Caro sottosegretario Delmastro, cosa dice di Matteo suicida in cella? di Ilaria Cucchi La Stampa, 8 gennaio 2024 Aveva disabilità psichiatriche e aveva già manifestato il proposito di impiccarsi: gli agenti lo sapevano. Signor Sottosegretario al Ministero della Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove, voglio chiederle: lei sa chi è Matteo Concetti? Sicuramente no, perché era un giovane uomo detenuto nel carcere di Ancona. Per una persona, come lei, che nella scorsa Legislatura si è impegnata a portare avanti una battaglia come quella di tentare di eliminare dalle funzioni istituzionali del Dipartimento di Polizia Penitenziaria la tutela dei detenuti limitandola ai soli agenti, cosa possono contare la salute e la vita dei carcerati? Nulla. A lei non interessa nulla il fatto che Matteo, persona con particolari deficit psichiatrici tanto da aver costretto il Tribunale di Rieti a nominargli un amministratore di sostegno, la sera del 4 gennaio sia stato trovato morto impiccato nella cella di isolamento nella quale era stato rinchiuso. Un ragazzo di soli 23 anni con disabilità psichiatriche che viene ristretto in un carcere, e pure in cella d’isolamento, abbandonato ad un destino assolutamente prevedibile. Matteo aveva manifestato più volte il proposito di impiccarsi. Lo ha fatto con le lenzuola della sua branda. Non solo la madre lo aveva detto agli agenti ma, fatto ancor più grave, già il 28 dicembre il suo avvocato aveva inviato una pec alla struttura carceraria chiedendo un colloquio urgente per discutere della terapia medica che gli veniva somministrata. Addirittura l’avvocata Cinzia Casciani ha messo nero su bianco il fatto che Matteo avesse più volte detto di volersi suicidare! Caro Sottosegretario le confesso che io, a differenza sua, mi sento tanto in colpa. Non riesco a dormire. Sa perché? Perché la madre di quel ragazzo aveva cercato di contattarmi riuscendo a parlare con me al telefono alle 14 di quel maledetto giorno. Era arrabbiata per l’inerzia indolente dell’Amministrazione. Disperata per la sua preoccupazione perché conosceva bene suo figlio e sapeva che non scherzava. Ho fatto mie quelle preoccupazioni. Stavo preparando le valigie per fare ritorno a Roma da Ferrara, la città del mio compagno, ripromettendomi che alla ripresa del mio lavoro, la prima cosa che avrei fatto sarebbe stata quella di contattare il Carcere ed il DAP. Non ho fatto in tempo: Matteo Concetti è deceduto alle 20 di quello stesso giorno in cui sua madre aveva parlato con me. Mi sto chiedendo se avrei potuto fare qualcosa per salvarlo. I miei figli di fronte al mio sconforto, dicono che non sarebbe cambiato nulla. “Mamma - mi dicono - non ci sarebbe stato tempo e poi, con tutte le continue richieste di aiuto che ricevi da ogni parte come potevi sapere che quel ragazzo lo avrebbe fatto davvero?”. Hanno ragione ma io mi sento in colpa. Credo sia normale visto che un ragazzo di 23 anni oggi non c’è più. Ma io le chiedo: come si può concepire che possa essere trattato in questo modo?! Il sindacato di Polizia Penitenziaria, puntuale come sempre, fa sapere che nei giorni precedenti Matteo aveva aggredito un agente. Ma era un malato psichiatrico con tanto di amministratore di sostegno, caro Sottosegretario! Le interessa tutto questo? Si sente in colpa come titolare delle funzioni istituzionali che riveste o quantomeno come uomo? Onestamente non credo. D’altronde, non si può mettere certo in discussione la sua coerenza dal momento che, in questa Legislatura, non sono mancate le interrogazioni parlamentari sui suoi rapporti, a dir poco anomali, con la Penitenziaria, con una delle relative organizzazioni sindacali in particolare. Il sindacato che oggi interviene sulla morte annunciata di Matteo denuncia lo stato di profondo degrado delle nostre carceri ma si indigna, difendendola, con i partiti che le hanno proposte facendo esplicito riferimento alla famosa cena col botto. Lei e soltanto lei, oggi, dovrà rispondere su questa tragedia. Ma non mi aspetto nulla da parte sua. Sono note le sue vibranti prese di posizione per abolire la legge che punisce la tortura, rea, la legge, di non consentire agli agenti di difendersi. Per lei le Istituzioni non debbono sprecare tempo e risorse per la tutela della popolazione carceraria di questo Paese. Si tratta, in fondo, soltanto di numeri privi di identità e diritti. Nobile e di alto valore la sua decisa presa di posizione documentata in un video girato nel settembre del 2020, davanti al carcere di Biella, ove lei disse a gran voce: “Intanto il 33 per cento dei detenuti sono stranieri. Prendano la barca e tornino a casa loro a scontare”. Queste le sue esatte parole. Intanto Matteo Concetti non c’è più ed io non me ne do pace. Alimenterà l’allucinante statistica dei suicidi in carcere avvenuti nel nostro Paese, nell’indifferenza generale e, soprattutto, sua. Io porto il peso di questa immane tragedia. Sicuramente vive meglio lei, tra feste, cene e proclami. Farei a cambio con Lei? No grazie. Preferisco la mia vita. Preferisco condividere il dolore della famiglia Concetti come quelle di tutti gli ultimi i cui diritti sono quotidianamente calpestati da uno Stato troppo spesso cieco, sordo, quando non addirittura crudele. Buona vita Sottosegretario. Ilaria Cucchi: “Il sistema penitenziario è al collasso. Si fa poco o nulla per migliorare le cose” di Andrea Aversa L’Unità, 8 gennaio 2024 Un sistema penitenziario al collasso. I recenti fatti di cronaca, drammatici, che lo confermano. La preoccupazione rispetto alle azioni della maggioranza e la delusione per la lezione che nessuno ha imparato: quella relativa al caso del fratello Stefano. “È triste che l’anno sia iniziato con un suicidio in carcere”, a dirlo a l’Unità è stata la senatrice e vice presidente della Commissione giustizia Ilaria Cucchi. Con lei abbiamo parlato di un tema impopolare come quello delle carceri, argomento, “che non fa prendere voti, ai politici impegnati in una campagna elettorale permanente”. Il caso di Stefano Dal Corso, il suicidio di Matteo Concetti nella casa di reclusione di Ancona, il presunto omicidio di Alexandro Esposito avvenuto a Poggioreale. Il 2024, nonostante sia appena agli inizi, si è già dimostrato un anno difficile per il sistema penitenziario italiano. “Sono estremamente preoccupata su come questa maggioranza si sta occupando delle carceri”, ha affermato Ilaria Cucchi. Vediamo il perché… “Quella del carcere è una battaglia di civiltà. Io l’ho vissuta in prima persona. Pensiamo a ciò che è accaduto ad Ancona. Pensiamo al povero Matteo e a Roberta, una madre che ha perso un figlio giovanissimo. La sua morte era stata annunciata. Lui le aveva detto che se messo di nuovo in isolamento si sarebbe tolto la vita. E così è stato. Inoltre, Matteo soffriva di alcuni problemi psichici. È evidente che in carcere non doveva proprio entrarci. Il sistema penitenziario così come è concepito, non rispetta l’articolo 27 della Costituzione, non fa nulla per il reinserimento dei detenuti in società. Non bada alle condizioni dignitose di vivibilità nei penitenziari. Per i detenuti, per gli agenti e per tutti gli operatori che vivono il carcere. E poi c’è il capitolo sanità: non sempre il diritto alla salute è garantito e troppe volte vengono somministrati farmaci solo per tenere buoni i reclusi. Guardiamo ai numeri, la situazione è fuori controllo: tra tossicodipendenti, malati mentali e chi dovrebbe scontare la detenzione con pene alternative, il carcere è pieno di persone che in cella non dovrebbero starci. Senza considerare che gli agenti della polizia penitenziaria sono sempre in sotto organico, così come gli operatori, gli educatori, i mediatori culturali e gli psicologi”. Con pazienza, tenacia, sacrifici e dolore ha ottenuto giustizia per suo fratello Stefano. Ha mai la sensazione che questa sua vicenda personale non abbia insegnato niente? “Sono passati 14 anni dalla morte di Stefano. Ho sempre creduto che con quella battaglia avrei potuto cambiare il mondo insieme a Fabio (Fabio Anselmo, avvocato e compagno di Ilaria Cucchi, ndr). Nonostante i tanti passi avanti fatti e penso soprattutto a quello che ha reso ‘popolare’ il tema della violenza perpetrata dalle istituzioni nei luoghi di custodia dello Stato, devo riconoscere che ne abbiamo fatto altrettanti indietro. E questo mi rattrista. È giusto che se una persona sbaglia debba pagare ma deve farlo in modo umano e dignitoso. Anche perché, il carcere ha un costo non indifferente sulle casse dello Stato e soprattutto i detenuti, se non muoiono in cella, prima o poi usciranno e torneranno in società. Dubito che lo facciano in condizioni migliori di quelle con le quali erano entrati. Ho sempre pensato che se Stefano, invece di essere ucciso, fosse stato detenuto e poi fosse uscito vivo da un penitenziario, non sarebbe mai tornato quello di prima. Di sicuro non sarebbe tornato una persona migliore”. Che aria tira in Parlamento su questi temi? “Purtroppo in politica siamo in pochi e sempre gli stessi ad occuparsi della comunità penitenziaria. È un argomento che non porta voti e di conseguenza la maggior parte dei politici non vuole assumersi la responsabilità di effettuare scelte strutturali e impopolari affinché le cose possano cambiare. Devo riconoscere che tra i banchi dell’opposizione sul tema dei diritti in generale c’è più sensibilità rispetto alla controparte. Quello che faccio io è visitare le carceri, cercando di girarle tutte e soprattutto di portare il carcere fuori dal carcere, per rendere noto a tutti il tipo di realtà con la quale abbiamo a che fare”. Come giudica l’operato del Ministro Nordio? “Sono molto preoccupata dalle azioni di Nordio ma in generale dell’intero governo. Faccio un semplice esempio. Alla mia interrogazione parlamentare al ministro Piantedosi, sull’introduzione di bodycam e codici identificativi per le forze dell’ordine, il ministro ha risposto che non servono. E posso citare anche il caso Dal Corso, per il quale c’è stata un’altra interrogazione al ministro Nordio, durante la quale lui non ha fornito risposte soddisfacenti. Ora, per fortuna, dopo otto rifiuti, l’autorità giudiziaria ha deciso di disporre l’autopsia sulla salma di Stefano. Ma ho paura anche per il reato di tortura, approvato dopo un lungo percorso e una lunga battaglia. Questo governo lo smantellerà. Proprio Nordio ha annunciato che l’esecutivo è pronto a modificarne un articolo fondamentale. Come se le forze dell’ordine a causa di questo reato non potrebbero svolgere il loro lavoro. Che vuol dire? Che forse gli uomini in divisa per essere professionali devono sentirsi liberi di commettere soprusi, abusi e azioni violente?”. Cosa pensa del governo e delle parole pronunciate dalla Meloni in conferenza stampa sugli argomenti carcere e giustizia? “L’attuale governo è in campagna elettorale, parla alla pancia dei cittadini e distoglie la loro attenzione dai veri problemi. È come se il carcere non fosse un problema di tutti. Pensiamo al primo provvedimento approvato dalla maggioranza: il decreto sui rave. Ci rendiamo conto? Con tutte le emergenze, relative al sistema giudiziario e penitenziario, per il governo il pericolo da scongiurare è stato quello dei rave. Il governo continua a mettere toppe senza fare le vere riforme e soprattutto ingannando i cittadini. Pensiamo al decreto Caivano. Per carità, quel territorio ha rappresentato e rappresenta un’emergenza sociale da gestire. Ma il provvedimento contiene solo due articoli dedicati a quel territorio e alle sue problematiche. Per il resto ci hanno messo dentro di tutto. E stiamo parlando di misure che potrebbero danneggiare le libertà personali di ciascuno di noi. Il governo sta mettendo in atto una politica volta alla repressione e non alla prevenzione”. Che opinione si è fatta sulla legge definita in modo polemico ‘bavaglio’? “Questa legge per me è terribile. Se penso a Stefano e alla vicenda che mi ha riguardato personalmente, sono perfettamente consapevole che senza il supporto della stampa non saremmo mai riusciti ad ottenere verità e giustizia. Certo, gli abusi e le distorsioni del sistema giuridico-mediatiche vanno evitate e sanzionate e mi riferisco anche all’uso sconsiderato delle intercettazioni e delle loro pubblicazioni. Ma in generale non si possono porre limiti al diritto di cronaca. Certo tutto questo discorso dipende anche dalla vittima, perché purtroppo in Italia, ci sono vittime di serie A e vittime di serie B”. Pnrr, premi ai giudici che riusciranno a smaltire l’arretrato. Carriere legate ai risultati di Francesco Bechis Il Messaggero, 8 gennaio 2024 Premi per gli uffici giudiziari che accelerano nello smaltimento degli arretrati. Richiami e sanzioni, invece, alle toghe che nicchiano e accumulano processi, salvo poi abbandonarli in un limbo. Il 2024 sarà un anno chiave per la lotta del governo alla giustizia-lumaca. Soprattutto a quell’arretrato nella giustizia civile che è la vera zavorra dei tribunali e delle Corti di appello italiane e un pilastro del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr): se l’Italia non riuscirà a smaltire i fascicoli nei tempi concordati con la Commissione europea, una fetta importante del Recovery potrebbe saltare. Miliardi di euro. Di qui lo sprint del ministero di Carlo Nordio, a cui i tecnici dell’Ue hanno chiesto di introdurre “entro marzo del 2024” un nuovo sistema di incentivi per accelerare i tempi del processo civile e smaltire gli arretrati. Ma anche per “sostenere gli uffici giudiziari meno efficienti”. Se il colpo di reni si rende necessario, anzi urgente, è perché finora la tabella di marcia concordata con l’Europa non è stata rispettata. Numeri alla mano, l’obiettivo del Pnrr di tagliare del 90 per cento l’arretrato della giustizia civile entro giugno del 2026 si è rivelato una chimera. Complice la cronica carenza di giudici e di personale nei tribunali italiani. Così il governo ha concordato con la Commissione una revisione degli obiettivi. Vista l’”oggettiva difficoltà di aggredire” l’arretrato civile cresciuto nel 2023, spiega una nota del capo di gabinetto di Nordio Alberto Rizzo, il Pnrr italiano ora prevede due nuovi target. Il primo: entro dicembre di quest’anno, ridurre del 95 per cento i fascicoli pendenti da più di tre anni nei tribunali e nelle Corti di Appello al 31 dicembre del 2019. Il secondo: tagliare del 90% entro giugno 2026 le cause pendenti al 31 dicembre del 2022. Una sfida che resta ciclopica, viste le forze in campo, ma considerata più alla portata da Palazzo Chigi. I numeri comunque impensieriscono non poco i tecnici dell’Unità di missione Pnrr e di via Arenula. Perché in due anni i tribunali e le Corti di appello dovranno chiudere tutti i fascicoli pendenti, rispettivamente, dall’inizio del 2017 e dal gennaio 2018. Circa un milione e trecentomila cause appese. Serve uno sforzo extra. E qui si torna all’inizio: la richiesta della Commissione europea all’Italia di introdurre entro la fine di marzo un nuovo sistema di incentivi per invogliare i giudici a fare in fretta. Di cosa parliamo? Bonus economici alle toghe che rispetteranno i ritmi di smaltimento dei fascicoli su base annuale. Ma gli incentivi non saranno solo in busta paga. Del resto, il Ddl recentemente licenziato dal Cdm che, in attuazione della legge Cartabia, mette a sistema “le pagelle” per i magistrati va proprio in questa direzione. Inserendo tra i parametri del Csm per giudicare la promozione di un togato la velocità e l’efficienza nei processi. Sarà una svolta? Ai piani alti del governo sperano di sì. Giorgia Meloni è al corrente della situazione critica per la giustizia civile italiana. E non è un caso se in conferenza stampa la premier ha indicato tra le priorità del 2024 “la messa a terra del Pnrr” e la “riforma della Giustizia”. Lo sguardo era qui, alle pile di fascicoli che sporgono dagli armadi di tribunali e Corti d’appello in tutta Italia. Una giustizia sospesa, dunque negata. Resta da capire dove si troveranno le coperture per i premi. Sul punto restano generici i tecnici di via Arenula limitandosi a spiegare che saranno finanziati “con le risorse economiche derivanti dai risparmi di spesa dovuti alle minori assunzioni, e con eventuali ulteriori risorse”. Intanto, se il governo vorrà centrare i nuovi target, sarà più che mai necessario rimettere in sesto l’Ufficio del processo, cioè l’ufficio che ha come missione quella di aiutare i magistrati a rendere più rapida ed efficiente la loro attività giurisdizionale. È un pilastro del Pnrr italiano, che nel 2022 ha dato il via a un corposo round di assunzioni: 8250 funzionari, pronti a raddoppiare nel 2024. Peccato che i contratti precari e le pessime condizioni dei tribunali abbiano dato il via a un clamoroso fuggi fuggi dei tecnici, per lo più neo-laureati: quasi 2400, il 27 per cento degli assunti. Con il decreto milleproroghe il governo ha stabilizzato i contratti fino a giugno 2026. Ma è solo un primo passo. Il governo sfida Europa e Quirinale sull’abolizione dell’abuso d’ufficio di Liana Milella La Repubblica, 8 gennaio 2024 Parte in commissione al Senato la votazione del ddl Nordio che elimina il reato nonostante l’appello di magistrati e Antimafia. Se il Guardasigilli Carlo Nordio perde la scommessa sull’abuso d’ufficio, rischia di perdere anche il posto di ministro della Giustizia. Ma se l’Italia cancella l’abuso d’ufficio si mette contro la Ue. Che invece ne caldeggia come obbligatoria la presenza nei codici penali di tutti i partner. Come per il traffico di influenze, l’altro reato che Nordio vuole restringere. Il presidente Sergio Mattarella, con una garbata moral suasion consegnata a voce alla premier Giorgia Meloni, lo ha fatto presente quando il 20 luglio ha firmato il ddl Nordio che contiene il colpo di spugna sull’abuso. Ma Nordio è andato avanti, e al commissario europeo per la Giustizia Didier Reynders, che gli faceva notare le gravi anomalie, ha replicato che “il nostro codice è pieno di reati per punire la corruzione”. Un Guardasigilli incurante del richiamo del procuratore nazionale Antimafia Gianni Melillo che il 27 giugno, davanti alla commissione Antimafia, aveva già pronunciato un verdetto inappellabile: “Cancellare l’abuso d’ufficio mette l’Italia in contrasto con l’Europa”. E ancora, a sottolineare il ruolo strategico dell’articolo 323 del codice penale: “Quel reato ha trovato applicazione in contesti investigativi su complessi interessi mafiosi”. Ma Nordio è rimasto sordo a qualsiasi richiamo. Anche a quello di un giurista come Gian Luigi Gatta che, cifre alla mano, ha spiegato come la soppressione comporterebbe “la cancellazione di 3.623 condanne definitive negli ultimi 25 anni”. Nordio è andato avanti. Tant’è che da domani, in Senato, sarà la commissione Giustizia ad affrontare e votare il suo unico ddl da quando è ministro che cancella l’abuso d’ufficio, il reato più odiato dai sindaci, compresi quelli del Pd. Sopprimerlo è diventato il vessillo di Nordio, l’insistente leit motiv di ogni suo