Quanto è difficile “aprire una finestra di speranza” per i detenuti dell’Alta Sicurezza Ristretti Orizzonti, 9 gennaio 2024 La redazione di Ristretti Orizzonti, composta da persone detenute, volontarie e volontari, da venticinque anni si riunisce praticamente ogni giorno intorno ad un tavolo nella Casa di reclusione di Padova per discutere, approfondire, studiare, trovare risposte e proposte su tematiche complesse che riguardano il carcere. Da più di dieci anni ne fanno parte anche persone detenute nel circuito di Alta Sicurezza, nell’ambito di una sperimentazione importante, che punta a un lavoro di responsabilizzazione di tutti, anche di quelli che l’Istituzione spesso “condanna” a restare cattivi per sempre, gli ex appartenenti alla criminalità organizzata. Non ci piace la definizione “pianeta carcere”, perché fa pensare a un mondo alieno, mentre in carcere sono rinchiuse PERSONE con la loro umanità, ma che il carcere rischi di diventare un pianeta a sé, in cui, purtroppo, molto spesso la legge è infranta, la logica salta, è realtà che noi, persone detenute e volontari, sperimentiamo ogni giorno. Andando sempre, per dirla con De Andrè, in “direzione ostinata e contraria “, noi però non ci siamo finora arresi, consapevoli che fare comunicazione rispetto alla detenzione richiede pazienza, costanza e gentilezza. L’espressione “gentilezza”, può risultare un paradosso, se si pensa che molti, fra i nostri redattori, sono responsabili di reati gravissimi, di fronte ai quali però, incontro dopo incontro, ci dedichiamo non a cercare giustificazioni, ma a comprendere e spiegare quali possano essere i contesti e i percorsi che conducono una persona a compiere l’irreparabile. Per questo è imprescindibile usare “gentilezza”, sforzarsi di trovare parole che lascino spazio sempre e comunque al confronto, non imporre mai, ma sempre proporre il nostro punto di vista. Tommaso Romeo è parte della nostra redazione da dieci anni: con costanza, intelligenza, determinazione e coraggio, si è seduto intorno al nostro tavolo, partecipando alle discussioni, presentando la propria posizione e arricchendo il nostro ragionamento con lucidità e onestà intellettuale, venata talvolta, quando la sofferenza era tanta, da una sottile e malinconica ironia. Tommaso ha portato testimonianza del suo passato di fronte a migliaia di ragazze e ragazzi delle scuole superiori che entrano in carcere per un progetto di confronto tra le scuole e il carcere, ma anche in diversi collegamenti online con scuole di Reggio Calabria, si è rivolto alle classi, spiegando quale sia stato l’esito delle sue scelte: il dolore provocato alle vittime e ai suoi familiari, la sofferenza del 41 bis, la miseria della vita detentiva. Giovedì 4 gennaio gli è stato comunicato che doveva raccogliere le sue cose e prepararsi per un trasferimento in un altro carcere, probabilmente Oristano, per motivi di “ordine e sicurezza”. Quando ci ha spiegato, intorno al tavolo, quello che sarebbe accaduto, siamo rimasti per qualche minuto sconfortati, senza parole… poi è prevalsa la volontà di capire, di trovare risposte, e fra tutte le domande ce n’è una per la quale desideriamo in particolar modo avere una risposta: se, in base al secondo articolo della nostra Costituzione, vi sono diritti che spettano ad ogni persona come essere umano e se per l’articolo 27 della Costituzione, ogni persona è “presunta non colpevole” fino a sentenza definitiva, qual è la ragione per un trasferimento disposto nei confronti di Tommaso Romeo, per fatti che risalgono al 2016-2017 e per i quali per ora non c’è nemmeno un rinvio a giudizio? A Padova poi si aggiunge il fatto che fra poco devono ristrutturare la sezione AS1, e la paura è che trasferiscano “provvisoriamente” i detenuti di AS1 in diverse carceri, e questo vorrebbe dire annullare tutti i percorsi che hanno fatto. Perché, con un colpo di spugna, si sono cancellati anni d’impegno nella nostra redazione? Tommaso non sarà più recluso nel carcere “Due Palazzi”, ma è sempre parte della nostra redazione, uniamo e uniremo la sua voce alle nostre, aspettando, nonostante tutto con fiducia, una ragionevole risposta, e ricordando che, come dice Papa Francesco, è disumana una pena che non tiene aperta una finestra di speranza. A cura della redazione di Ristretti Orizzonti Lettera a mio padre, di Francesca Romeo Ciao papà, non so se in questo momento già ti hanno trasferito o sei ancora lì a Padova ad aspettare questo trasferimento. Una notizia arrivata inaspettatamente proprio quando le cose stavano andando nel verso giusto. Stavi facendo un percorso importante, avevi preso dei permessi dove ti sei messo in gioco soprattutto con le scuole, portando la tua testimonianza. Proprio adesso arriva questo trasferimento, proprio ora che ti dovevo portare mio figlio, Tommasino, proprio ora che stavi avendo tante soddisfazioni. Purtroppo quando me l’hai detto ho letto nei tuoi occhi la delusione e l’amarezza, tu sei bravo a nascondere i tuoi stati d’animo, ma quella mattina l’ho visto e non potrò mai dimenticare quello sguardo di delusione, ed è vero non te lo meritavi perché questo vuol dire tornare indietro e non è giusto. Proprio tu che testimoniavi agli studenti che a fare le scelte sbagliate uno si brucia la gioventù, proprio tu che mi hai fatto mettere la faccia insieme alla tua (l’anno scorso eri uscito in permesso per andare a portare la tua testimonianza in una scuola e siamo andati insieme, sono venuta anch’io, e a vedere tutti quei ragazzi che ascoltandoci si emozionavano io mi emozionavo peggio di loro, è stato bello fare qualcosa di costruttivo e importante insieme) dove affermi che purtroppo i tuoi errori non ti hanno portato a niente, anzi ti hanno portato a rovinarti la vita, e che se solo potessi tornare indietro non l’avresti mai fatto, proprio adesso arriva questo trasferimento! Sì è vero non l’ho accettato e non lo accetterò perché non te lo meriti, non ce lo meritiamo. Mi domando dov’è la giustizia, doveva premiarti per il percorso fatto invece ti punisce con un trasferimento in un carcere punitivo. Non lo accetto tutto questo, ma ti prometto che anche in capo al mondo io verrò a trovarti come ho sempre fatto, sarò forte per te proprio perché non ti meriti questo trasferimento. È vero abbiamo girato quasi tutta l’Italia dal nord al sud e dal sud al nord, la Sardegna ancora ci mancava, ma dopo 31anni di carcere di cui 8 di 41-bis dove ci hanno negato pure il diritto di volerci bene, dopo 6 permessi e un percorso rieducativo significativo non te lo meritavi, mi dispiace solo per te papà perché non so se questo carcere dove andrai ti permetterà di avere una vita dignitosa come ce l’avevi lì a Padova o ti terrà tutto il giorno chiuso in una cella. Mi auguro di no, ma mi sento impotente, per tutto questo non posso fare nulla, purtroppo sei nato al sud in un contesto sbagliato. Certe volte penso che tutto questo non è servito a nulla, visto che siamo al punto di partenza e non so come potresti dimostrare a chi decide che tu sei una persona veramente cambiata. E così siamo ancora con la valigia in mano, ma purtroppo non per tornare a casa Un altro suicidio in carcere di una persona che non doveva essere in carcere di Luca Sofri ilpost.it, 9 gennaio 2024 Matteo Concetti per i suoi disturbi psichiatrici avrebbe dovuto essere ospitato in una struttura sanitaria, e non ad Ancona Montacuto. Il 5 gennaio nel carcere di Ancona Montacuto, nelle Marche, è morto il 23enne Matteo Concetti: secondo le informazioni fornite dal carcere si sarebbe suicidato con un lenzuolo mentre era in cella di isolamento. È un caso particolarmente problematico perché Concetti aveva una patologia psichiatrica, ha fatto sapere la famiglia, e nonostante questo un giudice aveva deciso che dovesse scontare la sua pena in carcere. Normalmente per le persone con disturbi psichiatrici dovrebbe essere prevista la detenzione in strutture diverse dalle carceri ordinarie, o a seconda dei casi almeno in uno che abbia un reparto specifico per detenuti con un’infermità psichica: quello di Ancona non ce l’ha. Non è la prima volta che nelle carceri italiane si suicida una persona con disturbi psichiatrici che non avrebbe dovuto essere detenuta in un carcere: era successo per esempio anche a giugno del 2022 nel carcere di San Vittore di Milano. Il problema è noto e ha a che fare con la carenza di strutture adeguate a ospitare chi soffre di disturbi psichiatrici, ma in questi anni non è stato fatto molto per risolverlo e non sono state costruite nuove strutture di questo tipo. La famiglia di Concetti ha denunciato il carcere per istigazione al suicidio, sostenendo che la sua morte si sarebbe potuta evitare. La madre, Roberta Faraglia, ha detto in un’intervista a Repubblica di aver avvertito in vari modi il carcere che il figlio aveva manifestato l’intenzione di suicidarsi, ma non è stato fatto abbastanza per tutelarlo: anzi, era stato messo in cella di isolamento nonostante la sua patologia. La sua storia ha avuto ampia diffusione dopo che l’ha raccontata Ilaria Cucchi, che è una senatrice dell’Alleanza Verdi e Sinistra, si occupa da tempo di diritti dei detenuti ed è in contatto con la famiglia di Concetti. Cucchi è anche sorella di Stefano Cucchi, il ragazzo romano trovato morto il 22 ottobre del 2009 in una stanza del reparto protetto dell’ospedale Sandro Pertini di Roma. Concetti stava scontando una pena per alcuni reati minori che finora non sono stati descritti nel dettaglio, ma solo definiti genericamente “reati contro il patrimonio” (quelli che comprendono per esempio furti e rapine). Aveva scontato gran parte della sua pena con misure alternative alla carcerazione: prima per due anni in una comunità terapeutica (una struttura per il recupero di persone che hanno dipendenze), poi agli arresti domiciliari ma con la possibilità di uscire per andare a lavoro. Un giudice aveva stabilito che dovesse andare in carcere dopo che un giorno era tornato a casa dal lavoro con un’ora di ritardo rispetto all’orario di rientro stabilito. Era quindi stato per due mesi nel carcere di Fermo, sempre nelle Marche, per poi essere trasferito ad Ancona circa due mesi fa. Avrebbe dovuto scontare ancora 8 mesi di carcere per finire la sua pena. La madre ha raccontato che soffriva da tempo di un disturbo bipolare che stava curando, e per questo ritiene ingiusta la scelta della carcerazione: “Lo hanno sbattuto in carcere per giunta dicendo che non era un soggetto a rischio”, ha detto a Repubblica, spiegando che la sua condizione patologica era facilmente dimostrabile con le cartelle cliniche ed era stata più volte ribadita dal suo avvocato al carcere. A Concetti inoltre era stato assegnato un amministratore di sostegno, una figura pensata per assistere e tutelare le persone non in grado di provvedere ai propri interessi, come anziani, persone con disturbi psichiatrici, disabilità e malattie degenerative o terminali. La legge italiana prevede che le persone con disturbi psichiatrici che commettono reati non possano essere messe in carcere, ma debbano invece essere assegnate a una REMS, Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza, cioè una delle strutture che dal 2014 sono progressivamente subentrate agli Ospedali psichiatrici giudiziari (OPG, che a loro volta sostituirono negli anni Settanta i vecchi manicomi criminali). Le REMS hanno l’obiettivo di evitare che alcune persone con disturbi psichiatrici possano essere socialmente pericolose, ma allo stesso tempo sono concepiti come istituti esclusivamente riabilitativi, gestiti solo da personale sanitario e volti al reinserimento delle persone che ospitano. La nascita delle REMS fu vista come un grosso cambiamento culturale rispetto ai vecchi ospedali psichiatrici giudiziari, che erano invece istituti di reclusione all’interno dei quali negli anni furono più volte denunciate condizioni inumane e degradanti. Il problema è che le REMS sono troppo poche: in tutta Italia ce ne sono una trentina, con poco meno di 600 posti disponibili, assai meno di quelli che servirebbero. Per renderle più efficienti infatti si decise di mantenere le REMS rigidamente a numero chiuso, in modo che le persone ospitate (20 al massimo, solitamente) potessero essere seguite con maggiore attenzione. Il risultato però è che le lista d’attesa per accedere sono molto lunghe, e ormai succede spesso che anche persone che dovrebbero legittimamente andare nelle REMS vengano mandate in carcere in mancanza di alternative. Per Matteo Concetti invece era stata decisa direttamente la detenzione in carcere, secondo la sua famiglia ingiustamente. Il garante dei detenuti delle Marche, l’avvocato Giancarlo Giulianelli, dice di non avere ancora avuto accesso alla cartella di Concetti e quindi di non poter confermare che avesse diritto ad andare in una REMS, ma aggiunge che “se aveva problemi psichiatrici accertati non ci sono dubbi: doveva essere mandato in una REMS”. Nell’antico e ancora in uso gergo carcerario le persone affette da patologie psichiatriche si dividono in due gruppi: i “folli rei” e i “rei folli”. I primi sono le persone incapaci di intendere e di volere ma socialmente pericolose e destinate da subito alle REMS. I secondi sono quelli il cui disturbo si aggrava o compare dopo l’ingresso in carcere. Per loro gli strumenti di cura devono essere garantiti all’interno del sistema penitenziario, ma è una cosa che avviene con difficoltà. Per questo all’interno di alcune decine di carceri italiane sono state introdotte le Articolazioni per la tutela della salute mentale (ATSM), sezioni che almeno in teoria dovrebbero essere a gestione prevalentemente sanitaria. Non si trovano in tutte le carceri, ma deve esserne garantita almeno una per regione. Tre storie dal carcere che testimoniano il fallimento del nostro sistema giustizia di Eleonora Martini Il Manifesto, 9 gennaio 2024 Ancona, la procura apre un fascicolo per istigazione. A Napoli si indaga per omicidio di un altro recluso nel carcere di Poggioreale. Tre storie dal carcere, tre storie che testimoniano in qualche modo il fallimento del nostro sistema giustizia, e non solo: due giovani detenuti morti nella Casa circondariale di Ancona e a Poggioreale ma che potevano e dovevano essere salvati, e il caso di un altro giovane, un nigeriano di 25 anni che ha dovuto attendere 20 mesi prima di ottenere - ieri - i domiciliari da scontare in una comunità, perché appunto sprovvisto di domicilio. Ieri la Corte d’appello di Napoli ha confermato per lui la pena di 5 anni emessa in primo grado per l’estorsione di pochi euro. La prima storia è quella di Matteo Concetti, detenuto 25enne originario del Fermano e incompatibile con la detenzione per via dei gravi disturbi psichiatrici di cui soffriva, al punto da essere tutelato da un amministratore di sostegno, che si sarebbe suicidato il 5 gennaio scorso nella cella del carcere di Montacuto dove era stato messo in isolamento. Una tragedia più che annunciata dallo stesso giovane che aveva confidato alla madre, Roberta Faraglia, la sua disperazione e la sua incapacità di sopravvivere ad una forma di detenzione che sentiva come tortura. Ieri la procura di Ancona ha aperto un fascicolo, al momento contro ignoti, per istigazione al suicidio. Il pm Marco Pucilli ha avviato l’inchiesta dopo l’esposto presentato dalla signora Faraglia ai carabinieri di Rieti, dove la donna è residente. La signora aveva chiesto in ogni modo che il giovane fosse aiutato e si era rivolta anche alla senatrice Ilaria Cucchi, che però non ha fatto in tempo ad intervenire. “Mio figlio aveva un disturbo psichiatrico accertato, era bipolare, in carcere non ci poteva stare. Tanto meno in isolamento, senza nessuno che lo controllasse, impaurito e agitato com’era”, ha spiegato agli inquirenti Roberta Faraglia. Suo figlio Matteo doveva scontare ai domiciliari un residuo di pena per reati contro il patrimonio commessi quando era minorenne. Ma aveva violato l’orario di rientro perciò era tornato in carcere a Fermo. Da lì era stato trasferito a Montacuto, dove aveva protestato insieme ad altri detenuti perché sosteneva si fossero violati i loro diritti e dove avrebbe aggredito un agente. Motivo per il quale era stato messo in isolamento. L’autopsia è prevista per venerdì 12 gennaio e sarà eseguita dal medico legale Raffaele Giorgetti. Qualcuno ha suggerito la soluzione “suicidio” anche per il caso di Alexandro Esposito, 33enne tossicodipendente di Secondigliano trovato morto alla vigilia dell’Epifania in una cella del Padiglione Napoli del carcere napoletano di Poggioreale dove era recluso insieme ad altri detenuti. Ieri si è svolta l’autopsia sul corpo del giovane, perché