Se il processo diventa vendetta, la irresistibile tirannia del dolore: l’informazione è fuori controllo di Gian Domenico Caiazza Il Dubbio, 10 marzo 2024 La cultura democratica occidentale ci ha fatto crescere nella ferma convinzione che il processo penale non è strumento e luogo della vendetta sociale contro il crimine, ma strumento e luogo dell’accertamento rigoroso del fatto, di verifica della ipotizzata responsabilità di un imputato che occorre presumere innocente. Ce lo insegnavano a scuola e nelle università, ma con ben maggiore efficacia in quei film western che rappresentavano sempre con biasimo la folla inferocita che improvvisava forche e vi appendeva colpevoli giudicati tali dal sommario furore popolare a sostegno delle vittime, o presunte tali. Le cose, purtroppo, vanno cambiando assai rapidamente da alcuni lustri a questa parte, in particolar modo in Italia, ed è una eccellenza della quale avremmo fatto ben volentieri a meno. La forza empatica della vittima, la irresistibile potenza del dolore di chi ha subito - o afferma di aver subito- la violenza di un crimine, si fa travolgente in una comunicazione mediatica assetata di emozioni, e fra queste la più facilmente infiammabile: l’indignazione. Per logico contrasto, chi osa opporre a quello tsunami la presunzione di innocenza viene irriso già solo dalla evidente, sproporzionata debolezza della sua querula invocazione; ed anzi finisce per assumere le vesti spregevoli di chi è cinicamente indifferente al dolore della vittima, e dunque complice dell’imputato, già presunto reo. Inutile il richiamo, prima ancora che ai sacri principi, al semplice buon senso; il quale basterebbe da solo a far comprendere come l’accertamento innanzitutto di chi sia la vittima, e poi se sia proprio l’imputato (o chi altri invece) ad averla resa vittima di un crimine, è il presupposto fondativo del processo penale. Dunque, porre vittima ed imputato sullo stesso piano processuale, cosa che una dissennata idea di trasversale segno populista ambisce ora addirittura ad affermare con modifica costituzionale, dà la misura dello scempio che in questo Paese si è giunti a fare del sacro ma sempre più irriso principio di presunzione di innocenza. Non c’è più cronaca giudiziaria che non ponga al centro del racconto la sete di giustizia della vittima, e -all’esito del giudizio- la misura della sua soddisfazione. Che ovviamente è quasi sempre delusa, perché chi porta nel cuore il dolore per la perdita di una persona cara, o il dolore per l’ingiuria che essa ha dovuto sopportare, non può che accontentarsi di una condanna, per di più alla pena massima. È ormai quotidiana la cronaca di parti offese o loro familiari che gridano all’ingiustizia, berciando e minacciando giudici ed avvocati, non solo se si assolve, ma anche se si condannano magari solo alcuni degli imputati, e non al massimo della pena. La irresponsabilità di quella proposta di modifica costituzionale, la sua conformistica e vile corrività, e soprattutto la sua sgrammaticata sintassi populista ed illiberale, mette i brividi. Di questo vogliamo oggi parlare, con autorevolissimi contributi di pensiero, in questo numero di PQM: il nostro piccolo, accorato, allarmato contributo di idee e di riflessione perché si comprenda fino in fondo la portata letteralmente eversiva che si annida in una proposta di modifica costituzionale alimentata dalla sete inestinguibile del sentimento di “indignazione” che traina, a suon di like e di ascolti, una informazione (ed una politica) ormai fuori controllo. La Giustizia ora smantelli il sistema di potere che inquina il Paese di Luca Palamara Il Giornale, 10 marzo 2024 Le notizie che tutti i giorni affollano le pagine dei quotidiani nazionali ed i talk show descrivono una crisi della giustizia e del mondo dell’informazione che impone una serie di riflessioni. Basterebbe, infatti, ripercorrere anche solo sommariamente gli eventi degli ultimi quindici anni per acquisire la consapevolezza sull’esistenza di un assetto di potere che, violando costantemente i più elementari e preziosi diritti delle persone, si muove come un polipo per sbarrare la strada al rinnovamento e per riportare presso di sé il potere in caso di temporanea perdita. I casi di Berlusconi, Renzi, Salvini, solo per citarne alcuni, rappresentano la cartina di tornasole dell’esistenza di questo assetto di potere e spalancano le porte, o meglio avrebbero dovuto spalancare le porte, ad un’indagine seria ed efficace sui mandanti e sulle modalità attraverso le quali carriere politiche e assetti governativi legittimamente insediatisi a seguito del voto popolare siano stati indeboliti e in qualche caso completamente annientati. Ma il discorso, di per sé già grave, non è rimasto confinato solamente nell’ambito della contesa politica poiché ha riguardato anche il mondo della magistratura e delle forze dell’ordine. Nel 2019 il ribaltone della maggioranza al CSM, verificatosi come conseguenza della aggressione mediatica, costante e agguerrita, da parte della stampa di riferimento giovatasi di fughe di notizie i cui responsabili non sono stati mai identificati, rappresentano la parte più torbida e preoccupante delle vicende al centro dell’attenzione delle istituzioni. Ed è stato così che in poco tempo l’assetto di potere sconfitto nelle urne dei magistrati si è riappropriato del CSM ed ha collocato i suoi Procuratori negli uffici più importanti d’Italia. Tutto questo ha fatto breccia sulla parte più moderata della magistratura che da un lato ha preferito rimanere silente e dall’altro si è dimostrata incapace di leggere le carte processuali e di formarsi un convincimento autonomo, non condizionato dalla stampa e dalla versione offerta e ribadita, con gravi e reiterati strappi allo Stato di diritto, dall’assetto di potere che l’ha creata e diffusa. Quella parte della magistratura, infatti, è stata abilmente indirizzata ad accanirsi sulle chat private, confidenziali e spesso anche provocatorie ed assolutamente irrilevanti estratti dal telefono di chi scrive ed in possesso della stampa, addirittura anche dell’attuale portavoce della Schlein, per colpire gran parte di loro colleghi colpevoli di aver seguito pratiche consolidate e accettate da tempo memorabile. Sono passate così sotto silenzio anche le gravi aggressioni a magistrati estranei alle pratiche ed ai fatti che tanto clamore scalpore avevano generato, colpiti da manipolazioni investigative denunciate da più parti. Lo Stato non può agire forzando e violando le regole di diritto, non può interpretarle secondo convenienza ed opportunità, non può calpestare i diritti delle persone e non può di certo perseverare nell’occultare mandanti esecutori di una strategia spietata e spregiudicata, spesso anche in parte solo vendicativa, messa in atto per finalità diverse da quelle istituzionali. Se si tradiscono le regole, se anche le istituzioni di garanzia vengono anche solo sospettate di agire sotto la pressione di altre, lo Stato diritto diventa solo una chimera ed il Paese sempre più una giungla dove ciascuno opererà solo per conservare le posizioni di potere acquisita. Insomma, questo è il vero banco di prova dell’adeguatezza della magistratura a fare giustizia e della capacità degli organi di garanzia di liberarsi di quell’assetto di potere che sempre più danneggia il Paese e che agisce con la stessa forza di un cancro pervadendo gli apparati e inquinando le scelte politiche. “Nelle carceri rumene condizioni disumane”: no all’estradizione di Andrea Cittadini Giornale di Brescia, 10 marzo 2024 La Cassazione annulla decisione della Corte d’appello di Brescia su un 37enne condannato. Per anni è stato il leitmotiv della destra italiana e della Lega in tema di sicurezza. “Far scontare nel paese di origine la condanna incassata da stranieri presenti sul territorio italiano”. Per quanto riguarda la Romania, la Cassazione scrive: “C’è il pericolo concreto di sottoposizione in carcere a trattamenti inumani e degradanti”. Per questo gli Ermellini hanno stoppato la consegna alla giustizia rumena di un condannato che avrebbe dovuto scontare la pena all’ombra dei Carpazi. La Corte d’appello di Brescia aveva detto sì all’estradizione, ma il procuratore generale bresciano e lo stesso coinvolto attraverso il suo legale hanno impugnato la sentenza, e ora i giudici dovranno riesaminare il caso. È la storia di un 37enne, raggiunto da mandato di arresto europeo per l’esecuzione della pena di quattro anni di reclusione per due condanne incassate per associazione a delinquere finalizzata allo spaccio di droga e alla clonazione di carte di credito. Era destinato al carcere di Bacau, in uno dei penitenziari segnalati come pericoloso per i detenuti, “nonostante taluni miglioramenti registratisi dopo i pronunciamenti della Corte di Strasburgo e il conseguente piano di azione del Governo della Romania”. La sentenza della Corte di Cassazione - Su queste basi la Cassazione ha annullato la sentenza della Corte bresciana rimandando gli atti in appello, chiedendo di formulare una richiesta di informazioni integrative in merito al trattamento penitenziario e alle condizioni delle carceri rumene e “assicurare, nel quadro dei rapporti tra Stati membri, che il consegnando non sia esposto a pericolo in ragione degli spazi disponibili all’interno delle celle, dalle condizioni igienico-sanitarie degli istituti o dell’esclusione di altre criticità concretamente manifestatesi nel tempo”. Dovrà essere valutata la disponibilità di altre strutture conformi alle indicazioni della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. “È necessario - precisano i giudici - verificare che la persona ristretta sia detenuta in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana e che sia scongiurato il rischio di sottoposizione ad uno stress eccedente il livello di sofferenza inerente alla detenzione”. Modena. Torture in carcere, sit-in davanti al Sant’Anna per dire no all’archiviazione tvqui.it, 10 marzo 2024 Famiglie ancora una volta riunite davanti ai cancelli del Sant’Anna per ricordare a distanza di quattro anni i terribili fatti dell’8 marzo 2020, ma soprattutto per tenere alta l’attenzione sulla possibile l’archiviazione per i reati di tortura. 