Quel che rimane dell’umanità nel girone infernale del carcere di Rosalia Alberghina Il Domani, 6 gennaio 2024 Lo scorso 29 dicembre, nell’ambito del progetto “Natale in carcere” promosso dal Partito radicale e dall’Osservatorio nazionale Aiga sulle carceri, come direttivo della sezione Aiga Palermo abbiamo avuto la possibilità di entrare nella casa circondariale Pagliarelli di Palermo. Scopo della visita era quello di vedere con i nostri occhi le condizioni in cui vivono i detenuti, raccogliere dalle loro parole, e da quelle del personale che lavora all’interno della casa circondariale a vario titolo, le criticità e i problemi della struttura e dell’organizzazione della stessa. Da avvocato penalista ero già entrata nelle carceri palermitane per un’udienza in aula bunker o per colloqui con clienti detenuti, ma accedere alle celle, parlare con i detenuti, è stata un’esperienza umana e professionale decisamente forte. Il nostro tour è cominciato dalla sezione “Venti”, quella di alta sicurezza, ed è stato subito un pugno allo stomaco. Attraversiamo un lungo corridoio, le pareti sono ricoperte da murales a tema siciliano, un’esplosione di colori che contrasta con l’architettura spoglia del reparto. Ci dirigiamo al terzo piano salendo dei gradini piuttosto alti. “È faticoso farli tante volte al giorno”, mi conferma uno degli ufficiali di polizia penitenziaria che ci sta accompagnando nella visita. Sfiliamo davanti alle celle chiuse, quasi tutti raggiungono le sbarre per vedere chi sta arrivando. Salutano cordialmente, ogni tanto qualcuno di noi si ferma davanti a una cella e comincia a parlare con i relativi inquilini. Sopravvivere - Dopo i primi momenti di titubanza anche io scelgo una cella e mi ci avvicino. Il detenuto è da solo nonostante ci siano due letti. Leggo il nome e il cognome dell’occupante scritto a penna su una targhetta appesa fuori. Gli spiego chi sono e perché mi trovi lì. Gli dico che sono un avvocato e che lo scopo della visita è quello di vedere in che condizioni vivono - ho un rigurgito di pudore e mi correggo - in che condizioni sopravvivono all’interno del carcere. Ha 60 anni, ne dimostra parecchi di più. Si lamenta del freddo che li affligge lì dentro, getto un’occhiata al termosifone arrugginito collocato proprio fuori dalla cella: è spento, come tutti gli altri. Anche la direttrice mi conferma che l’impianto di riscaldamento non funziona, e aggiunge che lì la cosa peggiore da sopportare è il caldo. D’estate diventa intollerabile. Penso all’ironia del nome scelto per la sezione, che si chiama “Scirocco”. È in attesa di giudicato, si trova al reparto alta sicurezza da un anno. Gli chiedo se qualcuno lo vada a trovare e mi dice che più che altro fa la videochiamata con i suoi figli per un’ora alla settimana. La moglie è morta qualche anno fa, e i figli vivono nella sua città di origine, sono in gamba, non vuole che lo vadano a trovare. “Almeno sua moglie non l’ha vista qui dentro”, gli dico in un goffo tentativo di dare un sollievo a uno sconforto che non può trovare ristoro. Lo saluto, gli auguro in bocca al lupo per il suo processo. Mi viene data la possibilità di entrare all’interno di una cella, gli ospiti sono due uomini di circa quarant’anni, hanno entrambi barba e capelli neri e gli occhiali, come quasi tutti gli altri indossano una tuta. Non c’è molto da girare, la cella è tutta lì: 12 metri quadrati in cui sono collocati come se fosse una partita di tetris due letti, un tavolino, un bagnetto vecchio e malconcio, e poco altro. La biancheria lavata è appesa alla finestra, mi sembra di violare quel poco di privacy di cui dispongono. Li ringrazio, uno dei due mi offre una caramella alla menta che non ho il cuore di rifiutare, la infilo nella tasca del cappotto e li saluto. La cella a fianco è occupata da un uomo di 35 anni, ha un sorriso luminoso che cozza con tutto il resto: con lo squallore della cella, con i crimini per i quali è stato condannato, con la misera esistenza che vive da 10 anni nelle maglie del sistema penitenziario. Gli faccio delle domande, si vede che vuole chiacchierare un po’. Mi risponde che aveva 25 anni quando è entrato, si era sposato da due mesi. Sua figlia è nata quando lui era già in carcere. Non ha mai conosciuto suo padre come uomo libero, questo lo penso io, ma ovviamente non glielo dico. 16+8+4 è il cumulo delle pene che dovrebbe scontare. Dai suoi calcoli, tra continuazione e liberazione anticipata dovrebbe fare almeno altri 7 anni. Non conosco la sua situazione processuale, ma temo che i suoi calcoli siano un po’ ottimistici. Anche questa riflessione la tengo per me. Sono numeri che pesano, numeri inesorabili che lo separano dalla fine di questa non vita, ma che incredibilmente non gli smorzano il sorriso. Mi è venuto spontaneo dargli del tu quando ho cominciato a parlargli. Dimostra molti meno dei suoi anni, glielo dico e lui mi regala un altro sorriso che mi rallegrerebbe se riuscissi a dimenticare che è un detenuto di alta sicurezza che, a giudicare dalle pene a cui è stato condannato, con ogni probabilità si è macchiato di crimini molto gravi. Gli chiedo invece come trascorre le lunghe ore in cella: si tratta di 18 ore al giorno in un “loculo” in cui mangiano, dormono, cucinano, si allenano, lui fa le flessioni nello spazio tra i due letti. Mi dice che in carcere si è preso la licenza media e che non ha continuato a studiare perché vorrebbe fare il liceo artistico. Gli consiglio di continuare a studiare, di prendere un diploma, va bene quello alberghiero (l’unico di cui può usufruire all’interno di questo istituto di pena) e che deve nutrire anche la sua testa. L’allenamento lo ha mantenuto giovane nell’aspetto. “Conserva giovane anche il tuo cervello leggendo dei libri”, gli dico. Lui in risposta me ne mostra tre che ha preso in prestito alla biblioteca del carcere. Lo saluto, gli raccomando di prendersi il diploma. “Una volta uscito da qui ti sarà utile”, aggiungo sperando che sia vero. “Mafioso d’ufficio” - Raggiungo un collega che sta parlando con un altro detenuto. Ha un aspetto distinto, nonostante l’abbigliamento sportivo, parla quasi senza inflessione dialettale. Faccio l’avvocato penalista da 16 anni e distinguo con uno sguardo i delinquenti abituali da chi non è avvezzo ai problemi giudiziari. Mi dice che è un imprenditore, professa la sua innocenza. Sta scontando una pena definitiva di 7 anni, a febbraio uscirà. Non siamo autorizzati ad ascoltare i particolari giudiziari dei detenuti, non gli faccio domande anche se mi pare chiaro che sia stato condannato per reati relativi alla criminalità organizzata. “Quando uscirò da qui, fra due mesi, vorrei poter raccontare la mia storia. Sono stato considerato mafioso d’ufficio”, chiosa con un tono colmo di frustrazione. Gli dico di tenere duro, che due mesi passano velocemente. Mi dice che lui ha la fede e la lettura che lo aiutano. Gli rispondo che la fede mi manca, ma credo nel potere salvifico dei libri. “Esco meglio di come sono entrato”, è questa la frase con cui si congeda. Mi rimane impressa. È il contrario di tutto quello che ho pensato oggi mentre mi sfilavano davanti i volti dei detenuti ristretti in queste celle minuscole. Dove sarebbe il fine riabilitativo di una pena scontata in queste condizioni? Come si potranno reinserire nella società queste persone? La visita prosegue poi nel reparto “Mari” di media sicurezza destinato alle categorie protette. Anche qui le celle sono minuscole, un ragazzo si affaccia tra le sbarre quando gli passo davanti, non mi fermo, proseguo fino in fondo al corridoio, rivolgo un saluto a tutti i detenuti che si sono affastellati davanti le celle per sbirciare il nostro passaggio. Torno indietro, il ragazzo è ancora lì, con le braccia che sporgono dalle sbarre, gli chiedo come si chiama e da quanto tempo è recluso. È in carcere da un mese, mi risponde, e nel frattempo il compagno di cella lo raggiunge. Saluto anche lui, rimango nonostante sia infastidita dal fumo della sua sigaretta che mi riempie le narici. Mi dice che lui uscirà presto perché si disintossicherà in comunità. “Glielo auguro”, è il mio silenzioso auspicio per lui. Il cappellano - L’incontro con fra Loris è una boccata d’aria fresca dopo le visite appena fatte. È uno dei cappellani del carcere. Ha lo sguardo limpido di chi ha un cuore grande e buono. Mi racconta delle molteplici attività che organizzano per i detenuti. Gli domando se abbiano fatto qualcosa di particolare per Natale. Il frate si illumina in volto, mi racconta che un coro di bambini di scuola elementare e media ha fatto il suo ingresso all’interno dell’istituto. Il momento dei canti natalizi è stato molto coinvolgente. La presenza dei bambini, la dolcezza dei loro canti ha provocato una grande emozione nei detenuti, che esplodevano in boati di gioia, forse perché quei bambini gli ricordavano i figli o i nipoti fuori dal carcere. Gli occhi di fra Loris sono liquidi per la commozione, credo anche i miei. Ma siamo all’interno di una casa circondariale, e il nostro viaggio è arrivato alla meta più dura: il reparto psichiatrico. Il reparto psichiatrico è un girone dell’inferno: una delle sezioni è chiusa per un caso di scabbia. Appena sento questa parola, la suggestione prende il sopravvento e mi sembra di avere prurito sulle braccia e sulle gambe. Provo a scacciare il pensiero di una malattia che dovrebbe essere debellata da secoli, e proseguo insieme agli altri per le sezioni del reparto. A guidarci stavolta è lo psichiatra, approfitto della sua disponibilità per porgli alcune domande. Quali sono le patologie riscontrate più spesso? Come distinguere le psicosi reali dalle eventuali simulazioni? Le patologie sono spesso disturbi di personalità o di socialità, gli episodi psicotici possono essere pregressi o, come accade abbastanza frequentemente, derivanti dallo stato di detenzione. Mi conferma che alcuni detenuti simulano comportamenti psicotici nella speranza di essere dichiarati incompatibili con la vita carceraria. Nella prima cella dell’osservazione psichiatrica c’è un uomo dai capelli grigi, come la barba, guarda un punto indefinito davanti a sé, non si muove nemmeno di un centimetro quando noi gli passiamo davanti. Chissà in quale mondo si è perso, mi domando. Guardo lo psichiatra e gli chiedo: si può simulare un tale smarrimento? “No, non credo”, mi risponde. Il settore di degenza psichiatrica mette i brividi: le celle sono “lisce”, come le definisce il dott. C. Sono prive di suppellettili e il materasso è adagiato a terra, non ci sono nemmeno le reti. Qualsiasi oggetto che possa diventare un potenziale pericolo è bandito. La prima cella è occupata da un ragazzo africano, ha due braci senza fondo al posto degli occhi, ha uno sguardo che ti lacera l’anima. Guardo di nuovo il dottore, la richiesta è sempre la stessa di prima, la sua risposta idem: sì, anche lui, per il suo parere professionale, è un paziente psichiatrico a tutti gli effetti. In più c’è l’ostacolo linguistico ad aggravare la difficoltà di una diagnosi completa. Guardo questo ragazzo, quell’abisso che ha negli occhi non lo si può ignorare, è quel tipo di dolore che ti rimane addosso, ti rimane impresso e te ne porti il ricordo anche fuori. Nel frattempo, dal settore di osservazione psichiatrica arrivano dei boati assordanti. È qualcuno che sbatte contro il vetro della finestra con violenza. Si tratta di un detenuto proveniente da un altro istituto, è arrivato da meno di un’ora, ci dicono. Tutti quanti capiamo che è arrivato il momento di abbandonare il reparto. Siamo degli intrusi in un luogo di troppo dolore, i detenuti non hanno voglia di chiacchierare con noi. Settore femminile - L’ultima tappa del nostro tour è il settore femminile, che viene definito un bijou rispetto al settore maschile dalla dottoressa Sabrina Giordano, operatrice e nostra guida della giornata. Effettivamente il reparto ospita un esiguo numero di detenute (appena 73), gli spazi all’interno delle celle sono molto più ampi. Ne individuo una in fondo a destra dello spazioso corridoio, le detenute sono tutte in piedi davanti alla porta. Quando mi avvicino, si scostano per farmi entrare. Io gli domando il permesso e loro, forse stupite da quell’accorgimento, mi dicono con grande cortesia di entrare. La cella è abbastanza grande e luminosa, ci sono dei letti a castello ma sembra che il letto di sotto sia adibito a dispensa, sono pieni di cassette d’acqua e di generi alimentari. Parlo con tutte, ma colei che mi colpisce maggiormente è una signora di 50 anni, è in carcere da 11 anni e sta scontando un ergastolo. Le chiedo informazioni su come si procurino i generi alimentari che loro stesse cucinano all’interno della cella. Cosa potrei dirle sul carcere a vita? Che forse quando avrà trascorso almeno 26 anni in detenzione potrà aspirare alla libertà condizionale? Mi spiega che lei lavora all’interno del carcere, riceve lo stipendio sul suo libretto e una volta a settimana fanno la spesa, che gli viene recapitata il giovedì. Faccio qualche domanda sui prezzi per capire se sono concorrenziali, e lei mi conferma che sono normali. Lasciato il reparto con le celle, una delle agenti di polizia penitenziaria ci guida all’interno delle parti comuni del settore “Monti”, quello femminile appunto, ove sono presenti una parrucchieria ben attrezzata, una biblioteca, una sala di meditazione, una cucina dedicata al laboratorio “Pane spezzato”, in cui le detenute, insieme a fra Loris, realizzano le ostie per le chiese. L’agente ci illustra tutto con grande orgoglio come una padrona di casa che fa fare il tour della sua casa, e forse per lei quel reparto è davvero diventato una seconda casa. Dopo quasi 4 ore, la nostra visita è finita. Sono la prima che esce, un senso di claustrofobia reclamava uno spazio aperto. Respiro a pieni polmoni appena fuori dalla struttura. L’aria di un dicembre mite è più calda della temperatura all’interno delle sezioni. Il freddo che ho sentito dentro al carcere mi è rimasto nelle ossa, la desolazione è invece appiccicata agli occhi e alla mente. Quello che ho appena visto lì dentro non ha nulla a che fare con la rieducazione del reo, né con il suo reinserimento nella società, non ha nulla a che fare nemmeno con l’umanità. “Gli Icam? La situazione è peggiorata” di Antonio Averaimo Avvenire, 6 gennaio 2024 L’ex parlamentare Pd Paolo Siani: “Per donne e bambini meglio puntare sulle case famiglia protette”. Non solo non c’è stato quel passo in avanti che tutto il Parlamento aveva dimostrato di volere. Al contrario, con la nuova legislatura la situazione è peggiorata: prima la proposta di legge che puntava a tutelare i bambini rinchiusi in carcere con le proprie madri è stata affossata, poi il governo ha approvato addirittura norme ancora più severe”. A parlare è Paolo Siani, primario di Pediatria presso l’ospedale Santobono di Napoli e deputato Pd nella scorsa legislatura. Siani è il padre della proposta di legge che puntava soprattutto sulle case famiglia protette, attualmente solo due in Italia. Lì i bambini che attualmente sono detenuti con le loro madri potrebbero vivere un’infanzia diversa da quella che sono costretti a vivere negli Icam, i quattro istituti a custodia attenuata attivi sul territorio italiano, e nelle carceri femminili. La proposta di legge del medico napoletano - che non riuscì a essere approvata solamente a causa dello scioglimento delle Camere - è stata ripresa nell’attuale legislatura dalla deputata del Pd, Debora Serracchiani, che però l’ha ritirata nel marzo dell’anno scorso in seguito a interventi ritenuti peggiorativi ad opera dei partiti di governo. Quegli stessi partiti che non molto tempo prima avevano appoggiato il progetto di legge di Siani e che nel novembre scorso hanno inserito nel decreto sicurezza, approvato dal governo e ora all’esame