L’orgoglio in cella? Il suicidio di Iuri Maria Prado L’Unità, 7 gennaio 2024 Hanno festeggiato l’arrivo del 2024 tentando di ammazzarsi. Uno nel carcere di Verona, l’altro in quello di Sulmona. Pare che i discorsi di fine anno e di auguri per il nuovo siano entrati nelle loro celle senza rasserenarli. Pare che non se la sentissero di sentirsi orgogliosi in un altro anno di orgoglio italiano. Pare che preferissero seguire le decine di detenuti come loro che hanno scelto di togliersi di mezzo nel corso dell’anno appena concluso. Pare che li abbiano rimessi nelle loro celle. Pare che la notizia del loro tentativo di la vita in un carcere non abbia fatto molta notizia. Pare che sia necessario ancora qualche giorno perché il pallottoliere dei suicidi in prigione riprenda il suo giro, magari con questi due che al secondo tentativo ce la fanno. Pare che intanto non gliene frega niente a nessuno. Le mie battaglie in nome di Pannella di Santi Consolo* L’Unità, 7 gennaio 2024 Da Nordio, bravissimo magistrato che ho apprezzato mi aspettavo riforme, non inaccettabili pacchetti sicurezza contro le rivolte in cella. Quando ero a capo dell’amministrazione penitenziaria, sentivo nel mio intimo di dover fare una revisione critica e, nel cercare di capire quale doveva essere il mio effettivo ruolo, veramente determinante è stato un incontro con Marco Pannella. Quando una volta venne a trovarmi l’ho aspettato giù all’ingresso perché volevo riservargli la dignità di un grande italiano, quella che si riserva alla massima carica dello Stato. Ed è stato forte: tutto quello che lui mi ha detto, tutto quello che mi sapeva comunicare con la luminosità dei suoi occhi, con la sua intelligenza. E lì ho avuto una forte crisi interiore che si è radicata ancora di più. Ho ricambiato la visita andando alla sede del Partito radicale. Cose semplici, cose che potevano essere scontate quelle che mi diceva, ma nel mio intimo determinavano un cambiamento enorme. E ricordo quel saluto prima di andare via. Mi portò davanti alla fotografia del Dalai Lama e mi cominciò a dare colpi di fronte sulla mia fronte. Io non capivo, pensavo: ma che sta succedendo? Lui mi abbracciava e mi diceva: incontro di intelligenze. E io pensavo, ma quale intelligenza? Io sono piccolo, lui è enorme, sta entrando veramente dentro la mia testa. Lui mi ha cambiato. Ho cercato di essere diverso anche nel mio ruolo di capo del dipartimento. Una volta, feci una circolare che venne ridicolizzata sul cambiamento dei nomi delle cose carcerarie, di termini come “istituto penitenziario”. Dicevo: non parliamo più di istituto penitenziario, parliamo di casa, casa di reclusione, casa circondariale, perché deve essere la casa dove il personale anche quello di polizia penitenziaria lavora, dove la comunità penitenziaria tutta vive. Allora, se è una casa, tutti dobbiamo collaborare per migliorarla, per renderla più vivibile anche sotto il profilo dei sentimenti, delle relazioni interpersonali. In questo senso, erano importanti quei 700 progetti fatti in amministrazione diretta col lavoro dei detenuti. Nel congresso del 2015 venni a Opera senza sentire prima i politici con una mia convinzione sul problema dell’ergastolo ostativo. Avevo messo in conto che tornando a Roma mi potevano dare il benservito e avrebbero fatto bene perché avrei dovuto consultarmi visto che ero stato nominato da loro. Trovai un grande alleato in Giovanni Maria Flick che era stato anche ministro della Giustizia e presidente della Corte costituzionale. Ci ritrovammo sulla stessa posizione, entrambi avevamo cambiato idea e ci pronunciammo a favore dell’abolizione del “fine pena mai”. Dopo quel congresso, ho anche portato i detenuti ergastolani dal Papa. Si sono incontrati con Francesco e sono stati per 45 minuti a scherzare con lui, ad abbracciarlo, ad accarezzarlo. E ce ne siamo andati via tutti piangenti. È stato l’avvio del superamento dell’ergastolo ostativo, soprattutto grazie al docufilm di Ambrogio Crespi, Spes contro spem-Liberi dentro, che ha avuto una forza dirompente. Allora, dissi che la Corte costituzionale aveva paura ad avere coraggio, una paura che ha continuato a manifestare anche in questi anni per la lentezza con la quale si è mossa, dopo la sentenza Viola della Corte europea dei diritti dell’uomo, e le decisioni che venivano rallentate a livello procedurale perché bisognava dare il tempo a un Parlamento che non si pronunziava. Infine, si è fatto il decreto, uno spiraglio di speranza si è aperto, perché l’ergastolo ostativo per legge non c’è più, anche se l’accessibilità ai benefici è quantomai difficoltosa. Noi abbiamo ancora bisogno di cambiamenti che alimentino la speranza. Non potranno essere rapidi, ma bisogna cominciare ad avere dei segnali. Speravo tanto nel ministro Nordio che in passato ho apprezzato perché è stato un bravissimo magistrato che ha chiuso la sua carriera senza nemmeno diventare procuratore della Repubblica. Da un magistrato con tanta coerenza mi aspettavo di più. Dal ministro Nordio vorrei vedere delle riforme, quelle che chiedono con insistenza molti studiosi, e non “pacchetti sicurezza” che sono inaccettabili, provvedimenti come quello sulle “sommosse” in carcere. Quando ero magistrato di sorveglianza a fine anni 70, ogni qualvolta c’era il sentore di qualcosa, sono sempre andato negli istituti in prima persona a parlare. E con il dialogo si è subito risolto tutto. Non è con le grida manzoniane, con l’aggravamento delle pene che si previene il delitto. Ma con l’articolo 27 della Costituzione, cioè col trattamento che parte dal lavoro e dal riconoscimento della dignità di ogni individuo che non perde mai per intera la propria libertà, dalla formazione e dall’acquisizione effettiva di abilità lavorative all’interno degli istituti che poi danno una speranza, una prospettiva di un lavoro onesto uscendo dal carcere. Queste sono le cose alle quali tutti noi aspiriamo. *Ex Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Dalla mia cella vi dico: non costruite nuove prigioni di Massimo Zanchin L’Unità, 7 gennaio 2024 Vivo in carcere da più di 10 anni, condannato in via definitiva. Il mio giudice nella condanna ha voluto scrivere con caratteri cubitali: fine pena mai. Nonostante l’abbia scritto in quei modi, io leggo e voglio leggere: fine pena con data da destinarsi. Non so se sono in grado di dire la cosa giusta e non ho questa pretesa, anche perché la cosa giusta è la conseguenza del giudizio dell’uomo, e già per questo difetta per sua natura. Però posso fare una cosa: parlarvi con onestà d’animo e con onestà intellettuale e per testimonianza diretta di ciò che vivo, di ciò che vedo, di ciò che provo. Per poter accedere ai benefici, a un detenuto si chiedono due condizioni: la giustizia riparativa e la revisione critica del proprio passato. In linea di principio, non è sbagliato; se mi deve essere data fiducia, devo dare un mio contributo. Alla fin fine, con queste condizioni, lo Stato cosa chiede? Se io ho volontà di cambiare. Però, mi sovviene un’altra domanda: lo Stato questo cambiamento lo vuole? Insomma, mi si dettano delle condizioni che io accetto di buon grado, eppure, non mi si danno gli strumenti affinché io possa adempiere. Ma se non si fa in modo di poterle soddisfare, queste condizioni che mi vengono richieste sono inesigibili. E l’inesigibilità di queste condizioni delegittima la norma stessa. Io non voglio fare solo della polemica. C’è bisogno di avere voglia di fare e di introdurre strumenti affinché si possa fare. Il primo è che lo Stato dia più autonomia di gestione alle amministrazioni penitenziarie e più aiuti in termini economici. In secondo luogo, dovrebbe dare più aiuti in termini di personale, sia per l’area educativa sia per la sorveglianza. Terzo, occorre favorire una vera attività di mediazione. In termini economici, l’amministrazione penitenziaria dovrebbe poter sponsorizzare iniziative lavorative affinché il carcere possa diventare un microcosmo, una comunità che si autoalimenti, si autogestisca, col risultato che la voce di spesa dei penitenziari non sia più una voce di spesa, ma una voce di risparmio. Per quanto riguarda il personale, l’educatore è una figura importantissima, ma purtroppo è carente non per mancanza di volontà, ma perché ogni educatore ha in carico un numero di assistiti tale che non gli permette di fare il suo lavoro, e questo a discapito di un dialogo col detenuto ai fini anche di una revisione critica del suo passato. E poi più personale di sorveglianza, perché uno degli impedimenti alle attività lavorative, soprattutto per i detenuti del circuito di Alta Sicurezza, è che non possono essere accompagnati e monitorati nelle varie attività. E questo a discapito anche di una giustizia riparativa. Infine, la mediazione. Esistono tre figure, lo Stato, il detenuto e la Comunità o i parenti delle vittime, e noi uno sguardo lo dobbiamo dare anche ai parenti delle vittime. Che attività di mediazione? Che vigilanza c’è nella loro sofferenza? Anche i parenti delle vittime sono abbandonati al loro dolore. Per cui accade che il percorso di un detenuto, per quanti sacrifici possa fare, per quanto possa penare, non sarà mai acqua che disseterà. Lo Stato si deve attivare anche in questo senso, affinché anche la vittima sia sensibile a quello che è il percorso di un detenuto. Perché il male intrappola, e bisogna da questa trappola liberarsi. E non intrappola solo il detenuto, nel dispiacere del crimine commesso e nel temere di essere giudicato a vita. Intrappola anche chi ha sofferto e che è, anche a distanza di vent’anni, poco sensibile al destino del detenuto perché non ha la minima rappresentazione che la persona che si sta continuando a punire non è più la stessa del tempo che fu. Il Male a mio avviso non va combattuto, va isolato. Perché se lo combattiamo rischiamo di essere vittime, noi stessi, della forma e dell’animo del male che vogliamo combattere. Aiutare il cambiamento della persona e del suo modo di pensare e di agire che lo ha portato a sbagliare, questo può disarmare quel male, perché il male è nell’azione, non nella persona. Se noi riusciamo a guardare le persone con gli occhi del cuore e non con gli occhi della mente, ecco che, forse, si aprono degli scenari che neanche pensavamo. Ho sentito che si stanno procacciando nuovi istituti carcerari e se hanno già il filo spinato ben vengano. Io credo che la struttura, il vero telaio di un carcere è il personale e i detenuti che lo abitano. Qui dentro abbiamo tanta buona materia prima. Invece di pensare di costruire nuove carceri, chissà dove, chissà quando, abbiamo qui e ora la possibilità di ricostruire nuove vite. Allora sì, possiamo dire di essere persone più evolute e tendenti al bene. Allora sì, possiamo dire di essere persone più vicine a Dio. Allora sì, possiamo dire di essere sempre più esseri umani. Zuncheddu, i nostri “Hurricane” dietro le sbarre e non solo di Barbara Rosina huffingtonpost.it, 7 gennaio 2024 Certamente sistemi processuali e legislativi diversi dal nostro, ma la storia di Beniamino Zuncheddu, cinquantottenne ex allevatore di un paese del cagliaritano che ha trascorso 32 anni in carcere a causa di una condanna definitiva all’ergastolo, ha richiamato alla mente le storie di persone ingiustamente condannate. Di carceri, di violenza tra le sbarre, di malagiustizia. In queste giornate d’inizio d’anno sfogliando i giornali, ascoltando la radio, gettando un rapace sguardo su online e media di ogni sorta, è stato difficile non pensare a vecchie sceneggiature hollywoodiane e non solo molto amate dal pubblico. Me compresa. Certamente sistemi processuali e legislativi diversi dal nostro, ma la storia di Beniamino Zuncheddu, cinquantottenne ex allevatore di un paese del cagliaritano che ha trascorso 32 anni in carcere a causa di una condanna definitiva all’ergastolo, ha richiamato alla mente le storie di persone ingiustamente condannate. Di carceri, di violenza tra le sbarre, di malagiustizia… Zuncheddu è stato scarcerato una settimana fa grazie alla revisione processuale chiesta dal suo avvocato, ma si stima che in Italia siano numerosi i casi di errori giudiziari e ingiuste detenzioni, fortunatamente in calo negli ultimi anni. Quest’uomo che ha varcato la soglia di una cella all’età di 27 anni, il 30 dicembre 2023 ha lasciato il carcere di Uta, nella zona occidentale di Cagliari, e ha iniziato a camminare da solo verso casa, a Burcei, un comune distante circa 60 chilometri. In un’intervista ha chiesto che ci si occupi di tutti i detenuti e non soltanto della sua situazione - il caso è stata una vera e propria battaglia dei Radicali - denunciando il degrado delle strutture penitenziarie nelle quali è stato in questi lunghi anni e l’assenza di cure mediche. Impossibile non scorgere nelle sue parole il tema della violenza istituzionale: nelle carceri, nelle aule dei tribunali, nei comportamenti violenti delle forze dell’ordine, nella gestione dei migranti, nelle strutture di ricovero delle persone con problemi di salute mentale o di tossicodipendenza, nel servizio sociale. Lo scorso anno ci siamo interrogati come assistenti sociali sulla violenza dello Stato, in ogni sua forma. Avevamo insistito sul fatto che ogni comunità professionale, quando viene conclamata una forma di violenza addebitabile a un proprio membro, dovrebbe schierarsi dalla parte della vittima e non coprire mai un colpevole. Avevamo chiesto al Governo - con una lettera indirizzata alla Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, un tavolo istituzionale a Palazzo Chigi per capire, prevenire, intervenire, cambiare. Lettera, ad oggi senza risposta e che rilanciamo con forza. Anche sulla base delle parole che la Presidente durante la conferenza stampa di fine anno, spostata all’inizio del 2024, ha voluto dedicare alla vicenda Zuncheddu e alla quantità di situazioni simili: “mille casi di ingiusta detenzione all’anno”. Rubare alla cronaca la vicenda di Beniamino oggi, significa parlare di tutte le storie di ingiustizia, di privazione dei diritti, situazioni difficili da vedere, accettare, affrontare, di persone che vivono in condizioni di estrema vulnerabilità e fragilità, isolate ed escluse dalla società, bersagliate da riprovazione e condanna, commenti denigratori. Gli assistenti sociali quotidianamente sono a fianco di situazioni simili, sono impegnati a ridurre gli ostacoli che le persone si trovano di fronte attraverso l’ascolto delle singole storie. Continuiamo a ripetere, instancabilmente, che occorre lavorare sulla prevenzione, sulla strutturazione di servizi accessibili a tutti, sulla scuola, sulle realtà associative dei territori, consapevoli che il disagio e la devianza non nascono dal nulla, non si manifestano sempre nello stesso modo, ma sono legati al contesto in cui le persone vivono, al modo in cui sono aiutate ad affrontare le situazioni di difficoltà. Perché l’Autorità non faccia ingiustizia, perché le persone non siano abbandonate, perché si agisca sui fattori che possono determinare situazioni di devianza, perché le persone in carcere possano avere un trattamento coerente con il valore rieducativo della pena, servono formazione, risorse, informazione, semplificazione e non solo l’incremento dei padiglioni carcerari o degli