8 marzo 2020, un giorno drammatico per Modena. Un fumo nero che si levava al di sopra della Casa Circondariale Sant’Anna riuscì, quel giorno di quattro anni fa, ad attirare l’attenzione dell’Italia intera. Fu una rivolta terribile. Nove detenuti persero la vita in quell’occasione e tante famiglie, da allora, da quattro anni, non si danno pace. Uno slogan diventa la loro voce: “La verità non si archivia”. Una verità diversa da quella processuale, sulle morti, già scritta. Per questo, ancora una volta si sono trovati lì, davanti ai cancelli del carcere. Per ricordare un tragico anniversario, uno di quelli che non si vorrebbero mai festeggiare. Ma, soprattutto, per tenere alta l’attenzione sulla possibile archiviazione per reati di tortura. Stabilire cosa sia realmente accaduto in quelle ore dolorose non è certamente cosa semplice. Una vicenda tanto complessa quanto delicata, che merita quelle che i parenti definiscono “indagine vere”. Così come verità debba essere fatta, necessariamente, sulle morti in carcere che avvengono tutt’ora. Perché purtroppo il problema - dicono - non si è fermato a quell’8 marzo 2020. Torino. Partito Radicale, “un fiore per le donne” in carcere iltorinese.it, 10 marzo 2024 Venerdì mattina una delegazione del Partito Radicale, composta da Mario Barbaro (componente di Segreteria del Partito Radicale), Claudio Desirò (Segretario di Italia Liberale Popolare) e Maria Anna Ferrara, ha visitato la sezione femminile del carcere delle Vallette. Tale iniziativa si è inserita nel quadro delle iniziative “Un fiore per le donne” che il Partito Radicale ha organizzato per far visita alle detenute negli istituti penitenziari femminili in diverse città italiane l’8 marzo e il 9 marzo. Nella sezione femminile permane una situazione di sovraffollamento (116 detenute a fronte di una capienza regolamentare di 85), che ricade in un contesto ulteriormente problematico a causa della carenza di organico che si registra sia tra le fila del corpo di Polizia Penitenziaria che tra il personale civile, impiegato nei percorsi socioassistenziali e di recupero. Ulteriori problematiche si riscontrano in particolare con la gestione delle detenute con patologie psichiatriche che, pur essendo guardate a vista dal personale di polizia, non hanno un presidio medico fisso, come invece c’è invece alle sezioni maschili, in grado di intervenire celermente alle prime avvisaglie di disagi. Un grave problema, sia di gestione per il personale, che per la difficile convivenza con le altre detenute. Inoltre, la carenza di educatori e le ridotte possibilità di percorsi lavorativi e rieducativi esterni rendono molto difficile il reinserimento delle detenute a fine pena. Alla sezione per detenute Madri (Icam) con bambini è unicamente presente solo personale di polizia Penitenziaria. Grave il problema delle tossicodipendenze: viene infatti riferito un supporto medico non adeguato alle necessità con il personale di Polizia Penitenziaria che, di fatto, cerca di sopperire alle mancanze senza aver le giuste competenze mediche. Dichiarazione di Claudio Desirò (Segretario di Italia Liberale Popolare): “il problema carceri è un problema che colpisce l’intera comunità e restituire lo stato di diritto a chi in carcere passa parte della propria vita o presta il proprio servizio è un problema di Democrazia”. Dichiarazione di Mario Barbaro (membro della Segreteria del Partito Radicale): “Il Partito Radicale in occasione dell’8 marzo si è recato nelle sezioni femminili delle carceri che vivono l’esperienza della detenzione anche con i bambini. Siamo convinti ci sia necessità di riforme profonde per far vivere il dettato della Costituzione e lo stato di diritto. Non è solo un problema italiano o dei paesi autoritari ma andrebbe affrontato anche a livello europeo. Per questo vogliamo lavorare perché si arrivi ad una carta penitenziaria europea”. Castrovillari (Cs). La sezione femminile del carcere “Irrispettosa della dignità” ecodellojonio.it, 10 marzo 2024 Il Garante dei detenuti, Luca Muglia, ieri è stato a Castrovillari per l’iniziativa promossa dalla sezione detentiva femminile: “Il sistema carcerario non fa distinzioni di sesso, le regole detentive non presentano alcuna caratterizzazione di genere”. In occasione dell’8 marzo il Garante regionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Luca Muglia, ha partecipato all’incontro-dibattito “La festa della donna come momento di riscatto” tenutosi nell’aula didattica della sezione detentiva femminile della Casa circondariale “R. Sisca” di Castrovillari. Nel corso dell’evento è stato presentato il progetto “Con le Mani in Pasta” finalizzato alla realizzazione di prodotti gastronomici all’interno delle mura dell’istituto, che vede il coinvolgimento dell’Istituto alberghiero Ipseoa “K. Wojtyla” di Castrovillari e di Laura Barbieri, imprenditrice nel settore della ristorazione e Presidente della Fipe Cosenza. All’incontro, moderato e introdotto dalle docenti Rossana Barone e Simona Verta, hanno partecipato, oltre alla ristoratrice, la Presidente della Commissione regionale per l’uguaglianza dei diritti e delle pari opportunità, Anna De Gaio, il cappellano della Casa Circondariale, don Francesco Faillace, il sindaco di Castrovillari, Domenico Lo Polito, la dirigente dell’Ipseoa “K. Wojtyla”, Immacolata Cosentino, e il direttore della Casa Circondariale, Giuseppe Carrà, che ha sottolineato il valore e il significato del progetto per le detenute della sezione femminile di Castrovillari. Il Garante regionale ha rimarcato come “l’iniziativa “Con le Mani in Pasta” rappresenti un esempio virtuoso che mette insieme scuola, formazione e lavoro, con il supporto di una imprenditoria sensibile e di qualità. Per le donne detenute a Castrovillari può aprirsi, oggi, un ciclo importante. Troppo spesso è mancato in Calabria un dialogo fattivo tra il carcere e il mondo del lavoro, la paura e la mancanza di conoscenza hanno precluso l’avvio di progettualità con il territorio e le imprese. È giunto il momento di voltare pagina, di scrivere una storia nuova e diversa”. “Quanto alla detenzione femminile - continua l’avvocato Muglia - il sistema carcerario non fa distinzioni di sesso, le regole detentive non presentano alcuna caratterizzazione di genere. Ciò, paradossalmente, finisce per recare danno alle donne detenute in quanto il circuito penitenziario è pensato e costruito “a misura di uomo”. La tutela dei diritti delle donne recluse presuppone, quindi, che vengano riconosciute e valorizzate le peculiarità che contraddistinguono la condizione detentiva. Quali sono i bisogni o le esigenze della donna detenuta? Di quali strumenti necessita per elaborare il suo vissuto? In quale contesto si consuma la sua carcerazione? Si tratta di domande aperte. Nella Casa circondariale di Castrovillari, ad esempio, i bagni delle camere detentive sono sprovvisti di docce, a differenza degli altri istituti. Le persone detenute, in altre parole, sono costrette ad utilizzare le due o tre docce presenti nello spazio comune situato nel corridoio dei padiglioni. È evidente come tale condizione, nel caso delle donne,sia maggiormente lesiva della privacy e della dignità personale. Mi auguro che le reiterate richieste di intervento che ho rivolto al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria possano sortire effetto e si ponga fine a tale inaccettabile deprivazione”. “Rivolgo, da ultimo, un ringraziamento particolare al Sindaco Lo Polito - ha concluso il Garante regionale - poiché, grazie alla sua sensibilità, la città di Castrovillari potrà formalizzare a breve l’istituzione del Garante comunale dei diritti delle persone private della libertà personale, nonché alla Presidente De Gaio per l’instancabile impegno della Commissione regionale per le pari opportunità da lei presieduta, sempre attenta ai temi della detenzione femminile”. Roma. Cpr Ponte Galeria, sit-in dei Radicali imbavagliati e con cartelli: “Condizioni degradanti” di Edoardo Iacolucci Corriere della Sera, 10 marzo 2024 I manifestanti: “Abbiamo deciso di replicare la protesta del 2014 quando 13 detenuti si cucirono la bocca per denunciare le violazioni di diritti umani”. “Chiuso per gravi violazioni dei diritti umani”. “Chiuso per soprusi sulla libertà”. “Chiuso per condizioni degradanti”. Sono alcuni dei cartelli tenuti in mano sabato mattina dalle 11 sotto la pioggia all’esterno del Centro per il rimpatrio di Roma dai radicali, che, con le bocche simbolicamente coperte da un nastro bianco, si sono ritrovati in un sit-in. L’intento: fare luce sulle condizioni disumane nelle quali si trovano i trattenuti all’interno e chiedere al sindaco Gualtieri la chiusura immediata. “Abbiamo deciso di replicare la protesta del 2014 - commenta Federica Oneda - quando tredici detenuti si cucirono la bocca per denunciare le gravi violazioni di diritti umani e le condizioni degradanti in cui vengono trattenuti. Vogliamo anche dar voce all’appello che abbiamo mandato al sindaco Gualtieri, per la grave emergenza sanitaria e di sicurezza all’interno”. “La situazione è intollerabile - aggiunge Eva Vittoria Cammerino, segretaria dell’associazione Radicali Roma e consigliera del V Municipio -. Le condizioni di degrado a cui sono sottoposti i trattenuti al Cpr di Ponte Galeria, note da tempo, sono vergognose e inaccettabili. La responsabilità non può in alcun modo essere rimbalzata tra le istituzioni”. Presente il segretario di Radicali italiani, Matteo Hallissey: “I centri per il rimpatrio sono strutture fatiscenti con servizi sanitari e igienici disumani. Bisogna chiudere immediatamente i Cpr perché rappresentano il drammatico paradigma di un’emergenza continua”. Bari. Scappa-Telle, con Made in Carcere i biscotti sono fatti dai detenuti dei minorili di Marcella Pace virtuquotidiane.it, 10 marzo 2024 Sono realizzati con pochi e semplici ingredienti biologici. Hanno la forma di un cuore, e il nome sembra quasi sarcastico, ma dietro porta con sé i momenti di “evasione” da una quotidianità costretta senza poter uscire, vissuti per realizzarli. Scappa-Telle non sono dei semplici biscotti, ma sono parte di un progetto articolato che è diventato un modello da seguire ed esportare. A farli sono i ragazzi detenuti nelle carceri minorili di Bari nell’ambito del progetto Made in Carcere, promosso dalla Onlus Officina Creativa che da oltre 17 anni incentiva il lavoro retribuito delle donne detenute nelle carceri italiane, e ora appunto anche dei minori. E non solo a Bari, supportano anche i laboratori del carcere minorile di Nisida e quello di Taranto, ora in particolare per la certificazione del biologico nella produzione dei prodotti alimentari, anche grazie al sostegno di Fondazione con il Sud. Quella di Officina Creativa è una storia che racconta di solidarietà, di impegno, di resilienza, e che mira a consegnare una nuova opportunità per ricostruire sé stessi e il proprio posto nella società, imparando un lavoro da poter fare una volta tornati alla libertà. Dietro questo progetto c’è una donna vulcanica, Luciana Delle Donne, con un passato da manager nel mondo della finanza che ha scelto di lasciare la sua vita e la sua carriera all’apice, proprio per dedicarsi agli altri. “Nei miei venti anni di esperienza in banca ho creato la prima Banca Multicanale on line in Italia. Dopo i grandi successi nel mondo della finanza però, ho deciso di rimettermi in gioco ed ho scelto di dedicarmi completamente al Terzo Settore, passando dall’ innovazione tecnologica all’ innovazione sociale”, spiega Delle Donne. L’innovazione sta proprio nell’aver creato con la sua Officina, una serie di progetti volti al reinserimento lavorativo proprio delle donne, dedicandosi al mondo femminile, quasi a voler dare un segno tangibile del suo cognome. Con Made in Carcere le detenute nel Carcere di massima sicurezza di Lecce Borgo San Nicola, quelle della Casa di Reclusione Femminile di Trani, e da poco Taranto ma anche con il reparto maschile di Matera, creano manufatti artigianali “e sperimentano davvero quello che è il fine ultimo della pena, il reinserimento lavorativo e sociale, ovvero la reintegrazione nel tessuto produttivo del Paese”, spiega la fondatrice. Questo progetto rappresenta un “modello di economia rigenerativa, riparativa e trasformativa, che