del Parlamento, leggi più severe sulle detenute madri. Il nuovo pacchetto di norme prevede infatti che le donne incinte e le madri di bambini fino a tre anni siano sottoposte a “un regime più articolato per l’esecuzione della pena” e che il rinvio obbligatorio attualmente in vigore della carcerazione per le donne in gravidanza e madri di bambini di meno di un anno sia cancellato, destinandole agli Icam. “Ho avuto modo di visitare l’Icam di Lauro, in provincia di Avellino, quello che ospita più bambini - dice Siani Per quanto lì si cerchi di rendere la vita dei bambini reclusi con le madri meno dura, è pur sempre un carcere. E nessun bambino può vivere in un carcere: è un’assurdità”. Secondo il pediatra ed ex deputato democratico, “bisogna invece puntare sulle case famiglia protette: ce ne dovrebbe essere una per ogni regione. Attualmente ve ne sono solo due, e solo una è attiva. Tutto il sistema è invece in capo agli Icam”. Siani non si capacita del dietrofront dei partiti di maggioranza, lui che si alzò dal suo banco in Aula per andare a ringraziare la deputata di FdI, Maria Teresa Bellucci, che aveva presentato una proposta di legge simile e aveva deciso di votare, insieme al suo gruppo, quella del collega del Pd. L’ex deputato del Pd ne fa una questione di diritti e di salute del bambino. “L’articolo 3 della Convenzione internazionale dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, ratificata dall’Italia nel 1991 dispone che “in tutte le decisioni che riguardano i bambini e gli adolescenti, le istituzioni devono sempre tenere conto di quale sia la cosa migliore per loro, cioè del loro superiore interesse. In più, la medicina ci dice che la detenzione in tenera età può generare danni seri allo sviluppo fisico e psichico del bambino, che si faranno sentire anche da adulto. Parliamo di cicatrici che questi bimbi porteranno con sé per tutta la vita. Insomma, siamo di fronte a un paradosso: per rieducare le madri, condanniamo i figli”. Anche se non è più deputato, Siani prosegue la sua battaglia a favore dei figli delle donne detenute, cominciata dallo choc che provò quando seppe che una donna reclusa nel carcere di Rebibbia aveva ammazzato i suoi due figli, costretti a stare in carcere come lei, lanciandoli dalle scale. “Mi rivolgo ai parlamentari chiamati a discutere le norme approvate dal governo: “Prima di approvare queste norme, visitate gli Icam, cercate di conoscere davvero qual è la realtà in cui questi bambini sono costretti a vivere. Probabilmente i nostri parlamentari non immaginano nemmeno minimamente il disagio che un bambino vive lì dentro”. Perché non (ri)attivare i “Consigli di aiuto sociale” e i “Comitati per l’occupazione”, previsti dalla legge penitenziaria? di Desi Bruno* Ristretti Orizzonti, 6 gennaio 2024 L’ordinamento penitenziario prevede agli artt. 74 -77 un apposito organismo, istituito presso ogni Tribunale, volta a favorire il reinserimento sociale dei detenuti e sostenere le vittime di reato. È una norma introdotta con la riforma del 1975, ma di fatto quasi mai utilizzata, anche se di recente è stata attivata presso il Tribunale di Palermo. Siamo abituati da decenni ad accordi, convenzioni, tavoli, commissioni più o meno permanenti sui temi del carcere, meritoriamente attivati dagli enti locali in primis ma anche dal Dap, dal Ministero di Giustizia, sino alla non lontana convocazione dei tavoli per l’esecuzione penale. Da ultimo va ricordato il recente accordo inter-istituzionale tra il ministero della Giustizia e il Cnel (Consiglio nazionale dell’Economia e del lavoro) volto a promuovere il lavoro penitenziario come strumento di reinserimento sociale e abbattimento della recidiva e ad accrescere le competenze dei ristretti per fornire una adeguata preparazione professionale, stabilendo opportuni contatti con le organizzazioni datoriali e il terzo settore, tramite l’istituzione di una apposita cabina di regia presso il Dap. Quello che spesso manca, e che spiega in parte i numeri modesti del lavoro penitenziario, è il collegamento tra la possibile domanda e l’offerta, tra le iniziative volte a creare effettive opportunità, l’assenza di una banca delle disponibilità da valutare in concreto e su cui investire magari formazione e risorse. Il Consiglio di aiuto sociale è descritto come un organismo che vede la presenza del presidente del tribunale, di quello minorile, di un magistrato di sorveglianza, di dal prefetto, del sindaco o di loro delegati, di un dirigente dell’ufficio provinciale del lavoro, di un rappresentante diocesano, dei direttori di carcere del circondario e di sei componenti qualificati nell’assistenza sociale nominati dal presidente del Tribunale tra quelli indicati da enti pubblici e privati. Certo la norma dovrebbe forse essere rivista: la figura del medico provinciale, non più esistente, dovrebbe essere sostituita dal dirigente sanitario dell’istituto penitenziario, e ancora integrata con la figura dei garanti territoriali, mentre la rappresentanza dell’Uepe potrebbe essere intanto superata mediante l’indicazione dei componenti qualificati nell’assistenza sociale. Ma il punto non è questo: le attività del Consiglio di aiuto sociale sono ciò che è di interesse, dalla verifica del mantenimento dei rapporti tra famiglie e detenuti, dalla predisposizione di corsi di formazione professionale, alla verifica di opportunità di collocamento lavorativo, alla segnalazione delle urgenze agli enti preposti. Il Consiglio di aiuto sociale si occupa altresì delle vittime (art. 76) e dei minori orfani a causa di delitto. Non pare che sia da sottovalutare questo intervento in tempi in cui è stringente il tema del soccorso anche materiale alle molte donne che tentano di fuggire da situazione di maltrattamenti o comunque di violenza subita e ai minori vittime di femminicidi. Ancora, a fianco del Consiglio di aiuto sociale, è previsto un comitato per l’occupazione degli assistiti dal primo, per avviarli al lavoro, comitato che prevede la presenza di rappresentanti dell’industria, dell’artigianato, dell’agricoltura, designati dal presidente della locale camera di commercio, oltre a rappresentanti dei datori di lavoro e dei sindacati, dell’ufficio provinciale del lavoro e dell’amministrazione penitenziaria. I componenti tutti svolgono gratuitamente la loro attività e per le spese per l’attività nel settore penitenziario o post-penitenziario provvede anche la Cassa ammende. Certo, ogni altro collegamento con le Regioni, il Dap, il Ministero, l’Anci, ecc. sarebbe necessario e imprescindibile, ma partendo dalla realtà territoriale potrebbe essere questa l’occasione di un proficuo lavoro sulle effettive possibilità di reinserimento, anche da utilizzare per l’ammissione a misure alternative, senza lasciare spazio a ricerche di lavoro o di sostegno a volte affannose e mal indirizzate e assumendo come “ordinario “il reperimento di opportunità di reinserimento. Forse non abbiamo più bisogno di esperienze di “nicchia”, di convegni volti a presentare ciò che è esperienza di pochi che si sa difficilmente potrà essere esportata altrove, in assenza di risorse e in quadro di sistema penitenziario che non muta, a dispetto di ogni vera o presunta riforma. Il carcere è sempre troppo uguale a se stesso, almeno per i più e sempre faticoso per chi vi opera. E allora perché non provarci? *Avvocato Camera penale di Bologna già Garante delle persone private della libertà personale della Regione Emilia-Romagna e del Comune di Bologna Giustizia, l’anno nero. Parte dalla prescrizione l’assalto della destra di Liana Milella La Repubblica, 6 gennaio 2024 La maggioranza smonta anche abuso d’ufficio e intercettazioni. Sos delle Corti d’Appello per i nuovi tempi del processo. Avanti col bavaglio alla stampa. Sostegno di Azione e Iv alle riforme di Nordio. Parte subito l’anno nero della stretta sulla giustizia. Come ha annunciato più volte Meloni. In sincronia tra Camera e Senato. Si vota subito la nuova prescrizione più favorevole agli imputati. Via reati scomodi per gli amministratori scorretti come l’abuso d’ufficio. Limiti alle intercettazioni. E divieto di trascrivere quelle degli avvocati. Tagliola sui giornalisti con tanto di bavaglio sulle ordinanze di custodia che, grazie alla legge Costa, non si potranno più pubblicare. Un regalo, se passa su proposta della Lega, per le toghe: andranno in pensione a 73 anziché a 70 anni. L’appoggio di Azione - Non è una coincidenza, ma il frutto di una maggioranza che, con l’appoggio di Enrico Costa di Azione sulla giustizia, cercando di condurre in porto le leggi che avrebbe voluto approvare Berlusconi. In primo piano c’è sempre la stretta sulle intercettazioni, il “nemico” numero uno delle inchieste sulla corruzione. Eccole protagoniste del primo, e finora unico, ddl del Guardasigilli Carlo Nordio che giunge, dopo ben sei mesi dal via libera in cdm, al voto degli emendamenti in commissione Giustizia al Senato, sotto la vigile regia della responsabile Giustizia della Lega Giulia Bongiorno. Giusto mentre, alla Camera, si vota la nuova prescrizione, frutto di un’intesa parlamentare tra Costa e il forzista Pietro Pittalis, su cui Nordio ha messo il cappello. Ed ecco le cattive sorprese. La nuova prescrizione - quarta riforma in cinque anni - gioca per gli imputati. Via le leggi Bonafede e Cartabia (sospensione in primo grado e improcedibilità in Appello dopo due anni) si torna al processo bloccato in Appello per 24 mesi e per 12 in Cassazione. Nordio non ha risposto alla pur cortese lettera, anticipata da Repubblica, dei 26 presidenti delle Corti d’Appello che, in allarme per il calcolo cartaceo di migliaia di processi, un mese fa gli avevano chiesto una norma transitoria. Con la maggioranza allargata ad Azione e Italia viva sì scontato. Stretta sulle intercettazioni - Nelle stesse ore eccoci al Senato dove Bongiorno ha stabilito una solida alleanza sulle intercettazioni con il forzista Pierantonio Zanettin. Protagoniste del ddl Nordio su cui incombono 160 emendamenti. Quelli della maggioranza tutti peggiorativi. Come nel caso dell’avvocata leghista Erika Stefani che tenta un’ulteriore stretta contro i giornalisti, anticipando il ddl sulla diffamazione (multe fino a 50mila euro) e chiede di aggravare la “responsabilità civile di chiunque abbia pubblicato o pubblichi intercettazioni relative a soggetti diversi dalle parti”. Contro questo diritto, in attesa che arrivi al Senato l’emendamento Costa sull’ordinanza di custodia, c’è quello di Zanettin che impone una multa da 7 a 35mila euro contro “chiunque pubblica o diffonde o concorre a pubblicare o diffondere atti di indagine, anche parziali o per riassunto, fino al termine dell’udienza preliminare”. Per capirci, in questi giorni sarebbero piovute dozzine di multe su chi ha pubblicato notizie del caso Verdini. Ma non basta, perché Ivan Scalfarotto di Iv chiede che il giudice possa imporre al cronista di rivelare la fonte se la notizia che pubblica può arrivare solo dagli inquirenti. Nei soli otto articoli del ddl Nordio ci sono norme una peggiore dell’altra. Via l’abuso d’ufficio, che i giuristi hanno difeso nelle audizioni definendolo “la prima porta aperta sulla corruzione”. Per questo il governo Meloni vuole chiuderla. Non basta. Viene ristretto il traffico di influenze, in spregio alle indicazioni delle Ue che lo ha imposto, come l’abuso, agli Stati membri, ma l’Italia ha bocciato alla Camera la sua direttiva. E ancora lo stop a trascrivere le intercettazioni che riguardano persone coinvolte per caso con l’indagato. A cui si aggiungono le proposte Bongiorno-Zanettin che vietano di proseguire con un ascolto se non sono emerse “nuove prove”. Posticipare la pensione dei magistrati - Bocciato senza sconti dall’Anm, il ddl Nordio obbliga il pm a interrogare una persona prima di arrestarla. Non solo, sfidando la mancanza di giudici e soldi, malattia endemica della giustizia, chiede che siano tre, e non uno, quelli che danno il via libera alle manette. Per la mancanza di soldi il ddl è rimasto bloccato per due mesi alla Ragioneria dello Stato prima di trovare il milione necessario. Ma Nordio insiste. E per dargli una mano il capogruppo della Lega al Senato Massimiliano Romeo chiede di posticipare l’età pensionabile dei magistrati, da 70 a 73. Bloccato nella legge di bilancio, rieccolo. Per Zanettin può passare solo se chi è quasi in pensione rinuncia alla proroga degli incarichi di vertice. Ma gli anni in più giocano a favore di Nordio. Infamia e trasparenza di Daniele Negri* Il Riformista, 6 gennaio 2024 Divampa la polemica sulla norma che mira a vietare la pubblicazione integrale o per estratto del testo delle ordinanze di custodia cautelare. Una ridda di accuse ne ha accompagnato l’approvazione alla Camera dei deputati: “bavaglio” alla stampa; “embargo” all’informazione; pericolosa propensione a dilatare l’alone del segreto intorno alle vicende giudiziarie. Qualche giurista non esita a tacciarla di “favore ai delinquenti”, poiché “la verità” finirebbe occultata con la sparizione delle notizie. L’inno alla trasparenza democratica e alla libertà di espressione dimentica però come, in materia di carcerazione anteriore al giudicato, la pubblicità tuteli il diritto dell’imputato presunto innocente a che la collettività percepisca le ragioni distinte da quelle della pena, alla base del provvedimento. Da Beccaria in avanti dovrebbe essere chiaro che “l’infamia” delle minorazioni patite durante il processo molto dipende dall’immagine che della persona ristretta si trasmette alla “comune opinione”. Sotto questa luce, nessuna delle critiche sollevate sembra giustificata. Basta scorrere la formulazione dell’articolo bersagliato per capire che l’ordinanza custodiale, una volta eseguita, resterà come oggi conoscibile agli organi di informazione, venendo ugualmente a cadere il segreto sull’atto processuale. La novità sta nel fatto che se ne potrà dare conto all’opinione pubblica solo a condizione di adoperare modalità diverse dalla riproduzione letterale. Ai giornalisti rimarrà preclusa la via di divulgazione più rapida, comoda e - soprattutto - di maggiore riuscita spettacolare: la messa in pagina immediata e diretta, a scopo stigmatizzante, del verbo dell’autorità giudiziaria. In questo senso il divieto vanta parentele con le misure a garanzia di quel cruciale aspetto della presunzione di innocenza su cui è venuto spostandosi l’accento in ambito europeo (giurisprudenza di Strasburgo e direttiva 2016/343/UE), vale a dire la necessità che le autorità pubbliche e i mezzi d’informazione abbiano cura di evitare, usando un linguaggio sorvegliato nella comunicazione sociale, l’indebita assimilazione al colpevole di chi è semplicemente accusato d’aver commesso un reato. Equilibrio assai difficile da mantenere di fronte al concreto esercizio del potere di carcerazione cautelare, poiché, quand’anche il giudice non indulga a disinvolte etichettature delle attitudini criminali dell’imputato, esso implica comunque una serie di valutazioni - a cominciare dai gravi indizi di colpevolezza - che anticipano quelle tipiche della decisione finale di condanna. Non è dunque campato in aria pensare che un rimedio, sia pur blando, consista nell’impedire alla stampa di avvalorare i propri giudizi colpevolisti esibendo a plateale conferma passaggi scelti ad arte dall’ordinanza, così da mutuarne il crisma dell’ufficialità. Né bisogna trascurare quale stile contraddistingua le motivazioni di tali provvedimenti: il discorso del giudice prende facilmente la maniera del collage di atti d’indagine, dove spicca il più delle volte l’enorme mole di pagine contenenti la copia di dialoghi intercettati. Sono questi ultimi - l’esperienza insegna - che i media hanno interesse a squadernare con proditoria violenza, reputandoli tanto eloquenti della responsabilità