propri cittadini in Iraq. Sono incredibilmente grata alla Germania per aver assunto un ruolo guida nella giustizia e nella responsabilità verso il mio popolo. Come sta andando l’azione intrapresa contro la corporation francese del calcestruzzo Lafarge, per il suo presunto sostegno economico all’Isis? Siamo ancora nelle fasi iniziali del procedimento legale ma la mia speranza è che riusciremo a dissuadere le grandi multinazionali dall’aiutare e favorire i terroristi. Come è stato accolto “Code Murad”, che fissa linee guida per raccogliere testimonianze di violenze nel pieno rispetto delle vittime? È un progetto di cui sono fortemente orgogliosa e mi rincuora sapere che aiuta i sopravvissuti a raccontare le loro storie. L’anno scorso sono stata invitata in Ucraina per incontrare donne che avevano subito violenza sessuale e molte di loro hanno affermato che il Codice ha dato loro coraggio e fiducia mentre raccontavano le loro esperienze. Nella guerra Hamas-Israele abbiamo ancora assistito alla violenza sulle donne. Per prevenirla nei conflitti sono sufficienti norme preventive più severe e una giustizia certa che punisca i colpevoli oppure è più importante un maggiore sostegno alle donne in tempi di pace e investimenti nella cultura dell’uguaglianza? Assolutamente entrambe le cose. Responsabilità ed educazione, ma anche consapevolezza a livello globale che la violenza sessuale contro le donne non è semplicemente un effetto collaterale inevitabile della guerra, ma un crimine utilizzato da secoli per spezzare il cuore stesso delle comunità. E deve esserci giustizia per coloro che commettono violenza sessuale legata ai conflitti, quei terroristi che perpetrano questi crimini devono essere ritenuti responsabili: cos’altro potrebbe dissuadere altri dall’usare questa tattica in guerra? Credi che stiamo assistendo alla “fine dei diritti umani” nel mondo? Come far comprendere ai giovani l’importanza di impegnarsi sempre perché pace e diritti non siano mai dati per scontati? Non penso che stiamo assistendo alla loro fine, gli esseri umani avranno sempre diritti. Infatti qualche mese fa abbiamo visto tante persone riaffermare la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, giunta al suo 70° anniversario. Però il nostro mondo si trova in una situazione molto precaria e ci sono paesi e attori non statali che non attribuiscono un valore sufficientemente elevato ai diritti umani. Ma ho incontrato tanti giovani che hanno passione per l’umanità e vogliono creare un futuro pacifico. Il loro desiderio di difendere e cambiare il mondo in meglio mi dà speranza. Penso che forse le persone di cui abbiamo bisogno per essere sicuri di comprendere l’importanza dei diritti umani sono gli adulti, i leader e i decision-makers. Devono agire a lungo termine e nell’interesse degli altri.