intervento, e pure un’altra occasione per allargare la maggioranza a Iv e Azione come già per il bavaglio ai giornalisti. Sono anni che Nordio chiede di cancellarlo. Già da quando - nel 2017 - proprio Enrico Costa, allora ministro per gli Affari regionali del governo Gentiloni, gli affidò una commissione sul destino del reato che si concluse con un solo verdetto: “Erase”. Piazzato nel codice penale firmato da Benito Mussolini e dall’allora ministro Alfredo Rocco, il reato è cambiato già 5 volte da quando è nata la Repubblica, l’ultima nel luglio 2020 quando a ritagliarlo per fu il governo Conte. Trovando pure il verdetto favorevole della Consulta perché “l’aver ristretto la sua sfera applicativa non nasce solo dalle necessità di contrastare la burocrazia difensiva e i suoi guasti derivanti dalla dilatazione dell’applicazione giurisprudenziale dell’incriminazione”. Ma a Nordio e Costa non è bastato. Proprio Costa all’inizio della legislatura presenta la sua proposta di legge per eliminarlo. Seguito a ruota da FI. FdI con Andrea Delmastro è contraria. La Lega attendista. Ma alla fine accettano tutti la soppressione. Alla Camera magistrati e giuristi sono contrari. Intanto Nordio annuncia la sua “riforma epocale” di un reato “evanescente”, che ha creato “la paura della firma”. E poi: “Il processo per abuso d’ufficio è uno dei più inutili, lunghi, costosi che esista. Ha provocato la paralisi dell’amministrazione ritorcendosi contro il cittadino, che è la vittima finale”. Intanto arriva l’altolà della Ue, che la Camera boccia, l’Italia non terrà conto di quella direttiva. Sembra che l’abuso possa “morire” a Montecitorio, ma ecco l’altolà di Nordio che ferma tutto e lo infila nel suo ddl. Che impiegherà due mesi per arrivare al Senato e finirà bloccato dalla manovra. E siamo a oggi, quando sarà la commissione presieduta da Giulia Bongiorno a votare. La responsabile Giustizia della Lega era contraria all’abolizione tout court, per il rischio che poi i pm potessero contestare reati più gravi. Ma alla fine ha seguito Nordio che gli ha dato il via libera sulle intercettazioni. Santalucia: “Il reato d’abuso d’ufficio è un argine alle angherie del potere pubblico” di Liana Milella La Repubblica, 8 gennaio 2024 Intervista al presidente della Anm: “La risposta alla cosiddetta paura della firma degli amministratori non può essere l’abolizione”. “Nella Costituzione non sono secondari i diritti dei privati cittadini rispetto alle possibili angherie dei pubblici poteri”, dice il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia. E a Repubblica spiega perché, in base a questo principio, l’abuso d’ufficio non è un reato da buttar via. È ampio il parterre di chi vuole cancellare l’abuso d’ufficio. L’Anm ha detto più volte che è un passo sbagliato. Perché? “Per una pluralità di ragioni. Innanzitutto perché non è seriamente comprensibile come possa restare indifferente al sistema penale l’abuso dei pubblici poteri. È una palese violazione dei diritti dei cittadini nei loro rapporti con l’autorità pubblica”. I sindaci, anche di sinistra, nonché l’Anci, ne ha fatto una battaglia addirittura di sopravvivenza. Dicono che la cosiddetta “paura della firma” li paralizza... “La risposta alle loro paure non può essere l’abolizione del reato, altre potevano essere le vie da seguire, quali una maggiore distinzione tra la discrezionalità politica e quella tecnico-amministrativa. In ogni caso, con la “paura della firma” non ha nulla a che vedere l’abolizione del reato anche per la parte in cui punisce chi viola il dovere di astensione e agisce e firma atti pur quando sussiste un suo evidente interesse personale nella vicenda”. Nordio, con il pieno appoggio di Costa di Azione, sostiene che il reato, per com’è scritto, è del tutto “evanescente”, e quindi dà troppa mano libera ai pm... “Non concordo. Nel 2020 questo articolo del codice è stato già oggetto dell’ennesima modifica che ne ha ristretto forse eccessivamente gli ambiti di applicazione. Ora l’unico passo utile sarebbe quello di rivederlo per dargli una maggiore effettività, senza per questo farne uno strumento che possa essere utilizzato in maniera arbitraria”. Sono molto poche le condanne per abuso d’ufficio, anche dopo la modifica del governo Conte. Ma può essere una buona ragione per cancellarlo? Con questa logica, quanti reati del codice potrebbero subire la stessa sorte? “È proprio così. Il fatto che ci siano poche condanne, al netto della necessità di apportare qualche modifica, non significa che la norma sia inutile e possa essere eliminata dal sistema”. Dalla Commissione europea proprio sull’abuso arriva il segnale opposto, come per il traffico di influenze. Alla Camera quella direttiva è stata respinta. Ma se l’Italia cancella il reato che succederà? “Sono di certo possibili reazioni in sede europea perché il fatto che l’abuso di potere sia un tassello di altre più gravi fattispecie di reato non può in alcun modo giustificare la scelta di sopprimere la norma che lo punisce in quanto tale anche quando non degenera in condotte di corruzione, concussione o peculato”. Anche lei parla di un reato spia? È proprio quello che contesta la politica, un reato che consente di aprire un’inchiesta per andare in cerca poi di delitti più gravi. Una sorta di grimaldello insomma… “In realtà i fatti sono molto più semplici e lineari. Quando sul tavolo di un pm arriva la denuncia di un abuso di potere, lui ha l’obbligo di verificare quale sia l’esatta dimensione di quell’asserita condotta abusiva, se c’è solo un mero atto di prevaricazione in danno del privato, oppure se si accompagni a occulti passaggi di denaro, scambio di altre utilità, o ancora appropriazione di beni pubblici. Per questo, anche abolendo il reato, le indagini su eventuali comportamenti abusivi non cesseranno”. Sta dicendo che, per gli amministratori, il rischio è che il pm contesti reati ancora più gravi? “Dico innanzitutto che ciò non vale solo per i sindaci, ma per tutti i pubblici funzionari. Di fronte alla denuncia di un possibile abuso, il pm non potrà mai cestinare la notizia, ma dovrà verificare, attraverso le indagini, in cosa consista concretamente quella condotta, e se sia, ripeto, parte di una più ampia gamma di reati”. Questo governo ha inventato, nell’ordine, il reato per i rave, quelli addirittura universali per gli scafisti e per l’utero in affitto, e invece vuole togliere ai cittadini il reato per difendersi contro gli abusi degli amministratori pubblici? “Io sto ai fatti. Le leggi le fa la politica, quindi governo e Parlamento. Noi come tecnici del diritto possiamo solo ricordare che il sistema penale deve tener conto della gerarchia dei valori fissata in Costituzione, nella quale non sono secondari i diritti dei privati cittadini rispetto alle possibili angherie dei pubblici poteri”. Abuso d’ufficio, anche i sindaci Pd chiedono di cambiare: “No all’impunità ma la firma fa paura” di Giuliano Foschini La Repubblica, 8 gennaio 2024 Il fronte degli amministratori locali. Il presidente dell’Anci Decaro: “Non vogliamo l’immunità” ma “le leggi devono permetterci di lavorare”. Dice il presidente dell’Anci, il dem Antonio Decaro, che i sindaci “non sono né per l’immunità né per l’impunità”. Nel dibattito sull’abuso d’ufficio hanno “sempre chiesto la definizione di un perimetro certo per le responsabilità dei primi cittadini nell’ambito delle loro funzioni: possiamo davvero pensare - domanda Decaro - che, come è accaduto, un sindaco che concede una sala comunale per un dibattito sul referendum e non per una festa danzante possa essere indagato per abuso di ufficio?”. Tempo fa il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, disse che c’era la fila dei sindaci del Partito democratico che gli chiedevano di abolire il reato di abuso di ufficio. Probabilmente si trattava di un’iperbole, ma certamente la norma è ben vista dagli amministratori, anche del centrosinistra, come dimostrano le posizioni del presidente dell’Anci, Decaro, e del coordinatore dei sindaci del Pd, il primo cittadino di Pesaro, Matteo Ricci. “L’abuso di ufficio - ha spiegato in diverse occasioni Ricci - è inutile, visto che il 98% delle indagini finiscono in assoluzioni e archiviazioni. Ma anche dannoso: quando arriva l’avviso di garanzia tanti bravi amministratori sono costretti a bloccarsi e a paralizzare l’azione di un Comune. Ogni firma diventa una paura”. Ecco perché qualcuno - per esempio l’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio Roberto Garofoli, giurista di grande esperienza - aveva ipotizzato un’abolizione parziale, cancellando “l’abuso di vantaggio” e lasciando in piedi quello “di danno”, tutte le volte cioè in cui un pubblico ufficiale con un suo provvedimento crea un danno a un cittadino. I sindaci di centrosinistra non avevano chiuso alla possibilità. Insistevano in ogni caso per intervenire. “Ogni giorno - dice Decaro - un sindaco deve decidere se firmare un atto, rischiando l’abuso di ufficio, o non firmarlo rischiando l’omissione in atti di ufficio. Sul tavolo c’è il rallentare procedure essenziali per il cittadino, quelle semplici ma anche quelle con in ballo milioni di euro come il Pnrr. Noi non vogliamo sottrarci ai controlli, anzi io sono convinto che se un sindaco commette un reato debba pagare anche più degli altri, proprio perché non ha onorato la fascia che indossa. Ma servono leggi che ci permettano di lavorare. Questo abbiamo sempre chiesto”. Manes: “L’ordinanza da mezzo di ricerca della prova era diventata una prova piena di colpevolezza” di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 8 gennaio 2024 “Le critiche all’emendamento Costa mi paiono ingenerose ed ideologiche, e la direzione che l’emendamento indica è quella giusta. Con una metafora, è un termometro che segna la febbre, ma temo non sia in grado di curarla. Ciò detto, dobbiamo cercare di portare la riflessione su questo tema un po’ più avanti, se vogliamo uscire dal solito scontro sterile tra tifoserie”. Parla Vittorio Manes, professore ordinario di diritto penale all’Alma mater di Bologna, autore di un apprezzato saggio sul tema del rapporto tra media e giustizia (Giustizia mediatica - Gli effetti perversi sui diritti fondamentali e sul giusto processo, il Mulino 2022). Sono d’accordo con Te, proviamo a portare la riflessione un po’ più in avanti. Ma intanto, dimmi di queste critiche “ingenerose ed ideologiche”... “Ingenerose quando parlano di “bavaglio”, perché nessun atto viene secretato, l’ordinanza resta pienamente conoscibile e divulgabile nei suoi contenuti notiziali. Ideologiche quando evocano addirittura lo spettro della giustizia di classe”. In effetti piace molto questa iperbole della difesa dei colletti bianchi, politici e imprenditori. Ma ha ancora senso questa categoria tipologica dei “white collar”? “Non direi proprio. A parte il fatto che sono passati più di 70 anni dalla denuncia di Sutherland sulla criminalità dei colletti bianchi, e gli assetti sociali sono molto più fluidi ed obliqui. Ma soprattutto, i valori di cui stiamo parlando - presunzione di innocenza, reputazione, dignità della persona- sono diritti ubiquitari, appartengono indistintamente a tutti e sono valori primordiali per una democrazia costituzionale”. Semmai andrà invertito il ragionamento: la gogna colpisce con maggiore efficacia i soggetti più esposti socialmente.... “Certamente. La gogna è una pena asimmetrica, colpisce ed è maggiormente contundente nei confronti di chi ha un maggiore capitale reputazionale. E non c’entra niente l’appartenenza di classe, quanto semmai il livello di notorietà, che può riguardare il politico come l’influencer, l’imprenditore come il calciatore o il rapper”. Veniamo ai contenuti dell’emendamento. La direzione verso il riequilibrio tra diritto di informazione e i diritti fondamentali della persona che prima evocavi è quella giusta. Ma le stimmate di una soluzione draconiana, tranciante, le porta con sé... “Le soluzioni chirurgiche, come sempre sono divieti e castighi, hanno questo limite. Modificano l’anatomia del soggetto, e non necessariamente risolvono la patologia. Meglio lavorare sulla fisioterapia. Ma occorre riconoscere a questo emendamento che vietare la pubblicazione testuale tenta di evitare l’effetto suggestivo che deriva dalla pubblicazione delle intercettazioni telefoniche o di alcune fonti di prova. Insomma previene giustamente quell’effetto trompe l’oeil che trasforma surrettiziamente, agli occhi del lettore, un mezzo di ricerca della prova in una prova piena di colpevolezza”. Questo è il tema centrale. L’ordinanza cautelare è una ricostruzione fattuale unilaterale dell’accusa, perché unilaterale in senso accusatorio è la selezione del materiale investigativo, la cucitura del quadro indiziario, la indicazione dei presunti riscontri della colpevolezza. La prospettazione difensiva è fisicamente inesistente... “Certo. Dunque l’emendamento ha il pregio di prevenire la formazione del pregiudizio colpevolista che la pubblicazione di brani di un provvedimento di un giudice ad acta, adottato su una base cognitiva sommaria, parziale ed unilaterale, è inesorabilmente destinato a determinare”. Veniamo ai limiti, ora, di questo provvedimento “chirurgico”. Qual è la fisioterapia che hai in mente? Come possiamo ottenere che si comprenda che il diritto alla presunzione di innocenza, alla reputazione ed alla dignità personale non debbano più soccombere di fronte al diritto di informare e di essere informati? “Occorre promuovere un rinnovamento culturale su questo come su altri temi in materia di giustizia. Leggo l’obiezione secondo la quale la sintesi del giornalista sarebbe, in fin dei conti, ancora più nociva della pubblicazione testuale dei contenuti dell’ordinanza cautelare. Perché invece non pensare che quel divieto possa diventare un incentivo ad una elaborazione propria del giornalista, che lo induca ad andare oltre il copia-incolla, magari ponendosi il problema della necessaria conoscenza del punto di vista difensivo? Questo mi porta al punto. Occorre ribaltare la prospettiva corrente, e comprendere che il fondamentale diritto di informare ha un effetto di over spill, di traboccamento su diritti di eguale importanza e rilevanza costituzionale, e che oggi appaiono particolarmente esposti e vulnerabili. Nessun diritto, come dice la Corte Costituzionale, può essere “tirannico” verso altri. Dobbiamo promuovere una ecologia della informazione giudiziaria, che renda consapevoli dei diritti fondamentali della persona, tutti meritevoli di essere salvaguardati. Lo abbiamo fatto con l’ambiente, lo abbiamo fatto con la circolazione stradale, e potrei fare altri esempi. L’esercizio di qualsiasi diritto, compreso quello della informazione, deve fare i conti con la propria forza contundente nei confronti di altri diritti di pari dignità. Dunque, professionalizzazione della stampa specialistica giudiziaria, rigore ed effettività della giustizia disciplinare, incentivi ai media “rights-sensitive” affidati ad autorità di garanzia. Insomma, bene la strada imboccata dall’emendamento Costa, ma nessuno si illuda che possa essere la soluzione”. Calabresi uguale ‘ndranghetisti. Ecco l’equazione del razzismo giudiziario di Alessandro Barbano* Il Foglio, 8 gennaio 2024 Delle intercettazioni travisate. Il caso di Marco Sorbara, caduto nella trappola di un’indagine apodittica quanto un teorema, spietata quanto un pregiudizio. Per smontarla gli ci vorranno quattro anni, tre processi e sette mesi di carcere. Ventisei scarcerato domani e assolto. Venticinque assolto. Ventiquattro buone probabilità di esserlo. Ventitré improbabile. Ventidue non c’è neanche da pensarci. Ma poi, questo è un mandarino grosso, si vede dalla buccia che avrà dodici, forse tredici spicchi. Non come quello di ieri, che ne aveva undici, e però i noccioli erano ventiquattro, quindi niente male. Ma tredici spicchi fanno almeno venticinque noccioli. Assolto, ma non subito. E chissenefrega. Se pure dovessi restare ancora un mese o due in quest’inferno, so come difendermi, io. Non mi faranno impazzire, perché tengo allenata la mente. Dov’ero rimasto? Diciotto, diciannove, venti, ventuno, ventidue, ventitré, ventiquattro, venticinque e ventisei! Bingo, ventisei. E ventiquattro ieri che era giovedì, e prima venticinque e ancora ventiquattro, solo lunedì ne ho contati ventidue, che sono rimasto male tutto il giorno, ma se domani e domenica ne trovo venticinque, fanno ventiquattro virgola due. Assolto! Mentre calcola la sua singolare media settimanale, Marco Sorbara sta ritto in piedi in una cella di quattro passi per due, con un letto in ferro cementato sul pavimento, un materassino senza cuscino, due coperte militari ma nessun lenzuolo, un cesso diviso da una porta semidivelta, un termosifone freddo, come l’acqua che sgorga dal lavandino il ventitré di un gennaio speciale, quello del 2019, che i veterani del carcere vecchio di Biella ricordano come uno dei più freddi degli ultimi due decenni. Sfida la paura di suicidarsi, scommettendo sui semi dei mandarini che corredano il vassoio del pasto, altrimenti lasciato intonso. Tra le mani compulsa l’ordinanza che lo indica come un complice della ‘Ndrangheta valdostana, ne sfoglia nervosamente le ottocento settantadue pagine, ma non riesce a leggerle perché ha perduto la connessione dei sensi con la mente. Guarda ma non vede, urla ma non ascolta la sua voce. Sorbara, stia zitto, gli intima un secondino. È caduto nella trappola del travisamento. Le intercettazioni che lo riguardano sono state impacchettate in un’investigazione apodittica quanto un teorema, ambigua quanto un sospetto di polizia, spietata quanto un pregiudizio. Per smontarla gli ci vorranno quattro anni, tre processi, ma soprattutto sette mesi di carcere e due anni e mezzo di arresti domiciliari. Siamo appena all’inizio di una storia che non diresti appartenere alla civiltà. Lo buttano giù dal letto, come fanno con tutti e, di più, con i politici. Alle tre e quindici di un giorno qualunque, che diventerà il giorno più tragico della vita, alla vigilia di un consiglio regionale dove il neoeletto Marco Sorbara dovrebbe presentare un’importante delibera sull’educazione nelle scuole. Svegliano l’intera palazzina di via Amato Berthet al numero otto, nel quartiere Dora, dove Aosta mostra nell’architettura delle cooperative la sua incompiuta integrazione. Il pensiero della madre, Iolanda, che vive con lui, corre agli altri due figli. Sandro è avvocato, va e viene dal confine. Cosimo fa il croupier a Saint Vincent, e ha già avuto un incidente. Ma dalla finestra baluginano le luci delle sirene dei carabinieri e basta affacciarsi per vedere nel piazzale uno spiegamento di auto e militari che non può raccontare una tragedia, ma piuttosto l’arresto di un mafioso. Siamo qui per lei, Sorbara, dobbiamo perquisire la casa e portarla via, ci dia subito i suoi cellulari. Eccolo. No, anche l’altro, sappiamo che ne ha due. Ho due schede, ma un solo cellulare. E quando lo dici la casa è già a soqquadro, uomini in divisa