agenti di polizia penitenziaria. Tutto questo, forse, allevierà la piaga delle morti tra le sbarre: 67 da gennaio al 10 dicembre 2023 - secondo la drammatica mappa di Ristretti orizzonti resa nota nei giorni scorsi - tutto questo, se fatto da domani e non quando un uomo viene rilasciato dopo 32 anni, chiama in causa ogni istituzione. Dal vertice, da chi governa, a noi. Tutti. Aspettando la sentenza, buona vita Beniamino. Caro presidente Mattarella… s’è scordato la giustizia! di Iuri Maria Prado L’Unità, 7 gennaio 2024 O forse non se l’è scordata. Forse immagina che non sia un gran problema. A meno che non sia un non-problema. O a meno che sia bensì un problema, ma del quale è giusto continuare a disinteressarsi. Ecco tutte le ragioni per le quali riguarda non solo la nostra libertà ma anche le nostre tasche. Il fatto che alla fine dell’anno si decida di non dedicare nemmeno una parola alla giustizia, come ha deciso di fare il presidente Mattarella, può significare due cose: che la giustizia non è un problema, oppure che è un problema di cui tuttavia è legittimo disinteressarsi. Conosciamo l’obiezione. D’accordo i diritti, d’accordo lo Stato di diritto, queste menate: ma qui ad aggredire la vita e il benessere degli italiani ci sono i problemi veri, l’economia che arranca, le imprese che chiudono, gli investimenti che calano, la povertà che cresce, l’insicurezza nelle strade, l’immigrazione. Già. Ma il guaio è che non c’è una di queste cose - l’economia, la vita dell’impresa, il lavoro, la sicurezza, persino l’immigrazione - che non risenta direttamente e più o meno gravemente della cattiva influenza della giustizia. Perché la giustizia sarebbe un problema, un enorme problema, già se fosse soltanto un ricettacolo di problemi, e cioè se il problema della giustizia stesse soltanto nei problemi che la affliggono. Ma è peggio, è più grave, perché la giustizia non si limita ad avere problemi: li crea. E non li crea “soltanto” ai poveretti incarcerati ingiustamente, ai disgraziati travolti da indagini stralunate che finiscono nel nulla, alle vittime dei rastrellamenti giudiziari spazza-innocenti, tutte cose che suscitano la solita lagna dei soliti quattro garantisti che non capiscono che i problemi sono ben altri. No: la giustizia italiana crea problemi anche e proprio sul fronte di quelle effettive priorità, proprio nel circuito economico e produttivo, proprio nel flusso degli investimenti, proprio nella gestione della sicurezza, proprio nelle cose che, come demagogicamente si dice, “stanno a cuore” agli italiani. Vogliamo dimenticare i diritti dei detenuti nelle carceri sovraffollate? Vogliamo dimenticare che spesso sono poveri, spesso sono responsabili di delitti tenui, spesso sono stranieri resi criminali da leggi che ne fanno dei criminali per il sol fatto di essere stranieri e poveri? Va bene, dimentichiamoceli pure: ma quanto spendiamo per mantenere improduttive quelle decine di migliaia di persone? Quanti soldi spendiamo in questo modo, per assicurare loro, quando usciranno, un futuro che statisticamente è di recidiva? E quanto ne guadagna, in termini di sicurezza, la società? Vogliamo dimenticarci dei diritti dei cittadini spiati e intercettati come neanche in diciotto dittature sudamericane e asiatiche messe insieme? D’accordo, dimentichiamoceli: ma quanti soldi vengono spesi, e con quale frutto, per tenere impegnati i magistrati e le forze dell’ordine in questa pazzotica attività di intrusiva sorveglianza? Vogliamo dimenticare gli imprenditori distrutti da sequestri avventati e interdittive ingiuste, andati a ramengo perché un magistrato si è messo in testa che l’azienda era marcia? E dimentichiamocene pure, tanto quelli avevano messo via tanto soldi, mica muoiono: giusto? Ma a parte il fatto che a volte muoiono, perché si ammazzano: ma i dipendenti? E i fornitori? E l’indotto di commercio, di terzisti, di ricchezza supplementare che viene sacrificato quando un’impresa va a rotoli per via giudiziaria, tutto questo ce lo dimentichiamo? E gli investimenti stranieri che non arrivano perché un investitore vorrebbe passare il tempo a realizzare prodotti e servizi, non a riempire moduli antimafia, e vorrebbe avere a che fare con i collaboratori, con i concorrenti, con i sindacati, non con le procure della Repubblica, e vorrebbe metterci poco tempo, non anni e anni, per recuperare un credito: ecco, questi investimenti non mancano per caso, ma anche a causa di una giustizia che non si limita a essere inefficiente e offensiva verso i singoli, verso i diritti minuti e noiosi del cittadino qualunque, ma anche rispetto all’iniziativa di impresa, rispetto alla produzione, rispetto alla crescita del Paese. Non bastasse, si potrebbe aggiungere che un altro comparto delle cose pubbliche è vittima molto spesso dell’intemperanza giudiziaria. E si dirà che ai cittadini importa poco, anzi è il caso in cui essi più festosamente approvano quell’operato interferente e tanto meno comprendono (anche perché ben istigati in tal senso dalla retorica anticasta) quanto invece minacci i loro stessi diritti: ma un cenno al fatto che, per quanto sgangherato, il sistema democratico rappresentativo è meglio, è più affidabile, è più sicuro di quest’altro che lo vorrebbe sostituire, con i pubblici ministeri che fanno le liste elettorali e con i governi esposti al giudizio togato anziché a quello parlamentare, un cenno a questo modesto principio forse si potrebbe fare in un Paese che rischia di spedirlo in desuetudine. O no? Il divieto insensato che Meloni vuole applicare alla stampa di Glauco Giostra Il Domani, 7 gennaio 2024 Risulta difficile vedere il nesso tra il rispetto della presunzione d’innocenza e l’emendamento Costa che Meloni ha difeso in conferenza stampa. Anzi se venisse approvata, la realtà si incaricherà di dimostrare in modo imbarazzante che non risulterà maggiormente tutelata ma più facilmente offuscata. Una circostanza inedita ha connotato il discorso di fine anno della presidente del Consiglio: la protesta della Fnsi che ha indotto per la prima volta molti giornalisti a disertare questo tradizionale appuntamento del capo del governo con la stampa. La contestazione, come è noto, ha riguardato l’approvazione nei lavori parlamentari di un emendamento volto a introdurre “il divieto di pubblicazione integrale o per estratto del testo dell’ordinanza di custodia cautelare”. La presidente ha subito voluto spiegare che con esso si intende riportare l’art.114 c.p.p. al suo perimetro originario “in forza del quale è vietata la pubblicazione anche parziale degli atti del dibattimento celebrato a porte chiuse” (sic!). Difficile capire cosa possa aver provocato questa affermazione priva di significato, non soltanto giuridico: uno sconsiderato ghost writer deve aver confuso commi e senso dell’art.114 c.p.p., trascinando la premier in un vistoso anacoluto normativo. Non dovrebbe, ma può capitare. Ironia fuori luogo - Dopodiché l’on. Meloni, ritornando sulla strada già battuta dai sostenitori dell’emendamento, ha ricordato come la riforma Orlando del 2017 ha previsto la pubblicabilità dell’ordinanza cautelare, aggiungendo con la simpatica, sferzante ironia di cui è certamente dotata, di non ricordare proteste contro il bavaglio alla stampa prima del 2017. Ironia, però, in tal caso fuori luogo perché, sebbene molti abbiano mostrato di ritenere il contrario, l’ordinanza di custodia cautelare è sempre stata pubblicabile. La c.d. riforma Orlando ha soltanto esplicitato ciò che già era desumibile da una corretta interpretazione della disciplina normativa preesistente, dimostrando come nella produzione legislativa quod abundat viziat, non foss’altro perché induce in errore, come in questo caso, l’interprete. D’altra parte, se davvero dell’ordinanza cautelare fosse stata vietata la pubblicazione anche prima della disposizione introdotta nel 2017 per consentirla, sarebbe bastato sopprimere tale disposizione per ripristinare il regime precedente, senza bisogno di prevedere un nuovo divieto. Tale divieto, poi, a giudizio della presidente e dei proponenti, sarebbe funzionalmente preordinato alla tutela della presunzione di non colpevolezza che deve assistere l’accusato sino alla sentenza irrevocabile. Per la verità riesce difficile cogliere un tale nesso. Se davvero la pubblicazione dell’ordinanza cautelare costituisse pregiudizio per la presunzione di innocenza, più che la tutela di tale presunzione la nuova norma ne garantirebbe soltanto un’offesa differita, dal momento che dell’ordinanza è prevista la pubblicazione nel prosieguo del procedimento. Non solo, ma nella stessa logica, il divieto di pubblicazione si dovrebbe a maggior ragione estendere anche alla richiesta e al decreto di rinvio a giudizio che non si accontentano più, come l’ordinanza cautelare, della sussistenza di gravi indizi di colpevolezza, ma presuppongono espressamente “una ragionevole previsione di condanna”. La presidente del Consiglio ha voluto comunque rassicurare i giornalisti: ad emendamento approvato, potranno sempre fornire informazioni sul provvedimento e sulle ragioni che lo sostengono. Sfugge allora la ragione per cui una ricostruzione giornalistica (consentita), ottenuta spesso ricorrendo a informazioni ulteriori rispetto a quelle contenute nell’ordinanza e non raramente ad accenti sensazionalistici e a dettagli idonei a solleticare la curiosità del lettore, dovrebbe risultare meno lesiva della pubblicazione dell’ordinanza del giudice (vietata). Tanto più se si tiene presente che questi è oggi giustamente tenuto, in base ad una recentissima riforma - introdotta, ironia della sorte, in applicazione della direttiva europea sulla presunzione di innocenza - “a limitare il riferimento alla colpevolezza della persona (…) alle sole indicazioni necessarie per soddisfare i presupposti” per l’adozione del provvedimento. Difficoltà di senso - Insomma, il divieto che si vorrebbe introdurre appare norma in difficoltà di senso. Se venisse approvata, la realtà si incaricherà di dimostrare in modo imbarazzante, dopo tanto clamore, che la presunzione di innocenza non risulterà maggiormente tutelata, come vorrebbero i suoi sostenitori, ma anzi più facilmente offuscata; che non si registrerà alcun “bavaglio” per la stampa, come vorrebbero i suoi detrattori, che anzi sarebbero maggiormente giustificati nel discostarsi dall’auspicabile asciuttezza giuridica del provvedimento giudiziario, cui non potrebbero più riferirsi neppure per estratto; che si registrerà soltanto, purtroppo, uno scadimento del livello non certo esaltante della nostra cronaca giudiziaria e un ridotta possibilità di controllo da parte della collettività su come viene esercitato in suo nome il terribile potere di restringere la libertà personale. FdI vuole un altro bavaglio: “Notizie certificate per legge” di Giovanna Vitale La Repubblica, 7 gennaio 2024 Proposta di Mollicone, presidente della commissione Cultura: “Basta fake news contro di noi”. E lancia la riforma dell’editoria: “Difendere attendibilità delle fonti e veridicità delle informazioni”. Una riforma dell’editoria che certifichi la veridicità delle notizie. Dopo l’emendamento-bavaglio che impedisce di pubblicare gli atti delle inchieste e la stretta sulle intercettazioni, è l’ultima iniziativa di Fratelli d’Italia per provare - d’intesa col governo - a controllare l’informazione. Sono stufi, i parlamentari meloniani. Stufi di essere dipinti su quotidiani e talk come “scappati di casa”, gente non all’altezza della sua leader che sul caso Pozzolo li ha bacchettati, ma anche “difesi”, rivendica Federico Mollicone, presidente della commissione Cultura ed Editoria. “La classe dirigente che tutti denigrano”, tuona lo storico militante di Colle Oppio, “è quella che ha fondato il partito e in dieci anni l’ha portato, grazie soprattutto a Giorgia Meloni, a essere la prima forza del Paese. Bisogna piantarla con questa mistificazione”. Frutto, secondo il deputato, della “deriva sensazionalistica imboccata dalla stampa”. Che impone robusti correttivi: “Non è possibile che solo per fare clickbaiting, ossia per monetizzare i contatti sui siti, si costruisca un titolo-gancio e si finisca per criminalizzare, se non ridicolizzare, le libere opinioni. Così se la collega Lavinia Mennuni sostiene che la maternità deve tornare a essere cool fra le giovani donne diventa un mostro e se io spiego che i programmi dedicati ai minori devono essere visionati prima, mi si fa passare per censore. Per non dire del vizio di estrapolare qualche parola dal contesto - com’è successo al ministro Francesco Lollobrigida sulla sostituzione etnica - per menare scandalo”. Una tendenza “che fa male innanzitutto al giornalismo”, insiste Mollicone. Tant’è che “ora ci occuperemo anche di questo”, promette. Anzi lui, da presidente della commissione Cultura, ha già iniziato. “È in corso la discussione sul Tusmar per la regolamentazione dei media, nel quale affronteremo la grande questione delle piattaforme digitali. Il fatto è che la stampa è in crisi e per incrementare l’audience fa spesso wild social, social selvaggio, per cui sui portali dei maggiori quotidiani che dovrebbero essere fonti autorevoli si trovano contenuti spesso farlocchi quando non smaccatamente pubblicitari”. E quindi? “Quindi bisogna tutelare la credibilità delle fonti, un tema che dovrebbe interessare anche gli editori”. Come? “Occorre lavorare a una certificazione digitale delle notizie per combattere le fake news. Serve una seria riforma dell’editoria, che è quella su cui ci stiamo applicando”, insiste Mollicone, “per difendere l’attendibilità delle fonti e la veridicità delle informazioni”. Lui ne ha già parlato con il presidente dell’Ordine dei giornalisti e presto incontrerà Fnsi e Fieg. E qui si ritorna all’irritazione che ha scatenato la controffensiva: “Noi di Fratelli d’Italia veniamo vituperati in televisione e sui giornali senza capire che la nostra forza deriva dal riconoscersi in una Comunità secondo la definizione data dal sociologo tedesco Ferdinand Tönnies: “Un gruppo umano vivente in comune, avente le medesime origini e la medesima aspirazione fondamentale”. È questo lo spirito che ci anima da quando siamo ragazzi”, conclude l’onorevole meloniano. “Quando se ne renderanno conto gli autorevoli commentatori che in presenza di leadership debolissime nel Pd e nel M5S hanno deciso di impugnare la bacchetta dell’opposizione, dalla Gruber in giù, forse capiranno anche il fenomeno FdI. La ragione per la quale siamo cresciuti così tanto e non ci fermeremo”. I reati più urgenti da punire? Per le destre non sono quelli dei politici: “dimenticati” i colletti bianchi di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 7 gennaio 2024 La norma prevede che la politica debba indicare i criteri ai procuratori: Fi e Lega propongono di ignorare la corruzione. I delitti da punire con urgenza? Per il centrodestra sono soprattutto quelli violenti: politici e colletti bianchi possono aspettare. O almeno è quanto traspare da una proposta di legge, da poco all’esame della Commissione Giustizia del Senato, che punta a realizzare una delle previsioni più controverse della riforma penale di Marta Cartabia. Il testo firmato nel 2021 dall’ex Guardasigilli stabilisce infatti, tra