fa bene a tutti: individuo, comunità e ambiente, trasformando la detenzione in una molteplicità di valori, come la rieducazione personale, l’abbattimento della recidiva e la sostenibilità ambientale. Infatti, i materiali con cui sono cuciti i manufatti Made in Carcere ricevono una nuova vita: sono tessuti donati da aziende generose e lucide che, invece di disfarsene, ingolfando il sistema di smaltimento ed inquinamento, preferiscono far sì che questi rivivano sotto le mani di chi cerca, ogni giorno, di ricostruire la propria vita e di riconquistare integrità”. Nelle sartorie di Officina Creativa, si raccolgono i materiali di scarto di aziende partner che vengono trasformati in nuovi prodotti solidali in particolare gadget personalizzati per eventi e convegni, tutti fatti a mano da donne detenute. Al settore tessile si è da pochi anni affiancato anche il progetto della pasticceria. I ragazzi dell’Istituto penale minorile Fornelli di Bari e dell’Istituto Penale minorile di Nisida impastano con le loro mani, in una vera e propria pasticceria, le Scappa-Telle, biscotti a forma di cuore, certificati biologici fatti solo con 4 ingredienti, farina di grano Senatore Cappelli Biologico; olio Extravergine di oliva biologico; vino rosso biologico; e zucchero di canna chiaro biologico Alce Nero, grazie anche al sostegno iniziale di Fondazione Poste Italiane e di Fondazione Megamark. Officina Creativa ora vuole esportare il modello Made in Carcere e diffondere le buone pratiche acquisite nell’ultimo decennio di attività, per impiegare in maniera stabile e continuativa i detenuti nei settori del tessile e dell’agri-food. “Pertanto, attraverso la collaborazione tra Officina Creativa e altri partner di progetto, 65 persone in stato di detenzione partecipano a processi di formazione e lavoro relativamente ai due settori commerciali ed alcuni di essi potranno godere di una buona opportunità di lavoro”, spiega Delle Donne, che è stata insignita dal Presidente della Repubblica il della nomina di ufficiale al merito e al valore della Repubblica italiana. Udine. “Fine pillola mai”. Convegno nel centenario di Basaglia lavitacattolica.it, 10 marzo 2024 “Più che celebrare i cento anni dalla nascita di Franco Basaglia, come Dipartimento di Salute mentale, abbiamo pensato che fosse più significativo raccontare fatti, buone pratiche e affrontare questioni aperte”. Spiega così Marco Bertoli, direttore del Dipartimento di Salute mentale dell’Asufc (l’Azienda sanitaria universitaria Friuli centrale) la scelta di organizzare proprio lunedì 11 marzo - nel centenario del visionario psichiatra -, alle 17.30 in Sala Ajace, a Udine, l’incontro “Fine pillola mai” il cui titolo riprende l’inchiesta di “Altraeconomia” - firmata dal giornalista Luca Rondi - sull’abuso di psicofarmaci nelle carceri italiane, tra salute mentale e controllo della popolazione detenuta. Incontro che segue quello già tenutosi a San Daniele (incentrato su uno dei capisaldi del pensiero di Basaglia, la differenza fra Psichiatria e Salute mentale) e a cui ne seguiranno altri, in ognuna delle città in cui c’è un Centro di Salute mentale. “Basaglia - osserva Bertoli intervistato da Anna Piuzzi su la Vita Cattolica del 6 marzo 2024 - in manicomio trovò il disastro umano, fu colpito dalla bruttezza dei luoghi, dal fatto che le persone fossero ridotte e contenute entro un recinto. Disse che quella non era cura. Propose dunque una cura che fosse non solo attenzione alla sintomatologia, ma che andasse oltre diventando attenzione alla persona, ai suoi vissuti, ai contesti. Una cura che puntasse a un recupero della persona attraverso gli strumenti della vita: la casa, il lavoro, la socialità. Basaglia morì giovanissimo, ma c’è chi ha raccolto, dato concretezza alla sua eredità e che continua a farlo anche oggi, anche senza averlo conosciuto”. L’attualità della “rivoluzione” di Basaglia - Nell’ampio approfondimento pubblicato sulla Vita Cattolica, il nostro settimanale pubblica diverse riflessioni sull’attualità del pensiero di Basaglia e la necessità di tenere viva la sua “rivoluzione”. Spazio dunque alle voci di Giovanna Del Giudice, presidente della Conferenza per la Salute Mentale nel Mondo Franco Basaglia, Maria Angela Bertoni, psichiatra che è stata a lungo direttrice del Centro di salute mentale di Udine e che ora fa parte dell’associazione Arum, Associazione familiari, utenti e cittadini per la salute mentale di Udine, Nadia Della Pietra, assistente sociale che per due anni ebbe la fortuna di lavorare con Basaglia, Berenice Pegoraro e Anastasia Serra, della Comunità Nove gestita dalla cooperativa Itaca a Sant’Osvaldo. La Vita Cattolica pubblica anche la toccante testimonianza di Vilma, mamma di un giovane che soffre di un problema di salute mentale, preoccupata per l’impoverimento dei centri di salute mentale. Il Convegno - “L’11 marzo - prosegue Bertoli - parleremo di carcere perché Basaglia avversava le istituzioni totali e il carcere è un’istituzione totale, l’intenzione è dunque quella di prestare un’attenzione particolare a questa realtà, anche grazie allo sguardo di Franco Corleone che come Garante dei Diritti dei Detenuti ha fatto e sta facendo moltissimo. Dal nostro punto di vista, come Dipartimento, c’è dunque un impegno forte in questo senso, un impegno innanzitutto a mantenere i riflettori accesi su un’istituzione come questa dove siamo presenti con un’équipe di lavoro composta da due medici, una psicologa e un educatore professionale e che considera il carcere come parte integrante del territorio”. L’inchiesta di cui si parlerà al convegno “Fine pillola mai” fa luce - dati alla mano - sull’uso e abuso di psicofarmaci in quindici carceri italiane, fra queste anche la casa circondariale di via Spalato a Udine. In particolare viene presa in considerazione la spesa pro-capite che risulta di gran lunga superiore rispetto all’esterno, per gli antipsicotici addirittura di 5 volte. A Udine - dove va detto che i dati seppur alti, sono in calo rispetto agli anni precedenti - si spendono in anti psicotici 19,1 euro pro-capite, all’esterno la spesa media è di 3,1 euro. Al convegno, oltre a Luca Rondi, interverranno Franco Corleone, gli psichiatri Calogero Anzallo e Stefano D’Offizi. Fermo. Salvatore Striano: “Così l’arte mi ha salvato dal carcere” Il Resto del Carlino, 10 marzo 2024 Incontro emozionante tra studenti e l’ex camorrista diventato attore di successo, che ha trovato la libertà in carcere attraverso lo studio e il teatro. Un esempio di rinascita e di cambiamento positivo. Trovare la libertà in carcere, nel luogo più chiuso in assoluto, nello spazio in cui si rischia di perdersi. È la storia che hanno condiviso i ragazzi delle classi 4 CNA, 4CAA, 4 INA, 4 INB, 4DSA, 3 DSA, 4 TCA dell’istituto Montani che hanno incontrato Salvatore Striano, ex camorrista, oggi attore di successo. Un momento di grande emozione che fa seguito ad un progetto arrivato dalla scuola, per ragionare sul concetto di libertà connesso alla cultura, a partire dal libro scritto da Striano per raccontare la sua storia straordinaria. L’attore ha vissuto otto anni di carcere, durante i quali ha avuto l’occasione di studiare e di seguire un corso di teatro che di fatto gli ha aperto le porte del cinema: “Ero prigioniero del mio vivere criminale, la scuola, il teatro, il lavoro in carcere mi hanno aiutato, ho iniziato a sentirmi meno un poco di buono. Ho capito che non avevo una vita segnata ma che in realtà potevo essere libero, anche se ero dentro un carcere di massima sicurezza. Quando sono uscito quasi avevo paura del mondo reale, volevo quasi rientrare. Per fortuna ho trovato una strada diversa, chi fa teatro diventa una persona migliore”. Striano ha raccontato che nella sua prima vita aveva interrotto gli studi troppo presto, già in quarta elementare: “In carcere mi sono accorto che ero povero di parole, non avevo cose da dire, se non sempre le stesse. Ho ripreso a studiare, ho capito che il fascino è di chi ha libertà di fare quello che vuole, i criminali sono sfigati. La scuola è un bene a lunga conservazione, non senti subito i benefici. Ho imparato a far sentire i miei diritti”. Tante e precise le domande dei ragazzi che si sono sentiti coinvolti in una storia grande di rinascita vera, a partire da un contesto, quello del carcere, che rischia di far perdere le persone in maniera definitiva”. Napoli. A Poggioreale spettacolo teatrale con detenuti e familiari grazie a “I SudAtella”. atellanews.it, 10 marzo 2024 Ancora una volta giovedì l’arte teatrale è riuscita nel suo più grande miracolo. Aiutare nel percorso di rieducazione quanti stanno scontando un periodo di detenzione in un penitenziario. E come sempre protagonisti di questa importante percorso progettuale sono stati gli attori e volontari della compagnia de “I SudAtella”, capeggiata dall’instancabile Susy Ronga. Al termine di un laboratorio svolto con un gruppo di detenuti del carcere napoletano di Poggioreale, c’è stato l’allestimento di una vera e propria piece incentrata sull’importanza dei beni immateriali interamente interpretata dai detenuti. All’evento svoltosi all’interno della chiesa asta all’interno dell’istituto di pena, hanno presenziato il direttore della casa di detenzione, Carlo Berdini, il direttore Stefano Martone, il responsabile dell’area trattamentale, Federica Tondo, l’educatore Dario Scognamiglio, oltre al magistrato di sorveglianza Francesco Chiaromonte ed ai familiari degli detenuti in scena. L’intero laboratorio, come detto, è stato curato dal sodalizio atellano, che oltre alla dinamica ed inesauribile Ronga, ha visto in prima linea Angela Bottigliero, Giovanni Falgetano e Lello Ferdinando Russolillo. Ansia, incomprensioni, pregiudizi, duro lavoro, tutto ripagato dall’entusiasmo e dai sorrisi di “attori” e familiari che per due ore hanno dimenticato il contesto carcerario con tutto quello che vi è connesso e con la speranza che questo possa servire a reinserire nella società civile delle vite umane che, pur avendo commesso degli errori anche gravi, meritano di avere almeno un’altra chance. Questo il senso profondo dell’opera de “I SudAtella” che anche giovedì scorso ha colto nel segno. “Il carcere in Italia oggi. Una fotografia impietosa”, di Livio Ferrari Ristretti Orizzonti, 10 marzo 2024 Le carceri italiane, come quelle di ogni Paese, sono lastricate di odio e violenza, dentro un elenco infinito di vittime, ed è ormai dimostrato che le leggi da sole non sono sufficienti a tutelare le persone che hanno perso la libertà, in quanto il carcere è un luogo così chiuso che parlare di trasparenza, quella che invece dovrebbe esserci in quanto siti di esecuzione della giustizia, è impossibile ed impraticabile, i muri che lo determinano sono il primo e fondamentale elemento di lontananza dalla città libera e dalle garanzie di rispetto dei diritti. C’è, tra l’altro, una domanda da porsi: dei quasi tremila morti e milleottocento suicidi da inizio secolo, non dimenticando le migliaia di atti di auto-lesionismo e le innumerevoli violenze che quotidianamente si determinano negli istituti della reclusione nel nostro Paese, non ci sono responsabili? La guerra ha una evidenza nei responsabili del conflitto, mentre nella guerra che ogni giorno