aprono cassetti e armadi, rovistano dovunque, mentre tua madre prende a urlare senza freni, aprendo una variabile imprevista che trova impreparati i carabinieri. L’effetto è un’accelerazione che trasforma una notifica di un ordine di cattura in un blitz. Sorbara, lei non può avvicinarsi a sua madre. E ti sollevano di peso depositandoti su una sedia della cucina. Sei già detenuto in casa tua, mentre ti portano in cantina e in garage, tenendoti per le braccia da entrambi i lati, frugano nella tua auto, perché qualche prova della tua sudditanza alla mafia dovrà pure spuntare. Un’ora dopo sei nel Conseil de la Vallée, così chiamano il consiglio regionale da queste parti, abbrancato ancora da due marcantoni che ti respirano addosso, mentre gli altri squadernano il tuo ufficio portando via tutte le carte che trovano. Hai dato o no posti di lavoro e appalti alla ‘ndrangheta? Le prove devono stare qui, anche se loro le raccolgono alla rinfusa come farebbe un traslocatore maldestro, chiamato a svuotare un’abitazione dopo la morte del proprietario. Perché la tua morte civile è già avvenuta, anche se ancora non lo sai, anche se ancora la tua mente vaga confusa aggrappandosi alla speranza di un equivoco. In caserma la speranza cede alla consapevolezza che sei, tutto intero, dentro un incubo. Se, dopo le foto e le impronte digitali, fai ancora finta di non capire, e gli chiedi di tornare a casa, quelli ti gelano: Sorbara, l’aspetta il carcere. Questa è l’ordinanza che la riguarda, la prenda. Ma non si può andare in carcere vestito in giacca e cravatta. Hai chiamato tuo fratello, l’avvocato, e fortuna che ce l’hai un avvocato in famiglia, da buttare giù dal letto all’alba. Ma non farà in tempo a portarti un pantalone di ricambio, perché sei stato già caricato su un’auto blindata, seduto sul sedile posteriore con le manette ai polsi, in mezzo a due carabinieri, per il viaggio che non avresti mai immaginato di dover fare. E ora sei nudo nell’infermeria della casa circondariale di Biella, davanti a due agenti che ti osservano da sotto e da sopra, per accertarsi che non nasconda, nelle pieghe del corpo, qualcosa di compromettente. Via cintura, lacci, scarpe, collanina. Ti lasciano la pelle, giusto quella. Si rivesta, Sorbara. In isolamento passano trentasei ore prima che tu possa incontrare l’avvocato. Trentasei ore senza dormire e senza mangiare, in piedi nello spazio che resta tra il letto e il muro, in piedi per l’illusione di sfuggire a quell’odore di sporco che hai sentito già sull’uscio e al freddo che ti penetra nelle ossa. Quando finalmente vedi Sandro, in un parlatorio angusto sorvegliato da agenti e telecamere, gli metti le mani gonfie dal gelo sulla pancia per riscaldarle, mentre lui t’infila un chewing-gum in bocca. E la menta ti pare un antidoto alla puzza che hai assorbito come una spugna. Lunedì esci, ho letto le carte, non c’è niente, niente di niente, intercettazioni travisate, un teorema, lo smonteremo, vedrai. Ma dimmi che non mollerai. Promettilo. Vorresti rassicurazioni alla paura che ti assedia e scopri che il tuo legale ne ha più di te. Paura che tu possa non farcela a superare il trauma e suicidarti. L’esperienza gli ha insegnato che gli innocenti non hanno, di fronte al tormento del carcere, più scorza dei colpevoli. Quarantacinque giorni in isolamento sono la più severa prova all’amore per la vita che si possa immaginare. Ne passi trentatré senza vedere tua madre, e arrivi a chiederti se abbia smesso di amarti. Lei, la donna con cui vivi e che, dopo la morte di papà, ha consacrato i suoi giorni ai tuoi. Quando finalmente i vostri occhi s’incrociano, in cinquantacinque minuti di silenzio, si parla con le lagrime. Temevi di doverti presentare al colloquio con le manette. Te l’aveva detto uno che passava vicino alla tua cella, ma non era vero. Uno chi? Forse un agente, o forse era un sogno cattivo. La tua mente vaga tra assurdo e realtà, e non sai da quale delle due dimensioni origini la paura. Ma la nascondi a te stesso, perché ti pare che perfino la paura possa essere intercettata. Negli occhi di tua madre ti sembra di vedere il tuo spavento. Non sai, e lei te lo dirà molto tempo dopo, che l’hanno perquisita, e ha dovuto svestirsi anche lei, prima di entrare nel parlatorio. A settantotto anni non è una bella esperienza. Ma tu sei un mafioso, e i parenti dei mafiosi portano spesso dentro qualcosa di proibito. Il carcere ha già scavato un solco incolmabile tra te e il mondo, e perfino i tuoi affetti più cari stanno ormai in un limbo che congela le parole e le emozioni. Dici: mamma, ti voglio bene. E chiedi: tu me ne vuoi? Perché i piedi del tuo Io vacillano. Ma anche perché non c’è più niente da dire, e da scambiare, tra il tuo universo e quello degli altri. È questa l’altra faccia di un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di un innocente, letta dal lato oscuro del foglio. Sandro teme di trovarti appeso a un lenzuolo. Non accadrà ma fammi uscire di qui, gli hai detto. Non hai mai percepito il suicidio come liberatorio, per questo la sua tentazione ti ha minacciato per davvero solo in un paio di occasioni. In realtà tu vorresti spegnere i pensieri che affollano la mente e precipitare in una sorta di coma, immune a qualunque emozione, per risvegliarti solo quando tutto sarà finito. Ma quando sarà finito? Leggi le carte, Marco, tuo fratello può difenderti se lo aiuti a capire che cosa facevi per due legislature da assessore ai servizi sociali del Comune d’Aosta, e da consigliere regionale poi, negli ultimi cinque mesi prima dell’arresto. Ma più sfogli le pagine con le intercettazioni che ti riguardano, e più ti accorgi di non essere mai stato padrone della tua vita, se un magistrato può reinterpretarla a suo modo, stravolgendola. E allora la paura torna prepotente su tutto. Paura di addormentarti, perché potrebbero metterti qualcosa di strano nella cella, per accusarti. Paura di accettare una caramella dal detenuto che ti porta il cibo, passandotelo attraverso le grate, nel timore di essere etichettato come amico di un pericoloso criminale. Ma paura anche di rifiutarlo, e di apparire arrogante, tanto da giustificare una rappresaglia o un dispetto. Perfino l’ora d’aria ti appare come un pericolo. La passi attraversando muto il corridoio di venticinque passi per dodici, cementato da ogni lato e aperto solo verso il cielo. Dopo averlo percorso tre o quattro volte, ti mancano le forze. Hai quasi smesso di mangiare. Cinque volte chiederai la scarcerazione e ti sarà sempre negata, anche l’ultima in cui il pm ha dato parere favorevole. Il processo che ti aspetta pare da subito una montagna ardua da scalare, fin dal primo interrogatorio. È il quattro aprile 2019. Ti accusano di concorso esterno in associazione mafiosa, perché sei stato eletto al Consiglio comunale con i voti rastrellati per te dagli uomini della “locale” di ‘ndrangheta, così si definisce in gergo, aperta ad Aosta da un ristoratore incensurato, Antonio Raso. Per i pm eri il suo pupazzo. Lo hai ripagato del favore elettorale informandolo di quanto accadeva all’interno della giunta comunale, trovando lavoro alle persone da lui segnalate, e risolvendo conflitti tra la comunità di migranti calabresi, di cui siete entrambi parte, e le istituzioni. È il tuo mondo raccontato al rovescio. Perché invano provi a spiegare che Raso lo conosci da sempre, che avete in comune il piccolo paese aspromontano di San Giorgio Morgeto, dove lui è nato, e da cui tuo padre è partito negli anni cinquanta insieme a settemila calabresi, giunti nei decenni in Val d’Aosta a costituire un gruppo sociale operoso e integrato. Invano ammetti, a prova di buona fede, che quando ti si rompe l’auto sì, Raso è uno che ti trova chi la ripara, perché gli piace stare in mezzo alle cose, è smargiasso e cura le relazioni come ogni ristoratore che si rispetti. Ma la mafia è un’altra cosa. La mafia è un pregiudizio che qualunque emigrato sente da queste parti come un refolo gelido che gli spira alle spalle. L’inchiesta della procura lo ha trasformato in un uragano, capace di abbattere la vita di una comunità. Il metodo è quello di assemblare migliaia di intercettazioni, raccolte in un decennio in procedimenti diversi, confermando le une con le altre in una logica congetturale. Lo riconosce con beata spudoratezza l’ordinanza di rinvio a giudizio, mettendo in un certo senso le mani avanti: questo è un processo di sole intercettazioni, scrive il giudice, ma poiché la Cassazione le ammette come mezzi di prova, noi lo istruiamo. Secondo questo modello investigativo e giudiziario due intercettazioni, più un sospetto, più un contesto fanno una prova. Il contesto è l’idea che la ‘Ndrangheta sia presente in Valle D’Aosta da decenni, come proverebbero vaghe testimonianze di pentiti piemontesi e due omicidi di trent’anni prima. Le intercettazioni raccontano, per frammenti, la vita dei migranti calabresi che s’incontrano presso il ristorante pizzeria “La Rotonda”, strutturando le relazioni tipiche di società chiuse, regolate da legami familiari e culturali che fondano un’identità collettiva. Tra queste non mancano personaggi con cognomi coincidenti, per omonimia o per parentela, con quelli di famiglie criminali calabresi, come i Nirta. Lo stesso Antonio Raso, che è considerato il capo dell’associazione mafiosa, è incensurato, ma come ogni buon aspromontano ha, a mille chilometri di distanza, parenti con la fedina penale macchiata. Quanto al sospetto, terzo e ultimo pilastro di questo paradigma investigativo, è un singolare impasto di logica poliziesca e preconcetto razzista. Poco conta che questa singolare mafia non faccia omicidi, né estorsioni, né minacce, né danneggiamenti. Poiché la sua forza di intimidazione discenderebbe non già da atti di violenza, ma dal suo essere percepita come la succursale valdostana della ‘Ndrangheta madre. In una regione dove sarebbe perfino inutile chiedere il pizzo, perché nessuno accetterebbe di pagarlo, la finalità del clan non sarebbe quella di sottomettere il territorio al suo potere criminale, ma quella di infiltrarsi nelle istituzioni, appoggiando candidati di vari partiti. Di questa mafia, Sorbara, tu sei l’uomo a Palazzo. Vallo a spiegare che non sapevi niente dei loschi traffici che si svolgevano attorno al ristorante, che tu frequentavi da un quarto di secolo. Vallo a spiegare che ignoravi la presunta statura criminale del tuo amico, a cui confidavi i tuoi dubbi amministrativi e le tue vicende private. Lo provano brandelli di intercettazioni raccolti in dieci anni da tre diverse inchieste. Alcune già vagliate e ritenute penalmente irrilevanti, poi ripescate dal mazzo come la prova della tua colpevolezza. Pochi anni prima hai troncato una relazione con una ragazza calabrese, a cui avevi anche prestato denaro. Nel conflitto tra famiglie che ne è seguito, un cugino della tua ex ha minacciato di morte tuo fratello Cosimo. Hai composto la lite incontrandolo insieme a suo fratello Giuseppe e hai riferito la tua conversazione al tuo amico Raso, a cui hai detto: “li teniamo sotto controllo”. Perché non hai denunciato le minacce alla polizia, invece di chiedere protezione a un mafioso? A chi vorresti far credere che la tua conversazione con Raso era una semplice confidenza? E che dire dei mobili dismessi dal Comune d’Aosta e da te portati in dono al tuo paese di San Giorgio morgeto? Quando la Lega ti ha accusato in consiglio comunale di aver fregato i tuoi compaesani calabresi, rifilandogli quelle anticaglie, mentre invece destinavi centomila euro al comune senegalese di Kaolach gemellato con Aosta, il tuo amico Raso ha telefonato al sindaco di San Giorgio perché ti ringraziasse ufficialmente. Non vuol dire forse che è il tuo protettore? Fai presto a dire che la mozione della Lega era stata già bocciata dalla tua maggioranza al Comune d’Aosta, che il sindaco di San Giorgio ti aveva ringraziato prima che glielo chiedesse Raso, che quei mobili li hai portati con un furgone affittato a tue spese, tornando al tuo paese d’origine il 23 aprile, come fai ogni anno per la festa dei patroni Giorgio e Giacomo. Non convincerai nessuno. Poi ci sono i lavori procurati agli amici dei mafiosi, in cambio dei loro voti. È la prova regina che t’inchioda. C’è una telefonata in cui Raso ti segnala una persona di sua fiducia per un posto nella cooperativa Leone rosso, che cura l’assistenza agli anziani. Sei tu che gli dici di presentare il curriculum al coordinatore della Coop, Francesco Buratti. Ti scagiona forse il fatto che nessuna delle persone segnalate da Raso sia stata assunta, o che lo stesso Buratti testimonierà a tuo favore? Gli inviavi, dirà in udienza, tra cinque e dieci curriculum all’anno, non hai mai fatto pressioni, ti bastava che ai tuoi raccomandati fosse garantito un colloquio. Ma tra questi, ha scoperto la procura, c’è la figlia di tua cugina, a cui è stato assegnato uno stage di tre mesi. E se pure tua cugina ha protestato con te per il salario da fame che le è stato corrisposto, quattrocentocinquanta euro al mese, sempre di favore si tratta. È mafioso tutto questo? Lo chiedi esterrefatto ai tuoi inquisitori in tre ore di botta e risposta. A fianco hai l’avvocato Raffaele Della Valle, un principe del foro, lo storico difensore di Enzo Tortora, il perseguitato per antonomasia dalla giustizia. E mentre parli con le energie che ti restano, ti sembra di essere un Tortora qualunque, con un destino di perseguitato di cui nessuna cronaca, nessun libro mai si occuperà. Perché sul volto dei due pm, che ti stanno di fronte, vedi la diffidenza e il pregiudizio di chi ti ha già condannato. Uno di loro, Stefano Castellani, sembra almeno disposto ad ascoltarti. L’altro, Valerio Longi, ti fissa e ti interrompe in continuazione, certo di trovarsi di fronte a un colpevole che nasconde le carte e mente. Ora vedi di fronte a te ergersi la montagna di un processo che si staglia più alta del Bianco, la cui maestà ammiravi estasiato e intimorito da bambino nelle tue passeggiate domenicali con papà. Hai passato la notte in piedi nella cella, ripetendo a mente le frasi con cui avresti voluto convincerli della tua innocenza. Sei uscito all’alba con le manette ai polsi, nella gabbia di un celerino hai viaggiato per un’ora, da Biella alla procura di Torino, e adesso ti senti improvvisamente come un insetto rovesciato che si dimeni agitando le zampette nervosamente, nel tentativo di rigirarsi per non morire. Ti hanno eletto loro, i mafiosi, cioè i calabresi, e comprendi quanto i due termini siano vicini in quest’indagine, tanto da confondersi e da disarmare la tua difesa. Perché il consenso di cui godi nella comunità meridionale suona già come un’aggravante. È pur vero che nelle carte dei pm non si spiega quanti siano i valdostani di origine calabrese minacciati dai mafiosi perché ti votassero, chi in concreto abbia svolto l’attività di proselitismo, in quale modo sia stata esercitata l’intimidazione mafiosa nei confronti dell’elettorato. Sembra piuttosto che un gruppo di persone di origine calabrese, desiderose di avere un candidato della loro provenienza geografica in grado di capirne i problemi, abbia convogliato, o finto di convogliare, i voti su di te. Perché talvolta il sostegno coincide con la millanteria. Come quando Raso chiama l’amico Ferdinando Carere, invitandolo a congratularsi con te dopo la tua elezione e a farti sapere che la sua famiglia ti ha sostenuto, “poiché, gli dici, con Raso ho pianificato tutto”. E aggiunge poi, scusandosi quasi per non averlo chiamato prima del voto: “Non è che ti ho telefonato per romperti i coglioni a te, con i cazzi che avevi...”. Non dovrebbe forse bastare questa intercettazione a scagionarti? Ti rispondi da solo che non è così, mentre ascolti i tuoi inquisitori declinare nel sospetto ogni connessione tra te e la tua comunità. Il “noi”, che ricorre nei colloqui intercettati e designa un modo di relazionarsi che è parte della tua cultura, è già diventato “noi ndranghetisti calabresi”. La tua domanda di scarcerazione è bocciata, con piena convergenza, dai pm, dal gip, Silvia Salvadori, dal tribunale del Riesame e perfino dalla Cassazione. La montagna è troppo più alta di te. La montagna è un pregiudizio granitico, un travisamento colossale contro il quale occorrerà mettersi in cammino, verso quei giudici che, immuni dalla miopia del senso comune e dalle sirene della piazza, smaschereranno l’inganno delle interpretazioni in cui sei caduto. Ma quei giudici sono lontani sette mesi di carcere e due anni e mezzo di arresti in casa. Sorbara, prenda le sue cose, la portiamo in sezione. È qui che capisci quanta vana sia la distinzione penale, e morale prima ancora, tra colpevoli e innocenti. È qui che l’illusione di dimostrare che sei finito dentro per sbaglio si frantuma e si confonde in una precaria lotta per la sopravvivenza. Stai in un lunghissimo corridoio da cui si dipartono, per ciascuno dei due lati opposti, venticinque celle. Alle otto del mattino le loro porte si aprono e ci si ritrova in questa piazza globale di settanta metri per otto, dove la lingua definisce le aggregazioni e gli italiani sono un gruppo tra i tanti. Capisci presto che sopravvivere al carcere vuol dire imparare a relazionarsi sotto l’occhio delle telecamere in questa giungla, dove l’esercizio del baratto e una misurata prepotenza ne fondano la costituzione non scritta. Comandano i più anziani e i più pericolosi, a patto che sappiano imporsi senza esagerare, esercitando l’arbitrio entro il limite in cui non sia conveniente per te reagire o denunciarli. Che si tratti di aspettare il turno per usare la lavanderia o di giocare a tressette nella saletta attigua, dove a dare le carte sono sempre gli stessi, ogni gesto della tua vita qui dentro deve confrontarsi con questa pace dei più forti che somiglia a una fragile tregua, sempre sul punto di spezzarsi in uno scoppio d’ira, senza però che ciò accada quasi mai. Perché a nessuno conviene che arrivino gli agenti penitenziari, squadernino le celle perquisendole, attivino una procedura che può riportarti a un isolamento punitivo. Il tuo compagno di cella è uno sconosciuto con cui ti tocca di stare dalle venti alle otto del mattino, disteso su uno dei due letti a castello, o condividendo lo spazio di quattro passi per due con un tavolino in mezzo, e da cui si apre un bagno con un lavandino e un vaso. Lo sconosciuto può russare o piuttosto avere seri problemi mentali. Tocca a te sopportarlo, e talvolta difenderti. In sette mesi hai cambiato tre volte coinquilino. Il primo è un ragazzo instabile, scappato da una comunità dopo aver minacciato un assistente sociale. La sera lo imbottiscono di psicofarmaci, per rendere sostenibile la sua detenzione. Così può capitargli di svegliarsi di notte, mettersi a cavalcioni sul letto a castello superiore e urinarti addosso in stato confusionale, oppure di uscire dal bagno imbrattato delle sue feci e rimettersi a letto. Vorresti gridare, chiamare le guardie, ma sai che non ti conviene. Perché non sai come può