gli inquirenti sospettano invece l’omicidio, visto che i primi accertamenti medici e della polizia scientifica hanno rinvenuto sul cadavere segni di violenza e la presenza di un “materiale scuro liquido che fuoriusciva dal cavo orale”. Secondo il medico chiamato ad intervenire sul posto per certificarne l’avvenuto decesso, Alexandro Esposito era già in rigor mortis, ossia come se fosse morto molte ore prima. I risultati dell’autopsia saranno a disposizione degli avvocati nei prossimi giorni. Infine, dice molto anche la storia di Kelvin Egulbor, nigeriano di 25 anni che ha dovuto passare 20 mesi in carcere a Poggioreale perché non ha una casa dove scontare la detenzione domiciliare. Ieri però la Corte d’Appello, confermando la pena di 5 anni per aver minacciato un uomo di tagliargli la cappotta dell’auto se non gli avesse dato 2 euro per parcheggiare nella zona di Fuorigrotta a Napoli, ha concesso al giovane i domiciliari da scontare in una comunità del casertano. “Grande amarezza” per la sentenza hanno espresso il garante per il garante campano dei detenuti, Samuele Ciambriello, e l’avvocato difensore Salvi Antonelli, che aveva chiesto di derubricare “il reato “in violenza privata, dal momento che Egulbor è stato accusato di essere un parcheggiatore abusivo quando non lo era”. Carceri in rivolta, revisionismo e stretta sui giudici: i segnali che andrebbero osservati meglio di Davide Mattiello* Il Fatto Quotidiano, 9 gennaio 2024 Tra una nuova “Strategia della tensione” e lo Sturmtruppen di Bonvi (evocato da Gian Carlo Caselli su questo giornale) il confine può essere più labile del previsto ed i democratici rischiano di non essere pronti. Considerato che la gestione del potere non è mai un “pranzo di gala” ma piuttosto “sangue e merda” e che sarebbe davvero puerile pensare che gli “eredi-al-quadrato” (del Duce e di Berlusconi) non stiano facendo sul serio con il piano di “rinascita” nazionale, in sintonia con tutte le altre destre occidentali e con i desiderata del turbo capitalismo globale, forse andrebbero connessi e meglio osservati alcuni fatti che potrebbero essere la spia di un pericolo incombente. Un tipo di pericolo al quale i nati ed i cresciuti dopo il 1990 non sono abituati: disordinare per meglio ordinare. Quali sono i fatti? La tensione crescente nelle carceri. Una tensione alimentata da spinte distinte, ma che potrebbero non essere così distanti: ci sono i detenuti insofferenti che si ribellano (ancora recentemente nel carcere di Santa Maria Capua Vetere), gli agenti ancor più insofferenti che a volte menano (e finiscono sotto inchiesta per abusi e torture), c’è chi incredibilmente riesce a fuggire da un carcere di massima sicurezza, facendo perdere le proprie tracce (Marco Raduano, boss della mafia garganica, ormai quasi un anno fa) e c’è il governo che manda segnali: la nota vicinanza del sottosegretario Delmastro a certi ambienti della penitenziaria (con tanto di botti a capodanno), la volontà del governo di abolire il reato di tortura, la posizione dura del medesimo governo sul 41 bis. Le carceri sono sempre state un crogiolo decisivo di relazioni ed indicibili accordi e possono ancora esserlo, bisogna soltanto avere la capacità di mandare la pentola in ebollizione, altrimenti gli ingredienti non si combinano. La inaudita decisione di Chiara Colosimo, presidente della Commissione antimafia (nonostante quell’abbraccio insopportabile con l’ex Nar Ciavardini), di escludere dall’oggetto di investigazione della Commissione medesima proprio carceri e collaboratori di giustizia, pur avendo istituito ben dieci Comitati tematici che, come direbbe un vecchio ed esperto giornalista, si occupano di tutto dalla mafia caucasica ai gatti neri. Una decisione che impedirà ai parlamentati, tra l’altro, di conoscere e valutare le attività portate avanti nelle carceri dai Servizi di Informazione per la Sicurezza della Repubblica (i Servizi Segreti, insomma), anche relazionandosi con l’altra istituzione parlamentare ad hoc costituita, ovvero il Copasir. Una decisione peraltro in sintonia con quella di varare il più poderoso tentativo di revisionismo storico in funzione liberatoria degli “eredi-al-quadrato”, a partire dalla strage di Via D’Amelio. Una frase di Giletti intervistato da Gente: “Nel momento in cui affrontavo un certo tipo di problemi, davvero delicatissimi, la libertà è venuta meno. Non siamo pronti per aprire certi cassetti. Forse Cairo non poteva dirmela, la verità.” Queste parole mi ricordano che l’incarcerazione dell’ex senatore D’Alì, l’arresto e la morte di Messina Denaro, le esternazioni di Salvatore Baiardo, l’oscuramento di Giletti, il silenzio dei Graviano, non sono fatti sepolti con l’anno passato, ma fatti vivi, vegeti e portatori di conseguenze, che vanno molto al di là dell’arresto di qualche meschina fiancheggiatrice di un boss malato ed emarginato. La compressione, minacciata o agita, da un lato dell’indipendenza e della efficacia operativa della magistratura (dalla separazione delle carriere, ai limiti alle intercettazioni, fino ai vuoti di organico che in alcuni Tribunali diventano voragini, come denunciato ancora recentemente dal Procuratore di Reggio Calabria Bombardieri), dall’altro della libertà di informare (dall’emendamento Costa, alla pdl “diffamazione”, fino al tentativo di legalizzare lo spionaggio ai danni dei giornalisti per conoscerne le fonti e di “certificare” le notizie), che di fatto contribuisce ad inibire i due fondamentali “controllori” del potere. L’assalto alla Cgil del 9 ottobre 2021, per il quale sono stati condannati (tra gli strepiti dei camerati accorsi a sostegno dei loro ducetti) in primo grado Roberto Fiore, Giuliano Castellino ed altri, che ha avuto tutto il sapore di un rito di passaggio, di un preludio, ma anche di un orribile casting per accedere al palcooscenico dell’X Factor-politico. Sono seguiti poi “casting” minori attorno (e dentro!) a certe Università. Potrei continuare, ma (per ora) mi fermo qua. Una miscela potenzialmente esplosiva oppure un mix di “sgrammaticature” politiche? Conviene vigilare, perché la distrazione genera mostri: anche Gladio, pur nata con i migliori intenti ed i più alti placet, divenne presto ben altro. A meno di accreditare il timore di uno sbarco sovietico sulle coste di Mazara del Vallo, quando ormai i Righeira cantavano Vamos a la playa… Oh oh oh oh oh. *Attivista antimafia ed ex deputato del Partito democratico I detenuti aspettano ancora il Garante (senza esperienza) di Giulia Merlo Il Domani, 9 gennaio 2024 Tra sovraffollamento e emergenza suicidi, la maggioranza ha voluto come Garante dei detenuti l’ex deputato e civilista D’Ettore e la procedura sta andando per le lunghe. L’inizio 2024 nelle carceri italiane è stato identico a quello dell’anno precedente: all’insegna dei suicidi e del sovraffollamento. Il suicidio di Matteo Concetti nel carcere di Ancona - “annunciato” dalla stessa vittima e avvenuto il 5 gennaio, dopo i 68 del 2023 - infatti, apre un anno che si preannuncia già all’insegna dell’emergenza. Secondo gli ultimi dati pubblicati dall’associazione Antigone a fine 2023, infatti, i detenuti hanno superato la soglia delle 60mila unità, con un sovraffollamento medio del 125 per cento e con soli 48mila posti standard disponibili. Ma soprattutto, con un tasso di crescita del 7 per cento (circa 400 persone al mese) e la prospettiva di arrivare a fine anno a 67mila presenze. L’ultima volta in cui l’Italia arrivò a questo numero di presenze, subì una pesantissima condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo, nel 2013 con la ormai nota sentenza Torreggiani. Per capire il livello di allarme, l’ultimo indulto e amnistia risalgono al 2006 e vennero giustificati proprio con il sovraffollamento, che all’epoca sfiorava le 62mila presenze, appena 2mila più di oggi. In questa situazione, rischia di appannarsi la figura determinante per monitorare la condizione nelle carceri e soprattutto denunciarne gli abusi e le condizioni disumane, rappresentata dal Garante per i diritti delle persone private della libertà. Concluso il mandato di Mauro Palma, durato sette anni a causa di una proroga, il 21 dicembre il Quirinale ha firmato il decreto di nomina di Felice D’Ettore, nuovo garante individuato in quota maggioranza, la cui scelta ha già sollevato polemiche e che, secondo fonti interne, sarebbe stata di fatto imposta anche al ministro della Giustizia che per il ruolo aveva pensato alla radicale Rita Bernardini. Invece, gli equilibri politici hanno avuto la meglio sulla competenza: D’Ettore è un ex deputato di Forza Italia poi entrato in Fratelli d’Italia e nel curriculum ha l’incarico di professore di diritto privato. Nessuna esperienza pregressa nel penale o nel settore delle carceri, che è a sua volta una galassia a sé di cui è necessario conoscere a fondo le problematiche. Non a caso, la nomina non è stata lineare: ci sono voluti molti mesi per individuare il nome del garante e la terna (composta da D’Ettore, Mario Serio e Irma Conti, rispettivamente giurista in quota Movimento 5 Stelle e avvocata penalista), poi si è impedito che i tre venissero auditi nelle commissioni Giustizia del parlamento. Un no incomprensibile da parte della maggioranza e spiegabile - come hanno commentato molti esponenti delle opposizioni, prima tra tutti Ilaria Cucchi - solo con il fatto che non si volesse rischiare di sottoporli alla brutta figura del non sapere rispondere ai quesiti. In altre parole, proprio nel momento di massima emergenza nel settore carcerario, la maggioranza ha optato per una assegnazione di natura più politica che di competenza per una carica che dovrebbe essere indipendente per regolamento. Per la loro nomina mancano le firme del ministero della Giustizia e l’ultima bollinatura della Corte dei conti, infine la nomina sarà formalizzata da palazzo Chigi nel giorno dell’insediamento, per cui bisognerà aspettare dunque ancora qualche tempo dopo i già lunghi mesi di tentennamenti. Un tempo che, però, un settore in piena emergenza non potrebbe permettersi. La nuova terna dell’ufficio del Garante, dunque, entrerà in carica con parecchi mesi di ritardo e proprio nel momento in cui le carceri sono una bomba a orologeria, con numeri record che continuano a crescere insieme - inevitabilmente - ai disagi per chi si trova nelle carceri a scontare la pena ma anche per chi nel carcere lavora nella polizia penitenziaria. Gli auguri del Presidente della Repubblica, per dare speranza e dignità a chi è in carcere e rendere merito a chi vi lavora di Stefano Anastasìa garantedetenutilazio.it, 9 gennaio 2024 “Solidarietà, libertà, uguaglianza, giustizia, pace: i valori, che la Costituzione pone a base della nostra convivenza… li vedo nella passione civile di persone che, lontano dai riflettori, della notorietà, lavorano per dare speranza e dignità a chi è in carcere. A loro esprimo la riconoscenza della Repubblica. Perché le loro storie raccontano già il nostro futuro”. Con queste parole il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha voluto fare gli auguri per il nuovo anno e rendere merito a chi lavora in carcere, alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, di quella sanitaria o dell’istruzione, e alle migliaia di volontari che quotidianamente contribuiscono all’azione rieducativa prescritta dalla Costituzione. Purtroppo però l’anno nuovo è iniziato come il vecchio: il sovraffollamento che cresce (anche l’ultimo dell’anno, quando generalmente i permessi diminuiscono lievemente il numero delle presenze) e le tragedie che si ripetono: un ragazzo suicida ad Ancona, un uomo morto in carcere a Napoli e un altro nel reparto di medicina protetta dell’Ospedale Belcolle di Viterbo, dopo un ricovero disposto coattivamente dal magistrato a seguito di uno sciopero della fame per protesta. Di fronte a queste tragedie e all’infausta prospettiva che esse disegnano, di un altro annus horribilis, veramente a nulla servono le solite litanie sui fasti futuri dell’edilizia penitenziaria finanziata dal PNRR o la minaccia di nuove pene e sanzioni a chi è già in carcere. La verità è che, inseguendo demagogicamente la carcerazione della qualunque, il sistema penitenziario si avvita in una crisi senza prospettive, fomentata da una politica della sicurezza che produce solo più insicurezza, non offrendo nulla a chi viene costretto in carcere anche per reati da niente e che non ne potrà venire fuori che più solo, disperato e disponibile a qualsiasi cosa per sopravvivere. Invece di inseguire la chimera di nuovi istituti e nuovi padiglioni detentivi, che saranno pronti - se va bene - tra anni, invece di promettere assunzioni di personale che non saranno mai sufficienti se la popolazione detenuta continua a crescere, bisognerebbe fare una valutazione credibile di quante persone il nostro sistema penitenziario possa effettivamente ospitare, garantendo spazi, servizi, prese in carico, opportunità rieducative, e tracciare una linea, restituendo gli autori di reati minori e i condannati a fine pena al territorio, un territorio arricchito di nuovi servizi sociali, formativi e sanitari capaci di intercettare i bisogni di sostegno prima che, in loro assenza, si manifestino in forme di devianza penalmente rilevante. Intanto, nel mentre che la politica si chiarisca le idee, non resta che continuare a operare “per dare speranza e dignità a chi è in carcere”, fidando anche nella rinnovata attenzione che può venire dalla giurisdizione quando, come a Milano alla fine dell’anno o a Firenze all’inizio di quello nuovo, ha il merito di riconoscere questioni dimenticate, come l’oggettivo trattamento inumano e degradante costituito dal sovraffollamento o la natura discriminatoria della cancellazione della indennità di disoccupazione per i detenuti che hanno lavorato alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. Segnali di speranza di un mondo che può andare diversamente. Raccolti 2.000 regali per i bambini che frequentano, nelle carceri italiane, gli “Spazi Gialli” Ristretti Orizzonti, 9 gennaio 2024 Si è svolta tra il 27 novembre 2023 e il 7 gennaio 2024, la staffetta per la raccolta regali - ne sono stati donati circa 2000 - iniziata a Osimo e proseguita a Napoli, Foggia, Catania, Torino, Brindisi, Cosenza e conclusa a Milano presso la sede di Bambinisenzasbarre. La staffetta ha fatto parte della campagna natalizia di sensibilizzazione “Spazio Giallo va dal carcere in città”, un evento simbolico organizzato dall’Associazione Bambini senza sbarre Ets su tutto il territorio nazionale, in collaborazione con i partner della sua rete italiana, per la raccolta regali destinati ai bambini che frequentano gli Spazi Gialli presenti negli istituti penitenziari italiani. Sono tante le persone che si sono recate nei punti di raccolta cittadini, nel corso delle 8 tappe, lasciando tantissimi regali che sono stati poi portati agli Spazi Gialli e distribuiti ai bambini che li frequentano. Eridano Cooperativa Sociale di Brindisi, Lavori in corso di Foggia, Il Margine di Torino, Officina Socialmeccanica di Catania, Polo 9 di Ancona, Bambinisenzasbarre Cosenza e Bambinisenzasbarre Napoli sono i partner della rete nazionale dell’Associazione che hanno aderito all’iniziativa e organizzato localmente la raccolta regali nelle città. Per chi non fosse riuscito a portare un regalo durante il periodo di raccolta, può ancora contribuire fino alla fine di gennaio, scegliendo di fare un “Regalo Sospeso” destinato ai bambini degli Spazi Gialli. Il “Regalo sospeso” può essere fatto attraverso una donazione a Bambinisenzasbarre, che sceglierà e consegnerà i giochi ai bambini presenti negli Spazi Gialli. L’evento ha avuto l’obiettivo di sensibilizzare sul tema degli oltre 100mila bambini che in Italia hanno un genitore in carcere (2,2 milioni di bambini in Europa) e comunicare la presenza della rete degli Spazi Gialli, creati da Bambinisenzasbarre nelle carceri italiane con il Progetto Nazionale “Il carcere alla prova dei bambini e delleloro famiglie-Applicazione della Carta dei diritti dei figli di genitoridetenuti”, selezionato da Con i Bambini nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. Lo Spazio Giallo - Lo Spazio Giallo è il luogo fisico e relazionale per i bambini, creato da Bambinisenzasbarre, all’interno del carcere. Qui gli operatori possono intercettarne i bisogni, accoglierli in uno spazio a loro dedicato dove si possono preparare all’incontro con il genitore, momento fondamentale per mantenere il legame affettivo, e attivare prese in carico dell’intero nucleo familiare con focus primario sul bambino. Lo Spazio Giallo nasce nel 2007 dall’esperienza di