Carceri sovraffollate e (poche) comunità. La pena nella pena dei ragazzini in cella di Michele Brambilla Il Giornale, 12 marzo 2024 Nei 17 istituti italiani sono rinchiusi oltre 500 minori. E gli ingressi sono in costante aumento: nel 2023 si è toccato il picco degli ultimi 10 anni. I costi? A ogni detenuto corrisponde almeno un agente. Non frega niente ai politici, perché i carcerati non portano voti. Non frega a tutti noi che siamo fuori, perché pensiamo che chi sta dentro appartenga a una diversa specie umana. Non frega niente, purtroppo, anche a buona parte di chi, nello Stato, lavora nel sistema penitenziario, e che sa che è tutto uno schifo, ma sa anche che è tutto uno schifo da sempre e tutto uno schifo sempre resterà: quindi, perché darsi da fare per cambiare le cose? Nel sistema carcerario come si vedrà in questa mini inchiesta in due puntate l’obiettivo aziendale, il business objective come dicono quelli che parlano bene, è il mantenimento dello status quo. La vision e la mission, sempre per usare correttamente l’inglesorum, coincidono e si possono sintetizzare in una sola parola: immobilismo. Occorre poi partire con un’altra premessa, per non confondere il lettore, e per non essere fraintesi. E cioè: la certezza della pena non va discussa. Chi sbaglia deve pagare e fino a ora l’umanità non ha ancora inventato un modo migliore che costruire prigioni per chiudervi dentro chi ha fatto del male al suo prossimo e più in generale chi ha violato la legge. Non bisogna però dimenticare quello che deve sottolineo deve essere un postulato: la pena consiste nella privazione della libertà. Rigiro la frase per darle più efficacia: la privazione della libertà è la pena. Il codice penale prevede che il tale reato è punito con la reclusione da a. Con la reclusione: non con altro. Tenere i detenuti in celle schifose e sovraffollate, chiusi dentro 22 ore al giorno a non fare nulla, è una pena ulteriore, non prevista dal codice e tantomeno dalla Costituzione, la quale impone di tentare (almeno) di rieducare il reo. Al lettore che obiettasse dicendo che ha a cuore la sicurezza, cercherò di dimostrare, in queste due puntate, che il detenuto maltrattato e abbandonato, quando esce, torna sicuramente a delinquere, ancora più incattivito; mentre alcune esperienze di lavoro vero in carcere fanno abbattere quasi del tutto la recidiva. Quindi, se non per un fattore di umanità ma per semplice desiderio di sicurezza, è opportuno che le carceri non diventino una fabbrica di delinquenti ancora più delinquenti di prima. Cominciamo con le carceri minorili (nella prossima puntata parleremo dei maggiorenni). C’è un grande successo della serie tv Mare fuori. Ma a tanto interesse mediatico non corrisponde un interesse operativo. Quindi c’è un Mare fuori e una Realtà dentro. Gli Ipm (Istituti penali per minorenni: le carceri, insomma) in Italia sono diciassette: Acireale, Airola, Bari, Bologna, Cagliari, Caltanissetta, Catania, Catanzaro, Firenze, Milano, Nisida, Palermo, Pontremoli (l’unico solo femminile), Potenza, Roma, Torino e Treviso. Oggi in queste carceri sono rinchiusi poco più di 500 minori: è il numero più alto da oltre dieci anni. Gli ingressi in carcere sono in costante aumento: erano 835 nel 2021, sono diventati 1.143 nel 2023. Quest’ultima è la cifra più alta degli ultimi quindici anni. Gli operatori dicono che è la conseguenza del Decreto Caivano (in vigore dal 15 novembre 2023), che ha esteso l’applicazione della custodia cautelare in carcere: “Ho in cella - mi dice un direttore - un ragazzo che ha rubato una bicicletta”. Altri sono dentro per oltraggio a pubblico ufficiale. Un’altra causa del sovraffollamento è l’aumento dei minori non accompagnati, tutti stranieri, i quali non possono usufruire delle misure alternative alla pena come gli arresti domiciliari. Delle diciassette carceri che abbiamo detto, quelle più popolose sono il Beccaria di Milano (72 detenuti di cui 46 stranieri) e Nisida, cioè Napoli (55, di cui 16 stranieri). Giusto per far capire al lettore, e al contribuente, quanto costa questo sistema, in genere ad ogni detenuto corrisponde almeno un agente di polizia penitenziaria. Secondo il rapporto Antigone del 2024, al Beccaria sono in servizio 71 guardie; a Treviso (capienza 12 posti, attualmente 19 detenuti) ci sono 35 agenti e due ispettori; a Pontremoli (capienza massima 17, attualmente una dozzina di ragazze detenute) ci sono 19 agenti ma l’organico sarebbe di 31, più un ispettore e un’ispettrice. Nelle ultime settimane sono entrato in qualcuno di questi istituti e ho visitato una comunità, quella di don Claudio Burgio a Vimodrone (Milano). Le comunità sono una misura alternativa alla detenzione, lì i ragazzi non sono lasciati a marcire in cella: fanno attività, studiano, don Claudio ha addirittura allestito una sala di registrazione per gli aspiranti rapper. Ma le comunità sono poche. “Ho molti ragazzi che sarebbe meglio che fossero in una comunità”, mi dice un altro direttore: “Ma nel mio territorio non ce ne sono abbastanza”. Perché questi ragazzi, poi, dovreste vederli. All’inizio si presentano in modo sostenuto, un po’ da bulli: ma quando ci parli, vedi che sono bambini. “I ragazzi qui sono aspri fuori e dolci dentro, esattamente come i loro coetanei fuori”, diceva don Domenico Ricca, il cappellano del Ferrante Aporti di Torino da poco scomparso: “I ragazzi non sono mai mostri. Sono adolescenti, e gli adolescenti non vanno lasciati a loro stessi, non vanno pensati troppo adulti, vanno trattati per l’età che hanno, e quindi come tali devono essere seguiti”. Le cose belle vengono fatte da uomini e donne di buona volontà. Ad esempio c’è chi sta portando nelle carceri una valigia piena di giochi di società: si chiama “La valigia di Marco e Anna” e quando i ragazzi vedono che quei giochi sono nuovi di zecca, comprati apposta per loro, stentano a credere. Non sono abituati a ricevere tanta attenzione. A Treviso hanno ringraziato con un grande disegno: una valigia dalla quale escono i loro sogni. Molti scrivono: riabbracciare i familiari. Altri che non vogliono più deludere la mamma. Altri sperano di diventare ricchi, o star della musica. Ma uno ha scritto una parola sola: serenità. E la serenità è un qualcosa che si desidera da vecchi, non da ragazzi. Il fatto che quel ragazzo la sogni vuol dire che la sua vita è stata difficile. Come quella di tutti questi ragazzi finiti dentro. “Non esistono ragazzi cattivi”, è scritto all’ingresso della comunità Kayros di don Burgio. Il quale non è un buonista: “Sono realista. So che non è facile. Ma qui non quantifichiamo il processo educativo. Non guardiamo ai numeri: quanti ne recuperiamo e quanti no. Non cerchiamo il risultato. Ma almeno tentiamo qualcosa che sia diverso da un carcere dove i ragazzi vengono riempiti di psicofarmaci”. Gli ho chiesto: “Lei è sicuro che chi delinque può cambiare?”. Mi ha risposto: “Sono sicuro di non essere autorizzato a dire che nessuno può cambiare”. Zaratti (Avs): “Presentata proposta per affettività e sesso in carcere” Adnkronos, 12 marzo 2024 “Noi di Avs abbiamo presentato una proposta di legge per consentire una vita affettiva e sessuale in carcere. È tempo che si affronti questo tema. Ricordo che in una recente audizione (lo scorso 21 febbraio) il capo del Dap Giovanni Russo ha espressamente detto di voler dare seguito alle indicazioni della Consulta che si è espressa in questo senso. Il parlamento che farà? Il ministro Nordio, che oggi è tornato sui suicidi in carcere definendoli un ‘fenomeno lacerante’, cosa fa? Intende almeno garantire una norma di civiltà che può concretamente andare incontro alle esigenze psicologiche ed emotive della popolazione carceraria?”. Così Filiberto Zaratti, capogruppo di Alleanza Verdi e Sinistra nella commissione Affari costituzionali della Camera, primo firmatario della proposta di legge. Processo penale, cambiano le condizioni di procedibilità di Giovani Negri Il Sole 24 Ore, 12 marzo 2024 La revisione della riforma. Tra le numerose correzioni nel decreto approvato dal governo anche i tempi per l’avocazione da parte del Pg. Procedibile d’ufficio il reato di lesioni contro i sanitari. Via libera definitivo alle correzioni al nuovo processo penale. Il Consiglio dei ministri ha approvato in seconda lettura il decreto legislativo che rivede alcune delle disposizioni che in questo primo anno più hanno reso necessario un intervento di aggiustamento, senza procedere a stravolgimenti difficilmente comprensibili in fase di attuazione del Pnrr. Tra le prime modifiche quelle di diritto penale sostanziale, dove, in materia di condizioni di procedibilità (la riforma ha esteso in maniera assai significativa l’area della procedibilità a querela) il reato di lesioni personali diventa procedibile d’ufficio anche se commesso nei confronti di esercenti le professioni sanitarie e socio-sanitarie nell’esercizio delle loro funzioni. Inoltre, sanando un elemento di irragionevolezza del sistema, la procedibilità a querela interesserà anche il danneggiamento di cose esposte per necessità o per consuetudine o per destinazione alla pubblica fede (caso, classico, l’automobile parcheggiata in strada). Denso l’elenco delle modifiche sul versante procedurale. Innanzitutto l’eccezione all’obbligo di deposito telematico degli atti prevista a favore delle parti processuali che compiono atti personalmente coinvolgerà anche la persona offesa dal reato. E poi, in caso di sospensione del processo per lo svolgimento di un programma di giustizia riparativa si stabilisce che durante la sospensione il giudice acquisisce, a richiesta di parte, le prove non rinviabili; la sospensione è possibile anche prima dell’esercizio dell’azione penale, quando il pubblico ministero ha disposto la notifica della chiusura delle indagini preliminari. In questo caso, sulla richiesta di sospensione del procedimento provvede il giudice per le indagini preliminari, sentito il pubblico ministero. Nel periodo di sospensione restano bloccati il corso della prescrizione e i termini per l’improcedibilità per la durata massima del giudizio di impugnazione. Introdotto poi un ulteriore caso di sospensione dei termini di durata massima della custodia cautelare, prevedendo lo stop durante il tempo in cui l’udienza di comparizione predibattimentale è sospesa o rinviata per impedimento dell’imputato o del difensore o su loro richiesta (a meno che la sospensione non sia dovuta a esigenze di acquisizione della prova o alla concessione di termini per la difesa) oppure a causa della mancata presentazione, dell’allontanamento o della mancata partecipazione di uno o più difensori che rendano privo di assistenza uno o più imputati. Il decreto interviene poi sull’avvocazione da parte della procura generale eliminando la possibilità quando è stata respinta la richiesta di differimento della notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari. È stato poi elevato il termine entro il quale il procuratore generale deve svolgere le attività investigative necessarie, fissato adesso in 90 giorni e non più in 30. Quando è stato emesso decreto penale di condanna a pena pecuniaria sostitutiva di una pena detentiva, l’imputato potrà chiedere la sostituzione della pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità anche senza doversi opporre al decreto stesso; tuttavia, nel caso in cui la richiesta rileva la mancanza di presupposti per la sostituzione, il decreto diviene immediatamente esecutivo. Quando, invece, l’imputato formula richiesta di sostituzione in lavoro di pubblica utilità e opposizione al decreto penale di condanna, se la richiesta di sostituzione è respinta, il giudice provvede sull’opposizione. Sulla condanna a pena sostitutiva, la modifica interviene per fare in modo che il giudice, quando ritiene che ne esistono i presupposti, può immediatamente procedere con la sostituzione della pena detentiva, semplificando il meccanismo attuale che prevede invece un preliminare avviso alle parti, per acquisire il consenso dell’imputato e gli elementi che consentono di operare la sostituzione. Sulle contravvenzioni alimentari il decreto interviene sul catalogo delle fattispecie suscettibili di estinzione limitandolo alle sole contravvenzioni che hanno provocato un danno o un pericolo riparabile attraverso condotte ripristinatorie o risarcitorie per le quali sia inflitta la pena dell’ammenda. Adeguata infine al decreto 231 la formula di non luogo a procedere in assenza di ragionevole previsione di condanna. Nordio è un caso: la commissione d’inchiesta sul dossieraggio proposta all’insaputa del governo di Ermes Antonucci Il Foglio, 12 marzo 2024 La proposta del Guardasigilli di istituire una commissione d’inchiesta sugli accessi abusivi alle banche dati non è stata anticipata alla presidenza del Consiglio. Da qui il gelo della premier Meloni e di FdI: “Già sta lavorando l’Antimafia, perché creare un doppione?”. Ha lasciato sorpresi tutti, a partire da Palazzo Chigi e dallo stesso ministero della Giustizia, la proposta del Guardasigilli Carlo Nordio di istituire una commissione parlamentare d’inchiesta sugli accessi abusivi alle banche dati investigative. La proposta è stata elaborata da Nordio giovedì scorso, durante un incontro informale avuto al ministero della Difesa con Guido Crosetto, dalla cui denuncia ha preso avvio l’indagine di Perugia sulle incursioni alle banche dati della procura nazionale antimafia. Nordio si è presentato accompagnato dalla vicecapo di gabinetto (ormai capo in pectore) Giusi Bartolozzi, per poi annunciare la proposta il giorno seguente senza che né gli uffici di diretta collaborazione, né i vertici degli uffici ispettivi ne fossero a conoscenza. “Credo che a questo punto si possa e si debba riflettere sulla necessità dell’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta con potere inquirente per analizzare una volta per tutte questa deviazione che già si era rilevata gravissima ai tempi dello scandalo Palamara e che adesso, proprio per le parole di Cantone, è diventata ancora più seria”, ha detto Nordio rispondendo a una domanda sul presunto dossieraggio al centro dell’indagine perugina. Le parole non proprio chiarissime del ministro, unite al riferimento allo scandalo Palamara, sembrano far intendere a una commissione d’inchiesta che dovrebbe interessarsi genericamente al tema degli accessi abusivi alle banche dati a disposizione delle unità investigative che operano nelle procure sparse per il paese. La proposta di Nordio, oltre a non essere stata condivisa in anticipo con il proprio dicastero, non sarebbe stata neanche anticipata alla presidenza del Consiglio. Da qui il gelo della premier Meloni e di Fratelli d’Italia. D’altronde, a indagare sugli accessi abusivi, oltre ai pm perugini, ci sta già pensando la commissione Antimafia (presieduta da Chiara Colosimo, fedelissima di Meloni), dotata di poteri inquirenti e che nei giorni scorsi ha già provveduto ad ascoltare in audizione il procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo e il procuratore di Perugia Raffaele Cantone. “Perché creare un doppione?”, si chiedono da FdI. Dubbi condivisi anche dagli alleati. Per il vicepremier e segretario di Forza Italia, Antonio Tajani, “è certo che bisogna scoprire la verità, ma vediamo qual è la forma: può essere una commissione di inchiesta ma c’è già la commissione Antimafia che ha poteri come l’autorità giudiziaria. Poi c’è la magistratura e io credo che entrambi i magistrati che seguono la vicenda, Cantone e Melillo possano già dirci molto”. Come mai Nordio non abbia pensato di confrontarsi sulla proposta con i suoi colleghi di governo è un mistero, che però conferma la scarsa sensibilità politica dell’ex procuratore aggiunto di Venezia. Ma non è di certo alla freddezza mostrata da FdI che deve attribuirsi la mancata partecipazione del Guardasigilli alla Leopolda di Matteo Renzi. Il leader di Italia viva era stato il primo a schierarsi a favore della proposta di Nordio sulla commissione d’inchiesta. “La prima volta che hanno cercato di costruire una polpetta avvelenata chiamata dossier era per la Leopolda”, ha ribadito Renzi in apertura della kermesse fiorentina. Tra i principali invitati c’era proprio Nordio, che all’ultimo ha però dato forfait. Secondo Renzi, dietro il passo indietro del Guardasigilli ci sarebbe la volontà di una parte di FdI di insabbiare l’indagine perugina: “Ho come l’impressione che ci sia una parte di Fratelli d’Italia che questa commissione non la voglia per niente. Alcuni cercano di abbuiare tutto. Se ci sono state decine di migliaia di accessi è evidente che il motto ‘non disturbare il manovratore’ non riguarda solo le classi dirigenti del passato ma anche quelle attuali”. Il caso ovviamente è monta. “Meloni imbavaglia Nordio”, ha