dell’indagato da inchiodarlo senza appello. Secondo l’auspicio, invece, gli operatori della comunicazione dovranno impegnarsi nella comprensione degli argomenti del giudice al fine di stendere cronache fedeli alla sostanza, sebbene elaborate ripiegando su forme sintattiche indirette, attente a scansare l’arma più potente e persuasiva. Nulla garantisce da riletture e sintesi tendenziose, ma senza la tecnica della citazione virgolettata ad asseverarle potrà forse maturare qualche dubbio. L’inconveniente non sfugge: nel baccano delle versioni differenti presentate dai mezzi di comunicazione, all’opinione pubblica resterebbe inibita la verifica di corrispondenza con il testo autentico. A parte il fatto che il problema si pone anche oggi, essendo la conoscenza dei cittadini sempre mediata, la soluzione risiede sia nel pluralismo dell’informazione, sia nella previsione secondo cui il testo del provvedimento cautelare diventerebbe pubblicabile al termine delle indagini o dell’udienza preliminare. Al riparo dalla furia colpevolista che caratterizza l’esordio del procedimento, scocca finalmente l’ora, anche per il pubblico, del meditato giudizio in contraddittorio. *Professore ordinario di procedura penale Vietare non serve. Io, Gip, la penso così di Roberto Crepaldi* Il Riformista, 6 gennaio 2024 Servono giudici prudenti nei giudizi, perché consapevoli della necessaria provvisorietà delle loro conclusioni. Voglio confessare. Quando mi è stato chiesto dai cronisti ho dato loro copia dei miei provvedimenti non più segreti, come prevede il codice di rito. L’ho fatto consapevole che li avrebbero potuti criticare, perché credo che si debba dare conto delle ragioni della decisione non solo al cittadino che vede limitata la sua libertà ma, quando vi siano motivi di interesse pubblico, all’intera collettività. L’ho fatto consapevole che avevo cercato di esprimere in modo coerente e logico le ragioni della decisione, che avevo cercato di considerare le possibili obiezioni al mio ragionamento, le eventuali debolezze delle indagini ma anche che la mia decisione avrebbe necessariamente ignorato moltissimi elementi che la difesa avrebbe (prima o poi) fatto emergere. L’ho fatto consapevole che avevo prestato attenzione a depurare l’ordinanza da ogni riferimento non necessario alla vita privata dei soggetti coinvolti e da giudizi non necessari su una persona - di solito l’indagato di turno - che conoscevo solo attraverso le carte delle indagini e che non aveva ancora potuto ancora difendersi. Ipotizziamo che, a prescindere da tutto ciò, avessi autorizzato comunque l’accesso dei cronisti all’ordinanza e che fosse già in vigore la regola suggerita dal cd. emendamento Costa. Certamente i cronisti avrebbero potuto ottenere copia della mia ordinanza ex art. 116 c.p.p., leggerla e spiegare compiutamente all’opinione pubblica, chi fosse il destinatario della misura cautelare, in relazione a quali reati e sulla base di quali elementi d’indagine, pur senza citarne testualmente il contenuto. Certamente le eventuali manipolazioni della ricostruzione del giudice da parte dei cronisti avrebbero costituito un delitto contro l’onore e come tali sarebbero punibili. Certamente la nuova regola non avrebbe scongiurato la “gogna mediatica” né tutelato la presunzione di innocenza: i cronisti avrebbero potuto in ogni caso riportare elementi (magari superflui per le indagini ma) interessanti per l’opinione pubblica, sintetizzare i contenuti di dialoghi privati e i miei giudizi sferzanti sull’indagato. Non sono i fatti a formare l’opinione pubblica sui processi: come scriveva Sciascia già nel 1987 innocentisti e colpevolisti non si ispirano alla conoscenza degli elementi processuali ma alle “impressioni di simpatia o antipatia”. Il danno all’immagine di chi incappi in un processo penale poi, non dipende neppure dall’esistenza di una misura cautelare o dalla citazione del provvedimento. Abbiamo assistito a condanne definitive sui media quando ancora la misura non era stata richiesta e nonostante lo stretto riserbo mantenuto dagli inquirenti, perché i particolari sulla vita privata dell’indagato (e finanche della vittima) sono stati evidentemente veicolati in altro modo. Abbiamo avuto esempi, anche recenti, di pregevoli e istantanei riassunti di copiosi atti non pubblicabili (richieste di misura, appelli cautelari, informative di polizia giudiziaria, verbali di interrogatori), senza che nessuno abbia lamentato alcun limite alla libertà di informazione. Il processo “di piazza” sfugge alle regole processuali e richiede necessariamente un mutamento di paradigma che stimoli lo spirito critico ed elimini la cultura del sospetto, che vede nell’innocente un “colpevole che l’ha fatta franca”; di abbandonare una concezione catartica del processo penale, vissuto come momento nel quale la società non si limita ad accertare eventuali responsabilità ma si libera del peso del crimine (magari con una pena esemplare); infine, di scongiurare qualsiasi strumentalizzazione delle indagini per indebolire un avversario. E contro il dato culturale, mi pare, non servano emendamenti ma esempi: di pubblici ministeri, giudici e difensori scrupolosi, riservati e prudenti nei giudizi, perché consapevoli della necessaria provvisorietà delle loro conclusioni; di cronisti e intellettuali critici, anche sull’agire della magistratura, attenti a individuare possibili abusi; di uomini politici che non cerchino fortuna nelle disgrazie e nei processi degli avversari di turno. Di questo abbiamo bisogno, più che di un’ulteriore riforma del rito. *Gip Tribunale di Milano Santalucia: respingo le accuse all’Anm, siamo contro tutte le violazioni incluse quelle sul segreto di Valentina Stella Il Dubbio, 6 gennaio 2024 “È inaccettabile pensare che ci sia un silenzio di connivenza dell’Anm rispetto alla possibile violazione del segreto istruttorio”. L’inchiesta della Procura di Roma sull’Anas in cui è indagato anche Verdini junior ha riaperto il dibattito sulla pubblicazione degli atti. Ne parliamo con il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia, che è chiaro nel dire: “È inaccettabile pensare che ci sia un silenzio di connivenza dell’Anm rispetto alla possibile violazione del segreto istruttorio”. La premier Meloni ha detto dell’emendamento Costa: “Non si toglie il diritto al giornalista a informare” e “quindi francamente non ci vedo un bavaglio”. La pensa come lei quindi? Sì, nel senso che l’alternativa non è tra la notizia e il suo oscuramento totale ma tra darla nella maniera più oggettiva possibile - ossia mantenendo la pubblicabilità dell’ordinanza cautelare - e darla, non dico dolosamente, in modo non preciso e incompleto perché affidata al riassunto del giornalista. Quindi condivide che rimettersi alla discrezionalità del giornalista può creare più confusione e più danni? Sì. Non vedo perché una pubblicazione oggettiva ed integrale dell’ordinanza debba essere per i diritti dell’indagato pregiudizievole rispetto alla possibilità che il giornalista divulghi quella stessa vicenda con un suo personale riassunto. In fase di riscrittura dell’articolo 114 cpp il legislatore dovrà porsi questo problema. Quale potrebbe essere la soluzione? Una maggiore continenza del giudice nello scrivere l’ordinanza? Le indicazioni sulla redazione dei provvedimenti sono già nel codice e sono ispirate all’essenzialità dei riferimenti. Lei è stato capo del legislativo dell’ex ministro Orlando. Nel 2017 passò la riforma delle intercettazioni: trascrizione solo di quelle rilevanti, nelle ordinanze solo i brani essenziali. Un anno dopo quella che sanciva il diritto dei giornalisti ad avere copia dell’ordinanza di custodia cautelare. Adesso si dice che si tornerà a prima della riforma Orlando ma quest’ultimo nega: “Non è vero, come ha detto la Meloni, che si torna a prima del mio intervento. Prima della mia riforma la situazione non era chiara, la chiarimmo, mentre adesso c’è un divieto”. Ci può spiegare meglio? Prima della riforma Orlando non era chiaro se l’ordinanza fosse pubblicabile o meno perché non essendo un atto di indagine era sottratta al regime tipico degli atti di indagine. La riforma Orlando ha chiarito che l’ordinanza di custodia cautelare non è un atto investigativo e lo ha fatto perché c’era un sottobosco in cui alcuni giornalisti avevano le ordinanze e altri no. Allora si disse: tutti i giornalisti possono pubblicarla in modo da evitare che ci fossero disparità e incertezze. Quindi in questo momento io potrei richiedere all’ufficio giudiziario l’ordinanza? Certo, giustificando la richiesta con un interesse alla pubblicabilità. Adesso però alcuni procuratori sostengono: faremo disobbedienza e continueremo a darla. Significa che il giornalista non potrà più richiederla? Per quanto da me compreso, con l’emendamento Costa l’ordinanza non è pubblicabile ma non significa che è segreta. Quindi si potrà dare ma non la si potrà pubblicare. Quindi non ha senso parlare di disobbedienza? No, non si tratta di una disobbedienza. Semmai è la sottolineatura che questo emendamento non riuscirà a realizzare il fine che si propone: l’ordinanza resta pubblicabile per riassunto, quindi è veicolabile. L’avvocato De Federicis, difensore di Fabio Pileri nell’inchiesta Anas, ha detto al Dubbio: “Tutto quello che state leggendo sui giornali io non l’ho ancora letto. Di certo non si tratta di informazioni contenute nell’ordinanza e ciò che c’è nelle informative non è pubblicabile. Non si tratta nemmeno di intercettazioni contenute nella richiesta del pubblico ministero. Le violazioni del segreto istruttorio sono evidenti”. Non crede che l’Anm e i procuratori competenti debbano rispettivamente prendere una posizione e procedere per violazione del segreto istruttorio? Innanzitutto chiarisco che l’Anm è assolutamente contraria ad ogni violazione di legge, tra queste anche a quella relativa alla violazione del segreto di indagine se c’è stato. Non si può pensare, come ho letto in qualche articolo, che ci sia un silenzio compiacente dell’Anm, quasi fosse un silenzio di connivenza rispetto a violazioni indebite. Questo è inaccettabile. Poi io sono assolutamente convinto che se un difensore di un indagato ritiene ci sia stata una lesione abbia tutto il diritto e il dovere di fare una denuncia alle autorità competenti. Non confondiamo però i piani: una cosa è la violazione del segreto, altra cosa è la compressione del diritto all’informazione. Non vorrei che si pensasse che per non violare il segreto si debba giocoforza limitare il diritto all’informazione. Ma oltre alla denuncia del difensore non si può procedere d’ufficio per violazione del segreto istruttorio? Ovviamente si può procedere anche d’ufficio. Può darsi che la procura competente si sia già attivata ma io non posso saperlo. Aggiungo che non voglio utilizzare neanche il principio del cui prodest per risalire alla responsabilità. Ho letto che i difensori hanno sostenuto che è un danno per loro la rivelazione del segreto ma è certo un danno anche alle indagini e quindi non penso ci sia un interesse della magistratura a violare la norma. Ma forse della polizia giudiziaria sì? Su questo veramente mi astengo da ogni tipo di valutazione presuntiva e non partecipo alla caccia presuntiva al colpevole. Il 3 gennaio La Verità pubblica alcune intercettazioni riferite all’inchiesta Verdini dove si fa il nome del figlio di Mattarella, estraneo alle indagini, e che non compare neanche nell’ordinanza. Non le sembra che sia stato un atto grave? Che sia il figlio del presidente o un altro cittadino, se c’è una estraneità alle indagini ritengo assolutamente deprecabile l’operazione. Quello su cui sono abbastanza perplesso è che si prendono casi singoli e da questi si cerca con una operazione acrobatica di dimostrare l’inadeguatezza del sistema o l’infedeltà di intere categorie professionali. Sempre l’avvocato De Federicis ha sostenuto che aveva chiesto alla Procura di sentire il suo cliente dopo la perquisizione. Ma ciò non è avvenuto ed ora è ai domiciliari. Non ritiene condivisibile la riforma Nordio che prevede l’istituto dell’interrogatorio preventivo? Sul principio generale posso essere d’accordo ma è una norma ingenuamente ottimistica. L’interrogatorio preventivo va benissimo però deve essere assistito da misure di pre- cautela che ci sono nei Paesi in cui tale istituto già esiste. Mi riferisco ad esempio al fermo: non posso interrogare a piede libero un soggetto rappresentandogli che c’è in lavorazione una misura di custodia carceraria e pensare che questo non sia in meccanismo generatore di un pericolo di fuga. La riforma del Csm e ordinamento giudiziario è stata assegnata alle commissioni competenti. L’Anm la prossima settimana sarà audita sui fuori ruolo. L’avvocatura si è lamentata del loro taglio risibile... Si assiste da anni ad una campagna di demonizzazione irrazionale. Che i magistrati possano dare il loro apporto in istituzioni come il ministero della Giustizia credo sia di elementare evidenza. Dopo di che ci sono fuori ruolo e fuori ruolo: ci sono incarichi funzionali alla migliore amministrazione della giustizia che sono anche un arricchimento professionale per il magistrato. Poi ce ne sono altri che obiettivamente non giustificano la presenza del magistrato. Volendo criticare la legge di delega, più che puntare all’abbassamento della quota numerica mi sarei concentrato su una ricognizione degli incarichi, vietandone alcuni che non hanno rapporti con la giurisdizione e incentivando invece altri. Come ogni operazione di mera quantità la ritengo di basso profilo. Sempre a proposito di Csm qualche giorno fa è uscito su Repubblica un articolo dal titolo “Trattative e magheggi al Csm per la scuola della magistratura”. Che ne pensa? C’è un numero molto alto di domande, è quindi fisiologico che ci sia una valutazione complessa ed elaborata. Sostenere prima che è già tutto scritto è però il miglior modo per screditare l’istituzione. Non mi pare quindi siano operazioni verità. Poi diciamo da tempo che la formazione è un momento essenziale, credo che la magistratura associata possa rivendicare di aver contribuito culturalmente alla strutturazione del momento formativo - penso ad esempio alla vecchia nona Commissione del Csm e ad una stagione di entusiasmante costruzione dell’impegno consiliare su questo versante -. Sulla formazione professionale si fonda la legittimazione democratica della magistratura. Detto questo mi auguro che il Consiglio operi rapidamente. “La legge garantisce i diritti e le facoltà delle vittime del reato”: è questo l’obiettivo di modifica dell’articolo 111 della Costituzione voluto da diversi partiti. Qual è il suo parere? Sono molto perplesso quando vedo delle proposte di modifica della Costituzione. In quest’ultima non vedo vuoti di tutela, in particolare rispetto alla vittima. Più volte assistiamo a tentativi di far assurgere a rango costituzionale alcune figure: nella Carta c’è già la vittima, attraverso la previsione dei diritti della persona e dell’obbligatorietà dell’azione penale, come c’è già l’avvocato attraverso la previsione della inviolabilità del diritto di difesa. Consulta, basta con l’unanimità: il caso Zanon-Ferri mette in luce una abitudine solo italiana di Giuseppe Di Federico* L’Unità, 6 gennaio 2024 Il caso del giudice Zanon, contrario alla decisione della Corte sul caso Ferri, mette in luce un’abitudine solo italiana: in altri Paesi dalla democrazia evoluta vige la “dissenting opinion”. Nei giorni scorsi vari giornali ci hanno informati che in un conflitto di competenza tra la Camera dei deputati e il Csm la Corte costituzionale ha dato ragione al Csm. Alcuni giudici costituzionali ritenevano che avesse ragione il Parlamento. Uno di essi, il Professor Zanon, ha anche affermato che la Corte ha volutamente e