le altre cose, che i “criteri generali” di priorità per l’esercizio dell’azione penale debbano essere “indicati dal Parlamento con legge”: la maggioranza di turno, quindi, ora può contribuire a “selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre”, disegnando una “cornice” di principio a cui poi i procuratori capo devono adeguarsi nei loro progetti organizzativi. La novità era stata assai contestata dalla magistratura: nel parere reso dal Csm, la norma era addirittura descritta come in “possibile contrasto con l’attuale assetto dei rapporti tra i poteri dello Stato”, perché - si avvertiva - l’individuazione dei criteri non potrà che rispecchiare “le maggioranze politiche del momento”. E l’ex consigliere Nino Di Matteo - ora alla Direzione nazionale antimafia - parlava di un “vulnus evidente” e di uno “squarcio che apre la via a una chiara violazione della separazione dei poteri”. Quella previsione, però, è rimasta lettera morta per oltre due anni: né Cartabia né il suo successore Carlo Nordio hanno proposto un disegno di legge con l’indicazione delle priorità. Così, lo scorso novembre, a depositarlo ci hanno pensato due senatori della maggioranza: Pierantonio Zanettin, storico esponente di Forza Italia, e l’ex ministra leghista Erika Stefani. Il ddl, si legge nella relazione introduttiva, punta a “rendere trasparenti e controllabili le scelte discrezionali” dei pubblici ministeri. Per farlo, si inserisce tra le disposizioni attuative del codice di procedura penale un nuovo articolo, il 3-ter, che indica tre criteri di priorità di cui i magistrati dovranno “tenere conto nella trattazione delle notizie di reato”. A leggerli si intuisce che i reati economici o contro la pubblica amministrazione (cioè quelli tipici della classe politica) non sono in cima alla lista delle urgenze. Il primo criterio è quello della “gravità dei fatti, anche in relazione alla specifica realtà criminale del territorio e alle esigenze di protezione della popolazione”. Tradotto? Un input a concentrarsi su criminalità organizzata, furti, stupri e rapine. Ma che dire di corruzioni, traffici d’influenze, peculati, finanziamenti illeciti, turbative d’asta, favoreggiamenti, rivelazioni di segreti? Difficile considerarle fattispecie di particolare allarme sociale, o legate alla criminalità territoriale. I reati dei colletti bianchi non rientrano di sicuro nemmeno nella seconda priorità, che fa riferimento a una categoria specifica di crimini: la “tutela della persona offesa in situazioni di violenza domestica o di genere e di minorata difesa”. Un lodevole segnale di attenzione nei confronti delle cosiddette “fasce deboli”, che però costituiscono solo una parte delle vittime di reato. Arriviamo così al terzo criterio, il più aperto: l’”offensività in concreto del reato, da valutare anche in relazione alla condotta della persona offesa e al danno patrimoniale e/o non patrimoniale ad essa arrecato”. Questa definizione, forse, potrebbe consentire di considerare una “priorità” almeno le indagini sulle grandi bancarotte o sui grandi disastri. In generale, però, dall’insieme dei criteri non emergono appigli per un procuratore che volesse dare particolare spazio alle indagini per i reati di corruzione. Quindi, in astratto, il Csm potrebbe bocciare un progetto organizzativo di questo tipo per incompatibilità con la “legge-quadro”. L’iter del ddl a palazzo Madama, comunque, è ancora all’inizio. Giovedì inizieranno le audizioni degli esperti: tra i convocati il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Giuseppe Santalucia e i procuratori delle maggiori città. Sul tema, ha avvertito in Commissione il senatore Pd Alfredo Bazoli, occorre “una cautela straordinaria”: si tratta di una questione “che incide sui principi del processo penale stabiliti dalla Costituzione”, dice. Alessandro Barbano: “All’hotel Champagne non successe nulla, il vero scandalo è l’indagine” di Roberto Giachetti Il Riformista, 7 gennaio 2024 L’intervista ad Alessandro Barbano, autore di La gogna. Hotel Champagne, la notte della giustizia italiana: “È una vicenda il cui racconto ufficiale è forse l’esatto opposto di ciò che è accaduto”. Alessandro Barbano, vicedirettore del Corriere dello Sport, è l’autore di “La gogna. Hotel Champagne, la notte della giustizia italiana”. Perché la notte della giustizia italiana? “Volevo restituire una verità storica a un falso narrativo. È una vicenda il cui racconto ufficiale è forse l’esatto opposto di ciò che è accaduto, è il più grosso scandalo della magistratura nella storia repubblicana. Secondo questo racconto una massoneria di magistrati e politici stava per mettere le mani sulla procura di Roma facendo nominare un magistrato addomesticabile. Questa massoneria era capeggiata da Palamara, Lotti e Ferri, che vengono smascherati e puniti ripristinando l’onore e il decoro della magistratura. Questo il racconto ufficiale dello scandalo, enorme perché nel cuore del Csm, il sinedrio della giustizia italiana. Ma non sta in piedi”. Questo libro mette a dura prova la credibilità di quanto è stato costruito, a cominciare dall’utilizzo delle intercettazioni... “Il vero scandalo è proprio l’indagine, il racconto non regge intanto perché il magistrato beneficiario della congiura oggi è procuratore di Milano, se fosse stato colluso non potrebbe farlo, è la parte lesa in quella vicenda. C’è invece una guerra di potere tra cordate diverse della magistratura attraverso l’uso e l’abuso di intercettazioni diffuse, caso unico nella storia repubblicana, in corso d’opera, quindi la funzione non è processuale ma puramente mediatica. Attraverso queste intercettazioni si sorveglia prima e si ribalta poi la maggioranza di un organo di rilevanza costituzionale. In quell’hotel non è successo nulla, quella riunione era una delle tante raccogliticce che alla vigilia delle nomine si fanno in Italia tra magistrati e politici, frutto della composizione mista del Csm, che la stessa Costituzione in parte avalla, e di una degenerazione figlia del correntismo dentro la magistratura”. È una di quelle questioni che ci sono sempre state ma non c’erano i trojan... “Il principale motivo per cui Palamara viene radiato e vengono puniti i cinque consiglieri dell’hotel Champagne è che quella sera c’era Lotti, un deputato imputato dalla stessa procura della quale si discuteva. Ma Lotti è stato indagato da quella procura nel dicembre 2016 e qui noi parliamo di maggio 2019. Dal 2016 al 2019 Lotti ha incontrato, in occasioni conviviali e professionali, quasi tutti i vertici della magistratura italiana e i più alti vertici istituzionali. E di cosa si discuteva in quelle riunioni visto che Lotti aveva una sorta di delega surrettizia sulla giustizia? È però il trojan che improvvisamente trasforma i contatti grigi della democrazia, che come tutti i poteri è opaca e frutto di compromessi, in qualcosa di criminogeno”. Per poter usare il trojan con Palamara e gli altri è stato ipotizzato un reato che nella fase finale di tutta la vicenda giudiziaria viene derubricato. E Palamara ha patteggiato per un reato per cui non si sarebbe potuto utilizzare il trojan... “La “spazzacorrotti” estende l’utilizzo del trojan alle ipotesi di corruzione, le due ipotesi che vengono formulate contro Palamara sono prima facie illogiche. La prima riguarda la denuncia di un giudice corrotto e pentito, frutto di illazioni prive di fondamento, ma non vengono fatti i dovuti accertamenti. Viene subito intercettato Palamara ma le intercettazioni dovrebbero essere legate a elementi di reato gravi e indispensabili. Qui non c’è altro che una millanteria. Che poi cadrà e Palamara non sarà mai condannato per questo. L’altra ipotesi è di aver ricevuto viaggi pagati da un amico imprenditore in alberghi con la compagna con cui aveva una relazione segreta e con la moglie. Anche qui manca la controprestazione, la corruzione si fa in due. Questo imprenditore non viene né intercettato né indagato, c’è il corrotto e non il corruttore. Fino al 27 maggio, momento in cui le intercettazioni vengono divulgate”. Lombardia. Carceri sovraffollate, quelle regionali tra le peggiori d’Italia di Mario Consani La Repubblica, 7 gennaio 2024 Oltre 8.700 detenuti per 6.100 posti. E a San Vittore per le detenute solo bagni alla turca Da Canton Mombello a Bollate, tutti gli istituti di pena hanno numeri ben al di sopra della capienza, con problemi legati anche al disagio psichico difficile da curare. Lombardia regione maglia nera in Italia, seconda solo alla Puglia, per il sovraffollamento nelle carceri. Stando ai più recenti dati pubblicati dal ministero della Giustizia, a fine novembre le presenze complessive nelle 18 carceri lombarde erano di 8.733 detenuti, quando la capienza regolare è di 6.174 posti: il tasso medio di occupazione è dunque del 142%, ben oltre la media nazionale che si attesta al 114%, con 60.116 detenuti in tutta Italia per 51.272 posti. In Lombardia il carcere più sovraffollato è quello di Brescia Canton Mombello con un incredibile 200% di occupazione, in parole povere c’è il doppio delle presenze previste: 371 detenuti per 185 posti. Segue a ruota Busto Arsizio, con 422 ospiti per 240 posti regolamentari e un tasso di occupazione pari al 175%. Un anno fa alla stessa data, in regione c’erano 500 detenuti in meno. “Sono in aumento arresti e processi per direttissima con adozione anche di misure coercitive per reati da strada”, spiega il presidente del tribunale di Milano, Fabio Roia. “In più c’è l’impossibilità in molti casi - aggiunge la presidente del tribunale di sorveglianza Giovanna Di Rosa - di applicare misure come gli arresti domiciliari a chi è privo di un’abitazione”. “Il sovraffollamento è certamente il primo problema - conferma l’avvocata Valentina Alberta, presidente dei penalisti milanesi - siamo tornati ai livelli di una decina di anni fa. E in quelle condizioni, all’epoca la Corte costituzionale depositò una decisione importante sull’eventualità di un differimento della pena nei casi in cui i penitenziari non garantissero condizioni umane di detenzione”. “Questo sovraffollamento unito all’applicazione della circolare che limita la possibilità di celle “aperte” per consentire ai detenuti di muoversi sul piano, aumenta le ore di permanenza in spazi ridotti e determina l’incremento di gesti violenti o autolesionisti, come dei tentativi di suicidio”, sostiene il garante per i diritti delle persone private della libertà del comune di Milano, Francesco Maisto. “È una situazione stigmatizzata già anni fa dalla Corte europea dei diritti umani e che portò alla condanna dell’Italia perché venne qualificata come tortura, cioè trattamento inumano e degradante. E ai tempi furono approntati provvedimenti legislativi e amministrativi per ridurre il sovraffollamento”. Carceri in Lombardia, i numeri dei detenuti in cella - A Milano nella casa circondariale di San Vittore i detenuti, che potrebbero essere al massimo 749, a fine novembre erano invece 1.123 (tasso di affollamento: 150%), dei quali ben 685 stranieri, oltre la metà. Ma non va meglio in strutture più piccole, Varese per esempio, con 91 presenze per 53 posti regolamentari e affollamento al 171%. E se persino il carcere di Bollate, da sempre considerato “modello” nel disastrato panorama italiano, ospita un’ottantina di detenuti in più rispetto ai 1.267 previsti, in regione stando ai dati del ministero c’è un solo carcere non strapieno: quello di Voghera, dove i detenuti sono 340 e ci sarebbe persino un posto libero. Il sovraffollamento generalizzato degli istituti carcerari non fa che accentuare, naturalmente, le conseguenze di altre difficoltà ormai quasi strutturali. In primo luogo la presenza sempre più elevata nelle celle, come sottolineato più volte dal garante Maisto, di detenuti con problemi psicologici o psichiatrici di vario livello, anche non diagnosticati. “Il detenuto che si è impiccato a San Vittore il 7 dicembre mentre nella rotonda andava in onda la prima della Scala, era entrato in carcere appena due giorni prima”, ricorda la presidente Di Rosa. “In quel caso i problemi psichiatrici erano anche già emersi, ma l’uomo era stato portato in carcere dopo l’arresto com’è normale. Bisognerà pensare a una struttura sanitaria dove persone con quel tipo di situazioni possano essere ospitate dopo un arresto senza dover entrare necessariamente in cella”, riflette il magistrato. E poi c’è anche da tener conto che la popolazione carceraria diventa sempre più giovane: a San Vittore gli stranieri, per lo più sotto i trent’anni, sono ormai la maggioranza dei detenuti. “E molti di loro soffrono un disagio psicologico da stress - ricorda Di Rosa - perché sono immigrati che provengono dai campi di prigionia libici dove hanno sopportato di tutto”. Sovraffollamento delle carceri, le possibili soluzioni alternative - Soluzioni per il fenomeno delle celle strapiene al momento però non se ne vedono, anche se il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha più volte accennato alla possibilità di recuperare caserme dismesse (a Milano sarebbero almeno due) da riadattare a carceri. Ma anche se andranno in porto, quei progetti avranno tempi necessariamente lunghi. “Sotto questo aspetto non abbiamo alcuna nuova comunicazione”, conferma Di Rosa. E allora per i penalisti milanesi, se la prospettiva di un differimento delle pene nelle carceri dove c’è il tutto esaurito non venisse presa in considerazione, a livello politico la soluzione a questa emergenza non può che essere una sola. “Un provvedimento di clemenza generalizzata, del resto già auspicato dieci anni fa in un contesto analogo dal presidente della Repubblica - ricorda Alberta - che solo può far rientrare l’Italia nella legalità rispetto ai parametri costituzionali”. San Vittore, per le 80 detenute della sezione femminile solo bagni alla turca - Solo posti in piedi nei bagni per le donne. Nel carcere di San Vittore, dove un’ottantina sono le detenute, i gabinetti hanno tutti le “turche” normalmente riservate agli uomini. Classici servizi igienici sui quali sedersi, nemmeno uno. “È proprio per l’effetto del sovraffollamento che si ripercuote anche nella sezione femminile - denuncia il garante dei detenuti Francesco Maisto - che non è possibile, almeno secondo quanto afferma l’amministrazione penitenziaria, effettuare la messa a norma dei servizi igienici. Non si può fare sfollamento delle presenze e quindi nemmeno avviare i lavori per la rimozione delle “turche” e l’applicazione dei servizi igienici ordinari”. Una situazione assurda che si trascina da anni. Anche il sindaco Beppe Sala, quando visitò un anno fa la casa circondariale di piazza Filangieri, denunciò condizioni di detenzione “indegne” nella struttura e fece riferimento, fra l’altro, anche al problema delle “turche”. Ma nemmeno quell’appello è servito a qualcosa. E sempre tra gli effetti inevitabili del sovraffollamento, conclude il garante Maisto, “ci sono i riflessi sulla situazione igienico sanitaria generale ma anche sull’igiene personale. Si pensi alla riduzione dell’accesso ai servizi sanitari interni, per altro rimasti da anni immutati nel numero degli addetti e comunque sotto organico. Ma si consideri, sempre a causa dell’aumento delle presenze, anche la riduzione del numero di accessi