scritto qualcuno. A spingere il Guardasigilli a non partecipare alla Leopolda, in realtà, sarebbe stata una questione di opportunità legata alla pesante guerra esplosa fra Renzi e il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro sul famoso sparo di Capodanno. Una guerra fatta di accuse, allusioni e querele per diffamazione (del secondo nei confronti del primo). Non proprio le migliori condizioni per un’ospitata del ministro alla manifestazione renziana. Il Procuratore generale di Perugia avverte Cantone: “Presunzione d’innocenza a rischio” di Errico Novi Il Dubbio, 12 marzo 2024 Comunicato stampa del magistrato dopo l’audizione del procuratore umbro in Antimafia sui presunti accessi abusivi alla Dna. “Avviso” non troppo “bonario” per altri due pm, Miliani e Formisano, per i loro scambi con l’ex cancelliere Guadagno, che ha patteggiato la pena per rivelazione del segreto. Perugia è una sede giudiziaria importante. Ha competenza a indagare sulle vicende in cui i magistrati di Roma compaiano come vittime o indiziati di reato. E negli ultimi giorni, il traffico di inchieste e notizie, sulle toghe del capoluogo umbro, è stato da ingorgo all’ora di punta. Da una parte il lavoro condotto dalla pm Laura Reale e coordinata dal capo dell’ufficio inquirente Raffaele Cantone sui presunti accessi abusivi al database della Dna. Dall’altra le notizie che, con stereofonica puntualità, il quotidiano La Verità ha pubblicato, nel corso della scorsa settimana, sui rapporti fra altri due pm perugini, Gemma Miliani e Mario Formisano, con l’ormai ex cancelliere della Procura umbra Raffaele Guadagno. Una sorta di cocktail ad alta gradazione, reso esplosivo dal lunghissimo intervento del procuratore Cantone davanti alla commissione parlamentare Antimafia di giovedì scorso. Quell’audizione ha sì offerto a deputati e senatori della Bicamerale un quadro un po’ più definito degli illeciti che si sarebbero consumati attorno agli archivi digitali di via Giulia, e contestati in particolare al sostituto della Dna Antonio Laudati e al finanziere Pasquale Striano, oltre che a 4 giornalisti. Ma è evidente che le parole di Cantone hanno totalmente lacerato il velo di riserbo che dovrebbe pur sempre avvolgere un’inchiesta penale, per quanto gravi possano essere le accuse per le quali si procede. Si può dire che l’audizione di Cantone introduce una novità rispetto alle stesse norme sulla presunzione d’innocenza. Che regolano sì il rapporto fra magistrati e i giornalisti, ma a cui evidentemente sfugge l’ipotesi di notizie fornite dal capo di una Procura non in modo surrettizio, com’è avvenuto migliaia di volte negli ultimi anni, ma, in una forma tanto trasparente quanto doviziosa, con un’audizione parlamentare a porte aperte, com’è appunto avvenuto giovedì per il Procuratore di Perugia a Palazzo San Macuto. E così il procuratore generale di Perugia Sergio Sottani ha avverto la necessità di diffondere a propria volta una nota per la stampa in cui, seppur con toni prudenti, comunica che non mancherà di “segnalare agli organi deputati al controllo quelle che potrebbero apparire eventuali anomalie comportamentali nell’esercizio della funzione giurisdizionale”. Gli “organi deputati al controllo” sugli illeciti, disciplinari, dei magistrati, sono il Procuratore generale della Cassazione e il ministro della Giustizia. Sempre che il pg di Perugia Sottani non intraveda addirittura anomalie di altra natura, addirittura penale, in qualcuna delle vicende a cui fa riferimento. Nel dettaglio, il magistrato requirente di più alto grado del distretto di Corte d’appello umbro ricorda nella nota stampa: “In questi giorni sono comparsi sugli organi di informazione degli articoli in cui si riporta il contenuto di interlocuzioni che sarebbero state intrattenute, all’interno della Procura della Repubblica di Perugia, tra un funzionario di cancelleria, sottoposto a procedimento penale per accesso abusivo a sistema informatico, e alcuni magistrati dello stesso ufficio perugino”, e siamo alla parte riguardante i pm Miliani e Formisano e i loro scambi di messaggi con l’ex cancelliere Guadagno, finite agli atti del processo in cui quest’ultimo ha patteggiato una pena di 1 anno e 2 mesi e che si è concluso a dicembre. Rispetto a questi rapporti, che La Verità, il giornale diretto da Maurizio Belpietro, ha appunto riferito nei giorni scorsi in tutti i più minuti dettagli, Sottani osserva che, “come avvenuto in passato per tutte le altre situazioni analoghe, questo Procuratore Generale ha attivato le proprie funzioni di sorveglianza sull’attività dei magistrati requirenti del distretto al fine di acquisire ogni elemento utile per consentire, eventualmente, agli organi istituzionalmente competenti di far piena luce sui fatti circostanziatamente segnalati”. Il caso Dna, l’indagine di Cantone e Reale su Striano e Laudati sembrerebbe sullo sfondo. Ma non è così, perché a questo punto il pg di Perugia scrive: “Appare necessario sottolineare come tale doverosa iniziativa di questo Procuratore Generale si colloca in un momento in cui la Procura della Repubblica di Perugia è impegnata in una indagine, che è balzata prepotentemente ed in modo deflagrante all’attenzione della pubblica opinione. Il quadro investigativo raccolto dalla Procura perugina, relativamente a presunti accessi abusivi da parte di una persona in servizio presso la Direzione Nazionale Antimafia”, cioè il finanziere Striano, “è apparso di tale inaudita gravità da indurre ad una inusuale congiunta richiesta di audizione del Procuratore della Repubblica”, Cantone, “unitamente al Procuratore Nazionale Antimafia ed Antiterrorismo”, Giovanni Melillo, sentito dalla commissione Parlamentare Antimafia il giorno prima, cioè mercoledì scorso. “Lo stato attuale delle indagini, complesse ed articolate oltre che estremamente delicate, è stato delineato dal Procuratore della Repubblica di Perugia nel corso delle pubbliche audizioni (anche al Copasir, ma in quel caso a porte chiuse, nda). Anche sul punto, l’attività di vigilanza sui rapporti con gli organi di informazione dei Procuratori del distretto impone a questo Procuratore Generale di verificare il corretto bilanciamento tra il doveroso diritto dell’opinione pubblica ad essere informata nella fase delle indagini ed il rispetto della presunzione di innocenza”. Una formula elegantissima per avanzare perlomeno un margine di dubbio sulla correttezza delle comunicazioni fatte da Cantone a Palazzo San Macuto rispetto al rigoroso perimetro che sarebbe imposto dal decreto Cartabia sulla presunzione d’innocenza - perimetro che non sarebbe stato oltrepassato se l’audizione in commissione Antimafia fosse avvenuta a porte chiuse. Qui appunto il passaggio conclusivo del pg di Perugia Sottani, con le ventilate segnalazioni ai titolari dell’azione disciplinare per i magistrati, cioè pg di Cassazione e guardasigilli: “In conclusione, l’attività di questo Procuratore Generale, nei rigorosi limiti delle proprie attribuzioni, viene svolta sempre nella duplice direzione di evitare attacchi strumentali alla funzione giudiziaria ed ai magistrati requirenti che la incarnano e, contestualmente, di segnalare agli organi deputati al controllo quelle che potrebbero apparire eventuali anomalie comportamentali nell’esercizio della funzione giurisdizionale”. Che qualcosa di irrituale fosse avvenuto, nelle ultime ore, con la “discovery” istituzionale ma anche mediatica proposta da Cantone, era evidente (ed è stato non a caso rilevato dal direttore di questo giornale con un’editoriale pubblicato venerdì scorso). Ma certo, a questo punto il corto circuito cognitivo tra segreti violati, archivi setacciati, veline trasmesse ai giornali, è così vorticoso da infliggere l’ennesimo esiziale colpo alla credibilità della magistratura, e del sistema giustizia nel suo complesso. Tanto che fanno sempre più sorridere le riserve espresse sulle iniziative con cui il ministro Carlo Nordio vorrebbe rafforzare i presidi a tutela della riservatezza e della dignità degli indagati, per non dire dei terzi estranei a qualsiasi ipotesi d’accusa. Dossieraggio, il fastidio di Cantone dopo l’annuncio: una mossa che suona come presa di distanza di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 12 marzo 2024 Cantone ha più volte sottolineato la necessità di preservare la “presunzione di innocenza” del tenente Striano, del pm Laudati e dei giornalisti coinvolti nell’inchiesta. I pm hanno chiesto tutela al Csm che non ha ancora detto quando li sentirà. A chi gli ha chiesto lumi sul comunicato a sua firma in cui definisce “inusuale” l’iniziativa dei suoi colleghi di riferire al Parlamento su un’indagine in corso, e informa di controlli in corso su “eventuali anomalie”, il procuratore generale di Perugia Sergio Sottani ha risposto che non c’è niente di strano. E tantomeno che la sua esternazione voglia segnare una presa di distanze dal procuratore Raffele Cantone, il quale si trova già in una situazione di grande esposizione politico-mediatica e ora vede accendersi su di sé un altro riflettore: l’attenzione pubblicamente dichiarata del procuratore generale che di sicuro non gli ha fatto piacere, come riferisce chi ne ha raccolto le reazioni. E però, con tutta la buona volontà, è difficile leggere qualcosa di diverso in un comunicato stampa partorito nel fine settimana e diffuso da Sottani lunedì mattina, appena rientrato in ufficio. Anzitutto perché “inusuale” e non scevro di “eventuali anomalie” sembra proprio l’annuncio in pompa magna dell’esercizio delle proprie prerogative, che contribuisce a tenere alta l’attenzione (e pure la tensione) sulla vicenda dei presunti dossieraggi che da dieci giorni tiene banco e alimenta le polemiche politiche; con un paio di ministri che addirittura invocano una commissione parlamentare d’inchiesta quando già ce n’è un’altra (l’Antimafia) che se ne occupa. E poi, se le parole hanno un senso, un procuratore generale che proclama di essere pronto a controllare l’operato di un procuratore lascia inevitabilmente intendere che le mosse di quel procuratore potrebbero non essere state corrette, altrimenti non ci sarebbe motivo di rassicurare la pubblica opinione che c’è un pg a vigilare. Come peraltro prevede la legge: dunque perché ribadirlo in forma così solenne? Il pg Sottani ricorda a tutti che, alla luce delle “inusuali” comunicazioni al Parlamento, suo compito è “verificare il corretto bilanciamento tra il doveroso diritto dell’opinione pubblica ad essere informata nella fase delle indagini ed il rispetto della presunzione di innocenza”. Ma se c’è bisogno di verifica vuol dire che a qualcuno è sorto il dubbio che quel “corretto bilanciamento” non sia stato applicato, cioè o al pg stesso o altri che con lui l’hanno condiviso; e dunque che nell’audizione di Cantone davanti all’Antimafia (quella al comitato di controllo sui servizi di sicurezza è rimasta segreta) lo svelamento di numeri e modalità dell’inchiesta abbia compromesso le garanzie di non colpevolezza degli indagati. Le parole pronunciate da Cantone in Parlamento, come quelle del procuratore nazionale antimafia Melillo, hanno sicuramente contribuito a enfatizzare la “inaudita gravità” dei fatti scoperti nell’indagine di Perugia. Tuttavia lo stesso Cantone ha più volte sottolineato la necessità di preservare la “presunzione di innocenza” del tenente Striano, del pm Laudati, dei giornalisti e di tutte le altre persone coinvolte nell’inchiesta; ha specificato di riferire solo “fatti storici incontestabili”, perché la responsabilità penale è cosa diversa e va raggiunta attraverso le successive fasi dell’indagine e dell’eventuale processo; che “sospetti e illazioni possono essere spunti per sviluppare piste investigative” ma non il fondamento di un giudizio penale; che di “dossieraggio” lui non ha mai parlato, né per dire che c’è stato né che non c’è stato. Certo, come chiarito da Sottani compito del pg non è solo “segnalare eventuali anomalie agli organi deputati al controllo”, cioè i titolari dell’azione disciplinare, ma anche “evitare attacchi strumentali ai magistrati requirenti” nello svolgimento delle loro funzioni. Dunque a tutela del procuratore. Il quale l’ha già chiesta - insieme a Melillo - al comitato di presidenza del Consiglio superiore della magistratura, l’organo di autogoverno delle toghe chiamato a preservarne autonomia e indipendenza. Che dopo più di una settimana non ha ancora comunicato ai due magistrati se, come e quando intende sentirli. Nel frattempo è arrivato il pg Sottani, che prima ancora di dare alla sua iniziativa la pubblicità poco gradita da Cantone, ha chiesto al procuratore una serie di relazioni su questa vicenda e su altre che non c’entrano niente ma sono state ugualmente accostate al “caso Striano-Laudati”. Giustizia riparativa, i casi più eclatanti e le polemiche: “Pentimenti di facciata per ottenere sconti” di Andrea Gianni Il Giorno, 12 marzo 2024 Dal killer di Carol Maltesi a Cesare Battisti, passando per Alessandro Impagnatiello. L’opposizione dei familiari e i dubbi dei giuristi. Tra i primi a ottenere il via libera a percorsi di giustizia riparativa regolati dalla riforma Cartabia c’è Davide Fontana, il bancario che l’11 gennaio 2022 uccise l’ex fidanzata Carol Maltesi nella sua abitazione a Rescaldina, nel Milanese, colpendola con 13 martellate alla testa e poi sgozzandola. Condannato all’ergastolo, si è detto “fermamente deciso a voler riparare per quanto possibile alle sue azioni”. Un percorso sul quale, hanno spiegato i suoi difensori, “si sta avviando la fase della fattibilità concreta”, dopo che i giudici avevano dato il via libera all’invio della richiesta di ammissione ad uno dei centri previsti dalla legge, senza comportare alcun premio o sconto per il condannato. I familiari della vittima, però, hanno sempre manifestato una ferma opposizione a qualsiasi ipotesi di incontro o dialogo con l’uomo, mediato da uno specialista. Si sono opposti all’ipotesi di un percorso di giustizia riparativa anche i familiari delle vittime di Cesare Battisti, condannato all’ergastolo per quattro omicidi e altri fatti di sangue commessi negli anni di piombo, quando militava nei Proletari armati per il terrorismo. Aveva iniziato, infatti, a lavorare all’iter, previsto dalla riforma Cartabia, per chiedere di essere ammesso alla mediazione penale che potrebbe portare a benefici penitenziari o a permessi premio. Ha chiesto l’accesso alla giustizia riparativa anche Massimo Adriatici, ex assessore leghista a Voghera sotto processo a Pavia per eccesso colposo di legittima difesa per la morte di Youns El Bossettaoui, ucciso la sera del 20 luglio 2021 da un colpo sparato dalla sua pistola. E ha fatto discutere anche il caso di Alessandro Impagnatiello, l’ex barman che ha ucciso la fidanzata Giulia Tramontano a Senago: anche lui potrebbe puntare all’accesso a un percorso, fuori dal procedimento a suo carico. La giustizia riparativa, secondo la riforma Cartabia, costituisce un “diritto del cittadino”, con accesso libero e volontario favorito dall’autorità giudiziaria. I dubbi sollevati da familiari delle vittime, da politici e giuristi, vertono però sul pericolo che un pentimento solo di facciata nasconda il tentativo di ottenere benefici in carcere e sconti di pena, pur non essendoci un automatismo. Poi c’è la questione dei centri territoriali che dovrebbero occuparsi dei percorsi. In alcune città esistono realtà già operative e sperimentazioni in corso, mentre in altre si attende ancora una creazione definitiva, che avverrà nei prossimi mesi, in un settore da sempre a corto di risorse. A queste nuove strutture messe in campo dalla riforma Cartabia si deve rivolgere il detenuto che sarà seguito dai responsabili del progetto. Norme anche per rendere organiche iniziative finora affidate solo a iniziative particolari, come ad esempio il Gruppo della Trasgressione creato un quarto di secolo fa nel carcere di Opera dallo psicologo Angelo Aparo per il recupero dei detenuti attraverso l’auto-percezione delle proprie responsabilità e la presa di coscienza dei reati commessi. Iniziativa che ha portato anche a numerosi incontri fra condannati e vittime. “L’archiviazione per prescrizione non è condanna”. Parola di Consulta di Simona Musco Il Dubbio, 12 marzo 2024 Per i giudici costituzionali è una “patologia” presentare una persona con colpevole tramite le richieste e o i decreti di archiviazione che avvalorano la tesi accusatoria. Richieste o decreti di archiviazione che, anziché limitarsi a ricostruire il fatto nei termini strettamente necessari a verificare l’avvenuto decorso del termine di prescrizione, esprimono giudizi sulla colpevolezza dell’interessato, violano “in maniera eclatante” la presunzione di non colpevolezza e il diritto di difesa. Un diritto “in