intenzionalmente dato ragione al Csm venendo meno al suo dovere di imparzialità. La gravità dell’evento non può essere compresa se non si considera il particolare rilievo e le peculiari caratteristiche delle sentenze della Corte costituzionale rispetto a tutti gli altri organi giurisdizionali. A riguardo va ricordato che le corti costituzionali esercitano uno dei poteri di maggior rilievo politico in democrazia, e cioè quello di dichiarare incostituzionali le leggi approvate dalle assemblee legislative, cioè dalla maggioranza dei rappresentanti della sovranità popolare. La nostra Corte Costituzionale non è seconda a nessuna nell’esercizio dei suoi rilevanti poteri: non solo ha dichiarato incostituzionali, come è suo compito, norme approvate dal nostro Parlamento ma ha anche, in alternativa, ricorrentemente stabilito quale dovesse essere la loro interpretazione da parte di tutti i poteri dello Stato. A volte ha anche incluso nel nostro sistema giuridico norme che il Parlamento non aveva mai votato. Alcune delle sue decisioni hanno persino determinato ingenti spese aggiuntive per l’erario dello Stato. Va anche ricordato che, a differenza di quanto avviene per gli altri organi giudiziari, le decisioni delle Corti Costituzionali, in Italia come negli altri paesi democratici, sono inappellabili nonostante il grande rilievo che assumono a livello istituzionale e per la protezione delle libertà e dei beni dei cittadini. A riguardo di questa assenza di rimedi un noto presidente della Corte costituzionale (Supreme Court) degli Stati Uniti, Harlan Stone, giustamente affermava che “l’unico controllo sul nostro esercizio del potere è costituito dal nostro self restraint”, cioè dal nostro autocontrollo. Per rendere concreti gli stimoli all’autocontrollo dei giudici costituzionali di numerosi Paesi (come Stati Uniti, Germania, Spagna, Australia) e anche la Corte europea dei diritti dell’uomo, hanno, tra l’altro, adottato l’istituto della opinione dissenziente (dissenting opinion) con il quale si consente ai giudici costituzionali che nei singoli giudizi rimangono in minoranza, non solo di motivare il loro dissenso e di fornire circostanziate e diverse interpretazioni delle norme costituzionali, ma anche di veder pubblicate le motivazioni delle loro opinioni dissenzienti contestualmente a quelle della maggioranza. La prospettiva stessa di vedere contraddette le proprie scelte interpretative da altri giudici della stessa corte induce tutti i giudici ad un autocontrollo nell’uso della discrezionalità interpretativa di cui dispongono. Se da un canto l’istituito della dissenting opinion ha l’obiettivo di promuovere il self restraint dei giudici costituzionali, dall’altro serve anche ai cittadini per meglio valutare il lavoro della Corte, per conoscere quanti sono i casi in cui si sono manifestati sostanziali ragioni di dissenso e i benefici (o i danni) che possono discendere dalla varie interpretazioni; eventualmente anche a giudicare se il passato politico dei singoli giudici o le modalità con cui sono stati scelti possa aver influito sulle loro decisioni. Sono strumenti e funzioni di trasparenza del tutto estranei alla nostra Corte Costituzionale. Le sue sentenze vengono sempre presentate come fossero unanimi. Nessun rilievo o effetto condizionante ha potuto quindi avere nel caso dianzi citato il disaccordo del giudice Zanon e di alcuni altri giudici costituzionali. Vengono di fatto considerati corresponsabili di una decisione che hanno avversato. Inoltre, a differenza di quanto avviene in altri paesi democratici, i cittadini e studiosi del nostro paese non hanno potuto avere piena e articolata conoscenza né dei motivi del dissenso, né delle modalità con cui si è formata la maggioranza, né di chi sono stati i giudici “di maggioranza e di opposizione”. Va subito aggiunto che il voto dissenziente non è vietato dalla nostra Costituzione. A favore della sua adozione si sono espressi in passato giudici della nostra Corte costituzionale e grandi giuristi come Costantino Mortati e Giuliano Vassalli. Basterebbe una breve legge per imporla (c’è qualcuno in ascolto?). Per la verità l’opinione dissenziente potrebbe essere anche adottata con autonoma decisione della stessa Corte costituzionale. In effetti, in passato i giudici della Corte considerarono questa eventualità ma decisero di non volersi assumere la personale responsabilità dei giudizi che esprimevano, molto meglio proteggersi coll’anonimato di un giudizio formalmente unanime. Due postille. La prima. Sarebbe a mio parere utile che il Prof. Zanon scrivesse e pubblicasse ora il testo della opinione dissenziente che non ha potuto scrivere quando era giudice. Sarebbe utile perché darebbe una testimonianza concreta sia dell’efficacia di quell’istituto per la trasparenza della Corte, sia delle difficoltà che la piena conoscenza del testo della sua opinione dissenziente avrebbe potuto creare alla maggioranza della Corte nel corso del giudizio. La seconda. I rilievi mossi in questo articolo alle caratteristiche funzionali della nostra Corte costituzionale sono ben lungi dal rappresentare le profonde anomalie della Corte stessa rispetto a quelle degli altri Paesi democratici. È materia complessa che non può trovare spazio in un solo articolo di giornale. Ne ho fatto una sintesi in un articolo “L’anomala struttura della Corte Costituzionale italiana”, in www.archiviopenale.it, 2021, 3. *Professore emerito di Ordinamento giudiziario dell’Università di Bologna “Noi, figli delle vittime di violenza, attraversiamo l’inferno assieme alle nostre madri” di Francesca Barra L’Espresso, 6 gennaio 2024 Pasquale è orfano di femminicidio, Sofia non lo è per un soffio. I loro padri non si sono mai ravveduti per il male fatto alle rispettive mogli. “Parliamo e raccontiamo le nostre storie per salvare altre donne”. Salvatore Guadagno uccide nel 2010 sua moglie Carmela Cerillo, trentotto anni, madre di due figli. “Ce l’ha portata via per sempre dopo aver visto la partita con mio zio, suo cognato. Strinse le sue mani intorno al collo di nostra madre e la uccise”. A parlare è Pasquale che è il figlio più piccolo, oggi ventisettenne. “La sua voce grossa, le nostre urla; mi bloccava la testa per sputarmi dritto in faccia quando ero piccolino. Sono stati anni terribili”. Dopo l’omicidio viene affidato alla famiglia paterna: “Colpevolizzavano la mamma e costringevano me e mia sorella alle visite in carcere. Durante i colloqui, mio padre continuava a ripetere che l’avrebbe rifatto. Sono andato a vivere con mia sorella solo quando avevo 17 anni. Soli al mondo, senza aiuti”. Oggi Guadagno sta scontando in carcere 13 anni di reclusione e fra poco sarà un uomo libero. “Uscirà a cinquant’anni avendo tutta la vita davanti. Io e mia sorella invece avremo la vita distrutta per sempre. Non ha mai chiesto perdono, non ha mai condiviso un percorso di redenzione e ha continuato a essere aggressivo anche durante i permessi premio”. Pasquale ha scritto un libro che s’intitola “Ovunque tu sia” per restituire dignità alla vita di sua madre e impedire che altri orfani subiscano ciò che ha subito lui. “Un anno fa volevamo cremare nostra madre e spostarla in un altro cimitero, ma non ci hanno dato il permesso perché è il marito a dover firmare. Non l’ha fatto, ma per lo Stato è ancora lui ad avere diritti sulla donna che ha ucciso. Non lo odio, non voglio dargli questo potere. L’odio non serve per cambiare le cose, non si può tornare indietro”. Anche Sofia, nome di fantasia, ha sentito il peso di uno Stato assente. Ha quarant’anni e quando ne aveva undici è diventata la figlia di una sopravvissuta. Prova ancora vergogna nel ripercorrere la sua storia, ma sta riportando alla luce tutto ciò che ha passato, con i suoi fratelli, in questi giorni. “Avevo undici anni e i miei fratelli ne avevano 13 e nove, quando abbiamo sentito gridare e abbiamo capito subito che era la mamma picchiata da nostro padre. Io lo riempivo di pugni mentre lui la colpiva, ma non smetteva. Non ha mai smesso nemmeno quando lo imploravamo di smettere. L’ha colpita con una mannaia da macellaio”. Ha quasi ucciso sua madre e, malgrado sia stato condannato a undici anni, dopo cinque era già fuori dal carcere. Gli assistenti sociali volevano dividere i figli, che sono riusciti a restare uniti solo grazie alla nonna e agli zii. La mamma era in fin di vita con “mille punti di sutura sulla testa”, un dito ritrovato nella pozza di sangue che poi sono riusciti a ricucire. “Abbiamo vissuto anni nel terrore e anche quando mamma è uscita dall’ospedale non abbiamo ricevuto sostegno da nessuno. Cinque o sei anni fa ci hanno comunicato la morte di quell’uomo che non posso chiamare papà. Quando era ancora in vita, ci è arrivata perfino una raccomandata in cui ci chiedeva soldi per mantenerlo in una casa di riposo”. Pasquale suggerisce leggi migliori per tutelare gli orfani: “Sarebbero da rivedere conoscendoci davvero. So che la mia storia, per quanto ci potranno accusare di strumentalizzarla, come fanno con Gino Cecchettin, servirà per fare del bene. Le parole sono eroiche perché possono salvare altre vite. Spero di poter contribuire”. L’Italia sfida così i giudici della Cedu: “Le confische totali non sono una pena” di Fabrizio Costarella e Cosimo Palumbo* Il Dubbio, 6 gennaio 2024 Che cos’è la confisca di prevenzione? A giudicare dal nome e dalla sua collocazione normativa di prevenzione, verrebbe naturale rispondere che si tratta di una misura di prevenzione. Ma la prevenzione è, storicamente, destinata ad operare nel futuro del soggetto inciso, così da evitare che egli reiteri le proprie manifestazioni di pericolosità sociale. Ma se quel soggetto non è più pericoloso, se non si può pronosticare la sua prossima trasgressione alle Leggi, se è stato assolto nei procedimenti penali che lo hanno visto imputato o se, nel frattempo, è passato a miglior vita, la confisca di prevenzione non dovrebbe essere disposta. Eppure lo è… Legittimo, quindi, che la Corte Europea, nell’ormai ben noto caso Cavallotti/ Italia, rivolga al nostro governo la domanda con la quale abbiamo aperto questo scritto, ma declinata in modo più diretto e suggestivo: non sarà, la confisca di prevenzione, una pena, visto che da tale categoria mutua la propria funzione e i propri effetti? Se fosse una pena, dovrebbe essere soggetta al principio di legalità (e, quindi, ai corollari di tassatività, determinatezza, irretroattività, riserva di legge, riserva di giurisdizione), che la prevenzione nazionale non rispetta. Garanzie che il governo non intende riconoscere, perché verrebbe meno il principale strumento di coercizione di libertà individuali altrimenti incoercibili. Ecco allora che inizia il “gioco delle parole”, con il lessico finalizzato a eludere le risposte che la Cedu richiede. Rifacendosi alla giurisprudenza nazionale, il governo, attenzione, non si limita a escludere che la confisca di prevenzione sia una pena, ma giunge perfino a concludere che essa non sia neanche una misura di prevenzione “in senso stretto”, definizione che calzerebbe solo al sequestro di cui all’art. 20 del Testo Unico Antimafia. Nonostante il Legislatore l’abbia espressamente inserita tra le misure di prevenzione patrimoniali e nonostante la confisca sia destinata a stabilizzare, confermandolo, gli effetti del sequestro (che è una misura cautelare di prevenzione destinata a perdere efficacia al decorrere del termine previsto dall’art. 24 del Codice), secondo i nostri rappresentanti la prima non è prevenzione e il secondo sì. Ragionamento che potrebbe anche essere convincente, se alla confisca si attribuisse natura di pena, rispetto a un provvedimento provvisorio che potrebbe essere di prevenzione. Invece, il “trasformismo semantico” è solo all’inizio: la confisca, secondo il governo (che cita precedenti di legittimità), è una sanzione amministrativa a contenuto ablatorio/ ripristinatorio e, per questo motivo, assoggettate alla disciplina delle misure di sicurezza quanto a divieto di irretroattività e destinate a colpire, senza prognosi di pericolosità, i patrimoni di sospetta accumulazione illecita. Dimentica, l’Avvocatura Generale che la confisca di prevenzione è stata introdotta dalla Legge Rognoni- La Torre (L 646/ 82) come sanzione penale - tanto che, fino alla modifica del 1990, che abrogò l’art. 24 della Legge, poteva essere irrogata dal giudice penale, all’interno del procedimento penale con equiparazione tra la sentenza e il decreto di confisca – per come emerge dai lavori preparatori nei quali si parla espressamente di “duplicazione” delle pene nei confronti degli appartenenti alla mafia. Dimentica, ancora, che, per superare i dubbi di costituzionalità, che emergevano già dalle relazioni parlamentari alla Legge del 1982 (nelle quali si dichiara di “accettare il rischio di incostituzionalità”, data la applicazione territorialmente limitata alla Sicilia della Legge), la Corte Costituzionale, con ripetute pronunce ha escluso che il fine della confisca di prevenzione fosse quello di colpire beni di origine illecita in quanto tali, ma piuttosto impedire che la persona pericolosa ne potesse disporre per commettere reati (ordinanza 177/88, sentenza 335/96, sentenza 21/2012). Dimentica, pure, che la Corte di Cassazione, con la sentenza Occhipinti (10044/12), a seguito della introduzione della confisca disgiunta, aveva riconosciuto natura oggettivamente sanzionatoria alla ablazione di prevenzione, poiché ormai anche formalmente sganciata dal requisito della attuale pericolosità sociale del proposto. Il governo ricorda, invece, che, in altra occasione, la Suprema Corte (sentenza Ferrara, 24272/13) l’aveva definita una misura di sicurezza, obliterando, da parte sua, che tale equiparazione dovrebbe condurre a riconoscere le medesime basi applicative, cioè una sentenza di condanna o, in caso di proscioglimento, l’accertamento sostanziale del fatto secondo gli standard probatori e valutativi del giusto processo. Quanti nomi per definire un solo istituto: pena, misura di prevenzione, misura di sicurezza, sanzione amministrativa. Tra tutti, l’Avvocatura ha scelto di sostenere quello che, a suo avviso, consentirà alla prevenzione di sopravvivere al ricorso, sfuggendo ai “contra” che ogni altra definizione reca con sé. E propone un parallelo tra la confisca di prevenzione e la confisca urbanistica, citando il caso GIEM/Italia, deciso dalla Corte EDU. Non si avvede, tuttavia, che mentre la giurisprudenza nazionale considera la confisca urbanistica come una sanzione amministrativa a carattere ripristinatorio, quella europea, proprio nel caso citato (così come nelle due sentenze Sud Fondi/ Italia), la ritiene pena! Il governo cerca di salvare la prevenzione ma, come nel gioco dell’oca, ha tirato male i dadi, finendo nella casella sbagliata e tornando al punto di partenza. Come non pensare al soldato di Samarcanda che pensa di scappare dal proprio destino e che, invece, gli corre incontro. *Avvocati penalisti Affidamento in prova, va valutata la disponibilità ad assumere il condannato di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 6 gennaio 2024 Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 373 depositata oggi chiarendo che la gravità del reato sa sola non basta a negare il beneficio. Il diniego di una misura alternativa alla detenzione, con l’affidamento in prova ai servizi sociali, non può essere motivato esclusivamente con la condizione di pregiudicato e l’asserita assenza di prospettive lavorative adeguate a favorire il reinserimento sociale del condannato. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 373 depositata oggi, accogliendo, con rinvio, il ricorso di un trentacinquenne contro la decisione del Tribunale di sorveglianza di Roma. Nel ricorso, il detenuto aveva lamentato tra l’altro la mancata considerazione del “percorso rieducativo intrapreso con esiti positivi” e della disponibilità ad assumerlo da parte di una ditta individuale. Una doglianza accolta dalla Prima sezione penale che ricorda come, ai fini della concessione di una misura alternativa alla detenzione, “la gravità dei reati commessi dal condannato, salvo che non sia connotata da un disvalore talmente elevato da elidere ogni altro elemento positivo di giudizio, non può esaurire sic et simpliciter lo spettro di valutazione della pericolosità sociale dell’istante, essendo indispensabile esaminare anche il comportamento tenuto nel periodo successivo alla commissione delle condotte illecite presupposte, in un contesto prognostico ispirato al principio di gradualità del trattamento rieducativo”. Così tornando al caso concreto, la Corte rileva che non vi è stato un “giudizio prognostico adeguato alla personalità” del richiedente che avrebbe dovuto essere svolto “tenendo presente che le misure alternative alla detenzione non presuppongono una completa emenda e una totale esclusione della pericolosità sociale, che, invece, costituiscono l’obiettivo del processo di rieducazione, ma postulano, più limitatamente, l’esistenza di elementi positivi dai quali si possa desumere l’intrapresa del percorso rieducativo e una ragionevole prognosi di reinserimento sociale del condannato”. Tali “elementi positivi”, laddove introdotti come nel caso specifico, “devono essere esaminati analiticamente dal tribunale di sorveglianza, che deve dare conto, sia positivamente sia negativamente, delle prospettive di reinserimento sociale connesse da tali elementi”. Del resto, secondo la giurisprudenza della Suprema, pur non “potendosi prescindere dalla natura e dalla gravità dei reati per cui è stata irrogata la pena in espiazione, quale punto di partenza dell’analisi della personalità del soggetto, è tuttavia necessaria la valutazione della condotta successivamente serbata dal condannato, essendo indispensabile l’esame anche dei comportamenti attuali del medesimo, attesa l’esigenza di accertare non solo l’assenza di indicazioni negative, ma anche la presenza di elementi positivi che consentano un giudizio prognostico di buon esito della prova e di prevenzione del pericolo di recidiva”. Napoli. Detenuto 32enne trovato morto nella sua cella a Poggioreale Adnkronos, 6 gennaio 2024 Il medico legale avrebbe trovato segni di violenza sul corpo. Un detenuto 32enne è stato trovato morto, questa mattina, nella sua cella a Poggioreale, a Napoli. Il ragazzo, originario di Secondigliano, si trovava recluso nel reparto Napoli al piano terra. Sul posto il magistrato di turno e il medico legale che avrebbero trovato segni di violenza sul corpo. Indagini sono in corso per accertare la dinamica dei fatti e individuare eventuali responsabili. Il garante dei detenuti campani, Samuele Ciambriello, assicura che saranno effettuati tutti gli esami, autopsia e tossicologico in primis, utili a verificare le cause esatte del decesso e chiede “giustizia e verità”. Di Giacomo: “Se è omicidio come si sospetta, è il quarto in un anno” - “Se come si sospetta il 32enne trovato morto a Poggioreale è stato ucciso, sarebbe il quarto omicidio in un anno a dimostrazione che il sistema penitenziario è al collasso. Tutti sono liberi di fare ciò che vogliono. Non sono un caso le due sommosse in due giorni ad Agrigento e a Santa Maria Capua Vetere” dice Aldo Di Giacomo, segretario generale S.Pp in relazione alla vicenda. “Servirebbe un avvicendamento del sottosegretario alla Giustizia Del Mastro con una persona che tecnicamente conosce il carcere e abbia voglia di migliorarlo e lavorarci adeguatamente”, conclude. Terni. Allarme suicidi e sovraffollamento nel carcere di Lorenzo Drigo ilsussidiario.net, 6 gennaio 2024 Nel carcere di Terni scoppia l’allarme per i suicidi: quattro casi in pochi mesi, mentre non si contano i gesti autolesionistici o gli attacchi alle guardie carcerarie. Il carcere di Terni, piccola struttura che ospita anche un delicato reparto dedicato al 41 bis, nel quale venne rinchiuso Bernardo Provenzano, si trova al terzo posto della triste classifica dei morti suicidi tra le sbarre. Una classifica che vede, poco sorprendentemente, al primo posto il Regina Coeli e al secondo il San Vittore, mentre la media annuale complessiva delle strutture è di 4 morti per ogni penitenziario. All’interno del carcere di Terni, spiega l’Avvenire, sono morti suicidi nel corso degli ultimi mesi quattro detenuti (un italiano a gennaio, poi un albanese alcuni mesi dopo, un marocchino a fine maggio e, ancora, un magrebino a settembre), mentre non si contano gli episodi di autolesionismo e le aggressioni ai danni delle guardie carcerarie. Una triste situazione che si accompagna, come se non bastasse, a degli importanti problemi gestionali, dovuti ovviamente alla scarsità di fondi, al sovraffollamento e alla carenza di personale. All’atto pratico, il carcere di Terni potrebbe ospitare un massimo di 400 detenuti, che sono in realtà più di 500, senza il supporto di una Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (per i malati psichiatrici) e con una carenza cronica di agenti penitenziari. A parlare della difficile condizione in cui versa il carcere di Terni è, tra gli altri, Fabrizio Bonino, segretario nazionale del Sappe, secondo il quale la struttura “sul fronte sicurezza [è] una delle peggiori in Italia. Ci sono tante sezioni, ma non c’è personale sufficiente. Lo psicologo viene una sola volta a settimana, gli educatori lo stesso: troppo poco per poter prevenire episodi” suicidari, autolesionistici o violenti. A fargli eco sulle condizioni del carcere di Terni è anche Giuseppe Caforio, Garante umbro dei detenuti, che ritiene non sia “il luogo migliore per un processo riabilitativo. Se uno o più agenti”, si chiede, “hanno in carico tre piani del carcere e 100 detenuti, come fanno a garantire che non succeda nulla? Il sistema sta andando completamente in tilt” al punto che ormai “si gestisce solo l’emergenza”, senza possibilità di prevenirla. Un appello, quello sul carcere di Terni, al quale si è unito anche il cappellano, Massimo Lelli, che sottolinea come “il fine di rieducazione, recupero e reinserimento del detenuto si è perso. Ci vogliono persone e mezzi economici”. Oristano. “Così è stato ucciso Stefano”. La sorella e il supertestimone che ha riaperto il caso di Veronica Altimari romatoday.it, 6 gennaio 2024 Il 12 gennaio al Gemelli di Roma verrà eseguita l’autopsia, sin qui negata dalla procura di Oristano e concessa dopo l’audio di una testimonianza resa alla sorella Marisa e al legale Armida Decina. Ecco come è morto il 42enne del Tufello secondo il supertestimone. “Un pestaggio per mano di cinque agenti della Polizia penitenziaria, il secondo colpo alla nuca con un manganello che ne determina la morte, per poi inscenare un suicidio che non sarebbe mai avvenuto”. Questi sono solo alcuni degli elementi contenuti nella testimonianza resa a Marisa Dal Corso, sorella di Stefano, e al suo legale Armida Decima, da parte del testimone che di fatto ha riaperto il caso del 42enne trovato senza vita nella cella del carcere di Massama ad Oristano il 12 ottobre del 2022. Un racconto crudo, difficile da digerire, ma che per Marisa, da sempre in lotta per scoprire la verità, ha determinato il via libera da parte della procura di Oristano ad eseguire l’autopsia sul corpo di Stefano, negata sin qui per sette volte. Chi è Stefano Dal Corso - Marisa, la sorella di Dal Corso, ha sempre sostenuto di non credere al suicidio, soprattutto perché Stefano era prossimo alla scarcerazione. L’assenza di un’indagine approfondita e le testimonianze dei detenuti hanno aggiunto ulteriori interrogativi. Così nel corso dei mesi si è alzata l’attenzione mediatica, dapprima con una conferenza poi con una manifestazione al Tufello. Svariati gli appelli per l’autopsia, fino all’arrivo della testimonianza, registrata dalla sorella Marisa e portata in procura. I punti oscuri del caso di Stefano Dal Corso, morto in cella. Dall’autopsia mai fatta al nuovo testimone - “Non so spiegare quello che provo - dice Marisa -, da una parte la consapevolezza di aver raggiunto un traguardo importante per sapere cos’è realmente accaduto a mio fratello, dall’altro il dolore di conoscere in dettaglio quello che ha determinato la sua morte e fa male. Se l’autopsia dirà che Stefano si è suicidato dovrò fare i conti con il senso di colpa per non aver capito che viveva un sentimento del genere - continua -. Ma laddove verranno appurate le responsabilità altrui, sarò pronta. Pronta ad affrontarli tutti”. L’esame autoptico - le spese interamente sostenute dalla famiglia aiutata con una raccolta fondi avviata mesi fa a questo scopo - verrà eseguito il 12 gennaio al Policlinico Gemelli di Roma: “Alle 10 verrà eseguita la tac e alle 14 si proseguirà con l’autopsia - prosegue Marisa. Per avere i risultati ci hanno detto che ci vorranno però circa 90 giorni”. “Sono convinta che sia un diritto scoprire la verità, soprattutto se cose come queste accadono in quella che dovrebbe essere la ‘casa dello Stato’ - conclude Marisa -. Oggi è toccato a mio fratello, domani potrebbe succedere a chiunque altro, ed evidentemente è per questo che nel corso di questi lunghi mesi ho avuto la vicinanza e l’affetto non solo dal mio quartiere, il Tufello, ma da tutta Italia. Sconosciuti che mi hanno sostenuta, e che ringrazio, a differenza di chi finora ci ha chiuso la porta in faccia. Ma ora, da questa autopsia, sapremo finalmente la verità”. Verona. Ostellari: “In carcere niente premi. Non è un parco divertimenti” di Angiola Petronio Corriere Veneto, 6 gennaio 2024 Il carcere di Montorio è al centro di polemiche per i presunti privilegi - smentiti dalla direzione - a Filippo Turetta. “Il carcere non è un parco divertimenti”. È tranciante, il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari. E il suo commento arriva all’indomani della denuncia dell’associazione Sbarre di Zucchero su presunti “privilegi” - smentiti sia dalla direttrice della casa circondariale che dagli stessi detenuti in una lettera aperta di un mese fa di cui godrebbe, nel carcere di Montorio in cui è recluso, Filippo Turetta il 22enne padovano reo confesso per l’omicidio dell’ex fidanzata, la coetanea Giulia Cecchettin. Sbarre di Zucchero in un comunicato ha parlato di Montorio come di un carcere “nel quale si sono suicidati 3 ragazzi in meno di un mese tra il novembre ed il dicembre scorso (suicidi per i quali la procura ha aperto un fascicolo d’indagine, ndr), ma che è balzato agli onori delle cronache solo ed esclusivamente per l’azzardata decisione di detenere in questo carcere, già martoriato da croniche problematiche, Filippo Turetta”. E a lui si riferiscono quando parlano di Montorio come di un carcere “in cui c’è chi può trascorrere il tempo giocando con la playstation e c’è chi viene abbandonato in una cella di isolamento”. “Nessun trattamento di favore a Turetta - ha replicato la direttrice Francesca Gioieni -. I detenuti che si trovano come lui in infermeria non hanno le occasioni di socialità che hanno gli altri. Pertanto loro hanno l’accesso a una playstation. Questo non è un privilegio. E di playstation ne arriveranno altre a breve”. La cosa, evidentemente, non è piaciuta al sottosegretario Ostellari. Il quale, annunciando una sua venuta a Verona, ha commentato che “i detenuti devono studiare, lavorare e partecipare a un percorso di rieducazione. Venerdì 12 gennaio farò nuovamente visita alla casa circondariale di Verona, insieme al presidente della Commissione Giustizia della Camera Ciro Maschio. Chi ha sbagliato deve espiare la sua pena, in condizioni di piena dignità, ma senza premi. Voglio assicurarmi che questo accada anche nell’istituto veronese. In caso contrario adotteremo i provvedimenti necessari”. Espiazione certa della pena, ma nessuna parola da parte del sottosegretario leghista sui tre suicidi avvenuti a Montorio in un mese. O sul tentato suicidio dell’ultimo dell’anno. O sul sovraffollamento e sulla carenza di agenti di polizia penitenziaria. Ma il 12 gennaio oltre ai presunti “premi” si potrà approfondire anche questo. Verona. Antigone: “Troppi detenuti e pochi servizi in carcere” di Manuela Trevisani L’Arena, 6 gennaio 2024 Montorio tra le 10 Case circondariali peggiori. Dopo i suicidi, l’associazione in visita: “La manutenzione è buona, ma sono pochi gli spazi. Il tasto più dolente rimane la sanità”. “Verona, con 584 detenuti a fronte di una capienza di 335 posti e un tasso di affollamento del 174 per cento, è tra i dieci istituti penitenziari più affollati d’Italia”. È l’analisi dell’associazione Antigone, che dal 1991 si occupa di carceri, giustizia, diritti umani e di prevenzione della tortura a livello nazionale e che in dicembre ha fatto tappa al carcere di Montorio. “Gli stranieri sono circa il 60 per cento dei presenti e il carcere ospita anche 40 donne detenute. Si tratta di un istituto complesso, con varie tipologie detentive. Oltre al reparto femminile infatti c’è anche una sezione per detenuti protetti e una articolazione per la salute mentale”. Pochi spazi detentivi - I volontari che hanno visitato la casa circondariale veronese spiegano come l’hanno trovata. “Confrontato con altri istituti la struttura versa in condizioni di manutenzione adeguate, ma scarseggiano gli spazi detentivi”, sottolinea l’associazione. “Le celle, di circa 10 metri quadri, bagno escluso, hanno spesso tre o quattro brande all’interno, anche quando ospitano due sole persone, di fatto riducendo drasticamente lo spazio calpestabile. E le presenze stanno crescendo”. Antigone ricorda i tre recenti suicidi avvenuti a Montorio: Mortaza Farhady, che si è tolto la vita il 10 novembre, Giovanni Polin, morto il 20 novembre e Oussama Sadek, che si è impiccato in una cella di isolamento l’8 dicembre. “Il primo, un trentenne afgano con cittadinanza austriaca, era ospitato nell’area riservata ai pazienti psichiatrici”, raccontano i volontari di Antigone. “Il secondo, un ragazzo veronese di 34 anni, si è tolto la vita a 20 giorni dall’arresto. L’ultimo, un ragazzo marocchino di 30 anni, a pochi mesi dal fine pena, che aveva già manifestato nel tempo sofferenza psicologica per la sua condizione, si è suicidato mentre era in isolamento”. L’inchiesta - La Procura ha aperto un fascicolo conoscitivo con l’obiettivo di far luce su quanto avvenuto e, in particolare, per individuare eventuali responsabilità. L’inchiesta è stata affidata al pubblico ministero Maria Federica Ormanni. Delle indagini si stanno occupando gli agenti del Nucleo investigativo centrale (Nic) della polizia penitenziaria, in arrivo dalla sede compartimentale di Padova. Servizi sanitari - Secondo Antigone, il punto dolente del carcere di Montorio è soprattutto la sanità. “È problematica l’erogazione di vari servizi, ma stupisce soprattutto il fatto che, per un istituto di 584 persone, siano previste solo 18 ore settimanali di servizio psichiatrico e 58 di servizio psicologico”, spiegano i volontari dell’associazione. “In media nelle carceri italiane, fatte le dovute proporzioni, vengono erogate 52 ore settimanali di assistenza psichiatrica e 88 di assistenza psicologica, comunque già di per sé scarse per sostenere la popolazione detenuta”. Taranto. “Non ci sono medici. Il carcere è una miccia esplosiva” di Mara Chiarelli L’Edicola del Sud, 6 gennaio 2024 “Nel carcere di Taranto il diritto alla salute sembra essere calpestato sempre di più. Da un po’ di tempo niente visite mediche di routine ai detenuti, ma solo emergenze poiché non ci sarebbero più medici, per cui il dirigente sanitario che è rimasto solo, sarebbe costretto a fare di tutto e di più”. A denunciare quella che, se confermato, sarebbe una violazione di un diritto costituzionalmente garantito, e cioè quello alla salute, è il Sappe, il sindacato autonomo della polizia penitenziaria, che da tempo evidenzia “una situazione di grande affanno, per non dire peggio - scrivono - nell’assistenza sanitaria ai detenuti presenti nel carcere di Taranto, con i detenuti psichiatrici abbandonati a se stessi, malati cronici con carenza di assistenza che, generano situazioni di protesta da parte dei ristretti che diventano sempre più preoccupanti. Ma il punto, se possibile, è un altro: “Abbiamo notizia che nei giorni scorsi il carcere, per alcune ore - attacca il segretario nazionale del sindacato, Federico Pilagatti - è rimasto senza nessun medico poiché il dirigente sanitario era impegnato in una riunione all’Asl, mentre i poliziotti dovevano far fronte alle pressanti lamentele dei detenuti che chiedevano di essere visitati da un sanitario”. E si chiede: “Cosa deve accadere ancora perché l’Asl adotti provvedimenti urgenti adeguati a tamponare la situazione? Non sanno i dirigenti che comandano la sanità tarantina che presto potrebbero scoppiare disordini con i detenuti che potrebbero mettere a ferro e fuoco il carcere se l’emergenza persiste?”