“È illusorio pensare di risolvere tutto aumentando le pene per i ragazzi difficili” di Franco Insardà Il Dubbio, 11 marzo 2024 Quando all’inizio degli anni 70 il “Beccaria” apriva i battenti don Gino Rigoldi era lì, come oggi a distanza di oltre 50 anni. “Sono ancora io il cappellano, pur avendo dato le dimissioni. Al “Beccaria” tutto è lento, don Claudio Burgio che mi sostituirà non ha fretta, perché ha tante cose da fare, la direzione è sommersa dalla burocrazia e io sono ancora vicino ai miei ragazzi”, dice don Gino con i suoi 84 anni e la voglia e l’entusiasmo di un giovanotto. In tutti questi anni ne ha visti passare tanti di ragazzi, sa bene di cosa hanno bisogno e con la sua Fondazione tra i quartieri di San Siro e Giambellino ha 15 appartamenti per chi una casa non ce l’ha. Don Gino, per contrastare la criminalità minorile il governo ha deciso di intervenire con il decreto Caivano che, secondo il rapporto di Antigone, ha fatto aumentare i detenuti negli Ipm. Pensa che possa servire? È una stupidaggine, frutto di incompetenze secolari, pensare che i cattivi comportamenti dei minori si possano contrastare inasprendo le pene. In assenza, o meglio con grandi deficit, di proposte culturali e formative. Si tratta di misure che possono avere effetto su qualche animo surriscaldato e ignorante della realtà che applaudirà, ma passato il clamore mediatico i problemi rimarranno insoluti. La stessa stupidaggine l’ho sentita in questi giorni, dopo la morte degli operai nel cantiere di Firenze, quando si è detto: inaspriremo le pene. Forse sarebbe stato più corretto dire aumenteremo i controlli e la formazione. Per quei minori che sono in giro per la città senza casa e senza lavoro qualcuno può pensare che la soluzione sia quella di punirli di più? Ripeto, è una grande stupidaggine. L’unico risultato sarà quello di far aumentare i ragazzi che entrano in carcere. Chi sono i minori che vanno in carcere? La gran parte ci vanno per dei piccoli reati legati alla sopravvivenza. Milano è il punto di arrivo di molti ragazzi immigrati. Abbiamo almeno 700/800 minori in giro per le strade in cerca di un letto e di un pasto caldo. Addirittura i minori trovano accoglienza alla “casa Jannacci” e alla “Certosa”, due grandi istituti destinati. Quale? Agli anziani. Una vera emergenza? Siamo impegnati quotidianamente a risolvere le situazioni di emergenza e non faccio altro che chiedere la “grazia”, a qualcuno per garantire al ragazzino in uscita una condizione di vita accettabile. Qualche giorno fa ho fatto un “miracolo”: nessuno poteva prendere in carica un ragazzo con dei problemi psichiatrici, dal momento che le comunità sono sature, finalmente dopo lunghe insistenze gli abbiamo trovato una collocazione. Lei di “miracoli” ne ha fatti tanti nella sua vita... Ci sono stati una serie di eventi positivi. Tenga presente che i ragazzi hanno delle risorse straordinarie. Immagini la storia drammatica di un ragazzo, che sta per diventare mio “figlio”, il quale ha camminato a piedi per 1.100 chilometri, lungo la rotta balcanica, oppure di un altro che ha attraversato il Mediterraneo su un gommone, o aggrappato a un camion per chilometri. Questi ragazzi hanno affrontato delle difficoltà che noi non immaginiamo neanche, avendo delle grandi energie che bisognerebbe riuscire a intercettare. Non è semplice. Se sono piccoli e vanno a scuola e se c’è un’accoglienza minimamente attrezzata ci si può riuscire, in questo caso parliamo di figli immigrati che vivono in periferia anche se in condizioni non certo facili. Per gli altri che arrivano, purtroppo, non siamo attrezzati, perché la prima necessità è dare loro da mangiare e dormire, tenendo presente che hanno una cultura e una prospettiva di vita diversa dalla nostra. Per chiare meglio il mio pensiero ai miei collaboratori ripeto: “tenete presente che questi ragazzi non sono nati a Pavia”. A quelli che hanno più di 14 anni bisogna offrire una formazione per farli diventare pizzaioli, muratori, falegnami. È quello che state facendo al centro Barrio’s nella periferia della Barona? Esattamente. L’importante è far capire ai ragazzi che quella formazione gli servirà subito dopo per garantirsi un futuro. Ovviamente bisognerà insegnare loro l’italiano e fornirgli i documenti. Con questo approccio si entra in sintonia con loro, perché parliamo un linguaggio comprensibile: quello della vita pratica. Il “Beccaria” è stato per molto tempo un istituto modello. Poi? Lo è stato per i primi 25 anni, poi il direttore è andato in pensione, è arrivata una bravissima direttrice da San Vittore la quale, purtroppo, dopo un paio di anni ha dovuto lasciare per una malattia. Da quel momento in poi c’è stata una lunga sequela di facenti funzione, per fortuna finita sei mesi fa. E oggi com’è la situazione? Ci sono tra i 70 e gli 80 ragazzi, anche perché rispetto a prima ci sono più posti disponibili. Per loro c’è bisogno anche di mediatori culturali, perché sono quasi tutti extracomunitari. Siccome si tratta di minori hanno bisogno dei documenti, di imparare l’italiano e poi ho una idea che spero di poter realizzare. In casa mia vivono 14 ragazzi che quando incominciano a pregare ritrovano le loro radici e ho notato un certo cambiamento. Quindi la mia idea è quella di farli incontrare con un rappresentante della loro religione, un iman, perché ci credano o meno sicuramente gli può fare bene. Il cappellano cattolico al “Beccaria” in pratica è quasi disoccupato: se dice messa non c’è quasi nessuno, i detenuti. Ha adottato 5 ragazzi, ne ospita 14, ma considera suoi figli tutti quelli che incontra ogni giorno... Ci tento. Sì per due è in corso l’adozione, purtroppo uno è morto in un incidente stradale. Con qualcuno ogni tanto ci sono delle tensioni, ma questo avviene in tutte le famiglie. Il carcere per definizione dovrebbe essere l’estrema ratio per gli adulti, a maggior ragione per i minori... Sì, ma il paradosso è che noi al “Beccaria” siamo quasi arrivati a dire, tra molti dubbi ovviamente: se arriva qui poi qualcuno ci penserà. È sicuramente sbagliato, ma riuscendo a organizzare dei percorsi formativi è da preferire alla strada. Il grande successo della serie televisiva “Marefuori” può contribuire ad aumentare la sensibilizzazione nei confronti del mondo carcerario minorile? Parliamo di fiction, purtroppo la realtà degli Ipm è molto più dura. Non credo che il carcere può essere immaginato dai giovani come una cosa bella. Ho notato in questi anni che in certi quartieri milanesi chi è stato al “Beccaria” viene considerato o si sente come se avesse i “gradi”. Cosa manca al Beccaria e agli altri Ipm per fare un salto di qualità? Ci sono una serie di educatori nuovi che stanno imparando sul campo e al momento fanno fatica. Stiamo facendo con loro un percorso per farli diventare un gruppo di lavoro, perché l’interazione è fondamentale. Il grosso limite è che tutto avviene all’interno dell’istituto. Ci vorrebbero tanti “articolo 21” per consentire ai ragazzi di uscire per andare a lavorare. Sarebbe un messaggio fortissimo per gli altri che sono dentro: fuori c’è il lavoro e il futuro. Una situazione comune a tutte le carceri italiane... Purtroppo è così. A Opera, per i detenuti che hanno superato il tetto della pena, stiamo facendo questo esperimento: portare le aziende all’interno per formare i lavoratori. Una volta pronti escono, grazie all’articolo 21, vengono assunti regolarmente e rientrano la sera. Tutto in accordo con Cgil, Cisl, Uil, con il sostegno di una banca e con le aziende. E la cosa funziona e contribuisce a ridurre la recidiva. Negli Ipm si potrebbe fare la stessa cosa inserendo la scuola e le imprese. Ed è quello che chiedono i ragazzi. Il mondo libero come percepisce il carcere? C’è diffidenza, è sempre uno stigma. Accoglienza sì, ma con prudenza. Il sogno di don Gino? A parte quello di sistemare alcuni ragazzi ho il sogno che il “Beccaria” abbia un gruppo di educatori in grado di lavorare insieme per accompagnare i ragazzi e che sia un luogo dove si stia il meno possibile con la prospettiva di opportunità di lavoro e di un posto dove dormire. Come descriverebbe il disagio giovanile? Quella dei ragazzi italiani è una generazione molto confusa e abbandonata dal mondo adulto. Pensi che viene considerata una domanda indiscreta quando si chiede alla scuola, alla famiglia e alla parrocchia quale è il progetto educativo. I ragazzi immigrati non hanno radici né punti di riferimento e quindi si ritrovano in balia di una situazione turbinosa, hanno tanta energia ma bisogna intercettarla. Per me educazione significa relazione, camminare insieme, fare comunità. Non dovranno diventare come noi, ma integrarsi con noi. Mattarella: “Criticità del sistema carcerario italiano, grati alla Polizia penitenziaria” Il Riformista, 11 marzo 2024 Nel giorno del 207° anniversario dalla fondazione della Polizia Penitenziaria, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha voluto inviare un messaggio rivolto proprio al Corpo. Con una comunicazione indirizzata al Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Giovanni Russo, il presidente ha lodato l’opera della Polizia, sottolineando anche le difficoltà in cui lavora e in cui si trova il sistema carcerario italiano. Mattarella su carceri e polizia penitenziaria - “La Polizia Penitenziaria concorre, in maniera encomiabile, al ruolo prezioso di tutela della convivenza civile della nostra comunità. Spesso in condizioni oggettivamente difficili, opera quotidianamente, in un contesto di criticità del sistema carcerario italiano, con spirito di servizio e abnegazione per garantire condizioni di sicurezza e rispetto della vita dei detenuti, in attuazione del principio costituzionale della funzione rieducativa della pena”. Questo il testo inviato dal capo dello Stato e reso noto dal Quirinale. Mattarella poi ha ringraziato tutti i membri del corpo: “Ai componenti del Corpo va rivolta la gratitudine della Repubblica per il costante e generoso impegno a servizio delle Istituzioni”. “Si tratta di un compito dai profili estremamente delicati, incentrato com’è sull’operare in un ambito in cui la vita di decine di migliaia di persone è loro affidata. In questo giorno in cui ricordiamo il 207° anniversario di costituzione della Polizia Penitenziaria, rendo omaggio ai caduti nell’assolvimento del dovere, esprimo ai loro familiari la vicinanza del Paese e formulo a tutto il personale in servizio, in congedo e alle rispettive famiglie, gli auguri più cordiali”, ha concluso Mattarella. Libertà di Stampa? No, è solo l’inferno dei diritti di Iuri Maria Prado Il Riformista, 11 marzo 2024 È la cultura che ha fatto giustizia in Italia negli ultimi decenni: si celebra il verbo delle intercettazioni e si ordinano ed eseguono i rastrellamenti giudiziari con il magistrato che annuncia il trionfo della sua rivoluzione in faccia telecamere e carabinieri. Non si creda che la “libertà di stampa”, il “diritto dei cittadini a essere informati” e il “dovere dei giornalisti di dare le notizie” costituiscano solo il fascio di gagliardetti retorici messo a presidiare il giro di veline e i traffici del cosiddetto giornalismo d’inchiesta con le procure della Repubblica e con il mandarinato anonimo dello spionaggio di Stato. Quei presunti valori costituzionali, infatti, sono impropriamente chiamati alla protezione di una cultura più vasta e penetrante, che di quel cosiddetto giornalismo d’inchiesta è semmai l’utilizzatrice finale. Mezzi da polizia segreta zarista e mezza da sgherri di una fungibile junta sudamericana, quella pratica giornalistica, che compila liste di nomi da monitorare e fa ricettazione di pezzi di mattinale e abbozzi di indagini che dovrebbero essere riservate, è asservita in realtà al precetto di legalità farlocca della cultura inquisitoria e antimafia che non solo non ripudia, ma anzi promuove, la ricerca della presunta verità facendo piazza pulita delle regole di giurisdizione e dei diritti dei cittadini, le une e gli altri considerati spiacevoli impicci sulla via per perseguire il bene di cui si fanno interpreti, in consorzio, lo strapotere inquirente e il giornalista di complemento. Che lo Stato si munisca persino di una Commissione parlamentare intestata all’”antimafia” e di una apposita Procura Nazionale e che, non casualmente, vengano da lì i sentori di certe nefaste compromissioni, è il segno di quanto poco il fenomeno possa essere attribuito solo ad accidentali malversazioni e a un malcostume poco sorvegliato. Nel giro di pochi giorni abbiamo avuto una condanna in appello di un magistrato, Davigo, accusato di rivelazioni di segreti d’ufficio e pesantissimi indizi circa l’organizzazione dello spionaggio proprio nel ventre dell’antimafia giudiziaria. E tuttavia rimane consegnata all’ineffabile l’immagine del presidente grillino dell’Antimafia che riceve i bisbigli di quel magistrato “nella tromba delle scale” del Consiglio superiore della magistratura, mentre si attribuisce alla presenza di qualche sperduta mela marcia e a inopinate difettosità funzionali quel che sempre più appare come un elemento costitutivo di quelle articolazioni dello Stato, cioè il fatto che siano sistematicamente prestate o almeno esposte al lavoro sporco che affastella “notizie” da riversare nel giacimento ricattatorio da cui pescare al momento buono. È la cultura che ha fatto giustizia in Italia negli ultimi decenni, la cultura in nome della quale si celebra il verbo delle intercettazioni, si sacrificano sino all’annullamento i diritti della difesa e si ordinano ed eseguono i rastrellamenti giudiziari con il magistrato eponimo che annuncia il trionfo della sua rivoluzione in faccia a una foresta di telecamere e tra due ali di carabinieri. A fornire la pasta giustificativa e narrativa di questa cultura è appunto quel presunto giornalismo d’inchiesta, ma esso si limita a mettere in bella copia (si fa per dire) una pretesa che in realtà lo sovrasta e lo comanda, vale a dire che al buon fine del trionfo sulla corruzione e sulla delinquenza organizzata possano essere apprestati mezzi che, col sigillo dello Stato, organizzano un sistema corruttivo e delinquenziale anche più grave rispetto a quello che vorrebbero combattere. Viene dal preteso “bene” dell’antimafia, dal preteso “bene” che la giurisdizione poliziesca persegue abbattendo i diritti che si frappongono al suo lavoro, viene dal nocciolo originario di quella giustizia il male che si fa finta di identificare in una allarmante aberrazione mentre ne è la sistematica premessa e l’inevitabile destinazione. Quel giornalismo è il pus di un’infezione ben più profonda. La riforma della giustizia