Bambinisenzasbarre nel carcere di San Vittore. Oggi fa parte di un Sistema di Accoglienza che è diventato modello, è attivo in rete nazionale in Lombardia, Piemonte, Marche, Toscana, Campania, Puglia, Calabria, Sicilia e Basilicata ed è diventato il punto di riferimento per la cura delle relazioni familiari in detenzione con al centro i diritti del bambino. Lo Spazio Giallo e la sua realizzazione rispondono all’art. 2 della Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti. La Carta viene siglata per la prima volta il 21 marzo 2014 e sempre rinnovata dall’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza, dal Ministro della Giustizia e dalla Presidente di Bambinisenzasbarre. È un documento unico che riconosce formalmente il diritto di questi bambini al mantenimento del legame affettivo con il genitore detenuto in continuità con l’art.9 della Convenzione ONU sull’infanzia e l’adolescenza e nel contempo ribadisce il diritto alla genitorialità delle persone detenute e impegna il sistema penitenziario in una cultura dell’accoglienza che riconosca e tenga inconsiderazione la presenza dei bambini che incontrano il carcere loro malgrado. A rafforzare l’impatto della Carta - e del ruolo dell’Associazione a livello italiano ed europeo - si è anche imposta la Raccomandazione CM/Rec (2018)5, adottata ad aprile 2018 dal Consiglio d’Europa e rivolta al Comitato dei Ministri dei 46 stati membri. La Raccomandazione ha assunto come modello proprio la Carta italiana. “L’Italia è il primo Paese che ha siglato questa Carta - afferma Lia Sacerdote, presidente dell’associazione-. Una firma ed un segno forte per i 100mila figli di genitori detenuti, in sé è uno strumento radicale che ha trasformato i bisogni di questi minori in diritti, consentendo loro di non sentirsi più colpevoli e contrastando l’emarginazione sociale a cui sono esposti”. Giustizia, la pace possibile di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 9 gennaio 2024 Il rischio per l’Italia è uno scontro a bassa intensità, fatto di contrapposte culture del sospetto. A guardarla senza paraocchi di fazione questa non è una storia di buoni o cattivi. Nella torsione del rapporto tra politica e giustizia che da un pezzo tiene in ostaggio l’Italia ci sono solo cause ed effetti. In una democrazia un tempo immatura e bloccata da ragioni geopolitiche (la nostra posizione nella Guerra fredda, il timore di cambiare sistema cambiando opzione di voto) si è determinata nel volgere di qualche decennio un’alterazione del legame tra eletti ed elettori. E non solo per l’ovvia ragione che un governante, ove sia sicuro di non essere mandato a casa, finirà per governare peggio. A febbraio del ‘93, giusto un anno dopo l’inizio di Mani pulite, Saverio Vertone osservava sul Corriere che “per trattenere le anime dei votanti al di qua della cortina di ferro bisognava concedere ai corpi più di quanto consentissero le risorse del Paese” dunque “si è dato a tutti ciò che non c’era” e, in sostanza, “il Paese è rimasto in Occidente, dal punto di vista strategico e militare, solo a patto di passare in Oriente sul terreno culturale e in parte economico”. Ciò spiegava come mai, imploso il comunismo, le macerie del Muro di Berlino avessero travolto una sola grande nazione occidentale, la nostra: la più permeata di assistenzialismo, di economia di Stato e, infine, la più afflitta dal debito pubblico. Verrebbe da dire: la più “sovietica”. Smantellata l’impalcatura con le inchieste sulla corruzione, il crollo del palazzo è derivato quale conseguenza. Mani pulite non fu un golpe dei magistrati, fu il suicidio di partiti ridotti a barzelletta da bar e di un’economia di cartello che, protetta contro la concorrenza dalla regola delle tangenti, non teneva il passo con Maastricht: l’epilogo traumatico di una modernizzazione mancata. Da allora, tuttavia, l’esondazione della magistratura è avvenuta sotto i nostri occhi: e non per una particolare propensione eversiva delle toghe, ma per un banale principio fisico che nel rapporto tra poteri determina l’occupazione dello spazio vuoto. Dove la politica s’è ritratta, la magistratura, chiamata a una funzione legittimante da leader e partiti a corto di credibilità, s’è allargata. Il ministro Nordio, nei suoi lavori da saggista, ha parlato così di autodafé della politica, evidenziandone la ritirata precipitosa sotto l’incalzare del giacobinismo di piazza, con l’infelice riforma dell’immunità parlamentare (nobile istituto, in verità assai abusato al tramonto della Prima Repubblica per salvare anche numerosi malfattori). Sta di fatto che, senza lo scudo offerto dall’articolo 68 della Costituzione a deputati e senatori contro inchieste arbitrarie o infondate, le Procure sono diventate titolari di vita e di morte dei politici con quel meccanismo di naming and shaming descritto da Sabino Cassese nel suo “Il governo dei giudici”(edito da Laterza), il discredito mediatico: riflettori accesi sugli albori dell’indagine, poco importa se poi si finirà davvero a processo e quale sarà l’eventuale sentenza, la reputazione dell’indagato sarà minata. Tuttavia, poiché ogni scorpacciata di potere provoca spiacevoli effetti collaterali, taluni pubblici ministeri (spesso i più esposti) hanno contratto le malattie della politica che pretendevano di curare col Codice penale, il correntismo ne è diventato il sintomo virulento, lo scandalo del Csm nell’era di Palamara l’ultima vistosa prova. In mezzo, il braccio di ferro tra Berlusconi e Procure mutato quasi in genere pop, causa di disorientamento per tanti italiani (come dimostrato dall’astensionismo crescente) e non privo di risvolti inquietanti: in proposito un giurista rispettato da tutti quale Giovanni Fiandaca ha notato che la caccia pluridecennale a presunte responsabilità di Berlusconi nella stagione delle stragi di mafia, resa pubblica più volte sui media senza robusti riscontri, abbia nociuto non solo all’allora premier dell’Italia ma alla credibilità delle istituzioni tutte e in generale al clima democratico nel Paese. Il rischio da scongiurare, concluso il tempo del Cavaliere, è il seguito d’uno scontro a bassa intensità, fatto di contrapposte culture del sospetto. Incontrando lo scorso giugno i giovani magistrati in tirocinio, il presidente Mattarella è tornato a battere su un tasto: l’idea che chi indossa la toga debba non solo essere imparziale, ma apparire tale. “L’imparzialità della decisione va tutelata”, ha spiegato, “anche attraverso l’irreprensibilità e la riservatezza dei comportamenti individuali, così da evitare il pericolo di apparire condizionabili o di parte”. Può intuirsi in filigrana la fatica d’una stagione che per i magistrati è stata segnata da protagonismi apparsi, talvolta, orientati a condizionare le scelte politiche. La politica ha del resto un solo modo vincente per rispondere: osservare con scrupolo - come non è sempre avvenuto - l’articolo 54 della Costituzione, che prescrive disciplina e onore nell’esercizio delle funzioni pubbliche, smettendo di chiedere alla magistratura supplenze o patenti di legittimazione. Non è un equilibrio facile da trovare, dopo decenni di presentismo giudiziario che ci hanno convinti si debba sceverare tutto e subito (poco importa quanta verità sia contenuta in quel tutto) e, dall’altro lato, di intromissioni lobbiste nella gestione della cosa pubblica. Sarà pure un po’ naif, ma non è così fuori luogo, forse, l’idea di un tavolo della pace lanciata, tra molte ironie, dal ministro Crosetto. Se ne decidano forme e denominazione, ma l’Italia non potrà mai ripartire se non si sblocca un meccanismo che finisce per rendere precari appalti e contratti, consenso elettorale e stabilità degli esecutivi e che getta nel tritacarne terzi estranei o casualmente presi sulla linea di tiro. Si tratta di convincersi d’una evidenza: non esistono golpisti in toga come non esistono politici ansiosi di soggiogare le toghe. Riconoscendosi in un comune destino che peserà sui nostri figli: meritevoli, domani, di vivere in un Paese dove non rischino guerre di religione a ogni stormir di verbale. Abuso d’ufficio, verso l’abrogazione nonostante la moral suasion del Colle e i rischi in Ue di Giulia Merlo Il Domani, 9 gennaio 2024 In commissione Giustizia al Senato comincia il voto sul ddl Nordio, che contiene la cancellazione del reato. Il rischio, secondo i contrari, è quello di incostituzionalità per contrasto con le previsioni dei trattati internazionali e in particolare con la convenzione Onu di Merida. Entra nel vivo l’iter in commissione Giustizia del Senato del cosiddetto ddl Nordio, il disegno di legge di iniziativa del governo che contiene l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio. La relatrice è la stessa presidente della commissione, la leghista Giulia Bongiorno, e i senatori cominceranno con l’esame degli emendamenti presentati dai gruppi al testo, con circa 160 proposte depositate. L’obiettivo del ministro è quello di arrivare il prima possibile all’approvazione del primo vero pacchetto di norme da lui presentate e che erano state approvate dal consiglio dei ministri nel giugno 2023. L’abrogazione dell’abuso d’ufficio, infatti, è da sempre uno dei cavalli di battaglia di Nordio, che già ne scriveva da editorialista. Il ragionamento del ministro è che si tratti di un reato troppo indefinito, che produce una grande mole di procedimenti giudiziari di cui però solo una minima parte si conclude con una condanna, mentre la maggior parte - soprattutto quando l’indagine riguarda politici - solleva una grande eco mediatica nella fase delle indagini preliminari. “Dopo vent’anni di cambiamenti” la norma sull’abuso d’ufficio è un “fallimento” perché su 5 mila processi “arrivano solo nove condanne”, ha detto il ministro in giugno sul Corriere della Sera. Chi si oppone all’abrogazione, come fa in particolare l’Associazione nazionale magistrati, sostiene che abrogare il reato che permette di perseguire i pubblici ufficiali che causano un danno patrimoniale durante l’esercizio delle loro funzioni rischia di essere un via libera alle “angherie del potere pubblico”, ha detto il presidente Giuseppe Santalucia. Dalla parte del ministro è convintamente Forza Italia, con meno enfasi invece lo seguono la Lega e Fratelli d’Italia, sul fronte delle opposizioni Italia Viva e si è espressa a favore dell’abrogazione, insieme anche a molti amministratori locali, anche del Pd. Tuttavia, l’ipotesi di abrogazione del reato suscita vari livelli di preoccupazione, al netto dello scontro in parlamento con le minoranze. Il problema maggiore riguarda l’ordinamento dell’Unione europea. Secondo i critici, anche dell’accademia, l’abolizione completa del reato di abuso d’ufficio sarebbe in contrasto con le previsioni dei trattati internazionali e in particolare con la convenzione Onu di Merida, che l’Italia ha sottoscritto e che prevede gli strumenti di contrasto alla corruzione. Inoltre, in Ue è in discussione una direttiva europea anticorruzione che prevede espressamente il reato di abuso d’ufficio per tutti gli stati membri. Queste considerazioni sono ben note al Quirinale, che dovrà promulgare la legge una volta approvata in parlamento e che avrebbe già fatto pervenire le sue perplessità al governo, proprio in occasione della firma del disegno di legge per l’inizio del suo iter in parlamento. Tuttavia cambiare il testo del ddl proprio nella sua parte più caratterizzante sarebbe un passo indietro molto complicato per Nordio, che spesso è stato attaccato per la scarsa incisività delle sue iniziative legislative. Anche questa preoccupazione è stata alla base del duro braccio di ferro con la Lega e in particolare proprio con Bongiorno, che avrebbe preferito valutare una riformulazione del reato invece che la sua totale cancellazione. Infatti, in sede di approvazione al cdm, l’accordo tra Nordio e la Lega è stato quello di considerare l’abrogazione solo un primo step di una “riforma più ampia” in cui si dovranno “rivisitare tutti i reati contro la Pubblica amministrazione”, ha detto in un’intervista al Corriere l’ex ministra della Pubblica amministrazione. Tra le preoccupazioni avanzata da Bongiorno, anche una di tipo procedurale: cancellare il reato non è sufficiente per evitare che un procedimento si apra e il rischio è che “le procure diano interpretazioni estensive di altri reati contro la pubblica amministrazione” per ovviare alla mancanza del reato. Il governo “ignora” le toghe: “Si va avanti, abrogheremo l’abuso d’ufficio” di Simona Musco Il Dubbio, 9 gennaio 2024 L’argomento è stato al centro di un vertice convocato per redigere i pareri dell’esecutivo sugli emendamenti al ddl Nordio, che oggi, in Commissione Giustizia al Senato, segna la ripartenza del “carrozzone” della giustizia. “Sull’abuso d’ufficio la linea è chiara: abolizione”. Sono quasi le 20 quando da via Arenula, dopo una lunga riunione che riprenderà questa mattina, arriva la prima indiscrezione sulle intenzioni del governo: tirare dritto, nonostante le proteste della magistratura e quelle di parte dell’opposizione. L’argomento è stato al centro di un vertice convocato per redigere i pareri dell’esecutivo sugli emendamenti al ddl Nordio, che oggi, in Commissione Giustizia al Senato, segna la ripartenza del “carrozzone” della giustizia. Un dibattito, quello previsto oggi, anticipato da una rispolverata alle polemiche che hanno caratterizzato l’intera discussione e che vede due fronti contrapposti: da un lato chi - come il ministro Carlo Nordio - considera il reato evanescente e anche dannoso, in quanto origine di una vera e propria paralisi amministrativa, dall’altro - su tutti toghe, M5S e Pd - chi lo ritiene un reato spia in grado di svelare episodi di corruzione e, dunque, irrinunciabile. L’appuntamento a Palazzo Madama è previsto alle 14.15, per dare il via al voto sulle proposte di modifica, circa 160. Dentro il pacchetto, oltre alla cancellazione dell’articolo 323 del codice penale, sono previste modifiche al traffico di influenze, alla disciplina delle intercettazioni (a tutela della riservatezza del terzo estraneo al procedimento), contraddittorio, gip collegiale per le misure cautelari, inappellabilità delle sentenze di assoluzione. Un provvedimento in chiave “garantista” che metterebbe l’Italia, a dire dell’Anm, nel mirino dell’Europa. Ciò nonostante negli altri Paesi europei non esista un vero e proprio corrispettivo dell’abuso d’ufficio, a dimostrazione del fatto che sul punto le idee sono tutt’altro che chiare. L’allarme sui rischi connessi al ddl 808 è stato lanciato ieri, su Repubblica, dal presidente del sindacato delle toghe, Giuseppe Santalucia. Convinto che l’abrogazione dell’abuso d’ufficio crei un vuoto di tutele per i cittadini rispetto al potere delle pubbliche amministrazioni. Anche perché la “paura della firma”, ha spiegato il numero uno dell’Anm, non si risolverebbe con l’abolizione del reato. L’alternativa migliore, ha spiegato in un’intervista a Liana Milella, sarebbe stata una maggiore distinzione tra la discrezionalità politica e quella tecnico- amministrativa, come chiesto dal Pd per andare incontro ai propri sindaci, tra i più agguerriti nel chiedere un intervento. Insomma, bisognerebbe rivedere lo strumento “per dargli una maggiore effettività, senza per questo farne uno strumento che possa essere utilizzato in maniera arbitraria”, ha aggiunto Santalucia. Secondo cui le poche condanne finora pronunciate non indicano l’inutilità della norma, la cui abrogazione potrebbe provocare “reazioni in sede europea”. E ciò perché l’abuso di potere va punito anche quando “non degenera in condotte di corruzione, concussione o peculato”. Il rischio, paventato a suo tempo anche dalla presidente della Commissione Giustizia al Senato, la leghista Giulia Bongiorno, è che - in assenza di reato - si finisca per indagare sindaci e altri funzionari pubblici per reati più gravi. Ma il punto, ha ribattuto il senatore forzista Pier Antonio Zanettin sempre a Repubblica, è che “anche abolendo il reato, le indagini su eventuali comportamenti abusivi non cesseranno”. Insomma, stiano tutti tranquilli, assicurano quelli della maggioranza, mentre M5S, Pd e Avs provano a porre un argine chiedendo che l’abuso d’ufficio rimanga e che venga soppresso, invece, l’articolo che prevede l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione da parte del pm. “Anziché insistere nella folle via dell’abolizione del reato di abuso d’ufficio, lasciando così impuniti gli abusi di potere dei potenti contro i più deboli - hanno dichiarato ieri in una nota le senatrici M5S Mariolina Castellone, vice presidente del Senato, e Ada Lopreiato, capogruppo in commissione