prenderla, e tu non puoi permetterti una rissa. Meglio subire, regalargli un pacco di biscotti e proporgli di dormire nel letto di sotto, limitando il danno. Il secondo ti ha detto che è in carcere perché ha picchiato sua madre. Adesso ti fa un sacco di domande sulla tua vita, troppe per non insospettirsi. Sembra tanto un confidente. Il terzo è ciclotimico, si sveglia con l’umore a mille e va in depressione due ore dopo. A mezzogiorno si ricomincia, eccitazione e lite, poi di nuovo inerte sul letto. Nei momenti di lucidità ti racconta la sua vita: l’hanno stuprato a dodici anni, ha visto uccidere, non conosce altra educazione, ti pare inadatto a qualunque compagnia. Dice di preferire la galera ai domiciliari. Biella vecchia ti pare sempre più il carcere degli psicopatici e degli sfigati, come te del resto. La cella a fianco alla tua è tappezzata di cartoni, il suo inquilino non esce mai, vive chiuso tra mosche e miasmi che ti investono giorno e notte. Ma presto impari a anestetizzare gli odori come i dolori, e perfino i sentimenti. Sei una statua di sale, tenuta in vita dalla paura. Zero memorie di affetti, zero amicizie dentro, sopravvivi nella giungla del carcere dribblando i contatti pericolosi e i ricatti sempre in agguato. La solidarietà è un privilegio dei condannati, chi sta in custodia cautelare non può permettersela. Hai paura di parlare con chiunque. Ti accusano di essere complice della mafia, se per caso ti capita di scambiare una chiacchiera con uno che mafioso lo è per davvero, fanno presto a fare due più due. Vivi con la percezione costante di essere intercettato. La prudenza ti irrigidisce. Qualcuno la scambia per supponenza. Per loro sei un politico, sei ricco, tuo fratello avvocato viene a trovarti un giorno sì e uno no, quando i tuoi compagni l’avvocato lo vedono una volta al mese, se va bene. Se ti avvicinano, è per farsi comprare le sigarette. Non puoi dirgli di no, ma devi schivare i contatti. Se entrano nella tua cella è per farti capire che comandano loro. Ti portano via biscotti e patatine, non per mangiarle, ma per darti un avvertimento. Non devi reagire alle provocazioni. Giorni fa facevi il caffè per il tuo compagno che era sotto la doccia, quando è entrato in cella un albanese e ha preso in mano la tazzina calda, gli hai detto che non era per lui e te l’ha tirata in faccia. Hai ingoiato la tua rabbia. Non devi, non puoi cadere nel tranello di reagire. Allo stesso modo non devi esibirti. Hai capacità di relazione? Nascondila a te stesso. Se ti chiedono un chiarimento di diritto, daglielo, ma non una parola in più di quello che serve. Il fascino che puoi suscitare è l’altra faccia dell’invidia che si prova nei tuoi confronti. Per salvarti qui dentro devi ridurti al minimo vitale, mettere in sonno bisogni e stimoli. In duecento quarantacinque giorni hai perduto più di venti chili. Diserti spesso l’ora d’aria e mercoledì, quando si va tutti nel campo sportivo, rinunci alla partita. Ti limiti a girare attorno al rettangolo di gioco ispirando forte, mentre la tua vista si perde tra le Alpi biellesi. Non puoi rischiare di farti male. La dipendenza dagli altri aumenterebbe e tu adesso hai bisogno di sentirti forte. Non vuoi e non puoi chiedere aiuto in un non luogo che non ti appartiene e che svuota la tua stessa esistenza fisica. Ti dici che non ce la fai, non ce la fai, e poi reagisci. Ti ripeti che non ce la fai, non ce la fai, e poi reagisci. Il tuo umore è una coazione a ripetere sull’orlo del baratro. Ogni volta che tua madre ti saluta, dopo una visita, ti sembra di piombarci dentro. La sofferenza, ancorché a te dissimulata, trapela dai suoi occhi e ti devasta. Il tuo rifugio è la solitudine. Per questo il momento migliore, in carcere, è al mattino. Alle otto gli agenti aprono le porte delle celle, ma tutti ancora dormono. Un detenuto marocchino addetto alla colazione ti porta l’acqua calda per il tè, risciacqui le canottiere che la sera prima hai messo a bagno con il sapore di Marsiglia, e mentre le stendi ti pare di sentire nel silenzio qualcosa di fresco. Per un attimo perfino l’inferno ti sembra tuo. Dura poco, è un’illusione. Alla quinta istanza, però, sei fuori. Questi atti processuali sono un bagno di sangue. Quando perfino la Cassazione ti dice che devi restare lì dentro, hai già speso già un patrimonio. Hai detto a tuo fratello: è l’ultima, se la respingono non la ripresentare più. Troppe volte hai intuito un sorrisetto sulla bocca dell’agente che ti consegnava l’ordinanza di rigetto. Ma alla sessione estiva c’è un giudice che viene da fuori, ha letto le carte e hai la sensazione che possa finire bene. Ancora oggi io non so come spiegare al mio assistito perché stia in carcere, gli dice tuo fratello. Lui sembra condividere. Sorbara, può andare a casa, ti annuncia due giorni dopo l’addetto dell’ufficio matricole, ma entro due ore deve essere ad Aosta e chiamare i carabinieri. Ed è in quel momento che la tua paura, anziché svanire, cresce al punto da farti vedere il carcere come il rifugio più sicuro. Da qui non esco, dici, se non chiamate mio fratello. Non ho una lira, come arrivo ad Aosta in due ore? Il carcere non finisce quando l’ultimo cancello si richiude alle tue spalle. Anzitutto perché sotto casa c’è una pattuglia di giornalisti pronti ad assediarti, che ti costringono a coprirti il volto e infilarti con l’auto nel garage. E poi perché l’odore della cella non ti si scrolla di dosso neanche se, come ti accade, passi le prime due notti a fare docce a ripetizione. Quell’impasto di sporco, muffa, cibi avariati, che hai respirato per duecento quarantacinque giorni, si è dematerializzato. Per una sorta di transfert sensoriale è passato dal naso al cervello. Ce l’hai dentro come un’impronta indelebile, mescolata alla paura che continua a segnare tutti i tuoi gesti. Paura di affacciarti al balcone, di incrociare lo sguardo in strada di qualcuno che ti conosce e di essere tentato di rispondergli. Non puoi parlare con nessuno. Hai il divieto di gettare la spazzatura nell’atrio del palazzo o di andare nel cortile. Tuo fratello, l’altro, il croupier, ha dovuto attendere una nuova autorizzazione del giudice per venirti a trovare. Così ti avvicini alla finestra, sbirciando tra i riflessi della luce la Becca di Nona che, con la sua immobile maestà, ti racconta tutta una vita, la tua. Se la Calabria è il primo cromosoma della tua identità, il secondo è la montagna. Ci sei nato sotto di mercoledì, il tre maggio del mille novecento sessantasette, in una casa del quartiere Cogne, dove tuo padre è giunto tredici anni prima, appena diciottenne, con un certificato di bracciante agricolo, per poi trovare un posto come impiegato dell’Enel e mettere su famiglia. Lui primo di quattordici figli che il Sud generoso spediva per ogni dove, tu secondogenito di tre nativi immigrati. Figlio di una transizione tra la povertà e il benessere, tra il sacrificio e il piacere. Dalla mamma, sarta in casa per arrotondare, impari il patois. Dagli zii l’arte del muratore d’estate, tanto da desiderare come pochi l’inizio della scuola. D’inverno ti cimenti con l’hockey, fino a scalare le tappe del semiprofessionismo e conquistare la Coppa Italia di serie A con la squadra del Curmaosta. Poi il tumore al cervello che in sei mesi si porta via papà, e la promessa, mantenuta, di continuare gli studi, lavorando dall’alba a mezzogiorno come cantoniere e frequentando l’università a Torino nel pomeriggio. Il sei novembre del Duemila la Valle è sotto un’alluvione che farà venti morti e cinquantamila sfollati, sei a bordo di un camion spazzaneve quando la strada cede e fai un volo di quaranta metri. Il ragazzo che è con te e guida il mezzo non ce la fa, sua madre sarà al capezzale, insieme con la tua, nella convalescenza che ti attende. La ritroverai al tuo fianco, vent’anni dopo, nella lunga detenzione domiciliare. Quell’incidente ti parve, e sbagliavi, la prova del fuoco di una vita. Superata la quale tutto è possibile: la laurea e il master da commercialista e revisore contabile a Pisa, la candidatura al consiglio comunale di Aosta, primo degli eletti con l’Union Valdôtaine e assessore ai servizi sociali per due legislature, la seconda con il record di preferenze anche sugli altri partiti, fino all’elezione al consiglio regionale. Stop. La tua biografia si interrompe qui, il 23 gennaio di un giorno qualunque. Perché la vita meramente biologica di un presunto colpevole non rileva neanche a processo. Non ti resta che sperare che i giudici del dibattimento vogliano conoscere il tuo passato più di quanto abbiano fatto quelli che li hanno preceduti nelle indagini preliminari. A loro racconti che hai verniciato i bagni dei servizi sociali nei quartieri, hai spalato la neve con i ragazzi disabili, la domenica hai accompagnato gli anziani dalle case di riposo alle famiglie, hai presenziato a tutte le feste sociali delle associazioni di volontariato. E intanto, grazie alle competenze da commercialista, hai eseguito i tagli del patto di stabilità senza ridurre l’offerta pubblica del Comune, anzi creando un servizio di prossimità per le famiglie bisognose. Uscivi di casa alle sette del mattino e rientravi tra le dieci e le undici della sera, perfino il giorno di Natale eri al lavoro, nel tuo modo eccentrico di fare il politico, in strada tra la gente travestito da Winnie the pooh. Ti chiamavamo prezzemolino, perché eri dovunque, e Don Matteo, per la tua abitudine a girare in bicicletta e, di più, perché il sabato e la domenica celebravi i matrimoni civili nelle veci del sindaco. Hai sposato in otto anni centinaia di coppie, molte delle quali sono diventate tuoi elettori. Così è fatta la mafia? Non ti credono. La sentenza di primo grado è una doccia fredda. Perché eri convinto di farcela. Hai pensato fino all’ultimo che l’incubo avesse una porta d’uscita e che ne fossi vicino. Hai atteso il verdetto pregando e correndo a perdifiato sulla pedana del tapis roulant nella tua prigione domestica. Dieci anni di galera adesso ti sembrano un fardello insostenibile. Hai ascoltato la lettura della sentenza mano nella mano con tuo fratello, adesso il pensiero corre a tua madre. Ha settantanove anni. Tra dieci anni potrebbe non vederti uscire dal carcere. Mentre ti chiedi che cosa non ha funzionato, senti franare il terreno sotto i piedi. La tua difesa è stata convincente, i testimoni hanno parlato a tuo favore. Eppure il collegio non ti riconosce neanche le attenuanti generiche. Ti condanna da mafioso e ti chiama a un inusuale risarcimento civile. Centocinquantamila euro alla Regione, centottantamila al Comune e cinquantamila all’associazione Libera, che ha pervicacemente chiesto la tua condanna. Quest’ultima somma è liquidata subito, a titolo di provvisionale, cioè prima che venga celebrato il giudizio d’appello e di Cassazione. Per il diritto sei ancora innocente, ancorché condannato in primo grado: qual è la ragione di un risarcimento immediato? E perché un’associazione di volontariato dovrebbe essere risarcita prima degli enti che hai rappresentato? I tuoi avvocati s’interrogano sulle ragioni di quello che, in assenza di un giudicato definitivo, somiglia a un’irrituale forma di finanziamento. Perché sono molte le contraddizioni e le stranezze di questo processo. La più stridente è la singolare coincidenza argomentativa, e per lunghi tratti letterale, tra le motivazioni della sentenza e la lunga memoria prodotta dall’accusa dopo la requisitoria. Il pubblico ministero l’ha inviata al collegio in formato word e per un magico “copia e incolla” la sentenza ricalca fedelmente le sue ragioni, la sua sintassi e perfino il suo lessico, limitandosi talvolta a sostituire una parola con il suo sinonimo. L’esito di questo giudizio sembra il prodotto di un sistema monolitico, in cui chi accusa e chi giudica formano uno stesso blocco, a dispetto della proclamata terzietà del giudice. E la difesa gioca contro troppi soggetti, riuniti attorno a una stessa cultura inquisitoria e agli stessi pregiudizi. Che assumono come privata l’illiceità di un’associazione a delinquere che non delinque, e non si propone di farlo, una mafia silente che, diversamente da tutte le altre mafie del mondo, non fa affari, tant’è vero che i suoi associati appaiono, quando non del tutto squattrinati, economicamente limitati, ma non chiedono denaro, non inquinano appalti e commesse pubbliche, non inseguono concessioni, autorizzazioni e servizi di qualunque natura. Si comportano piuttosto come i soci di una Onlus benefica o un’agenzia interinale, impegnata a collocare, nell’ambito del servizio mense o dell’assistenza agli anziani, amici e conoscenti al limite dello stato di indigenza. La loro colpevolezza sta in una presunta appartenenza alla ‘Ndrangheta, che troppo coincide con la certa appartenenza alla comunità di valdostani di origine calabrese. Ogni qualvolta nelle intercettazioni parlano al plurale, come abitualmente fanno i meridionali che si percepiscono portatori di una stessa identità, il loro “noi calabresi” per il tribunale deve intendersi come il “noi ‘ndranghetisti”. La sentenza finisce così per certificare, in quanto prova, il pregiudizio che gli imputati avvertono attorno a sé come un’ingiustizia. Un pregiudizio così fatto diventa una camicia di forza sulla realtà, capace di attribuire alle parole un senso opposto a quello che hanno. Le intercettazioni che ti condannano sono lo strumento di un colossale travisamento. Tu hai detto, confidando la tua amarezza al tuo amico ristoratore: “Sette anni che dicono che sono ‘ndranghetista. Fino a prova contraria, tocco ferro… tocco ferro e tocco anche la miccia, perché in questo caso devo toccare anche la miccia… Eppure mi fate i peli del culo su tutto… Quando porto una pratica di un calabrese, fanno la radiografia… Devo aprire una partita Iva di un calabrese? Mi fanno aspettare due mesi. E allora, ci svegliamo che forse dobbiamo svegliarci un po’ noi? Capisci? E questo lavora per me? È ‘ndranghetista… L’avvocato Sorbara ha tanti clienti? Sarà massone o ‘ndranghestista… Ma uno non pensa che forse mio fratello, oggi è domenica, è da ieri che non riesco a vederlo perché è dentro che lavora?”. Sfoghi come questo diventano nella lente strabica del pregiudizio un elemento soggettivo di colpevolezza. “L’assurda ermeneusi del tribunale”, scrive nella sua memoria d’appello l’avvocato Raffaele Della Valle, “è espressione di una inaccettabile cultura che associa l’essere calabrese con l’essere mafioso e la “calabresità” come circostanza aggravante di mafiosità”. Tra la sentenza di primo grado e quella d’appello passano ventidue mesi. La scommessa sui noccioli di mandarino è stata sostituita da un frenetico programma di training sportivo: lunedì camminata, martedì corsa, mercoledì camminata, giovedì corsa, venerdì camminata, sabato corsa, domenica riposo. Flessioni mattina e sera. Sul tapis roulant si può scacciare la tentazione di arrendersi e farla finita. A quattro mesi dalla sentenza ottieni l’autorizzazione a uscire di casa per andare dalla psicologa e per lavorare part time tre volte alla settimana in un magazzino di autotrasporto. Non prima di aver telefonato ai carabinieri per avvisarli che stai per lasciare l’abitazione. L’assessore e revisore dei conti ora lava i camion, come uno di quei professori dissidenti che i regimi comunisti cacciavano dalle università. È stato il fratello avvocato a contattare alcuni suoi amici, titolari del magazzino e a chiedergli: prendereste Marco come inserviente? Ormai sei un’altra persona. Il calvario giudiziario ha scarnificato, insieme con la reputazione, il morale. Quand’anche dovessi farcela in appello, temi di non avere la forza per rimetterti in piedi. Anche perché l’avvocato Della Valle ti ha spiegato che il processo non finisce con la sentenza di secondo grado. Se pure ti assolvono, dobbiamo andare in Cassazione, ti ha detto. Perché i pm non accetteranno di essere smentiti. E siccome loro, a differenza tua, non rischiano niente, andranno avanti a oltranza. Devi prendere il processo come una malattia cronica. Comunque vada, lascerà su di te segni incancellabili. I pm confermano questa previsione. Davanti al collegio di Torino, i sostituti Castellani e Longi, e il procuratore d’appello, Giancarlo Avenati Bassi, che a loro si è aggiunto, chiedono per te la conferma della condanna a dieci anni. Ma il quattordici giugno, quando tuo fratello avvocato pronuncia l’arringa finale, qualcosa si sblocca. Perché la corte sembra ascoltarlo con attenzione. Un mese dopo sei assolto perché il fatto non sussiste e liberato. “Nessun asservimento delle funzioni pubbliche alle esigenze del clan risulta dimostrato”, motiverà la Corte certificando che “il fatto non sussiste”. Non stava né in cielo né in terra che tu fossi mafioso, e devi quasi rallegrarti che l’infamia di questa accusa sia stata spazzata via in poco meno di tre anni, perché c’è chi ne ha dovuti attendere molti di più. Ma ancora non puoi gioire, non puoi parlare, non puoi rivendicare giustizia né risarcimento alcuno. Devi trattenere il fiato, stare in un limbo per altri due anni, in attesa che la Cassazione ponga fine a questa tragica farsa. Vai via dalla valle, cerca lavoro in Francia, passeggia in montagna, respira lungo. Tua madre ha trovato consolazione nella compagnia di Maria, la mamma del ragazzo morto vent’anni prima al tuo fianco nell’incidente del camion spazzaneve. Sono due donne a cui il destino ha tolto un figlio, questa giustizia ha nella loro percezione la stessa spietatezza del caso. Poi finalmente arriva il giorno del giudizio finale. E ritornano i fantasmi, la paura del carcere, le notti insonni trascorse sotto la doccia per scacciare lo sporco del mondo che ti insegue per ogni dove. La procura ha impugnato nell’ultimo giorno utile, e ritorna a tuonare in giudizio con gli stessi argomenti. Ma il travisamento delle intercettazioni è giunto finalmente alla prova di una corretta logica giuridica. Qui il castello di pregiudizi, congetture e associazioni improbabili si frantuma in mille pezzi. La Cassazione non solo dichiara inammissibile il ricorso del pm contro la tua assoluzione, ma smonta la tesi di un’associazione di ‘Ndrangheta ad Aosta. La sentenza di secondo grado è cassata con rinvio ad un’altra sezione della Corte d’Appello di Torino, perché ripeta il giudizio nei confronti di tutti gli altri imputati. Mancano reati fine, cioè azioni delittuose tipiche della mafia, come omicidi, estorsioni, minacce, e danneggiamenti. Manca l’esteriorizzazione della forza intimidatrice. Manca un modello organizzativo tipicamente mafioso, fondato su “distinzione di ruoli, rituali di affiliazione, imposizione di rigide regole interne, sostegno ai sodali in carcere”, cioè i tratti distintivi del sodalizio che lascino “presagire una già attuale pericolosità per l’ordine pubblico”. La mafiosità, spiega ancora la Cassazione, si fonderebbe sul “collegamento funzionale con la “casa madre” calabrese, di cui, peraltro, non sono puntualizzati dati relativi alla sua coeva