alle docce”. Ancona. Detenuto suicida in carcere. Ilaria Cucchi: “È di una gravità inaudita” di Andrea Massaro Il Resto del Carlino, 7 gennaio 2024 Matteo Concetti, 23 anni, si è impiccato in cella di isolamento. Il post di Ilaria Cucchi: “La madre chiedeva aiuto”. Era detenuto nel carcere di Montacuto per reati contro il patrimonio. Non molto tempo fa aveva aggredito una guardia penitenziaria e per questo motivo era stato collocato in isolamento. Proprio in questo settore del penitenziario anconetano, nel bagno della sua cella, è stato trovato impiccato nel pomeriggio di venerdì. Matteo soffriva di problemi psichiatrici che aveva provato a spiegare, evidentemente senza riuscirci. La sua tragica morte ora balza alle cronache anche e soprattutto per l’intervento della senatrice del Pd Ilaria Cucchi che sulla sua pagina Facebook scrive: “Ieri ho ricevuto una lettera che iniziava così. Matteo era detenuto nel carcere di Ancona. Quando sua mamma mi ha scritto, era ancora vivo, ma minacciava di suicidarsi. Ieri, a distanza di poche ore, Matteo ha dato seguito alle sue parole, si è tolto la vita. Era afflitto da problemi psichiatrici. Come tanti altri detenuti, se la passava male, la struttura in cui era rinchiuso lo soffocava. Era in isolamento, ci era finito per un procedimento disciplinare. Lo Stato, nel momento in cui era chiamato a fare sentire tutta la sua presenza e la sua cura, l’ha abbandonato. Isolandolo. Quello che è successo a Matteo è di una gravità inaudita. Quando ho sentito sua mamma, dopo la sua morte, al telefono, non sono riuscita che a dire altro se non che mi dispiace e che farò il possibile affinché vengano accertate le responsabilità della sua morte. Non basta, non basterà mai. Però glielo devo, glielo dobbiamo. Perché quello che è successo a Matteo, è anche una nostra responsabilità. Perché quello Stato, lo Stato che ha isolato Matteo nel momento del bisogno, quello che non lo ha assistito e ha calpestato i suoi diritti, siamo tutti noi”. La mamma di Matteo Concetti si era rivolta alla senatrice con parole accorate: “Sono la mamma di Matteo Concetti, la prego di aiutarmi, mio figlio vuole morire, ha bisogno di aiuto e in carcere non viene assistito”. Nonostante gli appelli e le accorate richieste di aiuto dei familiari, Matteo si è tolto la vita ed ha dato seguito a ciò che voleva fare. Aumentando ancora di più il vuoto che in molte carceri regna tra la realtà delle cose e ciò che accade. Ancona. “Mio figlio è morto per colpa loro, lo Stato l’ha ammazzato” di Antonio Pio Guerra Il Messaggero, 7 gennaio 2024 Un giovane reatino suicida nel carcere di Montacuto ad Ancona. La mamma accusa di averlo abbandonato. Nel bagno di una cella di isolamento è terminata la vita di Matteo Concetti, 25 anni, nato a Fermo da una famiglia di Rieti, dove il giovane ha vissuto per tanti anni e ha frequentato le scuole prima di tornare di recente nelle Marche. L’hanno trovato impiccato con una corda, venerdì. Inutili i tentativi di soccorso degli agenti penitenziari e 118. Una storia complicata, la sua. Nel penitenziario anconetano ci era finito a fine novembre, trasferito da quello di Fermo, probabilmente a causa di un momentaneo sovraffollamento. La vicenda. Prima ancora, Matteo aveva ottenuto la possibilità di scontare una pena alternativa, lavorando in una pizzeria e vivendo in un appartamento in affitto nel Fermano con la sua ragazza. Poi un errore, forse un imprevisto, e il 25enne manca di un’ora l’orario del rientro a casa. Per questo il giudice lo rimanda in carcere, prima a Fermo, poi ad Ancona. Gli mancavano solo 8 mesi prima della libertà. “Reati contro il patrimonio” c’era scritto sulla sua fedina penale. Tanto che prima della misura alternativa, Matteo aveva trascorso 2 anni in comunità e 8 mesi al carcere di Rieti. Il declino psicologico del giovane, appassionato di body building, è cominciato col trasferimento a Montacuto. L’ultima batosta tra giovedì e venerdì, quando il 25enne è stato condotto in isolamento. Già si trovava nella sezione “chiusa” del carcere, dove i detenuti non sono liberi di spostarsi. Quindi si sarebbe reso protagonista di un’aggressione a una guardia, parrebbe uno sgabello lanciato contro l’agente. Da qui, il trasferimento al regime più duro. Che qualcosa non andasse l’avevano notato i genitori, che venerdì mattina l’avevano incontrato. Poche ore dopo, la tragica scoperta. Le reazioni. “Mio figlio è morto per colpa loro, lo Stato l’ha ammazzato”. La mamma di Matteo Concetti parla fuori dell’obitorio. Piange ma non molla Roberta Faraglia, che da vent’anni vive a Rieti e lavora in ambito sanitario. Annuncia battaglia perché “questa è una tragedia che si poteva benissimo evitare. Venerdì, a me e a suo padre ha detto: io mi impicco”, racconta. Una precisa volontà manifestata anche agli agenti penitenziari. “Se mi riportate lì sotto (in isolamento, ndr.) io mi ammazzo. Ho paura, non ci voglio stare”, le parole pronunciate secondo sua madre. Perché Matteo soffriva anche di disturbi psichiatrici e faceva dei sogni strani, ma voleva curarsi. “Con le stesse medicine che prendeva in comunità e che lo facevano star bene”, dice la signora Roberta. “Nessuno poteva prevedere un gesto di questo tipo, non essendo il detenuto a rischio suicidario”, ha scritto il Garante dei detenuti marchigiano Giancarlo Giulianelli, ma la madre di Matteo non è dello stesso parere. “Aveva già tentato il suicidio nel 2017”, ricorda. Poi punta il dito sulla sorveglianza: “Mi avevano promesso che avrebbero vigilato su di lui. L’hanno fatto?” si chiede. E annuncia battaglia. Al suo fianco c’è la senatrice Ilaria Cucchi, a cui la donna si è rivolta. “Il ragazzo era incompatibile col regime carcerario. Questa storia dimostra quanto poco conti la vita umana in certi ambienti”, commenta la senatrice. Napoli. Detenuto morto a Poggioreale. Il medico intervenuto: “Il paziente era già in rigor mortis” di Giuseppe Crimaldi Il Mattino, 7 gennaio 2024 La Procura di Napoli procede per omicidio. Una morte piena di misteri e di sospetti. L’emergenza carceraria a Napoli saluta il nuovo anno nel modo più lugubre: con la morte di un giovane detenuto a Poggioreale. In una cella della Casa circondariale, alla vigilia dell’Epifania, è stato trovato il corpo senza vita di Alexandro Esposito, 33enne di Secondigliano che era in attesa di giudizio e scontava la carcerazione preventiva all’interno del Padiglione Napoli. Quando è scattato l’allarme per il giovane non c’era già più niente da fare. Inutili i tentativi di rianimarlo: al medico dell’Asl intervenuto alle 9,45 di venerdì non è rimasto che certificare l’avvenuto decesso e inviare gli atti in Procura. Ed ora, per le ragioni che vedremo di qui a un momento, crescono le domande e i dubbi su come Alexandro sia morto. Tanto per cominciare, c’è un dettaglio importantissimo nella essenziale relazione vergata a mano dal medico intervenuto sul posto per certificare l’avvenuto decesso. “Quando sono intervenuto - si legge - ho trovato il paziente riverso su una barella all’esterno dell’infermeria del piano terra in procinto di essere trasportato. Il paziente era in rigor mortis”. Il corpo senza vita era dunque già rigido: segno evidente che la morte era intervenuta diverse (se non addirittura molte) ore prima, e comunque in un arco temporale che va dalle 18-19 della sera precedente alla scoperta fatta solo dopo le otto del mattino successivo (e non prima delle 9,20). Quella occupata da Esposito - che era ospite di Poggioreale in attesa della celebrazione del terzo grado di giudizio che lo vedeva imputato per reati comuni, un travaglio scandito dalla tossicodipendenza che aveva portato gli stessi familiari, esasperati, a chiedere l’intervento delle forze dell’ordine - è una cella che ospitava almeno altre due persone. Possibile che di fronte a un improvviso malore del 33enne nessuno dei suoi compagni di cella si sia accorto di nulla, che non sia stato svegliato dai lamenti? C’è anche un secondo dettaglio riportato sempre dal medico del presidio sanitario dell’istituto “Salvia” di Poggioreale: nel riportare la ricognizione sul corpo senza vita, il dottore certifica che Esposito presentava anche “materiale scuro liquido che fuoriusciva dal cavo orale? Sangue? Altro materiale organico? I successivi accertamenti scientifici sulla salma avrebbero anche evidenziato i segni di un forte ematoma sul corpo. Indagini coordinate dalla Procura di Napoli. Dall’autopsia che si svolgerà lunedì dovrebbero arrivare dunque conferme a i sospetti che nessuno ufficialmente ha il coraggio di chiamare con il loro nome: omicidio. Sì, perché, almeno da un primo quadro a disposizione, si tende a escludere che Alexandro Esposito possa essere morto per cause naturali o per suicidio. E a questo punto le nebbie del mistero non possono che addensarsi all’interno di quella maledetta cella, le cui mura e i cui occupanti restano gli unici custodi della verità. Già ascoltati tre giorni fa, verranno interrogati di nuovo nelle prossime ore. Come sempre accade in questi casi, oltre all’indagine giudiziaria ordinaria è stata disposta una seconda inchiesta, amministrativa e interna al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Va detto che proprio per far fronte a una serie di carenze ataviche e strutturali di Poggioreale (definito il carcere più sovraffollato d’Italia, e forse d’Europa) il ministero della Giustizia, con il Dap e grazie a una gestione intelligente e concreta del direttore Carlo Berdini sta faticosamente risalendo la china. Lavori di rifacimento di alcuni padiglioni sono già stati portati a termine, ed altri in via di realizzazione (tra questi, anche il settore del settore “Napoli”, nel quale era detenuto Esposito. I sindacati di Polizia Penitenziaria ritornano sulle gravi carenze che affliggono il pianeta carcerario: e domani la sigla SPP alle 10,30 ha convocato una conferenza stampa davanti al “Salvia”. “Ieri - spiega il garante regionale dei detenuti, Samuele Ciambriello - mi sono fermato a riflettere e pregare davanti la cella dov’è stato trovato morto Alessandro, ho parlato con i suoi due compagni di cella, con gli altri del reparto, moltissimi malati, tre su una sedia a rotelle. Le indagini in corso chiariranno le cause della morte. Le carceri italiane e campane sono piene di detenuti tossicodipendenti e malati psichici denunciati dai familiari. L’assenza dei servizi, il fallimento in alcuni casi di Sert e Dipartimenti di salute mentale è sotto gli occhi di tutti. Servono politiche attive di inclusione sociale. Sentiamoci tutti un po’ responsabili di queste morti e di queste solitudini”. Napoli. Il Garante Ciambriello: “Sentiamoci tutti responsabili di queste solitudini” L’Unità, 7 gennaio 2024 Alessandro ritrovato nella sua cella nel reparto Napoli. Sul corpo segni di violenza. “Sentiamoci un po’ tutti un po’ responsabili di queste morti e di queste solitudini”, è la riflessione e il pensiero di Samuele Ciambriello, Garante dei detenuti della Regione Campania che questa mattina ha visitato il reparto Napoli del carcere di Poggioreale. Quello dove ieri è stato trovato senza vita un detenuto di 33 anni. Le indagini per accertare la dinamica dei fatti sono in corso. Sul posto ieri si erano recati il magistrato di turno e il medico legale. Secondo primi riscontri sul cadavere sarebbero stati rinvenuti dei segni di violenze. Non è escluso che il detenuto si sia tolto la vita. Già ieri Ciambriello aveva assicurato all’AdnKronos che sulla salma saranno effettuati tutti gli esami del caso nei prossimi giorni. L’esame autoptico e quello tossicologico. Gli investigatori starebbero seguendo soprattutto la pista dell’omicidio. “Se come si sospetta il 33enne trovato morto a Poggioreale è stato ucciso, sarebbe il quarto omicidio in un anno a dimostrazione che il sistema penitenziario è al collasso. Tutti sono liberi di fare ciò che vogliono. Non sono un caso le due sommosse in due giorni ad Agrigento e a Santa Maria Capua Vetere”, le parole del segretario generale del S.Pp. Aldo Di Giacomo all’AdnKronos: “Servirebbe un avvicendamento del sottosegretario alla Giustizia Delmastro con una persona che tecnicamente conosce il carcere e abbia voglia di migliorarlo e lavorarci adeguatamente”. Il sottosegretario Andrea Delmastro Delle Vedove, parlamentare e dirigente di Fratelli d’Italia, sottosegretario al ministero della Giustizia, è competente per delega del ministro Carlo Nordio al Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria (Dap). È stato rinviato a giudizio con l’accusa di aver rivelato alcuni documenti riservati legati al caso Cospito. “In mattinata sono stato nel carcere di Poggioreale - ha fatto sapere Ciambriello - Sono stato a piano terra del reparto Napoli, mi sono fermato a riflettere e pregare davanti la cella dove ieri è stato trovato morto Alessandro, 33anni compiuti lo scorso agosto. Ho parlato con i suoi due compagni di cella,c on gli altri del reparto, moltissimi malati, tre su una sedia a rotelle, nessun piantone! Le indagini in corso chiariranno, insieme all’autopsia che si terrà lunedì, le cause della morte”. “Le carceri italiane e campane sono piene di detenuti tossicodipendenti e malati psichici denunciati dai familiari. L’assenza dei servizi, il fallimento in alcuni casi di Sert e Dipartimenti di salute mentale è sotto gli occhi di tutti. Così come l’indifferenza della maggior parte della gente per queste categorie di persone. Il bene, l’amore, l’affetto, la condivisione possono guarire quasi tutti i mali del mondo, insieme a politiche attive di inclusione sociale. Sentiamoci un po’ tutti un po’ responsabili di queste morti e di queste solitudini”. Verona. Il Garante dei detenuti, don Carlo Vinco: “La playstation in carcere l’ho portata io” di Angiola Petronio Corriere Veneto, 7 gennaio 2024 “Resto stupito e amareggiato per la polemica sulla playstation in carcere, che sarebbe un privilegio per un giovane detenuto e addirittura un mezzo che trasformerebbe il carcere in un parco divertimenti”. Inizia così la lettera che il garante dei detenuti di Verona, don Carlo Vinco, ha scritto ai giornali. Il riferimento è a quei presunti “privilegi” - peraltro smentiti sia dalla direttrice del carcere di Montorio che dagli stessi detenuti- concessi a Filippo Turetta e alle parole del sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari, che venerdì sarà a Verona proprio per “verificarli”. “Quella playstation l’ho fornita io al cercere, più di sei mesi fa per l’infermeria e la sezione di cura psichiatrica- scrive don Carlo- e mai avrei pensato a polemiche così banali e avvilenti per quanti stanno vivendo la condizione di detenuti e per quanti in carcere svolgono la loro professione. Pensare che sia un privilegio la possibilità di usare la playstation per ristretti momenti della giornata, in uno spazio comune e sempre condiviso, vuol dire non conoscere la sofferenza e la disperazione di chi è rinchiuso”. Sull’uso della play station è intervenuta Jessica Lorenzon, osservatrice nazionale delle condizioni di detenzione degli istituti di pena di Antigone che ha fatto una visita nel carcere di Montorio confermando il sovraffollamento, problemi sanitari e di spazi: “Offrire momenti di svago può essere importante, anche solo per aiutare i