Giustizia -, il governo e la maggioranza valutino con molta serietà i nostri emendamenti al ddl Nordio per disciplinare in maniera rigorosa le attività di lobbying e per contrastare con fermezza ogni conflitto d’interessi che riguardi chi ricopre importanti incarichi pubblici. L’Italia ha un tremendo bisogno di affermazione della legalità e della trasparenza - hanno concluso -, mentre il governo Meloni sta andando in direzione esattamente opposta, smantellando pezzetto dopo pezzetto la normativa anticorruzione”. Lo sguardo di Lega e Forza Italia, invece, è puntato sulle intercettazioni. Uno degli emendamenti più interessanti è quello che mira a vietare “il sequestro e ogni forma di controllo delle comunicazioni” tra “indagato e il proprio difensore, salvo che l’autorità giudiziaria abbia fondato motivo di ritenere che si tratti di corpo del reato”, modifica chiesta da Lega e FI, secondo cui “le comunicazioni e conversazioni tra difensore e indagato comunque intercettate” non devono “in nessun caso essere trascritte nemmeno sommariamente”, pena la contestazione di illecito disciplinare. Ma il tentativo è anche quello di porre un argine alla divulgazione di conversazioni e documenti. Tanto che la senatrice leghista Erika Stefani ha chiesto di modificare l’articolo 684 del codice penale (relativo alla pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale) prevedendo la “responsabilità civile di chiunque abbia pubblicato o pubblichi intercettazioni relative a soggetti diversi dalle parti”. E un’ulteriore stretta vorrebbe darla la vicesegretaria di Azione Mariastella Gelmini, che ha chiesto la decadenza dal diritto all’erogazione di contributi pubblici per le testate che violino il segreto istruttorio. “Come la Consulta nel 2023 ha difeso il Parlamento dall’invadenza delle toghe” di Ermes Antonucci Il Foglio, 9 gennaio 2024 Nell’ultimo anno per tre volte la Corte costituzionale si è espressa per difendere le prerogative dei parlamentari dalle invasioni di campo della magistratura. I casi Renzi, Ferri ed Esposito spiegati dal costituzionalista Enrico Grosso. Più garanzie per i parlamentari di fronte alle invasioni di campo della magistratura. È questo il più importante lascito del 2023 della Corte costituzionale. Nell’ultimo anno, infatti, per tre volte la Consulta è stata chiamata a esprimersi per difendere le prerogative costituzionali dei membri del Parlamento dall’invadenza delle toghe. Un percorso non privo di contraddizioni, che ripercorriamo con Enrico Grosso, professore ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Torino. “La sentenza più innovativa - dice Grosso - è stata certamente la n. 170”, quella che sostanzialmente ha dato ragione a Matteo Renzi contro la procura di Firenze, che nell’ambito dell’inchiesta Open aveva acquisito, senza preventiva autorizzazione del Senato, messaggi di posta elettronica e WhatsApp di Renzi conservati in dispositivi elettronici appartenenti a terze persone. “La Corte ha definitivamente chiarito che i messaggi WhatsApp, e-mail, sms e tutta la corrispondenza istantanea rientra nella nozione di corrispondenza posta sotto tutela dell’articolo 15 della Costituzione, e quindi dell’articolo 68”, spiega Grosso. “Di conseguenza, anche l’acquisizione di questi messaggi presso il destinatario deve essere oggetto di autorizzazione preventiva da parte del Parlamento. Si tratta di un notevole rafforzamento delle garanzie del parlamentare”, aggiunge. Facciamo un salto in avanti e arriviamo alla sentenza depositata lo scorso 28 dicembre riguardante il caso di Stefano Esposito, ex senatore intercettato circa 500 volte per tre anni (dal 2015 al 2018) dalla procura di Torino senza alcuna autorizzazione del Parlamento, e poi rinviato a giudizio sulla base di 126 di queste intercettazioni, anche qui senza autorizzazione. Esposito era stato intercettato indirettamente nell’ambito di un’inchiesta che riguardava un suo amico imprenditore. “La Corte costituzionale ha affermato in maniera molto netta che i magistrati hanno agito al di fuori delle regole costituzionali”, dichiara Grosso. “I giudici hanno ricostruito data per data tutti i procedimenti aperti nei confronti di Esposito, nonché i contenuti delle informative, concludendo che a partire da agosto del 2015 le intercettazioni nei riguardi del senatore non hanno più avuto un carattere casuale, bensì indiretto, e dunque necessitavano dell’autorizzazione del Parlamento”, spiega il costituzionalista. In altre parole, a partire da agosto 2015 è avvenuto “un cambiamento negli indirizzi investigativi dei pm chiaramente e univocamente rivolti ad approfondire l’eventuale responsabilità penale anche del senatore Esposito, come conferma il contenuto delle informative della polizia giudiziaria”. In diversi hanno notato una contraddizione tra questa sentenza e quella con cui, lo scorso luglio, la Corte costituzionale ha dato torto alla Camera che aveva negato al Csm l’uso delle intercettazioni compiute - tramite il trojan inoculato nel cellulare di Palamara - nei confronti dell’allora deputato Cosimo Ferri nel celebre incontro all’Hotel Champagne di Roma del 9 maggio 2019. Anche in quell’occasione, infatti, nei giorni precedenti all’incontro Ferri era stato intercettato svariate volte con il suo amico Palamara e alcune di queste conversazioni avevano riguardato proprio la programmazione della riunione. “Credo che con la sentenza su Esposito la Corte abbia anche voluto chiarire alcuni aspetti rimasti un po’ sospesi dalla precedente sentenza sul caso Ferri”, dice Grosso. La Corte, infatti, ha spiegato che “il carattere abituale delle conversazioni tra il soggetto indagato e il parlamentare non è di per sé sufficiente a rendere quest’ultimo destinatario di una specifica attività di indagine, elevandolo a bersaglio dell’atto investigativo, né, quindi, la sola prevedibilità dell’interlocuzione tra l’indagato e il parlamentare rende necessaria l’acquisizione dell’autorizzazione del Parlamento affinché possa essere proseguita l’attività di captazione sull’utenza telefonica del primo”. Insomma, in quel caso per la Corte non c’erano sufficienti elementi per sostenere che i magistrati avessero cambiato indirizzo investigativo, estendendolo anche nei confronti di Ferri. “La Corte si è presa una bella responsabilità”, afferma Grosso. “Chi decide infatti quando la direzione dell’indagine è cambiata verso il parlamentare? La Corte costituzionale stessa”. Questa ampia discrezionalità rischia in futuro di creare non poche tensioni istituzionali. Caro Coppi, l’omicidio non si può prescrivere di Gian Carlo Caselli La Stampa, 9 gennaio 2024 Con la prescrizione il reato si estingue, vale a dire che non è più procedibile, dopo il decorso di un periodo di tempo che varia a seconda della pena prevista e quindi della gravità del reato. La prescrizione esiste in tutti paesi democratici e si basa - volendo sintetizzare - sul presupposto che allo Stato non conviene più continuare a perseguire un reato, con le relative spese, quando è trascorso troppo tempo, perché del reato si è persa la memoria, le prove sono ormai difficili se non impossibili da trovare e si presume che la persona da processare possa essere cambiata. Richiamandosi di fatto a questi principi generali, con un intervento su “La Stampa” di lunedì 8 gennaio, Franco Coppi si chiede “se non sia il caso di tornare sul tema della prescrittibilità anche per i reati come l’omicidio”. Difatti, l’omicidio e altri gravi delitti non si prescrivono mai. Essendo Coppi professore e avvocato penalista fra i più illustri del nostro Paese, senza alcun dubbio le sue tesi meritano il massimo riguardo. Esse, però, cadono in un momento, come dire, non dei più felici per la discussione. Mi riferisco al fatto che Rai 3, sempre lunedì 8 gennaio, nella trasmissione “Report” di Sigfrido Ranucci ha prospettato una serie di interrogativi e problemi sul sequestro di Aldo Moro che potrebbero meritare nuovi accertamenti. E di sicuro nessuno accetterebbe che fossero dichiarati prescrittibili gli omicidi dello statista e degli uomini della sua scorta. La stessa cosa vale per gli omicidi, per le stragi di mafia e per quelle dell’eversione fascista, i cui processi in alcuni casi sono tutt’ora in corso. Dunque, la tesi del professor Coppi comporterebbe un intricato corollario di eccezioni e distinguo che rischierebbe di vanificare l’assunto di partenza. Piuttosto, conviene ragionare sulla parola “anche” contenuta nella frase del professor Coppi, cioè sulla prescrittibilità in generale. È evidente, infatti, che un sistema come il nostro, basato su un processo dai tempi lunghissimi, causa centinaia di migliaia di prescrizioni ogni anno. Di conseguenza, ciò che ovunque funziona come mero rimedio fisiologico contro i pochi casi che l’ingranaggio non riesce a concludere, da noi ha finito per strutturarsi come fenomeno patologico. In altre parole, da misura circoscritta a pochi casi limite, che il troppo tempo trascorso rende non più conveniente trattare, la prescrizione si è trasformata in una voragine gigantesca che inghiotte senza ritorno un’enormità di processi. Tant’è che la percentuale italiana di prescrizioni è infinitamente superiore a quella degli altri paesi europei. Un vero disastro (uno dei tanti) per la nostra giustizia. Tornando alla tragedia di Aldo Moro, c’è un’ombra che la trasmissione di Ranucci ripropone con vigore. Si tratta della gestione del “memoriale” redatto dal presidente della Democrazia Cristiana durante la sua prigionia, e mai reso pubblico dalle Brigate Rosse. Basta fare un raffronto con il sequestro Sossi. In questo caso, prendendo spunto da alcune risposte del magistrato agli “interrogatori” cui veniva sottoposto dai suoi carcerieri, le Br denunziarono pubblicamente presunti traffici clandestini di armi coinvolgendo importanti funzionari pubblici. Ciò allo scopo evidente di creare - nel fronte istituzionale - divisioni e fratture di cui potersi giovare. Completo cambio di registro, invece, nel caso Moro. Nessuna denuncia, nonostante la promessa del primo volantino di divulgare “tutto” ciò che Moro avesse rivelato. E dire che il “memoriale” del prigioniero conteneva crude rivelazioni (a partire da Gladio) e pesanti giudizi su importanti personaggi pubblici (a partire da Giulio Andreotti), che nell’ottica criminale delle Br avrebbero “dovuto” essere sfruttati da chi stava facendo la guerra allo Stato: in modo da provocare nel fronte avversario contrasti e divisioni, in particolare in quella che le Br (comunicato numero 8 del sequestro Moro) usavano definire la “cosca democristiana”. Questa mancata utilizzazione di materiale dal potenziale dirompente - spiegherà poi con scarso senso del ridicolo il signor Moretti - è dipesa dal fatto che non ne avevano capito la rilevanza e la portata politica. Tutto può essere, ma se le cose stanno come dice lui, Moretti - invece che il terrorismo sanguinario - avrebbe dovuto scegliere un altro mestiere. Certo è che si profilano ombre pesanti. E se mai qualcuno si proponesse ancora di dissolverle, la prescrittibilità degli omicidi potrebbe essere di ostacolo. Ancona. Tragedia a Montacuto, aperta indagine per “istigazione al suicidio” di Marina Verdenelli Il Resto del Carlino, 9 gennaio 2024 La Procura indaga contro ignoti: stando al parere del medico che ha analizzato la sua posizione, il detenuto poteva stare in quella sezione: aveva ricevuto una sanzione disciplinare. Era in isolamento da un giorno Matteo Concetti, il 25enne trovato impiccato nella cella del carcere di Montacuto, venerdi scorso, e con tanto di nullaosta sanitario dato dal medico in servizio quel giorno nella casa circondariale. Stando al parere del dottore, che avrebbe analizzato prima la sua posizione, compresa anche quella sanitaria con le relative cartelle cliniche, il detenuto poteva stare in isolamento. Un isolamento cautelare disciplinare che lo avrebbe poi portato all’esame di una commissione per conferma o revoca. Nella cella del seminterrato è entrato quindi il 4 gennaio, sembrerebbe dopo l’aggressione ad un agente. Ma non era la prima volta che veniva messo in isolamento. Una informativa di identificazione è stata notificata ai genitori anche per un fatto accaduto il 9 dicembre scorso dove il 25enne è stato accusato di danneggiamento aggravato ai beni immobili dell’istituto penitenziario e per istigazione dei detenuti alla rivolta. Nel carcere c’era stata una protesta a cui lui e altri avrebbero partecipato. Per quell’episodio era finito in isolamento, escluso dalle attività in comuni, una sanzione disciplinare, una sorta di punizione. Per la madre il figlio era un paziente psichiatrico e non sarebbe mai dovuto finire in isolamento. Intanto la Procura di Ancona ha aperto un fascicolo, ancora a carico di ignoti, per istigazione al suicidio. Un atto dovuto dopo l’esposto presentato dalla madre, Roberta Faraglia, ai carabinieri di Rieti (la città dove la donna risiede). Il punto sui cui la magistratura vuole vederci chiaro è se Concetti aveva un disturbo psichiatrico tale da non poter stare in una cella di isolamento. Per questo è stata già chiesta al carcere di Montacuto tutta la documentazione inerente il detenuto che è arrivato ad Ancona a novembre, dopo essere stato trasferito dal carcere di Fermo dove si trovava da settembre, per scontare un cumulo di pene diventate definitive, per relati contro il patrimonio. Un trasferimento effettuato per un problema di sovraffollamento da parte del carcere fermano. Il pubblico ministero Marco Pucilli, titolare del fascicolo d’inchiesta, ha disposto anche l’autopsia sul corpo del giovane per chiarire le cause della morte (se sono compatibili con l’impiccagione), se sulla salma sono riscontrabili altre lesioni e se aveva assunto farmaci. L’esame autoptico è stato fissato per venerdì mattina, affidato al medico legale Raffaele Giorgetti. La famiglia del 25enne morto si è affidata all’avvocato Giacomo Curzi per essere tutelata ed ha nominato un medico legale di parte per partecipare agli accertamenti, il perito Andrea Mancini. Ieri mattina, prima che la salma fosse posta sotto sequestro dalla magistratura, il consulente di parte ha potuto fare un esame esterno del corpo non riscontrando segni di violenza. “È una situazione che va approfondita - ha commentato l’avvocato Curzi - serviranno accertamenti per stabilire eventuali responsabilità. L’indagine è un atto dovuto”. L’ultimo reato per il quale il 25enne aveva avuto una condanna definitiva risale al 2019. Dopo qualche mese di carcere aveva avuto un affidamento terapeutico in una comunità poi un affidamento in prova che gli era stato revocato perché aveva tardato il rientro a casa all’orario stabilito. Ancona. Ilaria Cucchi: “La mia angoscia per non essere riuscita a salvare Matteo” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 9 gennaio 2024 “Ogni volta che qualcuno muore in carcere così riemerge la rabbia per Stefano”. La senatrice era stata contattata poche ore prima dalla mamma del 23enne poi impiccatosi nella sua cella di Ancona. “I miei figli mi hanno consolato: mamma, non devi sentirti in colpa”. “Tutte le volte che un ragazzo muore in carcere in modo assurdo e inconcepibile come è successo venerdì ad Ancona provo la stessa rabbia, lo stesso dolore, la stessa frustrazione che ho provato per Stefano. Purtroppo per Matteo non sono riuscita a far nulla e questo mi lascia un profondo senso di angoscia”. Ilaria Cucchi è ancora sconvolta dalla notizia della morte di Matteo Concetti, il 23enne di Fermo, con una patologia psichiatrica, impiccatosi venerdì pomeriggio nella sua cella di isolamento del carcere di Ancona solo poche ore dopo aver annunciato l’intenzione di uccidersi durante il colloquio con i genitori. La mamma di Matteo quel giorno era riuscita a mettersi in contatto con lei alle 14 del pomeriggio. Le aveva chiesto aiuto ma prima che lei potesse muoversi è arrivata la notizia del suicidio. È così? “Sì, era venerdì e stavo rientrando a Roma. Ho ascoltato il racconto della signora Faraglia, ho condiviso le sue preoccupazioni e le ho assicurato che oggi, alla ripresa, avrei subito chiamato il Dap per verificare la situazione e vedere cosa era possibile fare. Alle 20, quando mi è arrivata la notizia, mi è montato un enorme senso di colpa. E se avessi subito provato a chiamare qualcuno, forse avrei potuto salvare quella vita? Mi sono sentita schiacciata da questa nuova tragedia, ho avuto bisogno del conforto dei miei figli per riprendermi”. Cosa le hanno detto i suoi figli? “Che non era colpa mia, come naturalmente non era colpa della mamma che - davanti allo stato d’animo del figlio - si è rivolta a tutti coloro che