radice negato dall’affermazione, da parte del pubblico ministero o del gip, del carattere veritiero, o comunque affidabile, degli elementi acquisiti nel corso di un’indagine, senza che sia assicurata all’indagato - che potrebbe anzi essere rimasto del tutto ignaro dell’indagine - alcuna effettiva possibilità di contraddirli, ed eventualmente di provare il contrario”. A stabilire questo importantissimo principio è la Corte costituzionale, che si è pronunciata sulla questione sollevata dal Tribunale di Lecce, al quale si è rivolto un magistrato chiedendo di vedersi riconosciuto il diritto di rinunciare alla prescrizione, per potersi difendere nel merito nell’ambito di un’indagine a suo carico conclusasi con l’archiviazione. Archiviazione di cui solo per caso era venuto a conoscenza e disposta con un decreto che, di fatto, avvalorava l’ipotesi accusatoria, esprimendo un giudizio di colpevolezza nei suoi confronti senza possibilità di contraddittorio. Nella richiesta di archiviazione, infatti, i pm sottolineavano come l’ipotesi mossa nei confronti del magistrato - accusato di corruzione da parte di un imprenditore - fosse suffragata da “molteplici elementi di riscontro documentali”, puntualmente elencati nella richiesta di archiviazione. Ragioni fatte proprie dal gip, che le ha “ritenute corrette in fatto e in diritto e, perciò, pienamente condivise”. Non avendo mai saputo dell’indagine, il magistrato si lamentava di non essere stato messo in condizione di rinunciare alla prescrizione ed esercitare, dunque, il proprio “diritto al processo e, quindi, alla prova”, avendo interesse a essere giudicato nel merito delle accuse, date le possibili gravi conseguenze per la sua sfera professionale e lavorativa. Nella memoria illustrativa del suo difensore, infatti, è stato evidenziato come non si possa dire “che solo l’imputato subisce pregiudizi per il fatto di essere sottoposto a processo: al contrario - e a dirlo è un magistrato, per un volta, ndr -, nella grande maggioranza dei casi, è proprio la fase delle indagini preliminari a lasciare “una macchia” indelebile sulla persona dell’indagato”, che egli non potrebbe neppure tentare di eliminare, “non sussistendo alcun obbligo di notifica della richiesta di archiviazione per prescrizione nei suoi confronti ed essendo quindi a lui impedito di rinunciare alla prescrizione”. E il pregiudizio, sostiene ancora il magistrato, è dimostrato dal fatto che tale provvedimento di archiviazione è stato utilizzato dalla Quinta Commissione del Csm a seguito della sua domanda di conferimento di un incarico direttivo e alla sua audizione: stando alla delibera, secondo i membri del Csm le sue argomentazioni sarebbero state idonee “in modo incontrovertibile”, allo stato, ad “attenuare la gravità del quadro probatorio quale risulta dalla menzionata richiesta di archiviazione (condivisa dal gip)”. Per la Consulta, non esisterebbe un diritto a rinunciare alla prescrizione in fase di indagine, in quanto “né dalla mera iscrizione nel registro delle notizie di reato, né dal provvedimento di archiviazione” andrebbe fatta discendere “alcuna conseguenza giuridica pregiudizievole per l’interessato”. Se questo è vero sulla carta, però, l’esperienza dimostra che le cose vanno in maniera radicalmente diversa nella vita reale. Tant’è che la stessa Corte costituzionale parla di “patologia”, laddove un’archiviazione per prescrizione si dilunga “in apprezzamenti sulla fondatezza della notitia criminis stessa”. “Simili provvedimenti - afferma la Corte - sono gravemente lesivi dei diritti fondamentali della persona interessata; e devono pertanto essere rimossi attraverso appropriati rimedi processuali”. Richieste o decreti di archiviazione così motivati, infatti, perdono il “carattere di “neutralità” che li dovrebbe caratterizzare, e sono in concreto suscettibili di produrre - ove per qualsiasi ragione arrivino a conoscenza dei terzi, come spesso accade - gravi pregiudizi alla reputazione, nonché alla vita privata, familiare, sociale e professionale, delle persone interessate”. Tra i rimedi la Consulta indica la direttiva sulla presunzione d’innocenza, recepita dall’Italia a novembre 2021. Una direttiva mal digerita dai più - soprattutto stampa e magistratura - ma essenziale, sembra dire la Consulta, dal momento che provvedimenti come l’archiviazione oggetto di questa sentenza “evidenziano, a ben guardare, una vera e propria deviazione del provvedimento rispetto allo scopo tipico dell’atto”. Il miglior riassunto di questa importantissima pronuncia sta dunque nella sua conclusione: “La persona sottoposta alle indagini - afferma la Corte -, se non ha in via generale il diritto di rinunciarvi, ha invece il pieno diritto di avvalersi della prescrizione, che è posta a tutela anche del suo soggettivo interesse a essere lasciata in pace dalla pretesa punitiva statale, rimasta inattiva per un rilevante lasso di tempo dalla commissione del fatto a lei attribuito, senza che tale legittima scelta di avvalersi della prescrizione comporti, per l’interessato, la perdita del suo diritto fondamentale a non essere pubblicamente additato come colpevole in assenza di un accertamento giudiziale”. L’archiviazione per prescrizione non può presentare la persona come colpevole di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 12 marzo 2024 Per la Corte costituzionale, sentenza n. 41 depositata oggi, se il provvedimento esprime giudizi sulla colpevolezza dell’imputato “esso risulterà del tutto indebito, essendo venuti meno gli stessi poteri di indagine e di valutazione del PM”. Un provvedimento di archiviazione per prescrizione del reato, che esprima apprezzamenti sulla colpevolezza della persona indagata, viola “in maniera eclatante” il suo diritto costituzionale di difesa e il suo diritto al contraddittorio, oltre che il principio della presunzione di non colpevolezza. Così la Corte costituzionale nella sentenza n. 41, depositata oggi, nella quale è stata dichiarata non fondata, alle condizioni chiarite nella pronuncia, una questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Lecce. Nel caso all’esame del Tribunale, una persona già sottoposta a indagini era casualmente venuta a conoscenza di un provvedimento di archiviazione per prescrizione già pronunciato nei suoi confronti, in cui si affermava, tra l’altro, che le accuse rivolte contro di lei erano suffragate da molteplici elementi di riscontro, puntualmente elencati. La persona interessata aveva, quindi, proposto reclamo contro il provvedimento, manifestando al tempo stesso la propria volontà di rinunciare alla prescrizione. Il Tribunale di Lecce aveva allora chiesto alla Corte di introdurre un generalizzato obbligo, a carico del pubblico ministero, di avvisare preventivamente la persona sottoposta alle indagini dell’eventuale richiesta di archiviazione per prescrizione del reato nei suoi confronti, in modo da consentirle di rinunciare alla prescrizione e ottenere una pronuncia che riconosca la sua innocenza. La Corte costituzionale ha ritenuto infondata la questione. È vero che la Corte ha, in passato, riconosciuto il diritto dell’imputato a rinunciare alla prescrizione, in seguito all’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero. Ma tale diritto non necessariamente deve riconoscersi anche a chi sia soltanto sottoposto a indagini preliminari, senza che l’ipotesi di reato a suo carico sia mai stata fatta propria dal pubblico ministero. La Corte ha però ricordato che già durante le indagini preliminari l’interessato dispone dei mezzi ordinari a difesa della propria reputazione - a cominciare dalla denuncia per calunnia e/o diffamazione sino all’azione di risarcimento del danno - “contro qualsiasi privato che lo abbia ingiustamente accusato di avere commesso un reato, nonché contro ogni indebita utilizzazione, da parte dei media, degli elementi di indagine e dello stesso provvedimento di archiviazione, così da presentare di fatto la persona come colpevole (…). Inoltre, un elementare principio di civiltà giuridica impone che tutti gli elementi raccolti dal pubblico ministero in un’indagine sfociata in un provvedimento di archiviazione debbano sempre essere oggetto di attenta rivalutazione nell’ambito di eventuali diversi procedimenti (civili, penali, amministrativi, disciplinari, contabili, di prevenzione) in cui dovessero essere in seguito utilizzati”, così da assicurare all’interessato in quelle sedi “le più ampie possibilità di contraddittorio (…), anche mediante la presentazione di prove contrarie”. Inoltre, il caso specifico all’esame del Tribunale di Lecce - ha proseguito la Corte - è “emblematico di una specifica patologia”, rappresentata da un provvedimento di archiviazione per prescrizione che presenta la persona sottoposta alle indagini come colpevole, senza averle dato alcuna possibilità di difendersi dalle accuse. In proposito, la Corte ha sottolineato che tanto l’iscrizione nel registro degli indagati, quanto il provvedimento di archiviazione che chiude le indagini, sono provvedimenti concepiti dal legislatore come “neutri”, dai quali è erroneo far discendere conseguenze negative per la reputazione dell’interessato. Se però il provvedimento di archiviazione esprima giudizi sulla colpevolezza dell’imputato, esso risulterà del tutto indebito, “a fronte della considerazione che, una volta riscontrato l’avvenuto decorso del termine di prescrizione, gli stessi poteri di indagine e di valutazione del pubblico ministero sui fatti oggetto della notitia criminis vengono meno”. Ancora, provvedimenti simili “sono in concreto suscettibili di produrre - ove per qualsiasi ragione arrivino a conoscenza dei terzi, come spesso accade - gravi pregiudizi alla reputazione, nonché alla vita privata, familiare, sociale e professionale, delle persone interessate. Ciò che, in ipotesi, potrebbe dare altresì luogo a responsabilità civile e disciplinare dello stesso magistrato” che ha richiesto o emesso il provvedimento, in quanto ne ricorrano i presupposti di legge. Il complessivo bilanciamento degli interessi in gioco esige, in conclusione, che sia sempre assicurata all’interessato la possibilità di un ricorso effettivo contro questi provvedimenti, che indebitamente inseriscono in un’archiviazione il contenuto tipico di una sentenza di condanna, senza che l’indagato - in ipotesi rimasto all’oscuro dell’indagine - abbia avuto alcuna concreta possibilità di esercitare il proprio diritto al contraddittorio rispetto agli elementi raccolti a suo carico dal pubblico ministero. Niente musica in cella per i detenuti al 41-bis Il Centro, 12 marzo 2024 Per i giudici della Cassazione un detenuto sottoposto al regime differenziato previsto dall’articolo 41-bis dell’ordinamento penale non può avere in cella un “dispositivo di lettura musicale”. La Cassazione ha accolto un ricorso del ministero della Giustizia cancellando una decisione del tribunale di sorveglianza dell’Aquila che invece aveva detto sì alla richiesta di un camorrista recluso nel penitenziario di Preturo con pesanti accuse a carico Per i giudici dell’Alta Corte “la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che, in tema di regime penitenziario differenziato 41-bis, è legittimo il provvedimento dell’Amministrazione penitenziaria di diniego dell’autorizzazione all’acquisto e alla detenzione di compact disc musicali e dei relativi lettori digitali, qualora, per l’incidenza sull’organizzazione della vita dell’istituto in termini di impiego di risorse umane e materiali, non sia possibile la messa in sicurezza di detti dispositivi e supporti. Va dunque ribadita la necessità che il tribunale di sorveglianza, prima di riconoscere il diritto del detenuto a utilizzare compact disc a uso ricreativo, verifichi se tale impiego, pur in assoluto non precluso dalla normativa vigente, possa nondimeno comportare inesigibili adempimenti da parte dell’Amministrazione penitenziaria in relazione agli indispensabili interventi su dispositivi e supporti, tali da rendere ragionevole la scelta, operata dalla direzione di istituto, di non autorizzarne l’ingresso nei reparti ove vige il regime penitenziario differenziato. Scelta che, implicando un apprezzamento della possibilità di soddisfare le esigenze ricreative dei detenuti alla luce delle risorse disponibili, rientrerebbe in un ambito di legittimo esercizio del potere di organizzazione della vita degli istituti penitenziari. Nel caso concreto ora in esame, dalla lettura dell’ordinanza impugnata non emerge che il tribunale di sorveglianza abbia fatto corretta applicazione dei suddetti princìpi. Le affermazioni contenute nell’ordinanza, circa le operazioni di messa in sicurezza - che il personale di polizia penitenziaria è chiamato a eseguire in materia - non dimostrano che sia stata adeguatamente valutata la loro incidenza sull’effettiva organizzazione della vita dell’istituto in termini di impiego di risorse umane e materiali. L’ordinanza quindi dev’essere annullata con rinvio al tribunale di sorveglianza dell’Aquila che svolgerà nuovo giudizio senza incorrere nel vizio riscontrato, ma valutando in modo compiuto sulla base di approfondimenti argomentativi, nel rispetto dei princìpi richiamati”. Sardegna. La Garante dei detenuti: “In 3 carceri sarde troppi malati psichiatrici” ansa.it, 12 marzo 2024 “Una sanità disastrosa che nelle carceri riflette la situazione che sta vivendo la nostra Sardegna. All’interno di questi contenitori è racchiuso un numero sproporzionato il disagio psichico. Al carcere di Uta su 630 detenuti, la maggior parte dei quali è affetta da gravi patologie psichiatriche è presente un solo psichiatra. Sono 460 i detenuti che assumono terapie. Molti anche a Bancali, basta girare le sezioni per rendersi conto del disagio. A Isili la percentuale delle patologie psichiatriche sfiora l’80% e la colonia risulta abbandonata dal servizio Asl”. Lo denuncia, in una nota, Irene Testa Garante regionale delle persone private della libertà In generale si avverte “un totale distacco e poca collaborazione tra il servizio sanitario gestito in totale autonomia e le direzioni. In tutti i 10 istituti è carente la presenza di personale sanitario - continua - Spesso non si riescono ad avere le diagnosi dei reclusi ma basta fare un giro nelle sezioni per rendersi conto della grave condizione della maggior parte dei reclusi”. “Una popolazione composta da tossicodipendenti, soggetti borderline, bipolari, malattie virali quali Hiv. Sono diversi i detenuti che dovrebbero stare in altre strutture idonee alla cura ma le strutture territoriali non se ne fanno carico - conclude Testa - Se come è giusto la sanità rappresenta il primo punto per la Presidente della regione, non si trascuri quella penitenziaria. Il diritto alla salute è contemplato per tutti i cittadini compresi quelli che sono privati della libertà. Su questo interesserò nel breve tempo tutti i soggetti istituzionali che hanno responsabilità al riguardo”. Lazio. L’equo compenso agli psicologi penitenziari garantedetenutilazio.it, 12 marzo 2024 “Apprezzo il riconoscimento della qualità professionale degli psicologi da parte dell’Amministrazione penitenziaria, per le finalità di osservazione e trattamento in vista del reinserimento sociale”. Così il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Stefano Anastasìa, sui recenti aumenti delle tariffe orarie garantite agli psicologi consulenti dell’amministrazione per la valutazione dei detenuti. “Mi auguro che l’adeguamento delle tariffe sia sostenuto da maggiori disponibilità di bilancio, in modo da garantire lo stesso numero di ore di prestazioni professionali”, conclude il Garante. Come si apprende dal sito dell’Ordine degli psicologi del Lazio, con Decreto n. 2 del 16 gennaio 2024 la Direzione generale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) ha aggiornato i compensi orari spettanti agli psicologi che, ai sensi dell’art. 80 dell’Ordinamento penitenziario (legge 354/1975), svolgono prestazioni professionali in convenzione al fine di ottenere un’attività di consulenza per l’osservazione e il trattamento delle persone detenute, mentre l’assistenza psicologica alle persone detenute è assicurata dagli psicologi delle Asl. A partire dal 1 febbraio 2024 il compenso orario spettante agli psicologi penitenziari è passato da 17,63 a 30 euro lordi, oltre Iva e oneri previdenziali. L’aggiornamento della tariffa fa seguito alle nuove disposizioni normative in materia di equo compenso, che interessano - come evidenziato dall’Ordine degli psicologi all’indomani dell’approvazione della norma - anche il ministero della Giustizia. Con l’Amministrazione penitenziaria, infatti, i professionisti esperti ex art. 80 instaurano un rapporto di consulenza, prestata dallo psicologo in regime di libera professione. “La