di Nordio vista da Vincenzo Musacchio di Lucia De Sanctis informazione.it, 11 marzo 2024 Vincenzo Musacchio è associato al Rutgers Institute on Anti-Corruption Studies (Riacs) di Newark (Usa). Ricercatore indipendente e membro dell’Alta Scuola di Studi Strategici sulla Criminalità Organizzata del Royal United Services Institute di Londra. È stato allievo di Giuliano Vassalli, amico e collaboratore di Antonino Caponnetto, magistrato italiano conosciuto per aver guidato il Pool antimafia con Falcone e Borsellino nella seconda metà degli anni ottanta. Professore partiamo dalla domanda forse più problematica, cosa ne pensa dell’abrogazione dell’abuso di ufficio? Non sono assolutamente d’accordo con la sua abrogazione. Andava riformato e reso maggiormente compatibile con il principio costituzionale di legalità e nel caso di specie con la tassatività e la determinatezza di cui necessitano le norme incriminatrici. Occorreva semplicemente una migliore descrizione normativa e una più congrua applicabilità ai casi concreti. Si è preferito abrogare. Ritengo vedremo gli effetti deleteri molto presto. Da più parti si spinge per una revisione della disciplina delle intercettazioni, lei che ne pensa? Le intercettazioni sono un mezzo di ricerca della prova tra i più fruttuosi in ambito investigativo, per cui, credo che se per riforma s’intenda un loro potenziamento, allora sono d’accordo, in caso contrario, credo che ridurle o ridimensionarle sia assolutamente un grave errore, soprattutto per quei reati di grande allarme sociale quali la corruzione, i delitti di mafia, di terrorismo e quelli economico-finanziari. Più che toccare il settore delle intercettazioni io mi concentrerei sul segreto istruttorio che a oggi è semplicemente un obbligo soltanto sulla carta, giacché è violato molto spesso, per non dire sempre. Il Governo di cui Nordio è ministro della Giustizia vuole la divisione delle carriere dei magistrati, questa proposta la trova d'accordo? Mi trova d’accordo se a questa riforma si aggiungono la discrezionalità dell’azione penale e la riforma del concorso per l’accesso al ruolo di magistrato. Una precisazione: non parlerei di carriere ma di funzioni. Ci spiega meglio come si dovrebbe accedere al ruolo della magistratura? Molto semplice. Per diventare magistrato andrebbe valutato in primis l’idoneità del candidato a svolgere quel ruolo, a prescindere delle conoscenze giuridiche. Posso essermi laureato con il massimo dei voti essere un ottimo avvocato, un docente bravissimo, ma un pessimo magistrato. Il mio maestro Antonino Caponnetto mi diceva che per indossare la toga del magistrato bisogna avere la vocazione. La vocazione è innata e non si trova semplicemente dopo aver riflettuto ed esaminato le varie strade. Il problema della giustizia è e resterà sempre un problema di persone capaci e di incapaci. Perché il meccanismo funzioni alla perfezione occorrerebbe che i primi prevalessero sui secondi. Sulle progressioni di carriera dei magistrati invece cosa pensa? L’approccio meritocratico unito all’esperienza dovrebbe essere il criterio per selezionare i magistrati più competenti, più equilibrati e più diligenti. Faccio un esempio che può sembrare banale, ma non lo è. Se ci sono due sostituti procuratori della Repubblica che concorrono per un posto da procuratore, il primo ha portato in giudizio 100 indagati ottenendo alla fine dei vari processi solo 10 condanne e il secondo ha portato il giudizio, lo stesso numero d’indagati ma ha ottenuto 80 condanne, voi quale dei due vorreste che divenisse procuratore della Repubblica? Nella risposta c’è la valutazione dei magistrati. In questa giustizia penale così malandata c’è qualcosa che riformerebbe subito? Occorre un processo penale rapido ed efficace. Rivedrei l'udienza preliminare. Tra quest’ultima e l’inizio del processo passa anche un anno. Questa è una stortura volendo risolvibile. So che potrei apparire nostalgico del rito inquisitorio ma a me non piace neanche il fatto che il giudice del dibattimento non possa conoscere gli atti dell'istruttoria. Molti atti istruttori in dibattimento sono spesso inutili e fanno perdere tempo. Puntare seriamente sull’informatizzazione sarebbe un altro tassello per migliorare il sistema giustizia ormai allo sbando. Naturalmente questi sono solo alcuni spunti. Lei ha detto che la giustizia è un problema di persone, ci fa un esempio di una persona che secondo lei incarna o ha incarnato bene il ruolo del magistrato? Rosario Livatino. Mi è sempre piaciuta la sua idea sul ruolo del giudice. “Il giudice di ogni tempo deve essere e apparire libero e indipendente, e tanto può essere e apparire ove egli stesso lo voglia e deve volerlo per essere degno della sua funzione e non tradire il suo mandato”. Un giudice così come lo immaginava Livatino risolverebbe una buona parte dei problemi della giustizia italiana. La guerra sui test per i magistrati: quel “chiodo fisso” del Cavaliere che scandalizza ancora l’Anm di Valentina Stella Il Dubbio, 11 marzo 2024 Dalla bordata di Berlusconi sui giudici “disturbati mentali”, i controlli psicoattitudinali erano rimasti un tabù. Ma ora... Quattro settembre 2003, l’allora premier Silvio Berlusconi tuonò: “I giudici sono matti, sono mentalmente disturbati, hanno turbe psichiche e sono antropologicamente diversi dalla razza umana”, scatenando l’ira dell’ex Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi che sconfessò il presidente del Consiglio e ribadì piena fiducia alla magistratura. Il presidente del tempo dell’Anm, Edmondo Bruti Liberati, convocò in via d’urgenza la Giunta esecutiva centrale dell’Associazione Nazionale Magistrati. 3 marzo 2024: il “parlamentino” dell’Anm licenzia all’unanimità, a proposito della proposta del governo Meloni di introdurre test psico-attitudinali per i nuovi magistrati, un documento in cui si legge che “sembra evidente la volontà di riproporre uno scontro con la magistratura, di riaccendere un clima conflittuale, gravemente dannoso per i cittadini. Esattamente quello che non vuole la magistratura”. Insomma in ventuno anni sembra - con le dovute differenze - che la storia si ripeta. Siamo ancora a un conflitto tra esecutivo e toghe in merito alla possibilità, legittimità, praticabilità e opportunità di procedere a una individuazione dei futuri magistrati non solo su base culturale, curriculare e tecnicistica, ma anche sulla base del riscontro di qualità personali. La riforma Castelli del 2005, quando era sempre presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, prevedeva che l’aspirante toga “debba essere positivamente valutato nei test di idoneità psico-attitudinali all’esercizio della professione di magistrato in relazione alle specifiche funzioni indicate nella domanda di ammissione”. Il test avrebbe dovuto quindi anche stabilire se l’aspirante toga fosse più adatta a fare parte della magistratura giudicante o di quella requirente. Fu proprio l’ex ministro della Giustizia Nitto Palma, deputato di Forza Italia nella XIV Legislatura quando si discuteva della Delega al Governo per la riforma dell'ordinamento giudiziario, a motivare l’iniziativa, quale relatore del provvedimento in Commissione, con lo scopo di “garantire l'assunzione di magistrati con capacità adeguate ai delicati compiti da svolgere”. La previsione fu accantonata con il parere negativo anche della Società Psicoanalitica Italiana: “Noi esprimiamo la più decisa contrarietà, disapprovazione e preoccupazione per quanto previsto dal succitato articolo. La nostra critica è soprattutto “tecnica”. Il Disegno di legge sembra infatti proporre una forma di valutazione predittiva psicologico-psichiatrica del futuro magistrato, nella presupposizione di una capacità “scientifica” e tecnica di discriminare, attraverso test e colloqui, la specifica “idoneità psicoattitudinale” degli aspiranti magistrati, addirittura in relazione alle specifiche funzioni indicate nella domanda di ammissione. È doveroso chiarire che nessun tecnico, anche soltanto minimamente competente in materia, saprebbe in coscienza avallare una simile supposizione o presunzione”. La proposta fu poi rivisitata dal successore di Roberto Castelli, Clemente Mastella, ma non se ne fece più nulla. Anche in Francia negli anni si accese un grosso dibattito e i test furono introdotti nel 2009 per rispondere allo scandalo dell’affaire Outreau, procedimento penale riguardante atti di violenza sessuale su minori avvenuti tra il 1997 e il 2000, nonché caso di errore giudiziario legato in particolare alla custodia cautelare tra il 2001 e il 2004. Il caso si concluse con quattro condanne definitive e l'assoluzione di tredici dei diciassette imputati, molti dei quali erano stati in carcere per diversi anni. La vicenda portò ad un forte discredito della magistratura e da lì furono aperte commissioni di inchiesta e introdotti i test. Tuttavia nel 2017 furono aboliti quelli attitudinali e di personalità per l’ammissione alla Scuola Nazionale della Magistratura, come ha ricordato il presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, Giuseppe Santalucia, nell’ultimo parlamentino dell’Anm, citando un articolo di Questione Giustizia dal titolo “L’Ecole nationale de la magistrature, attraverso mezzo secolo di storia: risultati, sfide, prospettive” dove si leggeva: “I test psicologici - disse un presidente onorario della Corte d’Appello - si sono connotati per totale mancanza di serietà, potenzialità di sviamento, inutilità e pericolosità, avendo la pratica dimostrato una certa tendenza ad uniformare le personalità, che si manifesta con domande molto invadenti sulla vita privata dei richiedenti e giudizi affrettati e stereotipati. Di certo, detti test non meritano di avere spazio nel sistema di reclutamento. Sebbene, a quanto pare, la commissione non ne tenga conto, essi sono percepiti come disagi illegittimi imposti ai candidati già notevolmente stressati dalle difficoltà di un concorso iper selettivo. I guasti così prodotti, dunque, rimangono. Questa inadeguatezza è ancor più evidente laddove si consideri che la prova orale, come attuata oggi, davanti a una giuria più aperta rispetto al passato (comprendente, in particolare, uno psicologo), si concentra principalmente sul percorso del candidato, le sue motivazioni, la sua personalità e le sue esperienze, ciò che appare ampiamente sufficiente ad individuare i candidati non idonei all’esercizio della professione di magistrato. Nella lettera sopra citata il SM ha insistito sulla necessità della loro abolizione”. Di parere diverso, come espresso pochi giorni al Dubbio, quello di Fabrizio Starace, direttore del Dipartimento di Salute mentale e dipendenze patologiche dell’Ausl di Modena e presidente della Società italiana di epidemiologia psichiatrica (Siep), secondo il quale “chi svolge un’attività con grandi responsabilità, come appunto i magistrati, non dovrebbe temere il test”. Si apre dunque l'indagine tra i rapporti fra scienza e magistratura. L’odissea di quei giudici-ragazzi formati solo sulla teoria e poi lanciati in aula a decidere della vita altrui di Domenico Tomassetti Il Dubbio, 11 marzo 2024 Provate per un attimo a mettervi nei panni di un trentenne che nella sua esistenza non ha fatto nient’altro che studiare e che viene catapultato a fare il magistrato monocratico in un tribunale: è la solitudine del giudice di primo grado. La riforma della magistratura è un’utopia sbandierata da velleitari ministri o da improbabili, sedicenti statisti che nella Costituente del 1946 non avrebbero neppure fatto gli uscieri. Il fatto è che, in Italia, le Riforme si annunciano sempre come rivoluzioni copernicane. Poi leggi il testo in Gazzetta (sempre che arrivi ad essere pubblicato) e hai la stessa sensazione di frustrante inutilità di quando sbagli strada e svolti l’angolo di un vicolo cieco. In questi giorni infuria la polemica sui test psicoattitudinali. Un aspetto marginale del problema, come al solito, ci impedisce di vedere l’elefante nella stanza. Bisognerebbe avere il coraggio di affrontare complessivamente il sistema di accesso alla magistratura che è rimasto quasi identico a quello delineato dal Ministro Zanardelli alla fine del XIX secolo. Dopo cinque (o più) anni di corso di laurea in giurisprudenza - in cui (a parte una tesi finale, quasi sempre meramente compilativa) gli studenti non solo non scrivono, ma neppure leggono un atto giuridico (né una sentenza, né un ricorso, né un contratto), limitandosi allo studio mnemonico di manuali in cui, nella migliore delle ipotesi, il diritto è spiegato in maniera più astratta dell’iperuranio di Platone - si può direttamente fare domanda di ammissione al concorso. Fino alla ultima riforma, per partecipare dovevi essere avvocato, dirigente pubblico da cinque anni, magistrato amministrativo o contabile o, perlomeno, diplomato in una scuola di specializzazione post universitaria. Adesso si è tornati venti anni indietro: basta la laurea. Ovviamente nella realtà non è così. Quello che hai imparato all’Università non è sufficiente ad affrontare il concorso. Così i ragazzi si chiudono a studiare almeno un altro paio di anni per prepararsi alle prove e spesso si iscrivono a scuole private, gestite da magistrati o ex magistrati ordinari o amministrativi che, oltre a sporadiche e discutibili derive sul dress code, indirizzano lo studio dei discenti e a volte riescono, con capacità divinatorie che meriterebbero di essere proficuamente sfruttate nel campo delle scommesse (legali, si intende), anche ad “azzeccare” almeno l’argomento delle prove scritte. Si narra di riunioni notturne in alberghi romani in cui vengono svelate “in limine litis” le tracce del giorno dopo. Ma non voglio crederci. E nemmeno sono invidioso dei (legittimi) guadagni delle società che gestiscono questi corsi. Mi limito a rappresentare che il precedente sistema era astrattamente finalizzato a far accedere al concorso chi avesse o una pregressa esperienza lavorativa in campo giuridico (avendo anche già superato un altro concorso pubblico) o una specializzazione post lauream che, essendo rivolta a tutte le professioni forensi (è ancora richiesta per accedere all’esame da avvocato), era nata per creare una base di “saperi condivisi” che avrebbe facilitato poi i rapporti quotidiani nel Foro. Si potrebbe obiettare che l’esperienza delle scuole universitarie di specializzazione non è stata esaltante. Senonché Federico Caffè, “solitario riformista”, era solito dire che in Italia si confondono troppo spesso le patologie con il fisiologico funzionamento del sistema. Le patologie si curano per tornare al corretto funzionamento degli