avrebbero potuto e dovuto fare qualcosa. La mia rabbia, la mia frustrazione è anche per tutti coloro che sono costretti a vivere il carcere in quelle condizioni e questo vale anche per gli agenti penitenziari, i medici, gli infermieri. Ma soprattutto la mia frustrazione nasce dalla consapevolezza che della morte di un ragazzo come Matteo e più in generale dei detenuti continua a non interessare a nessuno. Il concetto generale è: se sono in carcere se lo sono cercato, stiano lì e buttiamo via la chiave”. La mamma di Matteo lo aveva invitato a resistere due giorni, gli stessi due giorni che lei si proponeva per intervenire presso il Dap. Si poteva fare qualcosa per salvare questa vita? “Razionalmente né io né la mamma abbiamo nulla da rimproverarci. Gli unici che avrebbero dovuto intervenire subito sono tutte le persone che in quelle ore, a contatto con quel ragazzo, hanno dato prova quantomeno di una totale mancanza di sensibilità e di cultura e coloro che sono responsabili di un sistema carcerario totalmente allo sbando. Quando parliamo di carceri sovraffollate parliamo di celle piene anche di tante persone con patologie psichiatriche come Matteo, di tossicodipendenti, di detenuti per reati minori, che non dovrebbero stare in carcere. Ma io sento parlare solo di costruirne di nuovi, come se questa fosse la soluzione. È da quando sono bambina che sento parlare di carceri al collasso. Il mio vissuto, la tragica perdita di Stefano, non potranno mai essere cancellati dal tempo, ma questo tempo è almeno riuscito a trasformare la rabbia in qualcosa di positivo, di attivo, di sostegno degli ultimi. E Matteo era l’ultimo degli ultimi”. Ancona. Suicidio a Montacuto, Sinistra Italiana: “Rabbia e vicinanza alla famiglia di Matteo” vivereancona.it, 9 gennaio 2024 Sinistra Italiana delle Marche esprime tutta la sua vicinanza alla famiglia di Matteo Concetti, trovato morto alle 18 del 5 gennaio 2024 nella cella di isolamento nel carcere di Montacuto dove era stato rinchiuso. Davanti ai genitori e agli operatori, venerdì aveva minacciato il suicidio se l’avessero condotto in isolamento. Alle 18 è stato trovato morto. Ieri 6 gennaio nel pomeriggio, la Senatrice Ilaria Cucchi - telefonicamente - e attivisti del partito di SI sono stati vicini alla famiglia presso la camera mortuaria, perché nel 2024 la salute e la vita di un detenuto è ancora più di un numero; lo è per noi e dovrebbe esserlo per la Repubblica italiana. La Senatrice Ilaria Cucchi - che ringraziamo per il suo impegno umano e politico - ha dichiarato: “La morte di Matteo Concetti ci racconta il fallimento del sistema carcerario. La sua è stata una morte preannunciata, rispetto alla quale nessuno, di coloro che hanno avuto a che fare con lui nei giorni della sua detenzione, ha avuto il buonsenso di mettere in essere tutte quelle buone norme per evitarla. Non ho fatto in tempo ad evitare la morte di Matteo, ma per la sua famiglia ci sono e ci sarò sempre, perché il loro dolore è anche il mio. Avrei tanto voluto essere accanto ai familiari di Matteo nelle ore difficili all’obitorio; purtroppo ero lontana e non ho potuto raggiungerli; ma per fortuna sapevo che al loro fianco c’era una persona dal cuore grande e compagno di battaglie, come Marcello Pesarini.” Quanto tristemente avvenuto conferma le nostre continue denunce sul sovraffollamento degli istituti marchigiani, in particolare ad Ancona e Pesaro; le precarie condizioni di salute e il continuo disattendere le segnalazioni di patologie; particolarmente quelle psichiatriche, come quella da cui Matteo, di soli 25 anni, era affetto. Se il rapporto fra detenuti e personale di Polizia Penitenziaria è di 1,67%, e la carenza di personale è del 20%, il settore pedagogico soffre di una carenza del 35% sempre sugli organici previsti; a fronte di un’ampia proposta di attività pedagogiche da parte del volontariato. Cifre che parlano dei mancati investimenti nella Giustizia, che dovrebbe rappresentare il grado di civiltà di un Paese e che sempre più viene, invece, considerata un fastidioso ingombro di persone, spesso colpevoli di piccoli reati, commessi in situazioni di disagio sociale. Al di là delle considerazioni generali, su cui torneremo, Sinistra Italiana manifesta rabbia, dolore e vicinanza alla famiglia di Matteo e - dopo avere presentato, per anni, proposte di legge per detenzioni alternative anche nelle Marche, e denunciato il ritardo nell’applicazione delle leggi dello Stato, come appunto le REMS da utilizzare in questi casi - continuerà a battersi, affinché migliorino le condizioni di vita, di detenuti e operatori della giustizia; e perché, secondo il dettato costituzionale, si tuteli la vita e la dignità dei carcerati. Augusta (Sr). Si sente male in carcere: detenuto palermitano muore a 53 anni palermotoday.it, 9 gennaio 2024 Carmelo Valentino si trovava nella settima sezione dell’istituto penitenziario quando il suo compagno di cella ha chiesto aiuto. A nulla è servito l’intervento degli agenti e del personale medico. Si è sentito male mentre si trovava in carcere e, nonostante l’allarme lanciato dal compagno, per lui non c’è stato nulla da fare. Un detenuto palermitano di 53 anni, Carmelo Valentino, è morto nel carcere di Augusta, nel Siracusano. La Procura ha aperto un fascicolo per chiarire cosa abbia provocato il decesso che, secondo quanto accertato sino ad ora, sarebbe riconducibile a cause naturali. Per stabilirlo però bisognerà attendere l’esito dell’autopsia. La salma nel frattempo è stata portata nell’obitorio dell’ospedale Muscatello. Carmelo Valentino si trovava in una cella della settima sezione. Per un certo periodo il detenuto aveva potuto usufruire di alcuni permessi premio per stare vicino alla figlia e al resto della famiglia, ma queste licenze gli sono state sospese dopo il suo coinvolgimento in un’inchiesta di maggio scorso su alcuni traffici illeciti di droga e cellulari portati proprio all’interno del penitenziario siracusano. Per questa ragione il 53enne, al termine delle indagini condotte dalla guardia di finanza di Catania, è finito in carcere su disposizione del gip. Palermo. Avvocato minacciato in carcere: “Un agente ha tentato di aggredirmi” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 gennaio 2024 La denuncia choc del legale, che si è recato al “Pagliarelli” di Palermo per sollecitare il mancato accredito dei soldi inviati dai familiari a tre detenuti stranieri: “Allontanato con minacce di arresto”. Si tratta di un grave episodio, e potrebbe essere non isolato, che evidenzia ulteriori criticità e violazioni dei diritti umani nelle carceri italiane. Coinvolge i detenuti, ma anche gli avvocati difensori che hanno subito minacce di arresto e tentativo di aggressione da parte di operatori penitenziari. È un caso che riguarda il carcere “Pagliarelli”. I legali denunciano una serie di omissioni che hanno privato tre detenuti stranieri azeri del loro diritto a ricevere i contributi economici dei familiari per soddisfare le loro esigenze di vita quotidiana, come l’acquisto di cibo e di prodotti per l’igiene personale. Inoltre, il mancato versamento dei bonifici impedisce ai detenuti di comunicare a mezzo telefono con i familiari e i propri difensori. Emerge che i tre detenuti reclusi al carcere di Palermo, da due mesi sono senza i soldi che i familiari hanno inviato loro tramite bonifico bancario. Da osservare che c’è stato già un precedente nei confronti dei detenuti stranieri stessi avvenuto a settembre, risolto grazie all’intervento del garante regionale delle persone private della libertà Santi Consolo. Gli avvocati difensori Stefano Giordano e Giovan Battista Lauricella hanno formalmente presentato una diffida alle figure chiave dell’istituzione, tra cui la direttrice del carcere e il provveditorato della Sicilia del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. L’accusa? L’ennesimo mancato accredito di somme bonificate ai tre detenuti stranieri. Gli avvocati, nominati difensori di fiducia dei detenuti, rivelano una cronologia di eventi a dir poco incresciosi. Il 18 dicembre 2023, su incarico dei familiari dei detenuti, l’avvocato Stefano Giordano ha effettuato tre bonifici bancari per un totale di 450 euro, allo scopo di garantire loro l’accesso al denaro. Tuttavia, le somme non sono mai giunte sui conti correnti personali dei detenuti, come affermano i difensori dopo un’interlocuzione telefonica con i reclusi stessi. Ricordiamo che i detenuti, senza denaro, non hanno altre alternative che sperare nell’aiuto dei compagni di cella. Quello che passa il carcere, e questo è noto, non basta: dal cibo fino ai prodotti di igiene personale. Senza soldi, non puoi comprare nulla e si rischia una ulteriore degradazione personale. Non avere in carcere i soldi per comprare neanche degli stuzzicadenti o sigarette, aumenta la vulnerabilità e diventare un peso anche per chi sta intorno. Immaginiamo durante il periodo natalizio in carcere. I tre detenuti stranieri, però, un aiuto dai famigliari lo hanno avuto. I soldi potevano averli. Ma nulla da fare. Come scrivono i legali nella diffida, il mancato versamento dei bonifici sui conti personali dei ristretti costituisce una grave e ingiustificata omissione pregiudizievole dei diritti fondamentali. Di fatto, ai sensi dell’articolo 3 Cedu, risulta essere una condizione degradante. Dopo che gli avvocati hanno appreso del mancato accredito, il 22 dicembre scorso si sono recati presso l’ufficio ragioneria del carcere di Palermo per sollecitare l’accredito delle somme, sottolineando l’urgenza per i detenuti di usufruire dei fondi loro spettanti. Nella diffida, si parla di non poche difficoltà avvenute all’interno dell’ufficio, tanto che si è reso necessario l’intervento della vice direttrice Teresa Monachino. Il Dubbio ha contatto l’avvocato Giordano per capire cosa sia accaduto: dal suo racconto è emerso qualcosa di a dir poco scioccante. “Dopo aver appreso del mancato accredito delle somme bonificate sui conti personali di ciascun detenuto, unitamente all’avvocato Lauricella - racconta il legale -, mi sono recato presso l’ufficio contabilità, al fine di comprendere le ragioni per le quali le predette somme non erano ancora state rese disponibili ai detenuti beneficiari”. L’avvocato sottolinea a Il Dubbio che dopo aver cercato di spiegare, al funzionario facente funzioni, le problematiche connesse al mancato accredito delle somme, gli viene riferito che l’ufficio aveva posto in essere tutti gli adempimenti loro spettanti. “Dopodiché la stessa funzionaria, urlando, mi ha invitato ad andare via”, rivela l’avvocato, anticipando quindi un clima che progressivamente diventava sempre più incandescente. “Ben presto - prosegue Giordano - la situazione è sfuggita di mano posto che le urla della dottoressa, tanto inspiegabili quanto di cattivo gusto hanno attirato l’attenzione del personale presente. Dopodiché è intervenuto un terzo soggetto - appartenente alla polizia penitenziaria, il quale, palesandosi quale marito del funzionario dell’ufficio contabilità - ha letteralmente tentato, a più riprese, di aggredirmi”. Una situazione imbarazzante e surreale. “Neppure l’intervento della vice direttrice - sottolinea con amarezza l’avvocato - è riuscito a calmare le ire dei miei aggressori tanto che siamo stati costretti, con il collega Lauricella, a trovare rifugio all’interno dell’ufficio della vice direttrice”. La situazione si è fatta sempre più drammatica. “Come se non bastasse - prosegue con sconforto l’avvocato Giordano - il mio aggressore ha fatto ingresso nel predetto ufficio minacciando più volte il mio arresto. Con notevoli difficoltà la vice direttrice (con l’ausilio di un agente di polizia penitenziaria) è riuscita ad allontanare il “marito aggressivo” scusandosi del comportamento assunto dalla polizia penitenziaria e dal funzionario”. Il legale non riesce a nascondere la sua indignazione e umiliazione ricevuta. “Eventi come questi te li aspetti negli ex regimi sudamericani!”, afferma l’avvocato. Nel contempo ci tiene a sottolineare che ha sempre avuto ottimi rapporti con gli agenti penitenziari e che ha potuto constatare che sono sempre stati dei professionisti. “Ma è inaccettabile che l’arma possa essere infangata da queste pecore nere come il soggetto che mi ha gravemente minacciato. Per tutelare i miei assistiti detenuti al Pagliarelli ho evitato di fare subito una denuncia presso l’autorità giudiziaria. Ora provvederò!”, annuncia l’avvocato Giordano. Nonostante ciò, ad oggi le somme non sono state ancora accreditate sui conti dei detenuti. Questa vicenda solleva gravi interrogativi, mettendo in luce una serie di inefficienze che danneggiano i detenuti e pongono in discussione il rispetto dei loro diritti fondamentali. Ma anche quelli degli avvocati difensori, tanto da subire minacce da chi dovrebbe tenere - come recita il regolamento stesso - “un comportamento improntato a professionalità, imparzialità e cortesia e mantenere una condotta irreprensibile, operando con senso di responsabilità ed astenendosi altresì da comportamenti o atteggiamenti che possono recare pregiudizio al corretto adempimento dei compiti istituzionali”. Nuoro. Ergastolano scrive a Sdr: “Il pensiero di morire in galera è un affanno indescrivibile” Ristretti Orizzonti, 9 gennaio 2024 “L’affanno che si prova al solo pensiero di dover morire in galera non si può descrivere. Sono stato arrestato la prima volta nel febbraio 1976, quando avevo 16 anni e da allora, a parte un paio d’anni (1981-1983) in cui sono evaso dall’isola di Pianosa, sono sempre stato detenuto. È vero che mi sono reso responsabile di varie evasioni, perlopiù dei colpi di testa dovuti all’affanno di dover rientrare in carcere, ma dal 1987 in poi non ho mai commesso dei reati nel corso di questi benefici”. “Parole di speranza ma anche di disperazione che non possono lasciare indifferenti - sottolinea Maria Grazia Caligaris di “Socialismo Diritti Riforme ODV”, l’associazione che ha ricevuto la toccante lettera di G. M., detenuto nella Casa Circondariale di Nuoro “Badu ‘e Carros, condannato all’ergastolo. Parole che fanno riflettere sulle condizioni di vita dentro una cella, sul peso della solitudine e di una esistenza nata storta e su quanto il principio della riabilitazione sociale abbia necessità di strumenti più incisivi, soprattutto quando il percorso deviante inizia durante l’adolescenza. La perdita della libertà in condizioni di sofferenza può essere un peso insopportabile senza opportuni sostegni”. “Ho 63 anni - osserva G.M. - ne ho fatti 47 di carcere. Con i giorni di liberazione anticipata arrivo a 56 anni scontati, vale a dire più del doppio di quanto preveda il Codice Penale affinché un condannato all’ergastolo possa chiedere la liberazione anticipata. Attualmente nel mio futuro vedo solo due strade possibili: chiedere la grazia presidenziale o farla finita una volta per tutte, perché sono veramente allo stremo delle forze. Del G.M. del passato restano solo i dati anagrafici sulla carta d’identità. È credibile che dopo 47 anni io non sia cambiato?”