rideterminazione da parte del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del compenso orario previsto per le prestazioni rese dai professionisti psicologi rappresenta una buona notizia. È la conferma del fatto che la legge sull’equo compenso, seppure in vigore da pochi mesi, inizia a produrre gli effetti auspicati”. Questo il commento di Federico Conte, presidente dell’Ordine degli psicologi del Lazio. Milano. Record di ricorsi sui trattamenti inumani per i detenuti di Rosario Di Raimondo La Repubblica, 12 marzo 2024 In due mesi oltre 500 denunce, la stessa cifra dell’intero anno scorso. I problemi sono gli spazi ridotti, le attività scarse e le celle sempre chiuse. Dal sovraffollamento alle celle troppo “chiuse”: è boom di ricorsi di detenuti che denunciano “trattamenti inumani e degradanti” in carcere, in violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani. Come certifica il tribunale di Sorveglianza di Milano, che ha competenza non solo sul capoluogo lombardo ma anche su altri istituti penitenziari della regione, dal primo gennaio al 10 febbraio di quest’anno, quindi in poco più di un mese, le nuove denunce registrate sono state 555. A colpire è il confronto con il passato: il dato, seppur parziale, è già più alto dell’intero 2023 (quando i reclami furono 477 in dodici mesi) e di tutto il 2022 (534). Dato che potrebbe rappresentare una spia sul peggioramento delle condizioni delle persone recluse. Durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario milanese, a gennaio, la Camera penale guidata da Valentina Alberta aveva denunciato: a San Vittore il sovraffollamento supera il 230 per cento. In celle pensate per due persone, convivono in cinque. Altro che i tre metri quadrati di spazio che andrebbero garantiti dietro le sbarre. Venerdì scorso, davanti al ministro della Giustizia Carlo Nordio, è stato Giovanni Rocchi, presidente dell’Unione lombarda degli ordini forensi, a rimarcare: “Siamo una delle regioni più industrializzate del mondo ma abbiamo due carceri che si giocano il primato di peggior carcere d’Italia (per il sovraffollamento, ndr). San Vittore e Canton Mombello a Brescia concorrono tra prima e seconda posizione. L’avvocatura non può tacere”. Dopo la sentenza “Torreggiani” del 2013, che condannò l’Italia per la violazione dei diritti in carcere, il nostro ordinamento penitenziario rispose con gli articoli 35 bis e ter: nei casi di trattamenti “inumani” riconosciuti dai tribunali di Sorveglianza, i detenuti hanno diritto a ottenere una riduzione della pena ancora da scontare pari a un giorno per ogni dieci di detenzione. Se nel frattempo le persone recluse espiano la pena, hanno diritto a un risarcimento di 8 euro per ogni giorno di detenzione ingiusta. Questa montagna di ricorsi si ripercuote sui magistrati che devono decidere se dare ragione o torto ai detenuti: il giudice monocratico instaura il procedimento, celebra l’udienza, verifica le condizioni di carcerazione - i metri quadrati, gli orari di apertura delle celle, le attività svolte in carcere o fuori, l’arrivo della luce diretta - e se vengono riscontrate irregolarità scatta il provvedimento che riduce la pena o impone il risarcimento economico. Il Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) può impugnare le decisioni facendo ricorso in secondo grado. Alla fine c’è la Cassazione. Oltre al sovraffollamento, fanno notare gli addetti ai lavori, incide molto il fatto che le celle sono più chiuse rispetto a prima, per tanti motivi: dalla mancanza di alternative concrete alla pura detenzione al fatto che dal punto di vista della sicurezza è più semplice tenere una porta chiusa. Con questi numeri, è logico supporre che per il tribunale di Sorveglianza di Milano il 2024 non sarà un anno facile. A gennaio i ricorsi pendenti, quindi ancora da valutare, erano 387, ai quali si sono sommati i 555 nuovi ricorsi registrati, cioè i sopravvenuti. A giudicare da come è andato il 2023, la maggior parte dei reclami viene accolta. I giudici milanesi l’anno scorso hanno definito 483 procedimenti: in 300 casi i ricorsi per la riduzione della pena o il risarcimento sono stati accolti, mentre 73 richieste sono state rigettate e 84 sono state giudicate inammissibili. Milano. Giovanna Di Rosa: “Se non c’è la legalità il carcere peggiora le persone” di Rosario Di Raimondo La Repubblica, 12 marzo 2024 Intervista alla presidente del tribunale di Sorveglianza: “Quando risarciamo i detenuti stiamo affermando che c’è stata una costrizione illegittima, una contraddizione, e molti vincono le cause”. Giovanna Di Rosa, presidente del tribunale di sorveglianza di Milano, nel primo mese del 2024 il numero di ricorsi presentati dalle persone recluse per detenzione inumana e degradante supera quello dell’intero 2023. Cosa sta succedendo? “Penso che sia il risultato di due fattori: da un lato il cresciuto sovraffollamento, dall’altro le celle molto più chiuse di un tempo, per via di una circolare del luglio 2022 alla quale però non si è potuta accompagnare un’effettiva previsione di attività trattamentali garantite a tutti, a causa delle effettive disponibilità delle strutture penitenziarie”. Le celle sono sovraffollate e i detenuti devono starci di più per mancanza di alternative... “La percentuale altissima di sovraffollamento induce i detenuti a presentare i ricorsi, molti dei quali vengono accolti. La fortissima impennata è un’altra emergenza” Che riflessioni se ne possono trarre? “Penso che ci sia sempre la possibilità di recuperare il buono che per natura esiste in ogni persona, anche se ha commesso un reato. Il rischio, se la legalità non riesce ad affermarsi, è quello di restituire alla società delle persone uguali, se non peggiori rispetto a quando sono entrate in carcere. Quando risarciamo i detenuti, stiamo affermando che c’è stata una carcerazione illegittima. Una contraddizione. È molto difficile pretendere legalità da una carcerazione che ha portato a dover risarcire un danno”. Di quante carceri e detenuti vi occupate? “Tredici carceri, per oltre 7 mila detenuti, senza dimenticare le migliaia di persone che sono fuori: dai domiciliari a chi è in libertà vigilata. E noi siamo 24 magistrati, alle prese anche con una grave carenza di personale amministrativo”. Quali sono le difficoltà maggiori del carcere? “A Milano abbiamo dei primati - o il secondo posto, a seconda dei momenti - a livello nazionale: il maggior numero di detenuti, la maggiore percentuale di sovraffollamento e la maggior percentuale di stranieri. Un aspetto che rende la carcerazione più complessa e difficile”. Tutto ciò come si ripercuote sulle persone recluse? “Un tema molto forte è il diritto alla salute. Ci sono due criticità: i ritardi per ottenere visite e ricoveri programmati e i problemi per le scorte di polizia penitenziaria che devono accompagnare i detenuti in ospedale. Se una visita viene fissata in ritardo, e se il ritardo è ulteriormente appesantito dal fatto che non ci sono scorte sufficienti per accompagnare il detenuto, è difficile sostenere nella decisione che la persona è curata adeguatamente al pari di quanto avverrebbe all’esterno”. Senza contare le persone con problemi psichiatrici... “Un problema in crescita in particolare fra gli stranieri. Soprattutto per il carcere di San Vittore, molti di loro sono stati arrestati arrivando dalla strada, hanno disturbi legati alla provenienza, ai disturbi post traumatici da stress per le torture subite nei Paesi d’origine. I gesti autolesivi sono tantissimi. Per non parlare dei suicidi, tentati o, purtroppo, a volte riusciti. San Vittore raccoglie molte di queste situazioni, che sono difficili da gestire. Le carenze del sistema sanitario ricadono anche sulle carceri”. Nei mesi scorsi un uomo ha ucciso e fatto a pezzi la vicina di casa: lui doveva stare in una Rems ma non c’era posto... “Non ci sono posti sufficienti nelle Rems perché la legge ha voluto prevedere il numero chiuso: se fosse così anche per le carceri, paradossalmente non avremmo sovraffollamento… Servono assolutamente più Rems, o più posti nelle residenze che ci sono già, che sono di gestione esclusivamente sanitaria. È indispensabile, perché oltre al caso drammatico che lei ha citato ci sono tante persone in attesa: nel frattempo sono libere ma socialmente pericolose, oppure detenute in carcere, dove in realtà non potrebbero stare”. A San Vittore si discute molto dell’inchiesta “bis” su Alessia Pifferi che ha portato all’indagine su un gruppo di psicologhe. Che idea si è fatta? “Non voglio e non posso entrare nel merito dell’indagine. Dico soltanto che ho la massima considerazione della professionalità e della generosità degli operatori che lavorano in tutti gli istituti penitenziari del distretto, nessuno escluso”. Parma. Carcere, continua la protesta di 114 detenuti dell’Alta Sicurezza parmatoday.it, 12 marzo 2024 Ecco cosa chiedono: dalle chiamate ai familiari agli aspiratori nei bagni. Prosegue, in questi giorni, la protesta di 114 detenuti della Sezione Alta Sicurezza all’interno del carcere parmigiano di via Burla. La mobilitazione interna, annunciata per quattro settimane dalla fine di febbraio, ha lo scopo di far luce sulle condizioni di vita delle persone all’interno del carcere. La protesta, che si sta concretizzando anche attraverso alcuni scioperi della fame a staffetta tra i detenuti, ha delle richieste ben precise. Una lista dettagliata di 25 punti è stata infatti consegnata alle autorità, tra cui anche il Garante dei Detenuti della Regione Emilia-Romagna. Dall’autorizzazione alle chiamate ai famigliari anche nei giorni festivi, all’inserimento dei detenuti nelle sezioni ad alta sicurezza nelle liste di abilitazione al lavoro, dagli aspiratori nei bagni alle salette per fumatori, dal miglioramento dell’assistenza sanitaria alle condizioni delle camere di pernottamento. Una lista dettagliata di fattori di disagio (25 punti) che, secondo i detenuti, “rendono il trattamento carcerario debilitante, fisicamente e psicologicamente, tanto da incidere negativamente sulla vita del detenuto e dei suoi affetti famigliari”. L’Alta Sicurezza è una sezione del carcere in cui sono riuniti tutti i condannati per reati di tipo associativo (mafia, traffico di droga), che sono sottoposti ad una sorveglianza più stretta rispetto ai detenuti comuni. I firmatari della lettera annunciano di “essere disposti ad attuare uno sciopero generale di quattro settimane, pacifico e non violento, che vede progressivamente la sospensione della spesa, del vitto giornaliero, dell’assunzione di cibo e, da ultima, la sospensione di tutte le attività lavorative e formative”. Terni. “Il carcere, dal sistema afflittivo a quello rieducativo” di Marco Brunacci umbria7.it, 12 marzo 2024 Intervista all’ex Direttore della Casa Circondariale di Terni, Francesco Dell’Aira. In occasione del 207° anno della fondazione del Corpo di Polizia Penitenziaria abbiamo incontrato un uomo che ha passato la sua vita nell’amministrazione penitenziaria. Un’amministrazione per quello che è stata, per quella che è oggi e per gli obiettivi che si è prefissa a medio e lungo termine di raggiungere. L’istituzione carcere in questi anni è cambiata da luogo lontano dalla realtà fino a diventare un centro di condivisione dei problemi della società e pronta a reintegrare quei soggetti che hanno bisogno di un’altra possibilità. Il carcere nel passato era lo specchio della società, oggi le parti sono invertite e forse la società è diventata lo stesso specchio riflesso del carcere. Una considerazione degna di essere approfondita e per entrare in un modo cosi’ complesso e sconosciuto all’opinione pubblica solamente chi ha vissuto in prima linea può in maniera esemplare raccontare la time line dei cambiamenti. Francesco Dell’Aira è entrato nell’amministrazione penitenziaria nel 1971, ha vissuto la realtà penitenziaria prima e dopo la riforma penitenziaria del 1975. Una memoria storica per una analisi di confronto fra il sistema precedente afflittivo e quello vigente rieducativo. Nell’Amministrazione penitenziaria ha vissuto una lunga esperienza a Spoleto (dal 1971 al 1996). Ha effettuato vari servizi di missione negli Istituti di Ascoli Piceno, Porto Azzurro, Capraia, Gorgona, San Gimignano, Arezzo, Perugia, Orvieto, Reggio Emilia, Camerino svolgendo corsi di formazione e docenze nelle scuole dell’amministrazione. Dal 1996 è stato Direttore del carcere di Sabbione per 14 anni, un lungo periodo durante il quale ha incrociato sofferenze, speranze, uomini disperati, ma anche pronti a rimettersi in gioco per chiudere i conti con il passato e dare una svolta positiva alla propria vita. Durante la sua quarantennale carriera ha ricevuto le onorificenze di Cavaliere (1986) e Ufficiale (2012). Undici fa la cerimonia per il suo pensionamento, alla quale hanno preso parte il Sindaco Di Girolamo, il Presidente del consiglio comunale Giorgio Finocchio, il Presidente regionale Eros Brega e tantissime autorità civili e militari dove gli è stato consegnato il Thyrus d’oro, premio onorario del comune di Terni. Il suo pensiero resta impresso sulla porta di ingresso dell’istituto di Terni: “Chi salva un uomo salva il mondo ed anche se stesso”. Direttore per tanti anni, sempre pronto all’innovazione, che ricordo ha della sua esperienza, i penitenziari di Spoleto e Terni come sono cambiati? Mi chiedo, in apertura di questo intervento, se parlare ancora di carcere abbia una sua utilità. Nei fatti la stampa se ne interessa nei momenti in cui la questione ha un certo appeal, capacità di attrazione, ma è di tutta evidenza che questo serve ad alimentare più una forma di curiosità e non già a stimolare un tentativo di agire per porre rimedio alle problematiche che ne dovrebbero derivare. Del resto siamo ormai vittime di una infinità di comunicazioni o di informazioni provenienti da un esercito di tuttologi che verosimilmente sanno molto su quello che si dice ma poco su cosa accade. Ovidio nelle metamorfosi dice verum velle parum est: di buone volontà è pieno l’inferno, che può significare che non bisogna fermarsi all’individuare buoni propositi, ma bisogna portarli a compimento. È un atteggiamento tipico dell’essere umano prefissarsi diversi obiettivi, spinti da un entusiasmo iniziale, per poi abbandonarli tutti strada facendo. Avendo quindi ben presente il terreno sul quale ci si muove vorrei fare qualche riflessione sulla base della mia esperienza in quaranta anni di servizio nell’amministrazione della Giustizia ed in special modo per il proficuo periodo trascorso alla Direzione della Casa Circondariale di Terni, ma soprattutto perché ho creduto sempre nel principio costituzionale che la pena deve tendere alla rieducazione e questo può avvenire solo riconoscendo dignità alle persone in qualunque status si trovino. Meglio di quanto possa io esprimere voglio iniziare citando l’intervento del Presidente Giorgio Napolitano in occasione della visita del 28 settembre 2013 ai detenuti reclusi nel carcere di Poggioreale: “è giustizia - disse Napolitano all’intera comunità penitenziaria - pretendere e ottenere pene severe per chi commette reati. È giustizia reprimere i reati. Ma non è giustizia condannare tutti voi a una reclusione che non sia dignitosa. È una prassi che contrasta con la Costituzione”. Pochi giorni dopo, l’8 ottobre del 2013, il Presidente si rivolse così per la prima volta al Parlamento (l’ultimo messaggio alle Camere lo aveva pronunciato Carlo Azeglio Ciampi otto anni prima) e lo fece parlando di amnistia, indulto, pene alternative e depenalizzazione. Nel definire drammatica la questione carceraria partì dal fatto di eccezionale rilievo costituito dal pronunciamento della Corte europea dei diritti dell’uomo. Un appello che la politica ignorò allora e continua ad ignorare ancora oggi. Per ultimo il più recente intervento del Presidente Sergio Mattarella nel messaggio di fine anno: “solidarietà, libertà, uguaglianza, giustizia, pace: i valori, che la Costituzione pone a base della nostra convivenza li vedo nella passione civile di persone che, lontano dai riflettori, della notorietà, lavorano per dare speranza e dignità a chi è in carcere. A loro esprimo la riconoscenza della Repubblica. Perché le loro storie raccontano già il nostro futuro”. Carcere, luogo di esecuzione della pena e del trattamento, differenze oggi con il passato? Su tali considerazioni una breve panoramica con tre brevi flash - a titolo meramente esemplificativo - sulle questioni che oggi sono poste all’attenzione anche dalla stampa. La prima: la fallibilità dell’amministrazione della giustizia e la sua lentezza. Il riformista nell’edizione del 5 marzo 2024 scrive: “la vicenda giudiziaria di Beniamino Zuncheddu ha scosso la coscienza collettiva. Arrestato a 27 anni per una strage mai commessa, ha