esistenza, strutturazione, organigramma ed operatività”. I giudici d’Appello, che pure avevano assolto Sorbara e condannato gli altri, avevano ritenuto la “locale” aostana una promanazione della ‘ndrina dei Nirta di San Luca. “La motivazione, tuttavia, è - secondo i supremi giudici - carente sotto alcuni profili e manifestamente illogica sotto altri, limitandosi in effetti la Corte d’Appello a indicare che detto collegamento dovrebbe derivare da alcuni viaggi effettuati da un soggetto, Giuseppe Nirta, avente lo stesso cognome della stirpe Nirta, ad Aosta”. Il giudizio finale è clamorosamente liquidatorio: “La Corte d’Appello ha tratto in maniera apodittica, perché basata su una serie di ipotesi e congetture, elementi significativi sulla operatività del sodalizio”. Ti hanno incriminato come complice di un’associazione mafiosa che non è provata, e probabilmente non è mai esistita. Il processo alla ‘ndrangheta che pratica un metodo “non mafioso” era un ossimoro, dietro il quale si celava un processo ai calabresi. Piegando le intercettazioni a una lettura criminogena, dilatando le fattispecie di reato, un teorema di sospetti e pregiudizi è passato come un uragano sulla vita di una comunità. Ti chiedi ancora come sia potuto accadere. I tuoi legali ti spiegano che una malattia della giustizia ha trasformato il diritto in una giungla, dove le regole sono lasche come un elastico e ciascuno le tende per quanto può. Cosicché tra il diritto messo a fuoco dalla Cassazione, con una supplenza legislativa che non fa onore alla politica, e il diritto di strada, quello che si pratica nelle indagini preliminari e in molti fori di primo e secondo grado, si apre una distanza incolmabile. I supremi giudici hanno coniato la figura delle “mafie silenti”, che esportano il loro dominio oltre il confine dei loro territori d’origine, più spesso al Nord. Nelle intenzioni dei giudici-legislatori si volevano colpire “ì sodalizi che esercitano il metodo mafioso senza ricorrere a forme eclatanti, come omicidi e attentati, ma avvalendosi di quella forma di intimidazione, per certi versi ancora più temibile, che deriva dal non detto, dall’accennato, dal sussurrato, dall’evocazione di una potenza criminale cui si ritenga vano resistere*”. La prova che queste condotte siano reali in un territorio è data dalla paura e dall’omertà dei cittadini. Ma come si è potuto adottare questo paradigma in Valle D’Aosta, dove nessun imprenditore soggiacerebbe alla minaccia di pagare il pizzo? È accaduto, ti spiegano ancora i tuoi legali, per effetto di quella stessa malattia che induce alcuni magistrati ad andare oltre, a stressare le fattispecie e le procedure in nome del fine nobile di anticipare la tutela, cioè di colpire il cancro della mafia prima che produca le sue metastasi nella società. Cosicché accade che la mafia non sia più considerata silente perché esercita le sue minacce sotto traccia, ma perché si ritiene minacciosa potenzialmente, senza che abbia espresso alcuna intimidazione concreta. Vuol dire anticipare la tutela penale al punto da spostare il giudizio dal reato al presunto autore, dalla colpevolezza alla pericolosità, dalla prova al sospetto. Ma la pericolosità è, scusate il gioco di parole, molto pericolosa. Perché non si fonda su condotte e su fatti predeterminati e accertabili, ma su giudizi soggettivi. Perseguire una pericolosità potenziale vuol dire consegnare al magistrato il potere e la responsabilità di stabilire che i calabresi sono pericolosi anche quando non delinquono, e di condannarli in quanto potenzialmente mafiosi! Da revisore contabile guadagnavi bene, da assessore al comune di Aosta un po’ meno, ma ti piaceva tanto. Non hai famiglia, vivevi con tua madre, potevi permetterti una riduzione dello stipendio. Da consigliere regionale eri arrivato a seimila duecento euro. Li hai presi solo per cinque mesi. Poi il diluvio sulla tua vita. Hai perso tutto e l’assoluzione non ti ha restituito che una parte della tua reputazione. Perché ci saranno sempre quelli che continueranno a pensare che l’hai fatta franca. Il reinserimento di un innocente non è meno problematico di quello di un condannato. Per intanto giri l’Italia per raccontare la tua storia nelle scuole e a chiunque voglia ascoltarla. Il quotidiano “Il Dubbio” ha allestito alla Fiera del libro di Torino una cella d’isolamento simile a quella in cui sei rimasto quarantacinque giorni, in piedi con un mandarino tra le mani e un’ordinanza di ottocento settantadue pagine che ti accusava di concorso esterno in associazione mafiosa. La premier Giorgia Meloni, correggendo il suo guardasigilli, ha detto che la modifica del concorso esterno non è una priorità di questo governo. *Alessandro Barbano è da alcune settimane in libreria con “La gogna. Hotel Champagne, la notte più buia della giustizia”, edito da Marsilio. Ancona. Matteo, suicida in cella. La madre: “Mio figlio l’aveva detto, ma nessuno ha fatto nulla” di Alfio Sciacca Corriere della Sera, 8 gennaio 2024 Il drammatico racconto della madre che era stata a colloquio alcune ore prima. “Era disperato, soffriva di una patologia psichiatrica e aveva bisogno di cure”. Ilaria Cucchi: “Nelle sue condizioni non doveva stare lì”. “Piangeva e urlava: “mamma non mi lasciare, se mi portano di nuovo laggiù io mi impicco”. Attorno c’erano gli agenti e hanno sentito tutti, ma non hanno fatto nulla. Lo hanno riportato in cella e lo hanno lasciato morire come un cane. Lo Stato me l’ha ammazzato”. Roberta Faraglia racconta così l’ultimo drammatico colloquio nel carcere Montacuto di Ancona con il figlio Matteo Concetti, 25 anni, detenuto per reati contro il patrimonio. È la mattina del 5 gennaio. La donna lascia il carcere terrorizzata. Non sapendo più a chi chiedere aiuto chiama al telefono Ilaria Cucchi. Le racconta di suo figlio “malato psichiatrico e tenuto in isolamento senza che nessuno lo curi”. Alle 20 la richiama per dirle che Matteo si è suicidato. “Fino all’ultimo ha continuato a urlare che si sarebbe ammazzato - racconta Roberta -. C’era anche un’infermiera del Sert. L’ho supplicata di aiutarmi, di chiamare un medico, di metterlo in sicurezza, di fargli un Tso. Ho chiesto di parlare con il direttore. Niente. E quando l’agente l’ha portato via Matteo gliel’ha ridetto: “Se torno giù mi ammazzo”. E quello ha replicato: “E io ti denudo, così non hai come impiccarti”. La famiglia di Matteo ha già presentato denuncia ai carabinieri. Sarà ora la Procura a deciderà come procedere per stabilire se questa morte si poteva evitare. La madre parla di un “delitto annunciato” e ricostruisce i tanti allarmi inascoltati. Il 25enne aveva una patologia psichiatrica per la quale era in cura. In passato era stato anche in una comunità terapeutica. “Per questo avevo mandato due pec, l’ultima il 28 dicembre, perché mio figlio stava male. Mi diceva: “portatemi in ospedale. Ho il cervello che mi scoppia”. Ma questi problemi sono cominciati a Ancona. Fino a quando era a Fermo stava bene, anche se era in carcere”. Solleva dubbi persino sul suicidio. “Vorrei capire dove si è impiccato, visto che era alto e palestrato e nella cella non c’è né un lavandino, né un termosifone. Faceva tanto freddo che era costretto a portare due paia di pantaloni”. E si chiede: “Come si può impiccare un detenuto in isolamento, dove non si dovrebbe avere niente, neanche i lacci delle scarpe? E invece mi hanno ridato le sue scarpe con i lacci e infangate. Ma com’è possibile visto che non poteva andare da nessuna parte?”. A Matteo mancavano da scontare altri otto mesi. All’inizio aveva goduto di un regime alternativo: lavorava in una pizzeria con l’obbligo di far rientro a casa entro un certo orario. Ma aveva violato di un’ora il rientro e per questo il giudice lo aveva mandato in carcere. Prima a Fermo e da novembre ad Ancona. “Per un’ora di permesso lo hanno messo in carcere - si dispera la madre. Il giudice si dovrebbe vergognare. Anche lui ce l’ha sulla coscienza. Mio figlio aveva bisogno di cure. Era giusto che scontasse la sua pena, ma in modo adeguato alla sua patologia”. Ma come c’era finito in isolamento? Per una lite con gli agenti hanno sostenuto dal carcere, ma anche su questo la madre ha un’altra versione. “Matteo e altri detenuti avevano protestato per le condizioni del carcere. Gli avevano fatto bere anche l’acqua non potabile e si erano ammalati tutti. Lui ci ha scritto una lunga lettera su quello che succedeva in quel carcere”. Ilaria Cucchi, che ha scritto al sottosegretario alla Giustizia Delmastro, parla di “una vicenda gravissima, nelle sue condizioni questa persona non doveva stare in carcere”. Sullo sfondo la situazione del carcere di Ancona. “Ci sono stata poco prima a Natale e la situazione è drammatica, proprio per il sovraffollamento”. Ancona. “Se mi riportate in cella di isolamento mi impicco”: cronaca di una morte annunciata di Alessandra Ziniti La Repubblica, 8 gennaio 2024 Il 24enne si è lasciato ucciso nel bagno della cella. Il j’accuse della madre: “Me l’hanno ammazzato, è colpa dello Stato, questa tragedia si poteva benissimo evitare se solo qualcuno ci avesse dato ascolto”. Venerdì mattina, nell’ultimo incontro con i genitori, lo aveva preannunciato: “Se mi portano di nuovo giù mi impicco. Laggiù ho paura”. Poche ore dopo, Matteo Concetti, 25 anni, fisico da body builder e testa gravata da anni da patologie psichiatriche, era senza vita impiccato nel bagno della sua cella di isolamento del carcere Montacuto di Ancona dove era stato portato in seguito ad una violenta aggressione, a colpi di sedia, ad un agente penitenziario. Angosciata dalla minaccia del figlio, consapevole dell’assenza delle cure di cui avrebbe avuto bisogno in carcere, la mamma si era prima appellata al personale dell’istituto penitenziario chiedendo che non perdesse mai d’occhio Matteo, poi aveva scritto alla senatrice Ilaria Cucchi. Ora, la mamma Roberta Faraglia, accusa; “Me l’hanno ammazzato, è colpa dello Stato, questa tragedia si poteva benissimo evitare se solo qualcuno ci avesse dato ascolto”. Matteo Concetti doveva scontare un residuo di pena di otto mesi per reati contro il patrimonio. Di Fermo, ragazzo problematico, aveva trascorso due anni in una comunità terapeutica, poi gli era stato concesso un regime alternativo di detenzione con degli obblighi da rispettare. Ma il ritardo di un’ora sul rientro a casa gli era costato il ritorno in carcere prima a Fermo, poi ad Ancona dove era stato trasferito a novembre. E dove era stato protagonista di una violenta aggressione alle guardie carcerarie che gli era costata il regime di isolamento. Carcere piccolo, sovraffollato e senza strutture dedicate a detenuti con patologie psichiatriche quello di Ancona. “Nessuno poteva prevedere questa tragedia, il ragazzo non era ritenuto a rischio suicidio”, dice il Garante dei detenuti Giancarlo Giulianelli mentre la madre di Matteo obietta che il figlio aveva “già provato a suicidarsi sei anni fa e che aveva bisogno delle medicine che assumeva in comunità”. “Quello che è successo a Matteo è di una gravità inaudita”, dice Ilaria Cucchi che aveva ricevuto l’accorato appello della mamma quando il ragazzo era ancora in vita. “Era afflitto da problemi psichiatrici, la sua condizione era incompatibile con la detenzione. Ancora una volta lo Stato, nel momento in cui era chiamato a far sentire tutta la sua presenza e la sua cura, lo ha abbandonato, isolandolo”. Ancona. “Mio figlio non poteva stare lì, era malato e nessuno lo ha aiutato. Lo Stato ce l’ha sulla coscienza” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 8 gennaio 2024 Roberta Faraglia, mamma di Matteo Concetti, racconta l’ultimo incontro con il figlio poche ore prima che si togliesse la vita nel carcere di Ancona. “Fatemi uscire da qui, ho paura, mi fanno fare la fine di Stefano Cucchi”. “Mamma, mi devi portare fuori di qui. Non ce la faccio più. Devi chiamare Ilaria Cucchi, qua mi fanno fare la fine di Stefano”. Oggi che piange disperata sulla bara di suo figlio, Roberta Faraglia non si dà pace. “Se solo gli avessi dato ascolto quindici giorni fa, chissà, forse sarei riuscita a portarlo fuori da quell’inferno dove me l’hanno ucciso. Ilaria Cucchi l’ho chiamata, ma solo venerdì, poche ore prima che Matteo si uccidesse”. Signora Faraglia, Matteo si è tolto la vita. Perché dice che glielo hanno ucciso? “Perché mio figlio aveva un disturbo psichiatrico accertato, era bipolare, in carcere non ci poteva stare. Tantomeno in isolamento, senza nessuno che lo controllasse, impaurito e agitato com’era. Venerdì mattina, nell’ultimo colloquio che abbiamo avuto, lo ha detto a me e a suo padre davanti alle guardie penitenziarie e ad un’avvocatessa: “Mamma, mi ha detto, se mi riportano giù in isolamento mi impicco”. Io ho chiesto aiuto a tutti, nessuno mi ha dato ascolto e hanno lasciato che si suicidasse”. Ci racconti quell’ultimo incontro con Matteo... “Venerdì mattina, il 5 gennaio, dopo le 11. Io e mio marito siamo andati a trovarlo in carcere come sempre, ma invece del solito parlatorio ci hanno portato da un’altra parte. Quando ho chiesto spiegazioni, mi hanno detto che era stato portato in isolamento perché aveva aggredito una guardia. Matteo era agitatissimo, ci ha raccontato che la mattina era stato picchiato da un agente mentre altri due lo tenevano fermi, che aveva paura di stare in quella cella da solo, al freddo, senza finestre. Stava male, io sono un’operatrice sanitaria, lo capisco, conosco mio figlio. Ho capito subito che c’era qualcosa che non andava, che non gli davano le sue medicine. Ho provato a rassicurarlo, gli ho detto che a breve lo avrei tirato fuori di lì per portarlo in comunità, di resistere ancora due giorni. Era veramente sfinito. Ma quando lo hanno portato via, avevo il cuore piccolo piccolo e non me ne sono andata via subito”. E cosa ha fatto? “Intanto ho chiesto rassicurazioni alle guardie, le ho implorate che non lo lasciassero solo. Ho chiesto aiuto all’infermiere che era venuto per dargli una terapia che non gli hanno invece voluto far prendere, ho chiesto di poter parlare con il medico. “Oggi non c’è nessuno, non possiamo aiutarla”, mi hanno risposto. Ho chiamato il cappellano, gli avvocati, il tutore che gli era stato nominato. Ho detto a tutti che Matteo si voleva ammazzare. Nessuno mi ha ascoltato. “C’è il weekend di festa, poi ne parliamo”. Poi ho scritto a Ilaria Cucchi e sono andata alla posta per mandare a mio figlio un telegramma: “Stai tranquillo, nessuno ti abbandona, non sei solo. Ti voglio tanto bene. Mamma” Speravo che gli sarebbe arrivato sabato mattina. E invece…”. Quando ha saputo cosa era successo? “Venerdì sera, ho ricevuto una telefonata: “Dobbiamo darle una brutta notizia. Suo figlio si è impiccato in cella”. Sono rimasta per un’ora da sola paralizzata in auto, senza avere la forza neanche di tornare a casa e dirlo a mio marito. Come si è impiccato? Gli avevo portato delle patatine, degli affettati e non me li hanno fatti entrare per motivi di sicurezza. Quando sono entrata in carcere mi hanno fatto togliere la cintura del cappotto. E lui invece è riuscito ad impiccarsi in cella. Come è possibile? Ma adesso io voglio dire tutto”. Cosa vuole dire signora? “Adesso denuncio tutti. Denuncio il carcere e lo Stato che me lo ha ammazzato. Non lo faccio per soldi ma per ridare a mio figlio quella dignità che lo Stato gli ha tolto da quando aveva 15 anni. Era un ragazzino incontenibile, sempre agitato, gli hanno diagnosticato un disturbo bipolare, poi è arrivata la droga. È stato due anni in comunità, poi gli avevano dato una pena alternativa a casa che gli consentiva di lavorare per scontare pochi mesi per una condanna, ma ha sgarrato di un’ora e lo hanno buttato in carcere. Nessuno mai è riuscito ad aiutarci”. Di cosa avrebbe avuto bisogno Matteo? “Non era cattivo, era solo fragile, tanto fragile, a dispetto del suo fisico. Chiedeva aiuto. Mi diceva: “Devo trovare qualcuno che mi leva questa angoscia dalla testa, ho la testa piena di sofferenza. E invece lo hanno sbattuto in carcere per giunta dicendo che non era un soggetto a rischio. Ma aveva un amministratore di sostegno e ci sono le pec dell’avvocato al carcere che dimostrano il contrario. E le sue cartelle mediche. Ma adesso è tardi, mio figlio sta qui chiuso in una bara, davanti a me e non può più parlare. Lo farò io al posto suo, gliel’ho giurato”. Ancona. Giovane morto in carcere, i genitori presentano denuncia per istigazione al suicidio di Antonio Pio Guerra Il Messaggero, 8 gennaio 2024 Hanno sporto denuncia alla Procura della Repubblica per il reato di istigazione al suicidio i familiari di Matteo Concetti, il giovane reatino di 25 anni morto impiccato venerdì scorso nel carcere di Ancona. “Abbiamo denunciato questa ed altre cose, voglio sapere com’è morto mio figlio”, dice la mamma Roberta Faraglia, che ripercorre le ultime frenetiche ore vissute nell’apprensione per le condizioni di salute di Matteo, fino alla tragedia della sua morte. “Una morte annunciata - dice la mamma - perché nostro figlio ci aveva esposto palesemente le sue intenzioni, senza possibilità di incomprensione. Al colloquio in carcere della mattina di venerdì 5 gennaio c’eravamo io, mio marito e gli agenti di polizia penitenziaria. Se mi riportate in cella di isolamento mi impicco, sono state le ultime e decise parole di mio figlio”. Stando a quanto riferisce Roberta Faraglia, una guardia carceraria ha replicato all’appello del ragazzo con queste parole: “Ti denudo e non ti do i mezzi per farlo, ma devo riportarti in isolamento”. Il racconto. Mamma Roberta non si dà pace: “Ho supplicato gli agenti che lo sorvegliassero, mio figlio mi chiedeva di non andare via. Gli ho assicurato che non sarei tornata a casa, ma sarei stata fuori dal carcere, per assicurarmi che stesse bene. Appena uscita ho dunque cercato il contatto di Ilaria Cucchi, l’ho chiamata ma non abbiamo fatto in tempo a salvarlo”. Matteo Concetti era detenuto nel carcere di Montacuto di Ancona da circa due mesi. Stava scontando la sua pena per reati legati a tossicodipendenza e danni al patrimonio: “Era stato due mesi nel carcere di Fermo, si trovava bene, era un ragazzo buono e sensibile d’animo, nonostante le sue problematiche legate al bipolarismo che stava curando. Aveva fatto domanda di riavvicinamento per i colloqui, poi lo avevano portato ad Ancona. Il primo mese è andata benino, poi sono iniziate le sue problematiche, diceva che si sentiva come in un lager”, dice la mamma Roberta. “Stava male, si era anche procurato tagli alle braccia che ancora si vedono sul suo cadavere. Erano quattro settimane che diceva che si sentiva esplodere la testa, che stava male e non aveva più le forze. Chiedeva di essere portato in ospedale o in una clinica psichiatrica. Nessuno ha ascoltato i nostri appelli e le grida di dolore di mio figlio, eppure abbiamo le leggi giuste, la nostra Costituzione tutela i diritti di tutti, bastava solo applicarla”, prosegue la mamma di Matteo. L’attesa di informazioni. I familiari attendono di avere informazioni