. “Lo stigma legato al reato originario sembra - evidenzia l’esponente di SDR - indelebile e si aggiunge agli errori, come il mancato rientro dopo un permesso premio, che purtroppo possono verificarsi nell’arco di decine di anni trascorsi dietro le sbarre e con il desiderio irrefrenabile e incontenibile di non vedere più una cella. Errori certamente da considerare ma che non possono identificarsi per sempre con chi li ha commessi. La persona non è il suo reato, si sente dire, ma poi nella quotidianità le opportunità si misurano con quella fiducia tradita e si sotterra il seme della speranza e del riscatto”. “Il desiderio di libertà - afferma P.M., pur nella consapevolezza degli errori commessi - non si può soffocare, è dentro ciascuno di noi esseri umani”. “Proprio per questo, l’essenza dell’esistenza non può prescindere dalla libertà, un valore - conclude Caligaris - che deve essere presente soprattutto laddove viene meno. Espiare una pena non può prescindere dalla speranza di riottenerla, anche soltanto per assaporarne il gusto e per non dover morire dentro un carcere. G.M. sembra averlo capito a chi di dovere il compito di valutare la sua buona fede e dargli una nuova possibilità”. Firenze. Detenuta tunisina incinta di tre mesi. Il Garante: “Dovrebbe essere ai domiciliari” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 9 gennaio 2024 A Sollicciano mancano anche le visite. Incinta da quasi tre mesi eppure detenuta a Sollicciano, in una cella dove ci sarebbero problemi di infiltrazioni d’acqua. È la storia di una reclusa tunisina, arrivata in Italia pochi mesi fa e arrestata per spaccio di sostanze stupefacenti. Ad accertare la sua maternità era stata una visita a metà novembre, ma dopo quel giorno la signora non avrebbe ricevuto più alcuna visita ginecologica adeguata, visto che nel penitenziario fiorentino non ci sono gli strumenti adatti che si possono trovare invece dentro un ospedale. Ecco perché il giudice per le indagini preliminari ha autorizzato il carcere a procedere con visite esterne, che non sarebbero mai avvenute. A seguire legalmente la signora è l’avvocata Sabrina Del Fio, secondo cui è piuttosto grave che una donna incinta sia reclusa in carcere, soprattutto senza la possibilità di essere adeguatamente seguita da un punto di vista medico. A rendere più complicata la situazione, il fatto che la donna non abbia documenti di identità. Secondo la legge, l’esecuzione di una pena per una donna incinta, oltre che per le madri che hanno un figlio di età inferiore a un anno, deve essere scontata fuori dal carcere, almeno che non prevalgano necessità cautelari. In casi simili a questo, la pena può essere scontata agli arresti domiciliari. La signora tunisina avrebbe detto di potersi trasferire in una casa dove ha fatto la badante per qualche settimana. In caso alternativo, sarebbe possibile trasferire la signora in una casa famiglia, ma non è così semplice trovare una struttura. Fatto sta, che la signora, col figlio in grembo, resta in carcere. Una storia seguita anche dal Garante provinciale per i diritti dei detenuti Eros Cruccolini: “Le condizioni di chi vive il carcere sono sempre molto difficili, se a questo si aggiunge una gravidanza diventano ancora più complicate. La maternità sarebbe un momento particolare da vivere in condizioni di serenità e non di detenzione, anche perché le colpe delle madri non possono ricadere sui figli e chi è in grembo non ha nessuna colpa”. Udine. In carcere è stata attivata la sezione semiliberi. Corleone: “Un vero cambio di passo” di Anna Piuzzi lavitacattolica.it, 9 gennaio 2024 Il 2024 promette di essere l’anno che segnerà una svolta decisiva per la casa circondariale di Udine, una svolta dunque anche per la città tutta, essendo il carcere di via Spalato un suo tassello fondamentale. È infatti in programma per martedì 23 gennaio l’inaugurazione della “Sezione Semiliberi”, attesa concretizzazione di un progetto articolato - del valore di cinque milioni di euro - di riqualificazione del complesso carcerario. Concretizzazione che è solo la prima di una serie. Ne abbiamo parlato con il garante dei Diritti delle Persone private della Libertà personale del Comune di Udine, Franco Corleone. Corleone, un traguardo importante quello del 23 gennaio... “Importante davvero perché questa inaugurazione rappresenta la prima realizzazione concreta e visibile di un progetto che evidentemente non era una proclamazione generica, di quelle che cadono nel vuoto, ma un’idea di ristrutturazione valida e fondata”. Guardiamo alla vita delle persone detenute in regime di semilibertà, che cambiamento sarà per loro? “Senz’altro un cambiamento significativo. Parliamo infatti di persone che escono la mattina per andare al lavoro e che, fino ad oggi, facevano rientro in carcere, in una situazione molto infelice. È importante evidenziare che la concezione più avanzata di semilibertà prevede strutture che stanno al di fuori del carcere: è così in diverse città, in molte altre, invece, com’è stato finora a Udine, l’apposita sezione si trova dentro alla casa circondariale. Dunque dal 23 gennaio queste persone non dovranno più entrare formalmente in carcere, ma usufruiranno di alloggi confortevoli”. Quali spazi sono stati impiegati? “È stato recuperato uno spazio abbandonato - nella palazzina storica, sopra la portineria - che decenni fa era impiegato come alloggio di servizio. È questo il filo conduttore di tutti gli interventi, basti pensare che lo stesso è accaduto per la cappella (per il cui recupero ha contribuito finanziariamente anche l’Arcivescovo) e la stanza per il Consiglio dei detenuti, luoghi che prima versavano in stato di abbandono e che, invece, ora sono meravigliosi”. Questa è solo la prima di una serie di realizzazioni, quali i prossimi passi? “A Pasqua ci dovrebbe essere il taglio del nastro del polo culturale ed educativo nell’ex sezione femminile. Anche quello era uno spazio abbandonato dove ora, invece, ci sarà la possibilità di fare numerose attività culturali che immagino saranno gestite soprattutto dall’associazione “Icaro”, ma più in generale dal volontariato. E poi uno spazio per la scuola, per la biblioteca e anche per alcune lavorazioni”. Anche i locali dove prima erano collocate biblioteca e aule avranno una nuova vita? “Sì, verranno demoliti, al loro posto sorgerà un teatro. Non solo. L’infermeria sarà spostata al pian terreno per favorirne la fruizione. Insomma i prossimi mesi saranno un grande cantiere che restituirà condizioni di vita migliori e la possibilità di attività molto diverse, con un beneficio per tutta la città. Abbiamo impiegato tre anni tra progettazione e lavori, ma sono stati ben spesi”. Un patrimonio che esige responsabilità, quale ruolo dovrebbero giocare le istituzioni? “Tutta la ristrutturazione dovrebbe vedere l’interesse e l’impegno della Regione (soprattutto sul fronte della Sanità) e del Comune che dovrebbe occuparsi di tutte le questioni che, come Garante, ho posto sul tappeto a dicembre: dalla gestione dei rifiuti, con la raccolta differenziata e la realizzazione di un’isola ecologica, a una convenzione col carcere per i lavori socialmente utili per alcuni detenuti”. Lei ha sollecitato anche l’apertura di uno “sportello cittadinanza”... “Per dare risposta alle troppe persone che non hanno documenti, dalla residenza alla patente, passando per il permesso di soggiorno: c’è bisogno di un punto di riferimento. Mi auguro che il Comune sblocchi l’impasse che c’è da troppo tempo per realizzare questa realtà”. Torniamo ai detenuti in condizione di semilibertà, il fatto che non debbano più rientrare in carcere significa per loro anche avere uno sguardo diverso sul proprio futuro. Quanto è importante questo per un reinserimento? “Udine ha 10-12 persone in regime di semilibertà e - considerato il numero complessivo dei detenuti - non sono poche. Però si può fare di più, la magistrata di sorveglianza del Tribunale di Udine, Mariangela Cunial, sollecita un maggior numero di posti. Il problema è che servono spazi, il Comune, potrebbe mettere a disposizione un immobile a tale scopo. Potrebbero esserci insomma più persone a godere dei benefici della semilibertà, ma se mancano casa e lavoro, tutto resta bloccato. Insomma puntiamo a che questa nuova sezione porti altre strutture per la semilibertà, diffuse sul territorio”. Lei ha avanzato in tal senso anche una precisa proposta di legge... “Sì, diciamo che segue la stessa linea. Ho proposto infatti l’apertura di “case di reinserimento sociale” per i detenuti che hanno un fine pena inferiore ai dodici mesi. Sarebbe una novità importante, anche se si collega in qualche modo alle “case mandamentali” che dal 1940 al 2000 sono state numerose in Italia, dedicate alle condanne del Pretore”. In concreto in cosa consisterebbero? “Non si tratterebbe di luoghi gestiti dall’Amministrazione penitenziaria, ma dal sindaco. Immaginiamo strutture da 5-10 posti, piccoli numeri che favorirebbero il reinserimento nel tessuto sociale in una comunità anche piccola”. Serve anche un maggior coinvolgimento della società civile? “Indubbiamente, ma va detto che c’è una presenza forte del volontariato e delle associazioni, come Icaro e Caritas, che danno un bell’impulso. Il problema è che va diffusa tale sensibilità e in questi anni abbiamo cercato di farlo, penso ad esempio al coinvolgimento dell’Università per il progetto architettonico di riqualificazione del carcere”. L’Università a breve firmerà una nuova convenzione… “Sì, volta alla valorizzazione del patrimonio storico del carcere. Durante i lavori di restauro abbiamo infatti rinvenuto, nel sottotetto, gli elenchi delle presenze in via Spalato dagli anni Venti agli anni Cinquanta”. …manca forse all’appello la componente “produttiva” della società? “Direi di sì. Anche qui però servono condizioni adeguate. Per le lavorazioni noi abbiamo avuto delle proposte di alcune cooperative, il problema ancora una volta sono gli spazi”. Avete individuato già alcune possibili ipotesi? “Dietro il carcere c’è un’area che prima era del Comune e poi, per una permuta, è stata ceduta ai Carabinieri. Andrebbe “riconquistata”, lì infatti c’è una palazzina inutilizzata da dieci anni che sarebbe perfetta per realizzare laboratori per alcune lavorazioni”. Una soluzione che darebbe risposte importanti in termini di reinserimento? “Sì, perché noi a Udine abbiamo soprattutto una detenzione di emarginazione che va recuperata attraverso cultura e lavoro. Servono energie e disponibilità, il mio auspicio è che tutte le realizzazioni di questo progetto di riqualificazione convincano sempre più componenti della società a mettersi in gioco”. Tempio Pausania. Caos nel carcere: sovraffollamento e condizioni difficili per i detenuti di Maria Verderame galluraoggi.it, 9 gennaio 2024 Il carcere di Tempio-Nuchis vive in una condizione di sovraffollamento e diritti violati per i detenuti. La situazione, presente in misura peggiore nelle case circondariali di Cagliari e Sassari, è stata documentata dall’associazione Socialismo Diritti Riforme Odv, che documenta che la condizione degli istituti non è affatto migliorata negli ultimi 12 mesi. A Tempio-Nuchis sono 176 i detenuti nel carcere e i posti massimi sono 170. Complessivamente, in Sardegna ci sono 2.140 detenuti per 2.616 posti, 1 detenuto su 4 è straniero. Una situazione che causa profonde problematiche di convivenza tra i detenuti. L’associazione registra un miglioramento leggero nelle Colonie Penali, che sono 324 ma il divario rispetto ai posti disponibili (598) è elevato. Maria Grazia Caligaris dell’associazione Socialismo Diritti Riforme Odv facendo ha osservato che nell’arco di 12 mesi la situazione negli Istituti Penitenziari della Sardegna non è migliorata, anche se è cresciuto il numero dei Direttori. Tuttavia, c’è poco personale e gravi problematiche sanitarie per i detenuti, che compromettono il loro recupero sociale. Anche l’associazione Antigone ha pubblicato un rapporto che documenta la situazione delle carceri in Italia e in Sardegna. Nelle carceri isolane la percentuale di copertura della polizia penitenziaria è del 65,16% e la media dei detenuti/agenti è di 1,66. Circa 5,44 detenuti su 100 soffre di gravi patologie psichiatriche e 2,73 ogni 100 è tossicodipendente. Nel corso dell’anno 2023 sono 17 i TSO sui detenuti. Nel carcere di Tempio c’è solo 1,79 settimanale disponibile per curare i detenuti psichiatrici e non si sono registrate nel 2023 situazioni di tossicodipendenza e casi psichiatrici gravi. Tuttavia nel carcere ci sono altre criticità. Solo il 31,55% dei detenuti ha un lavoro, mentre nelle carceri della Sardegna la percentuale è del 53,69%. La condizione femminile nelle carceri sarde. Critica è anche la situazione delle donne detenute in Sardegna. Nella metà delle case di detenzione non c’è un servizio di ginecologia dentro il carcere e nemmeno di ostetricia. Spesso si tratta di sezioni a parte dentro carceri maschili. Le donne sono meno coinvolte nelle attività professionali e questa situazione è presente in molti istituti in Italia, poiché pesano molto gli stereotipi di genere. Infatti, nell’Isola nel 2023 non c’è stata per le donne la possibilità di lavorare negli istituti e solo il 2,63% delle detenute ha lavorato per altri datori. Il 26,32% è stata coinvolta nella formazione professionale a Sassari. A Uta la situazione è più drammatica: 22,22% delle donne coinvolte in isolamenti disciplinari. Fortunatamente nelle carceri sarde non vivono bambini. Padova. Rugby per gestire la rabbia, i corsi del Cus in carcere di Dimitri Canello Corriere del Veneto, 9 gennaio 2024 Due anni di allenamenti per formare le squadre. Il 2024 comincia con la meta più bella e con il via libera al progetto “Rugby in carcere”. Merito dell’Ulss 6 Euganea, dell’amministrazione penitenziaria e del Cus Padova, ente partner di realizzazione, che hanno pensato a un progetto partito nel 2023 e che potrebbe continuare per le prossime due annualità. Si svolgerà con cadenza bisettimanale, per un totale di 20 incontri annui della durata di 2 ore. I primi due sono andati in scena la settimana prima di Natale, per far conoscere ai partecipanti una serie di attività che hanno come scopo principale quello di fornire ai pazienti in ambito penitenziario, con problematiche di dipendenza patologica, una risorsa per apprendere e canalizzare le proprie energie positive, attraverso un’attività sportiva nella quale il rispetto delle regole e dell’altro sono fondamentali. Il responsabile tecnico è Vanni Zago che si avvale del supporto del preparatore atletico Maurizio Ercolino, assieme al quale terrà una serie di lezioni sia in aula che in campo. Durante la prima fase si faranno conoscere ai partecipanti le regole fondamentali e lo spirito del gioco del rugby. Quindi, si insegneranno i fondamentali e le tecniche di “affrontamento” ed “evitamento”, passo fondamentale per arrivare allo svolgimento di gare di pratica e competizione interna. L’obiettivo è quello di formare due squadre di rugby a 7 fino ad arrivare a mettere in piedi un’unica compagine in grado di svolgere anche competizioni esterne: “Il gioco del rugby - spiega il coordinatore del progetto Silvio Decina - nonostante il contatto fisico è basato principalmente sul rispetto nei confronti dell’avversario e sulla capacità di controllo degli impulsi e della gestione delle emozioni sul rispetto nei confronti dell’avversario e sulla capacità di controllo degli impulsi e della gestione delle emozioni ha forte valenza educativa, con un’alta potenzialità finalizzata alla riabilitazione della persona, al rispetto delle regole e al muoversi in gruppo”. Massa Marittima (Gr). Studenti e detenuti insieme a servizio dell’arte di Roberta Barbi vaticannews.va, 9 gennaio 2024 Entra nel vivo il progetto delle superiori della scuola pontificia Pio IX di Roma che vedrà nel mese di gennaio alcuni studenti dell’ultimo anno accanto ai detenuti della casa circondariale di Massa Marittima, Grosseto, per realizzare murales all’interno dell’area ricreativa del carcere con una guida d’eccezione: lo street artist Maupal. Non sono solo disegni, non sono solo colori, non sono solo una forma d’arte, i murales che spiccheranno presto sulle mura dell’area ricreativa della casa circondariale di Massa Marittima, in provincia di Grosseto, ma saranno un incontro tra cuori: quelli dei detenuti ospiti della struttura che per tutto il mese di gennaio lavoreranno con un gruppo di studenti dell’ultimo anno delle superiori della scuola Pontificia Pio IX di Roma. Non è un caso, infatti, che l’idea di questo progetto artistico così originale, venga da un’associazione che il cuore ce l’ha nel nome: Operazione Cuore ets, in collaborazione con l’associazione Fratel Emanuel Francesconi onlus. Originale è anche la scelta del cuore che guiderà mani e pennelli: lo street artist Maupal, in arte Mister Pope, che certo non ha bisogno di presentazioni e che è ormai un veterano di progetti artistici in carcere. “Il linguaggio artistico è universale, capace di parlare alle menti e ai cuori di tutti - presenta il progetto fratel Andrea Bonfanti, direttore del Pio IX - anche per questo abbiamo chiamato il progetto ‘Arte senza confini’, che già nel nome spinge a uscire dai propri limiti anche fisici e geografici”. Non è la prima volta che Maupal e il Pio IX si incontrano: lo scorso anno, per un progetto chiamato ‘Ars in schola’, l’artista ha guidato un gruppo più ampio di studenti, dalle elementari fino al liceo, nella realizzazione di murales all’interno della scuola stessa, sul tema della misericordia: “È un tema molto caro a Papa Francesco e poi fa parte del carisma della nostra congregazione che si chiama, appunto, Fratelli di Nostra Signora della Misericordia”, prosegue Fratel Andrea che spiega come il progetto in corso con il carcere ,che in questo mese entra nel vivo, sia stato preceduto da un lavoro preparatorio con i giovani partecipanti, anche e soprattutto da un punto di vista educativo: “Abbiamo avuto numerosi incontri per parlare di che cos’è il carcere, cercare di capire come vivono i detenuti rinchiusi e lontano dagli affetti, ascoltato testimonianze… abbiamo cercato di prepararci al meglio, insomma, a questo importante incontro con l’altro”. Certamente