La dignità umana di Luigi Manconi e Marica Fantauzzi La Repubblica, 13 marzo 2024 “La sanzione detentiva non può comportare una totale ed assoluta privazione della libertà della persona; ne costituisce certo una grave limitazione, ma non la soppressione. Chi si trova in stato di detenzione, pur privato della maggior parte della sua libertà, ne conserva sempre un residuo, che è tanto più prezioso in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale”. (Corte cost. 349/1993), Queste erano le parole dei giudici della Consulta che, più di trent’anni fa, chiarivano quale dovesse essere il senso della detenzione in Italia e fino a che punto potesse spingersi senza offendere la dignità umana. Da allora il dibattito su “quanto residuo di libertà” possa essere concesso alla persona detenuta ha conosciuto stagioni diverse, soprattutto se ci si riferisce ai cosiddetti “detenuti speciali”, ovvero coloro che sono sottoposti al regime di 41 bis. Di uno di loro si è parlato molto nel corso del 2023 e, nonostante il silenzio degli ultimi mesi, la sua vicenda umana e giudiziaria continua a porre grandi interrogativi, la maggior parte dei quali rimasti senza risposta. Martedì 19 marzo la Cassazione, però, dovrà esprimersi su un nuovo ricorso presentato dalla difesa di Alfredo Cospito contro l’applicazione di quel regime nei suoi confronti. A questo punto è bene ricordare due elementi, ripetuti fino allo stremo durante quei giorni (182) del suo sciopero della fame. Il primo riguarda l’originaria finalità di questo regime e l’utilizzo che, invece, se ne fa. Il regime di 41 bis venne inserito all’interno del nostro ordinamento penitenziario proprio negli anni in cui le stragi di mafia imperversavano e lo Stato correva ai ripari, con l’unico obiettivo di interrompere le comunicazioni fra il detenuto e l’organizzazione criminale di appartenenza. In genere, però, la sua applicazione comporta limitazioni, divieti e interdizioni che vanno ben oltre quella finalità, realizzando una carcerazione particolarmente afflittiva. Con la possibilità, inoltre, di rinnovarla di anno in anno (come avvenne nel caso di Bernardo Provenzano morente, ragion per cui l’Italia fu condannata dalla Corte europea dei Diritti umani). Se, quindi, questo elemento riguarda tutti coloro che sono sottoposti al regime speciale, il secondo elemento riguarda in particolare il caso di Cospito. Ovvero la possibilità che per lui, non appartenente a un’organizzazione di stampo mafioso, quindi centralizzata, gerarchica e organizzata, sia sufficiente il regime di Alta sicurezza. A dirlo sono state alcune autorità giudiziarie che, più volte hanno segnalato con note ufficiali la questione al Ministero della Giustizia, tra cui: la Procura Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, la Direzione distrettuale Antimafia di Torino e l’allora Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Intanto si apprende che oggi Alfredo Cospito nonostante una lenta ripresa seguita al digiuno, soffre di alcuni disturbi e in particolare fatica a leggere. Sapranno i giudici, che nei prossimi giorni decideranno della sua permanenza al 41 bis, ricordarsi di quanto scritto dalla Corte costituzionale e consentire a Cospito di “espandere la sua personalità individuale”? Nonostante tutto. Incubo suicidi in cella: l’ultimo è il trapper Jordan Jeffrey Baby di Francesca Del Vecchio La Stampa, 13 marzo 2024 A Pavia si toglie la vita l’artista detenuto per rapina e odio razziale. Un morto in carcere ogni 72 ore: da inizio anno sono già 24. In una sola giornata, quella di ieri, due detenuti si sono tolti la vita rispettivamente nelle carceri di Pavia e di Napoli. Con queste morti, il numero dei suicidi dietro le sbarre (incluso uno avvenuto nel Cpr di Roma) nel 2024 sale a 23: un morto ogni tre giorni. Nel penitenziario Torre del Gallo a Pavia, a uccidersi è stato Jordan Jeffrey Baby (nome d’arte di Jordan Tinti), trapper 27enne che già aveva provato a togliersi la vita in passato. Lo hanno trovato in cella, impiccato con una corda al collo. Nel 2023 era stato condannato a 4 anni e 4 mesi per una rapina aggravata dall’odio razziale ai danni di un operaio nigeriano. Tre mesi fa era stato trasferito in una comunità dopo aver ottenuto l’affidamento terapeutico. Ma la misura era stata sospesa dal Tribunale di Sorveglianza che ne aveva disposto il ritorno in carcere, avvenuto 10 giorni fa. Al suo avvocato Jordan aveva confidato di avere subito maltrattamenti e abusi durante la detenzione. Nel penitenziario di Secondigliano, periferia di Napoli, si è ucciso Robert L., detenuto straniero di 33 anni. Senza fissa dimora, in carcere per omicidio. Nell’agosto del 2019 la sua fuga da Poggioreale - l’unica in 100 anni di storia del penitenziario napoletano - era finita su tutti i media nazionali. Si tratta del quinto caso solo in Campania dall’inizio del 2024 e il tasso di suicidi in carcere nella regione “è 20 volte superiore a quello delle persone libere”, spiega Samuele Ciambriello, Garante campano delle persone private della libertà personale. “Occorrono risposte concrete prima che ci sia l’irreparabile”, aggiunge ragionando sulle motivazioni che inducono a gesti estremi: “Lo stigma e la solitudine di chi entra ed esce dal carcere uccidono di più degli edifici degradati”. Gli ultimi anni hanno riportato trend preoccupanti: nel 2023 68 suicidi, nel 2022 addirittura 84, l’anno peggiore dal 1992. Anche il 2024 è iniziato malissimo: a gennaio, 13 suicidi in meno di 30 giorni. In una lettera congiunta firmata dall’Associazione Antigone, Magistratura Democratica e dall’Unione delle Camere Penali Italiane datata 22 febbraio 2024 si evidenzia come i suicidi scaturiscano “da uno stato di disperazione indotto dalle miserevoli condizioni di vita cui sono soggetti i detenuti. E spesso si tratta di soggetti giovani, che devono scontare condanne non lunghe o addirittura prossimi alla scarcerazione”. Il focus è certamente sul sovraffollamento: 60.637 detenuti a fronte di 51.347 posti ufficiali, di cui alcune migliaia indisponibili. “Il tasso di affollamento medio è del 118,1%”, e le regioni più in difficoltà sono Puglia (143,1%) e Lombardia (147,3%). “Una ecatombe drammatica rispetto alla quale - afferma Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - deve esserci l’obbligo morale e politico di intervenire. Ogni suicidio è un atto individuale che non va generalizzato ma quando i numeri sono così impressionanti bisogna cercare le cause di sistema”. Sempre più minori in carcere: spesso vengono “trattati come pacchi” di Dora Farina Corriere della Sera, 13 marzo 2024 L’aumento delle denunce al nord e i fallimenti delle risposte alternative al carcere, i minori accompagnati e i motivi delle partenze. Antigone: “La società degli adulti deve decidere che fare dei propri ragazzi”. “Ho fatto due giorni senza mangiare, così ho cominciato a spacciare, ma non è andata come pensavo. Dopo due mesi sono finito in carcere minorile. Adesso sto facendo la scuola di italiano con la professoressa Paola, spero di frequentare la scuola media, così prendo il diploma”. Si conclude così il racconto di J. un ragazzo tunisino che scrive dal carcere per minori di Treviso. Sulle pagine di “Innocenti evasioni”, il giornalino prodotto dall’istituto che accoglie la sua storia, si legge che è venuto in Italia per trovare un lavoro e per aiutare la famiglia. La storia di J. è anche la storia di tanti suoi coetanei che vivono in carcere: hanno circa 16 anni, sono minori non accompagnati. Le loro famiglie sono in Tunisia, Marocco, Egitto. Sono in carcere in misura cautelare, in attesa di giudizio. Spesso vengono “trattati come pacchi”, trasferiti nelle carceri per adulti. Per loro il sistema di giustizia funziona meno perché non possono contare su reti sociali e familiari esterne. Questo significa solo una cosa: più giovani in carcere, meno possibilità di uscirne. Il titolo dell’ultimo report dell’associazione Antigone - “Prospettive minori” - è una fotografia delle condizioni degli istituti penitenziari minorili (Ipm) in Italia. All’inizio del 2024 infatti sono 496 i detenuti e le detenute nelle carceri minorili italiane: solo nel primo mese del 2024, si è raggiunta la metà delle detenzioni totali dello scorso anno. Il 51,2% delle presenze è straniero. Perché i numeri aumentano? I numeri dicono che la crescita degli ingressi dell’ultimo anno è da attribuire al maggiore ricorso alla custodia cautelare e alle più frequenti violazioni delle norme sull’uso di stupefacenti, entrambe conseguenza del decreto Caivano. Le misure introdotte lo scorso settembre modificano i criteri per l’ingresso in carcere per chi è in misura cautelare e allo stesso tempo innalzano le pene per lo spaccio di lieve entità. L’associazione denuncia i passi indietro della storia giuridica del nostro Paese che, sostiene, “non meritava le involuzioni normative presenti nel decreto legge Caivano”. Dal rapporto emerge che sulla giustizia minorile si riflettono tutte le contraddizioni del sistema giudiziario italiano. Da un lato, uno dei principi fondamentali del codice di procedura penale minorile è quello della residualità della detenzione, limitando dunque il carcere a situazioni eccezionali. Dall’altro lato, le modifiche normative dell’ultimo anno si sono basate sulla politica “punire per educare”. Il decreto Caivano infatti, “continuerà ad avere effetti distruttivi sul sistema della giustizia minorile, sia in termini di aumento del ricorso alla detenzione che di qualità dei percorsi di recupero” si legge nel documento. Più denunce al nord - Seppure il numero delle denunce verso minori sia costante nel tempo, cambia la geografia: si registra infatti un aumento di segnalazioni al nord. I numeri sono contenuti del centro Italia e in decremento nelle isole e nel sud dove ci sono, tra il 2015 e il 2022, ben due mila segnalazioni di reato in meno. I dati sono simili a quelli del 2015 e sono in aumento rispetto al 2020 che però era l’anno del lockdown e del numero più basso di delitti degli ultimi decenni. Questi dati devono fare i conti anche con la capienza limitata, con effetti sui trasferimenti in istituti penitenziari liberi, che non aiutano il processo educativo. Se si guarda alla collocazione degli Ipm, infatti, viene fuori che sono 11 su 17 si trovano al centro e nel sud. “Qualche anno fa, quando l’ingresso degli stranieri in carcere era minore, la comunità carceraria era affollata prevalentemente da giovani del sud Italia”, racconta Alessio Scandurra, Coordinatore osservatorio sulle condizioni di detenzione. “Chi dal nord viene trasferito al sud per insufficienza di posti, di solito si inserisce con difficoltà nelle attività, perché sono stati sradicati dalla loro realtà” conclude Scandurra. Al compimento del diciottesimo anno d’età, poi, molti vengono trasferiti nel sistema adulto, lo stesso che nei primi quarantacinque giorni del 2024 ha cumulato già 20 suicidi. Maranza e mancanza di servizi pubblici - Nell’analisi di quelle che sono le cause del disagio giovanile di chi entra nei circuiti penali, non si può non tenere conto dell’aumento del costo della vita e della privatizzazione di alcuni servizi pubblici. Gli aumenti degli ultimi anni rappresentano un ostacolo all’accesso di una serie di servizi fondamentali (relativi a vitto e alloggio) per le fasce più deboli. Questo senso di frustrazione, soprattutto nelle aree urbane in cui negli ultimi anni vi è stata una crisi del sistema di welfare, “favorisce l’insorgere di condotte devianti, le quali vengono alimentate dalla consapevolezza di avere meno di altri senza che vi sia un’effettiva ragione di fondo”. A questo si aggiunge l’aumento di segnalazioni per rissa, lesioni personali o percosse che vedono coinvolti i cosiddetti “maranza”. Come spiega l’Accademia della Crusca, il termine è utilizzato “per identificare un certo tipo di ragazzi (meno frequentemente ragazze) accomunati dagli stessi stili d’abbigliamento (ad es. abiti griffati, perlopiù contraffatti), gli stessi gusti musicali (come la trap), e un linguaggio e un atteggiamento talvolta grezzi o volgari”. Stranieri, minori opportunità - Tra le denunce dell’associazione, vengono prese sotto esame anche le differenze di risposte processuali dei ragazzi italiani e quelle dei ragazzi extracomunitari: questi ultimi hanno minori possibilità. A parità di reato, i minori immigrati sono più spesso condannati, ricevono molto più frequentemente misure cautelari detentive, rimangono per più tempo in carcere, mentre con molta meno frequenza sono destinatari di misure diverse, quali ad esempio il collocamento in comunità-alloggio o in famiglia. Nell’ultimo anno, solo il 20% dei provvedimenti di messa alla prova adottati nel 2023 hanno riguardato ragazzi stranieri. “Si tratta dei ragazzi detenuti più difficili da trattare” scrive Antigone: “Spesso minori stranieri non accompagnati con disturbi comportamentali, problemi di dipendenze da sostanze, psicofarmaci e alcool, solitudine, violenze subite durante i percorsi migratori”. Adolescenti con vissuti faticosi alle spalle, privi di riferimenti affettivi e poco consapevoli di quanto va loro accadendo. Capita allora che chi entra in carcere con l’accusa di un singolo reato, ne collezioni molti altri (oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale, danneggiamento, rissa, rivolta), in un circolo vizioso che se non verrà interrotto dall’ascolto e dal sostegno porterà solamente a peggiorare la situazione e far perdere ogni speranza. Il carcere raccontato da dentro - J. parla in prima persona. Non è semplice parlare di un passato fatto di mancanze, ma grazie all’iniziativa editoriale Innocenti evasioni dell’istituto penale per i minorenni di Treviso ha avuto modo di raccontarsi. Purtroppo il giornalino - autoprodotto dall’Ipm anche nella veste grafica - ha concluso la sua esperienza nel 2012, per lasciare spazio ad altre attività. “Appena arrivato ho pensato solo a fare soldi, così sarei tornato vicino alla mia famiglia velocemente. Ma non è così facile come a parole, perché pensavo di trovare un lavoro velocemente, ma non è andata così: non è facile trovare un lavoro senza documenti. Un po’ di giorni dopo mi ha chiamato mio zio e mi ha detto di andare a lavorare con lui a Parigi, così sono andato e per fortuna ho cominciato subito a lavorare: vendevo vestiti da bambini. Ma dopo un mese ho litigato con mio cugino, così ho pensato di andare a Padova dove c’erano persone del mio paese che conoscevo”. E poi è arrivato lo spaccio. Minori non accompagnati, perché partono? “Un primo dato riguardante i minori stranieri non accompagnati è che al variare di sbarchi e arrivi nei confini europei, ormai da anni non varia la percentuale che li riguarda, che è costante se non addirittura in crescita tra il 10% e il 15%”, afferma il giornalista Luca Attanasio, autore del libro Il bagaglio: Storie e numeri del fenomeno dei migranti minori non accompagnati edito da Albeggi Edizione. Secondo i dati ministeriali infatti, al 31 dicembre 2023 risultano presenti in Italia 23.226 minori stranieri non accompagnati, 2.300 minori in più rispetto all’anno precedente. I numeri però non ci danno la misura di chi parte dal momento che mancano quelli di chi perde la vita in mare o nel deserto. “Questi numeri sono enormi e questo ci deve far ragionare sul fatto che questi minori, per la maggior parte ragazzi, viaggiano senza il conforto di un adulto (che sia una mamma, un papà o una persona adulta di cui fidarsi). Se anche il loro fosse un viaggio di piacere, spostarsi da soli sarebbe problematico”. Il problema, continua Attanasio, sta nel sistema di gestione europeo ed americano del fenomeno: “Non ho il timore a definire questi approcci come una perpetuazione dell’impostazione colonialista. Il motivo? Se io facessi una richiesta di visto per l’Uganda, al massimo dopo sei ore avrei il mio documento. Se una collega volesse fare il contrario, dovrebbe rivolgersi ai trafficanti”. Affrontare un viaggio del genere significa attraversare “il giro infernale del Mediterraneo”, in altre parole, rischiare la vita. Chi sopravvive infatti porta delle “ferite sul corpo e nell’anima” che difficilmente possono essere emarginate. Ma sopravvivere non vuol dire necessariamente vivere: affrontare il viaggio, infatti, comporta il rischio di “essere preda della criminalità organizzata”. La criminalità, chi non entra “è un eroe” - Perché la criminalità organizzata? “Per diversi motivi”, risponde Attanasio: “Integrarsi è difficile. Secondo la legge Zampa del 2017, si sarebbero dovute mettere in atto tutta una serie di tutele per minori fino ai 21 anni. E invece questa legge è stata totalmente disattesa, tant’è che la presunzione di minore età adesso è totalmente capovolta. A questo si aggiungono