istituti: le scuole di specializzazione possono essere migliorate. Invece, come profetizzava Caffè, il legislatore ha deciso di sconfiggere la malattia uccidendo il paziente. Ci si può iscrivere al concorso possedendo la sola laurea in giurisprudenza. Da un concorso (quasi) di secondo livello, si è tornati indietro. Dopo cinque anni di studio universitario prevalentemente mnemonico e altri due/tre di preparazione spesso “guidata” da magistrati, guru della formazione, il candidato si siede in un’aula fieristica romana per (provare a) scrivere i tre temi di civile, penale e amministrativo, superati eventualmente i quali sarà ammesso all’orale. Eventualmente perché le tracce sono sovente eccessivamente specifiche e non sembrano mirare a valutare se l’aspirante Giudice capisca il diritto, quanto se sia informato sull’ultimo arresto della Cassazione in una determinata e settoriale materia; eventualmente anche perché, come scoprono (ipocritamente basiti) i Commissari d’esame, un sistema che non insegna né allena a scrivere genera candidati che non sanno scrivere. Senonché, soprattutto nel diritto, chi scrive male dimostra di non essere capace di un pensiero complesso. Necessario se, per vivere, ti prendi l’onere di giudicare le ragioni degli altri. La prova orale, anche nell’ultima riforma, si svolge su un numero notevole di materie (praticamente tutti gli esami “fondamentali” del corso di laurea in Giurisprudenza) e, anch’essa, ha una strutturazione che mira alla valutazione della preparazione teorica del candidato. In nessuna fase del concorso viene valutato il profilo psicoattitudinale del candidato. Superato questo difficilissimo esame - che tantissimi considerano un punto di arrivo e non di partenza - il neomagistrato diventa uditore giudiziario e, per 18 mesi, viene sballottato in vari plessi giudiziari a seguire udienze in materie le più disparate tra loro (penale e lavoro, commerciale e famiglia, fallimentare e successioni). Terminato questo schizofrenico periodo, si siede (letteralmente) dall’altra parte della scrivania e decide della vita - nel senso degli interessi economici, degli affetti familiari, della libertà personale etc. - dei suoi concittadini. Provate per un attimo a mettervi nei panni di un/a ragazzo/a di 28/30 anni che nella sua esistenza non ha fatto nient’altro che studiare, che ha messo piede in Tribunale per la prima volta 18 mesi prima e viene catapultato/ a a fare il Giudice monocratico in un Tribunale: la solitudine del giudice (di) primo (grado). Deve decidere sul licenziamento di un’operaia di cinquant’anni ed è al primo impiego della sua vita. Probabilmente una fabbrica l’ha vista solo passandogli a fianco in autostrada. Oppure deve scegliere a chi affidare i bambini di una coppia separata e non ha ancora trovato la/il compagna/o con cui decidere se avere dei figli. Però, qualora gli chiedessi la più recente sentenza della Cassazione in materia di concordato preventivo, te la saprebbe recitare quasi a memoria; se volessi essere informato sul dibattito dottrinario sui crediti chirografari e il loro triste destino (triste per il creditore, si intende), scopriresti che potrebbe citarti tutti gli autori che ne hanno scritto negli ultimi dieci anni. Ma è davvero quello che serve per fare bene il Giudice? La magistratura è l’unico lavoro (peraltro di straordinaria importanza e delicatezza sociale) per il quale non è previsto un periodo di effettivo e probante tirocinio. Se fai l’avvocato, in uno studio mediamente serio, prima di farti firmare da solo un atto, passi anni a scrivere memorie e ad accompagnare il tuo dominus in udienza; il mio maestro sosteneva che per scrivere bene un ricorso ci vogliono 15 anni di professione: esagerava? Forse, ma non troppo; se fai il medico, per tutta la (non breve) durata della specializzazione, sei sbattuto in ospedale a cercare di farti rispettare dagli infermieri che ti lanciano occhiate che inequivocabilmente significano “a ragazzì levate che famo noi”. Il Giudice no, il Giudice è subito in prima linea. Ha studiato molto, forse troppo, ma non è sufficiente. Non so se la mia visione della funzione sociale dei magistrati sia troppo elevata. Però vedo i danni economici e sociali, nonché le catastrofi umane, che un cattivo esercizio della giurisdizione provoca. Giudicare è una funzione complessa che richiede non solo conoscenze tecniche, ma anche equilibrio ed esperienza giuridica e di vita. Se si vuole riformare la giustizia, perché non partire dalla base, modificando le modalità di accesso alla magistratura? Magari si potrebbe ipotizzare un concorso meno nozionisticamente selettivo che non dia accesso subito alla funzione giudicante, ma ad una sorta di uditorato giudiziario “lungo” (congruamente retribuito) in cui il candidato promosso affianchi i togati per alcuni anni, scrivendo sentenze e imparando a gestire le udienze. Al termine di questi anni di “tirocinio”, si potrebbe immaginare un piccolo, ulteriore esame in cui, partendo dalla discussione dell’esperienza nel periodo di uditorato e dalla valutazione della stessa effettuata sul campo dai togati con cui ha lavorato, la Commissione abbia concretamente contezza (nel senso di sperimentata valutabilità) delle capacità giuridiche e umane del candidato. Solo il superamento di questa seconda selezione permetterebbe di indossare effettivamente la toga e giudicare. Insomma, non precari e poco selettivi uffici del processo, spesso rifugio di chi non ha ancora trovato un’occupazione proficua, ma un tutelato percorso di carriera che dia, da un lato, ai ragazzi una prospettiva per la quale ha senso impegnarsi e, dall’altro, al sistema la possibilità di valutare davvero le capacità tecniche e l’”attitudine” della persona che dovrà sostenere il peso di giudicare le vite degli altri. Un cursus honorum che, nella sua riconosciuta e quotidiana difficoltà, restituirebbe dignità e rispetto sociale alla figura del magistrato. L’individuazione di un tale percorso di carriera renderebbe più “digeribili” anche i test psicoattitudinali che non sarebbero vissuti dalla magistratura come sintomo di una generalizzata sfiducia nella categoria, ma come parte della valutazione necessaria e utile per ottenere la toga. Infine conferirebbe maggiore “sacralità” alla definitiva investitura delle funzioni giudicanti che, assunte in una fase più avanzata della vita, sarebbero meglio sopportate in tutta la loro notevole gravità. Se penso all’avvocato che ero a 28 anni (“ragazzo de bottega der grande avvocatone” secondo l’illuminante definizione di Aldo Fabrizi in un capolavoro cinematografico degli anni 70) e a quello che sono oggi, mi tornano in mente le parole di un grande pensatore americano, nato a Louisville nel secolo scorso: “Un uomo che osserva il mondo a cinquanta anni allo stesso modo in cui l’ha fatto a venti, ha sprecato trenta anni della sua vita”. Non avviene lo stesso anche ai giudici? O dobbiamo immaginare che non siano più annoverabili nella categoria degli esseri umani solo perché hanno superato un concorso? Il “Minnesota” e gli altri formulari. Come funzionano le verifiche sull’equilibrio adottate nei concorsi di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 11 marzo 2024 Le capacità di un candidato che ambisce a superare un concorso pubblico per lavorare nella PA e per entrare nelle Forze armate passano anche attraverso la somministrazione di test psicoattitudinali. Non sono esclusi, in alcuni casi, coloro che partecipano a selezioni aziendali, colloqui per lavorare negli istituti bancari o per entrare all’università. I test servono a valutare le capacità del candidato in ambiti diversi, che possono andare dalla comprensione verbale alle competenze linguistiche. In base all’ambito lavorativo le prove sono personalizzate e sono volte a individuare le migliori risorse umane per un determinato impiego. È opportuno, però, fare una premessa e una distinzione. Esistono i test attitudinali e i test psicoattitudinali dai quali derivano differenti approcci di selezione. I primi offrono la possibilità di conoscere le abilità tecniche, logiche e matematiche del potenziale assunto. I test psicoattitudinali, invece, permettono ai selezionatori di avere un quadro il più completo possibile sulle capacità cognitive del candidato e sulle caratteristiche personali. La loro utilità sta nel fatto che consentono di conoscere la sfera psicologica e le cosiddette “soft skills”, vale a dire le capacità e le competenze personali, e le attitudini nel ricoprire un certo ruolo. Le due tipologie dei test sono imparentate tra loro, nel senso che vertono su domande a risposta multipla e-o chiusa a cui rispondere in un arco temporale prestabilito. Le domande mirano alla comprensione verbale di testi strutturati e al ragionamento logico. Il più delle volte i quesiti sono a trabocchetto perché intendono testare la sincerità del candidato. I quiz psicoattitudinali fanno parte della famiglia dei test psicometrici, che, a loro volta, si dividono in test attitudinali, test di abilità e test della personalità. L’importanza dei test psicometrici è data dalla possibilità di valutare il comportamento, l’attività psichica e la personalità del candidato. Il metodo di valutazione consiste nel confrontare i risultati dei candidati con specifici parametri statistici standard, tali da fare una valutazione obiettiva e statisticamente significativa. Una delle caratteristiche più importanti dei test psicoattitudinali è la retrospettività. Questo elemento consente di conoscere le esperienze acquisite dal candidato e quello che è più portato a fare nel presente. Esistono diverse tipologie di test psicoattitudinali. Uno dei più diffusi in Italia è l’ITAPI-G Test. Serve a far emergere i tratti comportamentali e caratteriali come l’introversione, l’empatia, la difensività, la dinamicità, l’immaginazione, la coscienziosità e la vulnerabilità. Un altro test per le selezioni psicoattitudinali è il “Minnesota multiphasic personality inventory” (Mmpi). Permette di studiare le caratteristiche, normali e patologiche della persona. Gli ambiti di utilizzo sono la psicologia del lavoro (per la selezione del personale, la valutazione di candidati nei concorsi), e la psicologia giuridica (perizie e consulenze). Questo tipo di test è nato per finalità mediche, quindi non misura il quoziente intellettivo. Permette, però, di scoprire patologie di natura psichiatrica, nevrosi, psicosi. Il “Minnesota” ha più di ottant’anni - risale al 1942 -, ma più volte è stato sottoposto a delle revisioni ed aggiornamenti. Interventi che hanno tenuto conto dei mutati scenari sociali e culturali nel corso dei decenni. Il “Minnesota” è composto da 567 affermazioni (“item”); per ognuna di queste si deve indicare “vero”, “falso”, “prevalentemente vero” o “prevalentemente falso”. Chi affronta il “Minnesota” ha di solito a disposizione 120 minuti. Gli psicologi evidenziano che per rispondere a tutti gli item sono necessari fra i 60 e i 90 minuti. Secondo gli esperti, chi conclude il test in meno di un’ora ha dedicato una scarsa attenzione alla lettura degli item. Superato il “Minnesota”, l’altra fase consiste nel colloquio con lo psicologo o lo psichiatra per la valutazione finale. La somministrazione del “Minnesota” o di altri test psicoattitudinali consente di avere un quadro chiaro delle caratteristiche psicoattitudinali di chi ambisce a ricoprire un determinato posto di lavoro. Obiezioni che derivano da pregiudizi o ubbie di casta, in un mondo che viaggia a velocità impressionante dove siamo sottoposti a innumerevoli e sempre nuovi stimoli, non hanno ragione di esistere. È di questi giorni la pubblicazione della quarta edizione, a cura di Axa, del “Mind Health Report”. L’indagine è stata condotta anche in Italia da Ipsos e ha affrontato i temi del benessere mentale. A livello europeo il 32% della popolazione riporta una forma di disturbo mentale (il 5% se confrontato al 2022). In Italia la percentuale scende al 28%, ma il dato è cresciuto di 6 punti rispetto al 2022. Forme varie di disagio si tendono a sottovalutare. Tra i campanelli d’allarme i curatori della ricerca hanno individuato la scarsa consapevolezza sui disturbi mentali e un crescente ricorso all’autodiagnosi e all’autogestione. Inoltre, i problemi di benessere mentale legati a lavoro stanno raggiungendo livelli allarmanti, anche se le persone, in generale nel mondo, non sembrano considerare il lavoro la causa principale delle loro difficoltà. “L’equilibrio di un magistrato si riconosce sul campo, non con i test attitudinali” di Valentina Stella Il Dubbio, 11 marzo 2024 “Se siamo preparati lo valuta un concorso serio e rigoroso. Queste operazioni servono solo a screditarci agli occhi dei cittadini”. Ça va sans dire, la magistratura associata si oppone fermamente ai test-psicoattitudinali. Ne parliamo con Alessandra Maddalena, vice presidente dell’Anm. L’ultimo parlamentino dell’Anm ha licenziato un documento in cui si scrive che l’ipotesi del governo di prevedere dei test psico-attitudinali per i nuovi magistrati sarebbe un'operazione “demagogica”. Perché? Perché si è trattata di una sollecitazione priva di contenuti concreti in occasione del parere sull'attuazione di una delega che nulla prevedeva al riguardo. Quale altro significato potrebbe attribuirsi ad una iniziativa del genere? Un annuncio pubblico fatto in questo modo può solo disorientare l’opinione pubblica e minare la fiducia dei cittadini nell’istituzione giudiziaria. Si insinua il dubbio che i magistrati non offrano adeguate garanzie di equilibrio e di imparzialità e per questo se ne debba controllare la capacità mentale ed emotiva attraverso un esame preliminare di tipo psicologico. Questa è demagogia. Siete disposti a sedervi al tavolo con il legislatore per trovare una soluzione accettabile per tutti o siete totalmente contrari? La nostra disponibilità al dialogo è costante. Non ci è stato chiesto di sederci a un tavolo con il legislatore e non spetta a noi fare le leggi. La magistratura però ha il dovere di parlare per contribuire al buon funzionamento del sistema giudiziario e preservare la fiducia nella giustizia. Non è solo questione di essere contrari. Si tratta, innanzitutto, di spiegare ai cittadini che operazioni di questo tipo servono unicamente a screditare la magistratura e far perdere loro fiducia nella giustizia. I cittadini hanno diritto di vivere in una democrazia sana in cui il potere politico abbia rispetto per l'ordine giudiziario, preservandone autorevolezza e indipendenza. Il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia nel punto stampa durante l’ultimo Cdc ha