. E ancora: “Non sa il dirigente generale dell’Asl che l’interruzione del servizio di assistenza ai detenuti è punito da leggi dello Stato?”. Per il sindacalista la miccia è pronta a esplodere: “Purtroppo non hanno ancora capito che ci troviamo di fronte a 900 detenuti (con un sovraffollamento di più dell’80% della capienza regolamentare) di cui tantissimi affetti da patologie importanti tra cui psichiatrici, tossicodipendenti, patologie croniche, cardiache. Ci si è mai chiesto come mai nel 2023 ci sono stati parecchi detenuti defunti per “cause naturali”? Sicuramente la mancanza di medici è un problema generale, ma riteniamo inaccettabile - ribadisce - che l’Asl di Taranto non metta in campo iniziative straordinarie per tamponare il fenomeno”. Nelle pieghe di un’emergenza sempre più pericolosa, il Sappe denuncia anche altre irregolarità, che spostano anche i medici nella categoria delle vittime: “Ci è stato riferito - dice Pilagatti - che in alcuni casi l’Asl recluterebbe medici senza esperienza pagandoli 80-100 euro l’ora, mentre ci sarebbero altri medici che verrebbero impiegati in misura molto ridotta nonostante una grande esperienza in medicina penitenziaria (maturata in tanto anni di lavoro presso la struttura carceraria) che verrebbero pagati circa 25 euro l’ora. Inoltre sembrerebbe che i medici utilizzati solo per i turni notturni sarebbero disposti anche a lavorare di più delle 20 ore concesse, senza che l’Asl nonostante l’emergenza, dia risposte”. Sollecitata dall’Edicola del sud, la Asl ha preferito non commentare. Chiavari (Ge). Il 70% dei detenuti è straniero, 31 i tossicodipendenti di Stefano Petrella* levantenews.it, 6 gennaio 2024 Ieri mattina una delegazione del Partito Radicale composta da Stefano Petrella, Angelo Chiavarini e Luca Robustelli accompagnata dall’avvocato Piero Casciaro (rappresentante di Aiga), dal Consigliere Regionale Pippo Rossetti (Azione) e dal Sindaco di Casarza Ligure Felice Stagnaro si è recata presso la Casa di Reclusione di Chiavari. Ci hanno ricevuti con grande cortesia e disponibilità il Comandante Stefano Bruzzone, l’educatrice Patrizia Giai Levra e la nuova Direttrice Darlene Perna, e proprio quest’ultima è la grande e importante novità perché con l’arrivo di nuovo personale le carceri liguri tornano dopo anni ad avere tutte un direttore di ruolo (ad esserne sprovviste erano Chiavari, La Spezia e Imperia). Eravamo stati nei giorni scorsi anche a Sanremo (il 22-12) - Marassi e Reparto detentivo dell’Ospedale San Martino (28-12) - Pontedecimo (30-12) e Imperia (3-1) nel giro di visite tenute in occasione delle festività in tutta Italia. Chiavari non è il più rappresentativo della situazione generale, ma è anzi una felice e apprezzabile eccezione: piccolissimo e per anni al servizio del Tribunale di Chiavari come casa circondariale è sopravvissuto alla sua chiusura e completamente ristrutturato nel 2015 ha assunto le funzioni di Casa di Reclusione destinata a chi sconta pena o residuo pena entro i 5 anni e ha residenza in zona. Modeste le sue dimensioni: ha solo una sezione su due piani detentivi e un’altra più piccola divisa tra detenuti che fruiscono dell’art. 21 (lavoro esterno) e semilibertà. 69 detenuti su 52 posti di capienza regolamentare, 51 gli stranieri (più del 70%), 4 i semiliberi e 6 detenuti in art. 21, 31 i tossicodipendenti (8 in trattamento con farmaci sostitutivi) e una gran parte dei presenti si trova in carcere per reati connessi all’uso o al traffico di droghe, a ricordarci il peso di una legislazione proibizionista che ci regala da anni il primato europeo della presenza in carcere di tossicodipendenti e che sarebbe necessario modificare radicalmente; 2 gli educatori, 34 gli agenti presenti sui 38 previsti, 5 su 8 previsti gli ispettori e 5 su 11 i sovrintendenti; tra questi a far sentire di più la loro assenza a detta del comandante sono gli agenti. Il regime è di apertura da mattina a sera, le celle sono in buone condizioni (ce ne sono da 2 e da 4, ma queste ultime rispettano poco la metratura prevista), docce e servizi igienici in buono stato, ma sprovvisti del bidet; oltre a una grata alle finestre delle celle al primo piano sono presenti pannelli che tolgono aria e non dovrebbero esserci; piccole le dimensioni dei passeggi e della palestra, come spazi di socialità sono utilizzati il refettorio e la biblioteca/mediateca fortemente voluti dalla Dottoressa Penco anni fa; pulita e bene attrezzata l’area medica con l’annesso gabinetto odontoiatrico; per quanto riguarda i corsi di studio sono una ventina a frequentare le superiori (il corso per grafico pubblicitario), un solo detenuto frequentava i corsi del Polo Universitario, ma di recente è tornato in libertà. Non è garantita l’assistenza medica h 24, ma un medico è presente ogni giorno dalle 9 alle 23, sono 4 i medici che si alternano, il Ser.T. accede una volta a settimana, appare buono il rapporto con l’ASL, il dirigente medico è la Dottoressa Secchi, ma non si tratta di una figura presente in istituto come era sempre stato fino a poco tempo fa e gli operatori chiedono giustamente che torni ad essere tale. Un punto controverso è il divieto di cucinare in proprio stabilito anni fa, i detenuti hanno a disposizione una piastra a induzione (che evita i rischi creati dal fornello), ma possono utilizzarla solo per scaldare cibi già confezionati, per questo era stato realizzato il refettorio, organizzata al meglio la cucina e scelto con grande attenzione il cuoco tra i detenuti; la qualità del vitto fornito però - nonostante i nuovi appalti che lo separano dal sopravvitto - è scadente e la cifra stabilita per garantirlo del tutto inadeguata (circa 3,50 euro pro capite al giorno), una parte dei detenuti chiede di poter tornare a cucinare in proprio. Un problema in cui ci imbattiamo è quello delle residenze in carcere a cui i condannati hanno diritto in base all’art 45 (comma 4) della legge di ordinamento penitenziario e contestualmente al rinnovo o al rilascio di un documento: molti comuni non lo riconoscono e soprattutto si oppongono al rilascio del documento, che al detenuto è necessario per poter avere accesso alle misure alternative, su questo a Chiavari ci sono problemi e la situazione è difficile in tutta la Liguria. Un altro è quello dell’attività interna per cui sono decisamente pochi gli spazi, la nuova Direttrice pare orientata ad incrementarla e a reperirne di nuovi per avviare attività lavorative che al momento non sono presenti, ci auguriamo possa riuscirci. L’istituto aveva fino a qualche anno fa una ventina di detenuti che uscivano in art. 21 o semilibertà e ha buoni rapporti con il Comune di Chiavari e altri del territorio, l’obiettivo dovrebbe essere secondo noi di tornare a quei numeri e possibilmente superarli. In questo modo si giustifica il suo mantenimento in esercizio e viene da pensare che altri piccoli istituti che soffrono di carenza di spazi come Imperia visitato due giorni prima potrebbero offrire condizioni vivibili se provvisti di maggiori possibilità di accesso al lavoro esterno, mentre riteniamo del tutto da respingere l’idea di sostituirli con nuovi istituti realizzati lontano dall’abitato come l’infelice esperienza di Sanremo (che qualcuno vorrebbe replicare in Valbormida) purtroppo dimostra. *Membro del consiglio generale del Partito Radicale Milano. L’impresa sociale dei detenuti: “Cambiamo vita con il lavoro, 12 persone sono già rinate” di Chiara Evangelista Il Giorno, 6 gennaio 2024 “Mitiga” è stata fondata da Vincenzo Dicuonzo, a Bollate. “Così ci sosteniamo a vicenda”. L’obiettivo è il reinserimento considerando le richieste delle aziende e le inclinazioni dei singoli. Se si dovesse descrivere in poche parole, utilizzerebbe l’espressione “diario umano” per le storie che ha incontrato e ascoltato in oltre dieci anni di carcere. Vincenzo Dicuonzo, 43 anni, ora è a Bollate, in regime di articolo 21, cioè può uscire la mattina dall’istituto penitenziario e deve ritornarci la sera. Le esperienze che ha raccolto negli anni di detenzione lo hanno portato a fondare “Mitiga”, un’impresa sociale gestita da detenuti per aiutare i detenuti stessi a trovare lavoro. Com’è nato questo progetto? “Tutto è iniziato dalla mia esperienza detentiva. Si crea una simbiosi con le persone con cui condividi la sofferenza. Le loro storie diventano la tua. In carcere non ci sono “umani con tre braccia” ma gente comune, dal prete all’ex vigile. Finire in cella può accadere a chiunque perché la fallibilità fa parte dell’essere umano. Ecco, da tutte le storie che ho incontrato e che ho ascoltato, così diverse tra loro, emergeva un tratto in comune: la volontà di fare qualcosa per cambiare la condizione detentiva. Quindi abbiamo pensato di rimboccarci le maniche”. Tra queste storie, quali sono quelle che si porta dentro? “Direi quelle di chi ha vissuto sulla propria pelle gli errori giudiziari. A volte chi giudica dimentica che c’è in gioco la vita e la libertà delle persone. Bisognerebbe averne più cura. Queste storie sono state la molla principale per creare il nostro progetto”. In cosa consiste “Mitiga”? “È un’impresa sociale, costituita ad agosto 2023, con lo scopo principale di far trovare lavoro a chi è in stato detentivo e a chi è uscito dal carcere. Una sorta di “agenzia interinale fatta da detenuti per i detenuti”. Ora nel team siamo cinque. La nostra idea è favorire il reinserimento lavorativo rispettando anche le competenze e le attitudini naturali perché questo talvolta non avviene. Ci sono casi di persone che prima di entrare in carcere lavoravano, ad esempio, come pasticciere e dopo si son dovute reinventare come giardinieri. Un sistema penitenziario che non tiene conto della persona e della sua dignità non potrà mai favorire la reintegrazione nella società civile. Sarà più facile la recidiva”. Come avviene il reinserimento lavorativo? “Il progetto si divide in tre macro-aree. La prima è la “formazione interdisciplinare”. In questa fase si lavora sugli schemi cognitivi e comportamentali della persona. Dopo si procede a fornire una “formazione professionalizzante”, dando gli strumenti per imparare un lavoro. Si tiene conto delle figure professionali richieste dalle aziende e delle inclinazioni del detenuto. L’ultima fase è l’inserimento lavorativo. Per ora siamo riusciti a collocare una dozzina di persone ma non è stato facile”. Perché? “Nel momento in cui abbiamo presentato il nostro progetto a volte ci hanno persino riso in faccia. Ci siamo sentiti dire: “Carcerati che trovano lavoro ai carcerati? È assurdo”. La fiducia era poca. Poi le cose sono cambiate. Ora con Alessia Villa, presidente della Commissione carceri regionale, stiamo lavorando a un protocollo con Regione Lombardia. L’intento è quello di creare una rete con attori che si muovano all’unisono verso uno scopo comune e condiviso: la reintegrazione lavorativa”. Cosa manca al carcere perché torni ad essere “umano”? “Secondo me, bisognerebbe sensibilizzare, attraverso l’informazione, la società a questi temi. C’è ancora troppo pregiudizio. In secondo luogo, bisognerebbe ripensare e superare alcuni istituti. L’articolo 27 della nostra Costituzione parla di rieducazione. Ma è difficile rieducare una persona a 50-60 anni. Perché, invece, non si offrono ai detenuti possibilità? Ad esempio, la possibilità di ricominciare una nuova vita ed essere la migliore versione di se stessi, con un lavoro magari”. Catania. Con “U Principinu, un calcio al pallone” i detenuti dell’Ipm Bicocca diventano attori La Sicilia, 6 gennaio 2024 L’opera è un testo ispirato al “Il Piccolo Principe” e racconta la storia di tre ragazzi di strada. Si è svolto all’Ipm Catania Bicocca lo spettacolo “U Principinu, un calcio al pallone” diretto da Ivana Parisi, regista e presidente dell’associazione La Poltrona Rossa, messo in scena con la compagnia gli Ir-ritati in Catarsi, composta dai giovani ristretti della stessa struttura detentiva, con le scene realizzate da Luana Lombardo. L’opera è un testo ispirato al “Il Piccolo Principe” di Antoine de Saint - Exupéry e rappresenta la tappa finale del progetto teatrale Catarsi, sostenuto con i fondi Otto per Mille della Chiesa Battista e sviluppato dall’associazione La Poltrona Rossa. La storia di tre ragazzi - Lo spettacolo racconta la storia di tre ragazzi di strada che cercano un campo di calcio nel quartiere dove abitano. Ma per poter giocare a pallone, i tre si ritrovano ad allenarsi in una piazza gestita dalla malavita. Inizia, dunque, una fuga che li porta a perdersi nel deserto del Sahara, dove incontreranno il Piccolo Principe. Da qui un susseguirsi di avventure con strani personaggi curiosi che vengono da variegati mondi degli adulti. “Abbiamo voluto raccontare le storie dei ragazzi attraverso un pallone, parlando dei sogni, dei desideri e delle preoccupazioni di questi piccoli grandi ‘principi’, anche passando per le parole di Shakespeare - ha detto Ivana Parisi, che cura progetti artistici e creativi in carcere tra la Toscana e la Sicilia - con questo spettacolo, noi della Poltrona Rossa vogliamo invitare la società civile a riflettere sul fatto che solo puntando sulla cultura, sull’arte e il teatro possiamo pensare a un cambiamento della società, sia dentro che fuori il carcere. Lo spettacolo è stato una scommessa e resa possibile grazie alla piena disponibilità del direttore dell’Istituto Penale per Minorenni di Catania Bicocca Francesca Fusco e di Maria Randazzo, da anni impegnata nelle attività educative, dal resto del personale educativo interno, dalla Polizia Penitenziaria con il comandante Marzia Calcaterra e il sostituto commissario Giovanni Cuddè che ci permettono di svolgere in piena serenità i nostri progetti”. Paolo Siani, “Senza colpe”: quei bimbi in carcere con le mamme di Ugo Cundari Il Mattino, 6 gennaio 2024 Un libro sui minori che crescono dietro le sbarre. Arrestata per traffico internazionale di droga Alice, 33 anni, era detenuta a Roma, nella sezione nido del carcere di Rebibbia. Con lei i suoi due figli, Faith di 6 mesi, Divine di 18. La madre ripeteva che i suoi bambini, in cella, soffrivano. Doveva fare qualcosa per liberarli. Una mattina li prese in braccio e li scaraventò dalle scale del carcere. Faith è morta sul colpo. Divine dopo poche ore. All’epoca, nel 2018, i bambini innocenti detenuti nelle carceri italiane erano sessanta. Oggi il loro numero è diminuito di oltre la metà. Un anno aumenta, un anno diminuisce. Questi minori stanno dentro perché le loro madri sono state condannate. Scontano le pene materne. La prima parola che imparano dopo “mamma” è “apri”. Un’ingiustizia denunciata dal pediatra Paolo