gli effetti del decreto Cutro, per cui è stabilito che possano essere trasferiti anche nel carcere per adulti. Generalmente partono a 16-17 anni, ma afghani e bengalesi partono anche prima della media, all’età di 11 anni. “E quando arrivi in Italia ti trovi in una nazione ostile, in cui le maglie della criminalità organizzata sono sempre molto larghe. Molti dei ragazzi che ho conosciuto non ci sono entrati e io li considero eroi perché hanno resistito una maniera incredibile”. Molto spesso infatti il patto di scambio per poter salire a bordo delle imbarcazioni dei trafficanti è accettare di lavorare per loro. Per abbattere questo fenomeno, “basterebbe rendere legale l’accesso in Europa”. Questo, prosegue il giornalista, “sarebbe una strategia vincente anche per noi: un conto è accogliere irregolari di cui non si conosce nulla, un conto è rendere accessibili visti controllati”. Queste strategie sono possibili, ma si preferisce, secondo Attanasio, “una xenofobia insensata”, probabilmente perché “tutto sommato questo sistema economico-politico ci fa comodo”. Il fallimento delle alternative al carcere - Per uscire dal circolo del carcere sono necessarie attività stimolanti, che possano essere trovate convincenti e promettenti per la vita futura di questi ragazzi. Uno dei ragazzi detenuti nel carcere di Casal Del Marmo, alle porte di Roma, in una intervista dello scorso mese ad Antigone racconta: “Qua hai tremila risorse: scuola, falegnameria, panetteria. Poi una volta uscito da qui sei abbandonato, ma questa non è una giustificazione perché alla fine sei tu che decidi di fare quello che vuoi fare”. Sono previste diverse attività anche per il settore femminile, una ragazza racconta che “la giornata tipo inizia alle 7, alle 7.30 c’è l’apertura quindi le celle vengono aperte e siamo in comune. Facciamo colazione e poi iniziano le attività scolastiche. Dopo pranzo, alcuni pomeriggi, ci sono delle attività: il martedì hip hop, il giovedì arti decorative e il venerdì disegno”. La rieducazione forzata infatti non sortisce alcun effetto, dice Scandurra. La rivisitazione delle offerte formative, la possibilità reale di occupazione, lavoro e professionalità, la valorizzazione di tutte le personalità non rappresentano solo dei percorsi di recupero e reinserimento, ma svolgono allo stesso tempo un’azione preventiva dentro e fuori il carcere. “Il cambiamento infatti è un percorso, si costruisce, non si può imporre: è chiaro che qualunque esperienza formativa presuppone un cambiamento. Tutto quello che ti lascia uguale è un fallimento dal punto di vista educativo”. M la riuscita del patto educativo parte proprio da qui: “Questi ragazzi vengono da storie di fallimenti scolastici e inserimenti in comunità che non sono andati bene. Va messo in conto il fallimento soprattutto perché vuol dire che è fallita l’alternativa al carcere”. Una risposta educativa - “La società degli adulti deve decidere che fare dei propri ragazzi, a partire da quelli più faticosi, disagiati, riottosi alle regole” afferma il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella. “Mettere in carcerare un ragazzo o una ragazza è una delle scelte più gravi che si possa fare: significa inchiodarli per sempre a un momento della loro giovane vita. Il carcere dovrebbe essere un’opzione del tutto eccezionale. E invece le nuove norme hanno inteso rompere con una bella storia italiana, che era quella della residualizzazione della risposta detentiva nei confronti dei minori”, continua Gonnella. Più giovani in carcere non significa mancanza di una risposta ai reati, non significa più sicurezza. Una risposta educativa, che faccia ricorso il meno possibile al carcere, risponde alle esigenze della collettività: tutelare. “Eri un clochard, per questo ti tagliamo il ristoro per l’ingiusta detenzione” di Riccardo Radi* Il Dubbio, 13 marzo 2024 Decurtato del 30% l’indennizzo a un uomo senza fissa dimora rimasto ingiustamente in carcere per 458 giorni. La Cassazione rimedia: “principio rovesciato”. Sei un homeless con una “subalternità culturale” derivante dalla marginalità socio-economica, quindi la tua carcerazione di 458 giorni ti ha fatto soffrire meno di una persona “normale”. Il “ragionamento” di una corte di appello di Milano che ha decurtato l’indennizzo di un 30% ad un uomo rimasto in carcere per 458 giorni, accusato di reati infamanti come la violenza sessuale e i maltrattamenti. Secondo il criterio matematico standard, il malcapitato avrebbe dovuto avere 235 euro per ogni giorno di carcere immeritato. Ma i 107.630 euro, sono diventati 75mila. Un taglio del 30% giustificato dalla condizione del ricorrente. La Cassazione sezione 3 con la sentenza numero 9486/2024 ha posto rimedio all’evidente discriminazione operata dalla corte di merito. La Corte di merito aveva basato il decurtamento del 30% sulla base delle seguenti “considerazioni”: il prevenuto “almeno per il periodo, in cui fu sottoposto alla misura custodiale, era quella di un uomo che viveva in una situazione di accentuata marginalità socio-economica e di subalternità culturale”. Senza affetti e privo di una abitazione stabile ed è per questo che la corte di merito ha ritenuto congruo tagliare di un 30% l’indennizzo per la carcerazione patita, d’altronde l’aver vissuto in una baracca e l’assenza di un’occupazione “e di rapporti affettivi di qualsivoglia natura”, sono fattori che avevano certamente inciso molto negativamente sulla qualità della sua esistenza. Tutto questo doveva dunque necessariamente aver mitigato il patimento naturalmente connesso alla carcerazione. Fortunatamente a questa visione “classista” e discriminatoria ha posto rimedio la Suprema Corte che sottolinea: “In ultima analisi, i criteri utilizzati dalla Corte territoriale legittimano una diversa quantificazione del criterio aritmetico (nel caso di specie con una sensibile riduzione del 30%) a seconda della condizione sociale, di marginalità, piuttosto che di normalità o di privilegio, una situazione quest’ultima che alla luce di questi criteri, dovrebbe conseguentemente avere effetti opposti, di aumento del quantum”. Ragionando al contrario - afferma la cassazione - si dovrebbe dare un indennizzo più alto a chi vive nel lusso, magari in una villa con piscina, e può contare su solidi affetti: “per non parlare - scrivono i giudici - dell’incomprensibile richiamo, pure utilizzato nell’ordinanza impugnata - alla subalternità culturale”. Mai parole sono risonate più calzanti: “La povertà è come una punizione per un crimine che uno non ha commesso” (Eli Khamarov). *Dal blog “Terzultima fermata” di Vincenzo G. Giglio e Riccardo Radi Riflessioni “in grate”: cosa bolle nella pericolosa fornace penitenziaria di Enrico Sbriglia* L’Opinione, 13 marzo 2024 L’imponente rappresentazione scenica celebrativa del 207° anniversario di fondazione del Corpo della Polizia Penitenziaria in Piazza del Popolo, lo scorso 11 marzo, a Roma, per quanto evocativa di antichi fasti imperiali, non sembra però essere riuscita a intercettare il malessere e la delusione diffusa tra i direttori penitenziari, tra quelli degli uffici dell’esecuzione penale esterna e della giustizia minorile, ma anche tra i quadri dirigenziali contrattualizzati. Eppure il predetto personale, ancorché non appartenente alle Forze di polizia (così come impongono le stesse regole penitenziarie europee del Consiglio d’Europa), svolge, indubbiamente una funzione essenziale, di rilevanza pubblica, che facilita il conseguimento del bene collettivo della sicurezza. A poco, infatti, giovano le frequenti diffusioni di veline rassicuranti, ove si esibiscono iniziative trattamentali e rieducative rivolte alle persone detenute, se poi per davvero non si interviene sul complesso organizzativo amministrativo (al cui vertice, in pochi anni, si sono avvicendati ben sei, diconsi sei, capi dipartimento, provenienti tutti dalla Magistratura: Tamburino, Consoli, Basentini, Rinoldi, Petralia, Russo). Anche a causa di questo moto continuo, tutto il sistema dell’esecuzione penale ha subito dei veri e propri shock amministrativi, aggravati dal fatto che, probabilmente, ma mi smentiscano se sbaglio, mai c’è stata una interlocuzione tra il “board” del Dipartimento e i Governi, con le loro variegate maggioranze, per conoscere quello che sarebbe stato il livello di impatto ambientale carcerario allorquando si volessero partorire nuove fattispecie penali le quali, inevitabilmente, avrebbero accresciuto il numero di persone detenute all’interno delle nostre inadeguate prigioni, determinando un maggior fabbisogno di risorse umane e strutturali, nonché un più rilevante costo per l’erario, a causa dei servizi minimi da erogare (igiene, vitto e alloggio, cure sanitarie). Gli istituti, così, si sono progressivamente trasformati in orribili contenitori di esseri umani in cattività, oppure in liste di folli, umiliati dalla malattia mentale, in attesa di un posto libero nelle Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza), mentre all’esterno, un numero pauroso di persone, con condanne già passate in giudicato, aspettando di vedere formalizzato l’ordine di esecuzione, preme sui portoni delle carceri, pur ove taluni, nel frattempo, abbiano trovato un lavoro o una casa, insomma una possibilità di reinserimento nel sociale alla quale, ovviamente, dovranno rinunciare. Ma è soprattutto nelle carceri che si è perfezionato un diabolico paradosso: di fatto, le pessime condizioni di vita che vengono assicurate spingono, contro ogni finalità di sicurezza, le persone detenute ad ingenerare un odio continuo e progressivo verso il personale penitenziario, in particolare nei confronti degli appartenenti alla Polizia Penitenziaria, ma anche verso la società esterna, percepita quale complice di quanti consentano, quotidianamente, il perpetrarsi di situazioni disumane e degradanti. Da qui, un moltiplicarsi di aggressioni, autolesionismi, proteste, scioperi della fame, che produrranno altri reati e/o condotte di rilevanza disciplinare: insomma, fuoco su fuoco! Le pessime condizioni strutturali di quasi tutte le carceri, inoltre, potrebbero favorire il pericolo che possa sciaguratamente insinuarsi in alcuni, tanti o pochi non si può dire, una linea di pensiero che contesti e rifiuti i principi costituzionali, piuttosto che la doverosa difesa degli stessi. Il rischio di una degenerazione potrebbe orientare l’Apparato a privilegiare dei modelli di regime carcerario innaturali per il mondo penitenziario occidentale, nonché in contrasto con una tradizione di umanesimo italiano, indirizzando il governo degli istituti verso il primato della forza (la quale, com’è noto, nelle situazioni fuori controllo, può potenzialmente tradursi in abusi e intimidazioni che a loro volta possono degradare in violenza), trasformando i luoghi detentivi da contesti di comunità penitenziaria (allocuzione tanto cara al compianto Marco Pannella), in territori di nuovi e più accesi conflitti, finanche permanenti. Guai se prendesse piede un orientamento che invocasse una gestione delle carceri non in punto di diritto, e con una buona organizzazione dei servizi pubblici da erogare, ma di manganello (rectius “sfollagente”, per il quale, ove non si sapesse, si tengono perfino dei corsi di formazione ad hoc per i neo funzionari del corpo nella scuola dedicata a Giovanni Falcone), riportando così il clima dei penitenziari di tutta Italia ai peggiori tempi degli anni del terrorismo e delle guerre di camorra e di mafia. L’insieme delle criticità che non da oggi si vivono, ma che si sono negli ultimi anni ulteriormente accentuate, sta di fatto innescando una vera e propria bomba ad orologeria, la quale potrebbe esplodere da un momento all’altro, con conseguenze inimmaginabili e non solo per il mondo penitenziario. Anche per questo motivo, il coordinamento che presiedo denuncia come, ancora una volta, siano stati lasciati soli i direttori e tutto il personale penitenziario della prima linea, costituito da quello, innaturalmente, collocato nelle cosiddette “funzioni centrali”, insieme ad una buona parte (ed il termine “buona” è nella doppia accezione) della Polizia Penitenziaria, composta soprattutto da agenti, assistenti, sovrintendenti ed ispettori, i quali ancora attendono, vanamente, in ogni istituto penitenziario, un numero congruo di dirigenti del Corpo (nella dotazione organica se ne contano ormai 715), affinché condividano con i primi la fatica di un lavoro senza pari, onorando il motto che li avrebbe dovuti distinguere dagli altri appartenenti alle forze dell’ordine: Despondere spem est munus nostrum. I poliziotti penitenziari, insieme a tutti gli altri operatori penitenziari, sono e rimangono indispensabili specialmente all’interno delle carceri, nonostante che vi siano organizzazioni sindacali che ne auspichino perfino la fuoriuscita, così rischiando di appiattirli ad una mera attività esterna di sorveglianza, la quale, con le tecnologie attuali, ben potrebbe essere compensata dall’Intelligenza artificiale e da più moderne forme di controllo, facendo così venir meno la ragione di un Corpo di uomini e donne che proprio nell’operare nei luoghi della pena deve la sua caratterizzazione. Ma si sa, il carcere spaventa quanti non sappiano affrontarlo e, soprattutto, non intendano conoscerlo. *Penitenziarista, coordinatore nazionale dei dirigenti penitenziari della Fsi-Usae (Federazione sindacati indipendenti dell’Unione sindacati autonomi europei Alta tensione Meloni-Nordio: dopo le elezioni europee può arrivare la resa dei conti di Francesco Olivo La Stampa, 13 marzo 2024 Dopo la rottura sulla Commissione d’inchiesta sui politici spiati, la leader nega un chiarimento al ministro. Scontro tra via Arenula e Mantovano sulla nomina del nuovo capo di gabinetto. C’è un caso Nordio nel governo. Non è inedito, ma con il passare dei mesi, si arricchisce di nuovi capitoli, con una corda che rischia di spezzarsi. Giorgia Meloni è molto seccata con il ministro della Giustizia, che tanto ha voluto all’interno del suo governo, uno dei nomi “illustri” dietro al quale ha cercare di farsi scudo, rincorsa com’era dall’accusa di avere una squadra inesperta. La goccia che sta per far traboccare un vaso ormai colmo di malumori è la richiesta di istituire una commissione parlamentare d’inchiesta sulla vicenda degli accessi abusivi alle banche dati. Meloni ha risposto in maniera durissima e, cosa inedita nei rapporti tra i due, ha negato a Nordio un colloquio per un chiarimento che viene ritenuto inutile, almeno in questo momento. Sostituire il Guardasigilli non è strettamente all’ordine del giorno, “almeno fino alle Europee”, spiegano fonti vicine alla premier, “dopo si vedrà”. Per Meloni cambiare adesso questa casella significherebbe un’ammissione di colpevolezza, uno smacco personale. E poi anche un solo cambiamento della squadra aprirebbe una dinamica all’interno della maggioranza con esiti imprevedibili. Forza Italia, infatti, già fa capire che potrebbe chiedere un ministero in più in caso di un sorpasso importante sulla Lega a giugno. Complicato poi sarebbe individuare un sostituto, visto che il sottosegretario Andrea Delmastro, il più vicino alla premier, è imputato per rivelazione di segreto d’ufficio nel caso dell’anarchico Alfredo Cospito. Il candidato naturale potrebbe essere il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, un magistrato conservatore come Nordio, ma con maggiore tatto ed esperienza politica. Mantovano però ricopre un ruolo fondamentale a Palazzo Chigi, specie nei rapporti con il Quirinale e ha in mano dossier delicati come quello dei Servizi. Spostarlo da Piazza Colonna quindi sarebbe complicato. Eppure la rabbia è tale, che nessuno esclude più nulla da giugno in poi. Politicamente, il ministro è di fatto commissariato e in questi mesi ha dovuto avallare decine di misure lontane dalla sua cultura giuridica, a cominciare dall’introduzione di diversi reati e dal sostanziale abbandono di battaglie di una vita, come la separazione delle carriere, di cui Meloni non vuole sentire parlare. Quella della commissione d’inchiesta è una proposta, condivisa con il ministro della Difesa Guido Crosetto, che ha stupito, per usare un eufemismo, la presidente del Consiglio, giudicata del tutto intempestiva e sbagliata in sé, visto che una commissione al lavoro già c’è, l’Antimafia, ed è guidata dalla sorella d’Italia Chiara Colosimo, legatissima alla premier. La cosa che più ha sconcertato Meloni è che una proposta di questa portata fosse annunciata dal ministro senza minimamente averla condivisa con Palazzo Chigi, né con i capigruppo di maggioranza. E visto che non è la prima volta, l’elenco che fanno i fedelissimi della premier, è lunghissimo è normale che si cerchino delle contromisure. La prima