si combatte nelle carceri sembra che tutto rientri solo nella responsabilità di chi ha commesso il reato, il fatto stesso di esservi recluso “in quanto se l’è cercata” e se accidentalmente ne soccombe, è quasi una logica conseguente della cattiveria esercitata. L’art. 27 della Costituzione recita, tra l’altro: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, questo stride in maniera drammatica con le morti e violenze che continuano a segnare le esistenze carcerate da rendere ancora più evidente quanto affermato già nel 2012 dal “manifesto No Prison”, indicano anche che siamo in ritardo per modificare l’attuale assetto dell’esecuzione ed è perciò più che doveroso fare un salto di paradigma da parte di chi ha responsabilità legislative, per buttare un vestito vecchio come quello del nostro carcere, che produce tanti morti e sofferenza, a favore di un modello di esecuzione delle condanne che riduca al minimo la perdita della libertà, rispettando i diritti delle persone condannate, e sia foriero di restituzione del danno alle vittime e recupero della legalità, un salto di paradigma la cui drammatica responsabilità ricade sui governi e parlamenti, perché sono loro in effetti i veri responsabili di questa ecatombe! Per acquistare il libro: https://www.livioferrari.it/home/carcere-italia-oggi.html Quando la giustizia emerge dietro il “velo di ignoranza” di Vittorio Pelligra Il Sole 24 Ore, 10 marzo 2024 Le riforme istituzionali, le leggi elettorali, le riforme di rango costituzionale devono essere condivise. E questo per evitare di generare distorsioni durature sulla sola base di differenze contingenti. Che cos’è la giustizia? “Non v’è altra domanda - scrive il giurista e filosofo Hans Kelsen - la quale sia stata discussa in modo tanto appassionato; non v’è altra domanda per la quale si siano versati tanto prezioso sangue e tante amare lacrime; non v’è altra domanda alla quale sia stata dedicata una riflessione tanto intensa (…) eppure, questa domanda resta ancora oggi, come in passato priva di risposta. Sembra essere una di quelle domande - continua Kelsen - per le quali v’è la rassegnata consapevolezza che l’uomo non potrà mai trovare una risposta definitiva, ma potrà soltanto cercare di formulare meglio la domanda” (“Che cos’è la giustizia? Lezioni americane”, 2015, Quodlibet). John Rawls è tra quelli, non moltissimi, che nel panorama contemporaneo hanno provato a “formulare meglio la domanda”. Per Rawls la giustizia riguarda innanzitutto la “struttura di base” e non direttamente i singoli. È un qualcosa che ha a che fare con la natura delle nostre istituzioni fondamentali, le norme, il mercato, la proprietà, la famiglia. La giustizia, in questo senso, definisce il modo in cui attraverso queste istituzioni le comunità distribuiscono ai loro membri i benefici che si generano dalla vita associata, ciò che riusciamo ad ottenere vivendo insieme e che non saremmo stati in grado di ottenere da soli. I principi di giustizia vengono individuati, nello schema teorico di Rawls, attraverso un processo di negoziazione e stabiliti, resi vincolanti, grazie alla sottoscrizione di un contratto sociale. In questo modo Rawls si inserisce a pieno titolo nella grande tradizione del contrattualismo occidentale: Hobbes, Rousseau, Locke e Kant sono tutti filosofi che, anche se in modo differente, hanno fatto uso della metafora o del dispositivo del contratto sociale. Rawls è un neo-contrattualista e quel “neo” non sta solo ad indicare una dimensione di novità cronologica ma soprattutto una novità sostanziale nel modo di considerare il contratto stesso all’interno del suo sistema di pensiero. Tradizionalmente il dispositivo del contratto viene utilizzato per dar conto della nascita di un’autorità politica legittima. Prima di essa si suppone che le persone vivessero in una condizione disordinata e bellicosa, “lo stato di natura” come lo definisce Hobbes, una condizione dove la vita è “solitaria, misera, sgradevole, brutale e breve”. Attraverso la sottoscrizione di un contratto con il quale ci si accorda su alcune regole comuni il cui rispetto viene reso credibile dall’azione dell’autorità politica - il Leviatano di Hobbes ha in una mano il bastone pastorale e nell’altra la spada - si esce da questo “stato di natura” e si diventa comunità politica. La prima differenza tra Rawls e tale tradizione è che mentre per Hobbes il passaggio dallo stato di natura allo stato di diritto costituisce una rappresentazione della storia che in modi più o meno simili a quelli che egli descrive si è effettivamente svolta, per Rawls, invece, il contratto è un esperimento mentale attraverso il quale immaginare come sarebbe una società senza la presenza di un accordo sulle regole di base. Dal confronto tra questa società e quella “ben ordinata” che può nascere con la sottoscrizione del contratto, nasce la spinta a darsi delle regole di convivenza comune e delle istituzioni affidabili. Il contratto viene “siglato”, per così dire, quando ogni cittadino riconosce il valore di tali regole e si impegna, in maniera vincolante, a rispettarle. Quando, in altri termini, ogni persona vede riconosciute nei principi sanciti dal contratto le sue intuizioni morali più profonde. Questa impostazione pur facendo riferimento alla metafora contrattuale si discosta dalla tradizione hobbesiana non solo perché quest’ultimo riteneva il contratto un fatto storico, ma anche perché per Hobbes, questo andava inteso come un compromesso possibile capace di conciliare gli interessi di soggetti egoisti - homo omini lupus - spinti esclusivamente dal desiderio acquisitivo e di sopravvivenza, il conatus sese conservandi. È chiaro che nessun tipo di connotazione morale si può ascrivere a un contratto siffatto. In Rawls, al contrario, l’aspetto contrattualistico si inserisce nel quadro di una teoria del “consenso ipotetico”, come spiega Sebastiano Maffettone (Introduzione a Rawls, Laterza, 2010), e non del “consenso attuale”. Ciò vuol dire che il filosofo americano parte da una condizione simile allo “stato di natura” che egli definisce “posizione originaria” per individuare quei principi, i “termini fondamentali della loro associazione”, sui quali, partendo da una iniziale uguaglianza, soggetti liberi, razionali, indipendenti, mutuamente disinteressati riuscirebbero a raggiungere un accordo. Si tratta di una ricostruzione razionale e ipotetica. In che modo, allora la “posizione originaria” si discosta dallo “stato di natura”? Il dato più importante è certamente quella relativa alla condizione di “equità” che viene raggiunta attraverso l’espediente del cosiddetto “velo di ignoranza”; tema sul quale torneremo. La posizione originaria introduce nel discorso rawlsiano alcuni elementi fondamentali. Il primo è dato dalla “lista delle alternative”, vale a dire dall’insieme delle idee filosofiche che si possono prendere in considerazione per fondare la propria convivenza. Quali modalità di vita conosciamo e quali principi sono stati sviluppati nella storia del pensiero che potrebbero essere utili oggi a regolare una comunità sociale? Tra questi Rawls include l’utilitarismo, il perfezionismo, l’intuizionismo, l’egoismo razionale e la sua teoria della giustizia come equità. Ogni alternativa viene presa in considerazione ma la riflessione, come abbiamo visto la settimana scorsa, si concentra in particolare sul confronto con l’utilitarismo. Il secondo elemento che caratterizza la “posizione originaria” è dato da ciò che David Hume definisce le “condizioni di giustizia”. La prima presuppone la scarsità dei beni, vale a dire un eccesso di domanda rispetto all’offerta. È solo perché si pone questa condizione che nasce un problema di giustizia nella distribuzione dei beni scarsi. La seconda condizione fa riferimento alle motivazioni individuali che sono definite da ciò che Rawls chiama “egoismo moderato”. Una struttura di motivazioni che implica il “reciproco disinteresse” di ogni individuo rispetto alle sorti di ogni altro. L’identificazione dei principi di giustizia, date queste condizioni, equivale, secondo Rawls, a risolvere un problema di scelta razionale, a trovare, cioè, una soluzione su cui non si può non essere d’accordo. La terza caratteristica essenziale della “posizione originaria” è data dai vincoli che vengono imposti ai principi di giustizia. Tali vincoli prevedono tra gli altri il fatto che i principi devono essere “universali”, cioè, validi per tutti, “pubblici”, “generali”, in grado di generare un ordinamento, vale a dire una scala di priorità circa gli interessi eventualmente in conflitto e, infine, i principi devono essere “definitivi”, costituire l’elemento finale e dirimente in materia di controversie morali. Il quarto ed ultimo elemento che caratterizza la “posizione originaria”, forse il più originale, è il fatto che le parti sono chiamate a negoziare il contratto stando dietro il cosiddetto “velo di ignoranza”. L’idea di Rawls è quella di mettere in atto un meccanismo di individuazione dei principi di giustizia che faccia riferimento alla “giustizia procedurale”; ciò significa che saranno giusti quei principi che verranno individuati attraverso un processo che ha seguito delle regole che riteniamo giuste. Una delle caratteristiche più importanti e delicate di tale processo di negoziazione è data dall’insieme delle informazioni che ogni individuo possiede. Tali informazioni, infatti, possono influenzare le valutazioni e le scelte individuali e perfino generare un blocco nel processo determinando una impasse insuperabile. “Chi, ad esempio, fosse a conoscenza del fatto di essere ricco - scrive Rawls - potrebbe credere razionale un principio secondo cui alcune imposte per scopi assistenziali dovrebbero essere considerate ingiuste; se egli fosse invece a conoscenza della propria povertà, molto probabilmente proporrebbe il principio opposto. Per descrivere le restrizioni volute, si immagina una situazione in cui ciascuno viene privato di questo tipo di informazioni. Si esclude la conoscenza di quei fattori contingenti che pongono in disaccordo gli individui e che li lasciano in balia dei propri pregiudizi. In questo modo si arriva a concepire naturalmente un velo di ignoranza”. Attraverso questo espediente, Rawls, introduce un vincolo stringente al tipo di informazioni che i decisori possono utilizzare nel processo di negoziazione. Operare dietro il “velo di ignoranza” significa non considerare quale posizione si occuperà nella società civile che emergerà dopo la stipula del contratto. La nostra identità personale, la concezione del bene, la condizione socio-economica, la propensione al rischio, sono tutti elementi che non dovranno essere considerati se vogliamo fare in modo che il processo di individuazione dei principi di giustizia sia equo e in grado di garantire l’individuazione di principi giusti, proprio in quanto emersi da una procedura equa. Dietro il velo di ignoranza gli individui “non sanno in che modo le alternative influiranno sul loro caso particolare, e sono quindi obbligate a valutare i principi soltanto in base a considerazioni generali”. In questo modo si cerca di eliminare “gli effetti delle contingenze particolari che mettono in difficoltà gli uomini e li spingono a sfruttare a proprio