sulla dinamica di quanto accaduto: “Non sappiamo ancora nulla, vogliamo sapere cosa è successo, come ha fatto un ragazzone alto e grosso come Matteo a impiccarsi nel bagno di un seminterrato, chi doveva controllare, se gli sono stati dati i farmaci per la sua patologia - dice la mamma - di certo dovevano portarlo all’ospedale settimane fa, ora è troppo tardi per tutto”. La salma di Matteo Concetti si trova ora all’obitorio dell’Inrca di Ancona: “L’ho visto, ho visto il segno rosso sul suo collo. Era peggiorato dopo la morte di sua nonna. Ora ci preoccuperemo di seppellirlo accanto a lei, a Contigliano, non c’è altro che possiamo fare in questo momento, lei gli starà vicina, ovunque si trovino”, dice Roberta Faraglia. “Ma non ci daremo pace - prosegue - finché non avremo giustizia per questo ragazzo lasciato solo dallo Stato. Matteo era un ragazzo fragile e malato che stava pagando i suoi errori e aveva il diritto di essere curato”. Augusta (Sr). Muore un altro detenuto in carcere. Il sindacato di polizia: “Situazione grave” di Salvo Palazzolo La Repubblica, 8 gennaio 2024 A dicembre, l’ispezione del senatore Antonio Nicita: “Dietro le sbarre situazione fatiscente, farò una nuova interrogazione”. A ottobre il provvedimento del gip per un decesso del 2021. Nel maggio scorso, erano morti due detenuti nel carcere di Augusta, facevano lo sciopero della fame da 60 e 41 giorni, e nessuno all’esterno della struttura penitenziaria ne sapeva nulla. La sera del 6 gennaio, è avvenuto un altro decesso: un 58enne originario di Palermo ha avuto un malore all’interno della settima sezione, dove si trovava detenuto, ha avuto appena il tempo di chiedere aiuto alla polizia penitenziaria, ma è deceduto poco dopo. Anche in questo caso, la procura di Siracusa, diretta da Sabrina Gambino, ha aperto un’inchiesta per capire cos’è accaduto. E, intanto, il sindacato di polizia Sippe torna a denunciare: “Ad Augusta c’è una situazione gravissima - dice Nello Bongiovanni, dirigente nazionale del sindacato e assessore di Fratelli d’Italia a Sortino - la direttrice del carcere è stata peraltro anche rinviata a giudizio di recente, per la morte di un altro detenuto. E la direzione dell’amministrazione penitenziaria continua a trascurare una situazione esplosiva, per carenza nelle strutture e nel personale”. A fine dicembre, c’è stata un’ispezione del senatore del Partito Democratico Antonio Nicita nelle strutture penitenziarie della provincia: Augusta, Siracusa e Noto. “Faremo una nuova interrogazione - ha annunciato Nicita - per ribadire le criticità riscontrate”. “Nel carcere di Augusta - ha scritto il senatore del Pd - vi sono intere sezioni senza docce nelle celle e una media di 40 persone deve usare appena 3 docce in condizioni fatiscenti, finestre rotte, talvolta senza continuità di acqua calda. Una condizione disumana. In almeno due strutture carcerarie su tre non funzionano da anni i riscaldamenti”. E ancora: “Sotto il profilo sanitario in tutte le strutture visitate il presidio h24 è assicurato da un medico per turno e in almeno una struttura più di un turno lascia il medico da solo senza infermieri. Non solo i medici sono costretti a fare più ore dei turni richiesti, ma hanno ricevuto intimazioni scritte dall’Asp di non aver pagate le ore in eccesso. In tutte le strutture si lamenta urgente fabbisogno di supporto psicologico”. Disagio psichico - Ad Augusta, sono addirittura 120 i detenuti che hanno disturbi psichiatrici, 100 hanno problemi di tossicodipendenza. “Ho trovato una situazione drammatica”, racconta Giorgio Bisagna, neo presidente di Antigone Sicilia. “Molti di quei detenuti non dovrebbero neanche stare in carcere, ma com’è noto in Sicilia ci sono solo un ex ospedale psichiatrico giudiziario, a Barcellona Pozzo di Gotto, e due Rems, le strutture sanitarie che accolgono gli autori di reato affetti da disturbi mentali e socialmente pericolosi, sono a Naso e a Caltagirone”. E, intanto, dietro le sbarre c’è un disagio crescente. Ad Augusta la situazione è davvero preoccupante: nel 2022, ci sono stati 37 casi di autolesionismo e 40 proteste (molte con sciopero della fame) per le ragioni più diverse. Ancora nel 2022, si sono registrate 74 aggressioni nei confronti del personale dell’istituto, sei contro altri detenuti. “Una miscela esplosiva - non usa mezzi termini il presidente di Antigone - una situazione davvero grave, in una struttura per molti versi fatiscente, a cui il Dipartimento delle carceri non ha saputo dare ancora una risposta”. L’ultima inchiesta - Aveva una situazione psicologica molto fragile il quarantenne Emanuele Puzzanghera, di Caltanissetta: per il suo suicidio, avvenuto il 14 maggio 2021, il gup di Siracusa Francesco Alligo ha rinviato a giudizio Angela Lantieri, la direttrice della casa di reclusione di Augusta, e il medico Emanuela Maria Musto. Devono difendersi dalle accuse di mancata vigilanza e omicidio colposo. Il processo inizierà il primo giugno. Puzzanghera aveva confidato ai sanitari la sua intenzione di farla finita, per questo era stata disposta la sorveglianza a vista del detenuto, che poi però venne revocata, senza attendere le valutazioni degli specialisti. Quaranta minuti dopo, l’uomo si uccise. Milano. Un 2023 nero, carceri al collasso di Andrea Molteni chiesadimilano.it, 8 gennaio 2024 Solo per restare nel territorio della Diocesi, com’è possibile stipare 422 persone dove ce ne starebbero solo 240 (Busto Arsizio) e 710 nello spazio previsto per 411 (Monza)? In geometria esiste un’equivalenza tra il volume di un solido (lo spazio che occupa) e la sua capacità (quanto può essere riempito). Per il carcere, in Italia, questa semplice legge non vale e la capienza pare non avere limite. Come è possibile d’altronde, se non sfidando le leggi della fisica, stipare 371 persone in un istituto che ha 185 posti (Brescia Canton Mombello), 690 persone in un carcere che di posti ne ha soltanto 364 (Foggia) o, per restare nel territorio della Diocesi ambrosiana, ficcare 422 persone dove ce ne starebbero solo 240 (Busto Arsizio) e ancora altre 710 nello spazio previsto per 411 (Monza)? La condanna europea - Dieci anni fa la Corte europea dei diritti umani condannò l’Italia, con una sentenza pilota nota come “sentenza Torregiani”, per la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani, quella che proibisce la tortura e le pene e i trattamenti “inumani e degradanti”. In quel momento le persone adulte detenute negli istituti penitenziari italiani erano più di 65 mila. Le conseguenze di quella condanna furono alcune timide misure deflattive, che in un paio d’anni portarono la popolazione detenuta a 52 mila unità, e una circolare del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, che introdusse, nei reparti di media e bassa sicurezza la “sorveglianza dinamica”, con una sorta di regime a celle aperte che ampliava, all’interno delle sezioni detentive, spazi e libertà di movimento per chi vi era detenuto. Poi il numero delle persone incarcerate tornò progressivamente a crescere fino a superare di nuovo, nel 2019, quota 60 mila. Questa volta non intervenne una Corte di giustizia, ma fu il Covid a costringere l’amministrazione a una serie di benefici che portarono alla scarcerazione, almeno temporanea, di qualche migliaio di persone. Ora - a novembre 2023 - le presenze in carcere sono nuovamente più di 60 mila e, nel frattempo, un’altra circolare dell’Amministrazione penitenziaria ha disposto, andando in direzione opposta a quella del 2013, un regime detentivo di media sicurezza che, di fatto, limita fortemente la possibilità di tenere le celle aperte per buona parte del giorno. Il dramma dei suicidi - Intanto, nel 2023, 68 persone detenute hanno scelto di togliersi la vita dietro le sbarre. Almeno 68, visto che diverse morti sono registrate senza che le cause siano del tutto chiarite. Ai suicidi “riusciti” andrebbero aggiunti i tentativi di suicidio non portati a termine e gli episodi, frequentissimi, di autolesionismo, anche grave. In qualunque altro contesto una percentuale di suicidi così alta non sarebbe considerata tollerabile e da più parti si invocherebbe a gran voce un intervento urgente per porvi rimedio. Invece per chi si uccide in carcere si levano poche fievoli voci. Molte storie, molti nomi, li conosciamo solo attraverso il lavoro, testardo ed encomiabile, di Ristretti Orizzonti (www.ristretti.it). Tra le altre anche quelle dei quattro uomini che si sono uccisi nel 2023 a San Vittore e dei tre che hanno deciso di fare lo stesso nel carcere di Opera. I due più giovani avevano solo 21 anni. Nel 2006, in una situazione carceraria divenuta ingestibile si arrivò a un indulto che permise a diverse migliaia di persone di uscire dal carcere un po’ in anticipo rispetto al fine pena previsto. Anche in quel caso, come in occasione delle scarcerazioni legate agli interventi seguiti alla “sentenza Torregiani” e, successivamente, alla pandemia di Covid-19, non si registrò nessun incremento significativo nel numero dei reati commessi in Italia. Eppure oggi nessuno ha la forza di voce per reclamare un atto di clemenza - meglio sarebbe dire di ripristino della legalità detentiva - e le richieste in questo senso reiterate da papa Francesco sono state accolte da un silenzio assordante. D’altronde è da diversi anni che, nel nostro Paese, il Ministero non è più anche di Grazia, ma ormai solo di Giustizia. Condannati alla recidiva - Da qualunque parte la si voglia guardare è evidente che il carcere è un’istituzione fallimentare, almeno se si prende sul serio lo scopo rieducativo che gli è attribuito, assieme alle altre pene previste dal nostro ordinamento, dalla Costituzione. Gli studi disponibili mostrano un livello di recidiva criminale incomparabilmente più alto per chi sconta la propria condanna tutta in carcere rispetto a chi usufruisce di una misura alternativa, per chi è recluso in un regime di carcere chiuso rispetto a chi gode di un regime più aperto. La popolazione detenuta è fatta in gran parte non di persone che abbiano commesso gravi reati, ma di persone che vivevano, già prima della carcerazione, situazioni di povertà e vulnerabilità sociale, educativa, economica e abitativa. Non occorre nemmeno andare a scomodare la statistica, basta chiedere a chiunque “abbia visto”, a chiunque “ci sia stato” (volontario, operatore, direttore di carcere o agente di polizia penitenziaria che sia) per scoprire quale livello di sofferenza umana, sociale e sanitaria sia attualmente rinchiusa in cella. Con tutto ciò, la già citata circolare del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria del 18 luglio 2022 (n. 3693/6143) che interviene sul “Circuito media sicurezza. Direttive per il rilancio del regime penitenziario e del trattamento penitenziario”, ha avuto, sta avendo, come effetto in molti istituti (sono di “media sicurezza” la maggior parte dei reparti detentivi) una progressiva “chiusura” nelle celle per molte persone detenute, per molte ore al giorno. In celle sempre più sovraffollate. In carceri sempre più caratterizzati dall’essere luogo di sofferenza, anche psichiatrica. I dati del Garante - Le conseguenze di questa scelta, che si vanno a sommare alla progressiva riduzione delle telefonate e delle videochiamate ai familiari garantite durante la pandemia, sono già state messe in luce dallo studio promosso dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale sulla sperimentazione della direttiva, condotta dall’Amministrazione penitenziaria da luglio a dicembre 2022 in quattro regioni, compresa la Lombardia. I dati resi pubblici dal Garante indicavano, anche per la Diocesi milanese, una drastica diminuzione delle sezioni a “custodia aperta” e una preoccupante crescita di quelle a “custodia ordinaria” (cioè chiusa), e la situazione è andata aggravandosi con la successiva applicazione generalizzata della circolare, soprattutto in quegli istituti dove la presenza di operatori “esterni” e di volontari non riesce a garantire a sufficienza quelle attività “trattamentali” a cui è, inopportunamente, legata la possibilità di restare fuori dalla cella. Una “vendetta” sociale? - E ancora, dopo l’affossamento della proposta di legge nota come “legge Siani”, che intendeva arginare la vergognosa presenza di bambini detenuti in carcere insieme alle loro mamme, l’anno si è chiuso con l’ennesimo, davvero non necessario, pacchetto sicurezza. Tra le varie previsioni normative approvate dal Consiglio dei ministri ce n’è anche una che rende discrezionale l’applicazione di una misura detentiva alle mamme che hanno bambini piccoli, a partire da un anno d’età. Sarà così più facile incontrare in carcere bambini che impareranno a conoscere il mondo entro i limiti imposti dalle sbarre di una cella. Ecco, anche questo bisognerebbe andare a vedere, in ossequio al monito di Piero Calamandrei, prima di votare questa o altre norme carcerocentriche: il muro di sbarre, fisiche e figurate, che limita l’orizzonte di un bambino in galera. Ecco come, varcata la soglia del 2024, le carceri italiane continuano a rappresentare, come denunciava Filippo Turati più di un secolo fa, “l’esplicazione della vendetta sociale nella forma più atroce che si sia mai avuta”, in barba all’auspicio del cardinale Carlo Maria Martini per una società capace di ricorrere alla privazione della libertà in carcere solo come estrema ratio, solo temporaneamente e solo per quelle forme di violenza altrimenti inarrestabili. Firenze. Mancano braccialetti elettronici causa aumento dell’applicazione agli stalker di Andrea Vivaldi La Repubblica, 8 gennaio 2024 “Così i detenuti non possono uscire di carcere”. L’allarme degli avvocati: La carenza provocata anche dalle nuove regole del “codice rosso” che hanno esteso e facilitato l’uso dei dispositivi di controllo hi tech su chi minaccia le donne. I braccialetti elettronici non bastano per tutti. E così accade, raccontano avvocati tra Prato e Firenze, che un condannato debba restare in cella, anche dopo una decisione del giudice che gli permette di passare dal carcere ai domiciliari. A volte vi rimane per giorni. A volte settimane. “Ho una persona, ad esempio, che aspetta dal 16 dicembre. Virtualmente è scarcerato, ma ancora non è stato messo a disposizione il braccialetto elettronico per lui - spiega l’avvocato Federico Febbo, presidente dell’Unione delle Camere Penali di Prato. Ci è stato detto che bisogna attendere se ne liberi uno, fino ad allora lui il mio assistito deve rimanere nel penitenziario”. Alcuni anni fa questo problema era stato da campanello rosso. Poi, grazie all’intervento di alcune aziende produttrici private, la situazione era in parte migliorata. Adesso si sta riproponendo. Il motivo sembra essere legato anche alla nuova normativa del codice rosso, entrato in vigore a fine settembre. E che spinge a un maggiore uso. Per contrastare la violenza di genere, i maltrattamenti domestici e casi di stalking, sono state rafforzate le misure di prevenzione per le donne. È stato introdotto ad esempio l’obbligo per il pm di ascoltare entro tre giorni la vittima dal momento della denuncia, sono stati allungati i tempi per sporgere la stessa denuncia. Ed è stata introdotta la possibilità per il giudice di disporre il braccialetto elettronico per garantire un divieto di avvicinamento. La mancanza dei braccialetti accentua anche il problema del sovraffollamento nei penitenziari. Gli istituti sono spesso pieni, deteriorati, con situazioni critiche di abitabilità. Al carcere di Sollicciano a Firenze ad esempio ogni anno decine di detenuti presentano istanze al tribunale chiedendo sconti di pena, viste le condizioni in cui devono vivere. “Sui braccialetti c’è anche un problema di trasparenza, perché non vengono forniti numeri certi di quanti sono quelli nel Paese - dice Perla Allegri, dell’osservatorio nazionale dell’associazione Antigone (che si occupa di diritti e garanzie nel sistema penale) -. Eppure ci sono stati bandi da milioni di euro per la loro produzione. Aiuterebbero a risolvere questioni di sovraffollamento delle carceri, per la quale l’Italia è già stata condannata nel 2013, e di sicurezza pubblica. Con il nuovo codice rosso il tema sta riemergendo”. L’avvocato Gabriele Terranova, membro dell’Osservatorio carcere dell’Unione delle camere penali italiane, spiega: “Ora che si incentiva l’uso del braccialetto, forse serviranno dotazioni maggiori. Il sistema dei controlli però dovrebbe dotarsi anche di strumenti alternativi e digitali. Le possibili - prosegue - sono molteplici: dall’introduzione di applicazioni specifiche sugli smartphone, all’installazione di webcam nelle case di chi riceve la misura. La tecnologia offre molte soluzioni, anche gestibili economicamente”. Napoli. Mendicante in carcere da 20 mesi per tentata estorsione di Dario del Porto La Repubblica, 8 gennaio 2024 “Ha chiesto per due volte una moneta da 2 euro”. Oggi il processo di appello per il nigeriano accusato di estorsione. Il Garante: “Indignarsi è poco”. Chiesti i domiciliari in una struttura del Casertano. “Indignarsi è poco”, scuote il capo il Garante regionale dei detenuti, Samuele Ciambriello, mentre commenta il caso di Kelvin Egubor, nigeriano di 25 anni, da venti mesi in carcere a Poggioreale per un’estorsione da due euro. La storia, raccontata ieri da Repubblica, arriva questa mattina davanti alla Corte di Appello. In primo grado, l’imputato, mendicante senza fissa dimora e irregolare in Italia, è stato condannato a cinque anni di reclusione. La Procura generale ha già chiesto la conferma di quel verdetto. L’avvocata Salvia Antonelli, che assiste Egubor, chiede invece l’assoluzione e la sostituzione della custodia in carcere con gli arresti domiciliari in una comunità del Casertano che ha già dato la disponibilità ad ospitarlo. “È evidente - afferma l’avvocata - la sproporzione tra la personalità dell’imputato, il fatto in contestazione e una misura cautelare che sicuramente impedisce ad Egubor di intraprendere una seria e corretta prosecuzione del percorso di vita e di crescita formativa”. Il nigeriano è accusato di aver imposto a un uomo il pagamento dei due euro, minacciando di tagliare la cappotta dell’auto, per consentirgli di parcheggiare nella zona di Fuorigrotta, tra via Campana e via Giulio Cesare. L’episodio risale al novembre 2021, la vittima chiamò la polizia e poi presentò denuncia. A dibattimento, la parte offesa ha confermato questa ricostruzione dei fatti mentre non è stato ancora incardinato un altro procedimento nato sempre dalle dichiarazioni della stessa persona. Secondo l’avvocata Antonelli, Egubor non era un parcheggiatore abusivo, ma un mendicante che si arrangiava con piccoli lavoretti, come le pulizie in strada, nei pressi della chiesa di San Vitale. La difesa contesta la versione dei fatti dell’accusa, rilevando che non vi sono testimoni in grado di fornire riscontro alle parole della vittima né tanto meno di confermare l’effettiva consegna dei due euro. Da qui la richiesta di assolvere l’imputato o, in subordine, di