reazione è stata quasi istintiva, ovvero suggerire (altro eufemismo) a Nordio di non rispondere all’invito di Matteo Renzi sul palco della Leopolda. La seconda, ben più pesante politicamente, è la nota con la quale i capigruppo di maggioranza di Camera e Senato hanno bocciato l’istituzione della commissione d’inchiesta. Le esternazioni continue di Nordio che esulano dalle linea del partito non sono l’unico problema, “parla come se fosse a un convegno” , disse in un’intervista a La Stampa, Delmastro, sottosegretario con delega a raddrizzare la linea che Nordio infrange quotidianamente. Tra palazzo Chigi e via Arenula c’è anche un altro conflitto in questi giorni. Il ministro vorrebbe promuovere Giusi Bartolozzi, da vicecapo di gabinetto a capo, per occupare il posto lasciato vuoto da Alberto Rizzo, dimessosi due mesi fa proprio per gli scontri continui con Bartolozzi. A questa nomina si sta opponendo fermamente Mantovano, dall’esito di questo scontro si capirà forse anche il futuro di Nordio. Una commissione al lavoro sui dossieraggi, come sottolineato da Meloni già c’è: “Oggi sta lavorando l’Antimafia, che ha poteri d’inchiesta. Bisogna farla lavorare, poi valuteremo” ha detto. Ieri l’ufficio di presidenza ha deciso le persone da ascoltare. I primi tre saranno i capi della Guardia di Finanza, della Dia e dell’Unità di informazione finanziaria. In un momento successivo nelle audizioni potranno comparire Guido Crosetto, l’editore e il direttore del quotidiano Domani Carlo De Benedetti ed Emiliano Fittipaldi. Nella lista non ci saranno né l’ex premier Matteo Renzi, né l’ex procuratore capo Antimafia Federico Cafiero de Raho, attuale deputato del M5S e vicepresidente della commissione Antimafia. Colosimo ha spiegato di aver ricevuto un parere contrario da parte del presidente della Camera Lorenzo Fontana, suscitando una reazione durissima da parte della senatrice di Italia Viva Raffaella Paita che ha attaccato platealmente la presidente: “Dov’è la risposta di Fontana? Incredibile che non si possa ascoltare l’ex capo della procura Antimafia”. Fratelli d’Italia commissaria Nordio, sull’inchiesta di Perugia comanda solo Meloni di Giulia Merlo Il Domani, 13 marzo 2024 Azione invoca gli ispettori da Cantone, FI fa una interrogazione. Il ministro tace. Tutto passa dall’Antimafia che è pronta ad audire il direttore e l’editore di Domani. Molti lo invocano, ma il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha scelto il silenzio dopo la sconfessione pubblica della premier Giorgia Meloni sulla costituzione di una commissione d’inchiesta sull’indagine in corso a Perugia sulla fuga di notizie dalla procura nazionale antimafia. Eppure, in veste di ministro, il suo silenzio dovrà essere rotto a breve e per diretta richiesta della maggioranza che lo sostiene. Il deputato di Forza Italia Antonino Calderone ha fatto sapere di aver presentato una interrogazione a Nordio perché “si adoperi per sapere quanti e quali cittadini comuni sono stati danneggiati dal gravissimo reato di accesso abusivo ai sistemi informatici”. Una domanda oggettivamente complicata a cui rispondere, visto che l’inchiesta sui presunti accessi abusivi al database dell’Antimafia è ancora in corso e - come ha detto anche il procuratore capo Giuseppe Cantone in commissione Antimafia - si sta vagliando la liceità del comportamento del sottoufficiale indagato, Pasquale Striano. Un’altra sollecitazione è arrivata a Nordio anche dalle opposizioni. Il deputato di Azione Enrico Costa gli ha suggerito di “usare i suoi poteri ispettivi” inviando gli ispettori ministeriali a Perugia, “una procura dove si è verificata, a detta degli stessi pm, un’enorme fuga di dati sensibili”. Costa, però, si spinge anche più in là, definendo “inevitabile e urgente” che gli ispettori verifichino i comportamenti interni alla procura, e “se Nordio non li ha inviati ci sarà un motivo. Sarebbe interessante conoscerlo”. Chiamato in causa da ogni lato, il ministro ha scelto di non intervenire ufficialmente e di sparire dai radar, anche fisicamente, dopo il pasticcio del fine settimana, iniziato con una parola di troppo a Milano e finito con un forfait dell’ultimo minuto alla Leopolda di Firenze. Tutto è iniziato l’8 marzo. Nordio era a un convegno sulla giustizia a palazzo Lombardia a Milano e, nel punto stampa a margine, è arrivata la domanda sull’inchiesta per cui Cantone ha chiesto di farsi audire in commissione antimafia, chiarendo dettagli dell’attività investigativa in corso. La risposta, però, non era improvvisata. Nordio ha spiegato di aver avuto “un incontro con il ministro della Difesa, Guido Crosetto (dal cui esposto è nata l’inchiesta perugina, ndr), con un informale scambio di opinioni”, e da questo ha maturato l’idea che “si debba riflettere sulla necessità dell’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta con potere inquirente”. Non una commissione semplice, quindi, ma quella - prevista dall’articolo 82 della Costituzione - che può procedere nelle indagini con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell’autorità giudiziaria. In una sovrapposizione, quindi, con l’attività delle toghe di Perugia. La sua proposta ha ricevuto l’endorsement di Crosetto, ma, praticamente subito, è iniziato il fuoco di fila. Fonti della maggioranza vicine a Fratelli d’Italia hanno fatto filtrare un certo scetticismo sulla possibilità di una commissione che andrebbe a confliggere anche con l’attività della commissione antimafia, guidata dalla fedelissima di Meloni, Chiara Colosimo, che ha già audito Melillo e Cantone. Anche a palazzo Chigi la sortita di Nordio avrebbe generato un certo fastidio. Per ora tutti i passaggi esterni alla procura sono stati attentamente monitorati da esponenti di spicco della galassia della premier: Colosimo all’Antimafia, per l’appunto, e Giovanni Donzelli al Copasir. Il protagonismo dell’Antimafia è stato sancito, ieri, dall’annuncio che sono state calendarizzate le audizioni del comandante generale della Guardia di finanza, Andrea De Gennaro, del direttore della Direzione investigativa antimafia, Michele Carbone, e del direttore dell’Unità di informazione finanziaria di Banca d’Italia, Enzo Serata. Oltre ai tre sarebbe stato stilato un elenco di 50 nomi. Alcuni di questi potrebbero non essere ascoltati. Mentre non sarebbero ancora state calendarizzate le audizioni della procura di Roma, della società Sogei, dell’Ordine dei giornalisti, del ministro della Difesa Crosetto e del direttore e dell’editore di Domani, Emiliano Fittipaldi e Carlo De Benedetti. Gli attacchi - L’incauta sortita di Nordio su una nuova commissione, durata meno di 24 ore, ha dunque rischiato di aggiungere un elemento non voluto in una vicenda ancora non chiara. Proprio per evitare nuove frasi fuori copione, secondo fonti di opposizione, sarebbe arrivato il no che ha bloccato la sua partecipazione alla Leopolda di Firenze programmata per sabato scorso. Anche a costo della brutta figura di disattendere la conferma personale che Nordio aveva già dato a Matteo Renzi la mattina stessa dell’evento. Eppure - anche per contrappasso - proprio sulle parole del ministro si sta costruendo un fronte opposto alla linea meloniana di gestione del caso mediatico. La Lega ha infatti subito appoggiato con una nota quella che ormai è diventata “la proposta Nordio”, e anche Italia viva non intende mollare la presa. “Noi siamo favorevoli, sono curioso di vedere se Fdi voterà questa commissione d’inchiesta”, ha detto Renzi, e “misureremo il coraggio di Meloni se seguirà le idee di due suoi ministri”. Il fantasma del Grande Vecchio di Alessandro Barbano Il Dubbio, 13 marzo 2024 Bisogna interrogarsi in maniera seria su che cosa è diventata l’Antimafia, è un carrozzone autoreferenziale e, per certi versi parassitario, che attraversa la giustizia, la politica, gli apparati dello Stato e non solo. Ma dov’è il Grande Vecchio? E dov’è il mercato delle informazioni riservate? Li ha evocati entrambi il procuratore antimafia Giovanni Melillo nella sua audizione in Parlamento. Li ha indicati in maniera ancora più esplicita il procurato-re di Perugia, Raffaele Cantone, adombrando un verminaio e potenze straniere dietro la fuga di notizie, salvo poi an-nunciare che l’inchiesta è partita tardivamente e in modo maldestro, e che le tracce per risalire ai mandanti occulti del finanziere infedele sembrano essere state cancellate. Eppure, a ben vedere, ragionando sugli elementi a disposi-zione, l’idea di un Grande Vecchio dietro questa clamorosa spy story è implausibile. Perché il Vecchio è Grande se ha un disegno. Lo aveva Licio Gelli, a capo di una loggia mas-sonica che voleva mettere sotto controllo le istituzioni e assoggettarle a un’oligarchia corporativa e occulta. Qual è il disegno di chi spia allo stesso modo Matteo Renzi e Mat-teo Salvini, Guido Crosetto e Vittorio Colao, Gabriele Gra-vina e Domenico Arcuri? Sì, a guardar bene, gli spiati del centrodestra sono in proporzione i tre quarti della lista. Ciò conferma che ci sono frange storicamente identificabili del mondo politico-editoriale e del giornalismo aduse a re-golare i loro conti con i dossier. Ma i nomi di calciatori, vescovi, manager e imprenditori bastano da soli a escludere l’ipotesi di una Spectre ideologica unica, che con la gogna si proponga di mettere sotto scacco le istituzioni. Una si-mile organizzazione avrebbe certamente praticato una chirurgia più selettiva, affondando la sua lama nelle profondità della democrazia italiana. E probabilmente non sarebbe incespicata nei compensi, peraltro leciti, del ministro della difesa. Questi indizi dicono sì che lo spionaggio è ideologicamente orientato, ma in realtà ha nel suo bersaglio una singolare forma di potere. Quella che si manifesta mediaticamente ed espone i protagonisti al chiacchiericcio del dibattito pubblico. Gli 007 deviati operavano come una sorta di redazione giornalistica che, alla lettura dei quotidiani, si impegni negli approfondimenti. Ma con la metodologia tipica del giornalismo corrente, gli accessi erano a volo d’uccello. Tanto “mostruosi” per numero, come giustamente ha notato Cantone, quanto superficiali. Opera così una Spectre al servizio di poteri occulti o potenze straniere? E se di mercato si tratta, dove stanno i pagamenti che da sempre qualificano uno scambio illecito? Non ve n’è traccia, almeno a valutare gli elementi filtrati dall’indagine. Pochi, ma non molto diversi da quelli a disposizione degli inquirenti, che - lo ha detto ancora Cantone - sul traffico di notizie riservate sarebbero arrivati male e in ritardo. Non sappiamo se la strategia di comunicazione dei due procuratori sia stata intenzionale o involontaria. Ma l’idea di un mercato clandestino dello spionaggio e di una cupola che lo controlla rischiano di spostare l’attenzione del dibattito pubblico da ciò che davvero è accaduto. Altrettanto fa l’idea di uno o più finanzieri e magistrati infedeli o incauti, dipinti come mle marce di un paniere altrimenti sano. Mele da gettare nel cestino dell’immondizia per riesporre le mele restanti al centro del tavolo, come se nulla fosse. La sensazione è che la preoccupazione dei due magistrati auditi in Parlamento fosse essenzialmente politica. E avesse il comprensibile obiettivo di difendere il sistema di cui fanno parte o comunque attorno a cui gravitano, cioè quell’infrastruttura giudiziaria, investigativa, burocratica e politica che chiamiamo da quarant’anni Antimafia e che ha assunto nella democrazia italiana compiti crescenti. Perché, se c’è un Grande Vecchio che aleggia attorno a noi, e se pure non possiamo sapere chi sia, sarà bene tenere in piedi una macchina che il Grande Vecchio lo insegue da anni nell’intestino della democrazia. Ma i tasselli di quest’indagine raccontano tutta un’altra storia. A cominciare da quelli più propriamente investigativi. Lo spionaggio illecito riguarda anzitutto gli accessi abusivi sulle banche dati, cioè non richiesti e legittimati da un magistrato che indaghi su una notizia criminis. Le banche dati sono quello che si dice un mondo. Lo sa chiunque abbia una conoscenza non effimera dell’universo digitale. In questa sconfinata piazza virtuale c’è una mole di atti, contratti, transazioni socialmente rilevanti, maggiore di quanto non ne producano tutte le fabbriche manifatturiere della cosiddetta economia reale. Un filosofo contemporaneo, Maurizio Ferraris, ha coniato il nome di “Documanità” per l’immensa biblioteca di documenti che ci raccontano e che in Italia la burocrazia pubblica archivia in tre distinti registri: il Serpico, acronimo di “Servizio per i contribuenti”, che raccoglie le operazioni compiute con carta di credito e bancomat da ogni cittadino; lo Sdi, cioè Sistema di interscambio, con cui l’Agenzia delle Entrate gestisce il flusso generato dall’emissione di fatture elettroniche; il Siva, cioè Sistema informativo valutario, che riguarda le segnalazioni di operazioni sospette (Sos) trasmesse dall’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia. Provate ad aggiungere a questi archivi il Registro delle imprese, cioè l’anagrafe economica nazionale, e l’Elenco telefonico nazionale (Etna) e a incrociare i dati in essi contenuti. Avrete l’esatta dimensione di che cosa sia una realtà virtuale dove s’incontrano e si collegano tra loro azioni e soggetti della cui relazione nessuno ha contezza nella vita reale. Volete che in questa sconfinata massa di connessioni non ci sia la traccia di ciò che noi chiamiamo ipotesi di reato? È questo il non detto dell’intera vicenda. Pensiamo davvero che la polizia giudiziaria si astenga dal cercare da sé i presunti malfattori nelle piazze digitali, allo stesso modo con cui le volanti pattugliano di notte le strade delle città? Pensiamo davvero che gli accessi in questo labirinto di specchi della democrazia avvengano solo su delega e controllo dell’autorità giudiziaria? Se non usciamo da questa pietosa ipocrisia, non verremo mai a capo di ciò che è accaduto. Ci sono strutture investigative che si muovono random sotto la coltre della vita pubblica e raccolgono informazioni, sviluppano sospetti, attivano indagini. La loro pervasività negli ultimi decenni è aumentata esponenzialmente come riflesso del potenziamento tecnologico. E la loro tendenza a muoversi fuori controllo è tanto più forte quanto più si collocano in una burocrazia pubblica cresciuta oltre i compiti e le ragioni per cui è stata pensata e costruita. Prendere sul serio questa vicenda vuol dire interrogarsi per la prima volta in maniera seria su che cosa è diventata l’Antimafia nella nostra democrazia, se e in che misura ha adempiuto al suo compito, qual è oggi la sua funzione e quali effetti collaterali produce per la società, che rapporto ha con la crisi della giustizia italiana e quali sono i vantaggi, o piuttosto i rischi, di una sua ulteriore espansione. Una risposta a queste domande è esattamente ciò che i discorsi di Melillo e Cantone in Parlamento rischiano di eludere. Ma è ciò che ha proposto un giurista e intellettuale indipendente come Sabino Cassese, e che noi intendiamo qui rilanciare. Lo scandalo di questi giorni racconta che il Grande Vecchio altro non è che l’implosione di un sistema, pensato e costruito a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso per combattere un’organizzazione piramidale, innervata nella società, capace di seminare impunemente violenza e morte, un anti-Stato dotato di una sua soggettività politica e di un’autorità avvertita come una minaccia nella comunità, un’interfaccia economica in grado a suo modo di produrre ricchezza criminale e distribuire assistenza, una cultura concorrente, e talvolta egemone, rispetto a quella civile, dotata di miti fondativi, rituali iniziatici e pseudo valori assistiti da una retorica. Nel frattempo la cosiddetta guerra di mafia è finita, la minaccia della criminalità è evoluta in qualcosa di molto diverso dalla cupola di Totò Riina, ma il sistema di contrasto messo in piedi ha continuato a crescere nella burocrazia pubblica seguendo un disegno inattuale e accentuando i limiti che già erano emersi al tempo di Giovanni Falcone. L’Antimafia oggi nella democrazia italiana è un carrozzone autoreferenziale e, per certi versi parassitario, che attraversa la giustizia, la politica, gli apparati dello Stato, le libere professioni e perfino il volontariato, che drena e distribuisce un’immensa quota di risorse pubbliche e private, e che utilizza una retorica emergenziale per legittimare e giustificare la sua ragion d’essere. Con l’aggiunta di un limite che, da un punto di vista strettamente investigativo, rappresenta un marchio d’origine: la procura nazionale non ha un effettivo potere di coordinamento sull’attività delle singole procure. Il procuratore agisce come un