quello artistico è un linguaggio che tutti possono comprendere perché, in quanto visivo, riesce a superare eventuali barriere linguistiche, ma per il progetto educativo del Pio IX l’arte è molto più di questo: “È fondamentale nella vita di ciascuno, tira fuori il lato migliore di noi - continua il direttore - è un’espressione di sé che consente di rapportarsi al prossimo e anche al Signore in modo diverso”. Cosa raffigureranno, dunque, questi murales all’interno della casa circondariale di Massa Marittima? “Questo lo decideranno insieme, detenuti e studenti, quando finalmente si incontreranno”, conclude Fratel Andrea. Lo deciderà, insomma, l’incontro tra due cuori distanti ma uguali. La Congregazione dei Fratelli di Nostra Signora della Misericordia è stata fondata a Malines, in Belgio, il 25 gennaio 1839 dal sacerdote Victor Scheppers, il cui motto “Honor Deo, labor mihi, utilitas proximo - l’onore a Dio, a me la fatica, l’utilità al prossimo”, esprime con ineguagliabile chiarezza la missione di qualunque cristiano che si fa strumento nelle mani di Dio mettendosi a servizio del prossimo. Si tratta di un istituto religioso maschile di diritto pontificio che si specializzò inizialmente nel servizio alle carceri, soprattutto quelle minorili, per poi dedicarsi all’insegnamento e all’educazione dei più giovani e svantaggiati aprendo diverse scuole professionali e scuole serali. Bari. Un bookpodcast festival per l’edizione 2024 di LegalItria di Rosa Arianna Romano Corriere del Mezzogiorno, 9 gennaio 2024 Dalla lettura all’ascolto, dai libri allo strumento virtuale per diffondere i valori della legalità tra le nuove generazioni. Ecco l’obiettivo di Radici Future Produzioni. Legalità. Accessibilità. Inclusione. Sono le parole chiave che scrivono il futuro di Radici Future Produzioni, delineando nuove prospettive per l’anno appena cominciato. Ieri, durante la conferenza stampa nella sala Campione della Regione Puglia, sono stati tracciati gli obiettivi che si pone per il 2024 Radici Future Produzioni - Legalitria, la società cooperativa impegnata nel campo del sociale e della rigenerazione territoriale, guardando a una diffusione orizzontale della cultura. È per questo che l’oggetto libro, perno su cui ruota Legalitria sin dai suoi albori, viene affiancato dal podcast, strumento che avvicina le giovani generazioni e non solo, rendendo la lettura ancora più fruibile grazie all’ascolto. Così Radici Future lancia il Legalitria bookpodcast. “Abbiamo pianificato la trasformazione di Legalitria nel primo bookpodcast festival italiano per la legalità, coinvolgendo Regione Puglia, Teatro Pubblico Pugliese, i garanti regionali dei detenuti e dei minori, nonché i Comuni partecipanti - spiega Leonardo Palmisano, presidente Radici Future Produzioni -. Usciamo dal tema del cartaceo perché, in questi sei lunghi anni di offerta gratuita di accesso alla lettura, ci siamo resi conto che, anche quando gli studenti sono obbligati a leggere, i differenziali culturali non sempre vengono livellati. Con l’ascolto sì: attraverso le piattaforme regionali delle biblioteche i contenuti verranno distribuiti in forma audio. Vogliamo portare al libro ripartendo dall’ascolto”. Per farlo, Radici Future Produzioni continuerà a investire nella formazione e reinserimento dei detenuti tramite la cooperativa sociale Ventinovenove e collaborerà con la Noi&Voi Onlus di Taranto e con Fandango Podcast. Guardando già a Ecoculture, primo festival “che offre la pluralità delle culture della transizione ecologica”, l’obiettivo della società è anche favorire l’ottimizzazione della spesa dei fondi Pnrr: se nel 2023 si è puntato a questo obiettivo con il bando sui beni confiscati alle mafie, nel 2024 nascerà uno spin-off con il Politecnico di Bari teso allo stesso scopo. Insieme a Palmisano, a presentare i nuovi progetti di Rfp, moderati da Gianni Svaldi, direttore Rfm, erano presenti anche Loredana Capone, presidente del consiglio regionale, Carmelo Rollo, presidente LegaCoop Puglia, Piero Rossi, garante delle persone sottoposte a limitazione della libertà, Ludovico Abbaticchio, garante dei minori, Antonio Giampietro, garante dei diritti delle persone con disabilità, Grazia Dibari, consigliera con delega alla Cultura, Lella Ruccia, consigliera di parità, Giusi Toto, docente Università di Foggia, Michele Montemurro, docente Politecnico di Bari.Insieme hanno evidenziato come il tema della legalità possa diffondersi non solo a livello “locale”, ma anche “virtuale”: “Parlare di legalità oggi significa anche guardare a una rivoluzione culturale - ha precisato Capone -, che riguarda ognuno di noi in ogni momento della vita. Anche nel rapporto tra donne e uomini. Per questo bisogna parlare di questi temi, soprattutto partendo da bambini e bambine, per gettare semi che possano fiorire”. Varese. Uno spettacolo e la giustizia riparativa per rigenerare relazioni varesenews.it, 9 gennaio 2024 Sguardi Ri-volti, un lavoro teatrale, nato da un’idea di cooperativa “Lotta Contro l’Emarginazione”, Fondazione Enaip che sta girando diverse città con l’obiettivo di far conoscere il mondo del carcere e avvicinarlo alla comunità. Sei donne e tre uomini sul palco. Pantaloni e magliette nere davanti a un pubblico che già molto prima dell’inizio dello spettacolo aveva riempito ogni spazio dei Magazzini Tumiturbi di via De Cristoforis a Varese. Solo due ragazze vestite tutto di bianco a rappresentare la giustizia. Quella con la bilancia e la spada, ma bendata perché spesso incapace di andare oltre a un sistema di regole rigide. Un laboratorio teatrale che ha mandato in scena il gruppo di attrici e attori volontari con Gaia A., Roberta B., Francesca B., Lorenzo B., Evi B., Stefano B., Roberta C., Michela M., Simone R., Barbara T. e Mauro T. Alla regia di Michela Prando che insieme agli altri del progetto ha raccolto diverse interviste in carcere rivolte a chi ha commesso un reato o a chi lo ha subito. Una rissa, un omicidio stradale sono solo il pretesto per raccontare gli stati d’animo dei protagonisti. La rabbia, la voglia di vendetta, il dolore, la disperazione si fanno strada tra gli attori che si chiedono spesso se esista una giustizia che possa riparare quanto successo. Tutto sembra infranto. I sogni e la purezza di un bambino di otto anni travolto da un’auto di una ragazza che non smette di dichiarare la propria onestà, l’essere una brava persona, l’aver avuto solo un istante di distrazione giustificato. Ma intanto un’azione, come le parole, diventano pietre e cambiano la vita di tanti. Così come la rissa scaturita da tensioni e da insulti generando una violenza come non si era mai vista. Fatti che non possono essere cambiati, ma che non restituiranno le condizioni precedenti se la giustizia servirà solo a dar spazio al sentimento della vendetta. Le regole così, si sente ripetere spesso sul palco, sono figlie delle scelte della comunità, della cultura del momento. E allora torna forte il bisogno di pensare a quanto scritto nell’articolo 27 della nostra Costituzione che è assai differente dai brani letti di Platone e Aristotele dove si pensa che tutto si risolva con la punizione. “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. La riflessione porta a una visione diversa, a un bisogno di portare lo sguardo ad angolature diverse dando spazio al bisogno di riparare dolori partendo dalla dignità di ogni essere umano e cercando il punto di incontro tra chi ha commesso il reato e chi lo ha subito. “Non voglio più sentire quel rancido in bocca alimentato dal veleno della vendetta”. Pronuncia con forza una delle protagoniste. La giustizia riparativa diventa così un cambiamento di paradigma rigenerando relazioni. Non rimuove il passato ma lo utilizza mettendo le parti uno di fronte all’altro. La serata era parte di un progetto sulla giustizia riparativa. Un lavoro teatrale, nato da un’idea di cooperativa “Lotta Contro l’Emarginazione”, Fondazione Enaip e la direzione della Casa Circondariale di Varese Miogni, e che sta girando diverse città con l’obiettivo di far conoscere il mondo del carcere e avvicinarlo alla comunità. Sos diritti, non c’è felicità senza libertà di Filomena Gallo* La Stampa, 9 gennaio 2024 “Buon anno”. Questo è l’augurio che facciamo e che riceviamo in questi giorni. Sarebbe bello sì, un nuovo anno che in questo nostro paese almeno realizzi il desiderio di stabilità e di certezza in materia di diritti fondamentali della persona. La possibilità di poter guardare al tempo che arriva e che passa con la certezza che le nostre libertà personali saranno rispettate. Occorrerebbe per questo un’agenda politica che porti un futuro dove i nostri diritti siano garantiti e protetti. Una agenda che ponga i diritti fondamentali al centro dell’investimento che siamo tutti chiamati a fare sul presente e su un futuro diverso: fondi per la ricerca scientifica e per la cura delle malattie rare, il Piano Sanitario Nazionale da riformare dal 2006 affinché lo Stato possa stabilire le linee generali di indirizzo del Servizio Sanitario Nazionale che possa rispondere alle esigenze mutate delle persone con fragilità diverse, il diritto alla scienza, una informazione corretta, l’ambiente, i diritti civili, la partecipazione alla vita democratica. E questa è l’agenda che l’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica ha adottato. Non è un elenco asettico di termini, parole messe lì come concetti astratti. No, riguardano le nostre vite. Quando nel giugno 2012 l’Assemblea generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, con una risoluzione, ha stabilito che ogni anno vi sia la giornata internazionale della felicità, ha voluto andare al cuore delle questioni. La risoluzione recita: “L’Assemblea generale, consapevole che la ricerca della felicità è uno scopo fondamentale dell’umanità, riconosce la necessità di un approccio più inclusivo, equo ed equilibrato alla crescita economica che promuova lo sviluppo sostenibile, l’eradicazione della povertà, la felicità e il benessere di tutte le persone. E decide di proclamare il 20 marzo la Giornata Internazionale della Felicità, invitando tutti gli stati membri, le organizzazioni del sistema delle Nazioni Unite, e altri organismi internazionali e regionali, così come la società civile, incluse le organizzazioni non governative e i singoli individui, a celebrare la ricorrenza della Giornata Internazionale della Felicità in maniera appropriata, anche attraverso attività educative di crescita della consapevolezza pubblica”. Se gli Stati Uniti nella Dichiarazione d’indipendenza hanno previsto il diritto alla felicità, nel nostro paese non si è voluto elevare a diritto uno stato emotivo. Possiamo includerlo solo indirettamente nell’articolo 3 della nostra Costituzione, e più precisamente “nel pieno sviluppo della persona umana”, in quanto “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. La libertà è la precondizione della nostra felicità, perché siamo diversi e quindi ognuno, nel rispetto delle libertà altrui, dovrebbe poter scegliere come vivere la propria vita. Una democrazia adulta deve rispettare la libertà dei suoi cittadini, dando loro le informazioni e i mezzi e lasciando poi lo spazio per esercitare le preferenze individuali. La coercizione e i divieti sono manifestazioni di una democrazia fragile e impaurita, in cui il profilo morale delle nostre scelte rischia di essere schiacciato dagli obblighi. Dove non c’è la possibilità di scelta non c’è spessore morale. E non ci sono cittadini ma sudditi che devono aderire a modelli paternalistici e moralistici. Buon anno, dunque, in primis di libertà e di diritti fondamentali. *Avvocata, Segretaria dell’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica Se il femminicidio è una tendenza di Dacia Maraini Corriere della Sera, 9 gennaio 2024 Quando le azioni si ripetono sempre uguali e per centinaia di volte in un anno, si deve riconoscere una tendenza culturale, una licenza che consapevolmente o meno, guida la mano di questi mariti e amanti assassini. Speravo che l’anno nuovo, consapevole dell’eccidio che si sta perpetrando sul corpo delle donne, nascesse con una prospettiva di nuova responsabilità. Invece, ecco che il primo giorno del 2024 viene funestato da una ennesima notizia di morte: Rosa D’Ascenzo, di 71 anni è stata uccisa a legnate dal marito di 73 anni. L’uomo si è caricato sulle spalle la moglie e l’ha portata al pronto soccorso dicendo che l’ha trovata morente in fondo alle scale di casa. Ma i medici hanno subito scoperto che i segni dei colpi mortali non avevano niente a che fare con una caduta. C’è ancora qualcuno che di fronte a questi continui delitti si ostina a parlare di raptus, di follia, di impeto di gelosia. Ma quando le azioni si ripetono sempre uguali e per centinaia di volte in un anno, si deve riconoscere una tendenza culturale, una licenza che consapevolmente o meno, guida la mano di questi mariti e amanti assassini. Credo che sia lecito leggerli come una decisione collettiva di punire l’emancipazione femminile. La modalità non cambia mai: un uomo e una donna si trovano, si amano e si mettono a vivere insieme. Poi, col tempo, quando lei mostra qualche segno di indipendenza, lui diventa geloso, ossessivo, comincia a menare le mani, lei protesta, e lui la uccide. La ripetizione del meccanismo fa capire che non si tratta di follia né di un fatto personale. In tutto il mondo succede la stessa cosa. Spesso i governi nascondono le cifre, ma se si va a guardare le statistiche interne si scopre che il numero delle donne uccise nell’ambito familiare sono tantissime: per il solo 2022 si contano 89.000 femminicidi in tutto il mondo. L’Africa ne conta 20.000 all’anno, il Messico 10 donne ogni giorno. E purtroppo, secondo l’Unodc (statistiche dell’Onu) i numeri sono in crescita. Segno che gli uomini più deboli e spaventati prendono l’iniziativa per conto della grande, antica legge dei Padri che vuole le donne assoggettate. Come rimediare? Certamente puntando sulla consapevolezza, sul rispetto e su un tabù che deve diventare assoluto: il corpo è sacro e non si può né possedere né colpire. L’amore, il matrimonio, la coabitazione, i legami affettivi non danno mai il diritto di proprietà e di dominio di un corpo sull’altro. Migranti. Minori non accompagnati, la loro lunga attesa negli hostpot del Sud d’Italia La Repubblica, 9 gennaio 2024 Per assurdo, i tempi medi di permanenza di un adulto negli stessi Centri di prima accoglienza è di circa 7 giorni. Le rilevazioni del team di Medici per i Diritti Umani - MEDU. I fondi per l’accoglienza dirottati nella sicurezza. Novantasei giorni, tanto tempo è passato dal momento in cui J., minore straniero non accompagnato di 16 anni di origini camerunensi, ha messo piede nell’Hotspot di contrada Cifali, (Catania) Sicilia orientale. Come lui, molti minori stranieri non accompagnati restano nelle strutture di prima accoglienza in attesa di un trasferimento ben più dei 30 giorni - recentemente estesi a 45 - previsti dalla normativa. Per assurdo, i tempi medi di permanenza di un adulto negli stessi centri di prima accoglienza è di circa 7 giorni, secondo quanto rilevato dal team di Medici per i Diritti Umani - MEDU, che opera quotidianamente presso gli Hotspot della Sicilia orientale, portando supporto psicologico e orientamento legale. Disattese le tutele previste per legge. Quella di Cifali è una delle tre strutture allestite in Sicilia Orientale per identificare rapidamente i migranti e i richiedenti asilo al momento dell’arrivo, per poi trasferirli in strutture di accoglienza o di rimpatrio. La permanenza in queste strutture dovrebbe durare solo fino al termine delle procedure di identificazione, dunque un periodo estremamente breve. In molti casi, invece, i minori non accompagnati finiscono per restare negli Hotspot oltre tre mesi, senza potersi mai allontanare dalla struttura e in assenza di adeguati spazi, attività e servizi, disattendendo in buona parte le tutele definite dalle normative nazionali e internazionali e dalle indicazioni contenute nel recente “Vademecum per la rilevazione, il rinvio e la presa in carico delle persone portatrici di vulnerabilità in arrivo sul territorio e inserite nel sistema di protezione e accoglienza, redatto dal Ministero per le libertà Civile e l’Immigrazione - in collaborazione con numerose istituzioni ed enti di tutela - il 23 Giugno 2023 e inviato a tutte le Prefetture. Giornate in un non-luogo in aperta campagna. Per il sedicenne del Camerun (J.) le giornate nell’Hotspot di Cifali, scorrono lente senza certezze su quando arriverà il giorno del trasferimento. La struttura versa in condizioni a dir poco precarie, senza riscaldamento e con una sola doccia con acqua calda per una media di 100 ospiti. Un non-luogo in aperta campagna, circondato da alte sbarre, dal quale non è consentito uscire e sorvegliato costantemente da un cospicuo contingente di forze dell’ordine e dell’esercito. Il rimando al recente trascorso, fatto per molti degli ospiti di centri di detenzione, carceri informali, abusi e torture subite lungo le rotte migratorie e nelle carceri libiche è immediato, con il conseguente emergere o acutizzarsi di disturbi post traumatici, come confermato dagli psicoterapeuti del team. Timori, paure e rabbia. Ottantuno giorni dopo il suo arrivo, in data 5 dicembre, J. viene trasferito insieme a tutti gli altri 88 ospiti dell’Hotspot di Cifali - temporaneamente chiuso per ristrutturazione - presso l’Hotspot di Pozzallo. Il giorno dopo, dodici fuggono dal centro per il timore, secondo quanto riferito dai compagni, di essere rimpatriati o trasferiti in Albania. Timore, paura e rabbia, sono gli stati d’animo dei ragazzi incontrati dal team MEDU nei giorni seguenti. Timore di essere rimpatriati, paura per il futuro incerto e rabbia perché sospesi in un limbo indefinito da 3 mesi. 23.798 minori con 6.006 posti disponibili. Al 31 ottobre 2023 si registravano in Italia 23.798 minori stranieri non accompagnati e un totale di 6.006 posti disponibili in strutture SAI (Servizi Accoglienza Integrata) oltre a poche centinaia di posti in strutture FAMI (Fondo Asilo Migrazione e Integrazione). Questo si traduce inevitabilmente nel fatto che solo il 25% dei minori stranieri non accompagnati trova posto nei SAI o nelle strutture FAMI, il restante 75% in parte viene accolto in famiglie (quasi tutti minori di nazionalità ucraina) o in strutture autorizzate di responsabilità regionale o comunale. I più sfortunati, come J., attendono in un limbo per più di 3 mesi, senza la possibilità di spostarsi, in camerate enormi e prive di riscaldamento e con davanti un futuro incerto. 