definito “risibile” il test Minnesota a cui i futuri possibili magistrati dovrebbero essere sottoposti. Si potrebbe obiettare che spetta a chi lo somministra giudicarne l’utilità... La magistratura ha la competenza e la responsabilità di far sentire la propria voce su ciò che riguarda il funzionamento della giustizia. I test psicoattitudinali - penso a quelli che si è tentato di introdurre nel 2005, visto che oggi siamo di fronte a un annuncio vuoto - sono inutili per valutare l'equilibrio e l’attitudine dei magistrati. L’equilibrio di un magistrato si riconosce dalla sua capacità di confrontarsi con i colleghi, con la polizia giudiziaria, con il personale amministrativo, con gli avvocati, dal modo di condurre le udienze, di rapportarsi e dialogare all’interno e all’esterno delle aule giudiziarie. Si apprezza sul campo, insomma, non con un test, e presuppone una solida preparazione che si valuta solo con un concorso serio e rigoroso, proprio quel concorso che si è tentato di mortificare ipotizzando forme semplificate di reclutamento straordinario. Poi non è chiaro come dovrebbe funzionare questa prova e chi dovrebbe individuare il modello di magistrato “adeguato”. Qualcuno porta ad esempio la Francia, dimenticando che proprio lì i test sono stati soppressi perché ritenuti inutili e pericolosi. Come replica a quanto detto al Dubbio da Fabrizio Starace, direttore del Dipartimento di Salute mentale e dipendenze patologiche dell’Ausl di Modena e presidente della Società italiana di epidemiologia psichiatrica: “Mi stupiscono molto queste polemiche, soprattutto perché il test viene utilizzato nelle attività peritali che vengono svolte nell’ambito dei processi. E i magistrati per primi si avvalgono poi delle risultanze di questo test”? Non comprendo il senso dell'osservazione. Certo che ricorriamo a perizie psicologiche e psichiatriche. Lo facciamo nei singoli processi quando particolari situazioni inducano a dubitare della sanità mentale di un soggetto. Non c’entra nulla con l’idea dei test psicoattitudinali per valutare la capacità degli aspiranti magistrati di svolgere la funzione giudiziaria. Il ministro della Giustizia Nordio qualche giorno fa al Foglio ha detto: “il test psico-attitudinale è ormai obbligatorio per chi riveste funzioni importanti. Se lo fanno i poliziotti, perché non deve farlo il pm che dirige la polizia giudiziaria? L'autocertificazione di virtù ed equilibrio da parte della magistratura è irrazionale e persino offensiva verso le altre categorie di operatori, che si sottopongono ai test senza sentirsi umiliati”. Come risponde? Le forze di polizia svolgono un ruolo delicatissimo che le costringe spesso a confrontarsi con situazioni di fortissimo stress e di pericolo estremo. La funzione del magistrato è diversa. L’attitudine alla imparzialità e al senso di giustizia non si misura certamente con un test psicoattitudinale. Non si tratta di autocertificare virtù ed equilibrio ma di valutare i prerequisiti di indipendenza, imparzialità ed equilibrio attraverso le periodiche valutazioni di professionalità, che tengono conto delle concrete modalità di svolgimento della funzione giudiziaria. Spesso, nei discorsi dei magistrati, si tiene a precisare che le contrarietà alle riforme non sono una chiusura di casta. Però dite no alla separazione delle carriere, no al concorso straordinario, no ai test, no a gran parte del ddl Nordio, e potremmo continuare. Il sospetto viene che non accettiate mai un cambiamento... Siamo sempre disponibili al confronto. Ma se il cambiamento deve passare per l'indebolimento dell’indipendenza della Magistratura, per la rinuncia a criminalizzare forme di malaffare, per la previsione di meccanismi processuali disfunzionali a un rapido esercizio della giurisdizione, non possiamo che dire di no. Sicilia. Carceri minorili tra corsi di formazione interrotti e separazione razziale di Marta Silvestre meridionews.it, 11 marzo 2024 Antigone: “Che faranno fuori?”. Non si vede il mare fuori dagli istituti di pena per i minorenni siciliani. In uno dei quattro, semmai, si vede dentro. Ma è solo l’immagine proiettata sullo schermo di un monitor posizionato davanti a un vogatore nella palestra. Nell’Isola ci sono 72 ragazzi (solo uomini perché non esistono Ipm femminili in Sicilia) detenuti nei quattro istituti di pena minorili: 16 ad Acireale, 10 a Caltanissetta, 24 a Catania e 22 a Palermo. In tutta Italia, nei 17 Ipm, ce ne sono 496. “La cifra più alta degli ultimi quindici anni”, è l’allarme lanciato nel rapporto Ragazzi dentro di Antigone, l’associazione che da quarant’anni si occupa di diritti e garanzie nel sistema penale. “Con sempre meno prospettive di speranza per il loro futuro”, commenta a MeridioNews il presidente di Antigone Sicilia Giorgio Bisagna. Anche a causa delle scelte politiche, nazionali e locali. I corsi di formazione professionale interrotti dalla Regione - “La missione della detenzione minorile dovrebbe essere la rieducazione con l’obiettivo del reinserimento in società - sottolinea Bisagna - Nell’ultimo periodo, invece, c’è stato un drastico cambio di rotta in cui prevale l’aspetto repressivo”. Il riferimento è al decreto Caivano (dal Comune in provincia di Napoli teatro di uno stupro di gruppo ai danni di due cuginette di dieci e 12 anni), che ha introdotto un inasprimento delle misure per i minori determinando un’impennata degli ingressi negli Ipm. Ma “punire per educare - sottolineano da Antigone - è una politica perdente. È illusorio e socialmente dannoso”. Per la mancanza di prospettive quando i minorenni, che negli istituti possono rimanere fino a 25 anni, torneranno in società. Eppure in nessuno dei quattro Ipm siciliani esistono corsi di formazione professionale, interrotti dalla Regione a partire dal 2014. Per sopperire a questa mancanza, in alcuni casi, ci si arrangia con percorsi formativi che però non rilasciano certificazioni e, quindi, non sono spendibili per i ragazzi una volta fuori. Non aiutano, insomma, a rifarsi una vita onesta. E ad allontanarsi da spaccio, aggressioni, rapine e furti. Ma anche violenza sessuale (pure di gruppo) e omicidio. Sono questi i reati per cui i ragazzi sono detenuti negli Ipm siciliani. “Una realtà diversa da quella che si vede in Mare fuori (la popolarissima serie su Netflix, ndr) - continua Bisagna - Nella realtà, le relazioni affettive sono rare, mentre più spesso si creano ghetti per età o nazionalità che, talvolta, sfociano in rivolte anche violente”. Nella stessa Isola, a distanza di pochi chilometri, ci sono due modelli molto diversi d’integrazione dei minori detenuti: a Caltanissetta condividono luoghi e progetti, mentre a Palermo vengono tenuti separati con confini netti che non rispecchiano la realtà sociale esterna. Il modello (senza certificati) di Caltanissetta - I dieci posti letto dell’Ipm di Caltanissetta sono occupati da cinque italiani e cinque stranieri, metà minorenni. “La convivenza tra loro - affermano da Antigone - è serena e senza conflitti”. Nata negli anni Cinquanta come fabbricato per l’edilizia popolare, la struttura offre ai ragazzi la possibilità di frequentare corsi di alfabetizzazione (scuola media e biennio della scuola superiore) e corsi di giardinaggio ed edilizia che, però, non rilasciano certificati. Tra le attività extra, ci sono il rugby, il calcetto e i cineforum. Vengono inoltre organizzati incontri con i familiari di alcune vittime di reati gravi: a portare le loro testimonianze sono andati la vedova Franca Evangelista (moglie di Gaetano Giordano, imprenditore gelese ammazzato dopo avere denunciato il pizzo) e i genitori di Aldo Naro (il giovane medico ucciso in una discoteca a Palermo). “Attività che hanno grande impatto emotivo sui ragazzi - sottolineano da Antigone - perché si rendono conto del significato del reato quando lo vedono in una persona concreta”. La difficile ripresa ad Acireale - In un’antica costruzione nata per ospitare un convento, dal XIX secolo, c’è l’Ipm di Acireale che si trova appena fuori dal centro cittadino. Dei 20 posti letto di capienza massima, quelli effettivi sono in realtà 17 (una stanza è chiusa perché non funziona il bagno) di cui 16 occupati: da sette minorenni e nove maggiorenni, la metà d’origine straniera (Tunisia, Marocco, Egitto, Romania Serbia ed El Salvador), con tre genitori di bambini piccoli. “Si respira un clima sereno e familiare”, certificano gli esperti di Antigone che lo hanno visitato a metà gennaio. Una quiete a cui si arriva dopo le difficoltà, tra la fine del 2022 e la primavera del 2023, per la gestione di un gruppo di minori stranieri non accompagnati trasferiti da diversi Ipm del nord Italia sovraffollati. Le proteste più gravi sono sfociate in incendi appiccati nelle celle. “Negli ultimi anni - si legge nel report - si è registrato un incremento di ragazzi con disagio psichico”. Mentre sono in corso lavori di ristrutturazione per creare un laboratorio di ceramica e pittura, anche qui non esistono percorsi di formazione professionale. Il disagio psichico dilaga a Catania - La conformazione dell’edificio dell’istituto penale per minorenni di Catania Bicocca, che si trova isolato in una zona extraurbana con celle piccole e arredi limitati, richiama quella di un classico penitenziario per adulti. Ci vivono, però, 24 ragazzi: 15 minorenni e nove maggiorenni (in gruppi separati), dieci di origine straniera (Egitto, Tunisia, Marocco e di etnia rom). La capienza della struttura è di 54 posti ma, al momento, sette stanze sono inagibili dopo gli incendi appiccati: anche stavolta in segno di protesta per le difficoltà nella gestione di ragazzi provenienti da altri Ipm del nord. “La maggior parte - fanno notare da Antigone - assume terapie per il controllo dell’ansia o altre problematiche”. Attivi corsi di alfabetizzazione (scuola media e un biennio di potenziamento), assenti quelli professionali e carenti le opportunità lavorative. Si svolgono molte attività sportive, ricreative e culturali: dal campo di calcio all’orto da coltivare, dal teatro alla biblioteca, ma anche musica, danza e pallavolo. Il progetto Remare in libertà consente a due ragazzi di uscire regolarmente per svolgere un corso di canottaggio. Tutti gli altri devo limitarsi ad allenarsi in palestra con un vogatore davanti a uno schermo che riproduce il mare. Il ghetto degli stranieri a Palermo - Una grande piscina dovrebbe essere messa in funzione in estate nell’Ipm di Palermo. La struttura è una villa settecentesca che si trova nel complesso Malaspina in un quartiere residenziale del capoluogo. Dei quaranta posti disponibili quelli occupati sono 22: sette da maggiorenni e nove da stranieri. “Ci sono relazioni fortemente oppositive tra ragazzi italiani e stranieri - riportano da Antigone - per questo la gestione è improntata a una netta separazione”. Già così, in un solo anno, ci sono stati più di cento sanzioni di isolamento con l’esclusione dalle attività in comune, comprese le lezioni. Anche qui i ragazzi possono frequentare la scuola media e il biennio delle superiori ma non hanno a disposizione nessun corso di formazione professionale erogato dalla Regione. Solo tirocini di giardinaggio, edilizia e ceramica. Nel 2022 sono stati attivati cinque laboratori di apprendistato cinematografico. Un progetto da cui è nato il film Scianél, che è in distribuzione in un piccolo circuito legato alle scuole. Nel 2016, nell’Ipm palermitano è nato il laboratorio per la preparazione di prodotti da forno Cotti in Fragranza: un’occasione di inclusione sociale per i ragazzi detenuti, chiamati a prendere parte a tutte le scelte imprenditoriali. E con cui possono continuare a lavorare anche alla fine della pena detentiva. In assenza di prospettive oltre le mura dell’istituto. Carinola (Ce). “Celle con bagno a vista, pochi agenti e detenuti sempre più giovani” casertanews.it, 11 marzo 2024 Celle con bagni a vista, agenti sotto organico e detenuti sempre più giovani, con l'età media che si aggira intorno ai 25 anni. Sono alcune delle criticità emerse al carcere di Carinola durante una visita ispettiva degli attivisti dell'associazione “Antigone”. Al momento, riferiscono dall'associazione, il penitenziario ospita 481 detenuti su 560 posti, ridotti, però, per la chiusura del IV reparto per ristrutturazione. “La struttura è difficilmente raggiungibile con i mezzi pubblici, questo rende difficile i colloqui da parte dei familiari che provengono da altre regioni ma anche dalle città della Campania”, evidenziano in una nota. “Si evidenziano ancora deficit strutturali nel 1^ reparto (celle con il bagno a vista) che ospita sex offender/protetti, art 32 e varie “forme” di isolamento o di esclusione dalla attività in comune. In particolare, all’interno delle due celle dedicate esclusivamente all’isolamento disciplinare, soltanto un soggetto scontava tecnicamente un isolamento disciplinare in fase cautelare”, proseguono da Antigone. “L’area sanitaria ci ha confermato l’uso diffuso di benzodiazepine e ansiolitici per circa il 60% della popolazione detenuta. Il personale di polizia è in sotto organico di circa 50 unità e denuncia un problematico abbassamento dell’età dei reclusi (in media 25 anni) con fine pena molto lunghi. A breve si implementerà anche il numero dei detenuti lavoranti esterni con il ripristino delle lavorazioni della tenuta agricola”, conclude la nota. La Spezia. Detenuti, un Garante per i diritti. Le candidature entro il 30 marzo La Nazione, 11 marzo 2024 Il Comune della Spezia ha avviato la selezione del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, per favorire il reinserimento sociale dei detenuti. Le candidature vanno inviate entro il 30 marzo 2024. Il Comune della Spezia ha pubblicato in questi giorni le procedure per individuare il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale: una figura in grado di essere punto di riferimento delle persone attualmente ristrette nel carcere cittadino, e di fare da collettore tra la casa circondariale e le istituzioni per la promozione di percorsi di reinserimento, nell’ottica del recupero della persona, alla reintegrazione sociale e all’inserimento nel mondo del lavoro. Pochi giorni fa, la pubblicazione del bando per raccogliere le candidature, che dovranno essere inviate a Palazzo civico entro e non oltre le 12 del prossimo 30 marzo 2024. La candidatura potrà essere consegnata a mano alla segreteria generale del Comune (dal lunedì al venerdì dalle 8.30 alle 12.30, il giovedì anche dalle 15 alle 18.30, e il sabato dalle 8.30 alle 11.30); a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento all’indirizzo del Comune (non farà fede il timbro