modificare il capo d’imputazione in tentata estorsione oppure violenza privata. Anche il garante Ciambriello parla di “assoluta sproporzione di pena rispetto ai fatti contestati” e ricorda la sentenza della Consulta del maggio scorso che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del reato di estorsione nella parte in cui non prevede una diminuzione di pena non eccedente un terzo quando il fatto “risulti di lieve entità per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo”. Il caso adesso è sulla scrivania dei giudici della sesta Corte di Appello. Quasi certamente il processo si concluderà nella giornata di oggi e i magistrati decideranno anche sull’istanza in materia di custodia cautelare. “Spero solo di poter uscire dal carcere e ricominciare a vivere - ha detto Egubon alla sua avvocata - ma ci crederò soltanto quando sentirò bussare alla porta della cella e una voce mi dirà: “Sei libero”. Taranto. Carcere, situazione al collasso. Nominare subito un Garante comunale dei detenuti di Associazione Marco Pannella noinotizie.it, 8 gennaio 2024 “Il carcere di Taranto è parte integrante della città, eppure la classe politica ne è totalmente avulsa e disinteressata”. Inizia così la nota dell’associazione Marco Pannella che ne ha per il sindaco ed anche per il presidente della Regione Puglia. “È bene ricordare infatti che la sanità penitenziaria è affidata alla Regione. Eppure gravissime sono le denunce che, ancora una volta, sono state messe in luce da un sindacato nell’incuranza dei vertici politici regionali e comunali. Non basta il sovraffollamento con 900 persone ristrette. Il Sappe ha raccontato che nel carcere di Taranto non viene garantito il diritto alla salute, con i detenuti psichiatrici abbandonati a se stessi, malati cronici con carenza di assistenza, e medici che si assentano dal servizio. Invitando le autorità a riflettere sull’alto numero di detenuti morti nel carcere di Taranto ‘per cause naturali’. Parole di una gravità inaudita, che chiamano alla responsabilità i vertici della Asl di Taranto e i loro mandanti politici, ma che purtroppo non hanno generato prese di responsabilità dagli stessi. Mentre è la polizia penitenziaria ad interessarsi del rispetto dei diritti dei detenuti, a dimostrazione che la comunità penitenziaria è lasciata sola ad occuparsi di se stessa.” Così l’associazione Marco Pannella chiede al sindaco Rinaldo Melucci “di procedere immediatamente alla nomina del garante comunale dei detenuti. Sottraendolo alla spartizione politica, ma scegliendo tra chi realmente si occupa dei loro diritti. Una figura che l’intera comunità di Taranto non può più aspettare”. Palermo. I “pupi della legalità” entrano in carcere per un progetto del Centenario Rotary Italia ilfattonisseno.it, 8 gennaio 2024 Per il sesto anno consecutivo, l’Associazione Culturale Marionettistica Popolare Siciliana fondata e presieduta da Angelo Sicilia lavorerà accanto ai giovani che scontano pene intramurarie presso l’Istituto Penale per Minorenni “Malaspina” di Palermo, diretto da Clara Pangaro, grazie ad un progetto che prevede l’addestramento all’arte dei pupi siciliani fino alla realizzazione di uno spettacolo. Un ampio progetto portato avanti da Angelo Sicilia, in questi ultimi anni, con il Centro di Giustizia Minorile della Sicilia, con gli USSM di Palermo, Messina e Caltanissetta e gli IPM di Palermo e Caltanissetta. Quest’anno il progetto, appena avviato, è stato pensato all’interno del più ampio “Progetto Centenario Rotary Italia”, che vede coinvolti i Club di tutta la nazione. Per Palermo, l’attività è stata voluta e finanziata da tutti i Rotary Club dell’Area Panormus, su proposta e coordinamento dal Rotary Club Palermo Ovest, presieduto da Mauro Faso Il “Progetto Centenario Rotary Italia” nasce nell’ambito dei festeggiamenti dei 100 anni dalla fondazione del primo Club Rotary italiano, a Milano. Tutti i Distretti d’Italia hanno organizzato per l’occasione diverse iniziative coinvolgendo i relativi Club d’appartenenza. Per il Distretto 2110 Sicilia e Malta, il Governatore Goffredo Vaccaro ha convocato i circa 100 presidenti di club, e indicato il tema sul quale sviluppare delle attività. Alla Sicilia è toccato un triplice indirizzo: giovani, ambiente e lavoro. Per l’occasione, dunque, il Rotary Club Palermo Ovest e l’Associazione Culturale Marionettistica Popolare Siciliana di Angelo Sicilia, in accordo con la direzione dell’Istituto Penale per i Minorenni, hanno sviluppato un progetto che prevede, oltre all’insegnamento della gestione del teatro dei pupi, lo sviluppo (soggetto, scene e testi) di uno spettacolo che tratterà i temi individuati dal Rotary. “Quest’anno, come mai, i 22 club Rotary dell’Area Panormus stanno lavorando all’unisono su svariati progetti in favore della comunità. Solo grazie all’intuito dei rispettivi presidenti, coordinandoci come un unico soggetto, ciò che il Rotary di fatto è, stiamo cercando di trasmettere alla cittadinanza il messaggio di un gruppo di persone che agisce collettivamente e, per questo, riesce a sviluppare un impatto significativo in favore dei soggetti fragili ma, anche, a proporre soluzioni che siano funzionali alle criticità che ogni territorio vive. In quest’ultimo intento risiede il messaggio, ed il fine del Rotary: migliorare la qualità di vita delle Comunità nelle quali i club insistono ed operano. Così i Club Service come il Rotary offrono gratuitamente le professionalità dei propri soci, e le risorse economiche necessarie a sviluppare economia sociale”, dichiara Mauro Faso raccontando gli intenti del Rotary. “Un progetto ambizioso e semplice al tempo stesso, che ha un duplice obiettivo: da una parte la diffusione del valore della legalità nei giovani detenuti del Malaspina, quindi la consapevolezza delle pratiche dell’antimafia sociale, fatta di azioni quotidiane ben precise, di cultura, ed in questo caso anche di tradizioni popolari. Dall’altra parte, si vuole offrire ai ragazzi formati una possibilità diversa di vita, un’alternativa, una volta usciti dal percorso penitenziario. Diversi di loro negli anni, infatti, hanno continuato a lavorare nella nostra compagnia teatrale partecipando anche a festival e rassegne in tutta Italia”, racconta Angelo Sicilia. Nelle edizioni precedenti del progetto è stata trattata la storia dell’antimafia attraverso la storia della giudice Francesca Morvillo, e del sociologo Danilo Dolci con il tema dell’educazione maieutica. Spazio è stato dato anche all’immigrazione, all’antirazzismo e all’antisemitismo con un percorso storico dedicato alla Shoah e ai siciliani che hanno combattuto durante la Seconda Guerra Mondiale per salvare tanti ebrei dall’olocausto. “Il progetto è rivolto a dieci minori dell’IPM Malaspina, con diverse provenienze geografiche, che, per la durata di circa quattro mesi prenderanno parte ai laboratori. In particolare, quello di pittura, condotto da un’insegnante esperta nella realizzazione delle scenografie, e quello di costruzione dei pupi protagonisti della storia che sarà preparato per il progetto di quest’anno. I ragazzi impareranno a prestare anche la propria voce ai pupi. Le attività proposte da Angelo Sicilia in questi anni hanno sempre avuto positivi riscontri nei percorsi educativi individuali, tanto che alcuni ragazzi tornati in libertà hanno continuato a collaborare con lui, oltre la scadenza naturale dei progetti. Questo, perché Angelo Sicilia riesce a stabilire positive relazioni, umane ancor prima che professionali, portando avanti con il suo lavoro aspetti culturali creativi e ricreativi e avviando con i ragazzi un iter di formazione che, se viene colto, può anche avere sbocchi professionali per gli stessi”, spiega Maria Mercadante, funzionaria della professionalità pedagogica in servizio presso l’IPM “Malaspina” di Palermo. Il progetto in dettaglio - La tematica che si affronterà nel progetto di quest’anno è legata all’ambiente e alla difesa del territorio. I giovani affronteranno un percorso di formazione partendo dall’eclatante fatto storico del “Sacco di Palermo”, negli anni ‘60, che provocò danni permanenti all’urbanistica elegante ed armoniosa del Liberty a Palermo, all’ambiente, e ad un sistema economico drogato da una gestione troppo spesso illecita di grandi volumi di denari nel settore immobiliare, e non solo. Con la scomparsa di agrumeti della Conca D’Oro e la demolizione di decine di ville Liberty o precedenti e la nascita di quartieri dormitorio quali C.E.P., Z.E.N. e altri. Quartieri progettati con un disegno ed una visione innovativa e futuristica, alla quale però non seguì mai lo sviluppo di infrastrutture e indotto sociale. Il percorso formativo del progetto prevede l’informazione su figure straordinarie del panorama locale fra giornalisti, educatori, intellettuali, che si sono battuti per la difesa del territorio, quali Mario Francese, Danilo Dolci e tanti altri. Un percorso che verrà attualizzato con il tema dell’emergenza incendi a Palermo e provincia, che rappresenta spesso il legame tra criminalità organizzata di ieri e di oggi, volta alla devastazione dell’ambiente e del territorio a fini speculativi. Lo spettacolo teatrale finale verrà proposto durante il Congresso Distrettuale del Rotary che si svolgerà tra il 15 e il 16 giugno 2024 in Sicilia. Milano. “Benvenuti in galera”, il ristorante nel carcere di Bollate in un film-documentario di Maurizio Porro Corriere della Sera, 8 gennaio 2024 Il regista è il figlio dell’esperta di cucina Silvia Polleri, che coordina la brigata composta da otto detenuti. “I clienti? A volte sono curiosi in modo morboso, altre volte capiscono e i ragazzi si aprono al dialogo”. Il 26 ottobre 2015 è stata una data storica per il carcere di Bollate. Quel giorno si è aperto il ristorante interno, il primo al mondo, con una settantina di posti a tavola e dehors. È gestito da otto detenuti che ordinano le vivande, ragionano sui piatti, cucinano e servono a tavola, escluso il maître dei vini perché con l’alcol non possono averci a che fare. È stato subito un successo, grazie anche alla visione comune dei direttori dell’istituto negli anni. Lista di attesa nelle prenotazioni e curiosità internazionali, compreso un giornalista del New York Times. “Benvenuti in galera” è il titolo del documentario firmato da Michele Rho - studi alla Paolo Grassi e alla Columbia di New York - e girato nei tre anni tormentati dal Covid, seguendo persone che lavorano ogni giorno in cucina, anche per i pasti mensa dei detenuti e poi, finito il lavoro (retribuito) tornano in cella. Il doc, prodotto da WeRock, visto in anteprima a Filmmaker, sarà in tenitura da giovedì 11 gennaio (alle 21) all’Arlecchino di via San Pietro all’Orto e racconta un pezzo di vita fuori dagli schemi, un prison movie che non assomiglia a nessun altro. “Ho voluto raccontare - dice il regista - le vite di questi ragazzi nel carcere considerato modello, dove ci sono detenuti di ogni specie ma dove sono esclusi i reati di mafia. Il titolo “Benvenuti in galera” vuole annunciare l’intento di abbattere ogni diffidenza, perché i carcerati sono persone come noi, uomini che si stanno riprendendo le loro vite anche attraverso l’esperienza del ristorante; questi per me sono Davide, Said, Jonut, Chester, Domingo, Pavel. I clienti? A volte sono curiosi in modo morboso, altre volte capiscono che il lavoro significa redenzione, speranza e futuro: così i ragazzi si aprono al dialogo”. Il ristorante ha da sempre la benedizione professionale di Silvia Polleri, esperta di cucina, madre del regista, che ha preso in mano la situazione con cordialità, formando una brigata notevole, con l’intervento di uno chef che ha lavorato con Gualtiero Marchesi. Dice Rho: “Spesso il turn over dei lavoratori è determinato dai processi, per cui il ristorante diventa un ponte tra il carcere e il mondo esterno, costringe a sostituzioni e cambi, sono le piccole incognite di un progetto sposato sia dai detenuti sia dai clienti, tanto che hanno fatto la stessa esperienza in un carcere in Colombia, quindi la storia continua”. Primo comandamento per l’autore, “entrare in colloquio coi ragazzi senza retorica, condividere le loro storie al di là delle loro colpe, senza entrare in cella ché non è permesso, ma osservando la fatica e la costanza di un lavoro quotidiano tra i fornelli, supervisionato da mia madre. Tutto ciò è una lente per esplorare il mondo del carcere e capire le reazioni dei ragazzi quando cucinano, pensano ai menù o vanno a fare la spesa all’ipermercato. Il lavoro è la chiave di tutto, in un film che ha una cifra agrodolce come sono le storie delle persone, senza “giocare” coi drammi personali, ma guardando a come rendere sopportabile la carcerazione. Per questo vorrei presentare il film anche in altri istituti di pena, così come nei locali che già lo richiedono, in giro per l’Italia e soprattutto penso di proiettarlo nelle scuole, come momento umano e didattico: i film si allevano come figli”. Questo “figlio” mostra un luogo inusuale, brani di sorrisi inaspettati, dibattiti sul pesce spada, racconti di altri soggiorni in carceri di massima sicurezza, dialoghi non scontati e con l’impronta della verità, all’ombra di un ristorante decorato alle pareti con poster di film adatti (“Il miglio verde”, “Fuga da Alcatraz”, “Le ali della libertà”, “Fuga per la vittoria”). La morale è che cibo e convivialità (e fatica, sudore) sono jolly validi ovunque e la lasagna mette insieme tutto il mondo. Perché in bianco e nero? “Perché sono i colori del cinema, sintomo di eleganza, sono quelli che per me aiutano a restituire il senso della dignità delle persone, non distraggono il vero con luci e colori”. Una legge sulle donazioni? Pallucchi: “Il Terzo settore ha già i codici per la trasparenza” di Paola D’Amico Corriere della Sera, 8 gennaio 2024 La portavoce del Forum, dopo l’annuncio della premier Meloni sull’arrivo di nuove regole dopo il caso Balocco-Ferragni, precisa che con la Riforma il mondo del Terzo settore è già sottoposto a controlli meticolosi sulle donazioni e chiede al Governo che gli enti possano conoscere l’identità dei loro benefattori anche nel caso del 5xmille. Regole per le donazioni? “Ben vengano, anche se il Mondo del Terzo settore ha già propri codici per controllare e garantire trasparenza”. Vanessa Pallucchi, Portavoce del Forum commenta l’annuncio della premier Giorgia Meloni che, dopo il caso Ferragni ha dichiarato: “C’è una questione di trasparenza sulla beneficenza su cui forse bisogna lavorare. Capire quali sono oggi le regole di trasparenza ed eventualmente immaginarne di migliori potrebbe essere utile per tutti”. Dopo le accuse piovute sulla influencer per il caso del pandoro Balocco, il Governo ha allo studio una normativa. La legge potrebbe essere pronta entro fine mese. La portavoce del Forum del Terzo settore precisa che in tema di donazioni è necessario “fare un distinguo. Non tutte le donazioni, infatti, seguono il modello Ferragni. Quello è il caso di un privato che ha una impresa e fa una donazione per una causa direttamente. Le nostre realtà, invece, sono già super controllate, soprattutto dopo la Riforma”. Aggiunge ancora: “Non conosco i contenuti del decreto ma ben venga che un controllo sia rivolto anche a chi non ne ha, è anche nel nostro interesse, più costruiamo un rapporto con chi dona e più costruiamo una base di riferimento con le persone che ci sostengono e meglio sarà”. 5x mille: utile conoscere i propri donatori - Nel mondo del Terzo settore “ci sono anche come garanti realtà - vedi l’Istituto italiano della donazione - che fanno da intermediari”, continua Pallucchi. I soggetti del Terzo settore che ricevono donazioni nascono con la mission, per esempio, “di intervenire su un territorio in guerra, oppure nelle periferie urbane disagiate, o per progetti di salvaguardia della natura, vanno a incidere direttamente nei cantieri di giustizia sociale o per il miglioramento della qualità di vita dei soggetti vulnerabili”. Il privato che dona al mondo del Terzo settore non appare, resta dietro le quinte, sconosciuto, non mette in mostra il suo gesto. “Non so come funziona la donazione tra privati ma so quanti e quali sono i passaggi di trasparenza richiesti alle nostre realtà, siamo sottoposti a controlli e anche a una valutazione di impatto tali che non c’è margine per truffe”. Non a caso “una delle lamentele per la riforma è che ci fanno il pelo e il contropelo”. Bene dunque più regole per tutti con l’obirettivo della trasparenza, perché gli italiani “sono propensi al dono - conclude - e i dati dicono che c’è un aumento di persone che in forma micro oppure macro donano”. E sempre in tema di trasparenza, il Forum chiede al Governo semmai di far si che chi riceve sappia chi è il donatore: “Con il 5 per mille non si può sapere chi sono i donatori. Poterlo sapere, invece, creerebbe un dialogo diretto e renderebbe possibile una relazione di continuità”. Persone senza fissa dimora, 11 morti in una settimana: “Sempre più persone scivolano nella povertà estrema” di Alex Corlazzoli Il Fatto Quotidiano, 8 gennaio 2024 In sei giorni in Italia sono già morti 11 senza fissa dimora. L’ultimo è Modesto, un uomo di circa sessant’anni, che viveva alla stazione di Foggia: si è spento domenica al policlinico Riuniti di Foggia, dopo essere stato soccorso nei giorni scorsi dagli operatori del 118 che l’hanno trovato infreddolito e zuppo d’acqua. Sempre nella notte tra sabato e domenica, un altro uomo di 66 anni, ha perso la vita all’interno di un garage di piazza Carità a Napoli: si era trovato un riparo lì per trascorrere la notte ma un incendio scoppiato poco prima delle quattro lo ha sorpreso e ucciso. Prima di loro, da capodanno alla Befana, sono morti nell’indifferenza della maggioranza che volge lo sguardo dall’altra parte quando passa di fronte loro altre nove persone. Un inizio 2024 che non dà certo speranze, visto che l’anno scorso - secondo i dati della Federazione italiana organismi per le persone senza dimora - si sono registrati 310 decessi di persone senza fissa dimora e nel 2022 sono stati invece 400. È la strage degli invisibili, gente di cui spesso non si conosce nemmeno il nome, la maggior parte uomini, migranti. È uno sterminio urbano che avviene sotto gli occhi di sindaci e assessori che non dedicano più nemmeno una dichiarazione ma cercano di mascherare la situazione diventata ormai “intollerabile”, a detta delle associazioni che si occupano di questo fenomeno. “Le persone muoiono per strada perché vivono uno stato di abbandono e solitudine estremi - dichiara Cristina Avonto, presidente della Federazione italiana organismi per le persone senza dimora - I Comuni si sforzano, con il supporto tecnico ed operativo degli Enti di Terzo Settore, di attivare piani e servizi di emergenza, specialmente nella stagione fredda. Tutto ciò evita che i morti siano molti di più di quanto non ne vediamo ogni anno. Però il dato ci dice che sono in aumento e su numeri alti perché sono sempre più le persone e le famiglie che