vantaggio le circostanze naturali e sociali”. Quando si va a contrattare nella “posizione originaria” si sa tutto tranne ciò che potrebbe distorcere a nostro vantaggio le regole del gioco, i principi di giustizia che andranno a fondare le istituzioni e la struttura di base della società. La mancanza di informazioni rispetto alla nostra identità diventa quindi il presupposto necessario ad un processo di contrattazione equo ed imparziale. Alla luce di quanto detto si capisce come il “velo di ignoranza” non sia altro che una versione sofisticata della buona norma secondo cui le regole del gioco istituzionale non possono essere cambiate dalla sola maggioranza. Le riforme istituzionali, le leggi elettorali, le riforme di rango costituzionale devono, cioè, essere condivise da tutti i giocatori. E questo per evitare di generare distorsioni durature sulla sola base di differenze contingenti. Una regola di condotta sacrosanta per una società che vuole considerarsi giusta. Una regola tanto importante quanto, purtroppo, disattesa. Cento anni di Franco Basaglia. La vittoria di un’utopia di Giacomo Giossi Il Domani, 10 marzo 2024 “Cento giorni che non torno” (Laterza) di Valentina Furlanetto è sia un’inchiesta su chi era Franco Basaglia e su cosa ha significato la sua azione e cosa ancora oggi significa per la cura del disagio mentale. Partendo dal punto di vista di uno psichiatra e neurologo, fu capace di offrire una piattaforma inclusiva dentro la quale rendere possibile una cosa immaginata. Là dove altri si limitarono alla teoria e a un approccio clinico, lui diede forma a una rivoluzione, l’unica che si ricordi in Italia, capace di mutare radicalmente l’ambito manicomiale. Il libro inchiesta di Valentina Furlanetto Nulla come i centenari sono l’occasione ideale per offrire a prezzo d’occasione santificazioni, glorificazioni e lavaggi di coscienza in cielo come in terra. I cento anni di Pier Paolo Pasolini seguiti dai cento anni di Italo Calvino hanno promosso mostre, dibattiti e nuove pubblicazioni, il tutto spesso all’interno di una confortevole misura che rendesse Pasolini quanto Calvino digeribili e rassicuranti. Si dice per il grande pubblico, ma il sospetto è che li si debba rendere disarmati soprattutto di fronte alla ristretta bolla di critici, commentatori e classe culturale che di quei nomi è l’erede e che spesso volente o nolente non ha l’altezza per status, forma fisica e conseguente qualità del gesto. Già perché fu proprio il conflitto, l’indole irrequieta, politica come letteraria, oltre ad un’innegabile qualità sostanziale, a fare di Calvino e Pasolini delle figure popolari e quindi capaci di influenzare il dibattito o quanto meno di fermarlo di volta in volta su posizioni critiche. È altrettanto vero che oggi essere all’altezza di quel secondo Novecento non significa praticamente nulla, anzi sarebbe al contrario uno sforzo vacuo, un gesto più che altro estetico incapace di incidere e probabilmente ridicolo: come più volte capita a chi si atteggia o si riveste di abiti non suoi. Tuttavia resta una responsabilità, quella di non esaurire uno sforzo esistenziale che seppe incidere così profondamente nella società e che ancora oggi può vivere sotto la cenere di una brace inesauribile, nonostante i tempi, la complessità e una fatica che ci porta giorno dopo giorno a diffidare di ogni possibile forma di futuro. Un’azione di rottura - I cento anni di Franco Basaglia rappresentano così l’occasione da non buttare al vento per riportare con forza l’energia di un conflitto virtuoso e necessario all’interno della società. L’azione di Basaglia nonostante quello che è comune pensare fu al tempo stesso di rottura, ma anche e soprattutto di ridefinizione. Al centro del suo pensiero agì infatti l’esigenza di abbattere l’istituzione manicomiale per restituirne la libertà e lo spazio di cura necessario. Ben lontano dalle posizioni dell’antipsichiatria, anche se ancora oggi a molti piace accostarlo nonostante la palese distanza, Franco Basaglia rappresenta un punto inaggirabile di riflessione del percorso di evoluzione democratica della società italiana. Partendo dal punto di vista di uno psichiatra e neurologo Basaglia diede forma a quell’utopia della realtà capace di offrire una piattaforma inclusiva dentro la quale riconoscere come una cosa immaginata può diventare finalmente possibile. Là dove altri si limitarono alla teoria e a un pavido approccio clinico, Basaglia diede forma a una rivoluzione (l’unica che si ricordi in Italia) capace di mutare radicalmente l’ambito manicomiale, ma soprattutto mosse una riflessione attorno ai diritti e alla società. Scomparso precocemente a cinquantasei anni, due anni dopo l’approvazione della legge 180 da lui promossa e sostenuta, seppur sempre figlia di un compromesso che oggi rivela nei suoi limiti l’ottusità di una classe politica che fece molto allora, ma quasi nulla dopo, Basaglia rappresenta l’irriducibilità di un umanista novecentesco. Un professore che seppe muoversi senza imbarazzo su più campi, dall’accademia alla pratica, dando forma a una politica attiva e concreta, ideale, ma fortemente radicata nella necessità e nell’urgenza della vita quotidiana. Tra i primi a mettere in campo il proprio stesso corpo, come rivela anche il suo passeggiare inquieto e forse imbarazzato durante la prima intervista di Sergio Zavoli nel 1968 per il documentario I giardini di Abele, Franco Basaglia colse da subito la necessità di un lavoro collettivo che diventasse pensiero e azione comune e condivisa. A partire da una riflessione continua e intrecciata con la moglie Franca Ongaro Basaglia. Al punto che se oggi si dice Franco Basaglia di deve intendere anche Franca Ongaro Basaglia che non solo proseguì la lotta dopo la scomparsa del marito, sia in politica, come senatrice indipendente del partito comunista italiano, sia nell’elaborazione intellettuale, ma che insieme al marito scrisse i principali testi della rivoluzione basagliana. L’istituzione negata pubblicato nel 1968 da Einaudi- grazie a Giulio Bollati (pure lui centenario in questo 2024) - rivelò e diffuse il lavoro e il pensiero che da Gorizia prendeva avvio dando forma e pratica a un cambiamento epocale, fino al modello - riconosciuto anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità - di Trieste che grazie al lavoro continuo ed esemplare di Franco Rotelli divenne l’esempio di cosa potrebbe essere la rivoluzione basagliana se fosse portato a termine anche nei suoi aspetti tutt’ora mancanti nella legge 180. A conferma che è la pratica spesso a rivelare la teoria. Un libro inchiesta - In un centenario che vedrà per forza di cose Basaglia tirato per la giacchetta in ogni direzione arriva in libreria un testo che sembra coglierne la complessità e al tempo stesso la forza icastica. Cento giorni che non torno (Laterza) di Valentina Furlanetto è sia un’inchiesta su chi era Franco Basaglia e su cosa ha significato la sua azione e cosa ancora oggi significa per la cura del disagio mentale, sia il racconto intimo e privato di Rosa, la nonna dell’autrice che in seguito a un trauma venne rinchiusa in manicomio fino all’incontro con il professore veneziano. È la storia attorno a cui muove tutto il libro, il racconto di una distanza che Basaglia ridusse drasticamente, dando forma a un incontro che per Rosa significò l’opportunità di esistere ancora, di vivere nuovamente. Cento giorni che non torno tiene così unita quella che fu l’azione di Franco Basaglia e del suo gruppo con la storia minima di una degente o meglio di una donna imprigionata in uno di quei posti infernali che furono i manicomi in Italia e che ancora oggi restano in molte parti del mondo (anche di quello cosiddetto civilizzato). Un tenere insieme che è fondamentale per comprendere il senso del lavoro di Franco Basaglia, ma anche per ritrovarne istantaneamente l’urgenza oggi. In una quotidianità che porta inevitabilmente ad aumentare le distanze annullando la percezione di un disagio, oggi quanto mai evidente tra i giovani, tanto più dopo la pandemia. Furlanetto scatta una fotografia dell’oggi e lo fa guardando all’esperienza di Basaglia come a una cosa viva (e non potrebbe essere altrimenti) che potrebbe influire positivamente nell’idea di cura oggi facendo prevalere - per citare proprio Basaglia -, la persona sulla patologia. Cento giorni che non torno ritrae i nostri anni confusi, complicati ma anche estremamente violenti e banali, affiancandoli alla storia di Basaglia perché vi si possano rintracciare le radici di un discorso e di una pratica oggi estremamente necessaria. Collante e punto di fusione la figura di Rosa. Una storia minima e comune certamente a tante altre, ma proprio per questo esemplare, perché fu proprio per l’azione di Basaglia che la vita di Rosa poté avere l’opportunità di essere tale e non essere ridotta a numero statistico. La chiusura dei lager - Basaglia non si limitò ad aprire le porte di un lager quale era l’istituzione manicomiale, ma né abbatte il motivo d’essere nel momento in cui restituì la consapevolezza della libertà a chi vi era stato rinchiuso e legato venendo per essere totalmente annichilito: se questo è un uomo. Basaglia incastrò un bastone tra le ruote di un meccanismo che faceva dell’universo concentrazionario il suo fiore all’occhiello. Da allora le forme e le dinamiche del controllo sociale sono mutate anche fortemente, si sono mimetizzate e sciolte in più dinamiche che colpiscono la nostra quotidianità, ma queste mutazioni non rendono meno efficace il pensiero di Basaglia. Individuare e sostituire muri e sbarre con confronto e partecipazione resta la versa sfida di una società contemporanea che possa dirsi fuori da ogni retorica realmente aperta ed egualitaria. Ed è una sfida che coinvolge chiunque, ognuno per la propria parte e anche più, salvo aderire ad una zona grigia indifferente e colpevole. Che fine ha fatto il sogno di Basaglia? Strutture pubbliche svuotate e soldi ai privati di Ludovica Jona Il Fatto Quotidiano, 10 marzo 2024 “Pazienti intrappolati nel gioco dell’oca della cronicità”. A cento anni dalla nascita di Franco Basaglia, si celebra l’uomo che rese l’Italia il primo - e finora unico - Paese al mondo a chiudere i manicomi, ma non c’è molto da festeggiare. I Centri di salute mentale (Csm) pubblici aperti h24 che il padre della legge 180 indicò come ingranaggio fondamentale di un’organizzazione alternativa agli ospedali psichiatrici, sono attivi in Friuli Venezia Giulia - dove la riforma psichiatrica iniziò già dagli anni Settanta - ma restano un sogno in quasi tutto il territorio nazionale. “Nella maggior parte delle regioni italiane sono presenti ambulatori psichiatrici aperti poche ore solo alcuni giorni alla settimana, oppure Csm non oltre le 12 ore per 5/6 giorni alla settimana”, dichiara Gisella Trincas, presidente di Unasam (Unione Nazionale delle Associazioni per la Salute Mentale). “Il processo di impoverimento e accorpamento dei Dipartimenti di Salute Mentale, che va avanti da oltre un decennio, favorisce le residenze private, pagate dalle Asl, dove vengono messe e - a volte - abbandonate le persone che soffrono di disturbi mentale”. Si tratta di circa 2mila residenze con 30mila posti letto: un mondo variegato che va “da