dell’Ufficio postale accettante; ndr) oppure trasmessa via pec all’indirizzo segreteriagenerale.comune.laspezia@legalmail.it. Il modulo per la candidatura è pubblicato sul sito web istituzionale. Sono incompatibili con la carica di garante i membri di organismi dirigenti nazionali, regionali e locali di partiti o movimenti politici e associazioni sindacali. L’accettazione della candidatura per le elezioni politiche o amministrative costituisce causa di decadenza. Il garante rimarrà in carica cinque anni. “La pubblicazione dell’avviso di selezione della figura del Garante delle persone private della libertà personale è il tassello che segue l’approvazione del regolamento comunale che lo istituisce e che il sindaco Peracchini ha voluto introdurre quale segnale di attenzione e di sensibilità verso questa categoria di persone e le loro necessità - spiega l’assessore agli Affari legali, Manuela Gagliardi -. La selezione è, quindi, un momento importante ed invitiamo tutti coloro che hanno i requisiti ad inviare il proprio curriculum, così da consentirci di poter individuare la persona che ha le migliori competenze per svolgerlo. Il Garante avrà un ruolo rilevante per la città e l’integrazione dei detenuti, sia durante il periodo di privazione della libertà che nella fase successiva del reinserimento sociale; potrà proporre e sostenere progetti che diano nuove prospettive a chi, dopo aver commesso degli errori, vuole riscattarsi e vivere una vita diversa rispetto al passato. La figura del Garante comunale si affiancherà e integrerà quelle del Garante regionale e nazionale, creando una rete virtuosa”. Roma. Dal carcere alla rinascita con il lavoro, la storia di Marcello di Elisa Vannozzi zetaluiss.it, 11 marzo 2024 “Ero in metro. Da Rebibbia andavo verso stazione Termini, dove avrei cambiato per la fermata Cipro. Dopo tanto tempo, vedevo intorno a me una folla di persone. La maggior parte con i telefonini in mano, che io ricordavo con antenna, piccoli tasti e in bianco e nero. Un uomo mi sembrava parlasse da solo, pensavo fosse pazzo. Oggi ho capito che aveva un auricolare nell’orecchio”. Marcello descrive così il tragitto verso il posto di lavoro nel quartiere Prati di Roma, dopo più di vent’anni di carcere. A gennaio 2021, fa il colloquio. Passato un mese, riceve l’ok definitivo dal magistrato di sorveglianza. Arriva il 28 aprile, il primo giorno in uscita verso una nuova opportunità di vita. “Mi tremavano le gambe, sudavo, mi sentivo gonfio, confuso, non capivo più niente. Quando sono arrivato al ristorante dove avrei iniziato a lavorare come aiuto cuoco, c’era Flavia ad aspettarmi”. Flavia Filippi è una giornalista, esperta di cronaca giudiziaria, con una carriera di quasi quarant’anni alle spalle. Dal 2022, si dedica giorno e notte insieme alle sue figlie Costanza e Beatrice a “Seconda Chance”. L’associazione no profit è nata dall’attività di volontariato di Flavia, che oggi ne è la Presidente, assieme ad Alessandra Ventimiglia Pieri, autrice e documentarista, e Beatrice Busi Deriu, titolare di Ethicatering. L’obiettivo è cercare opportunità lavorative a carcerati, ex detenuti e ai loro familiari facendo conoscere alle imprese italiane la legge Smuraglia. La norma offre sgravi fiscali e contributivi a chi assume full time, part time o a tempo determinato reclusi ammessi al lavoro esterno al carcere. “Ho iniziato dal mio parrucchiere - dice la Filippi - chiedendo se avesse bisogno di qualcuno che lo aiutasse al negozio. Ho proseguito così con tutti i miei contatti, bussando ad ogni singola porta. In due anni abbiamo trovato ben duecentocinquanta occupazioni”. Molte esperienze sono state positive, come quella di Marcello, quarantanove anni, che era poco più che un ragazzo quando è entrato in cella. “Il momento in cui sono stato scelto dall’azienda è stato per me un primo piccolo traguardo. Il titolare mentre parlavamo non sapeva chi fossi, quale reato avessi compiuto. Non ti giudicano per quello che hai fatto in passato, ma per quello che sei oggi e che potrai diventare domani”. L’ex detenuto racconta di come l’ammissione al lavoro esterno gli abbia permesso di pensare di nuovo alla vita fuori. “Nel periodo iniziale passato nel penitenziario di Palermo, ero molto chiuso. Avevo in mente solo la mia data di uscita. Negli anni ho avuto modo di riflettere, ho provato la sofferenza dell’isolamento. La prima volta che ho rivisto un albero è stato a Rebibbia. Non sapevo più cosa fosse una foglia”. La voce di Marcello si spezza, e la commozione non si nasconde dietro gli occhi azzurri lucidi: “Una volta ammesso al lavoro, mi hanno portato al reparto Venere insieme agli altri detenuti nella mia stessa condizione. Lì avevamo la possibilità di passeggiare sul terreno, c’è una sorta di orto. Ho pensato “voglio tentare”. Era intorno al 12 aprile, tolgo le scarpe e non lo so. Ho sentito un’emozione, qualcosa di forte. Non ci credevo. Ero abituato a vivere nel cemento, solo se lo provi puoi capire”. Pochi giorni dopo, Marcello si è ritrovato a darsi da fare in un ristorante, tornando ad avere un contatto con la realtà. I discorsi con i colleghi erano diversi, ha imparato ad usare lo smartphone e a contare i soldi che poteva usare durante le ore fuori, dato che conosceva solo le lire. Divertito, parla della piccola disavventura per tornare verso il carcere di Rebibbia: “Alle sedici dovevo affrontare la vita: sarei rientrato da solo. Avevo scritto il tragitto, con il numero dell’autobus e della metropolitana. Ho raggiunto la fermata Cipro senza problemi, ho chiesto informazioni per Rebibbia e mi hanno detto che avrei dovuto prendere la metro B a Termini. Ci arrivo, faccio il cambio di treno. Ero teso perché un amico mi stava aspettando al capolinea, ero senza cellulare e cabine telefoniche non ne trovavo. Avevo con me i contatti più importanti: il carcere, casa mia e il numero della persona che mi attendeva. Ad un certo punto - prosegue Lupo - scendo e leggo “Libia”. Ho pensato che Libia e Rebibbia fossero la stessa cosa. Ma appena ho chiesto aiuto - dice sorridendo - mi hanno suggerito di tornare indietro a Bologna. Ma che cos’è Bologna? Io non conoscevo nulla. Quindi, andai a prendere la linea B, tardando sull’orario di rientro. Le guardie penitenziarie, che ormai mi conoscevano, ridevano con me. È stata una barzelletta”. Con l’ammissione al lavoro esterno, Marcello ha ottenuto anche dei permessi. Grazie alle ore di uscita, ha potuto fermarsi nei posti dove di solito era solo di passaggio verso il ristorante: “Ho iniziato a girare, a godermi la città. Mi piace andare per musei, e Roma è piena di storia ad ogni angolo”. Il mondo lo descrive molto diverso da come lo aveva lasciato, le persone sorridono di meno perché più distratte, sono molti di più gli uomini e le donne che in strada chiedono un aiuto. Una realtà con cui sta tentando di rimettersi al passo. Lavorare è stata una tappa fondamentale: “Sono rinato. Nel mio caso, l’esito è stato più che positivo. Dalle cucine delle carceri sono passato ai ristoranti, oggi sto cercando un qualcosa di tutto mio. Nelle prossime settimane ho appuntamenti per un progetto, non mi voglio fermare. Dopo ventidue anni, desidero solo ricominciare a muovermi”. Lupo non è sposato, non ha figli, ed ha iniziato a scontare la pena che era solo un ragazzo, pieno di sogni. “Ho conosciuto ventenni già stanchi di vivere, non può essere così. Io oggi ho quasi cinquant’anni, devo rimettermi in gioco. Ho studiato letteratura in carcere, passavo le mie giornate in sala lettura. Alcuni giovani non sono stimolati da nessuno, vengono da contesti familiari difficili in cui la criminalità è vista come l’unica soluzione per avere un piatto sulla tavola. Dedicarsi a un mestiere significa crearsi un futuro, riappropriarsi della propria vita. Spero che tanti come me possano avere questa opportunità. Ora guardo alla mia rinascita, mi auguro di poter regalare un sorriso con i miei piatti di cucina mediterranea”. Bergamo. Una ciclofficina in carcere: al via il progetto promosso da Fiab di Alessandro Di Stefano rivistabc.com, 11 marzo 2024 “Il progetto è ancora agli albori, ma ha a tutti gli effetti preso il via. La Casa Circondariale ci ha assegnato uno spazio all’interno delle mura per allestire una ciclofficina e abbiamo portato i primi arredi, oltre che i materiali, necessari per dare il via ai lavori”. Così Giulia Porta, presidente di Fiab Bergamo Pedalopolis, ha descritto l’iniziativa che presto porterà all’interno del carcere di Bergamo una ciclofficina dove i detenuti avranno modo di mettersi alla prova. Nel progetto è coinvolta anche la cooperativa sociale Lottovolante. Su BC sono tante le storie di inclusione e riscatto che abbiamo raccontato partendo da una ciclofficina. Quella che sta per aprire nel carcere di Bergamo vedrà coinvolte tutte le persone che si sentiranno di cimentarsi con la manutenzione delle due ruote. Si comincerà con un corso pratico, per poi dare il via a una rimessa a nuovo dei mezzi che saranno poi venduti sul mercato. Come si legge su L’Eco di Bergamo, i mezzi che saranno sistemati nella ciclofficina del carcere di Bergamo sono il frutto di donazioni per dare una seconda vita a un mezzo altrimenti condannato alla ruggine in garage. “Ci siamo confrontati con esperienze analoghe attive in altre realtà carcerarie italiane e ci è sembrata una cosa fattibile, per quanto molto impegnativa, quindi abbiamo deciso di provarci”, ha aggiunto la presidente di Fiab Bergamo. Sempre a Bergamo nel 2023 sono stati completati i lavori in un ex casello ferroviario che ospiterà una ciclofficina, un altro progetto sostenuto anche da Fiab. Quella in apertura nel carcere di Bergamo punta a diventare un modello per la rieducazione e per facilitare il reinserimento in società di soggetti che sono passati per il carcere. Roma Rebibbia, dolci a forma di fallo ai detenuti. L'ex garante Stramaccioni: “Una ripicca dopo gli esposti” di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 11 marzo 2024 Avariato e ora anche in versione boccaccesca, il cibo fra le mura carcerarie. Nei giorni scorsi la ditta Ventura ha servito ai detenuti di Rebibbia dolcetti al cioccolato a forma di fallo. Uno sberleffo per chi li ha ricevuti e una ritorsione secondo l’ex garante dei diritti dei detenuti Gabriella Stramaccioni, che ha subito inviato una segnalazione in Procura a integrazione delle sue precedenti denunce sul vitto carcerario. Un passo indietro, allora, alla fine di febbraio. La popolazione del penitenziario aveva ordinato pasticcini al cioccolato da distribuire con i pasti ordinari (assai amari, vedremo). Nelle intenzioni avrebbe dovuto essere una piccola occasione di festa. Ma no. La fornitura, pagata in anticipo, ha lasciato tutti sbigottiti. Si trattava infatti di un’offensiva serie di dolcetti a forma di genitali maschili il cui sottotesto viene interpretato da Gabriella Stramaccioni in relazione alla lunga vicenda del vitto e sopravvitto del penitenziario. Carne scadente e cibo annacquato - In passato, infatti, molti detenuti si erano rivolti all’allora garante per sollecitare una riforma delle condizioni relative al cibo. Caffè con i fondi, carne scadente, latte annacquato, materie prime d’inconfessabile origine. Queste sarebbero le forniture della ditta che da un cinquantennio circa assicura i pasti ai detenuti. La conferma è venuta dai laboratori istituzionali dopo che i pm Gennaro Varone e Giulia Guccione hanno disposto approfondimenti in merito. Oggi la Ventura, sotto accusa per frode in pubbliche forniture, continua a fornire sia i pasti quotidiani dei detenuti che a occuparsi dello spaccio interno (in genere dai prezzi maggiorati rispetto a quelli di mercato). Lamentele ed esposti - Va da sé che le lamentele dei reclusi non hanno fatto piacere ai vertici della Ventura. In seguito agli esposti e dopo l’esplosione dell’inchiesta la ditta aveva abbassato i prezzi dei prodotti venduti allo spaccio interno e assicurato piccoli miglioramenti alla cucina di tutti i giorni. Almeno fino a poco tempo fa. Stramaccioni si dice, ora, convinta che in assenza di monitoraggio abbiano ripreso quota le vecchie abitudini: “La mancanza di controlli quotidiani riporta tutto indietro a com’era prima. Mi auguro che la Procura faccia luce su quanto sta avvenendo”. L'assegnazione a Ventura - La Ventura è collegata allo storico gruppo di Arturo Berselli, da sempre aggiudicatario del servizio di ristorazione nelle carceri regionali, vitto e spaccio (sopravvitto). Chi, per ragioni di qualità, evitava il cibo della mensa finiva per foraggiare la medesima ditta acquistando prodotti alla rivendita interna. Un pronunciamento del garante della concorrenza, all’epoca in cui i due servizi erano assegnati alla stessa Ventura, aveva evidenziato dubbi sulla legittimità del caso. In seguito era intervenuta Marta Cartabia (ministro della Giustizia in epoca Draghi) a bandire una nuova gara d’appalto sulle forniture. Parma. “Chiniamoci dinanzi agli ultimi, i poveri e gli emarginati” di Marco Maria Freddi L'Unità, 11 marzo 2024 Aggrappandosi a noi possono rialzarsi. È la visione di Pintor a cui si ispira l’associazione “La Corte dei miracoli” di Parma, per dar voce ai senza tetto e senza tutto. L’Associazione “La Corte dei Miracoli di Parma” è stata fondata tre anni fa con l’obiettivo di dare voce a una fascia di popolazione spesso dimenticata: i poveri senza rappresentanza. Queste persone sono definite “degrado urbano” e, dopo l’allontanamento dalle strade (Daspo), si ritrovano nelle carceri, sottoposte a pesanti trattamenti farmacologici fino al rilascio. Senza tetto e senza tutto, finiscono nuovamente per strada, trovando rifugio nelle stazioni ferroviarie e sotto i ponti delle città, fino al successivo Daspo. Persone senza rappresentanza, così denominate poiché il tessuto sociale ha cancellato il loro nome e la loro esistenza, sono italiani autoctoni e migranti, accomunati dalla stessa sorte di vulnerabilità e dalla lotta quotidiana per la sopravvivenza. Persone che vivono in condizioni di estrema povertà, senza fissa dimora, affette da malattie psichiatriche o dipendenze, persone dall’identità sospesa e documenti scaduti, il loro passato si dissolve nel vuoto dell’anonimato. Senza residenza né status, diventano ombre nelle nostre città dove i cittadini si stupiscono del loro vagare. L’ignoranza cittadina collettiva ritiene che siano loro stessi a scegliere di avere la strada come dimora ma vivere per strada non è normale, vedere un uomo o una donna vivere per strada dovrebbe scandalizzarci quanto vedere vivere per strada un bambino o un disabile. I servizi e il terzo