Siani l’anno scorso alla Camera, con un’apposita proposta di legge ferma al Senato, e oggi nel volume a sua cura “Senza colpe” (Guida, pagine 120, euro 10) con le fotografie di Anna Catalano e gli interventi di esperti del settore, garanti dell’infanzia e dei diritti dei detenuti, e di uno scrittore come Lorenzo Marone che racconta la sua visita in un carcere irpino a detenzione attenuata dove sono presenti madri con bimbi, visita durante la quale ha conosciuto Melina, cinque anni, diventata la protagonista del suo romanzo “Le madri non dormono mai” (Einaudi, 2022). La struttura ha le giostrine nei cortili, le guardie penitenziarie non indossano la divisa e non portano le armi, ma sempre un carcere rimane, “con le sbarre alle finestre e le porte blindate chiuse a chiave la sera alle 22, con barriere, grate, telecamere e serrature ovunque. Perché la detenzione resta detenzione”. Samuele Ciambriello si chiede se esiste un punto di equilibrio tra carcere e maternità o meglio se sia compatibile essere madre ed essere detenuta. Gemma Tuccillo racconta la storia di Paolo, quattro anni. La mattina viene accompagnato a scuola, all’uscita riportato in carcere. I suoi compagni non lo sanno. Quando uno di loro gli chiede se nel pomeriggio possono vedersi per giocare lui risponde che non è possibile perché la madre ha mal di testa. Alla sua età “Paolo già ha provato la vergogna, già ha sentito la necessità di utilizzare la menzogna, già ha agito con complicità e istintivamente ha sentito il bisogno di proteggere una persona cara”. Siani combatte perché i cosiddetti Icam, “Istituti a custodia attenuata per detenute madri”, scelti solo in alcuni casi in alternativa alle strutture carcerarie tradizionali, siano sostituiti da case-famiglia, “una possibilità che la legge attualmente in vigore già prevede, ma che non essendo stata finanziata, non viene quasi mai applicata”. In questa condizione, “in assenza di alternative o di altri esempi da seguire, opportunità da sfruttare, sogni da realizzare” è più probabile che i bambini detenuti “diventino delinquenti seguendo le orme dei genitori in assenza di alternative o di altri esempi da seguire”. Perché sia loro almeno concessa l’opportunità di diventare “scienziati, musicisti, attori, artigiani dipende dalla politica, dalla comunità che li accoglie e dalle chance che uno Stato giusto gli saprà offrire”. Amministratore di sostegno. Angeli o demoni? Quando la vita è nelle mani di un altro di Eleonora Martini Il Manifesto, 6 gennaio 2024 Il bilancio in chiaroscuro della normativa che il 9 gennaio 2024 compie vent’anni. Le richieste nei tribunali sono in forte aumento: da 43 mila nel 2014 a 59 mila nel 2021. Al Garante Palma le denunce di mancato rispetto della volontà degli amministrati. Angeli o demoni? Da qualche tempo dalle cronache a metà tra lo scandalistico e il sociale fa capolino una figura double face, un po’ salvifica e benefattrice e un po’ malandrina e approfittatrice. È l’amministratore di sostegno (AdS). Da Gianni Vattimo a Lando Buzzanca, da Gina Lollobrigida a Paolo Calissano, fino al più circostanziato caso di Carlo Gilardi, anziano morto in una Rsa dove era stato recluso contro il suo volere e per il quale l’Italia è stata condannata della Corte europea dei diritti dell’uomo, il ruolo dell’AdS, nato esattamente vent’anni fa come figura di ausilio alle persone più fragili e incapaci di gestire da soli la propria vita, sembra rivelarsi oggi talvolta perfino come un ostacolo alla realizzazione personale del beneficiario e un rischio per le sue libertà fondamentali. Naturalmente, a raccontare questa realtà non sono solo una manciata di casi Vip, ma centinaia di denunce in procura, proteste presentate ai giudici tutelari o, semplicemente, inesorabili vite che si consumano nell’anonimato senza via di scampo. Era il 9 gennaio 2004 quando la legge 6 venne promulgata dopo 18 anni dal progetto iniziale ideato dal giurista veneziano Paolo Cendon durante un convegno con Franco Basaglia. Era pensata a supporto di pochi utenti, i più fragili tra i fragili - interdetti, inabilitati, anziani non autosufficienti, infermi fisici o psichici, tossicodipendenti, minorenni: chiunque, come recita l’art.3, si trovi “nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi” - e venne inserita nel Libro I titolo XII del Codice Civile sotto il titolo “Delle misure di protezione delle persone prive in tutto o in parte di autonomia”. In vent’anni, invece, sono diventate centinaia di migliaia le persone che hanno beneficiato e tutt’ora beneficiano di quella legge, per i motivi più disparati: c’è chi lo chiede per sé (nel momento del bisogno o anche, come stabilito da una sentenza della Cassazione, per un possibile futuro prossimo); ci sono le richieste avanzate da parenti e congiunti, schiacciati da situazioni familiari che non sanno gestire; oppure lo impone un giudice tutelare su segnalazione degli assistenti sociali, dei Dipartimenti di salute mentale o delle forze dell’ordine. Mai e poi mai, però, l’AdS può non “tener conto dei bisogni e delle aspirazioni del beneficiario” come impone la stessa legge. Gli amministrati dunque sono diventati tanti, e in crescita continua in una società sempre più parcellizzata e depauperata, priva di reti sociali, che vede aumentare costantemente la speranza di vita e quindi il numero di anziani soli, i single, l’uso di psicofarmaci e l’abuso di sostanze. Motivo per cui anche i giudici tutelari - di cui gli AdS sono, per così dire, il braccio operativo - sono diventati fondamentali e richiestissimi nell’organizzazione degli uffici giudiziari. E carenti. Tanto che, di fronte alla mancanza strutturale di personale nei tribunali, il ruolo viene sempre più spesso ricoperto da giudici non togati. In teoria fino all’ottobre 2024, però, perché per effetto della riforma Cartabia i fascicoli per le amministrazioni di sostegno, per le inabilitazioni e le interdizioni passeranno alla giurisdizione dei “Tribunali per le persone, per i minorenni e per le famiglie” che saranno istituiti nelle 140 sezioni circondariali. Inoltre, una serie di attività e competenze verrà sottratta ai giudici onorari, con ricadute pesanti sui togati e sui tribunali già schiacciati da un numero esorbitante di cause pendenti. Studiando i flussi nazionali delle amministrazioni di sostegno che sopravvengono ogni anno nei Tribunali e nelle Corti d’appello d’Italia, pubblicati sul portale statistico del Ministero di Giustizia, si evince che le richieste sono in aumento: nel 2014 erano 43.444 i nuovi fascicoli giunti, nel 2016 le domande erano già 5 mila in più (48.535), mentre nel 2021 (ultimo anno con i dati completi disponibili) se ne sono contate quasi 59.000. E, poiché i fascicoli per le amministrazioni di sostegno si chiudono solo quando il beneficiario non ne ha più bisogno, le pratiche pendenti che i giudici tutelari continuano a seguire si sommano arrivando a numeri a sei cifre: nel 2014 erano 183.549 e nel 2021 erano già arrivate a 313.829. È questo il numero indicativo di quanti italiani nel 2021 beneficiavano della legge sull’AdS. La 6/2004 non prevede monitoraggi sull’applicazione delle norme a livello nazionale e demanda alle Regioni regolamentare gli strumenti attuativi delle linee guida in essa contenute. Ma ancora oggi almeno dieci regioni non hanno leggi d’applicazione, né un fondo regionale di solidarietà per pagare gli amministratori dei più indigenti. Esiste però un tavolo nazionale convocato presso il Ministero della Giustizia - riconvocato finalmente, solo qualche settimana fa, dal governo Meloni con presidente Alberto Rizzo, capo di gabinetto del ministro Nordio - per fare il punto sull’applicazione della legge e a tutela dei “diritti delle persone fragili”. Secondo il professor Paolo Cendon, che di quel tavolo è coordinatore scientifico fin dalle prime edizioni, le persone tutelate da AdS oggi in Italia superano abbondantemente le 400 mila. E se la domanda è in crescita, si fa anche sempre più fatica a trovare disponibilità per un compito così delicato all’interno della cerchia familiare. Ecco dunque che l’amministrazione di sostegno si sta trasformando in una professione, un’opportunità per avvocati e commercialisti, soprattutto, che si trasformano in gestori di vite altrui, spesso in batteria e dunque a discapito della relazione con il beneficiario prescritta dalla stessa legge. Scrive il Garante Mauro Palma nella Relazione al parlamento del 2023, rilevando un forte aumento delle segnalazioni pervenute al suo collegio contro gli amministratori di sostegno: “Generalmente denunciano un forte disallineamento tra l’agire delle figure tutelari e la volontà della persona, e una incapacità di ascoltare il tutelato. Nella prassi, il giudice tutelare raramente convoca presso di sé il tutelato, e ancor meno spesso si reca presso la struttura dove è assistito per ascoltare le sue volontà. In questi casi le scelte dell’anziano o del disabile vengono filtrate dalla parola dell’amministratore di sostegno, dei familiari, spesso in disaccordo tra loro, o dei servizi territoriali. A un’attenta analisi non sfugge che anche negli anni precedenti le segnalazioni ricevute nell’ambito della tutela della persona sono state relative all’impossibilità dell’amministrato di avere contatto con i parenti per volontà dell’amministratore di sostegno, al mancato rispetto della volontà dell’assistito di tornare nella propria abitazione, al trasferimento in un’altra struttura contro la propria volontà. Non ultimo, il rifiuto da parte del giudice tutelare di revocare l’amministratore di sostegno perché non rappresentava davanti alla volontaria giurisdizione le volontà dell’assistito”. Di storie che raccontano di incomprensioni o soprusi, di scarsa attenzione o veri e propri abusi ce ne sono molte. Ma forse molte di più sono le storie a “lieto fine”, quelle di persone che sono state aiutate e confortate da amministratori di sostegno seri, onesti, generosi, e di giudici tutelari che rispettano alla lettera le norme. Né angeli né demoni, dunque. Però l’attenzione ad un istituto così delicato e invasivo nella vita delle persone non è mai troppa. Amministratore di sostegno. Più controllo o più poteri: le riforme dei democratici e dei Radicali di Eleonora Martini Il Manifesto, 6 gennaio 2024 Le proposte di legge. 400mila le persone fragili che attualmente beneficiano della legge 6 usufruendo di un Amministratore di sostegno. Ma in parlamento è stato depositato solo il testo di Cuperlo, Ciani (Pd) e Dori (Avs). Dalla società civile arrivano impulsi - di segno opposto - a riformare la legge 6/2004. Da una parte c’è la richiesta di mettere più paletti ai poteri dell’Ads e più garanzie a tutela dell’amministrato, che è stata raccolta dall’associazione radicale “Diritti alla follia”. La loro proposta di legge (mai depositata in Parlamento per mancanza di referenti politici) evoca la Convenzione Onu per i Diritti delle Persone con Disabilità del 2006, ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge 18/2009. Tra i punti salienti, il testo stabilisce - oltre al superamento dell’interdizione e dell’inabilitazione - che “le funzioni di giudice tutelare possono essere esercitate solo da giudici togati”; che la nomina dell’Ads debba avvenire contestualmente a quella di un avvocato di fiducia o d’ufficio; che ad avanzare la richiesta di un Ads non possa mai essere un responsabile socio sanitario (per evitare ricoveri imposti nelle Rsa); che il giudice tutelare risponda entro 30 giorni “con audizione personale, anche attraverso strumenti telematici” alla richiesta di ascolto dell’amministrato; che solo il beneficiario possa decidere a chi, tra i suoi familiari e amici, debba essere precluso il controllo sull’operato dell’Ads; che né l’Ads né il giudice tutelare possano sostituirsi all’amministrato nelle decisioni cosiddette “personalissime”, ossia riguardanti il luogo dove vivere, le persone da incontrare e frequentare, la propria vita affettiva e di filiazione, e e altri aspetti del diritto privato. Inoltre, per evitare la professionalizzazione della figura dell’Ads, si propone che ogni amministratore possa adottare al massimo un beneficiario, e fino a tre se gli amministrati sono legati da parentela. A recepire la spinta opposta, invece, c’è alla Camera la proposta di legge del Pd sottoscritta anche da Avs che arriva dalle precedenti legislature, quando è stata depositata anche dal M5S. A giugno di quest’anno è tornata a firma Gianni Cuperlo, Paolo Ciani e Devis Dori: nella prima parte mira anch’essa ad abolire le “anacronistiche” interdizione e inabilitazione, mentre nella seconda parte insiste sulla “protezione” degli adulti disabili o fragili, allargando il parterre a tutte le “persone svilite”, prive cioè, di “inadeguatezza gestionale”. Pur muovendosi nel solco già delineato dalla legge 6/2004 di contemperamento tra libertà e protezione, tenendo conto del “cambiamento radicale che la soppressione dei vecchi istituti” di interdizione e inabilitazione comporta, la pdl del centrosinistra prevede una “protezione di tipo dinamico” con “rafforzamento del ruolo affidato al giudice tutelare”. Per esempio, in alcune circostanze “limite”, il giudice tutelare può disporre il divieto per il beneficiario di contrarre matrimonio o divorziare, di fare testamento, di riconoscere o disconoscere dei figli, di scegliere dove andare a vivere, chi incontrare, ecc. Insomma, una legge che ridefinirebbe la figura dell’Ads e delle libertà civili degli amministrati fragili. E il rischio è molto alto. Lottare ogni giorno contro l’odio per ricordare l’orrore di ieri e di oggi di Edith Bruck* La Stampa, 6 gennaio 2024 Ogni giorno dovrebbe essere il giorno dell’antisemitisimo, non solo il 7 ottobre. Sono naturalmente d’accordo con l’appello lanciato da Marek Halter. Ma credo che non basti. L’antisemitismo oggi è un vero tsunami, difficile da arginare solo con un giorno della memoria. È sempre esistito e continuerà purtroppo a esistere, i fatti di questi mesi hanno solo aumentato la sua potenza. Per questo prima di tutto serve una testimonianza quotidiana. Da 62 anni vado nelle scuole a incontrare i ragazzi e le ragazze. Una pratica che continuo a portare avanti anche adesso che sono in sedia a rotelle, perché credo che ai giovani serva conoscere la storia e sapere quello che è successo, scoprirne anche gli orrori. Devono sapere per il loro futuro, per il futuro dell’umanità. Mi colpisce, dunque, con favore che l’appello sia nato dalle nuove generazioni. A breve anch’io pubblicherò un libro con il mio editore, La nave di Teseo, che contiene le lettere degli studenti, l’ho chiamato I frutti della memoria. Uscirà il 27 gennaio. Credo fortemente che la memoria non riguardi solo noi sopravvissuti ma sia patrimonio di tutti. Oggi però c’è un ritorno preoccupante di antisemitismo dappertutto. L’unico argine è continuare a testimoniare contro l’imbarbarimento. Leggo con sconforto anche le notizie sul museo della Liberazione di Roma, se restasse chiuso sarebbe molto grave per un paese che già fa fatica a ricordare. Infine, spero che si trovi al più presto una soluzione di pace in Medio Oriente, è già troppo tardi. Ogni morte mi riguarda. La guerra è una sconfitta di tutti, è la sconfitta dell’umanità tutta. *Testo raccolto da Eleonora Camilli L’agonia del diritto internazionale e il rilancio dell’Unione europea di Roberta De Monticelli Il Manifesto, 6 gennaio 2024 L’Europa tace su pace e giustizia globale, come l’Onu impotente, tra l’enorme contraddizione fra l’universalismo dei principi e il particolarismo nazionale dei decisori politici. È veramente in agonia il diritto internazionale? È un petrarchismo da legulei o un’astrazione da cattedratici sostenere che debbano esserci leggi universali e intangibili? Possiamo continuare a distogliere