45 milioni per l’accoglienza dirottati nella sicurezza. A fronte di questa drammatica situazione, il Governo, con un emendamento alla legge di bilancio, ha stabilito l’equiparazione dei minori tra i 16 e i 18 anni ai maggiorenni, in termini di tutele. In contemporanea, con lo stesso decreto, parte dei fondi (45 milioni di euro) dedicati all’accoglienza dei minori, sono stati riassegnati alla sicurezza. Ad oggi J. 16 anni, aspetta ancora dal 16 settembre, di sapere quale sarà il suo destino in Italia, il Paese che ha raggiunto dopo aver attraversato deserti, prigioni e la roulette russa del Mediterraneo, scampando alla sorte di accrescere il drammatico bilancio dei morti e dispersi nel Mediterraneo: 2.200, circa 8 ogni giorno nel 2023. Che si rispetti il tempo di permanenza di 45 giorni. MEDU chiede con fermezza al Governo che i minori non accompagnati vengano prontamente trasferiti in strutture di accoglienza adeguate, dove posano godere delle tutele sancite dalle convenzioni internazionali e dalle normative nazionali. In primo luogo, chiede che sia rispettato il tempo di permanenza massimo di 45 giorni nelle strutture di prima accoglienza così come definito dalle normative vigenti. Chiede inoltre che durante la permanenza vengano garantiti adeguati servizi, a tutela dei diritti e della salute psico-fisica di tutte le persone accolte con particolare attenzione alle categorie più vulnerabili, tra cui i minori. Stati Uniti. La vergogna di Guantánamo, prigione dei senza diritti di Riccardo Noury* Il Domani, 9 gennaio 2024 Quasi il 90 per cento delle persone passate per Guantánamo non è mai stato processato: oltre 500 detenuti sono stati trasferiti in paesi terzi sotto le presidenze Bush, circa 200 sotto quelle di Obama, uno sotto la presidenza Trump e sei sotto quella di Biden. Altri nove non sono mai stati processati perché si sono suicidati. Secondo gli impegni presi durante la prima campagna elettorale di Barack Obama, il centro di detenzione di Guantánamo avrebbe dovuto essere chiuso entro il primo anno della sua presidenza, ossia nel 2010. Invece, tredici anni e quattro presidenze dopo, è ancora aperto e, con ogni probabilità, lo resterà anche sotto la settima presidenza. L’11 gennaio 2002, ormai 22 anni fa, a Guantánamo entrarono i primi detenuti sospettati di terrorismo internazionale: ammanettati, incatenati, inginocchiati, incappucciati e con addosso tute arancioni. Quel giorno s’inaugurò il vocabolario della “guerra al terrore”: quegli uomini, tutti musulmani, erano “combattenti nemici” - e non prigionieri di guerra protetti dalle Convenzioni di Ginevra - che dovevano essere sottoposti a “tecniche d’interrogatorio rinforzate” per ottenere informazioni d’intelligence senza le salvaguardie giuridiche previste dal diritto degli Stati Uniti. Già, perché quel centro di detenzione non era in territorio statunitense, bensì a Cuba. Dal 2002, a Guantánamo sono passati 780 uomini (219 afgani, 134 sauditi e 115 yemeniti, gli altri di 42 altre nazionalità), minorenni inclusi, presi per lo più in Afghanistan in un’enorme e lautamente ricompensata pesca a strascico organizzata dai servizi segreti pachistani, ma catturati anche altrove in giro per il mondo, sottoposti alle “extraordinary renditions” (trasferimenti da una prigione all’altra senza alcuna supervisione giudiziaria) dopo aver passato periodi di tempo in sparizione forzata in carceri segrete, anche in Europa. Guantánamo entra nel suo ventitreesimo anno di attività con ancora 30 detenuti al suo interno. Undici sono stati accusati di crimini di guerra: uno è stato condannato, gli altri sono sotto processo da parte delle commissioni militari insediate nel centro di detenzione. Tra loro c’è Khalid Sheikh Mohammad, autoproclamatosi la mente degli attacchi alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001. Altri tre sono detenuti, senza accusa né processo, in quanto particolarmente pericolosi. Dei 16 restanti, infine, è stato previsto il trasferimento in un paese terzo, ma gli accordi di sicurezza devono ancora essere perfezionati. Il bilancio di oltre due decenni di maltrattamenti e torture, di habeas corpus negato e di processi in corte marziale è, dal punto di vista della giustizia, magrissimo. Le commissioni militari incaricate di processare i sospetti terroristi detenuti a Guantánamo hanno prodotto la miseria di nove condanne, tre delle quali vengono attualmente scontate all’interno del centro di detenzione. Quasi il 90 per cento delle persone passate per Guantánamo non è mai stato processato: oltre 500 detenuti sono stati trasferiti in paesi terzi sotto le presidenze Bush, circa 200 sotto quelle di Obama, uno sotto la presidenza Trump e sei sotto quella di Biden. Altri nove non sono mai stati processati perché si sono suicidati. Il danno fatto ai diritti umani, invece, è stato enorme. Attraverso Guantánamo, gli Usa hanno legittimato la detenzione senza accusa né processo in nome della presunta minacciosità di un individuo. Hanno perfezionato il sistema della tortura, arruolando medici, giuristi e psicologi per “individuare i punti deboli del nemico”, aggredendone l’onore e il pudore. A quel sistema hanno preso parte persino gruppi musicali, ben contenti di mettersi a disposizione per le sedute di tortura in cui ai detenuti incatenati venivano fatti ascoltare per ore nelle cuffie, col volume al massimo, i loro brani. C’è poi stata la “guantanamizzazione” dei centri di detenzione. Il primo direttore di Guantánamo Bay, il generale Geoffrey Miller, ha poi diretto il carcere statunitense di Abu Ghraib, in Iraq: quello reso tragicamente famoso dalle fotografie di un detenuto trasformato in albero di Natale e di prigionieri nudi e impilati gli uni sugli altri. Guantánamo è diventato anche sinonimo di negazione completa dei diritti umani: ad esempio, è chiamata “la Guantánamo d’Inghilterra” la prigione di massima sicurezza dov’è detenuto Julian Assange. Guantánamo è stato anche orrendamente imitato dai gruppi armati islamisti, nei video delle esecuzioni dei loro ostaggi in tuta arancione. Infine, il messaggio perverso che Guantánamo ha cercato di trasmettere al mondo è che per avere più sicurezza occorre avere meno diritti. Anche quando, finalmente, quel centro di detenzione verrà chiuso, il messaggio che avrà lasciato in eredità resterà, anche qui in Italia, estremamente attuale. *Portavoce di Amnesty International Italia Norvegia. Breivik fa causa allo Stato: “L’isolamento in carcere da 11 anni mi spinge al suicidio” di Enrico Franceschini La Repubblica, 9 gennaio 2024 L’autore di una delle peggiori stragi di civili avvenute al mondo ha fatto causa alle autorità del proprio Paese per mettere fine all’isolamento carcerario a cui è sottoposto, sostenendo che gli causa depressione e istinti suicidi. Nel 2011 Anders Breivik uccise con una bomba e a fucilate 77 persone, fra i partecipanti a un festival giovanile del partito laburista norvegese sull’isola di Utoya. Considerato un fanatico terrorista di estrema destra, nel 2012 è stato condannato a ventun anni di carcere, la pena massima in Norvegia, tuttavia rinnovabile di cinque anni in cinque anni allo scadere della sentenza, fintanto che la giustizia lo riterrà socialmente pericoloso. A un’udienza che si è svolta stamane a Oslo, attraverso i propri legali Breivik ha denunciato lo Stato norvegese affermando che le condizioni in cui è rinchiuso lo spingono al suicidio e alla dipendenza da farmaci antidepressivi come il Prozac, violando i suoi diritti umani. “È in isolamento da dodici anni”, ha dichiarato il suo avvocato, Oeystein Storrvik. “Per tutto questo tempo ha potuto avere contatti soltanto con medici, legali, personale della prigione, non con altri detenuti”. Indossando un abito nero, cravatta marrone e camicia bianca, il carcerato era presente all’udienza, che si è svolta nella palestra della prigione a nord-ovest della capitale in cui sconta la pena, ma non ha detto niente. Procuratori che rappresentavano il ministero della Giustizia hanno replicato Breivik deve essere tenuto separato dagli altri prigionieri perché continua a porre una minaccia alla sicurezza di chiunque gli viene vicino. Il terrorista, 44 anni, è alloggiato in una sezione speciale del carcere di massima sicurezza di Ringerike. La sua cella comprende una cucina, una stanza per la tv e un bagno. Ha il permesso di tenere con sé tre pappagallini come animali domestici che possono volare liberamente dentro e fuori dalla sua area di detenzione. Una decisione riguardo alla sua richiesta non è stata immediatamente resa nota, ma già in passato una richiesta analoga è stata respinta. Il massacro di cui si rese colpevole è stato il peggiore eccidio in tempo di pace nella storia moderna della Norvegia. Uccise otto persone con una bomba e poi altre 69 con un fucile automatico: una carneficina che ha scioccato il suo Paese e l’Europa intera. In un manifesto che aveva pubblicato online nel giorno della strage si descriveva come mosso da sentimenti anti-islamici e anti-femministi. Inizialmente giudicato schizofrenico, è stato poi riconosciuto sano di mente da una successiva perizia psichiatrica. Non ha fatto appello alla sentenza, affermando di non riconoscere l’autorità della Norvegia a giudicarlo. L’Uruguay dieci anni fa legalizzava la marijuana: cos’è cambiato tra entrate per lo Stato e lotta al traffico illegale di Andrea Cegna Il Fatto Quotidiano, 9 gennaio 2024 Il 10 dicembre del 2013 il governo di Pepe Mujica, in Uruguay, “legalizzava” la vendita e la produzione della marijuana, anche per scopi ludici. Dieci anni dopo il paese esporta cannabis, tanto che nel solo 2022, secondo i dati dell’Agenzia di promozione delle esportazioni dell’Uruguay XXI, ha incassato 5,3 milioni di dollari grazie alla vendita di almeno 16 tonnellate di marijuana, la stragrande maggioranza (83%) per uso medicinale, in Portogallo, Germania, Israele e Canada ma anche negli Stati Uniti. Oggi il 48% dei cittadini e delle cittadine sono a favore della legge che liberalizza la cannabis. Una percentuale doppia rispetto a quella registrata nel 2012, mentre le voci critiche sono passate dal 66% al 45%. Oltre questi dati ne emerge un secondo ovvero che il 51% dei consumatori e delle consumatrici d’erba nel paese decidono di farlo restando all’interno del circuito legale, nonostante la forte burocrazia che accompagna e debilita il percorso, e quindi acquistando il prodotto nelle farmacie autorizzate, o nei cannabis club, oppure auto-coltivando la pianta. Proprio per questo l’agenzia Uruguay XXI dichiarava lo scorso aprile “la legge sembra aver raggiunto l’obiettivo di ridurre il traffico illegale di droga”. L’ultimo rapporto dell’IRCCA (Regolamentazione e Controllo della Cannabis), uscito nel 2023, indica che sono 86.207 le persone all’interno del mercato regolamentato, con una crescita del 153%, passando dai 34.108 del 2018 al numero attuale di iscritti. Secondo l’agenzia l’acquisto di “erba” illegale è sceso dal 58% al 24% tra il 2014 e il 2022. Secondo le autorità uruguaiane, nel 2019, almeno 20 milioni di dollari erano stati “sottratti” al traffico illegale. Questo calcolando il quantitativo di marijuana venduta nel tessuto legalizzato. Se quel conteggio, mai messo in discussione, è reale, oggi quella cifra è raddoppiata. Cioè sopra i 40 milioni di dollari. La legalizzazione del consumo e della produzione di marijuana ha creato, secondo dati governativi, posti di lavoro e reddito tanto che sarebbero un centinaio i progetti che impiegano direttamente 900 persone. Il 70% di queste svolge la propria attività all’interno del paese. L’acquisto e la produzione di marijuana è “controllato”, non si possono acquistare più di 40 grammi al mese pro capite e si possono coltivare meno di 100 piante all’anno. Nel novembre 2020 fonti governative parlavano di una previsione d’ingresso dal mercato della marijuana, per il quinquennio 2020 - 2025, di 50 milioni di dollari grazie alla coltivazione di 1.300 ettari e 40mila metri di serre coltivate. Rosario Queirolo, sociologa dell’Università Cattolica di Uruguay, presentando, nel novembre scorso, una ricerca sul mercato della cannabis nel paese ha evidenziato che la burocrazia esistente per accedere all’acquisto legale della marijuana è uno dei principali ostacoli per l’abbattimento del mercato illegale. Per Queirolo “Il mercato grigio è il più vicino alla legalità. L’obiettivo principale non è il profitto. ‘Il grigio’ di fatto è già distribuzione non legale che si porta con se vantaggio economico come accade con i Cannabis Club che vendono le eccedenze al di fuori del contesto consentito o con coltivatori e coltivatrici che vendono il loro raccolto al di fuori della loro rete personale”. Per Daniel Radio, segretario generale dell’Ente nazionale per la droga, l’attuale politica di regolamentazione della produzione e delle vendite è stata un fallimento perché, secondo il politico, “non controlliamo il mercato, l’unica cosa che abbiamo fatto è stata aumentare il prezzo del prodotto” Daniel Radio è critico con l’iniziativa voluta dal Fronte Amplio poiché si dovrebbe avere cannabis a buon prezzo, con un facile accesso e diverse tipologie di prodotto “mi sembra che queste siano le tre cose fondamentali che bisogna avere. L’unica cosa che rispettiamo è un buon prezzo”, ha detto. Sempre dal Fronte Amplio arriva una proposta di allargamento della legge che contenga anche i turisti e le turiste. Ad oggi per accedere al “programma” legale di acquisto di cannabis serve essere residenti nel paese, proprio per questo da oltre un anno. Eduardo Antonini ha presentato l’istanza al parlamento che consentirebbe, se votata, anche ai “non residenti che si trovano regolarmente nel territorio” di accedere “durante la loro permanenza, ai meccanismi legali di vendita della cannabis e dei suoi derivati ??per il consumo personale”. Una misura che difficilmente potrà passare, non solo per la netta opposizione del partito della destra negazionista Cabildo Abierto ma anche del Partito Nazionale, e così è difficile pensare che il terzo partner di governo, il Partito Colorato possa votare assieme all’opposizione la misura. Mentre per Sebastián “Tati” Sabini, senatore del Frente Amplio e nel 2013 tra i maggiori sostenitori della legge 19.172 “il progetto aveva tre obiettivi. Innanzitutto i diritti: che nessuno venga incarcerato per aver consumato cannabis. In secondo luogo, l’obiettivo sanitario riguardava l’accesso a prodotti di qualità, l’accesso alle informazioni e il miglioramento del sistema di prevenzione. Infine, la lotta al traffico di droga. E penso, che in larga misura, questo si sia realizzato, anche con diverse intensità”.