rappresentante istituzionale, accomoda i conflitti che puntualmente sorgono tra i singoli centri territoriali di investigazione, ma non si ricorda negli ultimi anni una sola grande inchiesta che abbia visto protagonista la Direzione nazionale antimafia. Non è un caso che Melillo si dolga in Parlamento con la procura di Roma, poiché la prima comunicazione di un’inchiesta sugli accessi abusivi dai computer di “Via Giulia” non giunge a lui, ma solo a uno dei magistrati del suo ufficio, Antonio Laudati, che si guarda bene dall’informare subito il procuratore. Dietro questo deficit informativo c’è l’imprinting di un’azione penale che vede ancora le singole procure muoversi in totale autonomia. Che fa una struttura inquisitoria tanto potenzialmente potente, quanto sostanzialmente improduttiva, perché non direttamente coinvolta nelle investigazioni? La risposta ce la dà uno smanettatore professionale come il luogotenente della Finanza Pasquale Striano, funzionario di fiducia dei vertici della Direzione nazionale antimafia fino ai giorni dello scandalo. Trasforma l’ufficio in una sorta di servizio segreto “a la page”. S’interfaccia con altri poteri della democrazia mediatica e fornisce informazioni a richiesta. Tra i suoi clienti ci sono ovviamente giornalisti, ma non solo. Perché nel circuito ristretto di relazioni che fa la microfisica del potere capitolino si muovono faccendieri e portatori di interessi più diversi, che vanno dalla politica all’impresa, dallo spettacolo allo sport. E c’è soprattutto il ruolo crescente degli apparati di polizia giudiziaria, a cui la tecnologia negli ultimi dieci anni ha messo in mano superpoteri. In quanto tecnocrazie, questi apparati non rispondono a una finalità propriamente ideologia, ma piuttosto a un’ideologia del potere in quanto tale. Come finirà? Siamo pronti a scommettere che l’esito di questa vicenda sarà un patteggiamento, secondo uno schema che ormai si ripete da anni. Nel 2017 gli atti riservati d’indagine della procura di Roma contro il cosiddetto sistema Messina, che coinvolgeva magistrati, imprenditori e i due avvocati faccendieri Amara e Calafiori, finiscono nelle mani degli indagati prima ancora di essere depositati. La fonte della fuga di notizie è un oscuro carabiniere, Francesco Loreto Sarcina, spia autodidatta che, per arrotondare la pensione, ha deciso di mettere a frutto le sue conoscenze nel sottobosco investigativo, che ha frequentato per decenni come sottufficiale dei Servizi segreti. Patteggerà la pena senza che nessuno dei suoi clienti sarà mai coinvolto da un’indagine. Due anni dopo, le intercettazioni di Luca Palamara, con cui si sorveglia prima e si ribalta poi la maggioranza del Csm, transitano sottotraccia in un reticolo di rapporti paraistituzionali che coinvolgono strutture investigative, procure, correnti della magistratura e vertici dello Stato, per cadere poi a pioggia nelle pagine dei giornali e scatenare lo tsunami in un organo di rilevanza costituzionale. Uno degli spifferi accertati è il cancelliere perugino Raffaele Guadagno, le cui opache relazioni con i magistrati della procura umbra apprendiamo in questi giorni dalle cronache di Giacomo Amadori su “La Verità”. Anche Guadagno ha patteggiato una risibile pena e c’è da giurare che l’inchiesta sulla fuga di notizie che ha terremotato cinque anni fa la giustizia italiana si fermerà a lui. Ma se il sistema della burocrazia investigativa cauterizza le sue falle per evitare il collasso, lasciando però che il pus cresca all’interno dell’organismo, la democrazia può fare di più. E iniziare a discutere di un fenomeno comune a tutte le vicende qui narrate: potremmo definirlo una diplopia del potere, cioè uno strabismo per cui il potere non si esercita solo all’interno delle istituzioni, ma anche attorno a queste, in forme meno visibili quando non del tutto occulte. Con l’effetto di svuotare la sostanza della loro dialettica interna e di degradare i loro processi formali. Questa discussione ha un punto di partenza ineludibile, e cioè la domanda su che cosa sia diventata la polizia giudiziaria negli ultimi anni, a partire da quella più potente dell’Antimafia. Ci tocca chiedercelo e tentare una risposta, senza più reticenze, timori reverenziali o preoccupazione di compiacere chi vuole convincerci della sua intangibile indispensabilità. Chiederselo non vuol dire azzoppare la capacità investigativa delle procure e la strategia di prevenzione che, nella lotta al crimine organizzato e al terrorismo, si rivela indispensabile. Ma vuol dire sorvegliare il rischio che, in nome della prevenzione, le investigazioni impongano alla democrazia un racconto del sospetto, di cui lo scandalo dei dossier pare un sinistro esempio. Coinvolgere il Parlamento sui limiti dei poteri eccezionali che la tecnologia e le nostre leggi hanno consegnato ad apparati della sicurezza sarebbe una doverosa risposta politica, di fronte alla gravità di ciò che è sotto i nostri occhi. Non si tratta di cancellare l’Antimafia, ma di smettere di considerarla un totem. Purtroppo il governo ha silenziato ancora una volta il guardasigilli Carlo Nordio, che proponeva una commissione parlamentare sui fatti di Perugia, e ha lasciato che a discutere degli eccessi dell’Antimafia sia la Commissione parlamentare Antimafia. Perché sa che il miglior modo per proteggersi dalle incursioni giudiziarie e far sì che il grande incendio deflagri dov’è scoppiato. Contro certi poteri, si sa, la politica non ha che strategie difensive. Chi paga per il flop delle inchieste giudiziarie? Nessuno di Lorenzo Zilletti Il Riformista, 13 marzo 2024 Il 2 ottobre 1983 cadeva di domenica. Dalle mura del carcere di Bergamo, affidate ad una lettera alla compagna, escono parole disperate: “Solo tre categorie di persone (ho scoperto) non rispondono dei loro crimini: i bambini, i pazzi e i magistrati”. Molti avranno riconosciuto, nell’autore di quel terribile j’accuse, Enzo Tortora, ancora all’inizio della sua dolorosa via crucis. Se oggi lo citiamo, non è però per parlare della vergogna giudiziaria del suo caso, immortale come la “Storia della colonna infame”. Né per mettere sullo stesso piano quelli che lui definiva “crimini” con le disinvolte approssimazioni e l’insostenibile leggerezza che accompagnano troppo sovente l’avvio di inchieste penali, prima; l’esercizio dell’azione penale, dopo. Ordigni formidabili, capaci di travolgere vite, famiglie, patrimoni, imprese e perfino governi. Ordigni le cui schegge impazzite, propagate con la forza travolgente di media e social media, arrecano ferite insanabili, anche dalla più limpida delle assoluzioni. Evochiamo Tortora, perché a distanza di più di quarant’anni dallo show del suo arresto quasi nulla è cambiato in questo Paese. Un referendum e due leggi sulla responsabilità civile dei magistrati hanno lasciato intatto un privilegio, alieno e opposto al principio su cui si reggono i sistemi democratici: ad ogni potere dovrebbe corrispondere una responsabilità. Dalle nostre parti, invece, ci si ostina a difendere un fortino di irresponsabilità, quando chi sbaglia gravemente indossa la toga del magistrato. L’argomento principe è che lo spettro di sanzioni inibirebbe la sacrosanta caccia ai reati, specie quelli dei cd. potenti (il nuovo tipo d’autore: politici, imprenditori, white collars, ecc.), favorendone l’impunità. Se è vero che inibire è termine polisenso, il cui significato non è quello esclusivo di vietare bensì anche di frenare, l’adozione di misure idonee a prevenire l’avventurismo di certe iniziative giudiziarie, specialmente quelle del pubblico ministero, farebbe del nostro sistema penale lo specchio dell’art. 27 della Costituzione: da principio di carta, la presunzione d’innocenza evolverebbe finalmente in realtà effettuale. Un faro, la cui luce dovrebbe sempre guidare chi -alle condizioni dovute- legittimamente si accinga a invadere il terreno dell’altrui libertà personale (lo è già la semplice iscrizione nel registro notizie di reato). Chi tenga al rispetto delle regole, vuole inquirenti che indaghino e giudici che sentenzino, consapevoli però dell’enormità delle conseguenze del loro attivarsi e pronti a “pagare” come qualsiasi altro consociato per le proprie inescusabili manchevolezze. L’esperienza post-Tortora ci ha insegnato che la responsabilità civile non funziona: invalicabili asticelle per l’ammissibilità delle domande risarcitorie; impraticabilità di una responsabilità diretta del magistrato; giurisdizione fin troppo domestica; ripartizione del costo risarcitorio su ogni cittadino, nei rarissimi casi di riconosciuta responsabilità dello Stato per il fatto del singolo magistrato, suggeriscono di non confidare in questo rimedio. Identico ragionamento vale per la responsabilità disciplinare: ogni anno più del 90% degli esposti viene direttamente archiviato dal Procuratore Generale e la tipologia delle sanzioni inflitte dal CSM vede prevalere di gran lunga quelle più blande di ammonimento e censura. Resterebbe la strada della valutazione di professionalità, per l’avanzamento in carriera, su cui far pesare certe condotte a testa bassa, spesso reiterate verso i medesimi bersagli. La timidezza della proposta Cartabia innescò addirittura lo sciopero degli interessati, dal seguito modesto ma dall’impatto frenante. Urticava l’idea del fascicolo per la valutazione del magistrato, avversandosi controlli che non fossero meramente a campione, i soli tollerati. Il nuovo governo ha cercato di assecondare i desiderata di ANM, ma dovrà confrontarsi con i pareri rilasciati dalle commissioni parlamentari, favorevoli a verifiche più ampie. Insomma, la linea Maginot dei magistrati è quella del campione. Del resto, loro, i campioni dell’inchiesta su Tortora li elessero al CSM. Estradarlo in Israele (dove è ricercato) non si può, così lo mettono in carcere in Italia di Frank Cimini L’Unità, 13 marzo 2024 In quel Paese Anan Yaeesh, palestinese, avrebbe rischiato la tortura. Hanno messo in piedi una operazione antiterrorismo per tenerlo in cella qui senza esporsi con Tel Aviv. Dal momento che non potevano estradarlo in Israele dove avrebbe rischiato la tortura anche secondo organismi internazionali, hanno messo in piedi una operazione antiterrorismo firmata dal Gip dell’Aquila per tenerlo in carcere qui. Lui è Anan Yaeesh messo in prigione insieme ad altri due palestinesi con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata al terrorismo internazionale. Domani sarà sentito per l’interrogatorio di garanzia, oggi toccherà agli altri due. Dice l’avvocato Flavio Rossi Albertini che lo assiste: “Erano sufficienti gli argomenti difensivi per dichiarare l’inestradabilità di Anan ovvero la discriminazione giuridica e giudiziaria che subiscono i palestinesi in Israele, la violazione sistematica e impunita dei loro diritti umani. Ciò rendeva impraticabile la procedura di estradizione”. “I rapporti della relatrice speciale dell’Onu per i diritti umani in Palestina e quelli di Amnesty e Human Rights dimostrano quanto da noi sostenuto - continua il legale - l’arresto di Anan per un procedimento intentato dall’Italia consente ai giudici della corte di appello dell’Aquila di negare l’estradizione sul presupposto che il Paese richiesto procede per gli stessi fatti per cui si invoca l’estradizione. In questo modo hanno evitato di diversi esporre e esprimersi su argomenti quantomeno imbarazzanti per il fedele alleato mediorientale”. Khaled El Qaisi, cittadino Italo-palestinese recentemente fermato in Israele e poi liberato, presente alla manifestazione in solidarietà con Anan a L’Aquila parla di “bolla mediatica” come sta scritto anche su uno striscione. “Evidentemente questo governo - aggiunge - va a cercare tecnicismi per poi rifiutare l’estradizione. La Cisgiordania è un territorio occupato e il diritto alla resistenza è sancito dal diritto internazionale”. Pavia. Il trapper Jordan Jeffrey Baby si impicca in carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 marzo 2024 Era rientrato in cella dopo la sospensione dell’affidamento terapeutico. Aveva già tentato il suicidio e denunciato di aver subito maltrattamenti. E a Secondigliano si è tolto la vita un senza fissa dimora di 33 anni. Il trapper Jordan Jeffrey Baby, all’anagrafe Jordan Tinti, si è suicidato in una cella del carcere di Torre del Gallo a Pavia, dove stava scontando una pena a 4 anni e 4 mesi. Il cadavere del 27enne è stato trovato con una corda intorno al collo. Già nel 2023 il trapper aveva provato due volte a togliersi la vita: un primo tentativo di suicidio era stato sventato dalle guardie penitenziarie a fine gennaio 2023, e anche quella volta era stato trovato con un cappio al collo. Una cosa che si era ripetuta di nuovo poche settimane dopo. All’epoca il suo legale, l’avvocato Federico Edoardo Pisani, aveva dichiarato: “Purtroppo è caduto nello sconforto più totale dopo l’ennesimo riscontro negativo del Tribunale, è arrivato al limite sia fisico che soprattutto psicologico”. Per l’avvocato Federico Pisani si trattava di una “situazione ormai insostenibile. Peraltro qualche settimana fa il mio cliente aveva subito una violenza in cella di cui ha presentato denuncia. Ho fatto notare tutti questi aspetti al giudice, che però ha rigettato nuovamente la mia richiesta. Non chiedo la scarcerazione, ma che la detenzione continui ai domiciliari. Una misura che non solo garantirebbe la sicurezza e l’incolumità di Jordan, ma anche una maggior serenità al padre. Da quando è entrato in carcere Jordan si è sempre comportato correttamente, inoltre ha presentato dichiarazioni spontanee ai giudici e si è offerto di corrispondere un risarcimento alla vittima: come si fa non tenere in considerazione tutti questi aspetti?”. Nell’aprile 2023 Jordan era stato riconosciuto colpevole di rapina aggravata dall’odio razziale, ai danni di un operaio di 42 anni originario della Nigeria. L’aggressione era avvenuta in un sottopassaggio della stazione di Carnate (Monza e Brianza). L’episodio, aggravato da insulti razzisti, era stato filmato e il video era stato pubblicato su YouTube. Insieme a lui aveva partecipato alla rapina anche il trapper romano Traffik (nome d’arte di Gianmarco Fagà), condannato a cinque anni e quattro mesi. I due avevano sottratto la bici e lo zaino all’uomo. Tre mesi fa Jordan Tinti era stato trasferito in una comunità pavese, dopo aver ottenuto l’affidamento terapeutico. La misura era però stata sospesa perché “nella sua stanza sarebbero stati trovati un cellulare e delle sigarette, che però non è certo fossero di sua proprietà”, come ha spiegato dall’avvocato Federico Edoardo Pisani a Fanpage. Poi il ritorno nello stesso carcere in cui aveva denunciato di aver subito maltrattamenti e dove aveva tentato il suicidio: “È stato violentato e maltrattato. Ci sono due procedimenti in Tribunale a Pavia. In uno siamo costituiti parte civile. Nell’altro ci siamo opposti alla richiesta di archiviazione”, aveva dichiarato il legale. L’avvocato Pisani aggiunge: “L’ho sentito al telefono ieri pomeriggio alle 17 e ci siamo lungamente parlati e l’ho rassicurato. Invece stamattina mi ha telefonato suo padre in lacrime dicendomi che era morto. Jordan aveva solo bisogno di essere aiutato. Era vittima dello stesso personaggio che si era costruito. Era una delle persone più educate che io avessi mai conosciuto”. Nel carcere di Pavia in questi anni molte persone si sono tolte la vita: 6 nel 2022 dopo altri 3 in rapida sequenza negli ultimi mesi del 2021. I sindacati della Polizia penitenziaria lamentano sia i rischi per il personale sia le carenze d’organico. Il suicidio di Jordan Tinti non è l’unico nella giornata di ieri. Nel carcere di Secondigliano si è tolto la vita un detenuto straniero, Robert di 33 anni. È il quinto in Campania, da inizio 2024. Come rileva il Garante campano delle persone private della libertà personale, Samuele Ciambriello: “Il tasso di suicidi in carcere è 20 volte superiore ai suicidi delle persone libere. Occorrono risposte concrete qui e ora, prima che ci sia l’irreparabile. Ciambriello aggiunge: “Le motivazioni che spingono al suicidio sono molteplici. Robert L. era un senza fissa dimora entrato in carcere per omicidio. Era balzato agli onori della cronaca nell’agosto del 2019 per essere stato l’unico detenuto evaso dal carcere di Poggioreale in cento anni di storia. I suicidi in carcere sono anche il prodotto di un clima culturale e politico. Più il dibattito pubblico ritiene che il carcere sia un posto esterno alla società, da dimenticare, senza non discutere mai di come cambiare le cose, mai riformarlo, mai attuare la Costituzione, peggio è. Infondo lo stigma e la solitudine di chi entra e di chi esce dal carcere uccidono di più degli edifici degradati. Se andiamo a vedere l’età delle