lo sguardo dalle gigantesche violazioni che ne stanno promuovendo gli Usa, la cosiddetta sola democrazia del Medio Oriente, e al loro seguito l’Unione europea, mentre sbandierano i valori dell’Occidente? L’agonia del diritto internazionale è un fatto che ognuno di noi dovrebbe esercitarsi a riconoscere fin nei dettagli minimi, come suggerisce Domenico Quirico (La Stampa 3 gennaio 2024). Perché chiamare “uccisioni” - come fanno i telegiornali - e non assassinii le cosiddette esecuzioni extra-giudiziarie che “accompagnano tutta la storia dello stato ebraico” (è ancora Quirico a ricordarcelo, sullo stesso giornale il giorno dopo), esultando per di più di questi “bestiali atavismi” con la Bibbia in mano, indipendentemente da che si tratti di terroristi conclamati, giornalisti, operatori sanitari, artisti, o altre vittime “collaterali”? Perché concedere onori da capo di stato a un assassino che ha fatto squartare un uomo (Jamal Khashoggi) e denunciarne un altro alla Corte Penale Internazionale, a seconda delle alleanze o delle guerre che sono in corso? Perché non chiamare genocidio quello in corso a Gaza, anche dopo che gli esperti hanno spiegato, se proprio occorreva, che ventiduemila morti la maggior parte civili e due milioni di “sfollati interni” bastano e avanzano a chiamarlo così? Di fronte a quest’agonia, il silenzio dell’Unione europea è come la lama del coltello che senza pietà finisce di far fuori l’agonizzante, per suicidarsi con lui. Perché il Trattato istitutivo dell’Unione recita: “Nelle sue relazioni con il resto del mondo, l’Unione (…) contribuirà alla pace, alla sicurezza, allo sviluppo sostenibile della terra, alla solidarietà e al mutuo rispetto tra i popoli, al commercio libero ed equo, allo sradicamento della povertà e alla protezione dei diritti umani, in particolare i diritti del bambino, come all’osservanza rigorosa e allo sviluppo del diritto internazionale, compreso il rispetto dei principi della Carta delle Nazioni unite”. Come 840 e più funzionari dissenzienti hanno ricordato alla presidente della Commissione europea, lo scorso ottobre. Richiamandola invano a un dovere che sta “nella ragione dell’esistenza dell’Ue”: il compito di chiedere “un immediato cessate il fuoco e la protezione della popolazione civile di Gaza” (EUNews, 20 ottobre 2023). Quei funzionari, mettendo a rischio le loro carriere, hanno fatto quello che dovremmo fare tutti - ed è questa la sola cosa che si potrebbe obiettare a Quirico e a molti altri come lui, che sembrano voler ignorare, forse solo per disperazione, che il Diritto internazionale come ogni specie di Diritto vive solo nella nostra voce, nel soffio che rianima le carte di cui sono fatte le radici di un’Europa che voleva rinunciare a quelle di terra e di sangue. E che se non la rianimiamo del nostro soffio, questa lettera morta delle carte, anche il sottilissimo strato di civiltà per cui possiamo dirci umani è destinato a sprofondare di nuovo nel sottostante oceano di stupidità e ferocia su cui le nostre città galleggiano. Per questo Francesca Albanese, relatrice speciale dell’Onu per i Territori occupati in Palestina ha intitolato J’Accuse il piccolo libro scritto con Christian Elia: un libro che parla a tutti noi, e certo in particolare alle agenzie di verità senza cui le democrazie implodono, informazione, ricerca, animatori di pubblico dibattito. Perché non c’è ragione pratica se non nel suo esercizio alla prima persona, singolare o plurale. Non c’è niente negli affari del mondo che non ci riguardi. We, the people. Sì, anche noi italiani. Che dal nostro Presidente, in occasione del suo discorso di Capodanno, ci aspettavamo, in vista come siamo ormai delle elezioni europee, un cenno almeno al destino dell’Unione: che ha il nostro paese fra gli stati fondatori, e che è nelle nostre mani anche sotto l’aspetto delle ragioni per cui è nata. Invano. La diffusa indifferenza per l’impotenza delle istituzioni del diritto internazionale è anche un suicidio virtuale del progetto di una democrazia sovranazionale: basta rileggere il passaggio citato sopra dal trattato istitutivo dell’Ue per convincersene. Meno evidente, forse, è che le ragioni del silenzio europeo siano assolutamente le stesse che stanno alla base dell’impotenza dell’Onu: l’enorme contraddizione fra l’universalismo dei principi e il particolarismo dei decisori. Pensiamo soltanto al primo principio di quella Carta delle Nazioni unite che, come abbiamo visto, l’Ue si impegna a rispettare, e che istituisce il primato del diritto internazionale sulle sovranità nazionali relativamente almeno a due obblighi: l’obbligo di rispettare e implementare i diritti umani, e quello di ripudiare la guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti internazionali. Fu profetico il Segretario Generale Antonio Guterres, che nell’annuale discorso tenuto il 20 settembre scorso aveva avvisato i grandi della terra: o l’Onu si riforma, e riesce a superare il diritto di veto con il quale ciascuno degli stati membri del Consiglio di Sicurezza può paralizzare ogni iniziativa volta a far rispettare quei due obblighi, oppure va in pezzi, con conseguenze che preferiremmo non dover soffrire. Ma se l’Europa tace, è per la stessa ragione. Non ha una politica estera, si dice. Non può averla, perché gli stati membri non hanno ceduto la sovranità necessaria ad averne una. Ma l’Ue si era vincolata a molto di più di una politica estera: al ripudio stesso dell’idea che, dove sono in gioco i conflitti internazionali e i diritti umani, le “fonti” di legittimazione del potere politico possano mai essere le nazioni, come se non fosse dalle guerre e dall’occupazione coloniale provocate dai moderni stati-nazione che le nostre Carte volevano liberarci. Oggi - e in verità da oltre mezzo secolo - Palestina docet. Questa priorità delle ragioni del diritto - ovvero della pace e della giustizia globale - su quelle ormai tanto miopi della “politica” - racchiude in sé un intero programma capace di motivare al voto “europeo” chi oggi dispera della politica nazionale. Attuare la costituzione europea è cambiare politica su tutto, dai riarmi nazionali sempre più accelerati ai migranti all’ambiente alla povertà al lavoro. Se non ripartiranno da questa radicalità ideale, le sinistre avranno semplicemente collaborato alla dissoluzione dell’Unione nell’”Europa delle nazioni” - il suo contrario. Lo sporco boom dei soldi armati di Francesco Vignarca* Il Manifesto, 6 gennaio 2024 Le guerre sono un grosso affare: grande balzo delle azioni in Borsa e del portafoglio ordini dell’industria militare. Grazie non solo agli ultimi conflitti: il business è in crescita da due decenni. I due grandi conflitti armati che negli ultimi mesi hanno rimesso la guerra al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica occidentale (mentre troppe altre guerre continuano ad essere ignorate) ne hanno, tra le altre cose, resa evidente la dimensione economica e di guadagno “esplosivo” per alcuni centri di potere e capitale. Come Rete Pace Disarmo avevamo già sottolineato in precedenti analisi la robusta crescita in Borsa delle industrie militari a seguito del conflitto in Ucraina e delle conseguenti decisioni internazionali (con solo una pausa tecnica di “realizzo profitto”). Una recente analisi del Financial Times rafforza tale lettura anche oltre i consueti luoghi comuni: la media dei titoli del settore è cresciuta del 25% negli ultimi 12 mesi, mentre l’indice europeo Stoxx per l’aerospazio e la difesa è salito di oltre il 50% nello stesso periodo. Ma la tendenza azionaria è solo una “previsione di guadagno” che ingolosisce investitori e speculatori basata sui numeri più significativi del portafoglio ordini. Secondo i dati del quotidiano della City riferiti a 15 tra le principali aziende militari, alla fine del 2022 (ultimo anno con dati completi) il totale degli ordini confermati era di 777,6 miliardi di dollari, in aumento sui 701,2 miliardi di dollari di due anni prima. Tendenza proseguita anche nei primi sei mesi del 2023 (con 764 miliardi di dollari già confermati). E siamo solo all’inizio. Nel diffondere la lista delle prime 100 aziende militari al mondo nel 2022 il SIPRI di Stoccolma ha evidenziato un fatturato totale di poco meno di 600 miliardi di dollari rimasto in linea con l’anno precedente perché ancora non in grado di “assorbire” il grande salto, ormai già deciso, della spesa militare globale (già arrivata al massimo storico di 2.240 miliardi di dollari). D’altronde i tempi delle decisioni politiche sui bilanci pubblici e delle tempistiche su ordini, contratti e dettagli tecnici sono così lunghi che pure l’invasione russa di quasi due anni fa si sta oggi appena manifestando nel portafoglio ordini e quindi pochissimo nei fatturati. A parte ovviamente per quel tipo di materiali con immediata richiesta a seguito di conflitti ad alta intensità (come il munizionamento o le artiglierie) o per le produzioni particolarmente innovative (i droni). Se si vuole capire davvero cosa succede nel campo dell’industria militare serve dunque uno sguardo più allargato anche sul passato, per cogliere una dinamica molto più elaborata e non dipendente solo da situazioni di conflitto specifiche. Pena commettere l’errore di considerare occasionali delle scelte che sono invece strutturali e vengono fatte passare come “eccezionali” (dalla politica e dagli interessi armati) solo per farle digerire senza proteste. Quella del discorso politico è la vera novità del mondo militare “post pandemia”, mentre l’enorme crescita degli affari armati non è infatti iniziata due anni fa. Lo mostrano gli stessi dati del Financial Times sul portafoglio ordini delle prime 15 aziende militari: cresciuti di oltre il 10% negli ultimi due anni ma in realtà “esplosi” del 76% soprattutto negli ultimi otto (da 441,8 miliardi nel 2015 ai già citati 777,6 del 2022). Ancora una volta il motore di tutto è la crescita della spesa militare, ormai “sdoganata” e non più nascosta. Come notato con precisione dal recente Rapporto “Arming Europe”, pubblicato da Greenpeace, nell’ultimo decennio (2013-2023) le spese militari hanno registrato in Europa un aumento record di 14 volte superiore a quello del PIL (+46% nei Paesi Nato-Ue, +26% in Italia) trainato soprattutto dall’acquisto di nuove armi (+168% nei Paesi Nato-Ue; +132% in Italia). A livello globale la spesa militare è praticamente raddoppiata dal 2001 in poi, sperimentando un trend di crescita più forte soprattutto nell’ambito del procurement militare di nuovi sistemi d’arma. La già citata SIPRI Top100 ha visto un fatturato raddoppiato nello stesso periodo, e la crescita dal 2015 (da quando vengono valutate anche le aziende cinesi) è del 14%. Non è un caso quindi che il trend in Borsa dell’industria militare post 2001 (con le “guerre al terrorismo” sia ancora più spaventoso di quello recente: un’azione Lockheed Martin o di Northrop Grumman è passata da meno di 30 dollari ai 450 attuali, quella di General Dynamics da 27 a 250. Una di Rheinmetall valeva 10 euro ed ora ne vale oltre 300 e pure Leonardo (nonostante un calo durante la dismissione del civile) negli ultimi dieci anni ha decuplicato il proprio valore azionario. Il che rafforza la visione di dinamiche strutturali, non episodiche, che hanno portato alla formazione di un complesso che ora deve essere denominato come “militare-industriale-finanziario”, ben diverso da quello del XX secolo. Tra i principali azionisti delle maggiori aziende di armi troviamo infatti gli stessi “mega fondi” (il che suggerisce anche l’idea che non sia certo la “concorrenza” la base di questo settore): BlackRock, Vanguard, Capital Group, Wellington, State Street, Jp Morgan… Riassumendo: solo valutando un trend più esteso e articolato (in cui si mettono in connessione dati diversi) si può rafforzare l’intuizione quasi banale di un continuo sfruttamento della guerra (e di tutto quanto ne deriva, anche in termini di sofferenza e distruzione) da parte di certi attori. Per poter cercare di contrastare efficacemente la propaganda armata di chi ha interessi in questo campo e della politica ormai succube di questo mantra che non migliora di certo la condizione di sicurezza o di Pace del mondo. *Coordinatore Campagne della Rete Italiana Pace Disarmo Stati Uniti. In Alabama un uomo sarà giustiziato con la “maschera della morte” a base di nitrogeno di Massimo Basile La Repubblica, 6 gennaio 2024 Il 25 gennaio Kenneth Smith, 58 anni, condannato per un omicidio commesso quando ne aveva ventitré, diventerà il primo uomo in America giustiziato con la “maschera della morte”: condotto nel braccio finale di un penitenziario dell’Alabama, legato a una sedia, gli verrà allacciata al volto una maschera infernale. A ogni respiro, Smith rilascerà ossigeno e riempirà polmoni e cervello di nitrogeno, un composto inodore, incolore, insapore, ma letale. Sarà un lento avvicinarsi al soffocamento. Chuck Palahniuk, autore di Soffocare, dovrà aggiornare le sue storie, ma già ora Smith sarebbe un personaggio da romanzo: è uno dei pochi essere umani al mondo in grado di raccontare cosa si prova a morire per iniezione letale in un penitenziario americano. Il 17 novembre di due anni fa sarebbe dovuto morire tra dolori strazianti, invece il veleno che gli era stato iniettato in vena non fece fino in fondo il suo compito. Per un’ora e venti i “boia” del penitenziario di Atmore, Sud dell’Alabama, avevano cercato inutilmente di trovargli la vena giusta. Lui continuava a dire loro che stavano iniettando il veleno nel muscolo e non in vena, e quelli si erano innervositi. Dopo averlo rivoltato sul lettino e messo in posizione di crocifisso, a faccia in giù, uno degli esecutori, in preda a una crisi di nervi, lo aveva colpito ripetutamente con la siringa nel collo, nel tentativo di mettere fine alla procedura. Scaduta l’ora e mezza prevista per l’esecuzione, la pena venne sospesa. Tredici mesi dopo, ci riprovano: Smith ha ottenuto dal giudice di risparmiargli l’iniezione letale, ma su di lui verrà adottato un sistema mai sperimentato prima, di cui nessuno conosce in realtà gli effetti. Smith aspettava l’esecuzione da 36 anni, da quando era stato condannato nell’88 per la morte di Elizabeth Sennett, 45 anni. Era stato assoldato per mille dollari da un uomo, che aveva ricevuto l’incarico dal marito della vittima, un pastore della Chiesa di Cristo, che voleva intascare i soldi della polizza sulla vita di Elizabeth. Smith e un complice avevano accoltellato a morte la donna. Al processo la giuria popolare, con un quasi plebiscito, 11 sì e un no, votò per l’ergastolo, ma il giudice tramutò la condanna in pena di morte. Ora siamo arrivati al secondo conto alla rovescia, ma lo strumento della maschera ha generato polemiche. Quattro esperti delle Nazioni Unite ne hanno contestato la legalità e chiesto la sospensione dell’esecuzione: non ci sono prove scientifiche, affermano, che questo sistema risparmi sofferenze che violino la legge internazionale. Il rischio è di tortura in barba a tutte le convenzioni riconosciute dai Paesi occidentali. E l’Alabama, nonostante l’idea di molti suoi abitanti, è considerata parte degli Stati Uniti. I quattro esperti indipendenti si sono occupati del caso grazie all’iniziativa di due docenti, uno inglese e uno americano, che hanno sollevato dubbi sulla legittimità dell’uso della maschera al nitrogeno. “Se Smith verrà giustiziato dall’Alabama - ha dichiarato al Guardian il professor Jon Yorke, docente di diritti umani all’Università di Birmingham - ci sarà un aborto di giustizia e un atto barbaro di violenza di Stato”. Joel Zivot, esperto di iniezioni letali all’ospedale di Emory University, in Georgia, sottolinea come tutta la procedura fosse andata avanti in gran segreto. “E la segretezza - ha commentato - è nemica della giustizia”.