sopportato per 33 interminabili anni l’ingiusta privazione della sua libertà. Come sempre, la nuda aritmetica è idonea a offrirci una prima, efficace, rappresentazione fotografica del fenomeno. E le immagini sono allarmanti. Negli ultimi trent’anni sono state detenute ingiustamente circa 30.000 persone, 1.000 all’anno, con una media di tre al giorno. Lo Stato ha corrisposto quasi un miliardo di euro di indennizzo nei confronti delle vittime della (in)giustizia”. La seconda: l’Ansa il 4 marzo 2024 scrive: “nei primi di marzo sono già 20 i detenuti che si sono tolti la vita negli istituti penitenziari. Quasi un suicidio ogni due giorni. Numeri che denotano un problema sociale non più procrastinabile in preoccupante e progressiva ascesa ormai da anni”. La terza: La Stampa nell’edizione del 4 marzo 2024 parla delle gravi situazioni nelle quali opera il personale della Polizia penitenziaria: partiamo da qualche dato. Solo nel 2023 sono stati oltre 1800 gli agenti aggrediti con una prognosi superiore ai sette giorni poiché picchiati da detenuti. Una media di cinque al giorno. Il sindacalista intervistato continua parlando di turni infiniti, aggressioni e violenza psicologica: ecco le condizioni nelle quali lavora oggi la polizia penitenziaria italiana. Per i sindacati, si tratta di condizioni inaccettabili. Tutto ciò dal punto di vista psicologico è devastante. Egli ritiene che tutte queste criticità sono frutto di due problemi. La prima è la carenza di agenti: le nuove assunzioni non tengono conto delle unità che sono andate in pensione: sostanzialmente gli organici sono rimasti invariati e sono necessarie almeno 14 mila assunzioni per tamponare la situazione. La seconda invece riguarda il dilagare della criminalità negli istituti. Certamente queste considerazioni non sono esaustive delle questioni profonde e concrete che possono rappresentare compiutamente i principi della congruenza del sistema penitenziario rispetto alla normativa nazionale e di quella europea. Occorre invece affrontare, ma con un approccio sistemico, le macro questioni inerenti il costante aumento del sovraffollamento carcerario, le consistenti carenze organiche del personale dei vari comparti, la presenza attiva ed ormai indispensabile del Volontariato, dell’associazionismo, degli Enti locali nonché i deficit strutturali della gran parte delle nostre carceri. La politica sempre assente per il mondo penitenziario trincerandosi tra edilizia penitenziaria e riordini, perché? L’ordinamento penitenziario del 1975 si proponeva di considerare il sistema penitenziario nella sua complessa realtà che coinvolge giustizia, processo penale, organizzazione degli spazi e tutela del principio rieducativo, ma anche sistema di interrelazioni con il personale che vi opera, con il volontariato, con il territorio e con le risorse economiche. Per ragioni assolutamente diverse da quelle auspicate dal legislatore, che potremmo definire di carattere economico finanziario e di cogente necessità in ordine ad una necessaria programmazione delle priorità del Paese, assistiamo ancora alla trascuratezza rispetto all’obbligo di porre un limite alle violazioni ripetutamente censurate dalla Corte europea. E se ampliamo il panorama ci accorgiamo che la situazione complessiva di breve/medio periodo è ancor più insostenibile e lascia chiaramente intravedere una direzione non più in linea con l’aspetto rieducativo che era l’elemento fondante della riforma del 1975. La stessa gestione dei flussi migratori, ad esempio, si caratterizza sempre più con il solo aspetto custodiale e di contenimento comprimendo e dimenticando il più rilevante e stringente concetto di accoglienza. E’ evidente l’approccio solo dialettico ai problemi e che poggia su due pilastri entrambi instabili: contenere le persone e farle sopravvivere senza prospettive. Presupposti inidonei alla soluzione dei problemi che vengono così solamente spostati in avanti ed aggravati dal continuo depauperamento delle risorse economiche e finanziarie che questo paese non ha. Ancora una volta, paradossalmente si è tornati indietro con un approccio di scomposizione metodica delle singole questioni che quindi vengono affrontate senza tener conto della complessità del sistema, come pure degli effetti collaterali che ogni cambiamento produce. Insomma una operazione parziale e decontestualizzata rispetto agli obbiettivi generali, alla reingegnerizzazione delle procedure, all’analisi completa delle questioni, alle proiezioni scientifiche dei risultati di medio e lungo termine. Una considerazione tout court sulla situazione attuale? Diceva un illustre Provveditore regionale che chi si accosta al’istituzione carceraria soffre poi di carcerite. Continuate a sentirmi ancora fortemente interessato ai problemi penitenziari ne è, per quanto mi riguarda, la prova. In questo senso ritengo di dover sottolineare l’urgente esigenza di garantire. una continuità dell’azione governativa nel lungo periodo (indipendentemente dalla alternanza della politica) quanto meno per non stratificare norme su norme senza tener conto di quanto è stato fatto precedentemente e lasciando all’apparato amministrativo burocratico il compito di rendere compatibili interventi che non sono sovrapponibili e, a volte, incompatibili. La Corte europea dei diritti umani ha non solo sottolineato che il sovraffollamento degrada, a livelli intollerabili, la condizione di vita dei detenuti, ma anche che il nostro ordinamento non è in grado di dare risposte sempre efficaci e tempestive alla domanda di tutela dei diritti che proviene dalle persone detenute. La stessa Corte costituzionale ha più volte richiamato il legislatore ad adeguare il sistema di protezione dei diritti della persona detenuta. Spetta infatti alle strutture penitenziarie ed al personale che vi opera, l’incarico di trasformare il dettato normativo in azione garantendo la credibilità dello Stato attraverso il maggiore e determinato rispetto per le regole democratiche che mettono al centro l’uomo. E questo scioglie i dubbi posti in premessa: non è l’uso della forza e la politica della sopraffazione del forte sul debole, ma darà risultati solo la capacità di restituire alla società - in modo trasparente - persone che si sono emendate dalla colpa attraverso un percorso di revisione critica e, soprattutto, fornite di risorse nuove. Soprattutto ricordiamo sempre un principio indiscutibile che violenza genera maggiore violenza. La situazione conflittuale internazionale lo dimostra senza ombra di dubbio. Occorre ancora prendere atto che alla fine del 2023 la situazione carceraria evidenzia una situazione significativa che lascia aperte una serie di più complesse riflessioni che emergono dai dati: i reclusi ancora non condannati definitivamente ed in attesa di primo giudizio risultano ben 9.259 ed questi si aggiungono oltre 6.000 detenuti tra appellanti e ricorrenti. Quindi quasi 16.000 detenuti non condannati definitivamente su una popolazione presente di 60.166 detenuti. Su questi dati e sulle condizioni detentive nelle carceri italiane si impone una ulteriore riflessione che evidenzia anche la forte determinante che deriva dal sistema giudiziario sanzionatorio che va, esemplificandolo succintamente, dalla scrupolosa capacità della fase delle indagini ai ragionevoli tempi del processo. Da qui emerge poi, accanto al problema del continuo aggiungersi di norme penali, una discontinuità nei processi di riforma che pur avvertita viene costantemente rimessa in discussione dal potere legislativo attraverso riforme costantemente smentite e diversamente riformulate. Si apprezza doverosamente l’intervento di quanti, pur con i tempi interminabili e defatiganti della giustizia, continuano a farsi carico delle questioni che incidono sul rispetto della persona. Così La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 10 del 2024, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 della legge sull’ordinamento penitenziario, nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa a svolgere i colloqui che consentano la possibilità di mantenere relazioni affettive riconoscendo ai soggetti legati dalle relazioni medesime la libertà di vivere pienamente il sentimento di affetto che ne costituisce l’essenza rilevando un ulteriore profilo di irragionevolezza dei limiti della norma censurata ossia -il loro riverberarsi sulle persone che, legate al detenuto da stabile relazione affettiva, vengono limitate nella possibilità di coltivare il rapporto, anche per anni. Si tratta di persone estranee al reato e alla condanna, che subiscono dalla descritta situazione normativa un pregiudizio indiretto- e rammentando che una larga maggioranza degli ordinamenti europei riconosce ormai ai detenuti spazi di espressione dell’affettività intramuraria. Se tornasse al posto di comando quale sarebbe la sua bacchetta magica? Nei tredici anni di vita da pensionato mi sono sempre interessato alle questioni penitenziarie ed ho osservato quanto il sistema abbia cambiato il tipo di approccio al principio rieducativo. Condizione che ritengo tuttavia ampiamente giustificata dalla maggiore complessità del sistema socio economico del paese a causa delle continue emergenze che caratterizzano l’attuale momento storico. Per quanto può interessare l’argomento di questa discussione, con rammarico occorre tuttavia osservare che i troppi e tutti pressanti problemi che assillano la nostra società alimentano l’apatia ed il disinteresse del mondo sociale e culturale. Le strategie politiche che si sono succedute hanno determinato un diffuso e vero e proprio senso di impotenza nei detenuti e negli operatori. Come si legge nella rassegna stampa sulle questioni penitenziarie il detenuto chiede in effetti quello che la legge gli riconosce già: giusto e rapido processo, tutela della propria dignità personale e familiare, lavoro, formazione e scolarizzazione. Vorrebbe appropriarsi durante il periodo di detenzione di spazi di libertà quali attività sportiva all’aperto, maggiori momenti di socializzazione in modo aperto e vorrebbe un luogo di pernotto adatto a garantirgli la privacy per le sue riflessioni. Ma la molteplicità degli interessi, il sovraffollamento, la presenza di diverse etnie impediscono che questo sia manifestato con una qualche convinzione o che sia messo a sistema da parte degli stessi attori. Purtroppo sono proprio i detenuti i primi che si sono arresi (e lo dimostrano i fatti di violenza) e questa considerazione dovrebbe far aprire i canali di intervento e di attenzione di una società che è stata culla della civiltà. Ma soprattutto sono proprio gli operatori penitenziari che si sentono stretti in una morsa e depositari di responsabilità ed attese che non riescono a trovare alcuna soddisfazione nemmeno nel giusto riconoscimento del trattamento giuridico ed economico. Forse è giunto il momento di affrontare con profonda umiltà e sincera convergenza politica le questioni importanti e queste che incidono nel profondo dell’animo umano non sono certo le ultime. Per rispondere alla domanda ritengo che nessuno abbia la bacchetta magica e soprattutto che nessuno possa pensare di averla. Posso però parlare della mia azione di direzione. Ricordo di un articolo di stampa nei primi anni della mia direzione di Terni che titolava il Brubaker ternano. In effetti ho sempre cercato di fare ma non prima di aver approfondito quale fosse il contesto, quale il risultato atteso, quali strategie e quali risorse mettere in campo. Sono ancora oggi convinto che occorre costruire un percorso solido di offerte trattamentali e rieducative alle persone che ci sono state affidate, ma con grande attenzione ai bilanciamenti. Rispetto della legge, delle regole umanitarie, dei principi di equilibrio, di mediazione dei conflitti, di valorizzazione della rete di interrelazione con gli enti locali e con il mondo del volontariato sono i valori sui quali dobbiamo convintamente lavorare per costruire una strategia di valorizzazione del concetto di dignità della persona. Le sue ricette per il futuro? Domanda questa che mi consente di completate il concetto accennato nella risposta precedente. E lo faccio parlando dell’Istituto ternano. Nel mio lungo percorso professionale le condizioni più favorevoli per poter tendere ad una organizzazione amministrativa in linea con quei principi le ho trovate tutte alla fine del 1996 con l’assunzione della direzione dell’istituto di Terni. Aperto da pochissimi anni era nelle condizioni ideali per essere plasmato senza le difficoltà di un cambiamento che, come noto, deve affrontare tante resistenze, passare dalla struttura edilizia all’organizzazione della sua vivibilità. Costituisce inaspettatamente un volano positivo il fatto che nei primi anni di funzionamento l’istituto beneficia, in virtù di specifica normativa che tende a qualificare le grandi opere pubbliche, di un consistente numero di opere d’arte (una fontana, due grandi mosaici, una scultura, tanti quadri). Ulteriore volano viene offerto dal contesto sociale della città (la città dell’accoglienza come la definisce Paolo Raffaelli) estremamente aperto nella direzione di voler fornire sostegno all’opera di rieducazione e quindi prezioso elemento di facilitazione ai progetti pensati, costruiti e realizzati in un clima di condivisione senza attriti. Quasi una gara di solidarietà intorno ad un patrimonio comune di principi. Enti locali, istituzioni pubbliche, volontariato hanno saputo intrecciare con l’istituzione penitenziaria un ciclo virtuoso di interventi di reciproca soddisfazione. In ognuno degli aspetti trattamentali tradizionali: istruzione, lavoro, religione si è riusciti a declinare aspetti innovativi ed intrecci sinergici virtuosi. Il filo conduttore e primo segnale di concretezza operativa, di azione positiva e propositiva ruota intorno alla considerazione che i detenuti devono essere considerati risorse(professionali, delle capacità personali, delle esperienze di lavoro e umane), prima per se stessi, per non farli cadere nella facile commiserazione di se e poi per gli altri affinché non li considerino parassiti della società. Il concetto si esplicita quindi molto agevolmente nel lavoro che li rende produttivi, alimenta l’autostima, rinnova gli interessi verso la famiglia (che possono sostenere), li sottrae all’ozio, non li aggroviglia in una esistenza di monotona attesa e fa riscoprire nuovi argomenti di confronto anche nei forzati rapporti interpersonali. Ma come si è appena detto tutto viene pensato tenendo buon conto dei principi legati alla valorizzazione del concetto di dignità della persona. Le strategie usate sono quindi pensate e realizzate con il coinvolgimento attivo della popolazione detenuta che diventa così, pur nei limiti evidenti, attrice e progettista degli interventi. Questo è il valore aggiunto che riteniamo sia il profondo significato che la norma si era proposta con la modifica ordinamentale. Il coinvolgimento e la conseguente responsabilizzazione della popolazione detenuta abbassa i livelli di tensione nei rapporti con l’istituzione ed in un clima poco conflittuale anche gli operatori della sicurezza e del trattamento si dispongono positivamente ad un coinvolgimento dinamico ed efficiente. Nella realtà ternana l’utilizzo esteso del lavoro dei detenuti ha consentito di realizzare la ristrutturazione e l’adeguamento della struttura attraverso ampliamenti che hanno reso possibile una maggiore offerta trattamentale e migliori condizioni di servizio al personale: nuove e più ampie aule scolastiche e di formazione, teatro, spazi all’esterno per i colloqui con i familiari, officine, una struttura complessa dedicata alle attività sanitarie per le quali si è sempre cercato di assicurare il massimo possibile degli interventi professionali ed assistenziali, un nuovo ufficio matricola, l’adeguamento alla normativa e con maggiore funzionalità di tutti i locali di pernotto, ma anche la realizzazione di spazi riservati al personale (campo sportivo, spazi per il tempo libero, nuova mensa e nuovo bar, sale polivalenti per la formazione), realizzazione di ampi spazi all’esterno destinati alla piantumazione di circa 1.550 alberi, tra olivi, noccioli e frutta ed all’interno con coltivazioni in serra. Lavoro attivo che, evidenziando risultati concreti e visibili, ha accresciuto la valenza del mandato istituzionale affidato agli operatori penitenziari e la loro partecipazione (in un clima di condivisione e spesso di stimolo) alle iniziative nelle quali riconoscevano utilità. Ma questo fiume è riuscito a svilupparsi per l’apporto di tanti affluenti che, si ripete con evidente soddisfazione, non hanno lasciata sola l’amministrazione penitenziaria attraverso un contributo di sostegno sociale, ma anche di risorse economiche e di professionalità. La