persone che si sono tolte la vita in questi anni in carcere in Italia, la media è di meno di quarant’anni”. Con i suicidi di Jordan e di Robert sale drammaticamente il numero delle persone che si sono tolte la vita in carcere dall’inizio dell’anno: 23, considerando anche l’immigrato che si è suicidato nel Cpr di Roma il 6 febbraio. Napoli. Suicidio in carcere a Secondigliano, la vittima aveva 33 anni di Andrea Aversa L’Unità, 13 marzo 2024 È il quinto suicidio in Campania dall’inizio dell’anno. Un altro suicidio avvenuto tra le pareti di un carcere italiano. Questa volta il dramma si è consumata dentro una cella del penitenziario di Secondigliano. Secondo quanto comunicato dal Garante per i diritti de detenuti Samuele Ciambriello, la vittima si chiamava Robert Lisowski, aveva 33 anni. Ha scritto Ciambriello: “Il giovane era un senza fissa dimora entrato in carcere per omicidio. Era balzato agli onori della cronaca nell’agosto del 2019 per essere stato l’unico detenuto evaso dal carcere di Poggioreale in cento anni di storia”. Suicidio in carcere a Secondigliano - Questo è stato il quinto suicidio avvenuto in Campania dall’inizio dell’anno. Il 21esimo gesto estremo accaduto nelle carceri italiane dal primo gennaio. Il tragico bilancio si aumenta (22) se consideriamo il suicidio successo nel Cpr di Roma. Numeri assurdi, una vera e propria mattanza di Stato contro la quale la politica è incapace di trovare soluzioni. “Il tasso di suicidi in carcere è 20 volte superiore ai suicidi delle persone libere. Occorrono risposte concrete qui e ora, prima che ci sia l’irreparabile”, ha affermato Ciambriello. “Le motivazioni che spingono al suicidio sono molteplici - ha spiegato Ciambriello - i suicidi in carcere sono anche il prodotto di un clima culturale e politico. Più il dibattito pubblico ritiene che il carcere sia un posto esterno alla società, da dimenticare, senza non discutere mai di come cambiare le cose, mai riformarlo, mai attuare la Costituzione, peggio è. Infondo lo stigma e la solitudine di chi entra e di chi esce dal carcere uccidono di più degli edifici degradati. Se andiamo a vedere l’età delle persone che si sono tolte la vita in questi anni in carcere in Italia, la media è di meno di quarant’anni. Teramo. Detenuto di 20 anni si suicida in carcere nel giorno del suo compleanno di Tito Di Persio Il Messaggero, 13 marzo 2024 Patrick Guarnieri aveva violato l’obbligo di dimora a Giulianova. Prima di arrivare a Castrogno era finito al pronto soccorso, dove la madre (anche lei detenuta) due giorni prima aveva aggredito una dottoressa dopo aver minacciato il suicidio con una lametta. Era entrato in carcere lunedì nel tardo pomeriggio, dopo essere passato per il pronto soccorso dell’ospedale Mazzini di Teramo per un malore accusato dopo l’arresto. Patrick Guarnieri, 20 anni, si è ucciso nella cella di Castrogno dove era rinchiuso, proprio nel giorno del suo compleanno. Gli agenti penitenziari nulla hanno potuto se non rimuoverlo dalla fatale posizione in cui l’hanno trovato, impiccato con un lenzuolo all’inferriata della finestra. Sua madre, detenuta anche lei a Castrogno, il giorno prima dell’arresto di Patrick, aveva messo a soqquadro il pronto soccorso del Mazzini e aggredito una dottoressa che la stava medicando: si era ferita con una lametta minacciando di tagliarsi la gola ma era stata fermata dalle agenti del penitenziario teramano. Guarnieri, nonostante la giovane età, aveva purtroppo un curriculum già corposo di violazioni del vivere civile. Era all’obbligo di dimora a Giulianova, per una serie di furti commessi in precedenza. Era stato arrestato già a Milano e a Napoli, dove aveva rubato portafogli a clienti di una banca e nell’altro caso passepartout della camere di un hotel, che poi aveva ‘ripulito’, ma tracce se ne trovano anche a Roma, di recente, nei verbali di denuncia della Polizia di Stato. Lunedì, i carabinieri della compagnia di Giulianova lo hanno prelevato nella sua abitazione per notificargli la revoca dell’obbligo di dimora, decisa dal giudice sulla base delle ripetute violazioni. Nel corso del trasferimento da Giulianova a Castrogno, aveva accusato un malore non meglio identificato, forse uno stato di ansia, e i carabinieri secondo procedura lo avevano portato in ospedale dove il 20enne è stato visitato e sottoposto ad accertamenti che non avrebbero evidenziato patologie o situazioni cliniche non compatibili con la carcerazione, per cui ha fatto il suo ingresso a Castrogno qualche ora dopo. Questa mattina la tragica scoperta. E’ il terzo suicidio in un anno anno nel penitenziario sulle colline della città, al centro di antiche polemiche per la carenza di personale di custodia e per il sovraffollamento. Alla fine di gennaio si era tolto la vita un detenuto macedone in attesa di giudizio per il femminicidio della moglie e a marzo dello scorso anno si era suicidato un detenuto nordafricano. Lecce. Muore in carcere il boss della Romanina Ferruccio Casamonica di Valeria Di Corrado Il Messaggero, 13 marzo 2024 Il suo legale aveva chiesto ad ottobre la detenzione domiciliare date le condizioni di salute del 73enne, l’udienza in Tribunale di Sorveglianza si sarebbe dovuta svolgere domani. È morto ieri nella Casa circondariale di Lecce Ferruccio Casamonica, considerato al vertice del clan che aveva la sua base logistica alla Romanina e condannato lo scorso 29 dicembre dal tribunale capitolino a 25 anni di reclusione per associazione mafiosa nel processo “Noi proteggiamo Roma” e imparentato con Vittorio Casamonica, del famoso funerale in stile padrino. La procura ha disposto l’autopsia. Il suo legale, l’avvocato Antonio Filardi, aveva chiesto ad ottobre la custodia ai domiciliari date le condizioni di salute del 73enne, diabetico e affetto da una demenza senile. Ma il magistrato di sorveglianza di Lecce lo scorso 26 gennaio aveva risposto che “le pur precarie condizioni di salute del condannato, peraltro sufficientemente gestite in ambito inframurario, non possono comunque giustificare la sua scarcerazione”, considerata la sua “caratura criminale” e “l’indubbio e grave rischio di condotte criminose di notevole allarme sociale”. Domani era stata fissata l’udienza al tribunale di sorveglianza di Lecce per decidere in via definitiva la richiesta di domiciliari presentata dal suo difensore. Ferruccio era finito in carcere a maggio del 2019 per una condanna definitiva a 5 anni per associazione a delinquere finalizzata all’usura e poi a giugno del 2020 era stato colpito dell’ordinanza di custodia cautelare della Dda di Roma, insieme alla moglie Gelsomina Di Silvio, al figlio Raffaele e ad altre 17 persone, 416bis finalizzato all’estorsione, all’usura e all’intestazione fittizia di beni. Nelle intercettazioni depositate agli atti, Ferruccio si esprimeva così nei confronti di un usurato: “Senti, mo scenno... lo sai dove te butto io a te? Mo te darei ‘na bastonata in testa, te spaccherei la testa! Le mascelle te romperebbi io!”. Lecce. Ritardo nella tac che accertò un tumore, a processo ex direttrice sanitaria del carcere di Veronica Valente lecceprima.it, 13 marzo 2024 Al vaglio della giudice, la morte di un detenuto avvenuta il 2 marzo del 2021. Per l’accusa, l’imputata avrebbe dovuto vigilare sulla prenotazione dell’approfondimento diagnostico richiesto tre mesi prima, a seguito dell’esame radiologico. L’esame radiologico del torace aveva sollevato la necessità di svolgere approfondimenti tramite la tac, ma quest’ultima sarebbe stata eseguita poco più di tre mesi dopo, evidenziando un tumore al IV stadio ai polmoni e metastasi diffuse che non avrebbero lasciato scampo al paziente. Dopo vari ricoveri, chemio e radioterapia, il suo cuore cessò di battere il 2 marzo del 2021. A rispondere di questa vicenda dal banco degli imputati sarà A.M., di 60 anni, all’epoca dei fatti direttrice sanitaria presso il carcere di Borgo San Nicola, dove per l’uomo, un 59enne di Bari, detenuto dal 2018, si appurò la necessità di procedere a un Rx toracica. L’esame fu eseguito il 29 gennaio del 2020 nel Poliambulatorio della Asl di Lecce e, stando alle indagini, coordinate dalla sostituta procuratrice Simona Rizzo, avviate a seguito della denuncia dei familiari, il malcapitato fu sottoposto alla Tac solo il 12 maggio successivo. Questo, in ragione del fatto che l’accertamento in questione sarebbe stato prenotato in ritardo, con l’effetto di appurare tardivamente anche la diagnosi e procedere tempestivamente alle terapie. In particolare, secondo l’accusa, contenuta nella richiesta di rinvio a giudizio, accolta ieri dalla Gup Anna Paola Capano, la direttrice sanitaria avrebbe avuto, tra i suoi doveri, quelli di coordinare e controllare l’operato dei medici di sezione di turno che si erano succeduti nella cura del paziente. Sarà dunque il processo che si aprirà il prossimo 18 settembre dinanzi alla giudice del tribunale di Lecce Annalisa De Benedictis ad accertare se la negligenza attribuita all’imputata sia fondata e se questa abbia poi realmente concorso a determinare il decesso dell’uomo. La difesa, rappresentata dagli avvocati Luciano De Francesco e Andrea Starace, è fiduciosa di dimostrare a dibattimento che la donna abbia rispettato i protocolli e i regolamenti interni e che il ritardo non fosse addebitabile alla direzione. In aula ci saranno anche i familiari del defunto che ieri si sono costituiti parte civile con l’avvocato Gaspare Sanseverino del foro di Bari. Reggio Emilia. Torture su un detenuto, il Garante dell’Emilia-Romagna sarà parte civile ansa.it, 13 marzo 2024 Il garante regionale dei detenuti della Regione Emilia-Romagna, Roberto Cavalieri, si costituirà parte civile nell’udienza preliminare, giovedì 14 marzo a Reggio Emilia, per dieci agenti di polizia penitenziaria accusati, a vario titolo, di tortura, lesioni e falso. L’episodio è del 3 aprile 2023 e gli agenti sono accusati di aver incappucciato con una federa stretta al collo, sgambettato, denudato e picchiato con calci e pugni, anche quando era in terra, e calpestato un detenuto tunisino. Nella seconda fase del pestaggio il detenuto fu portato in cella, nuovamente picchiato e lasciato completamente nudo dalla cintola in giù per oltre un’ora, malgrado nel frattempo si fosse ferito e sanguinasse. Quello che avvenne è documentato dai video delle telecamere interne del carcere, agli atti dell’inchiesta. A inizio febbraio erano state annunciate ispezioni da parte del Garante nazionale dei detenuti sull’intero istituto detentivo. Tre imputati, due viceispettori e un assistente capo, rispondono di falsità ideologica commessa da pubblico ufficiale per aver attestato circostanze false nelle relazioni di servizio, al fine di ottenere l’impunità. Modena. La Garante comunale: “In carcere 71 colloqui individuali in sei mesi” Il Resto del Carlino, 13 marzo 2024 La criminologa De Fazio, Garante per il Comune di Modena dei diritti dei detenuti, ha svolto 71 colloqui individuali nel carcere di Sant’Anna, promuovendo corsi professionalizzanti come sartoria e pasta fresca per favorire la riabilitazione e l’inserimento lavorativo. In sei mesi di attività 71 colloqui individuali con detenute e detenuti del carcere di Sant’Anna, attenzione all’avvio e al potenziamento di corsi professionalizzanti, come quelli di sartoria e di produzione di pasta fresca, e iniziative, come quella in programma ad aprile, dedicata al trattamento dei ‘sex offenders’, a cui il penitenziario riserva una specifica sezione. Sono i principali aspetti emersi dalla relazione della criminologa Giovanna Laura De Fazio, a sei mesi dalla sua nomina a Garante per il Comune di Modena dei diritti delle persone private della libertà personale. Il documento è stato illustrato in Commissione Servizi nella seduta di ieri presieduta da Vittorio Reggiani (Pd), a cui hanno preso parte anche l’assessora alle Politiche sociali Roberta Pinelli e la dirigente del Settore Servizi sociali, sanitari e per l’integrazione Annalisa Righi. L’intervento di De Fazio, eletta lo scorso luglio dal Consiglio comunale, dopo un percorso avviato nel 2021, ha riguardato soprattutto, appunto, l’attività nel carcere di Sant’Anna, svolta in collaborazione con la rete territoriale dei Garanti regionali e comunali e con altre istituzioni del territorio, come Unimore, con cui si è stabilita l’attivazione di due tirocini, attualmente in corso, presso l’ufficio della Garante. In particolare, sono stati 71 i colloqui individuali svolti nel carcere di Sant’Anna, più uno di gruppo con le detenute del corso di sartoria. Nella maggior parte dei casi, gli incontri sono stati richiesti dagli stessi detenuti su problematiche di vario tipo, riguardanti, per esempio, il rapporto con i figli o la possibilità di ottenere un lavoro all’interno o all’esterno del carcare anche per poter aiutare i propri familiari. Proprio a questa richiesta rispondono i corsi professionalizzanti già avviati, come quello di produzione di pasta fresca per la sezione maschile e uno di sartoria per quella femminile. L’obiettivo è di rendere queste esperienze vere e proprie attività lavorative interne, per migliorare le capacità economiche dei detenuti e quindi anche l’accesso a prodotti come quelli sanitari e di cura della persona, specie per le donne. Messina. Emergenza carceri, i Radicali: “A Gazzi servono personale e assistenza sanitaria” Alessandra Serio tempostretto.it, 13 marzo 2024 Il carcere messinese ha una capienza di 300 posti, 90 oggi però sono inagibili per i lavori di ristrutturazione in corso. Oggi detenuti ce ne sono 209, 175 uomini e 34 donne. Una cinquantina di loro lavora fuori dal carcere. Una di loro ha un figlio di 2 anni che sta vivendo i suoi primi anni all’interno delle mura di una cella e ci sono diversi soggetti che soffrono di patologie serie e faticano a curarsi adeguatamente. Tutti hanno confermato ad Elisabetta Zamparutti e Sergio d’Elia di Nessuno Tocchi Caino che, rispetto alle altre strutture dove sono stati rinchiusi e in particolare rispetto agli altri carceri siciliani, a Messina vivono meglio. Qui l’acqua calda è disponibile h24, le celle sono in condizioni strutturalmente adeguate, sono dotate di bagni, di riscaldamento ed in molte ci sono anche i frigoriferi, il cibo è di qualità sufficiente. Insomma a Messina, come conferma la direttrice Angela Sciavicco: “I detenuti riescono a soddisfare i loro bisogni primari, una cosa purtroppo non scontata in altre strutture, malgrado siamo nel 2024?. Anche la pianta organica degli agenti penitenziari e del resto del personale è coperta. Ma non è adeguata, se si considera che a Messina ci sono diversi “circuiti” penitenziari: c’è il settore dell’alta sicurezza femminile, c’è la media sicurezza, c’è il così detto settore ex articolo 32, ovvero i detenuti trasferiti a Messina perché hanno “creato problemi” in altre carceri o che per motivi di sicurezza specifici non possono stare in altri “bracci”. Ogni circuito richiede un tipo di controllo diverso e specifici interventi di supporto rieducativo e di risocializzazione. Una complessità che richiederebbe quindi un numero di personale maggiore, sia a livello di agenti penitenziari che di educatori e operatori. “Non siamo in sovraffollamento perché sulla carta ci sono meno detenuti della capienza - sottolinea Elisabetta Zamparutti - ma siamo al limite se si considera l’inagibilità di alcune celle e i diversi regimi. Di fatto la maggior parte dei detenuti resta nella cella, condivisa con altre 5 persone, circa 19, 20 ore al giorno”. A Gazzi c’è anche un centro clinico, tanto che alcuni detenuti sono stati trasferiti a Messina proprio per avere accesso ad una data cura. Che però ancora attendono, come hanno raccontato agli esponenti dell’associazione. Perché l’assistenza sanitaria è l’altra criticità grossa, evidenziata anche dai delegati della Camera Penale, gli avvocati Gianfranco Briguglio, Maria Puliatti, Alessandro Faramo, Denise Zullo e Andrea Magrofuoco, in rappresentanza della commissione permanente carceri istituita dalla Camera penale per vigilare sull’emergenza carcere. Da quando l’amministrazione penitenziaria centrale ha rinunciato ad assumere e gestire proprio personale medico, infatti, l’assistenza sanitaria dei detenuti è passata all’Asp, con tutti i problemi che ciò comporta. Perché se è sempre più difficile curarsi per un normale cittadino, figurarsi per chi vive ristretto e non ha neppure una “corsia” riservata. Carcere femminile senza ginecologo - “Nel centro clinico abbiamo incontrato un giovane medico alla sua prima esperienza in assoluto nella professione - racconta D’Elia - il che la dice lunga su quello che è la difficoltà nelle carceri italiane in generale a fornire adeguata cura”. “E’ difficile trovare medici che vogliano lavorare nel pubblico, è un