scivolano nella povertà estrema e finiscono fuori dai sistemi di aiuto e protezione”. Da due anni il numero di morti per strada, in luoghi abbandonati, in ripari provvisori, non cambia: nel 2022 erano stati 299, l’anno scorso 11 in più. Un incremento notevole rispetto al 2021, quando i clochard scomparsi, registrati ufficialmente da Fio.Psd, si erano fermati a 250. E l’anno nuovo è iniziato con la stessa drammatica media. Un senzatetto è morto alle spalle del palco del concertone di Capodanno di piazza Plebiscito: l’uomo, dall’identità sconosciuta ma di origine asiatica di età apparente tra i 30 ed i 40 anni, sarebbe spirato per cause naturali e stenti. Sempre quel giorno è stato trovato morto a Roma un romeno di circa cinquant’anni: il suo corpo è stato individuato in avanzato stato di decomposizione in un giaciglio di fortuna sotto la tangenziale, all’altezza dell’uscita di viale di Tor di Quinto. A dare l’allarme è stato un connazionale, anche lui clochard, che era andato a cercare l’amico che non vedeva più da mesi alla mensa dei poveri. Ha ritrovato solo lo scheletro e poco più. Il 2 gennaio, sempre a Roma, se n’è andato, Stanislaw Jan Bieronski, per tutti Stanislao: aveva 48 anni, era di origine polacca e viveva in un silos abbandonato in viale Parise, zona Settecamini. Qualche settimana prima non ce l’aveva fatta un suo connazionale ma lui era rimasto lì nella speranza di sopravvivere al freddo e alla fame. Stessa sorte per Joseph, un africano di trent’anni, che si è spento a Torino in un riparo di fortuna per un malore. L’unico italiano, per ora, a finire in questa triste lista è un 72enne: ha esalato l’ultimo respiro il 5 gennaio dopo essere caduto per strada, ancora a Roma. Infine in 4 sono morti nel giorno dell’Epifania. A Pisa la perdita di Velic Krunoslav, conosciuto da tutti come “Kruno”, ha colpito la comunità locale: croato, 61enne, viveva da molti anni in strada ed è morto nell’area archeologica dei Bagni di Nerone, come ha denunciato l’associazione Amici della Strada che lo seguiva da tempo. Per lui si è mossa anche l’amministrazione comunale che ha deciso di farsi carico delle esequie. Gli altri tre sono tunisini 25enni trovati morti in uno stabile abbandonato a Padova - l’ex istituto Configliachi in via Guido Reni - uccisi quasi certamente da un’esalazione di monossido di carbonio. Un elenco mesto ma non casuale. Lo spiega a ilfattoquotidiano.it Agnese Ciulla, segreteria di Fio.Psd, responsabile dei rapporti con enti locali e regioni: “Interventi come il taglio del Reddito di Cittadinanza possono eliminare qualche abuso ma certamente accelerano questo processo di scivolamento incrementando le difficoltà e il dramma che vivono singoli e famiglie. Gli aspetti fondamentali sono due: prevenzione e recupero, laddove con prevenzione si intende tutta una serie di interventi su quelle fasce in difficoltà che rischiano di finire in povertà estrema. Con recupero, invece, la messa in opera di interventi strutturati che non siano la mera attivazione di servizi di emergenza (dormitori, piani freddo, mense) ma un reale supporto alle persone che parta dall’abitare. La casa è ciò che manca e che può fornire il punto di partenza decisivo per chi non ha un posto dove vivere e che vuole riprendere in mano la propria vita”. Giovani, i grandi dimenticati nell’agenda politica del governo di Flavia Amabile La Stampa, 8 gennaio 2024 Alle nuove generazioni solo il 3 per cento delle risorse previste della legge di Bilancio 2024. Stanziamenti a 800 milioni su 24 miliardi. Al termine del messaggio di fine anno del Presidente della Repubblica Giorgia Meloni si è affrettata a chiamare al telefono Sergio Mattarella per esprimergli “particolare gratitudine per la specifica attenzione prestata dal Capo dello Stato alle giovani generazioni, ai loro bisogni e alle loro aspettative”, come recita una nota di palazzo Chigi diffusa pochi minuti dopo la fine del discorso e della telefonata. Un’attenzione che sembra mancare invece nella legge di bilancio approvata due giorni prima in via definitiva dalla Camera. Secondo le verifiche condotte da Pagella politica - il progetto editoriale specializzato in fact-checking e analisi politica - “solo il 3% delle risorse stanziate dalla legge di Bilancio per il 2024, è destinato a politiche per i giovani” e sono “14 le misure contenute nel testo rivolte direttamente o indirettamente ai giovani, per uno stanziamento di poco inferiore agli 800 milioni di euro nel 2024 su una spesa totale di circa 25 miliardi di euro. Nella scorsa legge di Bilancio, quella per il 2023, lo stanziamento era stato più alto, intorno al 5 % del totale”. Non granché come attenzione, insomma. Le voci cancellate o tagliate sono numerose nonostante le proteste e gli appelli lanciate dalle associazioni e dalle reti legate al mondo giovanile. Vanessa Pallucchi, portavoce del Forum Terzo Settore: “Nell’agenda politica, nonostante quello che si dice su futuro giovani e famiglia, non esistono misure né sistemiche né strutturali e questo ci preoccupa molto. Abbiamo i i fondi agenda sud e quelli per contrastare la dispersione o per contrastare emergenze. Molto poco, invece, per la qualità della vita delle nuove generazioni. Noi abbiamo soprattutto sottolineato la necessità di adottare politiche più strategiche verso i giovani in materia di cittadinanza attiva e servizio civile”. Come spiega Laura Milani, presidente della Cnesc, la Conferenza Nazionale Enti Servizio Civile: “Questa legge di stabilità non ci soddisfa: stanzia 143 milioni per il servizio civile che finanzia l’attività di poco più di 20mila giovani, circa la metà rispetto allo scorso anno quando lo stanziamento già era insufficiente. La situazione è preoccupante e ci sembra in contraddizione con il percorso di valorizzazione del servizio civile su cui il ministro per lo Sport e i Giovani Andrea Abodi ha lavorato con la consapevolezza che il servizio civile risponde a un’esigenza formativa per i giovani in termini personali ma anche di acquisizione di competenze da spendere nei progetti di vita ed è un antidoto alla violenza. Come Cnesc avevamo chiesto 430 milioni per garantire 60 mila posizioni in Italia e 1500 all’estero, cifre che ci sembrano ora molto lontane”. Non sono stati dimezzati solo i fondi per il servizio civile, denuncia Walter Massa, presidente dell’Arci: “Questa legge di bilancio mi appare molto miope in particolare su giovani e cultura che sono strettamente collegati. Non solo ha ridotto molti fondi per i giovani ha anche posticipato in parte l’attuazione del Piano complementare del Pnrr rimandando quindi agli anni futuri la spesa di 100 milioni di euro prevista per il 2024 e riducendo il budget a 267,3 milioni di euro. Si fa una grande propaganda sul patrimonio culturale, in realtà questo governo è convinto che con la cultura non si mangia e non considera una priorità l’emancipazione e la libertà dei giovani”. Per Alessia Conti, presidente del Cnsu, il Consiglio Nazionale degli Studenti Universitari, questa legge di bilancio rappresenta “un passo indietro non solo in materia di istruzione ma anche su altri servizi essenziali per la nostra generazione. Abbiamo chiarito quanto sia importante il benessere psicologico attraverso diverse campagne e il governo invece non finanzia il fondo per i disturbi alimentari”. Luciano Schillaci, presidente della Federazione Comunità Terapeutiche, sottolinea che la responsabilità non è solo di questo governo: “C’è stato un periodo in cui si dava importanza alla prevenzione nell’ambito delle dipendenze. Esisteva un fondo antidroga della legge 45 del 99 poi è stato azzerato e si è smesso di fare prevenzione specifica sui giovani. Possiamo dire che da più di dieci anni l’Italia non investe in educazione e i risultati si vedono dal campo sanitario a quello scolastico. Aver cessato l’investimento strutturale ha determinato situazioni di abbandono sui territori che stanno portando a situazioni di disagio e di devianza a cui non siamo abituati salvo batterci il petto e creare decreti ad hoc come quello di Caivano”. Del tutto insoddisfatti si dicono gli studenti. Duccio Sarmati, coordinatore dell’Unione degli Universitari di Roma ricorda la battaglia contro il caro affitti che ha portato “solo a uno spostamento di fondi che prima erano sull’edilizia generale degli atenei agli alloggi universitari. E l’aumento delle borse di studio è del tutto insufficiente. Ci sarebbe bisogno di fondi sei volte più consistenti”. E non solo. Paolo Notarnicola, coordinatore nazionale della Rete degli Studenti Medi: “Non abbiamo avuto risposte ai problemi che abbiamo segnalato in materia di diritto all’istruzione per aiutare gli studenti nell’acquisto di materiale didattico e libri. E la sostituzione del 18App con due carte che prevedono risorse solo legate al merito e alle condizioni economiche rappresenta un passo indietro. Manca una visione politica da parte del governo su quello che i giovani devono rappresentare per il Paese e quale ruolo devono svolgere. Vengono rappresentati solo come problema per le violenze in classe o per i rave: non c’è altro nell’agenda politica del governo”. Giornalisti sotto attacco: i governi autoritari sempre più spesso colpiscono l’informazione per reprimere il dissenso La Repubblica, 8 gennaio 2024 Freedom House: gli operatori dell’informazione che vivono in esilio subiscono aggressioni, molestie e deportazioni illegali per mano dei governi da cui sono fuggiti. Un nuovo rapporto pubblicato dall’Organizzazione Non Governativa Freedom House denuncia i regimi autoritari e il loro tentativo di prendere di mira i giornalisti per controllare l’informazione e reprimere il dissenso. Il dossier “A Light That Cannot Be Extinguished: Exiled Journalism and Transnational Repression”, rileva che tra il 2014 e il 2023 sono stati commessi almeno 112 atti di repressione transnazionale contro i giornalisti da 26 governi diversi. Tra i Paesi più persecutori spiccano la Bielorussia, la Cambogia, la Cina, l’Iran, il Pakistan, la Russia, l’Arabia Saudita e la Turchia. Attacchi fisici, deportazioni illegali, detenzioni, molestie digitali e rappresaglie contro i familiari sono alcune delle tattiche più comuni tra quelle utilizzate dai regimi per perseguire i reporter che lavorano lontano dai propri luoghi d’origine. Gli attacchi ai media indipendenti. Il rapporto di Freedom House si basa su interviste fatte a più di una dozzina di reporter in esilio e rivela come la repressione transnazionale abbia un impatto sulle loro vite e ostacoli in modo significativo il loro lavoro. I giornalisti in esilio vivono con la minaccia di danni fisici, arresti e rapimenti, non possono viaggiare, parlare liberamente con le fonti e raccontare questioni delicate senza rischiare la vita. Le minacce digitali come gli attacchi informatici, la sorveglianza e le molestie, influiscono sulla loro capacità di raggiungere il pubblico. Nel frattempo le campagne diffamatorie organizzate dai governi minano la loro credibilità e le intimidazioni rivolte ai membri delle famiglie rimaste in patria comportano un’ulteriore pressione psicologica. Le storie. Masih Alinejad è una giornalista iraniana, autrice e attivista per i diritti delle donne che vive negli Stati Uniti dal 2009. A luglio 2021 il Dipartimento di giustizia americano ha denunciato un piano delle autorità iraniane per rapire Masih Alinejad dalla sua casa di Brooklyn e riportarla a Teheran attraverso il Venezuela. La giornalista aveva già precedentemente affrontato altre forme di repressione transazionale. Nel 2018 sua sorella in Iran era stata costretta a denunciare pubblicamente Masih alla tv di stato. A settembre 2019 il fratello, sempre in Iran, era stato arrestato e condannato a otto anni di prigione. Nel 2020 anche la madre della giornalista era stata detenuta e interrogata per qualche giorno. Come molti altri reporter iraniani che vivono all’estero, Alinejad ha raccontato a Freedom House di subire costantemente attacchi informatici. Paul Rusesabagina è un attivista politico meglio conosciuto come l’eroe vero immortalato nel film Hotel Rwanda. Ha lasciato il Rwanda negli anni ‘90 per sfuggire alle minacce di morte e ha trovato protezione prima in Belgio e poi negli Stati Uniti, ma nell’agosto 2020 è stato rapito mentre era a Dubai e riportato in patria. A Kigali è stato condannato a 25 anni di carcere con l’accusa di terrorismo ma è stato rilasciato due anni e mezzo dopo, il 25 marzo 2023. Gli effetti collaterali delle minacce. Le intimidazioni rivolte ai giornalisti che vivono in esilio comportano una serie di altri problemi che complicano ulteriormente la vita dei reporter e minano la libertà di espressione. Tra le conseguenze più serie vi è quella che riguarda il processo di immigrazione e asilo. Le accuse penali mosse dalle autorità dei paesi di origine, infatti, rendono più difficile la possibilità di ottenere protezione per i giornalisti in fuga, i quali spesso sono accusati di terrorismo, e così si trovano a dover dimostrare di non rappresentare una minaccia per la sicurezza del paese ospitante. Gli aspetti finanziari. Le pratiche di riduzione del rischio adottate dalle istituzioni finanziarie possono mettere a repentaglio la capacità dei giornalisti di accedere ai servizi economici e finanziari. Un giornalista turco reinsediato negli Stati Uniti e intervistato da Freedom House, per esempio, a causa delle accuse di terrorismo mosse contro di lui dalle autorità turche ha perso l’accesso a diversi conti bancari e così anche la possibilità di chiedere prestiti. Siccome oggi gli aspetti digitali sono tra quelli maggiormente presi di mira, molti media indipendenti che svolgono il proprio lavoro da paesi terzi sono costretti a destinare gran parte delle proprie risorse economiche alla sicurezza digitale per prevenire gli attacchi informatici. In alcuni Paesi come la Russia, la Bielorussia e l’Iran, poi, alcune fonti di entrata derivanti dalle pubblicità e dalla raccolta fondi sono state vietate, le sanzioni internazionali non permettono di monetizzare i contenuti online, e così il lavoro dei media indipendenti diventa impossibile da sostenere. “Le democrazie non possono restare a guardare e lasciare che i giornalisti in esilio si arrangino da soli”, commenta Jessica White, coautrice del rapporto e analista di ricerca per i media e la democrazia presso Freedom House. “Bisogna fare di più per sostenere e proteggere coloro che continuano a sfidare la censura per far luce su questioni chiave che riguardano i loro paesi d’origine”. La guerra in Siria e il dramma umanitario di Marta Serafini Corriere della Sera, 8 gennaio 2024 L’Onu: negli ultimi quattro anni mai un momento così grave. Oltre 15 milioni di persone in difficoltà. Presentando il suo rapporto all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Paulo Pinheiro, capo della commissione indipendente del Palazzo di Vetro sulla Siria, non ha usato giri di parole. Allo stato attualle, la guerra in Siria, iniziata nel 2011, è nel suo momento peggiore degli ultimi quattro anni. La percentuale di persone che si trova in stato di necessità è aumentata di 9 punti percentuali rispetto all’anno scorso e attualmente ammonta a 15 milioni di persone. “Questo aggravamento è il risultato della presenza di diversi Stati nel teatro delle operazioni”, ha detto Pinheiro. Poi ha iniziato ad elencare: Turchia, Russia e Stati Uniti, nonché le forze legate alla popolazione curda nel nord-est. Tutti gli attori in campo continuano a colpire target che, soprattutto nel caso di Turchia e Russia, comprendono bersagli civili. Ad aggravare la situazione, a partire dal 7 ottobre si sono aggiunti gli attacchi aerei israeliani contro gli aeroporti di Damasco e Aleppo - entrambi critici per i flussi di aiuti umanitari. E non solo. “Un altro fattore complicato è la presenza di Hezbollah” che da sempre Israele cerca di combattere sul terreno siriano. Pinheiro ha anche lamentato “la competizione per la visibilità nei media internazionali”, affermando che “in questo momento è difficile cercare di ricordare al mondo che la guerra in Siria continua”. È nel silenzio generale che, da luglio a dicembre, il valico di frontiera di Bab al-Hawa tra Siria e Turchia è rimasto chiuso. Non importa che sia passato meno di un anno dal sisma che ha colpito la regione facendo 60 mila vittime. E non importa nemmeno che circa quattro milioni di persone nel nord-ovest della Siria - l’ultima roccaforte controllata dai ribelli e dai gruppi jihadisti - facciano tuttora affidamento sull’ancora di salvezza degli aiuti, istituita quasi dieci anni dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. All’ombra della guerra, la violenza dei coloni israeliani in Cisgiordania di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 8 gennaio 2024 Da quando, nel 2006, l’organizzazione non governativa israeliana Yesh Din ha iniziato a monitorare la violenza dei coloni nella Cisgiordania occupata, quello appena terminato è stato di gran lunga l’anno peggiore dal punto di vista del numero e della gravità degli attacchi - oltre un migliaio -, della massiccia partecipazione di civili israeliani e delle conseguenze per i civili palestinesi. I dati di Yesh Din coincidono con quelli delle Nazioni Unite: 621 attacchi nel 2022, 1200 nel 2023. Il periodo dopo il 7 ottobre è stato particolarmente violento, con 242 atti di violenza da parte dei coloni contro un centinaio di comunità palestinesi della Cisgiordania occupata, in cui sono stati uccisi nove palestinesi. Ma anche nei mesi precedenti c’erano stati gravissimi episodi, come a Huwara a febbraio e a Turmusaya a giugno, quando centinaia di coloni israeliani avevano messo a ferro e fuoco i villaggi palestinesi, incendiando decine di abitazioni, ferendo centinaia di persone e uccidendone almeno due. Nelle ultime settimane, le forze di sicurezza israeliane hanno passato agli organi d’informazione una serie di dati minimizzanti, che lascerebbero intendere che il 2023 non è stato dopotutto un anno terribile. Ma questi dati si riferiscono non agli attacchi violenti dei coloni, bensì al numero delle denunce. A leggerli bene, dunque, quello che emerge non è il decremento della violenza dei coloni, ma l’aumento della sfiducia dei palestinesi nella giustizia delle autorità di occupazione. Come già messo in evidenza in un precedente post, dal 2005 al 2022 sono stati aperti fascicoli su 1597 casi di violenza da parte di civili israeliani nei confronti di civili palestinesi nella Cisgiordania occupata (Gerusalemme Est esclusa); 1531 indagini sono state portate a termine, ma per essere chiuse; le altre hanno prodotto 46 condanne. In sintesi, solo il tre per cento delle indagini su violenze dei coloni israeliani dal 2005 è terminato con una condanna. La conclusione di Yesh Din è che la violenza dei coloni non è una “campagna” di questi ultimi, come ha dichiarato il primo ministro israeliano Netanyahu. La violenza dei coloni è una politica del governo israeliano. *Portavoce di Amnesty International Italia