piccole comunità, a grandi cliniche fino alle Rsa - perché anche lì vengono messi i pazienti psichiatrici di 40-50 anni, alcune volte anche più giovani, in mancanza di alternative”, spiega Trincas. Il “gioco dell’oca” della cronicità - La permanenza in comunità terapeutica può essere preziosa quando è di breve durata, ma diventa drammatica quando l’uscita viene posticipata a tempo indefinito: “Alcune persone che hanno vissuto per 10 o 20 anni in strutture residenziali psichiatriche arrivano a chiederci il permesso di prendere un bicchiere d’acqua”, racconta Massimo Magnano, volontario di Sant’Egidio e medico della Asl Roma 4 che coordina un progetto per riportare le persone con disagio psichico a vivere in appartamenti integrati nella città. Si tratta di persone che sono rimaste intrappolate in quello che Piero Cipriano, psichiatra in un Spdc (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura) di un ospedale romano, autore di diversi libri sull’argomento, definisce “gioco dell’oca della cronicità”: “La casella zero è l’Spdc, dove si fanno due settimane di stemperamento della crisi, poi si va in una di queste residenze per alcuni mesi (quando non diventano anni), poi si torna a casa, si va al centro di salute mentale a prendere i farmaci, magari si frequenta un centro diurno - dove si fanno prevalentemente lavoretti da vendere ai mercatini e altre cose infantilizzanti - quindi si ha una nuova crisi, si torna in Spdc, di nuovo in residenza, e così via”. Cipriano sottolinea come il Lazio sia “una delle regioni peggiori” in questo gioco per “la presenza storica di cliniche, degli ‘imprenditori della follia’, come diceva Basaglia, case di cura private che sono le stesse ancora oggi, dopo 40-45 anni”. Cipriano si riferisce a una definizione coniata da Basaglia nel corso delle conferenze che tenne in Brasile nel 1979: “Ci sono cliniche private che vivono sui matti - disse lo psichiatra veneziano - più matti, più soldi. Così, invece di diminuire, il numero dei malati mentali aumenta, grazie a questi imprenditori della follia”. L’Iss: “Nelle residenze psichiatriche insufficienti trattamenti riabilitativi” - Le strutture residenziali, definite sulla carta “riabilitative”, dovrebbero ospitare le persone “per un periodo di tempo limitato di massimo 18 mesi” chiarisce Trincas. Tuttavia i dati del ministero della Salute mostrano che la permanenza media dei pazienti nelle strutture convenzionate è in aumento: dai circa due anni nel 2015 (756,4 giorni) agli oltre 3 anni nel 2022 (1124 giorni). Il recente studio dell’Istituto Superiore di Sanità “La residenzialità psichiatrica: analisi e prospettive” evidenzia come la crescente durata della permanenza in residenze sia legata a “insufficiente impiego dei trattamenti psicosociali” (psicoterapia, terapia psico-riabilitativa) e a “insufficiente dotazione di operatori formati all’impiego degli interventi riabilitativi sostenuti da evidenze di efficacia”. Emerge un quadro in cui la terapia farmacologica - data spesso in dosi massicce - risulta quasi l’unica cura. La legge prevede che ogni paziente inserito in residenza psichiatrica abbia un piano riabilitativo personalizzato, che indica anche il personale specializzato che dovrebbe essere coinvolto nella sua realizzazione. “Ma poiché i servizi pubblici territoriali generalmente non fanno - per mancanza di risorse - un costante controllo sui percorsi riabilitativi che vengono stabiliti sulla carta - aggiunge Trincas - spesso accade che non ci siano esiti positivi e così le persone passano da una struttura all’altra in un processo che anziché reintegrare nella società in percorsi emancipativi, diventa cronicizzante”. Ordine e manganello, la repressione è diventata la regola (non l’eccezione) di Susanna Rugghia e Chiara Sgreccia L’Espresso, 10 marzo 2024 Il ministero dell’Interno Matteo Piantedosi, braccio armato dell’esecutivo, mantiene l’ordine facendo uso della forza. E sacrificando le libertà individuali. I casi sono ormai numerosi. Esigere ordine e disciplina. Non è solo un imperativo fascista, ma, pare, anche quello della gestione della pubblica sicurezza nell’era di Matteo Piantedosi ministro dell’Interno. Un imperativo che, però, nella pratica si è trasformato nella tutela della sicurezza di alcuni a scapito della garanzia dei diritti di tutti. Durante il governo Conte I, per esempio, Piantedosi condivise con Matteo Salvini, di cui era capo di Gabinetto, il piano per ostacolare lo sbarco in Italia dei migranti soccorsi delle navi “Open Arms”, “Ubaldo Diciotti” e “Alan Kurdi”. Prima, da prefetto di Bologna, aveva inventato “il mini-Daspo urbano”. E aveva svegliato il capoluogo emiliano all’alba di una torrida giornata d’agosto con lo sgombero dei centri sociali Crash e Làbas. Punti di riferimento per i cittadini, che, per chiederne la riapertura, riempirono le strade della città nel settembre successivo. “L’intervento era ineludibile”, aveva commentato Piantedosi. Mettendo in chiaro di non volere dialogare con chi usa “petardi e bombe carta”. In tutti i casi: ordine in superficie, sacrificio delle libertà nella sostanza profonda. Com’è successo anche il 23 febbraio scorso a Pisa, quando la polizia ha caricato gli studenti che manifestavano in solidarietà al popolo palestinese, lasciandoli senza via di fuga, pur non essendoci una giustificazione per l’uso della violenza. Tanto che il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha ritenuto necessario intervenire per ribadire che “l’autorevolezza delle forze dell’ordine non si misura sui manganelli”. Ma non c’è solo Pisa. Sebbene il ministro Piantedosi abbia sottolineato che le decisioni in materia di ordine pubblico a livello locale non siano determinate da scelte politiche centrali, anche a Firenze e a Catania le cariche della polizia sono state il mezzo per smorzare le proteste. E qualche giorno prima, i presìdi di Torino, Bologna e Napoli per contestare la linea della Rai a favore di Israele erano finiti nello stesso modo. “È stata una giornata di violenza generalizzata. L’ultima carica della polizia, ingiustificata visto che eravamo lontani da ogni obiettivo sensibile, è stata quella in cui mi sono fatta male. Fa arrabbiare prendere le manganellate mentre si scende in piazza per costruire un futuro migliore”, spiega Ada, studentessa del collettivo Cambiare Rotta, uno dei volti sporchi di sangue della manifestazione di Torino del 3 ottobre 2023, indetta dagli stessi studenti che da mesi dormivano in tenda per protestare contro il caro affitti. “Il governo parla di sicurezza sostenendo, con il decreto Rave, che il problema è chi organizza ritrovi con più di 50 persone. O chi, di fronte alla catastrofe climatica, blocca il traffico. Per il governo garantire sicurezza significa introdurre reati contro chi si ribella alle condizioni disumane che ci sono nei Cpr e nelle carceri. Fermare la gente che entra nei palazzi abbandonati perché non sa dove andare. Non, invece, porre fine alla strage dei morti sul lavoro o impedire che le scuole ci cadano addosso. Sicurezza significa cercare colpevoli da punire: migranti, poveri, giovani”. Così Leone Piva, coordinatore dell’associazione studentesca Sinistra Universitaria, dice durante la manifestazione indetta il 25 febbraio scorso, a Roma, a pochi passi dal Viminale, per chiedere le dimissioni del ministro dell’Interno. “È la nostra Costituzione che garantisce il diritto a manifestare il proprio pensiero senza avere paura di essere repressi con la violenza”, aggiunge Tullia Nargiso della Rete degli Studenti medi che chiude il discorso mentre la folla attorno intona: “Chiediamo diritti, ci date polizia, è questa la vostra democrazia”. Lo stesso slogan che hanno gridato alcuni studenti dell’Università Sapienza di Roma durante l’occupazione della facoltà di Scienze politiche, in risposta alle manganellate prese mentre contestavano lo svolgimento di un convegno organizzato dall’associazione di destra Azione universitaria il giorno prima: cioè il 25 ottobre 2022, quando Giorgia Meloni interveniva alla Camera per la fiducia al governo, confessando ammiccante che le sarebbe stato difficile non provare simpatia per chi sarebbe sceso in piazza contro le sue politiche. Ma, dopo più di un anno, la direzione in cui si muove il governo sembra opposta: punire, invece di ascoltare e dialogare. “Potremmo definire l’approccio che caratterizza le politiche del governo come “panpenalismo”. Ogni questione che emerge, soprattutto di carattere sociale, viene affrontata con l’introduzione di nuovi reati o con l’inasprimento delle pene per quelli già esistenti”, spiega Giuliano Granato, co-portavoce di Potere al Popolo, secondo cui non è solo l’uso immotivato dei manganelli che minaccia la libertà: “Sono stati adottati anche altri provvedimenti, forse ancora più pericolosi. Come gli attacchi al diritto di sciopero di Salvini. E la lesione del diritto alla casa”. Nel rifugio fantasma per i migranti che sognano la Francia: “Gli diamo noi le scarpe” di Marco Imarisio Corriere della Sera, 10 marzo 2024 A Oulx, sulle Alpi, tra gli operatori che aiutano i disperati: “Molti non hanno idea del gelo che li aspetta in quota. Uno su due ce la fa, chi viene respinto torna e ci riprova”. Nel piazzale della stazione non c’è nessuno. Il bar è chiuso. L’app meteo dell’iPhone fa sapere che siamo abbondantemente sottozero. Sono le 20 della prima domenica di marzo. I quattro ragazzi di colore appena scesi dalla corriera giunta da Torino si guardano intorno sperduti. Due di loro calzano scarpe di tela che al primo affondo nel cumulo di neve ai bordi della strada si inzuppano. I fari della Volante che sopraggiunge ad andatura lenta li paralizzano. L’agente sul sedile accanto alla guida apre la portiera, ma non scende neppure dall’auto. Non chiede documenti, non fa domande. Perché dovrebbe, in fondo sa già tutto, è la solita storia. “Prendete dritto per quel viale, che si chiama Montenero” dice recitando una formula che conosce e memoria, aiutandosi con i gesti e con un francese rudimentale. “Poi quando vedete il cartello girate a sinistra, fate ancora cento metri e siete arrivati”. Un mondo parallelo - Entrare al Rifugio Massi di Oulx significa scoprire in fondo a questa estrema periferia d’Italia, sulle pendici al limite della Val di Susa così orgogliosa di sentirsi “il punto più lontano da Torino”, un mondo parallelo. E anche un po’ capovolto, se vogliamo. Un mondo dove la Polizia italiana aiuta i migranti a trovare l’indirizzo giusto, e una volta che questi sono arrivati, i volontari si prendono cura di loro, preparandoli all’inevitabile traversata delle Alpi che li attende, insieme al probabile respingimento da parte della Polizia francese. Forniscono a ognuno il giaciglio per una o due notti, acqua e cibo, soprattutto scarpe e indumenti adatti, perché nessuna di queste persone ha la minima idea di quanto possano scendere le temperature in alta montagna. Spesso non ci credono, devono essere convinti a coprirsi il meglio possibile. Ma ogni volta che la Gendarmerie li riporta indietro, e la Polizia italiana li riporta al rifugio, quasi sempre ci riprovano. Letti e container - La sede iniziale si chiamava Ostello del pellegrino, e in un certo senso è stata mantenuta la denominazione