Comunità Europea e la Cassa delle ammende hanno partecipato al cofinanziamento di alcune opere di interesse strategico. Fra queste, ad esempio, nella realizzazione di un impianto di pannelli solari per la produzione di acqua calda sanitaria. I detenuti, in un percorso durato sei mesi, dapprima hanno frequentato il corso teorico e poi si sono cimentati nella realizzazione dell’opera. Il carcere è diventato così parte della città, pur se una piccola città nella città, e se ne è avuta ulteriore misura quando il catalogo delle opere d’arte presenti a Terni, in questo museo all’aperto ha incluso, fra quelle presenti nell’area urbana, anche la Fontana del maestro Federico Brook (il tempo della memoria) e la scultura realizzata dai detenuti e posizionata nel quartiere di San Valentino (dentro e fuori). In conclusione la ricetta è la continuità e la condivisione. A chiusura di questa necessariamente concisa esposizione delle immagini e dei ricordi che conservo esprimo, con un forte virtuale abbraccio, un ringraziamento a tutto il personale che non mi ha mai fatto mancare un braccio cui appoggiarmi ed una mente sulla quale contare. Un ringraziamento particolare alla Comunità ternana che ha espresso nelle istituzioni, nelle associazioni e nel singolo volontario un esempio alto dei valori sociali e di solidarietà umana. E grazie al giornalista, ed apprezzato amico, che mi ha dato il piacere di ripercorrere un bel periodo della mia vita. Firenze. “La detenuta che ha perso il bambino era dimagrita dieci chili” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 12 marzo 2024 “In pochi giorni, la detenuta tunisina che ha perso il bambino a Sollicciano è dimagrita dieci chili, questo perché non ha potuto seguire una dieta islamica come previsto dalla sua religione. A differenza di quello che succede nel reparto maschile, dove i reclusi possono comprarsi prodotti halal, al femminile questa cosa non è consentita e il risultato è stata una perdita di peso molto importante. Non voglio dire che questo sia collegato direttamente ai problemi che hanno portato all’interruzione di gravidanza, ma resta il fatto che la donna non è stata adeguatamente seguita”. A parlare è Emilio Santoro, presidente del comitato scientifico de L’Altro diritto: “È una doppia discriminazione il fatto che la donna non abbia potuto seguire una dieta islamica, motivo per cui è dimagrita tanto: da un lato è una discriminazione religiosa, dall’altra una discriminazione di genere, visto che al reparto femminile non è consentito quello che è consentito al reparto maschile”. Proprio su questo tema, la detenuta, tramite l’associazione L’altro diritto, aveva presentato qualche settimana fa il reclamo 35bis al magistrato di sorveglianza, “reclamo che è stato consegnato alla matricola del carcere soltanto venerdì scorso, nonostante l’urgenza. Di fatto, nelle ore in cui la donna stava procedendo con l’interruzione di gravidanza, il suo reclamo non era ancora arrivato sul tavolo del magistrato”. Secondo Santoro, “la burocrazia del carcere ha tempi davvero eccessivi che non sono adeguati quando di fronte c’è la salute di una detenuta”. Non solo, ci sarebbero stati anche altri problemi, primo fra tutti quello della poca acqua bevuta dalla signora: “I medici, a causa di una infezione urinaria, le avevano suggerito di bere molta acqua, ma lei ha bevuto soltanto due bottigliette di acqua al giorno, questo perché non aveva soldi per comprarne altre”. Messina. Sul Garante dei detenuti i Radicali incalzano il sindaco di Alessandra Serio tempostretto.it, 12 marzo 2024 La nomina del Garante dei detenuti a Messina non può più attendere. Lo confermano i recenti fatti di cronaca, spia del sempre crescente disagio per i carcerati in tutta Italia, e anche le strutture messinesi non fanno eccezione, malgrado le eccellenze. In vista dell’annuale sopralluogo dei Radicali, attesi domattina in carcere, l’associazione Leonardo Sciascia ha fatto il punto della situazione, a dieci anni dalla nascita della sigla radicale che coincidono con i 10 anni dalla prima richiesta di istituzione della figura al Comune di Messina. La battaglia dei Radicali per il Garante dei detenuti - Al tavolo Saro Visicaro, storica colonna dei Radicali a Messina e dell’attivismo sociale, il magistrato in pensione Marcello Minasi e l’avvocato Gianluca Novak, fondatori e animatori dell’associazione che cominciò la battaglia per la giustizia giusta, il carcere e l’informazione sollecitando a Palazzo Zanca la nomina del Garante ben prima che venisse istituito a livello regionale, nel 2016. In queste settimane l’iter per la nomina sembra essere finalmente sul tavolo ma la proposta di delibera sarà affidata alle acque agitate del consiglio comunale. C’era un’altra strada percorribile, ha ricordato oggi l’associazione Leonardo Sciascia, ovvero un altro iter che consente al primo cittadino la nomina diretta. A questo punto comunque l’importante è fare in fretta e individuare una figura più che competente per un ruolo fondamentale e delicato, nel settore giustizia. L’emergenza carceri - “La nostra è una battaglia contro la detenzione che oltre la libertà priva anche la salute e la vita. 85 suicidi in un anno è il vergognoso primato italiano, dovuto a trattamenti inumani e degradanti. Quindi c’è l’urgenza di un Garante affidabile per cambiare un regime carcerario che è speculare al regime di chi perpetua potere e inumanità”, ha detto Saro Visicaro. Gli hanno fatto eco Minasi e Novak che hanno ricordato che anche l’assessorato regionale Enti Locali nei mesi scorsi è tornato a sollecitare la nomina alle città capoluogo dove insistono strutture carcerarie. Oggi l’associazione entrerà a Gazzi con Rita Bernardini, Elisabetta Zamparutti e Sergio D’Elia. Reggio Calabria. Personale sanitario per le carceri, il bando dell’Asp di Reggio va deserto di Eleonora Delfino Gazzetta del Sud, 12 marzo 2024 Infruttuosa l’operazione con cui l’Azienda dovrebbe istituire una graduatoria per gli incarichi. L’Asp ci riprova. Un’operazione che non si annuncia facile. L’obiettivo è quello di individuare personale sanitario per la formazione di una graduatoria aziendale per il conferimento di incarichi provvisori ed in sostituzione per l’assistenza penitenziaria. Il primo tentativo adottato con l’avviso pubblico si è concluso con un nulla di fatto. Il bando è andato deserto nessuna proposta è stata inviata all’Azienda sanitaria provinciale per ricoprire un ruolo certo non facile. Nella stagione in cui le aggressioni ai medici continuano a crescere l’opportunità lavorativa di vestire il camice negli istituti penitenziari non trova riscontri utili. E così l’Azienda sanitaria provinciale anche alla luce “delle significative problematiche che negli ultimi mesi si sono registrate circa le sostituzioni di continuità assistenziale e le carenze organiche più volte segnalate sia dai diversi Coordinatori Sanitari che dalle stesse Direzioni degli Istituti di Pena” provvede “all’indizione, di un nuovo Avviso Pubblico aperto sino al 31 dicembre del 2024 per la formazione annuale della graduatoria di disponibilità aziendale da utilizzare per il conferimento di incarichi provvisori e di sostituzione, a personale medico ruolo unico a ciclo orario per l’assistenza penitenziaria”. Sono 4 le figure che l’Asp sta cercando una per ciascuno delle seguenti strutture: presidio sanitario Istituto Penitenziario “Panzera”; presidio sanitario Istituto Penitenziario “Arghillà”; presidio sanitario Istituto Penitenziario Palmi con competenze sul servizio dell’ICAT Laureana di Borrello; presidio sanitario Istituto Penitenziario Locri. Operazione prevista da anni che rientra in un più articolato provvedimento. Torino. La direttrice del carcere racconta il mondo contenuto tra quelle mura di Maria Di Poppa giornalelavoce.it, 12 marzo 2024 Ospite del Rotary Club di Chivasso, Elena Lombardi Vallauri ha fornito uno spaccato toccante della realtà di cui è alla guida da maggio. Una serata all’insegna dei diritti, quella organizzata giovedì dal Rotary Club di Chivasso, con un tre ospiti davvero eccezionali. Al termine della cena che si è tenuta presso il ristorante Dei Cacciatori, in frazione Rolandini a Verolengo, sono state invitate a parlare la direttrice della Casa Circondariale di Torino “Lorusso e Cutugno”, Elena Lombardi Vallauri, la garante dei detenuti, Monica Valle, e l’avvocata Benedetta Perego. La dottoressa Vallauri ha aperto una vera e propria finestra su un luogo che spesso appare distante, staccato dal resto del mondo. “E invece è un luogo fatto di persone - ha sottolineato fin dalle prime battute la direttrice del carcere -. Per noi è fondamentale sentirci parte della comunità e non un mondo a parte. La vostra attenzione ci dà la voglia di impegnarci, sentendoci utili alla comunità”. In un discorso molto toccante la direttrice ha spiegato: “Il carcere non sono i muri, ma le persone che ci lavorano. Spesso si focalizza l’attenzione sui detenuti, ma quello che fa la qualità o meno, solo le persone che nel carcere lavorano e quelle che entrano per portare il loro aiuto istituzionale. Un aiuto che dovrebbe funzionare molto meglio. Il mandato costituzionale relativo alla finalità del carcere è generoso. È un mandato di accoglienza e speranza, emozionante. Ma è chiaro che le cose non vanno come dovrebbero”. Fondamentale per la direttrice, la qualità dei dipendenti: “Bisogna aiutare chi lavora in carcere a migliorarsi, aggiornarsi”. Quel che succede nel carcere spesso tira fuori le emozioni più istintive delle persone: “Gli stessi che si dicono disposti a gettare la chiava davanti a determinati fatti, sono gli stessi che poi vorrebbero salvare il detenuto maltrattato per toglierlo da un’ingiustizia. Contrarietà di emozioni che danno la cifra della complessità di questo istituto e del fatto che ci sia davvero poca consapevolezza, poca conoscenza nei rapporti con i reati. Per questo è importante spiegare quello che accade, con quali strumenti si cerca di assolvere il mandato costituzionale che mira alla rieducazione”. Nel carcere di Torino entrano ogni giorno almeno 350 visitatori: insegnanti, medici, volontari, infermieri, avvocati. “E non ho contato i familiari in visita - precisa la direttrice -. Tutta una parte di città che viene a fare il suo lavoro all’interno dell’Istituto”. Gli istituti si dividono in case circondariali, pensate per chi è ancora in attesa di giudizio o con condanne fino ai 5 anni, e case di reclusione per condanne definitive superiori ai 5 anni: “Per i detenuti la fase del processo è molto ansiogena, disturbante. Quando arriva la sentenza, per brutto che sia il momento è l’inizio di un momento di pace. È più difficile lavorare e accompagnare le persone ancora in attesa di giudizio”. Quella di Torino è una casa circondariale, destinata in teoria ad ospitare persone in attesa di giudizio o con condanne fino ai 5 anni: “Nei fatti è un luogo che contiene di tutto. Negli anni si sono creati servizi, circuiti detentivi”. La casa circondariale Lorusso Cutugno ospita tra i 1400 e i 1500 detenuti che nel corso dell’anno significano circa 3mila persone. “Il carcere è molto sovraffollato in tutte le sue parti. E questo è uno degli obbiettivi che mi sono data, ridurre questi numeri”. Alla serata hanno preso parte anche l’assessora della Città di Torino, Gianna Pentenero e il sindaco di Chivasso, Claudio Castello. Ferrara. Oltre le sbarre? C’è un campo da rugby di Greta Dircetti Avvenire, 12 marzo 2024 A Ferrara anche gli atleti della Federazione italiana si sono allenati con un gruppo di detenuti Articolo 27 della Costituzione: “Le pene [...] devono tendere alla rieducazione del condannato’: Parole che il carcere di Ferrara ha fatto diventare un progetto concreto con la nascita, nel 2021, della squadra “Rugby 27 Ferrara’: Un gruppo di ragazzi che per ora si allena, ma che sogna di replicare l’esperienza dei corregionali del “Giallo Dozza’,’ formazione della casa circondariale di Bologna che è iscritta al campionato di Serie C regionale dell’Emilia-Romagna. Gli allenamenti all’aria aperta non sono solo un momento ludico, ma permettono di costruire un senso di appartenenza tra i detenuti che in quel momento non sono più tali, ma diventano solo persone che praticano sport. Rispetto delle regole, aiuto reciproco, sacrificio per la squadra e sano agonismo. Questi i valori che il progetto “Rugby oltre le sbarre” della Federazione Italiana Rugbyvuole promuovere. Per farlo sono in primis gli atleti delle squadre nazionali maggiori maschile e femminile a mettersi in gioco. Un gruppo di loro ha visitato la Casa Circondariale di Ferrara, una delle sedici strutture penitenziarie in cui è attivo il progetto. Aura Muzzo, giocatrice del Villorba Rugby, ha partecipato all’allenamento con i “Rugby 27 Ferrara” e alle sue compagne di squadra consiglia di “dedicarsi a realtà come questa perché poche volte si ha l’opportunità di vivere un’esperienza del genere e vedere le cose in modo diverso, da un altro punto di vista. Non è uno scambio a senso unico: ci arricchiamo noi e imparano qualcosa loro”. Una giornata ricca di spunti per i giocatori professionisti e non: esercizi atletici, tecnici e vere e proprie fasi di gioco che hanno annullato le differenze e tra chi dal carcere può uscire e chi no. I ragazzi si allenano due volte a settimana, sono seguiti da tecnici e possono partecipare ai corsi per ottenere la qualifica di arbitro. Nel 2023 ha potuto arbitrare, per la prima volta fuori dalla struttura, un ragazzo che aveva ottenuto il diploma durante la detenzione e che era ancora soggetto a un regime di limitazione della libertà personale. “Gli atleti delle nostre squadre nazionali maggiori hanno partecipato attivamente a questa sfida che abbiamo lanciato - dice Marzio Innocenti, presidente Fir -. Ad Aura, Giacomo e Marco dico grazie. Il rugby è uno sport carico di valori: il sostegno è alla base del nostro agire, tanto dentro quanto fuori dal campo. Gli atleti hanno dimostrato di aver fatto loro ciò che hanno imparato nel corso delle loro carriere e di avere ben chiara l’importanza del dedicarsi agli altri”. Un’esperienza arricchente anche per Marco Zanon e Giacomo Nicotera della Benetton Rugby: “È stato incredibile, i ragazzi mettono una grande energia. Abbiamo trovato un gruppo molto preparato e allenato. Abbiamo detto sì a questo progetto perché come atleti viviamo una vita particolare: lo sport ha un grande potere comunicativo, quindi è giusto restituire qualcosa in termini di impegno sociale”. Allenamento, condivisione, ma non solo: al termine delle quasi due ore in campo, i detenuti di Ferrara hanno allestito un vero e proprio “terzo tempo’,’ nel rispetto dello spirito più profondo del rugby: un momento conviviale in cui parlare di sport, raccontarsi e aprirsi. Bibite, focacce e risate per concludere una mattinata diversa dal solito. Poco importa se il campo è fangoso e se fa freddo: avere avuto tre atleti della Nazionale di rugby come ospiti, allenatori e come amici rimane un bel ricordo e una storia da raccontare. Venezia. Dialogo e sguardi al Padiglione Vaticano di Sara D’Ascenzo Corriere del Veneto, 12 marzo 2024 “Con i miei occhi”: la Santa Sede al carcere della Giudecca. “Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi”. Eccolo il cuore pulsante, il nervo innestato nella sessantesima Biennale d’Arte di Venezia. Parte dal Vangelo Secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini il Cardinale José Tolentino de Mendonça, Prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione della Santa Sede per raccontare perché il Padiglione della Santa Sede alla prossima Biennale d’Arte (dal 20 aprile al 24 novembre) dall’evocativo titolo “Con i miei occhi”, abbia trovato il luogo ideale nella Casa di reclusione femminile della Giudecca, a Venezia. Ieri la presentazione in Vaticano, insieme al Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, Giovanni Russo, e ai due curatori del Padiglione, Chiara Parisi e Bruno Racine. Tutto, in questo progetto, che lo stesso Papa Francesco, il 28 aprile, andrà a Venezia a vedere “con i suoi occhi”, parla di umanizzazione e di ascolto, di dialogo e comprensione, di portoni che si aprono e di confini che vengono attraversati. “Guardare la realtà come punto di partenza per ridisegnarla, questo ha sottolineato Papa Francesco agli artisti quando li ha ricevuti lo scorso giugno - ha raccontato il Cardinale Mendonça -. “Voi artisti - ha detto il Santo Padre - avete la capacità di sognare nuove versioni del mondo, la capacità di introdurre novità nella storia”. E così gli artisti sono entrati negli scorsi mesi ed ancora entreranno nell’ex Convento delle Convertite, insieme al pubblico che, prenotando la visita sul sito del Padiglione, potrà visitare la mostra scortato