problema generale che si ripercuote a cascata anche sul carcere - conferma la direttrice - Figurarsi quanto può essere complicato trovare sanitari motivati a venire in carcere. Si è persa poi la specializzazione che un pool di personale alle dirette dipendenze dell’amministrazione penitenziaria aveva invece contribuito a formare. Perché un detenuto malato di una data patologia è diverso da un malato della stessa patologia che però in più non patisce la detenzione, ha bisogno di cure diverse”. A Gazzi oggi visitano 14 specialisti, conferma la Zamparutti: “Anche se non abbiamo avuto la possibilità di capire in quali branchie siano specializzati e quante ore operino, pare grave che in un carcere che abbia la sezione femminile manchi il ginecologo, essenziale per delle detenute”. L’assistenza piscologica - Anche l’assistenza psicologica e i progetti di socializzazione soffrono, hanno evidenziato i delegati della Camera Penale. Nel primo caso perché sono state ridotte drasticamente, quasi dimezzate, le ore finanziate per l’assistenza psicologica assicurata da specialisti esterni. Le attività rieducative e socializzanti sono inoltre assicurate grazie al sostengo di enti e associazioni esterne. “C’è una assenza di programmazione grave - sottolinea Zamparutti - dovuta al fatto che l’amministrazione centrale definisca le risorse a giugno, consentendo una programmazione soltanto tradiva delle attività e impedendo quindi di spendere più efficacemente le risorse che ci sono”. Crescere in carcere - “Vogliamo porre all’attenzione del neo nominato Garante per l’infanzia, in attesa del Garante dei detenuti, il caso del bimbo di 2 anni che sta crescendo in carcere con la madre - sottolinea Saro Visicaro, anche oggi in carcere insieme alla delegazione di Nessuno tocchi Caino - La mancanza di strutture idonee e alternative non sembra alla portata delle politiche sociali”. Novara. Suicidi in carcere, la Camera penale posiziona un totem in tribunale lavocedinovara.com, 13 marzo 2024 Solo nel 2024 se ne contano 24. È stato calcolato che ne avviene uno ogni 60 ore. La cerimonia è in programma il 19 marzo. Secondo il dossier pubblicato dal centro studi di Ristretti Orizzonti, la rivista nata all’interno della casa circondariale di Padova, a oggi, 13 marzo, i suicidi nelle carceri italiane avvenuti nel 2024 sono 24, 53 le morti complessive. È stato calcolato che ne avviene uno ogni 60 ore. Numeri impressionanti se si pensa che sono trascorsi solo due mesi e mezzo dall’inizio dell’anno. Dal 2014 il “record” è stato raggiunto nel 2022 con 84 suicidi per un totale di 171 persone decedute in prigione. Non da meno il 2023 con 69 suicidi, 57 nel 2021, 61 nel 2020. Un tema sul quale l’Unione delle Camere penali, compresa quella di Novara, vuole nuovamente porre l’attenzione. “Nella civilissima Italia si muore in carcere e si muore di carcere - afferma il presidente Alessandro Brustia a nome del direttivo -. Si muore di un’istituzione che impone allo Stato obblighi di custodia che vengono costantemente dimenticati e forse volutamente pretermessi, nel momento in cui si concepisce il carcere come una discarica sociale e come spauracchio da agitare ferocemente a mero scopo di consenso politico. Nelle carceri italiane, sovraffollate e fatiscenti, la pena è scontata in modo inumano e degradante, senza alcuna seria e concreta possibilità di rieducazione. Una violazione della Costituzione tanto smaccata quanto drammatica negli esiti”. Per questi motivi la Camera Penale di Novara aderisce convintamente all’astensione deliberata per il 20 marzo. Il giorno prima, il 19, alle 9.30 al piano terra del tribunale, di fronte all’aula collegiale, verrà posizionato un totem con il conteggio progressivo dei suicidi in carcere. “Questo per rendere manifesto a tutti i cittadini che di fronte a questa vera e propria vergogna nazionale non c’è più tempo” conclude Brustia. Milano. L’infanzia che incontra il carcere imgpress.it, 13 marzo 2024 Per la prima volta in Italia il protocollo fra il Tribunale di Milano e Bambinisenzasbarre per la tutela dei figli di genitori detenuti nel periodo di attesa di giudizio, spesso molto lungo e complesso. Il 20 marzo 2024 viene firmato il Protocollo di Intesa tra Tribunale di Milano e l’Associazione Bambini senza sbarre Ets, che definisce come promuovere e attivare interventi di attenzione e cura per i bambini che entrano in carcere per incontrare il genitore e mantenere il legame durante il periodo di attesa di giudizio, spesso lungo e difficile per la separazione da sostenere. Il Tribunale è il primo interlocutore delle famiglie per ottenere l’autorizzazione ad accedere in carcere per lo svolgimento della prima visita con il genitore detenuto. Il Protocollo impegna il Tribunale Ordinario di Milano, contestualmente al rilascio dei permessi di visita ai familiari, ad informare le famiglie che possono accedere a servizi di supporto senza oneri economici per essere accompagnate in particolare ad affrontare il primo ingresso dei bambini negli istituti penitenziari in occasione della visita al genitore detenuto. Il Protocollo, per la prima volta in Italia, mette in evidenza questo momento cruciale di attenzione ai bambini coinvolti loro malgrado nella detenzione del genitore, e rappresenta un traguardo fondamentale per l’applicazione della “Carta dei diritti dei figli dei genitori detenuti” al compimento del suo decennale (2014-2024). La “Carta dei diritti dei figli dei genitori detenuti” (QUI), in progressiva applicazione nelle carceri italiane e non solo - e modello per quelle europee - indica, nei suoi nove articoli, le linee guida di come accogliere e seguire le decine di migliaia i bambini che entrano quotidianamente in carcere per mantenere la relazione genitoriale diritto sancito dalla Convenzione Onu sui diritti dell’Infanzia e dell’adolescenza (20 novembre 1989). Il Protocollo stabilisce che “Per raggiungere tempestivamente le famiglie prima che i figli minorenni accedano per la prima volta in un istituto penitenziario è raccomandato informare, all’atto del rilascio del permesso per il colloquio ordinario/straordinario: (1) che l’Associazione Bambinisenzasbarre ETS fornisce percorsi specialistici di consulenza e accompagnamento al primo ingresso in carcere senza oneri per le famiglie; (2) che le famiglie con figli minorenni che intendono attivare il percorso di consulenza possono rivolgersi a Bambinisenzasbarre tramite la linea telefonica dedicata “Telefono Giallo” al n. 392-99.38.324 oppure con una comunicazione via email all’indirizzo telefonogiallo@bambinisenzasbarre.org”. La famiglia deve sapere che può avere sostegno psicologico e informativo per prepararsi al primo colloquio e affrontare il periodo della carcerazione del genitore con un accompagnamento da parte di operatori preparati. La conoscenza preventiva delle procedure, dei regolamenti e dei vincoli diminuisce il senso di disorientamento e l’ansia generati dall’improvvisa separazione dal genitore arrestato e dall’impatto con il carcere che investe la famiglia e soprattutto i figli, in particolare nel periodo di incertezza e vuoto informativo che caratterizzano l’attesa di giudizio. Il Protocollo si inscrive nell’ambito dei lavori del Tavolo Regionale di Monitoraggio istituito nel giugno 2017 in collaborazione con il Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria per monitorare a livello locale l’applicazione della “Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti”. A rafforzare l’impatto della Carta - e del ruolo dell’Associazione a livello italiano ed europeo - si è anche imposta la Raccomandazione CM/Rec (2018)5, adottata ad aprile 2018 dal Consiglio d’Europa e rivolta al Comitato dei Ministri dei 46 stati membri. La Raccomandazione ha assunto come modello la Carta italiana. Ivrea (To). Lo spettacolo realizzato dai detenuti “Fine pena ora” diventa un podcast primailcanavese.it, 13 marzo 2024 Nato dal progetto “Della mia anima ne farò un’isola”. Simonetta Valenti insieme alla Casa Circondariale di Ivrea e all’associazione Assistenti Volontari Penitenziari “Tino Beiletti”, ha curato il progetto “Della mia anima ne farò un’isola”, dedicato ai detenuti e da cui è appena nato un podcast. “Il progetto - racconta - inizia a luglio 2023 e propone ai detenuti della sezione Collaboratori di Giustizia della Casa Circondariale la lettura del romanzo Fine pena ora, di Elvio Fassone. Nell’opera Fassone racconta lo scambio epistolare che avviene tra lui e un ragazzo che condanna all’ergastolo durante il maxi processo alla mafia catanese che si svolge a Torino nel 1985. Giudice ed ergastolano si scriveranno per ventisei anni senza mai incontrarsi e questo scambio cambierà per sempre le loro vite. Dall’affinità della storia narrata con l’esperienza di chi vive in carcere, ma soprattutto dalla richiesta degli stessi detenuti, nasce l’idea di trasformare l’esperienza del laboratorio nella lettura scenica di alcuni capitoli del testo, integrandola con le riflessioni dei detenuti stessi, in veste di attori/autori. Persone apparentemente non avvezze a scrivere hanno iniziato a mettere nero su bianco le proprie esperienze, leggendole poi prima a se stesse, poi agli altri e infine di fronte a un pubblico”. Un risultato eccezionale - “Qualcosa di miracoloso. D’altronde il teatro è un’esperienza di bellezza meravigliosa. Il risultato è un lavoro denso, profondo, dove ogni singola parola ha un valore inestimabile. A eccezione della voce narrante, l’unica femminile, tutte le altre sono quelle dei detenuti, che interpretano il giudice, l’ergastolano e se stessi. La concretezza di un vissuto raccontato in prima persona, le emozioni che traspaiono dalle loro voci, i propositi, le scelte, le sofferenze e soprattutto la ricerca di un riscatto sociale e personale sono la ricchezza del testo che ne è scaturito. La lettura scenica è stata presentata il 30 novembre e il 2 dicembre 2023, in carcere, davanti a un pubblico numerosissimo. Un’occasione unica per chi si è raccontato; per chi ha ascoltato un’opportunità per riflettere sul significato di pena e sull’importanza per la società intera, di offrire una prospettiva di recupero e di vita oltre le sbarre”. Il podcast - “In seguito al successo dell’iniziativa, abbiamo immaginato come poterla portare all’esterno, considerato che loro, in quanto collaboratori, non possono uscire dal carcere. In prima battuta abbiamo pensato alla voce, quindi alla realizzazione di un podcast prodotto da Fonderia Mercury con la regia di Sergio Ferrentino (direttore de L’Alba, il giornale redatto in carcere) e ora stiamo lavorando a un video, realizzato con Salt & Lemon, dove utilizzeremo le maschere. Vi chiediamo di far sentire il podcast: fatelo sentire, diffondetelo. Vogliamo che il messaggio portato dai detenuti circoli nel nostro mondo, che noi abitanti “al di qua del muro” sentiamo la loro voce e che chi vive “dentro” sappia che vogliamo ascoltarli”. Giusto celebrare la riforma Basaglia, ma occupandosi davvero dei malati psichici di Claudio Cerasa Il Foglio, 13 marzo 2024 La legge 180 fu un traguardo di civiltà, ma una norma tanto coraggiosa e innovativa avrebbe richiesto una adeguata organizzazione per renderla effettiva. Cioè per fornire un’assistenza sanitaria psichiatrica efficace fuori dalle istituzioni totali. Un aspetto che è tuttora carente. La ricorrenza del centenario della nascita di Franco Basaglia è stata ricordata dai media, che giustamente hanno attribuito alla sua tenace battaglia la legge che ha abolito i manicomi, con tutta la carica di oppressione e di abbandono che comportavano. La legge 180 del 1978 fu un traguardo di civiltà che fa onore all’Italia, ma questo non deve far trascurare il fatto che una riforma tanto coraggiosa e innovativa avrebbe richiesto una adeguata organizzazione che consentisse di fornire un’assistenza sanitaria psichiatrica efficace fuori da quelle strutture, o ancor più nelle famiglie che convivono col dramma della malattia psichica. Questa parte, invece, risulta tuttora gravemente carente. L’assistenza psichiatrica, in molte regioni, escluso il Friuli dove ci sono Centri di assistenza psichiatrica aperti tutti i giorni per 24 ore, è affidata ad ambulatori aperti poche ore al giorno, oppure a Centri di assistenza psichiatrica aperti solo per 12 ore al giorno nei giorni feriali. La maggior parte dei pazienti è affidata a residenze private convenzionate con le Asl che non sempre, per usare un eufemismo, garantiscono i livelli di cura necessari, mentre quelli meno giovani vengono spesso affidati alle Residenze per anziani, con l’effetto di non assicurare attenzione specialistica e di creare spesso disagi agli altri residenti. L’effetto di tutte queste carenze è che l’onere della assistenza grava soprattutto sulle famiglie, se ci sono, senza aiuti per affrontare situazioni di disagio proprio e altrui. Un modo serio per commemorare Basaglia sarebbe un esame attento delle condizioni reali dei malati psichiatrici e delle carenze del sistema sanitario. Il rischio è che altrimenti la preoccupazione per la presenza nella società dei portatori di queste patologie spinga a proteste erronaeamente rivolte non alle carenze di assistenza, ma a una riforma invece giusta. Se si vuole evitare il ritorno a forme costrittive e sostanzialmente carcerarie di “terapia” psichiatrica, non basta esaltare il carattere innovativo e liberatorio della riforma Basaglia, bisogna renderla effettiva. Educazione affettiva a scuola: mezzo secolo trascorso invano di Elisabetta Reguitti Il Fatto Quotidiano, 13 marzo 2024 Era il 13 marzo 1975. Sono passati quasi cinquant’anni e siamo ancora a quel giorno in cui il deputato del Partito comunista italiano Giorgio Bini presenta la proposta di legge numero 3584: “Iniziative per l’informazione sui problemi della sessualità nella scuola statale”. L’Italia è imbalsamata a quel 13 marzo, compreso l’utilizzo di una definizione fuorviante come “problemi della sessualità”. L’unico vero problema è che dopo mezzo secolo siamo tra i pochi in Europa a non avere alcun programma scolastico in materia; insieme a Cipro, Bulgaria, Polonia, Romania e Lituania. A ricordarlo - durante un’edizione del convegno nazionale dell’Associazione italiana per l’educazione demografica (Aied) - anche il presidente Mario Puiatti sottolineando come un’educazione sessuale a scuola possa agevolare uno sviluppo più consapevole delle emozioni di ogni relazione, soprattutto se si tratta della prima. L’unica scuola di educazione sessuale alla quale hanno pieno accesso i ragazzi italiani al momento è Internet con il rischio dei falsi miti sulla sessualità, alimentati dalla confusione tra finzione cinematografica della pornografia e la vita reale. Eppure non sono mancate le proposte di legge passate, tuttavia, direttamente dagli scranni parlamentari al dimenticatoio. L’ultima - in ordine temporale - è la numero 3100 del 7 maggio 2021 e fa riferimento, tra l’altro, all’indagine nazionale effettuata dal ministero della Salute nel 2019, nella quale è emerso come la famiglia rappresenti un contesto in cui difficilmente si affrontano argomenti come sessualità, infezioni sessualmente trasmissibili o contraccezione. “Quando si parla di affettività e sessualità vengono sollecitati meccanismi emotivi difensivi degli adulti - commenta e scrive Stefania Ascari del M5S, prima firmataria di questa proposta di legge - che inducono al silenzio con i figli e con gli alunni. Gli stessi silenzi da cui proveniamo, le medesime parole non dette che i nostri genitori e gli adulti di riferimento ci hanno riservato quando eravamo bambini e preadolescenti”. Il testo della proposta di legge presentato da Ascari è scritto senza usare il tipico, incomprensibile, burocratese della politica. È essenziale, chiaro e condivisibile: due soli articoli scritti con cognizione di causa ma anche partecipazione “umana” in cui si considera, peraltro prioritario “la divulgazione di informazioni anche di carattere sanitario e scientifico per la promozione della salute sessuale intesa come benessere psicologico della persona”. Per inciso: un ragazzo su quattro dichiara di avere rapporti sessuali non protetti. Educazione affettiva e sessuale nella scuola italiana, questa sconosciuta. Migranti. “Troppi stranieri abbandonano la scuola, l’Italia copi i modelli europei” di Paolo Ferrario Avvenire, 13 marzo 2024 Drammatico il dato del 30,1% di dispersione per gli studenti immigrati. La sociologa Borgna: gli esempi ci sono, dalla Gran Bretagna alla Norvegia. Si parta dai servizi per l’infanzia. Guardare alle “migliori pratiche” europee per aggredire il fenomeno della dispersione scolastica degli alunni immigrati, che in Italia rappresenta, non da oggi, un’emergenza vera. Dopo aver proposto, qualche giorno