originaria. Nel 2018, di fronte alla crisi indotta dall’apertura della rotta balcanica, un prete di paese, don Luigi Chiampo di Bussoleno, decise che non si poteva più stare a guardare. Tre anni dopo, causa afflusso sempre più forte, il trasferimento nel palazzo accanto, un edificio che accoglieva le colonie estive dei gruppi salesiani. A guardarla da fuori, sembra una caserma, con il cancello automatico illuminato da un faro, con sopra la scritta area protetta. Tre piani, settantadue posti letto, camere da quattro posti. In cortile, due container con dentro altre sedici brande, per le emergenze. Alla fine dell’estate scorsa, pochi giorni dopo l’ennesimo intasamento del collo di bottiglia a Lampedusa, c’erano oltre 340 persone e molti dormivano per terra, nei corridoi. Compresi gli undici operatori, che ruotano in coppia su turni da ventiquattro ore, ai quali si affiancano spesso almeno due volontari. “Accogliamo persone già respinte al confine e persone che rischiano di rimanere bloccate a tremila metri d’altezza. Sappiamo che comunque ci proveranno. Noi cerchiamo di metterli in sicurezza”. “Avete fame?” - La prima cosa è capire da dove vengono. Con i suoi quattro anni di rifugio, Marco Lis è ormai un veterano. Cinquantasettenne, francescano secolare, quindi laico, prima lavorava nell’edilizia come capocantiere. Ormai sono quasi le 22. La sala mensa al pianterreno è deserta. Mentre parliamo, arrivano i quattro ragazzi, che dopo tanto girare hanno finalmente trovato la strada. La procedura è veloce come ogni cosa che viene ripetuta decine di volte al giorno. “Avete fame?” è sempre la prima domanda. Intanto Ali, l’altro operatore, ex muratore di Bussoleno, si è già portato avanti mettendosi ai fornelli. I ragazzi non hanno appetito. In stanza, allora. “Non si fuma in camera e nei corridoi”. Domani mattina avranno in mano un foglio con le istruzioni per non farsi del male lassù in montagna, avranno vestiti e scarpe adeguate, e si avvieranno verso la piazzola da dove partono gli autobus per Claviere, il punto dove inizia la traversata. L’unica regola per l’identificazione dei migranti è che non esistono regole. “Non prendiamo mai i nomi, non chiediamo documenti, non è il nostro lavoro” dice Lis. “L’unica eccezione fu durante il periodo del Covid, per ragioni sanitarie. Questo è un luogo di accoglienza e di ristoro. Sono tutti di passaggio, non si fermano, e non aspettano”. Il respingimento da parte dei francesi - La vita del rifugio è scandita dall’arrivo dei treni e degli autobus da Torino. Ore 19, ore 21, ore 23. Poi, si aspetta l’inevitabile comparsa del furgone della Polizia italiana che riporta indietro quelli che sono stati intercettati, con i droni, con i cani, con le cattive maniere, dai loro colleghi francesi. Le stagioni invece sono segnate dai flussi. Nel 2022 erano soprattutto afghani e iraniani, giugno-luglio dell’anno scorso tantissimi sudanesi, quest’inverno quasi sempre nordafricani francofoni. La bambina afghana - È una notte tranquilla. C’è tempo per parlare. Dal mazzo dei ricordi, Lis estrae quello di una bambina afghana che gli è rimasta nel cuore. Il suo nome, tradotto in italiano, significava libertà. “Erano una famiglia di cinque persone. Arrivati qui nell’inverno del 2021, da Trieste, passando per la Svizzera, un giro assurdo. In quattro giorni, sono stati respinti tre volte. Erano esausti, e disperati. La bimba disegnava pesciolini, e me li regalava. Otto-nove anni, al massimo. Nonostante tutto, aveva un sorriso che, non lo so, non dovresti affezionarti, ma ogni tanto succede, è inevitabile. Al quarto tentativo, passano. All’inizio della primavera seguente, faceva ancora freddo, suona il citofono. Vado io ad aprire. La bambina mi salta in braccio e mi stringe forte, contenta di rivedermi. Avevano fatto il giro. Espulsi, rimandati indietro, avevano presentato di nuovo domanda di asilo in Slovenia, ed erano di nuovo qui, a fare un altro tentativo”. Il valico in montagna - “Lassù è pieno di africani”. Le vecchie guide alpine al banco del bar Roma di Claviere hanno il gusto del macabro. Ma affermano anche una mezza verità. L’autobus di linea si ferma alle otto di sera, e ne scendono i migranti saliti a Oulx. La rotta alpina comincia qui. Il Monginevro incombe, basta alzare la testa verso le sue cime coperte dal buio per capire che valicarlo è una impresa da disperati. La via bassa comincia alla fine delle stradine del paese, è la più sicura ma anche la più pattugliata dalla Paf, Police aux frontières, che spesso comincia il suo lavoro ben prima del confine, fissato sul colle più alto. La strada e i cadaveri tra i crepacci - La strada buona è quella più a nord, dietro all’hotel Miramonti, che però conduce fin sullo Chaberton e ai suoi crepacci, e poi obbliga i migranti a piegare verso la Francia attraverso sentieri spesso incerti, sepolti dalla neve. Ogni primavera, al disgelo, viene fatta qualche triste scoperta. Una media di due all’anno, ma durante la stagione della rotta balcanica i ritrovamenti di cadaveri congelati furono molti di più. “Gli afghani sono i più duri da convincere al rinvio della traversata quando il tempo è orribile” sospira Lis. “Rischiano molto, perché sono gli unici a conoscere le montagne. Ma non le nostre”. L’impegno di Don Chiampo - Don Chiampo ripete spesso, a sé e agli altri, che “bisogna farcela e ce la faremo”. Non si riferisce alla traversata dei migranti, ma alla cura delle loro vite. “Nessuno deve morire di freddo e di stenti sulle nostre montagne”. Prima di maturare la sua fede, era stato operaio in una fabbrica della valle, e prima ancora maratoneta di buon livello. La sua missione, che divide con il lavoro pastorale, accresciuto dalle crisi delle vocazioni che lo hanno portato a “gestire” quattro diverse parrocchie, è questa. “Gestiamo una emergenza che in senso tecnico non è più tale da molto tempo, è solo una realtà di fatto. Noi siamo l’altra faccia della medaglia: si parla sempre dei barconi carichi di centinaia di migranti che vogliono invadere l’Italia. Forse per questo, si tace sulle migliaia di profughi che cercano in ogni modo di andare via, e che sono solo in transito entro i nostri confini”. “Come rimpiattino” - Nel 2023, oltre quindicimila persone hanno dormito qui almeno per una notte. Tremila in più del 2022, che pure fu l’anno del maggiore afflusso. La statistica basata sulla propria esperienza fa dire agli operatori e ai volontari che uno su due ce la fa. E il novanta per cento di quelli respinti ci riprova almeno un’altra volta, prima di rassegnarsi non certo a restare, ma a trovare un altro varco, altrove, lungo i confini porosi del nostro nord. “Alla fine, questo rimpiattino tra Italia e Francia è una specie di recita fatta sulla pelle dei migranti, che serve solo a far vedere che esistono i controlli alle frontiere” dice Marco Lis. La riconsegna dei migranti respinti - Manca poco all’alba, adesso c’è la parte grossa del lavoro quotidiano. Pulizia della cucina, preparare la colazione alla cinquantina di ospiti che tra poco si alzeranno determinati a salire sulla montagna, riunione in sala mensa per spiegare loro i pericoli a cui vanno incontro, vestizione. Mentre ci salutiamo, suona ancora il citofono. Dal furgone della Polizia italiana scendono cinque adolescenti africani, molto probabilmente sudanesi, trovati semiassiderati sui sentieri dalla Gendarmerie francese. Dopo l’identificazione da parte della Paf e il “refus d’entrée” sono stati consegnati ai nostri agenti sul piazzale della stazione. Ricomincia il giro, come ogni giorno. Il Rifugio Massi è sempre la casella di partenza e quella a cui si ritorna, nel gioco della nostra ipocrisia. Medio Oriente. L’Unrwa contro-accusa: “Torture sul nostro staff” di Chiara Cruciati Il Manifesto, 10 marzo 2024 Il rapporto dell’agenzia delle Nazioni unite, sotto attacco: pestaggi, waterboarding, aggressioni con i cani, violenze sessuali, i metodi usati negli interrogatori. Israele: 450 impiegati sono miliziani. Ma non dà prove. Canada e Svezia riprendono i finanziamenti. Il sistema di ingresso e distribuzione degli aiuti a Gaza, ideato da Israele, è pensato per non funzionare: ritardi, blocchi improvvisi, liste fantasma di prodotti off limits, dai sacchi a pelo alle merendine al cioccolato “perché non sono beni essenziali”. Se l’unica reale soluzione alla catastrofe umanitaria resta il cessate il fuoco, in assenza di tregua il modo migliore per attenuarla è aprire i valichi terrestri. Non avviene nemmeno questo e gli alleati occidentali di Israele si inventano di tutto, dai paracaduti ai porti galleggianti. C’è poi un altro strumento, più sottile, per far inceppare il meccanismo: legare le mani all’Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, l’unica in grado di gestire il flusso (scarso) di aiuti e di coordinare il lavoro delle altre agenzie. Per un motivo semplice: lo fa da sette decenni. “Per chiunque sarebbe difficile operare a Gaza, ma l’Unrwa è pioniera - ci spiega Adnan Abu Hasna, portavoce nella Striscia - Ha la capacità, l’esperienza e lo staff adatto. Stiamo già parzialmente lavorando alla mappatura dei danni in vista di una ricostruzione”. Nei giorni scorsi Abu Hasna era in Egitto per incontrare la delegazione italiana organizzata da Aoi. È nato a Rafah, ma da anni vive a Gaza City. A Rafah ci è tornato da sfollato. Pochi giorni fa un vicino gli ha inviato la foto della sua casa: “È parzialmente distrutta. Ma quella fotografia mi ha regalato un po’ di gioia: ho visto i miei due cani, sono ancora vivi”. “Da anni avvertiamo i vertici politici israeliani che dicono di voler chiudere l’Unrwa: al suo posto emergerebbero gruppi di potere radicali”, dice. Eppure il lavoro di delegittimazione, in corso da anni per motivi politici (farla chiudere significherebbe cancellare lo status di profugo palestinese e di conseguenza il diritto al ritorno), ha trovato nuova linfa nelle accuse mosse dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre che ha ucciso oltre 1.100 israeliani e ne ha rapiti 253. Lo scorso lunedì il raggio dell’addebito si è ampliato: ai 12 impiegati palestinesi accusati di aver preso parte all’attacco e per cui Tel Aviv non ha ancora fornito prove, se ne aggiungerebbero altre centinaia. 