detenuti a sopportare la noia - le sue parole. Filippo Turetta non deve fare eccezione”. Nella sua lettera don Vinco spiega che “o osservato, e in più di una occasione ho espresso la mia stima, per come il carcere di Verona ha saputo finora gestire una situazione decisamente complessa. Sarebbe grave se assistessimo a intolleranze e discriminazioni sollevate più che da giudizi interni da opinioni e provocazioni provenienti dall’esterno. Con l’augurio che tutti riusciamo a lavorare per il bene di chi soffre con rispetto e ascolto”. Verona. La pensione dentro Montorio dove i cani corrono all’aperto e i detenuti fanno da “custodi” di Angiola Petronio Corriere Veneto, 7 gennaio 2024 “Orme oltre le mura”. È il nome della pensione per cani al carcere di Montorio. Gli animali di giorno sono liberi e accuditi dai detenuti. I primi sono stati Floppy e Toby. Morti liberi, dopo anni da reclusi. Floppy e Toby sono un contrappasso. Perché sono morti da liberi in un carcere. Quello di Montorio. Quello che, come tutti i penitenziari, è fatto di spazi di reclusione. Ma che al suo interno ha un’area dove prospera la libertà. È grande 5mila metriquadri quello spazio dove il pavimento è l’erba, i muri portanti sono gli alberi e il soffitto è il cielo con le sue declinazioni. Quel cielo che da “dentro” neanche intravvedi. Niente a che fare con i corridoi asfittici o le celle incubanti di una galera. È in quell’area che Floppy e Toby sono diventati liberi. Erano due cani, Floppy e Toby. Arrivavano anche loro da una vita segregata, come quella di chi li ha accuditi nei loro anni liberi. La vita nel canile veterinario dell’Usl9. Sono stati i primi cani “adottati” dai detenuti di Montorio - per i quali era già attivo un progetto di pet teraphy -, Floppy e Toby. Ed è dall’esperienza con loro che è nata quella che è una sorta di “isola di libertà” all’interno del carcere. Una “pensione per cani”, che prende il nome del progetto portato avanti da La città degli Asini, cooperativa che si occupa di interventi assistiti con gli animali. “Orme oltre le mura”, si chiama quella pensione dove chiunque può portare il proprio cane. “Qui, per assurdo, la parola d’ordine è proprio libertà”, spiega Manuela Signorini, veterinaria e coordinatrice della struttura. È lei che si occupa degli accessi. “Quella dei cani, che stanno liberi 9 ore al giorno e vengono messi nei box solo per la notte. E anche quella dei detenuti che li seguono, che possono stare all’aria aperta invece che in cella”. Detenuti che, in forma di volontariato, di quei cani si prendono cura fin dal mattino presto. Un team di due medici veterinari e tre educatori cinofili sempre presenti in struttura, alla pensione “Orme oltre le mura”. Ma, soprattutto, quei reclusi che stanno scontando una pena e che per accudire i cani ospitati in pensione devono aver superato il corso di formazione per operatori di canile, qualifica che una volta fuori possono anche usare per trovare un lavoro. “Un’opportunità per vivere il carcere in maniera più umana. Che anche questo è un contrappasso, se si pensa che quella “maniera più umana” te la offrono i cani”, aggiunge Manuela. Dieci box, al carcere di Montorio. Che d’inverno hanno le lampade riscaldanti. Otto per i cani “esterni” e due a disposizione di associazioni e per cani che non vengono adottati. “Perché c’è sempre una seconda possibilità. Per tutti”, dice la coordinatrice. È stata costruita dai detenuti, quella struttura che è inglobata dentro alla casa circondariale ed è suddivisa in tre parchi. Loro hanno realizzato i box, una piscina per i cani, piantato gli alberi, messo le reti divisorie, piazzato le panchine. E loro dei cani ospiti si prendono cura. Due turni, mattina e pomeriggio. Quattro persone per ogni turno. Le pulizie, il cibo e quel gioco all’aperto che è il filo conduttore della pensione “Orme oltre le mura”. Il progetto si auto-sostiene con i soldi della pensione. L’obiettivo è l’inserimento lavorativo dei detenuti come dipendenti della cooperativa Città degli Asini, “nella piena consapevolezza che il lavoro è riscatto sociale e umano”, ma servono fondi che al momento non ci sono. Intanto quella pensione funziona. Eccome se funziona. Con, in alta stagione, vere e proprie liste d’attesa anche di mesi. “Abbiamo costi ridotti e non ci interessa riempire per forza tutti i box. Cerchiamo di creare gruppi di cani che vadano d’accordo, perché per tutti noi la priorità è il loro benessere”, spiega Manuela. E quella libertà che cani e umani possono trovare insieme anche tra le mura di una galera. Padova. In carcere nasce anche la squadra di rugby. Cus, Ulss e Uoc “giocano” per dare una speranza ai detenuti padovaoggi.it, 7 gennaio 2024 L’obiettivo è quello di formare due compagni a 7, fino ad arrivare a mettere in piedi un’unica compagine in grado di svolgere anche competizioni esterne. Il 2024 comincia con la meta più bella. È partito il progetto “Rugby in carcere” promosso dall’Ulss 6 Euganea, finanziato dall’amministrazione penitenziaria e del quale il Cus Padova è ente partner di realizzazione. L’iniziativa è stata ideata dall’Uoc “Tutela della salute delle persone con limitazione della libertà” ed è rivolta a venti utenti della sezione Icatt Custodia Attenuata della Casa circondariale di Padova. Il progetto, partito come annualità 2023, potrebbe continuare, se rinnovato, per le prossime due annualità. Si svolgerà con cadenza bisettimanale, per un totale di 20 incontri annui della durata di 2 ore. I primi due sono andati in scena la settimana prima di Natale, per far conoscere ai partecipanti una serie di attività che hanno come scopo principale quello di fornire ai pazienti in ambito penitenziario, con problematiche di dipendenza patologica, una risorsa per apprendere e canalizzare le proprie energie positive, attraverso un’attività sportiva nella quale il rispetto delle regole e dell’altro sono fondamentali. Il responsabile tecnico è Vanni Zago che si avvale del supporto del preparatore atletico Maurizio Ercolino, assieme al quale terrà una serie di lezioni sia in aula che in campo. Durante la prima fase, quella propedeutica all’attività, si farà conoscere ai partecipanti le regole fondamentali e lo “spirito” del gioco del rugby, con particolare attenzione all’accettazione, al rispetto della regola e alla lealtà nella partecipazione. Quindi, si insegneranno i fondamentali e le tecniche di “affrontamento” e “evitamento”, passo fondamentale per arrivare allo svolgimento di gare di pratica e competizione interna. L’obiettivo è quello di formare due squadre di rugby a 7 fino ad arrivare a mettere in piedi un’unica compagine in grado di svolgere anche competizioni esterne. Il coordinatore del progetto, per il Cus Padova, è Silvio Decina: “Il gioco del rugby è basato principalmente, nonostante il contatto fisico, sul rispetto nei confronti dell’avversario e sulla capacità di controllo degli impulsi e della gestione delle emozioni”, spiega Decina. “Uno sport, quindi, a forte valenza educativa, con un’alta potenzialità finalizzata alla riabilitazione della persona, al rispetto delle regole e al muoversi in gruppo”. Noi, la premier e l’enorme spettacolo delle disparità di Andrea Malaguti La Stampa, 7 gennaio 2024 Mi sono sempre considerato un uomo di sinistra e quindi ho sempre dato al termine “sinistra” una connotazione positiva, anche ora che è sempre più avversata, e al termine “destra” una connotazione negativa, pur essendo oggi ampiamente rivalutata. La ragione fondamentale per cui in alcune epoche della mia vita ho avuto qualche interesse per la politica è sempre stato il disagio di fronte all’enorme spettacolo delle diseguaglianze, tanto sproporzionate quanto ingiustificate, tra ricchi e poveri, tra chi sta in alto e chi in basso nella scala sociale, tra chi possiede potere - vale a dire capacità di determinare il comportamento altrui - e chi non ne ha. Confesso che ho rubato. Quelle che avete letto non sono parole mie (era chiaro, suppongo). Le ho prese a prestito (mischiandole un po’) da un gigante torinese - una “firma” de La Stampa - che vent’anni fa, tra due giorni, se ne andava lasciando un vuoto incolmabile e nessun erede: Norberto Bobbio. Sono andato a rileggere “Destra e sinistra”. Folgorante. Spiega ancora perfettamente perché la sinistra (elitaria, saccente, incapace di sintonizzarsi con chi sta male) perde e la destra (rincagnata, intollerante, superomista e ultranazionalista) vince e probabilmente vincerà ancora a lungo. L’ho ricercato dopo la conferenza stampa di Giorgia Meloni, l’underdog più potente d’Italia, la donna capace, appunto, di mettere da parte la sinistra per risistemare nei palazzi del potere la destra. Tre ore e mezza e quarantadue risposte di funambolismo ipnotico piuttosto spettacolare e, in fin dei conti, inconcludente. Al termine del quale - al di là delle troppe domande non fatte per colpa di una categoria (noi) non sempre lucidissima, blandamente aggressiva, se non strumentalmente remissiva all’interno di un format che non aiuta a incalzare l’interlocutore - mi è rimasto comunque un dubbio: che cosa ha detto davvero la premier? Poche cose, da cercare sottotraccia. Uno: Meloni ha sfatato il mito (fondato) di essere una leader che scappa davanti ai giornalisti, stigma che non giova alla credibilità democratica del Paese agli occhi del mondo. Almeno di quello Occidentale. L’ultima volta che si era presentata al faccia a faccia, dopo cinque domande aveva spiegato di dover correre in Confcommercio. La conferenza stampa, seguita al naufragio di Cutro (la sua ferita più profonda, sostiene) era stata un epico disastro. Alla presentazione della Nadef (nota di aggiornamento al documento di economia e finanza) aveva mandato un solitario Giorgetti. In Tunisia si era esibita in un numero ancora mai visto: dichiarazione orgogliosa di fronte a delle sedie vuote, ma con leggìo, documenti in mano e sorriso soddisfatto a favore di telecamera. Vistoso autogol, che aveva spinto un sardonico Pierluigi Bersani a commentare: “Giornalisti, Corte dei conti, sindacati, non deve esserci niente di mezzo tra il capo e il popolo”. Difficile cancellare il sospetto che avesse ragione. Giovedì la svolta, riuscita dal suo punto di vista. Un grande show per cancellare l’onta. Chiedete e vi sarà detto. La pioggia degli scoordinati interrogativi è andata a perdersi nella nebbia di repliche che un saggio collega ha ribattezzato: “la melina di Meloni”. Zero notizie. Vaghezza assoluta sul Mes e sulla manovra aggiuntiva (che arriverà, scommetteteci), nulla su concorrenza, scuola, sanità, pensioni, politica estera, G7, Israele, Gaza o Palestina. E tanto meno su chi non arriva a fine mese, proprio nelle ore del “Fat Cat day” (il giorno del gatto grasso), quello in cui le Borse segnalavano come i grandi amministratori delegati avessero guadagnato in sei giorni quello che i loro dipendenti incassano in un anno. Aggiungendo, rigirando il dito nella piaga, che un manager prende mediamente trecento volte di più di un suo sottoposto (lo ha raccontato bene su queste colonne Marianna Filandri). Esattamente come succedeva cento anni fa. È passato un secolo, ma le disuguaglianze sono rimaste identiche. Ora, di fronte a problemi così giganteschi - sui quali la sinistra dovrebbe buttarsi a pesce - il punto non è se ti fanno le domande giuste (certo, sarebbe meglio), ma se tu, nella conferenza annuale per fare il punto sullo stato delle cose, hai deciso o no di affrontare il tema. Meloni ha deciso di no, preferendo tenersi le mani libere su strategie (volevo dire visioni, ma la parola è uscita dal vocabolario politico), progetti e alleanze in vista di elezioni europee che si annunciano per lei trionfali se riuscirà a non creare eccessive frizioni con gli alleati, continuando a fregare loro voti giorno dopo giorno. Per farlo le basta rimanere ambigua. Fare finta che il caso Santanché non esista. Assolvere Salvini sulla scivolosa vicenda Anas spiegando che le intercettazioni incriminate si riferivano ai tempi di un governo non suo, come se oggi i vertici della Azienda Nazionale Autonoma delle Strade fossero cambiati. Oppure ipotizzare fantomatici complotti antigovernativi che esaltano la fantasia fuori controllo dei nazionalisti di ogni dove e dire cose del tipo: voterò per Von der Leyen senza entrare in maggioranza. Che significherebbe rinunciare al commissario che spetta ai vincitori. Ipotesi lunare. Ma che nelle orecchie dei ribelli antisistema suona ancora come se avesse un senso. Come un senso deve avere avuto la giusta e definitiva presa di distanza dal pistolero di Capodanno, il vercellese Emanuele Pozzolo, anello debolissimo di una classe dirigente imbarazzante, come la stessa premier (tra i denti e a modo suo) ha dovuto in qualche modo ammettere. Chi lo ha portato Pozzolo in Parlamento? E Delmastro? Giusto scaricare. Ma forse servirebbe un filo più di attenzione quando si carica. E non parlavo in questo caso di armi, passione piuttosto diffusa in un establishment governativo che deve avere dimenticato la più classica delle lezioni della destra di derivazione missina: il privilegio della forza è sempre dello Stato, al quale il cittadino deve rivolgersi per chiedere protezione. Ma i Fratelli cinquantenni sembrano piuttosto cresciuti nella tradizione trumpiano-berlusconian-leghista: quella per cui la giustizia-fai-da-te è sempre legittima. Impossibile dimenticare il mitologico Joe Formaggio o la fotografia di Matteo Salvini che esibisce orgogliosamente il mitra alla fiera delle armi di Verona. Altro che i mandriani del Texas. Una considerazione sola per Elly Schlein sull’attesissimo confronto tv tra le due guide di destra e di sinistra: questa non è una sfida tra lei e Meloni (che, peraltro, impostata come un duello rusticano, è destinata a perdere), ma tra chi - con lo stesso strombazzato obiettivo di ridurre “l’enorme spettacolo delle disparità” - sogna un’Europa aperta e inclusiva e chi la vuole chiusa ed esclusiva. Purtroppo le elezioni le vinci con chi è spaventato, non con chi è felice. La destra lo sa. È il suo aspetto peggiore. La sinistra sembra non sapere niente. Soprattutto come rassicurare chi è spaventato. E qui tornano a risuonare prepotentemente le parole di Bobbio: “Avrei preferito che un grande partito di sinistra risollevasse la bandiera della giustizia sociale. Se dovessi proporre un tema di discussione, per la sinistra, oggi, proporrei il tema attualissimo, arduo, ma affascinante, della “giusta società”. Continuo a preferire la severa giustizia alla generosa solidarietà”. Meloni sembra severa. Schlein generosa. Giustizia e solidarietà, nei fatti, non pervenute. L’intelligenza artificiale non potrà mai lasciarci uguali a noi stessi di Walter Siti* Il Domani, 7 gennaio 2024 Nel suo discorso di fine anno, Sergio Mattarella ha detto che l’intelligenza artificiale deve restare “umana”. Ma non potevamo pensare di creare qualcosa che funzionasse come il nostro cervello senza che ci cambiasse. Nel suo messaggio di fine anno il presidente Mattarella ha parlato della intelligenza artificiale ed è il segno di quanto questo tema sia diventato importante, per non dire di moda. Di solito se ne parla con riferimento Ia pericoli legati al mondo del lavoro, cioè al fatto che parecchie professioni (intellettuali ma non solo, traduttori e camionisti) rischiano di apparire sostituibili: la risposta ottimista è che ogni grande rivoluzione tecnica ha generato le medesime paure e che invece nuovi stimolanti lavori sono apparsi ogni volta, più qualificati e creativi dei precedenti. Quella della Ia sarebbe soltanto un caso particolare della eterna consolazione per cui ogni crisi nasconde un’opportunità. Lo sviluppo della tecnologia in questo settore è visto come “un progresso inarrestabile” (così lo ha definito anche il presidente) che chiede di essere regolato dal buonsenso dei singoli e dagli accorti provvedimenti della politica; insomma come qualcosa che ci troviamo di fronte e che sta a noi governare. L’essenziale, ha detto Mattarella, è che la intelligenza artificiale “resti umana”. Fermo restando che spetta al presidente incoraggiare e non deprimere, tanto più in un discorso augurale, vale forse la pena di ragionare sulle reali possibilità che l’auspicio di Mattarella possa conseguire l’esito sperato. Mutamenti - La chiave, mi sembra, sta proprio nell’aggettivo “umano”. Quante volte abbiamo sentito gli iniziatori e i guru dell’Ia parlare invece di “post-umano”, di “umanità aumentata”, o addirittura di innovazioni preludenti all’avvento di una umanità “ibrida”, nel cui cervello verrebbero impiantate reti neurali connesse a evolutissimi computer. Insomma, di fine dell’umanesimo. Argomento filosoficamente infinito, questo del rapporto tra umanità e tecnica, che ha alla base un assunto indiscutibile: le grandi innovazioni tecniche non lasciano mai l’uomo uguale a sé stesso. Mentre l’uomo si avvale delle proprie conquiste, contemporaneamente muta al proprio interno e (per esempio) l’uomo che esce dalla rivoluzione industriale di fine Settecento non ha lo stesso immaginario e gli stessi ritmi mentali dell’uomo rinascimentale. Mentre usa i nuovi strumenti, i nuovi strumenti lo usano e lo modificano. L’uomo pre-Ia sarà diverso dall’uomo post-Ia, e come potrà regolare qualcosa che lo sta contemporaneamente regolando? Se è vero che la Ia è una conseguenza degli enormi progressi informatici e di scienza dei materiali che a loro volta sono responsabili di tutto quel che è accaduto nel mondo della comunicazione, coi social e il resto, proviamo a vedere come l’uomo sta mutando, stavolta. Conformismo algoritmico - Il primo e spesso inavvertito cambiamento mentale è la convinzione diffusa che il bene e la verità coincidano con ciò che è statisticamente medio. Abbiamo un bell’elogiare chi naviga controcorrente, ma i milioni di follower fanno impressione e gratificano, tant’è vero che parlar male di chi li detiene è diventato uno sport venato di rosicamento. Il bastian-contrarismo è esso stesso maniera. I giornali cartacei si trasformano in imprese online, i like in tempo reale orientano la direzione da seguire, l’editoria è a caccia dei più eclatanti fenomeni social, l’opinione comune diventa norma narrativa. Gli sceneggiatori di Hollywood lo sanno bene: molto prima che l’intelligenza artificiale minacciasse di lasciarli disoccupati già dovevano misurarsi con gli stereotipi che accontentavano il pubblico, e il successo commerciale decideva del loro assegno a fine mese. Fenomeno che è sempre accaduto, il padre di Torquato Tasso già constatava che restare fedeli alle regole aristoteliche spingeva gli spettatori ad abbandonare la sala. Ma ora la quantità è diventata qualità: se Liala o Luciana Peverelli non entravano nel canone della “letteratura alta”, chi adesso non è colpito quando di un autore che non conosce legge che è stato “tradotto in 25 lingue” e ha venduto milioni di copie? Nella vita di tutti i giorni, magari apprezziamo la trasgressione di qualcun altro ma quanto a noi preferiamo che le cose vadano lisce, che la vita nei suoi estremi si manifesti altrove, la medietà è un buon posto dove stare; mugugnare di nascosto ci salva quel che ancora osiamo chiamare anima, ma non sposta la tendenza generale. L’intelligenza artificiale si nutre del nostro conformismo e affermandosi lo moltiplica. Mattarella il 31 dicembre ci ha ricordato che “il confine tra bene e male, tra giustizia e ingiustizia, tra vero e falso, dipende dalle nostre scelte”. Sacrosanto, ma fino a che punto siamo liberi nelle scelte? Che significa “volere”? Volere quel che vogliono tutti equivale a non volere. Gli algoritmi ci “profilano” e pian piano come bravi cani da pastore riconducono anche i più restii a una tipologia riconoscibile; i nostri pensieri e i nostri sogni sono trattati (e dunque alla fine percepiti anche da noi) come generi di consumo. Pensare positivo è un dovere civico oltre che una comodità; i media più generalisti celebrano vere e proprie liturgie della speranza. La “democrazia” è ormai più un mantra che un concetto. Vero e falso, giusto e ingiusto, per lo più rispecchiano la temperatura emotiva secondo schieramenti di parte, pro o contro. Ci “profiliamo” da soli, da che parte stare viene prima del comprendere. Sentimenti omologati - Il sancta sanctorum della nostra privacy, i nostri sentimenti, almeno loro sono liberi dall’omologazione? Mi è capitato di ascoltare un/una robot di quelli/e “da compagnia”, che confessava all’interlocutore umano di sentirsi spesso a disagio, di provare invidia per i sentimenti forti, di sentirsi smarrito/a e di “trascorrere molte ore meditando”. Qualcuno gli/le ha insegnato che di fronte a domande difficili è meglio rispondere così, ma non è ciò che molti di noi ormai pensano sia profondo rispondere, se non altro per quieto vivere? Se la Ia finge i sentimenti, non è perché i suoi istruttori sanno che i sentimenti finti sono ormai più credibili di quelli veri? Se qualcuno (come me) è stato così autolesionista da seguire al Grande Fratello Vip le vicende di Mirko e Perla e Greta, ha assistito a uno sciorinare di sentimenti coltivati in vitro e proposti come merce di scambio, come credenziali per un lavoro futuro nel mondo dello spettacolo (“grazie Alfonso per questa opportunità”). È questa la “dignità della persona” a cui Mattarella si riferiva l’ultimo dell’anno? Desiderio a metà strada - Il nodo forse più insidioso che la Ia ci propone è quello del desiderio: la Ia può mostrarci foto di corpi che non sono mai esistiti (i video appaiono ancora un po’ tremolanti, ma basterà aspettare il prossimo miglioramento tecnico), corpi che vengono disegnati in aderenza con le nostre esigenze di “categorie” desideranti, cioè merceologiche. Certi caratteri ossessivi che rendevano il nostro desiderio unico e intimo sono enfatizzati fino alla caricatura, facendo apparire i corpi reali come inadeguati. Ci sono siti che incitano a “inventare” il corpo che si desidera e a fargli fare quel che vogliamo. Non c’è da meravigliarsi se poi i corpi che cerchiamo nella realtà per il nostro piacere arriveranno a somigliare sempre di più a quelli che ci fornisce l’algoritmo; né che già ora alcuni ventenni dichiarino di preferire il sesso online a quello in presenza. Sex appeal dell’inorganico, come già lo chiamava Mario Perniola trent’anni fa. I neo-umani si apprestano ad affrontare il futuro mercato del lavoro avendo mutato la loro mente, le loro aspettative, la loro emotività e il loro sesso. Ma è normale: non potevamo aspettarci di creare una intelligenza uguale a quella del nostro cervello, senza che il nostro cervello si adattasse ad andargli incontro a metà strada. *Scrittore Benanti: “Intelligenza artificiale, la sfida è l’informazione. Difendiamo il giornalismo, garantisce la democrazia” di Massimo Sideri Corriere della Sera, 7 gennaio 2024 Il nuovo presidente della Commissione dopo la rinuncia di Giuliano Amato. “Sono un ragazzo degli anni Settanta e in quegli anni, oltre ai giochi come Dungeons & Dragons, i walkie-talkie e le biciclette Bmx c’erano i computer, le consolle, il Commodore 64. E capire questa grande novità è stata una molla troppo forte per la mia curiosità. Oggi, questo processo di smontare e rimontare le cose per capirle potremmo chiamarlo hacking, ma io preferisco continuare a chiamare in causa la curiosità”. È nata così la passione che ha portato padre Paolo Benanti - teologo del Terzo ordine di San Francesco, professore alla Pontificia Università Gregoriana, consigliere di papa Francesco sui temi dell’intelligenza artificiale e membro del Comitato sull’Ai dell’Onu - a diventare il nuovo presidente della Commissione governativa sull’Ai per l’informazione dopo la rinuncia di Amato. Un tema sul quale aggiunge subito: “La Commissione si è già riunita e ha iniziato i lavori con Amato. Per quanto mi riguarda si tratta di coordinare la squadra in un lavoro collettivo, non individuale. Mi piace considerarmi il tredicesimo giocatore in panchina chiamato perché gli altri si sono fatti male”. Professor Benanti, l’intelligenza artificiale oggi è chiamata in causa su tanti benefici possibili e rischi potenziali, legati al lavoro, alla cultura, all’impatto sulla società, ma la Commissione da lei presieduta si sta occupando nello specifico dell’informazione e del rischio concreto che questo potente strumento potrebbe avere sul fronte della disinformazione, delle fake news e della manipolazione dell’opinione pubblica e degli elettori. Tra tutti non è questo il nervo scoperto dell’etica dell’Ai che racchiude tutti gli altri? “È vero che il legame tra Ai e informazione è cruciale. Ci sono tre temi su cui stiamo lavorando: il primo è soprattutto la valorizzazione della professione dei giornalisti che sono figure di garanzia nel processo democratico. Mi è sempre piaciuto il motto del Washington Post: “La democrazia muore nelle tenebre”. Nel giornalismo c’è una forte missione sociale che l’automazione dell’informazione porterebbe all’estinzione. Il secondo tema è la sostenibilità della professione: chiaramente l’automazione ha un impatto sull’industria dell’editoria minandola dal punto di vista economico. Ecco un altro effetto che può rendere problematico il prosieguo di questo importante ruolo del giornalismo. Il terzo tema è la comparsa dei nuovi grandi player che in alcuni casi sono di fatto editori ma che in questo momento non ne hanno la responsabilità. Ne aggiungerei un quarto: la facilità con cui oggi chiunque può produrre con queste tecnologie disinformazione o notizie false in momenti in cui già viviamo una forte polarizzazione”. Il nodo gordiano della (de)responsabilità editoriale delle piattaforme su Internet viene da lontano: venne introdotta da Clinton e Al Gore nel 1996 con la Sezione 230 per, come si disse allora, non “uccidere” il bambino web in culla. L’Ai non rischia di godere della stessa deresponsabilizzazione? “Le faccio un discorso più ampio perché questo è il tema di grande dibattito non solo in Italia, ma a livello mondiale. Ne parliamo anche in sede Onu. Quella deregolamentazione originaria ha consentito la crescita di un enorme mercato, però non ha creato solo più ricchezza: ha ucciso altre ricchezze. Pensiamo a Uber nei confronti dei trasporti”. Causando anche concentrazioni di ricchezza... “Non solo: ha dato alle piattaforme il potere di vita o di morte sulle industrie. Dobbiamo ricordare che non stiamo più parlando di quel bambino in culla di Clinton, ma di piattaforme più grandi di interi Stati. Questo crea enormi tensioni perché le democrazie, per quanto fragili, restano la migliore soluzione”. Su questo tema, anche in sede Onu, immagino che si contrappongano grandi interessi economici... “All’Onu le posso dire che ci diciamo le cose in faccia. Piuttosto dovremmo chiederci se l’Onu, con le sue debolezze, sia il posto in grado di risolvere queste tensioni”. Il tema esiste anche a livelli più locali: come convincere le imprese a non cadere nella tentazione di usare l’Ai per tagliare i costi piuttosto che per il progresso? “È un problema di design della società: il tema è se vogliamo mettere in atto un design competitivo o di collaborazione rispetto all’umano. La diagnostica medica è un esempio di come possiamo usare il medico e l’Ai per migliorare la tutela della salute. Ci sono tanti argomenti a favore, ne presento uno: un’impresa ha una caratteristica che non è solo produttiva, ma è fatta anche dal know-how umano che le permette di difendere la propria eccellenza. Si può creare una situazione win-win sia per l’imprenditore che per i lavoratori”. Migranti. L’anno scorso 160mila sbarchi, ma il record fu nel 2016: “Ripensare l’accoglienza” di Paola D’Amico Corriere della Sera, 7 gennaio 2024 Secondo Giovanni Lattanzi di Aoi, servono meno Cas (Centri accoglienza straordinari) e più Sai (Sistema accoglienza integrato) gestiti sul territorio dai Comuni con le realtà del Terzo settore. Gli sbarchi di migranti lungo le nostre coste, nel 2023, sono stati poco meno di 160mila, per l’esattezza: 157.652. Numeri in crescita di circa il 40% rispetto al 2022, quando furono 105.129 e al 2021 quando si fermarono a 67.477. Lontano, comunque, dagli sbarchi record di cui si dibatte da mesi e che fanno restare attivo lo “stato di emergenza” dalla scorsa primavera. Nel triennio 2014-2016, infatti, gli ingressi in Italia furono superiori. Nel 2016 il picco, con 181.436 sbarchi. Ma Fondazione Openpolis, che ha diffuso i dati del Ministero dell’Interno, ridimensiona gli allarmismi e invita chi parla di “emergenza” a concentrarsi invece sul tema della accoglienza. Il Patto migrazioni e asilo in Ue - Il sistema di accoglienza sta ancora attraversando una fase di transizione a causa di una nuova riforma (la terza in 5 anni), “che per l’ennesima volta non sembra voler affrontare il tema in modo strutturale”, dicono da Openpolis. Intanto, lo scorso 20 dicembre il consiglio dell’Unione europea e il parlamento europeo hanno raggiunto l’accordo sul nuovo Patto migrazioni e asilo. Si tratta di un pacchetto legislativo che riforma le politiche migratorie nel vecchio continente. E si concretizza in una serie di dispositivi che “irrigidiscono le regole per l’accesso di richiedenti asilo e rifugiati nei paesi membri dell’Ue, dando continuità a una tendenza che ha portato, in questi anni, l’Europa a chiudere sempre di più le sue frontiere esterne”. Sbarchi da gennaio - Restando sulla cronaca, venerdì 5 gennaio a Salerno la Ong spagnola Open Arms ha sbarcato 60 migranti, 17 dei quali minori. Sabato mattina, poi, la Polizia di Stato con la Guardia di Finanza ha arrestato due cittadini egiziani appena ventenni tratti in salvo dalla stessa nave e accusati di essere scafisti di una imbarcazione partita dalle coste libiche con a bordo sei persone. Aoi e il modello di accoglienza SAI - Giovanni Lattanzi, dell’esecutivo Aoi (l’Associazione delle Ong italiane), conferma l’analisi di Openpolis e aggiunge: “Nei flussi ci sono alti e bassi ma non siamo in uno stato emergenziale. Il tema che va messo al centro di ogni discussione è quello della accoglienza. C’è un modello che funziona, il Sai-sistema di accoglienza integrato, che vede protagonisti i Comuni con le realtà del Terzo settore. Ma - aggiunge Lattanzi - si applica solo a chi ha già ottenuto la protezione internazionale non ai richiedenti”. Per i quali ci sono solo i Cas-Centri di accoglienza straordinari, “dove hanno un posto per dormire e un pasto ma nulla per l’integrazione, né corsi di alfabetizzazione, né formazione”. Una