fa, le “classi collaterali di potenziamento”, il ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, è tornato anche ieri sul tema dell’integrazione degli alunni stranieri, prime vittime della dispersione scolastica, con un tasso del 30,1% rispetto al 9,8% degli alunni italiani. “È un tema drammatico - ha ricordato il Ministro -. Non possiamo continuare con questo sistema fortemente penalizzante e discriminatorio nei confronti degli studenti stranieri. Le soluzioni? Copiamo le migliori pratiche europee”. Detto che stiamo comunque parlando di studenti con cittadinanza non italiana, ma nati in Italia nella misura del 67,5%, va sottolineato come, negli ultimi anni scolastici, le iscrizioni di “stranieri” siano in continuo aumento. Quest’anno sono 869.336, il massimo degli ultimi cinque anni e oltre 70mila in più rispetto soltanto al 2022-2023. “Per contrastare il fenomeno della dispersione scolastica degli alunni con backgroud migratorio è necessario investire di più nei servizi della prima infanzia: qualcosa è stato fatto con i fondi del Pnrr, ma dobbiamo investire di più, soprattutto nel reclutamento delle educatrici”, commenta Camilla Borgna, ricercatrice di Sociologia dell’Università di Torino e autrice di Studiare da straniero. Immigrazione e diseguaglianze nei sistemi scolastici europei (Il Mulino, 2021). “Per garantire una reale parità di chances - si legge - le istituzioni scolastiche non possono limitarsi a offrire a tutti le stesse condizioni, ma devono necessariamente compensare gli svantaggi iniziali, permettendo a tutti gli studenti e le studentesse di sviluppare il proprio potenziale”. In alcuni Paesi europei, lo svantaggio iniziale degli alunni immigrati è compensato dal precoce avviamento scolastico. “In Gran Bretagna - spiega Borgna - la scuola dell’obbligo comincia a 4 anni, ma già a 3 anni i servizi coprono tutte le famiglie, facendo della scuola un vero luogo di inclusione. In Italia, invece, come sappiamo bene, i servizi per la prima infanzia, nella fascia 0-3 anni, scontano sia differenze territoriali che socio-economiche, che penalizzano in maniera molto pesante proprio le famiglie immigrate”. Anche la Norvegia, tra i Paesi del Nord Europa, si distingue per una efficiente rete di servizi per la prima infanzia. Pure a Oslo e dintorni, inoltre, l’obbligo scolastico comincia dai 4 anni. Un secondo fattore di “fidelizzazione” degli alunni immigrati nel Regno Unito è l’età in cui avviene la differenziazione dei percorsi scolastici. In Italia la scelta della scuola superiore si fa a 14 anni, mentre in Gran Bretagna - ma anche in Spagna, per restare a un Paese più affine al nostro - il percorso scolastico è comune a tutti fino a 16 anni, età in cui si sceglie l’istruzione superiore. “A 13-14 anni la scelta è, in buona parte, delegata alla famiglia e viene molto influenzata sia dallo status migratorio che socio-economico del nucleo, aumentando il rischio di fallimento e, quindi, di abbandono - sottolinea Camilla Borgna -. Posticipare di appena qualche anno il momento della scelta, consente di accompagnare per più tempo gli alunni, abbattendo il tasso di abbandono”. Il terzo fattore che permette al Regno Unito di contenere la dispersione è una minore “segregazione scolastica”, che si traduce nelle cosiddette “scuole-ghetto”, un fenomeno ancora piuttosto grave in Italia, soprattutto nelle periferie delle grandi città. “Va anche detto - riprende la sociologa torinese - che, rispetto all’Italia, gli immigrati in Gran Bretagna partono con il vantaggio di conoscere già la lingua. Soprattutto i cittadini provenienti dai Paesi del Sud Est asiatico e dall’Asia Orientale registrano addirittura un vantaggio e da queste comunità escono tante storie di successo. Più fatica fanno, invece, gli alunni provenienti dai Paesi caraibici”. Droghe. Fentanyl, il piano del governo e la prevenzione come cura di Viviana Daloiso Avvenire, 13 marzo 2024 Che bella, la parola prevenzione. E che bello nel Paese dei ritardi cronici - dove la messa in sicurezza delle infrastrutture inizia dopo che i ponti sono crollati, quella dei territori dopo le alluvioni, le strette sulle violenze di genere dopo i femminicidi - avere un “Piano di prevenzione” su un tema cruciale come quello delle droghe. A presentarlo il governo, ponendo la lente su una dimensione specifica del problema che Avvenire, tra i primi, ha documentato attraverso reportage e inchieste: quella del Fentanyl e delle sostanze sintetiche. Responsabili negli Stati Uniti di una delle più grandi emergenze sanitarie che la storia recente abbia conosciuto: oltre un milione di morti in due decenni, un decesso ogni 5 minuti. I numeri di una guerra devastante, combattuta lontano dai fronti che oggi scuotono il Pianeta, e per la quale, non da meno, andrebbe cercata una soluzione di pace. Del Fentanyl in Europa e nel nostro Paese - finora - solo una minuscola traccia: meno di 200 le morti documentate (concentrate soprattutto in Germania), scarsa presenza della sostanza nel mercato illegale italiano (sequestri e overdose si contano sulle dita di due mani) e soprattutto impercepibile coinvolgimento dei giovani, i più colpiti invece, in generale, dall’epidemia delle dipendenze. Semplice fortuna, secondo alcuni: il business del narcotraffico internazionale non avrebbe interesse a trasferire il suo mercato di qua dall’Atlantico, visto il diverso meccanismo della domanda e dell’offerta di sostanze. Questione di tempo, per altri: quell’interesse è destinato a crescere, complice il taglio della produzione di oppio nei campi dell’Afghanistan. In ogni caso, e torniamo al principio, la prevenzione è una buona notizia: per una volta ci muoviamo in anticipo, perché quel che è successo altrove non accada anche da noi. Come ci muoviamo? Anzitutto con più controlli e pene più severe per chi dovesse essere sorpreso a spacciare, in linea con altre “strette” dell’esecutivo, non solo in questo ambito. Poi con un percorso di formazione destinato alle forze dell’ordine, agli operatori sanitari e agli insegnanti, ancora tutto da definire nel concreto, come il coinvolgimento del mondo dei servizi e delle comunità. Sono questi ultimi, va ricordato, i veri attori della prevenzione sul campo e della cura di chi viene risucchiato nel vortice delle dipendenze. E “prevenzione” invocano da anni, spesso inascoltati se non disarmati, almeno da quando il Fondo antidroga è stato azzerato e le (poche) risorse destinate al comparto sono confluite altrove, nel grande calderone delle emergenze sociali. Di prevenzione c’era e c’è dunque bisogno ben oltre il Fentanyl, in un’Italia i cui ragazzi sempre più spesso - e sempre prima - sono devastati dalle dipendenze da alcol, cibo, gioco. Sostanze libere e legali, che per altro ci ricordano quanto il dibattito politico sulla legalizzazione della cannabis sia sterile, oltre che sradicato dalla realtà e anacronistico. Di prevenzione, ancora, c’è bisogno sotto la forma di educatori specializzati, di strutture al passo coi protocolli scientifici ormai affermati ovunque, di percorsi strutturali e continuativi all’interno dei quali le dipendenze (e le tossicodipendenze in particolare) siano trattate non a spot. Il Fentanyl, col suo Piano dedicato, è pertanto anche una buona occasione per non mettere (non mettere più) al centro la droga soltanto - la sua letalità, il consumo, lo spaccio - ma le persone. Ce lo hanno insegnato i padri del sistema dei servizi e delle comunità nel nostro Paese (molti sono stati sacerdoti), nato quando in Italia si moriva di eroina agli angoli delle strade, negli anni Ottanta, e i tossici facevano paura perché si vedevano, come si vedono oggi nelle metropoli degli Stati Uniti. Allora si decise di accoglierli, di guardare dentro le loro storie, di capire da quali bisogni e da quali domande era nata la loro dipendenza, ricostruendo i loro percorsi di vita oltre che la loro salute. Educazione, prima che disintossicazione. Quel sistema divenne modelli internazionale. Lo Stato ne riconobbe il merito, poi gradualmente si adagiò sul fatto che i servizi e le comunità se ne occupassero da soli, lontano dagli occhi. E quando i tossici sparirono dalle strade, sparirono troppo spesso anche per lo Stato. Oggi le dipendenze travolgono i nostri figli soprattutto online, numeri e ricerche confermano che mancano loro riferimenti, spazi e ascolto, indicano che dopo il Covid i ragazzi sono sprofondati nell’abisso della solitudine e della sofferenza. Se vogliamo intervenire, se vogliamo prevenire, non possiamo fermarci all’allarme Fentanyl e a tenere le strade e le piazze “pulite”. Il mondo di chi coi ragazzi feriti lavora ogni giorno ha esperienza e proposte. Va ascoltato. Assange e gli altri, guai a chi tocca il potere di Peter Gomez Il Fatto Quotidiano, 13 marzo 2024 Mentre Julian Assange rischia di non uscire mai più dal carcere, c’è chi finisce in tribunale perché denuncia l’uso di pesticidi o un impianto che appesta l’aria. Il fondatore di Wikileaks è raccontato da Alessandro Di Battista, che lo ha conosciuto personalmente e in questi giorni porta in giro per l’Italia uno spettacolo teatrale a lui ispirato: “Lo incontrai a Londra nel 2013, credeva davvero nella possibilità di colpire il potere”, ricorda l’ex M5S intervistato da Luca de Carolis. “D’altronde a quei tempi lavorava con i principali quotidiani del mondo: dal New York Times al Washington Post, per continuare con Le Monde, El País o Der Spiegel. Credo che non immaginasse che di lì a poco lo avrebbero abbandonato tutti, gli stessi che fino a poco tempo prima facevano la fila per ottenere materiale da lui e che hanno usato i suoi scoop per vendere copie”. E poi ci sono gli altri. I cittadini abruzzesi querelati per un’assemblea pubblica indetta contro un impianto di trasformazione del compost che appestava l’aria. La studentessa polacca Nawojka Ciborska, chiamata a rispondere di una protesta pacifica dal colosso del gas, Gaz System. La psicologa di Andorra, Valeria Mendoza Cortés, citata per diffamazione dal suo governo perché in sede Onu denunciava il divieto assoluto di aborto in vigore nel principato. E, tornando in Italia, il recente caso della Danieli, che chiede di avere i nomi di tutti i 24 mila cittadini che hanno firmato la petizione contro una nuova acciaieria in Friuli. Sono solo alcune delle storie raccolte da Martina Castigliani in una lunga inchiesta sulle cause temerarie, che non colpiscono solo i giornalisti, ma anche attivisti e associazioni, colpevoli di mettersi contro i grossi interessi economici e politici. Un caso storico è quello del massiccio uso di pesticidi nella coltivazione delle mele in Alto Adige, denunciato nel 2017 dall’Istituto ambientale di Monaco di Baviera, a sua volta portato in tribunale per diffamazione da un assessore provinciale e oltre mille agricoltori. Alla fine Karl Bär, referente dell’Istituto per l’agricoltura, è stato assolto, ma il caso è durato quattro anni. Ecco perché le querele e le cause temerarie sono un problema: vengono utilizzate anche da chi sa di non poter vincere, solo per intimidire o mettere la sordina a denunce e proteste. Per questo è nata CASE, la coalizione contro le querele temerarie, che ha sostenuto la direttiva europea in materia recentemente approvata, e che andrà declinata nelle legislazioni nazionali. In Europa, Case ha censito 820 querele temerarie in atto, di cui 32 in Italia. “Giorgia Meloni è una querelante seriale”, aggiunge Sielke Kelner, coordinatrice italiana di CASE, intervistata su FQ MillenniuM. A proposito, ma non si doveva fare una legge sulle querele temerarie anche in Italia? Sì, ma è finita in nulla, come racconta Primo Di Nicola, diventato senatore 5 Stelle dal 2018 al 2022 dopo una vita da giornalista politico. Il 16 gennaio 2020, il suo tentativo di farla approvare in aula era a un passo dal successo, ma all’ultimo tutto è saltato. “Le liti temerarie te le scordi!”, gridò un esponente del partito di Renzi, “tra gli applausi di leghisti e forzisti, i partiti che allineano forse il maggior numero di querelatori seriali contro i giornalisti”. Dall’intercettazione farlocca di Lisbona agli abusi di Bruxelles, l’Europa dice addio allo Stato di diritto di Davide Varì Il Dubbio, 13 marzo 2024 Lo schiaffo a Eva Kaili, il pasticcio dei pm in Portogallo, il caso Salis… ci sono tutti i segnali di una lenta ma inesorabile deriva. Immaginate la scena: la Commissione giuridica dell’Europarlamento respinge la difesa dell’immunità di Eva Kaili, la donna simbolo della sempre più traballante inchiesta Qatargate, e il capo della Procura belga che fa? Condivide il tweet del presidente della Commissione che ha detto no a Kaili come se fosse un Di Battista qualsiasi. Insomma, la massima autorità giudiziaria belga che ha istruito quella inchiesta naufragante, twitta come un quindicenne alle prime armi il no dell’Europarlamento alla sua “preda” giudiziaria. Ora cambiamo latitudine, andiamo in Portogallo. Domenica scorsa un certo Andrè Ventura, leader di “Chega!” (che si traduce con “Basta”, punto esclamativo compreso), ha preso il 18% alle politiche. Ventura, i cui modelli sono Bolsonaro e Trump, tra una battuta omofoba e una razzista, ha menato fendenti contro la presunta deriva morale del Portogallo. Ventura ha avuto gioco facile perché l’ex premier portoghese, Antonio Costa, era finito dentro una tempesta mediatico-giudiziaria nata da una intercettazione veicolata urbi et orbi da tutti i media portoghesi. E, come nel più classico dei canovacci mediatico-giudiziari, quell’intercettazione ha generato un’inchiesta che nel giro di pochi mesi ha costretto alle dimissioni il premier. Ma il vero scandalo - non l’unico - oltre allo sputtanamento a mezzo stampa di un premier che doveva ancora essere rinviato a giudizio, è il fatto che quella intercettazione in realtà non riguardava lui, ma un suo omonimo. Insomma, il premier di una democrazia europea votato da milioni di portoghesi è stato fatto fuori da una intercettazione tarocca. E ora a Lisbona si “godono” il loro Trump in versione fado. Ultima scena: Budapest. Una cittadina italiana, Ilaria Salis, rischia 24 anni di carcere nei gulag ungheresi - e basti leggere le sentenze della Cedu per rendersi conto che gulag è la parola più prossima alla realtà - per aver picchiato, così dicono, un energumeno di quasi due metri di altezza che sventolava la croce uncinata tra le vie di Budapest insieme ai suoi amici antisemiti. Ma non è questo il punto. O almeno non solo questo. Salis, ricorderete tutti, fu scortata in aula con ceppi ai polsi e catene alle caviglie che neanche Totò Riina. Insomma, questo è il quadro, l’affresco che abbiamo di fronte a noi. Ed è chiaro che si tratta di segnali che parlano di una lenta ma inesorabile deriva dell’Europa verso una intolleranza nei confronti del nostro Stato di Diritto. E che debba essere l’Italia a vigilare, la terra del caso Tortora e del far west giudiziario di Mani pulite, la dice lunga sul radioso futuro che abbiamo di fronte a noi. “Ue a caccia di capri espiatori, è una torsione giustizialista” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 13 marzo 2024 Spesso ci lamentiamo di come vanno le cose nella giustizia in Italia. Ma se volgiamo lo sguardo fuori dai confini nazionali, possiamo notare che non mancano situazioni sconfortanti. Con l’eurodeputato Massimiliano Smeriglio (Alleanza Verdi-Sinistra) abbiamo fatto il punto su alcune vicende che stanno caratterizzando la giustizia in Europa. Il primo pensiero va al Qatargate. Onorevole Smeriglio, la commissione per gli Affari giuridici dell’Europarlamento ha dichiarato inammissibile la richiesta di verificare possibili violazioni dell’immunità parlamentare presentata da Eva Kaili, coinvolta nel Qatargate. Inoltre, il capo della procura belga, come un populista qualsiasi, ha condiviso il tweet del presidente della commissione che si è pronunciata contro Kaili. La banalità del giustizialismo? Non entro nel merito delle decisioni prese dalla Commissione preposta anche se ho le mie idee. Quello che appare eclatante in tutta la vicenda del Qatargate è la sproporzione tra la grancassa mediatica, tutta riferita alla dimensione politica, e una inchiesta che fa acqua da tutte le parti e che, al momento, è rimasta ferma a quello che abbiamo saputo nei primi tre giorni dell’esplosione del caso. Nel mentre, abbiamo assistito ad un palese conflitto di interessi del giudice Claise. Le sue dimissioni sono indicative. Abbiamo assistito ad una serie di rovesci, le registrazioni di Giorgi in cui il capo della polizia parlava della inattendibilità di Panzeri. È un caso che ha scosso la credibilità della più grande assemblea parlamentare del mondo e che ha partorito un topolino. Il Qatargate ha sporcato la vita di tante persone. Penso ad