dalle detenute che di volta in volta faranno da guida nel percorso tra le opere di Maurizio Cattelan, che creerà un grande affresco sulla facciata esterna della Cappella del Carcere, Bintou Dembélé, che farà danzare le detenute su una coreografia energica nel nome della libertà negata, Simone Fattal, che creando placche di lava a partire dai versi delle detenute, il collettivo di artisti Claire Fontaine, che propongono alle detenute un percorso nel metodo di movimento Feldenkrais al motto di “Siamo con voi nella notte”, Sonia Gomes, che propone un’installazione composta da sculture sospese, dal titolo Sinfonia, che crea un gioco di equilibri tra i balconcini teatrali e i confessionali della Cappella i n te r n a al Carcere, Corita Kent, l’unica artista non vivente, la suora della Pop Art attivista per i diritti umani, le cui opere saranno installate nella Caffetteria della Casa di reclusione, Marco Perego e la star di Hollywood Zoe Saldana, che hanno girato in carcere un corto di dodici minuti con le detenute come attrici, Claire Tabouret che a partire da preziose fotografie che le detenute le hanno temporaneamente affidato sta creando tele che le ritraggono bambine. A seconda dei progetti le detenute saranno protagoniste o collaboratrici, metteranno in gioco il loro corpo o la loro perizia manuale, per avvicinare due mondi. Per entrare e godere del percorso bisognerà lasciare indietro qualcosa di sé, consegnando il documento d’identità e depositando il telefono cellulare, a marcare la differenza tra l’esperienza di un qualsiasi altro Padiglione e questo. Perché, come ha spiegato Russo: Russo: “Il carcere è il luogo dove l’attesa è condizione permanente. Scopo amministrazione penitenziaria moderna è trasformare l’attesa in speranza di tornare a una vita diversa da quella che ha portato le detenute in carcere”. “La nostra è una proposta artistica ma anche relazionale - ha spiegato Racine. Gli artisti sono uniti dalla consapevolezza del contesto e della volontà di partecipare a un’esperienza artistica e umana unica”. “La mostra rappresenta un incontro - ha spiegato Parisi - non è uno che perdona l’altro, sono mondi che si avvicinano e cercano di fare qualcosa insieme in una relazione di grande fiducia”. “Accompagnare la realizzazione del Padiglione con le sue due anime- ha detto Paolo Maria Vittorio Grandi, Chief Governance Officer di Intesa Sanpaolo, main partner del Padiglione - significa per noi contribuire con piena coerenza alla diffusione del bene e del bello, entrambi alla base del nostro impegno”. C’erano una volta gli intellettuali. Basaglia, per esempio di Franco Corleone L’Unità, 12 marzo 2024 Fu contrastato dalle baronie universitarie e dai sapientoni della psichiatria tradizionale. “Basagliani”, così venivano additati coloro mettevano al centro la persona e non la malattia. Con la sua rivoluzione dal basso abbatté i muri dei manicomi e del potere. Cento anni fa nacque Franco Basaglia ed è una occasione per tante celebrazioni che devono però evitare la retorica della costruzione di un santino accettato da tutti. Perché non è stato così nella realtà, infatti Basaglia fu contrastato dalle baronie universitarie e dai sapientoni della psichiatria tradizionale e fu messo sul banco degli accusati dalla giustizia. Addirittura il suo nome fu usato per insultare il gruppo che si era creato attorno alla sua figura: i basagliani, un neologismo da usare come una clava contro chi metteva al centro della attenzione e dell’attività terapeutica la persona e non la malattia. La legge 180 con il titolo su “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori” fu identificata con il nome di Basaglia, così la “legge Basaglia” fu un comodo e facile bersaglio delle polemiche di chi non sopportava che l’istituzione totale per eccellenza, il manicomio fosse chiuso. Nessuno ricorda che l’elaborazione in Parlamento di quella legge vide protagonista Bruno Orsini, psichiatra e autorevole esponente della Democrazia Cristiana e che l’approvazione avvenne il 13 maggio 1978, pochi giorni dopo il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro, assassinato in esecuzione di una sentenza di morte di un sedicente tribunale del popolo. Un giusto seppure paradossale tributo all’autore del mirabile articolo 32 della Costituzione che definisce fondamentale il diritto alla salute e prescrive il divieto di obbligo di trattamenti sanitari e il precetto che non si possono violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana. Dieci giorni dopo il Parlamento approvava la legge 194 per l’interrogazione volontaria della gravidanza. Pare incredibile che la politica fosse capace di rispondere a una tragedia sconvolgente con due leggi simbolo dei diritti civili e sociali: manicomi e aborto. Quella decisione fu determinata anche dalla raccolta di firme per un referendum promosso dai radicali, a testimonianza di una alleanza virtuosa tra la spinta popolare e le istituzioni per una grande riforma. Un silenzio assordante copre anche le lezioni di Moro all’Università di Roma nel 1976 sul senso della pena con espressioni limpide contro la pena di morte e con motivazioni taglienti contro l’ergastolo. Una censura davvero imbarazzante che abbiamo cercato di rompere con la pubblicazione di quei saggi teorici nel volume “Contro gli ergastoli”, curato da me con Stefano Anastasia e Andrea Pugiotto. L’avventura di Basaglia in uno dei luoghi dell’internamento per gli alienati iniziò nel 1961 a Gorizia, piccola città di confine del Friuli Venezia Giulia, legata alle tragedie della Grande guerra (nota la canzone antimilitarista “O Gorizia tu sei maledetta” cantata da Giovanna Marini) e della seconda guerra mondiale con violenze prima fasciste e poi iugoslave. Libero docente in psichiatria all’Università di Padova dirige per dieci anni l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario con una équipe di giovani collaboratori coinvolti in un esperimento per aprire il manicomio e abbattere i muri fisici e simbolici. Il celebre volume “L’Istituzione negata” edito nel 1968 da Einaudi assunse il carattere di un manifesto contro la violenza del potere, della messa in discussione della psichiatria positivista e organicista e dell’internamento di tanti esclusi. Si trattava di un Rapporto su una esperienza vissuta tra assemblee e confronti tra pazienti, medici e infermieri arricchito da saggi teorici che mettevano in discussione l’immagine banale della follia, la concezione della “pericolosità” del matto e contestavano il controllo sociale dei devianti. E’ giusto ricordare alcuni dei nomi degli autori da Nino Vascon a Letizia Jervis Comba, da Antonio Slavich ad Agostino Pirella, da Domenico Casagrande a Giovanni Jervis, da Lucio Schittar a Franca Ongaro Basaglia. Il ruolo essenziale della compagna di Basaglia sarà ricordato sicuramente l’anno prossimo in occasione dei venti anni dalla sua scomparsa. Una critica del potere che si diffuse in tutto il Paese: il sessantotto fu anche questo. L’avventura proseguì a Trieste facendo assurgere a simbolo di liberazione la città colta di Svevo, di Stuparich e di Umberto Saba che aveva accolto Rilke e James Joyce. Si verificò una significativa e ricca collaborazione con la città di Parma dove il mitico assessore Mario Tommasini schierava l’Amministrazione Provinciale nella lotta contro tutte le istituzioni totali dai brefotrofi al manicomio di Colorno. A conclusione di un convegno con la partecipazione del Gruppo di Gorizia fu pubblicato nel 1967 un volume che raccoglieva le riflessioni di quegli psichiatri intitolato: Che cos’è la psichiatria?, con in copertina un disegno di Hugo Pratt che richiamava le etichette del malato mentale a cominciare da quella della legge del 1904 “Pericoloso a sé e agli altri e di pubblico scandalo” e altre emblematiche come “Reparto agitati alta sorveglianza” e “Reparto cronici”. Mi piace sottolineare il ruolo dell’arte anche in questa occasione per enfatizzare la consapevolezza delle persone sensibili. La Società della Ragione nel 2014 di fronte ai ritardi nella chiusura degli Opg, gli orrendi manicomi giudiziari, organizzò una mostra di disegni di Roberto Sambonet “I volti dell’alienazione”, realizzati negli anni Cinquanta dopo la lunga visita dentro il manicomio di Juqueri in Brasile che ospitava 15.000 persone, a dimostrazione che un artista aveva colto prima di Goffman, Foucault e lo stesso Basaglia le condizioni disumane di quei non-luoghi, di totale internamento, gulag o lager, “per misure coercitive a scopo assistenziale”. Un altro libro che fece scandalo fu “Morire di classe, La condizione manicomiale”, fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin (edito nel 1969 da Einaudi). Il miracolo di Basaglia e del suo gruppo, un collettivo ricco di intelligenze con inevitabili rotture e lacerazioni, fu quello di costruire una egemonia politica e culturale dal basso, sconfiggendo parrucconi e sepolcri imbiancati. Molte energie furono spese per immaginare un modello di Comunità terapeutica che costruisse una alternativa al manicomio e la spinta al cambiamento divenne inarrestabile. Basaglia morì nel 1980 e non vide la realizzazione del sogno che dovette attendere il 1998, venti anni dopo per la chiusura dei tanti manicomi ancora aperti, ridotti a contenitori del cosiddetto residuo manicomiale. Una espressione profondamente cinica. Da allora non ci si è fermati e finalmente nel 2017 si chiusero i sei Opg che contenevano 906 persone, un grumo che la legge 180 non aveva affrontato. La rivoluzione era così compiuta. La reazione non si è arresa e oggi viviamo tempi bui e oscuri con tentazioni di regime. Il pensiero di Basaglia può aiutare a battere la nostalgia del manicomio che si manifesta di fronte alla difficile condizione del carcere e delle città. Franco Rotelli che raccolse il testimone di Basaglia a Trieste, ha lasciato preziose suggestioni in un dialogo con Giovanna Gallio e Benedetto Saraceno l’8 marzo 2023, pochi giorni prima della sua scomparsa, sulle contraddizioni di oggi senza atteggiamenti consolatori ricordando i bei tempi passati. Ammoniva a guardare alla salute mentale e non alla psichiatria: “Credo che ci siamo attardati troppo a non fare politiche di salute mentale: vale a dire occuparsi un po’ di meno della psichiatria e dei servizi psichiatrici e cercare molti più alleati tra gli artisti, tra gli uomini e le donne di cultura, tra gli operai e le operaie, tra gli abitanti delle città e dei quartieri, tra le mamme e le famiglie, tra le associazioni- in altre parole nel mondo della vita”. Marco Cavallo abbatté il muro del manicomio San Giovanni di Trieste nel 1973, oggi una scultura che ripropone quella memoria è stata inaugurata a Firenze nell’area di San Salvi dal Teatro Chille de la Balanza. Altri muri devono essere abbattuti, il doppio binario e la non imputabilità del Codice Rocco per dare dignità e responsabilità a tutti senza discriminazione e le misure di sicurezza utilizzate contro trecento detenuti sventurati che dopo avere scontato la pena vengono etichettati come internati in pseudo case lavoro per scontare una pena infinita, un ergastolo bianco. Un oltraggio al diritto e alla Costituzione. Quei silenzi sui temi scomodi di Basaglia di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 12 marzo 2024 L’Italia è terzultima in Europa (peggio fanno solo Estonia e Bulgaria) per quota di spesa sanitaria dedicata alla salute mentale. Zero: ecco il risultato d’una ricerca nell’archivio Ansa incrociando i nomi di Orazio Schillaci e Franco Basaglia. C’è chi dirà che il ministro della Salute compare “solo” in 1.824 notizie d’agenzia e può essere una coincidenza che non citi mai il fautore della chiusura dei manicomi fondatore d’una nuova idea della salute mentale. Colpisce però il silenzio generale della politica intorno non solo allo psichiatra nato un secolo fa ma ai temi che pose. Basti dire che non uno dei governatori e assessori regionali alla sanità, delegati in materia, ha mai risposto all’angosciato appello di 91 direttori dei Dipartimenti Salute Mentale che oltre un anno fa denunciavano le “condizioni drammatiche” della rete d’assistenza “sempre più sfilacciata” e imploravano la spesa di almeno due miliardi per raggiungere “l’obiettivo minimo del 5% del fondo sanitario” fissato nel 2001 e mai toccato. Al punto che, nonostante l’Istituto Superiore di Sanità parli di “tre milioni e mezzo di persone adulte” (più mezzo milione di giovani) sofferenti d’un “disturbo mentale negli ultimi 12 mesi”, il rapporto Headway 2023 dice che l’Italia è terzultima in Europa (peggio fanno solo Estonia e Bulgaria) per quota di spesa sanitaria dedicata alla salute mentale: 3%. Staccata dalla media europea (5,4%) e staccatissima da Svezia (10%), Germania (13%) e Francia (14%). Da arrossire. Così come fa arrossire che, mentre si levano lagne sugli “squilibrati in libertà”, il Parlamento non abbia affrontato ancora il tema posto dalla Consulta sulla tutela insieme dei “diritti fondamentali dell’infermo di mente” e i diritti “alla vita ed all’incolumità personale” di chi rischia d’essere esposto alla sua possibile violenza: “Non sarebbe tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa in ordine ai gravi problemi individuati”. A meno che qualcuno non abbia nostalgia degli orrori manicomiali... La riforma Basaglia incompiuta: un sistema di cura psichiatrico ancora in affanno di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 marzo 2024 La riforma Basaglia del 1978 ha segnato una svolta epocale nel trattamento delle malattie mentali in Italia. Da allora, gli ospedali psichiatrici su tutto il territorio nazionale sono stati chiusi e sono state istituite strutture alternative, ponendo la persona al centro dell’assistenza. Tuttavia, a cento anni dalla nascita di Franco Basaglia (11 marzo 1924), l’uomo che ha fatto abolire i manicomi, il processo di deistituzionalizzazione dell’assistenza psichiatrica non si è ancora concluso pienamente. Basti pensare che le strutture residenziali, definite sulla carta “riabilitative”, dovrebbero ospitare le persone per un periodo di tempo limitato di massimo 18 mesi. Ma non è così. L’Istituto Superiore di Sanità (Iss) ha recentemente pubblicato una ricerca che getta luce sullo stato attuale delle strutture residenziali destinate alla cura dei disturbi mentali, evidenziando una serie di criticità che pongono seri interrogativi sull’efficacia e l’umanità delle pratiche attuate. I dati sono chiari: la permanenza media dei pazienti nelle strutture convenzionate varia da circa due anni nel 2015 agli oltre 3 anni nel 2022. Come ben evidenzia la ricerca dell’Iss, inizialmente concepite come “strutture intermedie” tra la casa e il reparto ospedaliero (cui eventualmente far ricorso per condizioni di crisi non gestibili a domicilio), le strutture residenziali hanno assunto nel corso degli anni un ruolo centrale nel sistema di cura per la salute mentale. In molti casi esse hanno costituito un contesto terapeutico integrato ove le persone con problemi di salute mentale hanno sperimentato - nella relazione con l’équipe multidisciplinare - sicurezza, possibilità di affidamento e di contenimento emotivo, motivazione alla ripresa e al rientro nel proprio ambiente di vita. In altri, le strutture residenziali si sono rivelate luoghi di segregazione e chiusura all’esterno, senza collegamento con i percorsi territoriali, in cui l’indeterminatezza dello stare è governata dai tempi massimi di permanenza stabiliti per legge (spesso inosservati o elusi), giustificando ipotesi di neo- istituzionalizzazione. Queste criticità, già evidenziate dalla Commissione di Inchiesta sul sistema sanitario nazionale nel 2013, e a circa 10 anni dall’approvazione del Documento Tecnico della Conferenza delle Regioni, non sono state superate, anche per la diversa declinazione che la classificazione proposta ha ricevuto nelle normative regionali e la conseguente, forte eterogeneità dei pazienti trattati, ai parametri per il personale, alla durata della degenza nelle strutture. Il rischio del ritorno ai mini Opg - L’abolizione dei manicomi è stata un passo fondamentale, ma era rimasto scoperto ancora il buco nero degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), aboliti ufficialmente con la legge 81 del 2014 e definitivamente chiusi a febbraio del 2017. La legge stessa ha istituito le Residenze per l’esecuzione di misure di sicurezza (Rems), ma non come sostituti, non come mini opg, ma per un utilizzo del tutto diverso. Caratterizzate da una esclusiva gestione sanitaria al loro interno, tali misure rispondono anche a un’esigenza di contenimento della pericolosità sociale dei soggetti che vi vengono destinati - affetti da vizio totale o parziale di mente, che li rende non penalmente responsabili in