sorta di limbo dove si può restare mesi quando non anni, nell’attesa che la domanda di protezione internazionale sua accolta o respinta, Occorre cambiare passo, “attrezzarsi con un modello di accoglienza strutturale. Le nostre organizzazioni sono a disposizione”. In una parola, più Sai e meno Cas. L’esperto di Aoi aggiunge anche che “nel concetto di accoglienza strutturata va inserita la revisione del sistema di ingresso. Solo i canali regolari di ingresso fanno diminuire gli arrivi di fortuna e le morti nel Mediterraneo”. Migranti. L’isolamento nel Cpr di Torino ha ucciso Moussa Balde. Adesso il governo lo riapre di Alice Dominese Il Domani, 7 gennaio 2024 Secondo la valutazione tecnica fornita ai pubblici ministeri, Balde presentava evidenti segnali di instabilità psichica, eppure il responsabile sanitario del centro che lo visita si limita a segnalare la presenza di lesioni sul corpo, senza richiedere ulteriori accertamenti. Prima di togliersi la vita nel cosiddetto “ospedaletto” del Cpr di Torino, il 23enne Moussa Balde è stato vittima di decisioni sbagliate fin dal suo arrivo nella struttura. Lo sostengono alcune carte finora inedite del processo in corso che documentano le negligenze sanitarie avvenute nel centro di permanenza e rimpatrio vicino a corso Brunelleschi. Struttura chiusa, ora è tra i centri scelti dal governo Meloni per essere riattivati dopo una ristrutturazione. Il 10 maggio 2021, quando viene portato al Cpr, Balde è ferito e agitato, ma nella sua cartella clinica non ci sono cenni sul pestaggio subito il giorno prima a Ventimiglia, né sulla visita specialistica che gli era stata prescritta al pronto soccorso. Secondo la valutazione tecnica fornita ai pubblici ministeri, Balde presentava evidenti segnali di instabilità psichica, eppure il responsabile sanitario del centro che lo visita si limita a segnalare la presenza di lesioni sul corpo, senza richiedere ulteriori accertamenti come previsto dalle procedure nazionali e internazionali. In quelle condizioni, per lui si sarebbe invece dovuto predisporre subito una visita psichiatrica, dicono le carte. Il giovane guineano proveniva da una situazione di forte disagio: arrivato in Italia nel 2017 con uno sbarco a Lampedusa, era passato attraverso vari Cpr ed era riuscito a stabilirsi a Imperia, dove nel 2018 aveva conseguito la terza media. All’ennesimo respingimento della sua richiesta di protezione internazionale però, aveva iniziato ad abusare di alcol, provato psicologicamente dalle difficoltà incontrate. Il giorno dopo essere stato aggredito davanti a un supermercato, Balde viene trasferito a Torino dopo anni di permanenza in Liguria, inserito nuovamente in un Cpr e rinchiuso in isolamento. Il secondo pestaggio - Nelle 48 ore che trascorrono fra il suo arrivo in Corso Brunelleschi e il suo inserimento nell’ospedaletto (un’area isolata dal corpo centrale del Cpr), Balde viene picchiato una seconda volta. A dirlo è un mediatore culturale che riferisce di un’aggressione avvenuta per motivi razziali in una delle aree comuni del Cpr da parte di altri reclusi, ma anche di questo non c’è traccia in nessun documento reperibile, nemmeno nelle cartelle cliniche del centro. Secondo le testimonianze, la Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Torino aveva tentato di accertare la presenza di Balde nel Cpr cinque giorni dopo il suo arrivo, quando le era stato segnalato il pestaggio a Ventimiglia di un migrante arrivato in città. La direttrice del centro però aveva detto di non saperne nulla e aveva confermato la sua presenza alla garante solo il 21 maggio, due giorni prima del suicidio. Nonostante questo, Balde viene lasciato ancora una volta a sé stesso in isolamento, senza che venga fatta alcuna valutazione sulla sua condizione di vulnerabilità e del rischio suicidario. Mentre nessuno si accorge di lui, Balde trascorre 10 giorni nell’ospedaletto. Ci finisce due giorni dopo essere entrato nel Cpr, per una semplice psoriasi. Nonostante l’assenza di rischi di contagio, questo è il motivo che nella cartella clinica viene indicato come sufficiente a rinchiuderlo in una cella. Come hanno ribadito anche i pm, la psoriasi non giustifica tuttavia in alcun modo il suo isolamento nell’ospedaletto, che anzi potrebbe aver peggiorato la sua instabilità psichica. Proprio questa infiammazione della pelle può essere attribuita a stress post traumatico e sarebbe dovuta essere un ulteriore campanello di allarme per il medico curante, si legge nella consulenza tecnica. Isolamento mortale - Contro la psoriasi, a Balde viene prescritto un farmaco con effetti collaterali molto comuni, ma senza che avvenga un regolare monitoraggio della terapia. Dalle dichiarazioni raccolte durante le indagini, emerge infatti che le due infermiere dell’ospedaletto non avevano l’obbligo di monitorare l’assunzione dei farmaci da parte delle persone trattenute nel Cpr, eccetto gli ansiolitici. La loro attività di controllo sembrava insomma soltanto finalizzata a verificare che i sedativi facessero effetto. Sulla base di questa prassi, la terapia somministrata a Balde poco dopo il suo arrivo non viene verificata. Secondo la consulenza tecnica però, ciò è paradossale, dal momento che Balde era stato messo in isolamento per essere curato. Ad accrescere lo stato di abbandono del giovane migrante c’erano poi i limiti strutturali della cella. Tra le mura dell’ospedaletto dove Mossa Balde si è impiccato con un lenzuolo il 23 maggio, non si poteva comunicare in alcun modo con gli operatori sanitari. I sopralluoghi delle indagini hanno permesso di accertare che chi veniva inserito in isolamento non aveva accesso a citofoni, campanelli o a sistemi di videosorveglianza. Ma le linee operative indicate dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani e degradanti stabilisce che le celle utilizzate per l’isolamento dei detenuti devono essere munite di dispositivi che permettano una pronta comunicazione con il personale penitenziario. Anche questi, però, nel Cpr di Torino erano assenti. Dopo la morte di Balde, altre tre persone trattenute nel centro avrebbero tentato a loro volta il suicidio. Alcuni documenti dell’inchiesta parlano di reclusi affetti da gravi disturbi psichici che nello stesso periodo hanno rischiato la morte per sciopero della fame e per aver ingerito corpi estranei contundenti. Anche in questo caso, il medico del Cpr non avrebbe messo in atto nessun tipo di prevenzione. Tra coloro che hanno tentato il suicidio c’è il vicino di cella di Moussa Balde. Prima di entrare nel Cpr seguiva una terapia psichiatrica per gestire la propria aggressività e, dopo quello che è successo nell’ospedaletto, ha chiesto l’intervento di uno psicologo per riprendere il percorso di cura. Per lui e per gli altri due migranti, circa una settimana dopo la morte del ragazzo guineano, sono state richieste alcune visite psichiatriche. Lo stesso Balde avrebbe dovuto riceverne una proprio il giorno successivo, ha detto la garante ai pm, aggiungendo di aver appreso la circostanza solo dopo il suicidio. Migranti. Lamette ingoiate al Cpr di Milano. Manganellate contro chi protesta a Gradisca d’Isonzo di Angela Nocioni L’Unità, 7 gennaio 2024 Lamette ingerite dai detenuti al Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Milano. E polizia antisommossa la notte di capodanno a quello di Gradisca d’Isonzo, provincia di Gorizia. Il 31 dicembre al Cpr di Gradisca - senza riscaldamenti dagli inizi di dicembre - è stata anticipata la chiusura delle gabbie: alle 21 invece che alle 24. Tre ore in meno d’aria ai detenuti. In seguito alle rimostranze di alcuni dei prigionieri è intervenuta la polizia in tenuta antisommossa. Manganellate contro chi protestava, raccontano da là dentro. Il tentativo di sequestro dei telefoni cellulari ha causato ulteriori reazioni e proteste. Emergenza anche al Cpr, appena commissariato, di Milano. Lì detenuti hanno ingoiato delle lamette per poter essere portati in ospedale e uscire da lì. Quella che segue è la testimonianza di una attivista della rete Mai più lager, no ai Cpr. “A Gradisca, dove si sta al gelo, la struttura è fatta di celle da 6 con latrina interna e un cortiletto molto piccolo, con grate, cancelli e rete sul soffitto. Il cortiletto è separato dalla cella solo da vetri. Questo cortile ingabbiato è il luogo in cui le persone rinchiuse possono andare oltre alla minicella che è talmente piccola che mangiano sul letto. Per loro è vitale questo spazio. Il 31 dicembre hanno chiuso alle 21, hanno messo dei catenacci. Protesta dei detenuti. Arrivata polizia, una persona in tenuta antisommossa e uno col manganello che se l’è presa con chi più animosamente protestava. I feriti hanno chiesto di essere portati all’ospedale, ma invano. Lì c’è una infermeria. Già di solito non li portano in ospedale figurarsi dopo una protesta. Hanno provato a chiamare l’ambulanza, ma dall’ambulanza gli hanno risposto che non hanno l’autorizzazione ad entrare in cpr. I cpr di Gradisca e di Milano sono gli unici che lasciano il cellulare a chi è dentro. A Gradisca glielo restituiscono dopo l’udienza di convalida, glielo tolgono nelle prime 48 ore, che poi è quando una persona che finisce là dentro avrebbe più bisogno del telefono per contattare un avvocato. L’art 14 del testo unico dell’immigrazione dice che le persone rinchiuse devono avere libertà di comunicazione con l’esterno, anche telefonica. Quelle poche righe di quell’articolo sono l’unica disciplina legale, legittima, a regolare i Cpr. Il resto sono circolari, testi amministrativi. Quell’articolo è stato rinnovato dalla ex ministra Larmorgese e dispone che i telefoni cellulari siano lasciati nella disponibilità dei detenuti, in realtà vengono sequestrati all’ingresso ovunque e mai più resitutiti. Tranne a Milano, dove c’è stata una ordinanza del tribunale su un ricorso fatto da Asgi, l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione, nel marzo del 2021”. Cosa è accaduto esattamente con l’ingestione delle lamette da parte di alcune persone detenute? “È successo che stavolta, siccome il Cpr è commissariato da dicembre, hanno mandato all’ospedale quelli che avevano ingerito le lamette. Normalmente non succede. Prima del commissariamento potevi anche ingerire cose metalliche e ci mettevano giorni a mandarti in ospedale, se ti ci mandavano. Nei Cpr li tengono dentro anche se si sono ingoiati le lamette perché in qualche modo vengono poi vengono espulse. Accade spessissimo. Quasi tutti i giorni dentro i Cpr c’è qualcuno che ingerisce pezzi metallici. Di solito vengono ingoiati da persone che stanno per essere rimpatriate, lo fanno nella speranza di non essere rimpatriate. Stavolta a Milano è successo che le hanno ingerite di sicuro almeno 2 persone, una fonte ci ha detto che sono 7 in realtà. Poi, usciti dall’ospedale, sono state rilasciati per motivi di salute. Prima di essere rinchusi nel Cpr c’è una visita medica che certifica che la persona è in uno stato di salute idoneo a stare lì. Se sopraggiunge una inidoneità deve essere rilasciato subito. Presumo che siano stati rilasciati perché il Cpr è commissariato e non si poteva fare altrimenti, di solito non rilasciano nessuno perché s’è ingerito le lamette”. La lotta alle diseguaglianze è una priorità. Il merito è vittima di finanza e rendite di Chiara Saraceno La Stampa, 7 gennaio 2024 L’1% più facoltoso della popolazione mondiale è riuscito ad appropriarsi di due terzi della ricchezza. Il sistema protegge i grandi manager anche quando falliscono. Un anno fa l’organizzazione non profit Oxfam titolò il suo rapporto annuale sulle disuguaglianze economiche nel mondo “La sopravvivenza dei ricchi”. Esso infatti segnalava come, in un periodo caratterizzato da un susseguirsi e accavallarsi di crisi e incertezze forse senza precedenti, che provocavano un netto peggioramento nelle condizioni di vita di milioni di persone nel mondo, i più ricchi avevano aumentato la loro ricchezza e i profitti delle corporazioni avevano raggiunto livelli da record, con conseguente esplosione delle disuguaglianze a livello mondiale, tra Paesi e all’interno di ciascun Paese. In particolare, l’1% più ricco della popolazione mondiale si era appropriato di quasi due terzi di tutta la nuova ricchezza, per quasi il doppio del valore andato invece al 99% del resto della popolazione. In compenso, solo il 4% delle imposte deriva dalla tassazione della ricchezza e la metà dei miliardari ha la propria residenza in Paesi in cui l’eredità non è tassata. In attesa del nuovo rapporto Oxfam, dati dell’Osservatorio JobPricing commentati ieri su questo giornale da Marianna Filandri suggeriscono che il lungo trend nell’aumento delle disuguaglianze documentato da Oxfam negli ultimi anni, sta proseguendo. Come hanno argomentato ormai da diversi anni molti studiosi - da Atkinson a Picketty, da Mazzuccato a Franzini, Granaglia, Raitano, per fare solo alcuni nomi - i meccanismi che sottostanno a questo fenomeno non sono solo e neppure prevalentemente quelli alla base delle disuguaglianze cento anni fa, ovvero l’origine sociale e il capitale ereditato. Il reddito da lavoro è oggi centrale nella produzione della ricchezza. È un dato positivo, nella misura in cui lega la ricchezza all’impegno e alle capacità individuali. Ma, mentre la possibilità di sviluppare le proprie capacità e farle riconoscere continua, specie in Italia, ad essere in larga misura dipendente dall’origine sociale e da ciò che questa permette di acquisire in termini di istruzione, capitale umano e sociale, trasformazioni nel sistema economico e modalità di accesso e remunerazione delle posizioni apicali hanno trasformato queste ultime, in molti casi, in vere posizioni di rendita. Si è privilegiato in modo sproporzionato il profitto e la rendita rispetto al lavoro. Segmenti strategici del tessuto produttivo si sono concentrati in poche mani: i nuovi settori tecnologici sono stati protetti dalle prolungate tutele previste nelle norme sui brevetti. Molti governi hanno accettato la pressione delle grandi compagnie ad abbassare le tasse, arrivando a competere tra loro in operazioni di fiscal dumping. Molte aziende sono state acquisite da società finanziarie, poco interessate alla produzione in quanto tale, bensì ai vantaggi finanziari che possono derivare da scorporamenti e dismissioni. I settori della vecchia economia in concorrenza con le produzioni dei Paesi di nuova industrializzazione sono stati favoriti dalle politiche dell’offerta, ottenendo la flessibilità al ribasso nelle retribuzioni e negli oneri per il finanziamento della protezione sociale della forza lavoro meno qualificata. In questo contesto, come ricordava ieri Filandri, si è sviluppato per i top manager un sistema retributivo basato sui profitti riservati ai (grandi) azionisti, non sui risultati in termini di qualità e competitività del prodotto. Un sistema che protegge persino dall’insuccesso, con buonuscite molto generose, e che difende i propri privilegi controllando strettamente chi può entrare nella cerchia dei fortunati e muoversi con disinvoltura da una posizione all’altra, sia nel privato sia nel pubblico e tra l’uno e l’altro. Meccanismi in cui il merito, quando c’è, conta solo in piccola parte e certo non abbastanza per