Andrea Cozzolino, che è stato buttato fuori dal Pd a mezzo Tg1, senza neanche una telefonata da parte del partito. Penso anche a chi, al centro della vicenda giudiziaria, avrebbe meritato maggiore cura e non meccanismi ricattatori e vere e proprie pressioni fisiche e psicologiche. Il riferimento è a Eva Kaili. C’è poi un altro aspetto. Quale? Abbiamo assistito ad una serie di situazioni fuori dallo Stato di diritto che dovrebbe caratterizzare l’Unione europea. In questo contesto non è stato affrontato il vero nodo della vicenda, vale a dire la cesta delle cosiddette mele marce. Cioè il contesto in cui opera il Parlamento. Si è verificata una vera e propria torsione giustizialista alla quale per accondiscendenza il Parlamento europeo ha chinato la testa in oltre un anno di Qatargate, senza reagire e senza utilizzare le prerogative per difendere l’autonomia dei parlamentari. Il vero tema è il contesto in generale, non le presunte mele marce, vale a dire il rapporto tra i 13mila lobbisti che bivaccano intorno al Parlamento europeo, che vendono armi, sistemi di puntamento, farmaci e che influenzano le politiche agricole. La discussione dovrebbe fondarsi su come tutelare il decisore politico da un’attività lobbistica asfissiante. Durante il Qatargate, non abbiamo discusso di questo, ma ci siamo fatti bastare la gogna e il capro espiatorio di singoli presunti colpevoli. Un metodo che non condivido, che uccide la dinamica democratica e non tutela l’autonomia della politica dalla pervasività di alcuni sistemi giudiziari. In Portogallo, l’ex primo ministro, Antonio Costa, si è dimesso nei mesi scorsi perché il suo nome è finito in una inchiesta su appalti e sfruttamenti minerari. Si è scoperto, poi, che le indagini hanno riguardato un suo omonimo, ma nel frattempo il premier è stato stritolato mediaticamente. Un caso, ai massimi livelli istituzionali, di gogna mediatica? Sì, è un caso clamoroso di gogna mediatica, che ha inciso sulle scelte e sugli orientamenti dei cittadini portoghesi, nonostante i successi elettorali di Costa e i passi avanti fatti dai governi socialisti. Una gogna assurda che mi fa venire in mente, dato che si parla tanto di Abruzzo, le vicissitudini dell’allora presidente Ottaviano Del Turco. Un caso che ha sancito la fine della sua carriera politica con ripercussioni sulla sua salute. Per ritornare al Portogallo, l’ex premier Costa, da persona seria qual è, ha deciso di dimettersi. Quando si sviluppa rancore e si identifica la politica come il luogo del malaffare, sguazza l’estrema destra. Il suo exploit deriva dal protagonismo eccessivo della magistratura e dalla macchina del fango attivata dai media, ben prima che ci siano certezze giudiziarie. Questo è inaccettabile. In Italia si è verificata una situazione simile circa trent’anni fa con conseguenze precise. Penso, prima di tutto, all’abbattimento di un sistema dei partiti degno di questo nome con giornali che costruiscono il mostro e lo sbattono in prima pagina. La nostra connazionale Ilaria Salis è apparsa in un’aula del tribunale di Budapest con ceppi e schiavettoni. Nella Ue si parla di grandi riforme nella giustizia, eppure in molti casi le garanzie procedurali vengono fatte a pezzi. Cosa ne pensa? Proprio oggi (ieri per chi legge, ndr) ho accolto Roberto Salis al Parlamento europeo. Abbiamo fatto una conferenza stampa dedicata al caso di Ilaria e un incontro con la presidente Metsola. Quanto sta accadendo in Ungheria è uno scandalo senza fine. Prima della guerra, l’Ungheria era a rischio di infrazione e si stava ragionando su una condizionalità legata al rispetto dello Stato di diritto. In Ungheria lo Stato di diritto, sotto tanti aspetti, non è affatto garantito. Seguo con interesse la vicenda di Ilaria Salis. Nell’udienza del 28 marzo verrà decisa l’opzione degli arresti domiciliari. Organizzeremo una staffetta democratica per tenere alta l’attenzione in Italia e in Europa su quanto sta avvenendo a Budapest, dato che Ilaria Salis rischia 20 anni di carcere per un reato minore. Il giusto processo è il principale obiettivo da raggiungere. Nei Paesi Ue assistiamo ad una eterogeneità delle procedure che contraddicono lo Stato di diritto? Purtroppo sì. C’è una estrema eterogeneità nelle procedure, nella identificazione dei reati, delle pene e per quanto riguarda la condizione carceraria. C’è da fare un grande lavoro. Le questioni che attengono alla autonomia della magistratura e alla qualità dello Stato di diritto nel trattare i colpevoli devono farci riflettere su come rianimare la nostra grande tradizione giuridica. I progressisti, le persone che hanno a cuore gli ultimi, i democratici devono farsi sentire rispetto a situazioni che non portano consenso nell’immediato. Il rapporto politica- magistratura- sistema di detenzione è un misuratore puntuale della qualità della democrazia in cui viviamo. Perché le rivolte dei giovani di origine musulmana sono sempre in Francia di Milena Gabanelli e Stefano Montefiori Corriere della Sera, 13 marzo 2024 Ai Giochi olimpici di Parigi, nel prossimo luglio, le atlete francesi non potranno portare il velo islamico “perché la Francia è legata a uno stretto regime di laicità”, dice la ministra allo Sport, Amélie Oudéa-Castéra. Una laicità che comporta “il divieto di qualsiasi forma di proselitismo religioso”, nello sport e nella scuola. Al tentativo degli estremisti islamici di usare gli abiti per allargare la propria influenza nella società, denunciato per esempio dall’antropologa Florence Bergeaud-Blacker che per questo è minacciata di morte, la Francia risponde negando le differenze, almeno quelle apparenti. Il motto liberté, égalité, fraternité scritto nella Costituzione indica un obiettivo al quale tendere, un traguardo. Nella realtà, questa formula rischia di essere una questione più di forma che di sostanza. Al centro dell’attenzione, dopo la rivolta di giugno-luglio 2023, ci sono i francesi di origine arabo-musulmana. Partiamo dalla forma, che si esprime con l’abito e i simboli. I divieti sugli abiti - Nel 2004, durante la presidenza Chirac, la legge sui simboli religiosi nelle scuole pubbliche ha proibito il velo islamico (oltre a crocifissi e kippa ebraica). Si voleva impedire che quell’indumento diventasse una forma di rivendicazione dell’integralismo islamico, e anche liberare le ragazze da quella che in molti casi era un’imposizione patriarcale degli uomini di casa, il padre o il fratello maggiore. Nel 2010, quando era presidente Nicolas Sarkozy, un’altra legge ha proibito di nascondere il volto per strada e in generale negli spazi pubblici: una misura contro il burqa, punito con una multa di 150 euro. Dal 2012 molti comuni francesi usano ordinanze locali per proibire il burqini, il costume islamico che copre tutto il corpo, in spiaggia e nelle piscine (la battaglia legale continua ancora oggi, i sindaci ogni anno rinnovano le ordinanze, spesso il Consiglio di Stato le boccia). Nel settembre 2023, con Emmanuel Macron all’Eliseo, ecco il divieto nelle scuole dell’abaya (per le ragazze) e del qamis (per i ragazzi), tuniche islamiche che nel corso degli anni hanno si sono affiancate al velo come segno di appartenenza al mondo arabo-musulmano. Il governo considera questi abiti come bandiere piantate nelle scuole dagli integralisti islamici e dai loro finanziatori in Marocco, Algeria, Turchia, una forma di sfida allo Stato e il segno dell’avanzata dell’Islam. La questione degli indumenti islamici è sempre fonte di tensione: lo scorso 1° marzo, il preside di un liceo di Parigi è stato minacciato di morte sui social media per avere fatto togliere il velo a una ragazza. Gli insegnanti si sentono in prima linea, dopo gli attentati islamisti contro Samuel Paty (16 ottobre 2020) e Dominique Bernard (13 ottobre 2023). Francesi di nascita - Dal 2004 a oggi, dal divieto del velo a quello dell’abaya, la Francia continua a discutere e a dividersi sul modo di integrare non più tanto gli immigrati musulmani ma, ormai, i loro figli: che sono nati in Francia, hanno la nazionalità francese, ma spesso continuano a sentirsi diversi, in molti casi respinti. E dalla forma, passiamo alla sostanza. Quali sono le origini della mancata integrazione di almeno una parte dei musulmani francesi? Secondo l’ultimo rapporto (30 marzo 2023) dell’Insee, l’istituto di statistica francese, i musulmani sono il 10% della popolazione della Francia metropolitana (esclusi i territori d’Oltremare). Quindi circa 6 milioni e mezzo: se consideriamo che i francesi convertiti all’Islam sono circa 100 mila, i musulmani di Francia sono al 99% immigrati o discendenti di immigrati. L’Insee ha chiesto ai discendenti di immigrati, nati in Francia, se si trovano d’accordo con l’affermazione “Sono considerato un francese come gli altri”: hanno risposto “no” il 39% di quelli originari del Sahel e dell’Africa subsahariana e il 30% dei discendenti di immigrati magrebini, contro solo il 9% dei discendenti di immigrati dell’Europa del Sud (italiani, spagnoli, portoghesi, greci). I francesi originari del mondo arabo-musulmano, più di altri, si sentono discriminati. Le banlieue, un mondo a parte - Nel 2014 il governo francese ha identificato nella Francia metropolitana 1.296 quartieri poveri, noti come QPV, Quartiers Prioritaires de la Politique de la Ville, diffusi nelle banlieue ma non solo. Sono i quartieri dove la micro-criminalità è più alta, dove le hall di molti palazzi sono trasformate in zone di spaccio e i boss locali contendono alle forze dell’ordine la gestione del territorio. Secondo il rapporto “L’avvenire si gioca nei quartieri poveri” pubblicato nel giugno 2022 dall’Institut Montaigne, think tank liberale vicino al presidente Macron, il 40% di questi quartieri non ha un asilo, ci sono tre volte meno strutture sportive che nel resto del Paese, il 37% in meno di medici, e due terzi dei quartieri poveri non ha uno sportello del Pôle emploi (l’agenzia statale contro la disoccupazione). Lo stesso Macron all’inizio del suo primo mandato aveva affidato un lungo lavoro su questi quartieri all’ex ministro Jean-Louis Borloo, che nel 2018 ha reso pubblico un celebre rapporto sulla banlieue, subito messo nel cassetto dal presidente: un giovane su 6 abbandona la scuola; i liceali sono due volte meno numerosi che nel resto della Francia; il rischio di morire prima dei 75 anni è il doppio. In questi quartieri abitano circa cinque milioni di persone, e gli immigrati e i figli di immigrati sono più numerosi che altrove: qui rappresentano quasi un quarto del totale, il 23,6%, quando sono solo il 10% di tutta la popolazione di Francia. In Seine-Saint-Denis, nel dipartimento alle porte di Parigi noto come il famigerato Neuf Trois (“93” è il suo numero amministrativo, come 75 per Parigi o 13 per la provincia di Marsiglia), il tasso di immigrati tra gli abitanti dei quartieri prioritari sale al 30,9%. Disoccupazione e curriculum - In questa specie di isola di emarginazione, un quarto della popolazione riceve l’RSA (un sussidio di povertà), il doppio rispetto al resto della Francia, secondo l’”Observatoire national de la politique de la ville”. E il tasso di disoccupazione è molto più alto: nel 2020, il 18,6% della popolazione attiva era disoccupata, rispetto all’8% nazionale (Insee). Più del doppio, che sale al 25% per la popolazione di origine magrebina. Non è un caso, perché il solo fatto di avere un nome arabo-musulmano rende più difficile l’accesso al mercato del lavoro. Tra il 2019 e il 2021 l’”Institut des politiques publiques” ha studiato la relazione tra origini e assunzione inviando 9600 candidature fittizie in risposta a 2400 offerte di impiego. Ecco i risultati: chi ha un nome che suggerisce un’origine magrebina ha il 31,5% di possibilità in meno di essere contattato rispetto a chi ha un nome di tradizione francese. Un Mohamed è molto più svantaggiato rispetto a un Jacques. Nel 2006 la legge sulle pari opportunità aveva introdotto il curriculum anonimo, con l’obiettivo di renderlo obbligatorio nelle imprese con più di 50 dipendenti. Ma i decreti di applicazione non sono mai stati adottati. I controlli della polizia - Ci sono poi i dati strettamente legati all’aspetto, il colore della pelle e il modo di vestire: conta molto, anche nel rapporto con le autorità e in particolare con la polizia. Secondo un rapporto del 2017 del “Difensore dei diritti”, un organo dello Stato, tra il 2012 e il 2017 i giovani tra i 18 e i 25 di apparenza araba o africana sono stati controllati il doppio rispetto ai coetanei bianchi: l’80% è stato fermato almeno una volta, contro il 40% dei giovani bianchi (e il 16% complessivo). Le demolizioni - Per cercare di attenuare le differenze e la segregazione geografica, lo Stato francese attraverso la ANRU (Agenzia nazionale per il rinnovamento urbano) ha investito circa 12 miliardi di euro tra il 2004 e il 2020, demolendo alcuni condomini fatiscenti e in particolare i grandi palazzoni simbolo del degrado. Da qui al 2030, il governo prevede di investire altri 12 miliardi di euro. Ma l’idea di risolvere alla radice il problema radendo al suolo alcuni palazzi di periferia - in Francia noti con l’eufemismo HLM, habitation à loyer modéré (abitazione ad affitto moderato) - sembra paradossalmente aumentare il problema. Secondo il sociologo Jamal El Arch, “spostati a destra e a sinistra, gli abitanti degli HLM perderanno i loro riferimenti, la loro storia”. L’attaccamento alle origini - Il velo, l’abaya e il qamis possono rappresentare un segno dell’invadenza dell’ideologia islamista nella società francese, ma allo stesso tempo rispondono alla voglia di mostrare le proprie origini, proprio quando il resto della Francia sembra considerarle un problema. Il divieto di abaya nelle scuole o del velo ai Giochi sono vissuti come una forma di discriminazione contro i musulmani, a dispetto del principio di égalité: se devono vestirsi come tutti gli altri, allora vengano trattati come tutti altri anche quando si tratta di trovare casa, cercare un lavoro o essere controllati dalla polizia. Haiti, un debito di secoli di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 13 marzo 2024 Violenza, terrore, fame tengono prigioniero un intero Paese. Mai nessuno Stato al mondo è stato condannato alla bancarotta eterna e immutabile quanto Haiti, costretta allora a risarcire i padroni degli schiavi liberati con 150 milioni di franchi in oro, una somma enorme mai finita di pagare. “I negri della costa della Mina”, cioè rapiti dagli schiavisti nel Golfo di Guinea, “si impiccano e si tagliano la gola, come se niente fosse, per i più futili motivi, il più delle volte per far compassione ai propri padroni, convinti come sono di ritornare, dopo la morte, nel paese d’origine; e sono talmente presi da questa folle ossessione che è impossibile levarla loro dalla mente”. Lo scriveva tre secoli fa il frate francese Jean-Baptiste Labat. “Futili motivi”... E cosa facevano i padroni delle piantagioni per scoraggiare quei suicidi spinti dal sogno che almeno le loro anime potessero ritornare in Africa? “Si fa tagliare la testa del primo schiavo che si uccide, o solo il suo naso e le sue orecchie che vengono conservate sopra un palo”, scriveva il proprietario terriero Moreau de Saint-Méry, così “che gli altri, convinti che il malcapitato non oserà mai ricomparire nella sua terra natale così disonorato nella considerazione dei compatrioti, rinunciano a questo spaventoso disegno di emigrazione”. Toglie il fiato, in questi giorni di nuova violenza, terrore, fame che hanno avuto il culmine nell’assalto al carcere per liberare quattromila detenuti e la presa del potere delle bande armate al soldo dell’ex poliziotto Jimmy “Barbecue” Cherizier, rileggere la terribile storia di Haiti nel libro di Massimiliano Santoro Terre di libertà. Padroni e schiavi nelle istituzioni politiche di Antico Regime edito da Franco Angeli. Perché certo, i figli di quegli schiavi che nel 1806, nella scia della Révolution del 1789 ottennero l’indipendenza dalla Francia, hanno fatto tanti errori. Ma nessuno Stato al mondo è stato condannato alla bancarotta eterna e immutabile quanto Haiti, costretta allora a risarcire i padroni degli schiavi liberati con 150 milioni di franchi in oro, una somma enorme mai finita di pagare e moltiplicata a dismisura dalle banche francesi e poi americane fino a causare uno sprofondo, secondo il New York Times, di almeno 115 miliardi di dollari attuali. Una cifra stratosferica e inimmaginabile per uno dei Paesi più poveri del pianeta, bastonato da catastrofici terremoti. “Un castigo di Dio”, disse dopo quello del 2010 Gerhard Maria Wagner, un parroco tedesco amato da papa Benedetto XVI. Mah... Chiediamoci piuttosto: se il buon Dio non è stato generoso, l’Occidente non ha niente da rimproverarsi?