settore fanno ciò che possono per far sentire bene chi è per strada ma il punto è e rimane ciò che si deve fare per non lasciarli per strada. L’Associazione “La Corte dei Miracoli di Parma” si ispira alla frase di Luigi Pintor: “Non c’è in un’intera vita cosa più importante da fare che chinarsi perché un altro, cingendoti il collo, possa rialzarsi”. Questa frase esprime il profondo significato dell’umanità che si china per aiutare chi è caduto, che si abbassa per raggiungere chi non può avvicinarsi, che si piega per dire “ti vedo, non sono indifferente”. Ispirati dalle esperienze di accoglienza e inclusione di Don Luigi di Liegro, Don Luciano Scaccaglia, Mimmo Lucano, Simone Strozzi e Don Massimo Biancalani, lavoriamo affinché la visione di Luigi Pintor possa essere condivisa anche dalle istituzioni, dallo Stato, dai Comuni e da ciascuno di noi. Siamo convinti che i veri cambiamenti nascono dall’unione e dalla marcia comune di donne e uomini che perseguono la stessa direzione. I poveri senza rappresentanza sono sempre più emarginati e additati al pubblico disprezzo. Le città militarizzate, invece di politiche di inclusione, aumentano la loro sofferenza, i poveri hanno bisogno di soluzioni che superino la logica emergenziale delle mense e dei dormitori e la nostra esperienza dimostra che è possibile riscattare dalla strada chi è privo di tutto, essere speranza e dare a loro stabilità e dignità. C’è chi ancora scommette su di loro. Chi crede che possano rialzarsi. Questa scommessa però è un’ardua sfida, la strada cancella l’identità, priva di intimità, costringe a esporre le proprie debolezze a ogni passante. C’è chi ce la fa, c’è chi trova la luce nel tunnel grazie a progetti che vanno oltre la semplice sopravvivenza. Ma sono pochi, troppo pochi e le istituzioni pubbliche e private dovrebbero agire prima che la marginalizzazione diventi irreversibile. Il 20 aprile a Parma organizzeremo un convegno per discutere della situazione dei poveri senza rappresentanza, i “dimenticati” di cui si parla solo in chiave pietistica durante le festività natalizie o in relazione alla sicurezza urbana. Vogliamo condividere la nostra esperienza e confrontarci con le istituzioni, le Regioni, i Comuni e i distretti sociosanitari per promuovere iniziative di inclusione e accoglienza per i poveri senza rappresentanza. È fondamentale integrare le soluzioni esistenti con nuove proposte, che funzionano e sono in linea con l’imperativo umanitario di uguaglianza e inclusione per tutti i cittadini, soprattutto per quelli fragili e figli della povertà. Questo approccio rispecchia i principi fondamentali che sono alla base dei valori umani universali, è una risposta volta a proteggere il benessere collettivo promuovendo simultaneamente una coesione sociale fondata sulla fiducia reciproca, dove la sicurezza possa essere percepita come tale dalla comunità. Non possiamo lasciare indietro nessuno, proprio nessuno. Varese. “Dentro” il carcere: Sandro Bonvissuto fa incontrare due mondi malpensa24.it, 11 marzo 2024 Arriva a Varese “Dentro”, libro di Sandro Bonvissuto dedicato alla realtà del carcere. Sabato 16 marzo sarà presentato alle 16 presso la Biblioteca civica di via Sacco. Seguiranno altre due date: domenica 17 marzo alle 19 al Circolo Quarto Stato di Cardano al Campo e quella ancora più significativa di lunedì 18 marzo alle 9.30 presso la Casa circondariale dei Miogni a Varese, incontro quest’ultimo riservato a detenuti e studenti. Società e rieducazione - L’iniziativa è inserita nel progetto “Un passo alla volta” promosso e gestito da Oblò Teatro e Associazione 100venti con il contributo della Fondazione Comunitaria del Varesotto. Non ci può essere rieducazione se non si coinvolge la società: questa la convinzione che muove le due associazioni, che cercano di fare la propria parte attraverso gli strumenti dell’arte come appunto libri, teatro, cinema e musica. Obiettivo dare concretezza all’articolo 27 della Costituzione, quello in cui si riconosce la funzione rieducativa della pena, mettendo in relazione chi sta dentro e chi sta fuori. E così scrittore, detenuti, studenti, operatori, liberi cittadini possono incontrarsi in carcere e fuori grazie a un libro, per mettere in relazione persone che vivono dentro e fuori il carcere, che provengono da contesti sociali e culturali differenti, da storie di vita distanti. Il libro - Il libro “Dentro” racconta l’incontro tra due mondi e la contaminazione degli ambienti, attraverso tre racconti. Al centro l’esistenza di un uomo raccontata a ritroso, dall’età adulta all’infanzia, attraverso tre momenti capitali della sua vita: l’esperienza del carcere, la nascita casuale di una grande amicizia, il giorno in cui, imparando ad andare in bicicletta, scopre all’improvviso come è fatto suo padre. Narrare l’esperienza cruda del carcere significa apprezzare con uno spirito diverso tutto ciò che odora di libertà e di vita. È l’esperienza di chi deve combattere con la variabile tempo e con una convivenza forzata. Il carcere rappresenta il muro tra ciò che sta fuori e ciò che vivono il protagonista e i suoi compagni di cella dentro. “Dentro” è il posto dove le gioie e i dolori di quando si è bambini pulsano più forti, destinati a rimanere per sempre. L’autore trascina il lettore in lunghe e appassionate riflessioni sul tempo, sullo spazio, sulla vita e sulla morte. Ritorno a Varese - Nel secondo racconto Bonvissuto affronta tematiche legate ai ricordi, all’amicizia e, soprattutto, alla formazione dell’identità personale. Narra la grande amicizia con un compagno di banco. Il sodalizio tra i due è intessuto di valori forti come la lealtà, l’attesa, la fiducia reciproca e la condivisione totale. Nel terzo racconto i grandi sono ancora una volta l’altro da sé, ciò che ancora non si è. Il bambino si trova di fronte al primo grande ostacolo della sua vita, ossia l’apprendere qualcosa che non sembra poter venire appreso per semplice osservazione e imitazione. Tappa fondamentale per la crescita del protagonista. Questi tre racconti sono tasselli fondamentali per conoscere tre momenti diversi e nodali della vita di una persona. Con un linguaggio coerente e lirico, Bonvissuto porta il lettore dentro il mondo dell’essere umano. Per l’autore, che ha 54 anni, è laureato in filosofia e fa il cameriere in una osteria romana, è un ritorno a Varese, dove ha vinto il Premio Chiara nel 2013, proprio con “Dentro”. Suor Emma e i detenuti, “in ginocchio davanti alla loro umanità” di Lucandrea Massaro romasette.it, 11 marzo 2024 L’esperienza della religiosa da molti anni volontaria nel carcere di Rebibbia. Lettere e racconti in un libro presentato nella parrocchia di San Gaspare del Bufalo. “Mi sento di inginocchiarmi davanti a loro, alla loro umanità, a certe conversioni di fede”: così suor Emma Zordan, parlando dei detenuti di Rebibbia che da ormai dieci anni visita regolarmente tutte le settimane arrivando da Latina a Roma. Negli anni ha imparato a superare i suoi pregiudizi, ma fin dall’inizio del suo servizio come volontaria nel carcere si è resa conto delle difficili condizioni di vita nel carcere e soprattutto dell’abbandono in ci vivono i detenuti. “Dobbiamo abbattere questo pregiudizio della “‘vendetta” quando parliamo di pena”, dice ancora la religiosa delle Adoratrici del Sangue di Cristo che da anni porta avanti un laboratorio di scrittura creativa con i detenuti. Un laboratorio che ha portato alla pubblicazione di diverse raccolte di lettere e racconti autobiografici, l’ultimo dei quali, “Ristretti nell’indifferenza. Testimonianze dentro e fuori il carcere” (edizioni Iacobelli) - con una prefazione del cardinale presidente della Cei Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna - è stato presentato sabato 9 marzo nella parrocchia di San Gaspare del Bufalo. Il libro è stato presentato alla presenza anche dell’ex garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Roma Capitale Gabriella Stramaccioni, moderato dal giornalista Roberto Monteforte, che a Rebibbia - insieme ai detenuti - realizza il giornale “Non tutti sanno che” sulla condizione carceraria, e introdotto dal parroco don Domenico d’Alia, dei Missionari del Preziosissimo Sangue, che ha invitato ad “ascoltare con tutto il cuore quella che è una grande opera di misericordia”. “In carcere entra la persona, non il reato, ma per molti non è così, per molti i detenuti sono solo la loro colpa”, spiega Stramaccioni, che ricorda come solo il 10% dei carcerati abbia un diploma e che quindi è la parte più debole, meno attrezzata della società, quella che finisce dietro le sbarre. “Questo libro è scritto dai detenuti e da persone che si fanno carico della questione carceraria, per fare da ponte tra il dentro e il fuori e testimoniare l’umanità che c’è dentro il carcere”, sottolinea Monteforte presentando il libro ed esortando i presenti a farsi “ponte”. “Loro sentono di portare il marchio del detenuto. Ogni sabato li incontro e mi raccontano di tutto, della loro rabbia e delle loro condizioni durissime”, dice suor Emma. Ai “ristretti” viene riconosciuto per i pasti dell’intera giornata un totale di 2 euro e 39 centesimi, tutto quello che serve in più è a carico delle famiglie con il cosiddetto “sopravvitto”, e questo chiaramente ha delle conseguenze sulla salute, sull’umore e mette in grave difficoltà sia le famiglie che il detenuto. Senza considerare quei carcerati che non possono rivolgersi alle proprie famiglie per gli aiuti. “Dobbiamo sensibilizzare tutti sulla condizione carceraria: i detenuti hanno bisogno di ascolto e attenzione”, afferma la religiosa, esortando a pregare per loro e raccontando come anche loro preghino la sera, ricordando i molti Rosari che ha distribuito nel tempo. “Quando non li vedo, quando sono lontana, mi mancano”, dice suor Emma, che ha instaurato con loro un rapporto viscerale, non senza contrasti talvolta con l’autorità carceraria. In prigione tutto è provvisorio, anche le visite di una religiosa che insegna ai detenuti a scrivere, consentendo loro di dotarsi di uno strumento per capire se stessi e per raccontarsi oltre che per raccontare agli altri la propria condizione, la propria vita, i propri errori e le proprie speranze. La lezione di Basaglia. Storia di F. e dell’impresa sociale di Massimo Cirri* Il Domani, 11 marzo 2024 Per il documentario “50 anni di Clu”, abbiamo intervistato molte persone per provare a capire, in una sintesi di cinquanta minuti, cinquanta e passa anni di questa strana macchina che si chiama impresa sociale. Che è impresa, ci mancherebbe - cioè fatturato, efficienza, mercato e capacità di starci, appalti da vincere, costi e salari - e sociale. È più difficile da capire, il valore di questa altra dimensione. Come si misura, come riusciamo a percepirlo? Perché - lo racconta spesso Umberto Galimberti - da molto tempo il sociale è caduto fuori dal nostro sguardo, e non riusciamo più a comprenderlo: “Inquietante non e? che il mondo diventi una enorme struttura economico-tecnica, ancora più inquietante e? che non siamo affatto preparati a questa radicale trasformazione del mondo. Ma la cosa più importante e? che non abbiamo un pensiero alternativo a un pensiero che sa fare solo di conto”. È Martin Heidegger, anno 1951. La scoperta dei manicomi - È uno dei filosofi che Franco Basaglia legge e studia quando tenta la carriera universitaria, a Padova, Clinica delle malattie nervose e mentali. Il barone che governa la clinica, professor Giovanni Battista Belloni, lo chiama proprio così, “il filosofo”. E non è un complimento. Capirà, Franco Basaglia, gli faranno capire, che non c'è futuro per lui in università, è troppo disallineato dai canoni della psichiatria. Così gli resta l'altra carriera, quella di serie B, il manicomio. Fa il concorso per fare il direttore di quello di Gorizia, lo vince. È il 1961 e ci entra senza mai, prima, averne visto uno. Per quella storia della psichiatria di serie A, la clinica universitaria, un po' più pulita, e quella di serie B, il manicomio, che raccoglie e tiene dentro le sue mura i colossali fallimenti delle psichiatrie. Allora, di manicomi, in Italia ce ne sono circa cento, con dentro centomila persone. Che - questo colpisce Basaglia, subito, appena ci entra la mattina del 16 novembre 1961 - non sono più persone: sono internati, cose, corpi in divise misere, residui. Sono 650 e Basaglia - che è filosofo davvero - sintetizza con un fulminante: “Qui non c'è nessuno”. La questione è come far tornare umani, un po', il più possibile umani, soggetti, quegli oggetti doloranti. Ridotti così da un apparato concreto - il manicomio, le mura, le sue regole - e da una visione, supposta disciplina scientifica, la psichiatria, che doveva curarli ma li sta solo malamente recludendo. Basaglia, da solo per alcuni mesi, poi con l'amico e collega Antonio Slavich, ci prova. Mette in moto una macchina - che è anche una visione del mondo - fatta di incontri, parole, assemblea, gente che entra nel chiuso del manicomio. Molta fatica: “Giorno dopo giorno, anno dopo anno, passo dopo passo, disperatamente trovammo la maniera di portare chi stava dentro fuori e chi stava fuori dentro”, scriverà dopo. L’alternativa - Una visione imponente: pensare un mondo senza manicomi e pensare, anche, insieme a cosa costruire al posto del manicomio per quelli di noi che sono fuori di zucca, due pensieri mai pensati prima. Un altro pezzo di questa macchina di cambiamento prende forma nel 1972 a Trieste, quando Basaglia riprende il lavoro dopo essere stato allontanato da Gorizia. Per la volontà di un giovanissimo amministratore: Michele Zanetti, democristiano. Si parte dal funzionamento dell'istituzione: il manicomio funziona anche sul lavoro degli internati. Che spalano il carbone nelle caldaie, lavano la biancheria, la distribuiscono nei reparti, cuciono le misere divise che tutti devono portare. Fanno cose. Ricevono in cambio un buono, un pezzo di metallo - il manicomio batte una sua moneta - da spendere nello spaccio interno e di cambiare. Le psichiatrie la chiamano “ergoterapia”, cura attraverso il lavoro: forse un buon intento di base, ma nella concretezza desolata delle cose è un lavoro senza paga. E allora, si è detto nelle tante assemblee che hanno preparato la nascita di questa cooperativa, se è lavoro va pagato come tale. Si chiamano diritti. Così vanno dal dottor Vladimiro Clarich, notaio in Trieste, e fondano la Cooperativa Lavoratori Uniti. Il tribunale respinge tutto: perché 16 dei 28 fondatori sono internati, non hanno diritti. Si trova un modo: la Provincia, con Michele Zanetti, vota una delibera che dice, di fatto che l'ergoterapia