giustificare sia l’enorme sproporzione tra i redditi dei grandi dirigenti e quelli dei lavoratori medi, sia la generosa protezione in caso di allontanamento, protezione anch’essa lontana anni luce di quella concessa a chi non fa parte di questa élite, tanto più se povero, la cui meritevolezza è invece puntigliosamente verificata. Anche per questo le posizioni apicali nelle grandi imprese private o partecipate, nelle banche e nelle fondazioni sono diventate oggetto di contesa e scambio politici. A fronte di queste disuguaglianze inaccettabili opporsi all’introduzione di un salario minimo decente legale appare quanto meno arrogante. Ma occorre avere il coraggio di provare a contrastare i meccanismi che producono le disuguaglianze denunciate da Oxfam e dall’Osservatorio JobPricing. Le proposte non mancano, dall’introduzione di un’imposta del 5% su tutte le grandi ricchezze a livello mondiale, a una ragionevole tassazione dell’eredità, al contenimento dei compensi diretti e indiretti dei grandi manager, alla rottura di posizioni monopolistiche. Molte di queste proposte hanno senso e possibile efficacia solo se basate su un consenso e un’azione a livello internazionale. Esse sono state al centro di molte iniziative della campagna per le ultime elezioni europee da parte delle forze progressiste, che avevano proprio nel contrasto alle disuguaglianze uno dei punti principali della propria agenda. Quale sia l’agenda di queste forze per le prossime elezioni e il futuro dell’Unione ancora non è dato sapere. Fermare la rabbia impotente che cresce nel mondo di Mario Giro* Il Domani, 7 gennaio 2024 Un mondo pieno di rabbie contrapposte diventa peggiore. In guerra tutti sono arrabbiati con tutti, per motivi giusti o sbagliati. Lasciarsi guidare dalla rabbia basata sulle proprie ragioni permette all’avversario di fare altrettanto. Cresce la rabbia e si moltiplica. Cresce perché non si arrestano i bombardamenti su Gaza con decine di migliaia di vittime civili, da far impallidire l’antico “occhio per occhio”. Cresce perché sono stati uccisi in poche settimane oltre 66 giornalisti nella Striscia mentre nella guerra di Ucraina in quasi tre anni meno di venti. Cresce perché è ormai chiaro che le regole di ingaggio dei soldati israeliani sono di sparare alla cieca su tutto ciò che si muove, abbattendo senza imbarazzo anche i propri concittadini, inclusi gli ostaggi, oltre che povere donne cristiane in cerca di un bagno. Cresce perché il gabinetto di guerra israeliano sembra sordo ai consigli dei propri alleati e ammette la distruzione di chiese, scuole, moschee e ospedali. Cresce perché non si ricordano più le 1.400 vittime di Hamas, atrocemente trucidate, e i terroristi paiono aver vinto la battaglia della comunicazione e della propaganda. Cresce la rabbia perché le donne israeliane barbaramente violentate, torturate e uccise sembrano valere di meno delle altre, almeno nelle università americane e inglesi. Cresce perché dei bambini israeliani uccisi e decapitati nessuno parla più e tutto viene coperto dal rumore delle bombe su Gaza. Cresce la rabbia di molti israeliani perché Netanyahu non è interessato ai rapiti, rifiuta ogni responsabilità e si aggrappa al potere ad ogni costo. Cresce perché i coloni continuano ad uccidere e provocare i palestinesi nella West Bank e perché i palestinesi perseverano nel cedere al terrorismo e ai suoi metodi. Cresce perché nessuno riesce a proporre una soluzione a questa crisi che si allarga a Beirut e forse a Teheran. Cresce perché il Consiglio di sicurezza dell’Onu è bloccato dai veti incrociati. Cresce la rabbia perché la Russia approfitta della crisi di Gaza per rilanciarsi, così come l’Iran. Cresce perché gli occidentali stanno raffreddando i loro entusiasmi per la guerra in Ucraina e Mosca ha ripreso ad avanzare. Cresce perché vi sono numerose guerre dimenticate dove si muore tantissimo ma nessuno ne parla. Cresce perché l’Armenia sta morendo nel disinteresse globale. Cresce perché gli aiuti umanitari vanno in poche direzioni e molte crisi sono abbandonate. Cresce perché la ribellione jihadista in Africa prosegue senza che nessuno se ne occupi. Cresce perché, quando ce ne sarebbe bisogno, l’Occidente è assente, mentre si immischia quando non dovrebbe. Cresce perché le istituzioni multilaterali sono trascurate e non ascoltate. Cresce perché la crisi pandemica e quella ecologica oggi sembra che non siano mai esistite. E così via… in un crescendo di rabbie intrecciate. Tutte queste rabbie - contrapposte o no - hanno un fondamento ma provocano violenza, approfondiscono l’odio e le contese, spingono all’uso delle armi, causano nuove guerre. Tuttavia a guardarle con distacco appaiono tutte segnate dalla medesima caratteristica: l’impotenza. Anche la furia di Israele su Gaza, per quanto micidiale e altamente distruttiva, rimane assolutamente impotente: non distruggerà Hamas (semmai l’opposto); non aumenterà la propria sicurezza anzi certamente la peggiorerà (aggravando la condizione delle comunità ebraiche nel mondo) e non risolverà in alcun modo la questione palestinese, nemmeno alle proprie condizioni. Anche quando pare giustificata da ragioni oggettive, la rabbia resta incapace di dirimere alcunché. Con la guerra in Ucraina si è scatenata una forte rabbia contro l’aggressione russa in violazione di un principio fondamentale: l’intangibilità delle frontiere. Tra occidente e Russia si è creato un fossato che non esisteva nemmeno durante la guerra fredda. Il resto del mondo è rimasto attonito e non ha voluto schierarsi, provocando altra rabbia sia in occidente che a Mosca. Poi la ripresa della guerra a Gaza ha mostrato il vero volto di ogni conflitto: è molto difficile separare la ragione dal torto. La guerra israelo-palestinese ha una lunga storia in cui tutti hanno commesso numerosi errori e orribili azioni. Anche quella in Ucraina ha una sua storia, precedente il 2014, e tutti i protagonisti hanno colpe da farsi perdonare. Dividere una contesa in buoni e cattivi non funziona ma produce solo altra rabbia. Di conseguenza non si ragiona più con lucidità. Si capisce che è difficile nel caso di atrocità come quelle del 7 ottobre o dell’invasione del 24 febbraio, ma a un certo punto va recuperata. Israele ne ha estremo bisogno così come i paesi arabi e la Palestina, ma anche Mosca, Kiev, l’Europa e Washington. Non è saggio lasciarsi guidare dalla rabbia impotente basata esclusivamente sulle proprie ragioni: l’avversario farà altrettanto provocando un gorgo infinito. Il vortice della rabbia trascina nell’abisso: fermarsi prima che ciò accada è semplice razionalità. *Politologo Il dramma dimenticato del Sudan, Emergency: “Qui la guerra è arrivata ovunque” di Luca Attanasio Il Domani, 7 gennaio 2024 Nel paese devastato dal conflitto anche la Ong è stata costretta ad abbandonare l’ospedale da campo. Il vicecoordinatore locale: “Ora anche aree che erano tranquille sono divenute teatro di combattimenti”. Sul finire di un anno disastroso per il Sudan, si è aperto un nuovo fronte in un’area fin qui risparmiata dal conflitto che sta devastando il paese africano da oltre otto mesi. Le Rapid Support Forces (Rsf), milizie paramilitari sotto il comando di Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemedti, attorno alla metà di dicembre hanno lanciato un attacco a sorpresa alla città di Wad Madani, nello Stato di Aj Jazirah, oltre 150 km a sud-est di Khartoum. Dopo alcuni giorni di intensi bombardamenti aerei da parte delle Sudanese Armed Forces (Saf), cui ha risposto l’artiglieria delle Rsf, le Saf hanno battuto in ritirata lasciando campo aperto alle truppe di Hemedti. Gli scontri e l’ingresso delle forze paramilitari hanno terrorizzato la popolazione, che ha lasciato in massa le proprie case cercando rifugio in altre safe haven del paese, che, a causa del dilagare del conflitto, si riducono di settimana in settimana. Secondo l’Onu, dall’area, che aveva ospitato fino a un paio di settimane fa mezzo milione di persone scappate dalla capitale, sarebbero già 300mila le persone in fuga. La situazione di emergenza umanitaria in cui versa il Sudan dal 15 aprile scorso investe moltissimi campi vitali, quali la fornitura di cibo, acqua e beni primari, l’educazione e, in modo drammatico, la sanità. In tutto il paese, infatti, restano pochissimi centri sanitari in funzione, e ora anche nell’area di Wad Madani gli ospedali - come riporta il sindacato dei medici sudanesi - “si stanno svuotando e potrebbero essere costretti a chiudere”. È del 29 dicembre la notizia della sospensione delle attività mediche e dell’evacuazione dei team di Medici senza frontiere (Msf) in aree più sicure, anche in paesi limitrofi, a seguito di un attacco da parte di uomini armati al proprio compound. Poco prima era toccato ad Emergency. Lo staff della clinica aperta ad agosto a Wad Madani per i pazienti bisognosi di terapia a vita impossibilitati a raggiungere l’ospedale della ong nella capitale a causa del conflitto è stato costretto alla fuga. Per avere informazioni direttamente dal campo, Domani ha raggiunto al telefono Nassir Ahmed, vice coordinatore del programma di Emergency in Sudan. Vi aspettavate che gli scontri arrivassero anche in quest’area? Assolutamente no. Wad Madani è il cuore del Sudan, è la zona commerciale ed economica del paese, un’area di calma dove si poteva ancora investire. È il centro di uno dei maggiori progetti agricoli di tutto il continente africano, insomma una città molto importante. È un luogo molto strategico sulla riva occidentale del Nilo Azzurro. Non c’erano stati combattimenti fino a ora, e siamo rimasti molto sorpresi quando abbiamo saputo dell’attacco delle Rsf. Al momento qual è il rapporto di forze nell’area? Le Rsf hanno il controllo di tutta la città. Sull’andamento dei combattimenti, poi, ci sono delle cose che non risultano chiare. Nei primi due giorni, le Saf hanno risposto duramente al fuoco nemico e bloccato il ponte di ingresso alla città. Poi, improvvisamente, il ponte è stato aperto e le Rsf sono entrate indisturbate. Non so se si tratti di tattica o di crollo totale da parte dell’esercito. Ora che avete dovuto abbandonare il polo sanitario a Wad Madani sorto per i pazienti operati al cuore che non riuscivano a raggiungere il vostro centro Salam a Khartoum, che ne sarà di loro? Questo è un problema molto serio. Tutto lo staff composto da dieci persone ha dovuto andarsene e chiudere il centro. Ci siamo inizialmente spostati verso sud, e lo staff è rimasto allocato a Sennar per qualche giorno. Purtroppo, però, anche lì si sono verificati scontri negli scorsi giorni, e lo staff è stato spostato a Soba (Khartoum), dove si trova il nostro centro Salam di cardiochirurgia. Non escludiamo di riaprire la clinica a Wad Madani nei prossimi giorni se gli scontri termineranno e le condizioni di sicurezza lo permetteranno. Dei poli sanitari di Emergency, restano aperti il Salam Centre di Khartoum, il centro pediatrico a Port Sudan e un’altra clinica satellite ad Atbara. Com’è la situazione attorno a questi centri? Ci sono pericoli? E ci sono novità sul vostro centro pediatrico a Nyala chiuso di recente a seguito dell’arresto di membri del vostro staff da parte delle Rsf? Lì la situazione è tranquilla, sono tutti centri lontani dalle aree di conflitto. A Nyala, invece, a ottobre il centro è stato totalmente saccheggiato e lo staff preso in ostaggio dalle Rsf. Fortunatamente, dopo poco tempo, i nostri operatori sono stati rilasciati e le Rsf hanno prima chiesto scusa e poi annunciato la volontà di ricompensare in qualche modo. La nostra intenzione, quindi, è di riaprire al più presto. Abbiamo medicine per la terapia anticoagulante che acquistiamo nel mercato locale che abbiamo ripreso a fornire ai nostri pazienti di Nyala. La clinica, come dicevo, è stata saccheggiata, quindi al momento è vuota, ma almeno funziona per la distribuzione di medicine e per i controlli. Circa un mese fa c’è stato un attacco contro la Croce rossa internazionale, due operatori sono morti e sette rimasti feriti, ci sono timori che altri organismi umanitari vengano colpiti? Devo dire che quell’attacco è pieno di elementi poco chiari, sono certo che purtroppo sono stati commessi alcuni errori fatali. Il lavoro della Croce rossa è differente dal nostro. Posso dirle con certezza che qui a Khartoum, dove ora mi trovo, dall’inizio della guerra non abbiamo avuto alcun problema. Le Rsf (che controllano l’area dove sorge l’ospedale, ndr) ci rispettano, e abbiamo buoni contatti anche con le Saf. Non siamo un target e non pensiamo di essere in pericolo. Qual è la situazione generale della sanità nel paese? Prima della guerra era vicina al collasso, ora è praticamente a un passo dal baratro. Nello stato di Khartoum, che è grande quanto la Francia, funzionano solo 4/5 ospedali. Ora anche aree tranquille dove si poteva operare senza grossi problemi sono divenute zone di conflitto. È quindi doveroso ammettere che purtroppo il sistema è collassato nel complesso. Di recente ci sono state flebili speranze di un incontro tra al Burhan ed Hemedti, ha fiducia che i due si parlino presto? Non è facile che si incontrino, non dipende solo da loro, poi. Dietro ognuno di loro ci sono forze e interessi. Per questo credo che la comunità internazionale debba fare pressione su chi li sostiene: Egitto, Qatar e Turchia dietro ad al Burhan, e Ciad, Emirati Arabi Uniti e Kenya dietro a Hemedti. Afghanistan. Le ragazze sfidano il divieto allo studio con i corsi online di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 7 gennaio 2024 Decine di migliaia di donne e ragazze afghane hanno sfidato il divieto allo studio imposto dai talebani alla fine del 2022 iscrivendosi a programmi di studio online. A rivelarlo sono stati gli stessi istituti che offrono corsi sul web. Tra le materie preferite inglese, scienze ed economia. A raccontarcelo è il Financial Times. L’Unicef, il fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia, stima che il divieto abbia colpito più di 1 milione di ragazze. L’apprendimento online è cresciuto le difficoltà a connettersi ad Internet. Un sondaggio Gallup del 2022 ha rilevato che il 25% degli uomini ha dichiarato di avere accesso al web rispetto al 6% delle donne, una cifra che scende al 2% nelle zone rurali. FutureLearn, una piattaforma che offre 1200 corsi universitari, ha affermato di aver iscritto più di 33.000 studenti afghani, soprattutto donne, da quando ha offerto loro l’accesso gratuito. Mentre University of the People, un altro istituto di istruzione superiore, ha affermato che più di 21.000 afghane hanno fatto domanda lo scorso anno per i suoi corsi di laurea, tra le materie preferite economia, informatica e medicina. Purtroppo le continue interruzioni di correnti e le difficoltà di connessione creano grossi problemi alle ragazze che si sono iscritte ai corsi online. University of the People ha cercato di ovviare al problema fornendo sessioni asincrone e libri di testo online. “Per proteggere la loro sicurezza, UoPeople chiede alle nostre studentesse afghane di studiare a porte chiuse in modo da non essere scoperte dai talebani - ha detto Daniel Kalmanson, vicepresidente dell’università online - Inoltre, permettiamo loro di utilizzare una falsa identità in classe”.