450 per l’esattezza, ha detto il portavoce dell’esercito israeliano Daniel Hagari, sono membri di organizzazioni armate. Anche qui, nessuna prova né nomi, sebbene più volte la stessa agenzia abbia chiesto a Tel Aviv di rendere disponibile ogni informazione possibile. SEDICI PAESI occidentali hanno sospeso i finanziamenti (un totale di 450 milioni di dollari, metà del budget annuale) sulla base delle accuse verbali israeliane. Qualcosa è cambiato nelle ultime ore: dopo l’Unione europea che ha annunciato la scorsa settimana l’invio di 50 milioni di euro, Canada e Svezia ieri hanno deciso di riprendere i pagamenti. Stoccolma invierà 19 milioni di dollari, mentre Ottawa spiega la decisione con “i bisogni urgenti dei civili palestinesi” e il riconoscimento che “un robusto processo investigativo è in corso”. Forse, a sbloccare la situazione, è stato anche il rapporto interno compilato da Unrwa a febbraio e che, fa sapere la portavoce Juliette Toma, sarà girato alle Nazioni unite. Si parla di ricorso sistematico alla tortura da parte delle autorità israeliane su impiegati dell’Unrwa arrestati a Gaza. Trattamenti simili a quelli raccontati da altri ex prigionieri (1.002 i rilasciati a valico di Kerem Shalom fino al 19 febbraio, palestinesi tra i sei e gli 82 anni) e da testate israeliane e internazionali. “I membri dell’agenzia sono stati sottoposti a minacce e coercizione in custodia e costretti a rilasciare false dichiarazioni contro l’agenzia, compresa l’affiliazione ad Hamas e la partecipazione all’attacco del 7 ottobre”. Pestaggi, waterboarding, minacce ai familiari, aggressioni con i cani, violenze sessuali, alcuni dei metodi usati negli interrogatori. Sentito in merito, l’esercito non ha risposto limitandosi a dire che i singoli casi saranno oggetto di inchieste interne. “Il rapporto si fonda su testimonianze dirette delle persone - ha aggiunto Touma - In molti casi era chiaro l’impatto fisico sui loro corpi. E anche quello psicologico”. “Dopo la ripresa di alcuni finanziamenti siamo in grado di fornire cibo fino a fine luglio - ci diceva Scott Anderson, capo dell’Unrwa a Gaza, al valico di Rafah pochi giorni fa - Ma il problema resta la distribuzione. A Rafah la popolazione soffre già la fame, ma a nord di Wadi Gaza parliamo di carestia (25 i morti per fame, ndr). Serve tutto, cibo, acqua, rifugi. Ma soprattutto speranza, tanto più con l’inizio del Ramadan, che qui ha un significato simbolico importante”. Con alle spalle il valico, prima di rientrare a Gaza, Anderson insiste sulla magnitudo dell’offensiva: “La differenza con altri conflitti sta nel tempo e la dimensione: una popolazione sfollata quasi nella sua interezza, 25mila donne e bambini uccisi, 100mila tra morti, dispersi e feriti. Noi facciamo il possibile: nonostante l’uccisione di 152 colleghi, il nostro staff è incredibilmente coraggioso. Ho persone che hanno perso i familiari e che il giorno dopo erano già al lavoro”. Nell’indifferenza del mondo, il Sudan resta un inferno di Antonella Napoli L’Espresso, 10 marzo 2024 Il conflitto scoppiato nel 2023 ha causato migliaia di morti e spinto 11 milioni di persone a fuggire. Chi resta è in balia di violenze e carenza di cibo. Nel silenzio della comunità internazionale. Suliman Ahmed Hamid ha profondi occhi scuri. Uno sguardo che non lascia indifferenti, nonostante la luce che li faceva brillare sia offuscata da stenti e dolore. Italiano d’adozione, 69 anni, di cui 15 trascorsi a Roma, Suliman è fuggito dal Sudan in guerra. Emblema del dramma di un popolo dimenticato, la sua storia inizia con il nuovo conflitto scoppiato il 15 aprile del 2023, che ha costretto 11 milioni di persone a scappare dalle loro case e ha causato un numero incalcolabile di morti. Almeno 20 mila, la maggior parte provocati dai bombardamenti delle Forze armate sudanesi, ma anche dalla ripresa della pulizia etnica nella regione del Darfur perpetrata dalle Forze di supporto rapido (Rsf) che si contrappongono all’esercito regolare. Crimini di guerra per i quali il procuratore capo della Corte penale internazionale, Karim Khan, ha annunciato all’Onu un’inchiesta, in particolare sulle atrocità commesse nell’ultima fase del conflitto in Darfur che prosegue a fasi alterne da oltre 20 anni. Gran parte dei quartieri della capitale Khartoum, dove Suliman viveva con la moglie e tre figli, sono stati rasi al suolo dai costanti raid dell’aviazione sudanese e sono stati saccheggiati dalle milizie paramilitari. Città bellissima e moderna, mai toccata nella sua storia recente dal dramma della guerra, la capitale del Sudan da oltre dieci mesi vede compiersi una devastante autodistruzione. Mentre 18 milioni di persone nel Paese, di cui 3,8 milioni di bambini sotto i cinque anni, sono ridotte alla fame. Tutto nell’indifferenza della comunità internazionale. Lo sa bene Suliman che, pur avendo ottenuto documenti italiani e il ricongiungimento dei familiari, continua a essere ignorato dalle nostre istituzioni, nonostante la sua richiesta di aiuto. Nel 2015 il protagonista di questa vicenda aveva deciso di tornare in patria. Credeva giusto, avendo raggiunto una stabilità economica e sociale, di dover fare qualcosa di concreto per la “sua” martoriata gente. Ma le speranze dell’avvio di un percorso democratico “promesso” dall’allora rieletto presidente, l’ex generale golpista Omar Hassan al-Bashir, si infransero in pochi mesi. Suliman, esponente dell’opposizione e attivista, era comunque rimasto creando un’organizzazione umanitaria non governativa per aiutare le popolazioni sfollate in Darfur. Ma nel 2023, dopo il rovesciamento del regime di Bashir determinato dalle rivolte del 2019, che sono costate la vita a migliaia di manifestanti, è scoppiato il conflitto più feroce di sempre. Questa volta Suliman non ha potuto far altro che fuggire con la sua famiglia, o ciò che ne restava. Hanno provato a resistere, seppure tra mille difficoltà, il più a lungo possibile. Ma la chiusura dei mercati, la mancanza di cibo e di materie prime, gli scontri che si avvicinavano alle abitazioni si sono rivelati condizioni insopportabili che hanno messo a dura prova la loro profonda resilienza. Quando i combattimenti sono arrivati a poche centinaia di metri dal suo quartiere, Suliman ha capito che rischiavano di rimanere imbottigliati tra le parti in conflitto, in una città ridotta in macerie. La capitale ormai si era trasformata in un campo di battaglia senza distinzione tra obiettivi civili e militari. In molti, soprattutto i più giovani, tra cui suo figlio minore Ahmed, erano partiti per Port Sudan, da dove provare a raggiungere l’Egitto via Port Said e sottrarsi così agli arruolamenti forzati. Suliman aveva pensato di tornare in Darfur, la sua regione di origine. Ma anche lì la situazione non era affatto rassicurante. Da Nyala, la capitale del Sud, era arrivata la notizia dell’uccisione di due parenti e di un amico di famiglia sulla soglia di casa. “Suliman e i suoi familiari avevano trovato riparo presso uno zio. A un certo punto, le comunicazioni si sono interrotte, facendo pensare al peggio”, afferma una fonte sul campo, un operatore umanitario impegnato in varie aree dell’Africa sub-sahariana che per motivi di sicurezza chiede l’anonimato. “In Darfur, a fare vittime sono le milizie Rsf. Ogni giorno si susseguono uccisioni di massa, stupri e rappresaglie contro la popolazione in fuga. A essere presa di mira è la gente di pelle nera, in particolare quella di etnia Masalit. Migliaia di civili vengono sequestrati, massacrati in strada, le donne vengono violentate mentre cercano di raggiungere a piedi il confine con il Ciad (dove sono già presenti oltre 500 mila rifugiati sudanesi, ndr) per sfuggire alle violenze e ai combattimenti”, conclude. Suliman e i suoi familiari non possono fare altro che riprendere il viaggio, dal Sudan all’Etiopia, trovando infine riparo in un centro di accoglienza per profughi allestito dalle Nazioni Unite nel distretto etiope di Gondar. La situazione all’interno dell’accampamento è al limite della sopravvivenza. In migliaia sono costretti a una convivenza forzata, con tutte le conseguenze del caso. Suliman, che riesce a comunicare attraverso un numero sudanese con sua figlia Amane, che vive in Germania, racconta che nel campo è in corso un’epidemia di colera. La tensione è alle stelle, miliziani armati girano all’interno del campo, aggredendo e derubando i profughi con la minaccia delle armi. Suliman Ahmed Hamid, italiano d’adozione, è tornato in Sudan dal 2015. “Alcuni giorni fa un uomo di origine eritrea è stato picchiato ferocemente vicino alla nostra tenda - racconta Suliman - degli uomini armati gli hanno chiesto il telefono e, davanti al suo rifiuto, lo hanno colpito con violenza. Non è intervenuto nessuno, nemmeno una guardia del campo che ha assistito alla scena”, continua sconsolato l’attivista. Oltre alla sicurezza, ciò che manca a Gondar è il cibo. Suliman, tra l’altro, ha problemi di salute. Per questo ha affrontato più volte il viaggio verso il vicino ospedale gestito dalle Nazioni Unite per poter ricevere così le cure necessarie. Poche settimane fa, lungo la strada che conduce alla struttura sanitaria, l’ambulanza è stata fermata da uomini armati delle milizie Fano. Lui e gli altri che erano a bordo sono stati portati nella boscaglia. “C’erano due ragazzi, giovanissimi, anch’essi arrivati dal Sudan, che non avevano un soldo e nemmeno il cellulare. Le milizie allora hanno detto che potevamo essere uccisi. Ma il caso ha voluto che con noi ci fosse anche una donna eritrea in possesso di una discreta somma di denaro, frutto di anni di contributi Onu ricevuti come rifugiata politica. Dovevano servirle per acquistare dei biglietti aerei per Addis Abeba, per sé e per la sua famiglia. Invece, quel denaro ha fatto la differenza tra la morte e la salvezza per tutti noi”, ha spiegato Suliman alla figlia, una volta rientrato al campo, dove gli è stato fornito un nuovo telefono. Raccontare la storia di Suliman significa parlare di milioni di rifugiati e delle condizioni estreme in cui vivono. Gente in fuga dal baratro della guerra, esseri umani sradicati dalle loro case, in balìa degli eventi e del tempo. “Per giorni interi non arriva cibo. Veniamo affamati”, denuncia Suliman che accusa coloro che gestiscono la distribuzione alimentare nel campo di avere messo in piedi una vera e propria “mafia” degli aiuti, a spese di coloro che ne hanno bisogno. Un inferno da cui - in quanto italiano d’adozione - chiede di essere salvato. Tenere la luce accesa sulle donne afghane di Marta Serafini Corriere della Sera, 10 marzo 2024 È stato un 8 marzo che ha visto il dibattito sui media concentrarsi giustamente sui diritti delle donne nel nostro Paese e all’estero ma che si è scordato di Kabul. Le ragazze italiane, quelle iraniane, le ucraine, le israeliane e le palestinesi. È stato un 8 marzo che ha visto il dibattito sui media concentrarsi giustamente sui diritti delle donne nel nostro Paese e all’estero ma che si è scordato delle afghane. Quelle stesse giovani di cui abbiamo parlato e scritto per oltre 20 anni ora sembrano essere scivolate nell’oblio, come se le loro sofferenze e le loro privazioni non ci riguardassero più. Eppure le afghane sono le uniche al mondo cui viene vietato per legge di studiare all’università. Dovrebbe bastare questo a costringerci a restare vigili. Inoltre quelle stesse donne, nonostante i pericoli e il rischio di essere fustigate, incarcerate, torturate e uccise dal regime dei talebani, trovano il coraggio per organizzare manifestazioni di protesta nelle piazze di Kabul, Herat, Mazar-i-Sharif. Piccoli gruppi: sette, otto, dieci al massimo. Con minuscoli ma importanti cartelli. Lo hanno fatto anche venerdì mentre Richard Bennett, relatore speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani in Afghanistan, invitava il governo talebano “a rilasciare immediatamente e incondizionatamente tutti coloro che sono stati arbitrariamente detenuti per aver difeso i diritti umani, in particolare i diritti delle donne e delle ragazze”. A noi il compito di tenere la luce accesa su un Paese da cui le nostre forze militari si sono ritirate ma che non possiamo pensare per questo di lasciare indietro, con l’illusione che il suo destino non ci riguardi più.