è una truffa a cui va posta la fine. La cooperativa si fa. Per riconoscere il valore economico di quel lavoro il suo valore sociale. Storia di F. - Adesso 50 anni e passa dopo, questo valore sociale, ce lo racconta F., che per la Cooperativa si occupa di pulizia delle strade. Dice che il suo lavoro con la spazzatrice nelle strade di Trieste è il secondo che fa per la Cooperativa. Perché ce n'è stato un altro, molti anni fa. Poi se n'è andato per via di dissapori con qualcuno che dirige: “Non sono un tipo facile, lo so, salto su facilmente, mando tutti in mona”. È tornato una decina di anni dopo. È sinceramente grato alla Cooperativa di aver potuto riavere un lavoro. “Sono cambiato, ho una figlia”. Gli chiediamo che cosa ha fatto nei dieci anni tra queste due stagioni da lavoratore in cooperativa. Risponde senza esitazione: “Mi sono molto dedicato alle rapine”. Pare indebito chiedere dettagli. Ma F., generosamente, cita le galere dove è stato ospite, il magistrato che lo ha più volte condannato - “il dottor Dainotti. Lui faceva il suo lavoro, sempre corretto, io il mio” - i servizi per le tossicodipendenze che lo hanno rimesso in contatto con la cooperativa. Il valore di quel sociale, di questa macchina che tiene la vita di F. in un meccanismo di senso e in un orizzonte di futuro, si può provare a vederlo allora, forse, per sottrazione: in qualche tabaccaio a cui viene risparmiata una brutta rapina; in qualche agente di polizia penitenziaria che non deve fronteggiare F. incazzato in cella - F. nei suoi momenti peggiori non lo si augura a nessuno - in quanto ci stiamo risparmiando, come comunità, ad avere F. che pulisce le strade invece che infrangere leggi. E quella stessa grande dedizione che F. rivolgeva alle rapine la vediamo, adesso, riversata su un marciapiede. Testimoni noi, con le telecamere di questo strano documentario sulla nascita della prima cooperativa sociale del mondo. È un trasloco, uno spostamento, un pulire. F. riparte con la sua spazzatrice, veloce e preciso. *Psicologo, saggista, coautore del film “50 anni di CLU”, autore e conduttore di Caterpillar su Rai Radio2 Nella discarica dei migranti: se a Trieste finisce l’umanità di Niccolò Zancan La Stampa, 11 marzo 2024 Al “Silos” 400 migranti vivono senza cibo tra ratti e immondizia. Afghani, pakistani, bengalesi: “Il luogo più brutto e peggiore di sempre”. “Li vedi questi?”. Li vedo, li vedo eccome. Sono buchi nella carne, sono strappi nella maglietta con la scritta New York, sono scarpe da ginnastica rosicchiate. “Big mouse, amico. Hai capito? Qui di notte è pieno di grandi topi. Io mi chiamo Ahamad Aftab, ho 35 anni, sono stato in Turchia, Bulgaria, Serbia, Ungheria, Croazia. Ma questo è il posto più brutto della mia vita, questi sono i giorni peggiori di sempre”. Piove. Piove forte. Tin tin sulle tende e sui cartoni, su questi tetti senza speranza. Piove e sotto un riparo il signor Aftab si scalda le mani al fuoco di un falò, mentre cucina ali di pollo. Il fuoco è dentro il suo cubicolo, non si respira. “Sono qui da tre mesi e dodici giorni, aspetto che la questura mi chiami per avere il foglio. Voglio vivere in Italia, voglio lavorare. Ma non mi chiamano mai”, dice un amico di Aftab in attesa della cena. E dopo la cena, spenti i fuochi, verrà il buio. Buonanotte dalla terra dei sorci. Buonanotte da Trieste. Buonanotte da questa discarica di persone, dove esseri umani vivi vengono trattati come morti. Si chiama Silos, ha ospitato gli esuli istriani durante la Seconda Guerra mondiale. Era un deposito di merci e granaglie. È diventata una costruzione in disgrazia ormai da decenni, a fianco della stazione ferroviaria. Qui la vita marcisce, mentre vengono annunciati in continuazione nuovi treni in partenza. “Bad situation, help me”, dice un ragazzo di vent’anni. “Ho fame”, dice il suo amico. Le tende sono ovunque, nello spazio di due campate. C’è la parte dei migranti pakistani, quella dei bengalesi e questa, dei ragazzi scappati da Kabul e dalle persecuzioni dei talebani. “Mi chiamo Muhammad Shaz Zeb Raz, so fare il barbiere e voglio lavorare. Io sono fortunato. Perché sono qui solo da ventitré giorni”. Trieste è la frontiera nord-est italiana, punto di passaggio per tutti i viaggiatori della rotta balcanica. Ma sta succedendo qualcosa di nuovo, qualcosa di diverso. Qualcosa che non si era mai visto in una città abituata da sempre a essere un luogo di passaggio e di incontro. Adesso al Silos si affollano persone in attesa di risposte da parte dello Stato italiano. Stanno nel pantano di fango, in conseguenza di un pantano istituzionale. “Vite abbandonate”. Così si intitola il rapporto scritto dalla rete di associazioni che si occupano dei migranti a Trieste: Ics, Linea d’Ombra, Diaconia Valdese, Comunità di San Martino al Campo, Donk, International Rescue. Quello che si scopre leggendo il report è sorprendente. A Trieste non c’è nessuna emergenza: 13 mila migranti arrivati nel 2022, sono diventati 16 mila nel 2023. L’80% di questi scelgono di abbondare immediatamente la città, dopo una sosta brevissima. La media delle domande di asilo qui è bassa: 5 al giorno d’inverno, 10 in estate. E allora, cosa ci fanno quei 415 esseri umani nel Silos (numero che risale al primo dicembre 2023)? Cosa indicano queste tende e questo abbandono? Sono tutte persone che hanno scelto di fare domanda d’asilo proprio a Trieste, ma non riescono a ottenere neppure la prima risposta, quella che gli permetterebbe l’inserimento nei percorsi di accoglienza. “No problem”, dice l’aspirante barbiere Muhammad Shaz Zeb Raz. “Io vado ogni giorno in questura. Prima o poi chiameranno il mio nome”. Intanto stanno qua. Sotto il diluvio che cola dal cemento. Ognuno con i suoi ricordi orribili. “In Ungheria mi hanno picchiato sulla testa”. “In Croazia mi hanno tolto le scarpe e mi hanno fatto tornare indietro due volte”. “Evita la Bulgaria, amico. Non ti auguro proprio di incontrare certi poliziotti della Bulgaria”. Dalle tende risuonano musiche del mondo. I topi aspettano il momento per banchettare. Il sindaco di Trieste Roberto Dipiazza ha detto frasi che hanno offeso la sensibilità di molti cittadini. Per esempio: “Anche se in mezzo ai topi, paradossalmente chi sta al Silos sta bene”. Due giorni fa ha risposto così alle domande: “Bisogna realizzare un hotspot in Friuli, lo dico da vent’anni”. E poi, ancora, rivolto ai giornalisti: “Potrei parlare di Bologna, di Milano, di Torino, non avete idea di che cosa c’è là ma si parla solo del Silos di Trieste”. Se qualcuno pensasse che i triestini siano indifferenti a tutto questo, commetterebbe un errore imperdonabile. L’iniziativa appena lanciata da alcuni pensionati ha già raccolto 3.500 firme. È un appello al presidente Mattarella: “Per superare l’immobilismo delle istituzioni”. Lì c’è scritto tutto: “Condizioni inumane, freddo, ratti”. Singoli cittadini e associazioni vengono ogni giorno al Silos per portare coperte e cibo. Ma la situazione non cambia mai. Perché? Trieste ricorda Ventimiglia. Quello che succede qui è una conseguenza di precise linee politiche. Non ci sono altre spiegazioni. Ne è convinto Gianfranco Schiavone, il presidente di Ics, il Consorzio di solidarietà: “La chiave di lettura della questione Silos non si trova, o non prevalentemente, nella crisi del sistema di accoglienza italiano, ma in una strategia più perversa con due finalità. La prima è abbandonare per lungo tempo i richiedenti asilo per spingere il maggior numero di loro ad andarsene altrove. La seconda è diffondere la falsa immagine di un’invasione di migranti dalla rotta balcanica, per spingere l’opinione pubblica a pensare che se centinaia di persone affondano nel fango del Silos ciò non è dovuto a inqualificabili inadempienze istituzionali, bensì al fatto che ci sono troppi ingressi. Ma è falso. Lo dicono i numeri. Quindi tenere il Silos in questa situazione risponde a obiettivi politici ben chiari, che non si possono dichiarare perché sono tanto illegali quanto moralmente spregevoli”. Ecco cosa son questi topi fra le caviglie dei ragazzi afghani, ecco spiegati questi cumuli di rifiuti. Sono una scelta. “No problem, amico. Noi aspettiamo. Vuoi assaggiare un pezzo di pollo? Papa Francesco ha ragione, Kiev ha (quasi) perso: ma la vittoria non è l'unica strada della pace di Domenico Quirico La Stampa, 11 marzo 2024 Per due anni siamo stati convinti che Putin non avrebbe mai prevalso sul “Bene”, cioè noi occidentali ma è l’esaurimento degli uomini sul campo di battaglia a decidere il conflitto, e Kiev è quasi alla fine. Vorrei dire: finalmente! Recidere con le parole il giusto e l’ingiusto, il razionale e il folle. Solo il Papa poteva avere il coraggio di far questo. Parole dette scritte mandate alte, che diventano sfida esempio tentazione al contrario. Osare l’impronunciabile per gli usi della bizantina ipocrisia: ovvero dire arrendersi, alzare bandiera bianca, trattare. Questo è la virtù profetica, lo Scandalo sacro della verità. Per due anni abbiamo ascoltato senza fare quasi domande, prendendo atto, per immersione, magari per abitudine, restando in maggioranza inerti, superficiali, racchiusi dal giro intricato delle cose. Il conflitto straziava nel lungo, i morti fissavano il cielo rigato di missili sonanti. Sulla guerra in Ucraina abbiamo vissuto sotto il dominio soffocante di una cosmogonia omogenea. Putin, la Russia, aggressori arroganti, saranno puniti, non hanno con la loro potenza di cartapesta alcuna possibilità di prevalere sul Bene, cioè su di noi. Gli eroici ucraini e le nostre armi e i nostri soldi sconfiggeranno il Male. Nessuno metteva in dubbio, tutti hanno interiorizzato. Siamo stati convinti con la intensa soddisfazione di vivere in diretta l’avvenimento grandioso della Guerra Giusta: e inevitabilmente vittoriosa. Il cretinismo infinitesimale di singoli eventi orribili: le carcasse dei carri, le trincee divelte, le sviscerate tumefazioni delle città, ecco servito il paradigma del tutto è cronaca. Ha banalizzato l’orrore, consentendoci come spettatori di autoescluderci e di pensare di poter usufruire di un rifugio perpetuo. Il nostro fare nulla, l’accontentarci della sicurezza della vittoria che ci veniva garantita da color che sanno, politicanti, economisti, generali, esperti, intellettuali rendeva la impotenza e la indifferenza felici, legittime e rassicuranti. Mese dopo mese tutte le possibilità intermedie sono state, una dopo l’altra, eliminate, smascherate come inganno, abdicazione all’avversario. Dalle due parti, Kiev e Mosca, con un progetto metodico, è stata lasciata soltanto una possibilità: la propria vittoria totale. Con un ribaltamento che spesso avviene nelle guerre, la politica, russa, ucraina, occidentale, si è ridotta miseramente a continuazione della guerra con altri mezzi, uno schermo per dimostrare la necessità del massacro temperato dalla certezza che alla fine avremmo vinto noi. Anche le grida domenicali, appassionate, del Papa, in fondo, sono state ridotte a una parte di questo disegno di illusione, invocare la pace era null’altro che rinviare a qualcosa di utopico e impossibile: perché la pace doveva essere ovviamente giusta, perfetta, riparatrice per le vittime e punitiva per i colpevoli. Perfino il pacifismo dei virtuosi, degli uomini di buona volontà (non molti per la verità) è stato immiserito a rito accomodante, gratificazione delle coscienze singole, fuga nella buona azione del fine settimana: manifestate, manifestate che tanto poi... La vittoria era l’unica soluzione per avere la pace, inseguita descritta vaticinata in modo inevitabile dalle cancellerie e dai vertici dell’Alleanza via via che il campo di battaglia la dimostrava sempre più remota, irraggiungibile, mostruosamente costosa per chi la combatteva al fronte. I registi della guerra a Mosca e a Kiev e in Occidente hanno a poco a poco dimenticato i morti, feriti, i mutilati delle trincee, gli uomini che muoiono dopo un’ora o un anno, la vita per un istante sotto l’impeto della mitraglia... Poi subito afflosciata, affondata a picco come una pietra. Si sono impadroniti della morte, i guerrafondai in mimetica o doppiopetto, le fanno la guardia come mastini: questi sono i Nostri Morti quelli sacri giusti gloriosi, i loro morti sono criminali e maledetti. E mentre chi li ha amati entra nell’inesplorato bosco del dolore, gli alti comandi, gli encomiatori da lapide, i cappellani del massacro, estranei e compatti, affidavano ai proclami il loro rancore di superstiti: saremo noi i buoni perché vinceremo! Occorreva che qualcuno prendesse la parola per i morti, per quelli già spazzati via e per quelli che verranno... Ancora un paio di anni e vinceremo! Un niente! Bisognava che qualcuno dicesse quello che i politici e i generali non hanno il coraggio di dire: che è l’esaurimento degli uomini nelle trincee e negli assalti e non delle munizioni o dei droni a decidere la vittoria e la sconfitta. In questa matematica inumana la Russia è in vantaggio, vincerà. Mentre Putin continuerà a attingere al suo immenso materiale di vite sacrificabili, largheggiando senza rimorsi, come è nello stile, sotto qualsiasi segno ed epoca, di un dispotismo abituato alla cieca obbedienza, Kiev è quasi alla fine, una generazione è stata spazzata via o ha cercato la salvezza fuggendo. Alcuni generali hanno cercato di dirlo a Zelenzky ma sono stati licenziati o allontanati: perché Zelenzky come Putin è ormai prigioniero della logica della vittoria totale che gli abbiamo garantito. Solo il Papa poteva spezzare il tabù, solo lui ne ha la forza morale. Usando parole sconfitta, negoziare, bandiera bianca che costerebbero l’accusa di tradimento, di collaborazionismo con il nemico. Ma questa è la Chiesa, quando sa lasciare agli altri i distinguo, i silenzi, il non detto, le formule felpate, le maledizioni sul nemico sempre Assoluto. La macchia bianca del Papa è una insegna, una biografia, un memento. È muta di colore, biancheggia sempre di più, perché il suo messaggio spezza il tempo. Esemplifica, aspetta al varco la responsabilità di ognuno, ripropone. Al contrario dei politicanti batte e ribatte sulle chiusure umane, giustizia i diaframmi che impediscono l’ascolto, non accetta riposo, è portatore di difficili e rivoluzionarie meraviglie. Ci impone di non insabbiarci nei dubbi, strazi, interessi di uomini e di sistemi, in una terra dove per vincere dovremo scendere in campo direttamente, disseminata di silos in cui dormono mostri a testate multiple, meraviglie della demenza che possono vetrificare il pianeta, e in fondo agli oceani scivolano, silenziosi e ciechi, sottomarini con missili ciascuno dei quali può