quanto soggetti non imputabili rappresentando dunque una nuova misura di sicurezza. Dai punti fermi della legge 81/ 2014 sul piano dell’organizzazione delle Rems, già contenuti nel Decreto Ministeriale del ministro della Salute del 1° ottobre 2012, si evince, da parte del decisore una volontà di attenuare gli aspetti custodiali delle misure di sicurezza e tracciare una discontinuità tra vecchi Opg e nuove Rems. Sulla carta, si prevede infatti la gestione sanitaria delle Rems, affidate esclusivamente alla sanità pubblica regionale, senza alcun potere decisionale o organizzativo del ministero della Giustizia; le ridotte dimensioni per evitare l’ “effetto- manicomio”: la capienza massima di ogni Rems non deve superare i 20 posti. Una dimensione assimilabile a quella delle comunità terapeutiche, ma superiore a quella dei Servizi psichiatrici di Diagnosi e Cura (Spdc) ospedalieri; la capillare diffusione sul territorio, per implementare il principio della “territorialità” della sanzione penale e favorire i contatti con il territorio esterno; l’assimilazione agli standard ospedalieri per quanto riguarda le attrezzature necessarie allo svolgimento delle attività sanitarie e quelle necessarie a garantire la sicurezza del paziente e della struttura, nonché le dotazioni minime di personale sanitario e infermieristico per il funzionamento della struttura; l’obbligo, per le Regioni, di adottare un piano di formazione del personale delle strutture sanitarie residenziali volto ad acquisire e a mantenere competenze cliniche, medico legali e giuridiche (con particolare attenzione ai rapporti con la Magistratura di sorveglianza), specifiche per la gestione dei soggetti affetti da disturbo mentale autori di reato. La mancata de-istituzionalizzazione - Inoltre, la sola attività perimetrale di sicurezza e di vigilanza esterna non costituisce competenza del Servizio sanitario nazionale né dell’Amministrazione penitenziaria, bensì è affidata alle Regioni e le Province autonome, attraverso specifici accordi con le Prefetture, che tengano conto dell’aspetto logistico delle strutture, al fine di garantire adeguati standard di sicurezza. Al tema sicurezza si ricollega anche l’assenza di personale di polizia penitenziaria all’interno della struttura, presente invece nei “vecchi” Opg. Ognuna di queste previsioni rafforza l’idea che quello dell’istituzione delle Rems sia stato - almeno sulla carta - un percorso di de- istituzionalizzazione. Ciò non significa, che, sul piano micro della singola Rems, si possano riprodurre in taluni casi quelle dinamiche tipiche dell’istituzione totale, che portano a una violenta compressione delle principali sfere di vita dell’uomo, lo spazio, il tempo, le relazioni. Eppure, rischia di non essere così. Il problema principale che colpisce tali strutture è costituito dal fatto che, pur essendo l’invio in Rems, previsto solo come extrema ratio, le liste di attesa per l’inserimento sono molto lunghe, determinando un difetto di effettività nella tutela dei diritti fondamentali dei destinatari della misura. Non a caso ci sono decine e decine di persone “internate” illegalmente nelle carceri, in attesa di essere accolte nelle Rems. I dati parlano più chiaro. Oltre alle persone già accolte nelle Rems, vi sono altre 675 persone in lista d’attesa e 42 persone illegalmente recluse in 25 carceri senza un titolo detentivo. Inoltre, si sono verificate segnalazioni di difficoltà negli istituti penitenziari riguardo alle persone con problemi comportamentali significativi e disturbi psichici evidenti, che non vengono adeguatamente gestiti nelle cosiddette “Articolazioni per la tutela della salute mentale” presenti in alcuni di questi istituti. Questo insieme di situazioni soggettive, ingiustificate da una base medica o giuridica, ma talvolta nostalgicamente rimpiante da alcuni, cristallizza ancora una volta la mancata attuazione della riforma Basaglia e la legge che ha abolito gli ospedali psichiatrici giudiziari. Matti-immigranti da slegare, una testimonianza “diplomatica” di liberazione di Giuseppe Cassini Il Manifesto, 12 marzo 2024 Omaggio a Franco Basaglia. È il “lontano”1973 e l’ospedale psichiatrico presso Charleroi ospita “molti italiani”. Negli anni Settanta del ‘900 Charleroi, principale centro carbonifero e industriale del Belgio, era ancora luogo di approdo di tanti immigrati italiani. Il Consolato aveva il suo daffare, con 140.000 connazionali da servire, e difficilmente potrò dimenticare le esperienze umane vissute da Console tra le miniere. Capitò nel 1973 che il direttore di un ospedale psichiatrico locale mi invitasse a visitare la sua struttura, perché - questo il motivo - “ospita molti italiani”. Naturalmente vado. Nei padiglioni incontro i connazionali, molti dei quali appaiono meno “demenziali” di quanto immaginassi. Uscendo dagli stanzoni, uno di loro si aggrappa al mio braccio e balbetta più volte: “Per pietà, fammi uscire da questo inferno”. Gli chiedo il nome, mentre il direttore mi spinge nel suo ufficio. Una volta chiusa la porta, lo prego di lasciarmi dare un’occhiata alla cartella clinica del poveretto. Di fronte alla reticenza del direttore, gli preciso che a norma di legge il console è tutore dei connazionali interdetti, quindi anche dei suoi pazienti. Finalmente mi portano la cartella: sembra ben compilata e indica anche i nomi di chi a suo tempo aveva firmato la richiesta di ricovero. Ringrazio e torno in ufficio. A quel punto mi sorge un dubbio. Mi rivolgo a uno dei nostri avvocati belgi e gli domando: “Chi ha la potestà in Belgio di far internare uno che dà di matto?”. La sua risposta mi lascia di stucco: “Semplice, basta la firma di un medico e di un congiunto; è una norma del secolo scorso ma tuttora in vigore”. Dunque - è la mia conclusione - chissà quanti sono reclusi ingiustamente per motivi inconfessabili. Erano gli anni in cui un terzetto rivoluzionario - il sudafricano David Cooper, lo scozzese Ronald Laing e Franco Basaglia in Italia - lanciava il manifesto dell’anti-psichiatria. Non mi era difficile, tramite amici comuni, avere un appuntamento con Basaglia a casa sua. Ma prima di partire torno all’ospedale psichiatrico e chiedo di esaminare le cartelle cliniche dei pazienti italiani in apparenza meno gravi. Ne scelgo tre e le fotocopio, tra le rimostranze del direttore, e parto per Venezia. Nell’attico con scorcio incantevole sul Canal Grande mi ricevono - incuriositi e cortesi - Franco Basaglia e sua moglie Franca Ongaro. Appena esaminano le cartelle cliniche portate con me, la loro attenzione si acuisce. E arrivo al punto che mi premeva chiarire anzitutto a me stesso: è mai possibile che i disturbi psichici di quei pazienti siano collegati al loro status di immigrati? La loro risposta lascia pochi dubbi al mio dubbio: premesso - mi dicono - che non è serio formulare giudizi senza visitare il paziente, ci pare che almeno uno di questi tre casi presenti disturbi collegabili allo sradicamento dal villaggio d’origine. Dunque - chiedo io - sulle centinaia di immigrati italiani rinchiusi nei manicomi (allora si chiamavano così), molti guarirebbero se venissero rimpatriati? Certo - mi conferma Basaglia - ed è questo il senso di quella che definiamo “violenza istituzionale”. Tornato a Charleroi, mi avvalgo delle sue conoscenze per tentare un primo, incerto esperimento di “liberazione”. Prendo contatto con il direttore di un ospedale italiano noto per essere “basagliano”, che accetta di ricoverare nella sua struttura il paziente di cui Basaglia stesso aveva esaminato la cartella clinica. Superati i vari ostacoli burocratici frapposti dal direttore belga a scanso di responsabilità, un’ambulanza trasporta il paziente alla frontiera dove viene preso in carico dagli italiani. Rimarrà nell’ospedale qualche mese, prima di tornare guarito al villaggio d’origine con un’offerta di lavoro e una decente pensione belga. Non si voleva qui raccontare una “favola bella” a lieto fine, bensì commemorare Basaglia gettando un fascio di luce sulle fragilità psichiche dei nuovi immigrati, che vivono gli stessi drammi degli emigrati italiani nel dopoguerra. Senza dimenticare i connazionali tuttora rinchiusi all’estero in strutture psichiatriche fatiscenti. I nostri consoli - che sono a norma di legge tutori degli interdetti - potrebbero fare la differenza, e quale differenza. Affari bellici. Un mercato che non può sfuggire ai controlli di Francesco Vignarca Il Manifesto, 12 marzo 2024 I dati del Sipri di Stoccolma sono sempre molto utili per andare a corroborare con numeri e cifre le tendenze del mercato delle armi, in generale delle spese militari, che sono evidenti a chi si occupa di questo settore. In particolare i Trends in international arms transfers appena usciti con riferimento al 2023 ci permettono di capire quali industrie militari (e di conseguenza quali Paesi) stiano spingendo sul commercio di armi non solo come fonte di ritorno economico ma anche - in alcuni casi soprattutto - come strumento di influenza e intervento nei conflitti e nelle zone più turbolente del globo. Per tali motivi è sicuramente importante valutare gli aspetti più rilevanti che si possono trarre dagli ultimi dati. Ricordando che le cifre del Sipri sul commercio di armi fanno riferimento ad un trend-indicator value (Tiv) che per sua natura va preso come segnale di una dinamica e non nel suo valore assoluto. Il primo elemento riguarda il valore globale del commercio di armi, che continua a salire sia su base annua che valutando andamenti a blocchi di cinque anni (per sua natura sia di accordi che di produzione, la vendita di armamenti si realizza su periodi medio-lunghi, da qui la necessitò di uno sguardo pluriennale). Non deve trarre infatti in inganno che l’ultimo quinquennio abbia totali leggermente inferiori al precedente, perché in tale periodo sono inseriti gli anni del Covid che hanno in un certo senso messo in pausa anche l’economia di questo comparto. La ripresa degli ultimi due anni è già ben visibile e sicuramente andrà a rafforzarsi ulteriormente nell’immediato futuro, a causa delle robuste crescite già previste per la spesa miliare nel suo complesso e per quella particolare relativa al procurement armato. Tendenza che va ad irrobustire un aumento di spesa militare comunque già presente, ma che viene accelerato dal coinvolgimento in conflitti di grossa portata di alcuni tra i maggiori produttori di armamenti (Ucraina e Palestina su tutti). Se la spesa militare globale è quasi raddoppiata negli ultimi venti anni non è dunque un caso che anche il commercio di armamenti abbia subito un trend di crescita chiaro, dopo il punto di minimo toccato alla fine del secolo scorso. Il secondo elemento è quello relativo ai paesi esportatori e alle direttrici di vendita internazionale. L’invasione dell’Ucraina, che inizialmente lo stesso Putin ipotizzava poter essere un volano per le armi russe ma che poi si è trasformata in una guerra più lunga di quanto atteso, ovviamente ha fatto crollare l’export militare di Mosca prontamente sostituita da altri Paesi fornitori. Tra essi sicuramente la Francia, che ha strategie di vendita pubblico-private molto aggressive in questo comparto, ha saputo approfittare della situazione anche se ovviamente rimangono sempre gli Stati uniti i veri protagonisti dell’export di armamenti: oltre il 40% del mercato internazionale è loro appannaggio. Un dato davvero rilevante ed esplicito. Figlio anche del raddoppio di importazioni di armamenti da parte dei paesi europei (per il 23% dovuto al dato dell’Ucraina) che nel quinquennio 2019-23 hanno avuto origine negli Usa (era solo il 35% nel quinquennio precedente). Nonostante ciò il commercio internazionale di armi continua ad avere una direzione precisa: dagli stati produttori (in particolare occidentali, più Russia e Cina) a quelli in cui le tensioni sono maggiori, e dunque si cerca di influenzare se non alimentare il conflitto. Non a caso è verso l’Asia e l’Oceania che finisce il 37% di tutte le armi esportate nell’ultimi lustro, seguite dal Medio oriente con il 30%. E l’Italia dove si colloca, in questo quadro? Due sono gli elementi chiave da trarre dal +86% di balzo registrato (con una quota di mercato pari al 4,3% del commercio internazionale di armi). Il primo è la conferma della stessa, problematica, direzione di vendita: il 71% delle esportazioni di armi italiane degli ultimi cinque anni è finito in Medio oriente. Il secondo è la chiara smentita delle motivazioni date dal governo e dalla lobby dell’industria militare (con analisti collegati) alla proposta di peggioramento della Legge 185/90: non è vero che le aziende italiane delle armi siano più controllate e quindi fragili rispetto alla concorrenza (anche europea). Gli affari armati vanno già molto bene, ma chi li controlla non vuole che siano visibili: motivo in più per sostenere la grande mobilitazione promossa dalla società civile per mantenere trasparenza sul commercio di armi. Il solito “negoziare” del Papa è diventato “arrendersi” di Luca Kocci Il Manifesto, 12 marzo 2024 Fuoco di fila ad alzo zero contro papa Francesco che sventola la “bandiera bianca”, cioè sostiene che in Ucraina, ma anche in Palestina, piuttosto che l’ostinazione a combattere per vincere occorre il coraggio di “negoziare” per raggiungere la pace. GLI ULTIMI A SPARARE sul pontefice sono stati il segretario generale della Nato Stoltenberg, il presidente Usa Biden e il cancelliere tedesco Scholz con la ministra degli Esteri tedesca Baerbock. Putin “ha iniziato questa guerra e potrebbe mettervi fine oggi, ma l’Ucraina non ha questa opzione. Arrendersi non è pace. Dobbiamo continuare a rafforzare Kiev, per dimostrare a Putin che non otterrà quello che vuole”, “se vogliamo trovare una soluzione negoziale duratura e pacifica, dobbiamo fare in modo di fornire supporto militare all’Ucraina”, ha detto ieri Stoltenberg - senza nominare Bergoglio, ma riferendosi chiaramente a lui - a margine della cerimonia a Bruxelles per l’ingresso ufficiale nell’Alleanza atlantica della ex neutrale Svezia, un atto che sicuramente non allenterà le tensioni con Mosca ma anzi contribuirà ad aumentarle. È stata poi la volta di Biden, tramite un portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale Usa, il quale ha riferito all’Ansa che “il presidente Biden ha grande rispetto per papa Francesco” ma “la pace in Ucraina potrebbe essere raggiunta se la Russia decidesse di mettere fine a questa guerra ingiusta e non provocata e ritirasse le sue truppe”. Ancora più esplicita, Baerbock: “Davvero non capisco il pontefice, se non dimostriamo forza ora, non ci sarà pace”. E un portavoce del governo tedesco ha fatto sapere che nemmeno il cancelliere Scholz condivide l’appello di papa Francesco a scegliere la via del negoziato. Scontate le reazioni negative da parte di Kiev, che ha convocato l’ambasciatore vaticano in Ucraina, il nunzio apostolico Kulbokas. Domenica sera, parlando alla nazione, il presidente Zelensky ha detto che la vera chiesa cristiana è quella che si trova al fronte (“ringrazio ogni cappellano ucraino che è nell’esercito, in prima linea” a proteggere “la vita e l’umanità”) e non quella che sta “a 2.500 chilometri di distanza (cioè in Vaticano, ndr), per svolgere una mediazione virtuale tra chi vuole vivere e chi vuole distruggerti”. “Qualcuno allora ha mai parlato di negoziati di pace con Hitler e di bandiera bianca per soddisfarlo?”, ha domandato retoricamente l’ambasciatore ucraino presso la Santa sede Yurash. E il capo della Chiesa greco-cattolica ucraina, l’arcivescovo Shevchuk: “In Ucraina nessuno ha la possibilità di arrendersi. E a chi guarda con scetticismo alla nostra capacità di stare in piedi, diciamo: venite in Ucraina e vedrete”. Il verbo chiave sembra essere “arrendersi”, eppure Bergoglio, nell’intervista alla Radiotelevisione della Svizzera italiana (Rsi), i cui contenuti sono stati anticipati sabato sera, non lo ha mai pronunciato, e l’espressione “bandiera bianca” è stata ripresa dall’immagine proposta dal conduttore del format dedicato ai colori, che per l’occasione era il bianco. Il Papa ha però usato il verbo “negoziare”, come peraltro fa da due anni - e ha inviato il cardinale Zuppi come negoziatore a Kiev, Mosca, Washington e Pechino - accanto alla reiterata condanna dell’aggressione russa all’Ucraina. “Occorre avere il coraggio di negoziare”, ha detto alla Rsi, “non abbiate vergogna di negoziare prima che la cosa sia peggiore”. Ed è proprio il negoziato, camuffato con una bandiera bianca che sa di resa inaccettabile, il bersaglio degli attacchi al pontefice di chi quel negoziato non ha mai voluto né praticare né immaginare, perché continua a pensare il mondo diviso in due e vorrebbe che il papa indossasse elmetto con i colori di una delle due parti.