annientare centinaia di migliaia di esseri umani: allora torna il conto dopo due anni, o è follia? Medio Oriente. Gerusalemme, l’arma delle ruspe di Francesca Mannocchi La Stampa, 11 marzo 2024 Aumentano le demolizioni delle case dei palestinesi a Gerusalemme Est. Quella di Abu Diab era lì dal ’67: non ha potuto neanche raccogliere le foto. “Sono illegali”, dice Israele. Ma i coloni da tempo pianificano l’espansione. Fakhri Abu Diab è un uomo rispettato da tutti, ha sessantadue anni e da trenta è il portavoce della comunità di Silwan, lotta contro l’occupazione, contro l’espansione degli insediamenti, contro la distruzione delle case dei palestinesi. Meno di un mese fa, lui e sua moglie erano in camera come ogni mattina. Sono stati svegliati dai rumori dei mezzi militari israeliani che circondavano l’area della loro abitazione a Silwan, Gerusalemme Est. Prima hanno chiuso la zona, poi l’hanno circondata e hanno fatto irruzione in casa, hanno detto loro di raccogliere poche cose, poi li hanno aggrediti, cacciato l’uomo a calci fuori dalla porta, perché di lì a poco sarebbe iniziata la demolizione della loro casa. Abu Diab ha avuto tempo di accertarsi che i suoi figli, ai piani superiori stessero bene, che i bulldozer avevano già cominciato a buttare giù tutto. Non ha fatto in tempo a portare via quasi niente. Oggi cammina sui detriti di quella che un tempo era la sua dimora mostrando ciò che alla demolizione ha resistito: le piante sui mattoni all’esterno del bagno, e una pentola coperta di cenere in cui sua moglie avrebbe preparato il pranzo quel giorno. Le pareti della cucina sono le uniche ad aver resistito. Era abituato a essere presente alle demolizioni, ad aiutare ogni palestinese che si ritrovava senza casa. Da un mese non è più solo la loro voce, è senza casa anche lui. L’aumento delle demolizioni - L’ordine di buttare giù la casa di Abu Diab era pendente da quindici anni, per le autorità israeliane non aveva regolari permessi. Casa sua è stata costruita prima del 1967, anno in cui Israele conquistò Gerusalemme Est nella Guerra dei Sei Giorni: “Era stata costruita prima dell’occupazione, era più antica dell’occupazione”. Negli anni aveva chiesto di ampliarla, perché i suoi figli crescevano, si sposavano e la famiglia si allargava. Ma gli è sempre stato negato, come alla maggioranza dei palestinesi. Per questo, costruiscono “illegalmente”, secondo l’interpretazione di Israele, che però, occupa la parte orientale della città secondo il diritto internazionale: “I palestinesi chiedono i permessi e vengono tutti rigettati, mentre i coloni li ottengono in pochi giorni”. Mostra, al di là del cancello un nuovo edificio a sei piani, Uneton Horse, abitato dai coloni. Cento metri più in là, la casa abbattuta dei suoi conoscenti. “Erano anni che chiedevano la regolarizzazione, non l’hanno ottenuta ed è stata demolita. Nel 2022, abbiamo presentato più di 10 mila domande di autorizzazione alla Municipalità. Il 97% è stato respinto”. L’aumento delle demolizioni a Gerusalemme Est coincide con l’espansione degli insediamenti israeliani, anche qui a Silwan, quartiere in cui vivono circa 60 mila palestinesi, particolarmente ambito dai coloni che, secondo la legge israeliana, se in grado di dimostrare che le loro famiglie vivevano a Gerusalemme Est prima della fondazione dello Stato di Israele nel 1948, possono richiedere la restituzione delle loro proprietà, anche se le famiglie palestinesi abitano lì da decenni. Alcune organizzazioni dell’estrema destra sionista che sostengono i coloni stanno anche portando avanti a Silwan un progetto per costruire strutture archeologiche, turistico-religiose. Due giorni fa, l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Volker Turk, ha detto che la violenza dei coloni rischia di minare ogni possibilità di creare uno Stato palestinese: “Le violazioni legate agli insediamenti hanno raggiunto dei livelli scioccanti, e rischiano di eliminare ogni possibilità pratica di creare uno stato palestinese”. La dichiarazione accompagnava un rapporto di 16 pagine sulla crescita delle unità abitative illegali israeliane basato sul monitoraggio delle Nazioni Unite e ha documentato 24.300 nuove unità abitative israeliane nella Cisgiordania occupata durante un periodo di un anno fino alla fine di ottobre, il numero più alto dall’inizio del monitoraggio nel 2017. Secondo lo studio, le politiche del governo israeliano “sembrano allineate, in misura senza precedenti, con gli obiettivi del movimento dei coloni di espandere il controllo a lungo termine sulla Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est, e di integrare stabilmente questo territorio occupato nello Stato d’Israele”. Dal 7 ottobre, secondo un rapporto preparato da due organizzazioni no-profit israeliane, Ir Amim e Bimkom Planners for Planning Rights, i comitati di pianificazione hanno avanzato 17 piani generali che coinvolgono 8.434 unità abitative per ebrei nelle aree di Gerusalemme oltre il confine del 1967. Circa tremila sono in fase avanzata di costruzione e hanno beneficiato di approvazioni eccezionalmente rapide da parte delle autorità urbanistiche. “Vogliono che ce ne andiamo - dice Abu Diab - e ora che l’attenzione è tutta sulla guerra a Gaza, si servono di questo momento per mandarci via. Noi andiamo via, i coloni si allargano e cambia la demografia di questa città. L’obiettivo è chiaro: vogliono spingerci fuori Gerusalemme una volta per tutte”. Il ministro della Sicurezza nazionale di estrema destra, Itamar Ben-Gvir, aveva annunciato una politica intensificata di demolizioni a Gerusalmme all’inizio del 2023. I funzionari municipali avevano confermato ad Haaretz che Ben-Gvir esercitava pressioni sulla città per aumentare il ritmo, ma per gran parte dello scorso anno il numero era rimasto sostanzialmente lo stesso degli anni precedenti. Poi dopo il 7 ottobre le cose sono cambiate. Abu Diab ricorda che durante le precedenti guerre a Gaza, le autorità evitavano le demolizioni lì per allentare le tensioni, stavolta invece “la guerra contro le nostre case si muove parallelamente a quella di Gaza”. Da ottobre, secondo Haaretz, la Municipalità di Gerusalemme ha accelerato il ritmo delle demolizioni a Gerusalemme Est, con un aumento del 60% rispetto all’anno precedente. Si è passati cioè da circa dieci demolizioni al mese a 17. Abu Diab pensa che le ragioni siano due, la prima è andare avanti con i progetti di ampliamento degli insediamenti già pianificati per la zona di Silwan, la seconda è colpire lui in quanto rappresentante dell’intera comunità. Pochi giorni prima della demolizione aveva incontrato diplomatici, i funzionari delle Nazioni Unite, le Organizzazioni in difesa dei diritti umani:”Hanno distrutto casa mia per mandare un messaggio a tutti, e dire che nessuno, nemmeno le persone esposte e rispettate come me, possono stare tranquille”. All’ultimo incontro pubblico a cui aveva partecipato erano presenti anche i funzionari del consolato statunitense. La condanna degli Stati Uniti - “È stato un leader schietto dell’intera comunità contro la demolizioni, e ora la sua è una famiglia di sfollati”, così, a poche ore dalla distruzione di casa di Abu Diab, il portavoce del Dipartimento di Stato, Matthew Miller, ha condannato le demolizioni, incoraggiando Israele a non prendere di mira altre abitazioni, perché “questi atti ostacolano gli sforzi volti a promuovere la pace e la sicurezza duratura che andrebbe a vantaggio non solo dei palestinesi, ma anche degli israeliani”, ha detto di fronte ai giornalisti. “Sono azioni che danneggiano la posizione di Israele nel mondo e, in definitiva, rendono più difficile per noi realizzare tutte ciò che stiamo cercando di realizzare e che andrebbe nell’interesse del popolo israeliano”. Abu Diab, che non perde mai il controllo delle sue emozioni, né il sorriso pacato che lo accompagna, non dimentica che durante il loro incontro, i membri del consolato americano a Gerusalemme gli avevano detto: “Fakhri, sei troppo rispettato, vedrai che casa tua non verrà mai distrutta”. Perciò oggi, dopo averli ringraziati per le parole di solidarietà, si chiede perché nemmeno il principale alleato riesca a fare pressioni sul governo israeliano. Abu Diab dice che le ruspe non hanno demolito solo la casa, ma i suoi ricordi, la sua infanzia e quella dei suoi figli. In camera c’era una foto di sua madre con lui bambino, che non ha avuto tempo di portare via - dice - e niente potrà risarcirlo per questo. La prima volta che è tornato tra le macerie in quella che era casa, ha costruito un recinto per gli uccelli e i polli che erano rimasti nel cortile. È una tradizione che gli aveva trasmesso sua madre e che lui aveva trasmesso ai suoi figli, seduti come lui, intorno a un tavolo di plastica, a guardare le mura che non sono più tali. Abu Diab non smette di credere al dialogo. Non vuole odiare nessuno, non l’ha mai fatto. Con la distruzione di casa sua ha perso il profumo di sua madre, le memorie della sua giovinezza, dell’infanzia dei suoi figli. “Mentre parlo il flusso di ricordi duri mi attraversa la mente, è tutto sepolto. Demolire una casa non è solo demolire muri, la terra, i tetti. Hanno demolito il nostro futuro insieme al nostro passato”. Carro attrezzi, carcere e frustate: così le autorità in Iran applicano le norme sul velo di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 11 marzo 2024 Le autorità iraniane stanno ricorrendo a nuove tattiche per stroncare la resistenza alla norma che impone d’indossare il velo in luoghi pubblici. Oltre al carcere, alle multe, alle frustate e all’obbligo di frequentare corsi di formazione sulla “moralità”, da un anno a questa parte l’agente repressivo più impiegato è il carro-attrezzi. A partire dall’aprile 2023, secondo quanto emerso da annunci ufficiali, la Polizia morale ha ordinato il sequestro di centinaia di migliaia di automobili con donne alla guida o passeggere anche di soli nove anni di età che non indossavano il velo o che indossavano veli “inappropriati”. I sequestri vengono eseguiti sulla base di immagini riprese dalle telecamere di sorveglianza o da verbali redatti da agenti in borghese che pattugliano le strade. La polizia ha a disposizione una app, chiamata Nazer, su cui vengono caricate le targhe dei veicoli. Le donne prese di mira e i loro parenti ricevono messaggi scritti o telefonici coi quali viene loro ordinato di recarsi a una sede della Polizia morale per consegnare l’automobile. Amnesty International ha esaminato 60 screenshot di tali messaggi, inviati nell’ultimo anno a 22 donne e uomini. Sempre più frequenti, poi, sono i controlli apparentemente casuali eseguiti lungo strade trafficate per individuare donne alla guida prive di velo. Gli agenti obbligano le donne a scendere e fanno una scansione della loro patente per l’app Nazer, marcandola per il sequestro. Amnesty International ha parlato con 11 donne che hanno descritto di essere state fermate mentre erano alla guida per recarsi a svolgere attività quotidiane: scuola, lavoro, visite mediche. Hanno sottolineato il completo disprezzo degli agenti di polizia nei loro confronti: alcune donne sono state lasciate ai bordi di strade ad alto scorrimento o in luoghi molto lontani dalle loro abitazioni. Durante le procedure assai lunghe per tornare in possesso delle automobili, le donne sono sottoposte a trattamenti degradanti, tra offese sessiste, rimproveri, istruzioni umilianti su come coprire i capelli e minacce di frustate, condanne al carcere e divieti di viaggio. In molti casi i dirigenti della Polizia morale ordinano la restituzione dell’automobile dopo 15-30 giorni, previo pagamento del costo del parcheggio nel deposito e del carro-attrezzi e a seguito della firma di un documento, da parte della donna interessata o dei loro parenti maschi, in cui ci s’impegna a rispettare le norme sull’obbligo d’indossare il velo. In caso di ripetuti rapporti sul mancato rispetto dell’obbligo d’indossare il velo alla guida, la Polizia morale informa le autorità giudiziarie e rinvia la consegna dell’automobile a dopo la pronuncia di un giudice. Le donne intervistate da Amnesty International hanno denunciato che l’accesso ai trasporti pubblici, agli aeroporti e ai servizi bancari è regolarmente negato a chi è senza velo. I controlli vengono svolti tra offese sessiste e minacce d’incriminazione. Sono almeno 16 le donne, una delle quali minorenne, processate in sette diverse province iraniane perché non avevano indossato il velo o avevano indossato veli “inappropriati”, come ad esempio dei cappelli, mentre erano a bordo delle loro automobili o si trovavano in luoghi pubblici quali centri commerciali, teatri, aeroporti e stazioni della metropolitana o per aver pubblicato sulle loro piattaforme social foto in cui erano prive di velo. Quanti siano in realtà i procedimenti giudiziari è difficile accertarlo, in quanto le autorità non pubblicano dati ufficiali. Tuttavia, una nota emessa nel gennaio 2024 dal capo della polizia della provincia di Qom, Mohammad Reza Mirheidary, fa riferimento a 1986 casi dal marzo 2023. Una donna ha raccontato ad Amnesty International che un giudice le ha indicato una pila di 30-40 fascicoli sulla sua scrivania, tutti relativi a casi sull’obbligo d’indossare il velo. Numerose altre donne hanno riferito che i funzionari di polizia e i magistrati si lamentano del carico di lavoro derivante dal loro rifiuto d’indossare il velo. A quattro donne è stato ordinato di partecipare a fino a cinque corsi di formazione sulla “moralità” e di evitare di tenere condotte “criminali” per un anno affinché le indagini sui loro casi venissero archiviate. Una di loro ha raccontato ad Amnesty International che uno dei formatori se l’è presa con le 40 iscritte al suo corso, lamentando l’alta percentuale di donne divorziate e rimproverandole perché apparivano “svestite”. Nel gennaio 2024 una donna di nome Roya Heshmati è stata sottoposta a 74 frustate per essere apparsa senza velo in pubblico. Sul suo account social, ha raccontato che è stata frustata da un funzionario, alla presenza del giudice, in una stanza che ha descritto come “una camera di tortura medievale”. Quest’anno potrebbe andare anche peggio. Il parlamento si appresta ad approvare una proposta di legge che codificherà e intensificherà ulteriormente gli attacchi alle donne e alle ragazze che sfidano l’obbligo d’indossare il velo. Un mese fa il presidente Ebrahim Raisi ha formalmente approvato l’ingente previsione di spesa per l’attuazione della proposta di legge, in modo che il Consiglio dei guardiani possa tradurla in legge. *Portavoce di Amnesty International Italia