Carcere dimenticato per insensibilità o per calcoli elettorali? di Glauco Giostra Il Dubbio, 5 gennaio 2024 Se infilassimo la mano nel sacco contenente tutti i file del confronto politico nel 2023, non ci sarebbe quasi tema che non ne sia stato oggetto: troveremmo persino un file con onanismi dialettici su “il o la Presidente?”. Ma c’è un dibattito che non riusciremmo mai, neppure rovistando accuratamente, a tirar fuori: quello sulla drammatica situazione carceraria. Beninteso, non sono mancate singole voci, ostinatamente “inarrese” al medioevo penitenziario del nostro Paese, ma l’opinione pubblica le deve aver percepite come espressioni di catastrofismo a buon mercato, se il problema non è nell’agenda di nessun partito. Eppure una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo di dieci anni fa ha condannato il nostro Paese per trattamento inumano e degradante dei detenuti. Eppure, il Presidente Napolitano ha inviato il suo unico messaggio alle Camere per “porre con la massima determinazione” la “drammatica questione carceraria”, che attiene ai “livelli di civiltà e dignità” del Paese. Eppure, l’attuale Presidente della Repubblica, nel suo ultimo discorso di insediamento ha ammonito: “Dignità è un Paese dove le carceri non siano sovraffollate e assicurino il reinserimento sociale del detenuto. Questa è anche la migliore garanzia di sicurezza”. Ma si sa, siamo popolo dalla amnesia facile, quando sarebbe impegnativo ricordare. Permane, però, anche la testimonianza dei numeri, che sono argomenti testardi. Solo in quest’ultimo anno: oltre 60000 detenuti; 120% di sovraffollamento; 68 suicidi; più del 20% della popolazione detenuta si è abbandonata a gesti di autolesionismo e più del 40% ha fatto uso di psicofarmaci; erogati quasi 5000 indennizzi per trattamento inumano e degradante; più di 90000 c. d. condannati liberi sospesi. Una vergogna nazionale. Non si può neppure invocare l’ attenuante, pur debole, di una recrudescenza della criminalità, che avrebbe colto impreparate strutture e organizzazione del sistema penitenziario. Anzi, la prospettiva diacronica smaschera un ingiustificato trend carcerocentrico. Dal 1990 ad oggi il numero degli omicidi è passato da poco più di 3000 a poco più di 300 (un decimo!), mentre la popolazione penitenziaria è passata da 25573 a oltre 60000 (ben più del doppio!). Davanti alla spietata eloquenza dei numeri, è inutile tornare a spendere le argomentazioni, ormai tediose nella loro insistita ripetitività, a sostegno della necessità costituzionale, convenzionale e civile di un profondo cambiamento della politica penale in generale e dell’esecuzione della pena in particolare: a chi ha il coraggio di ignorare questi numeri non mancherà certo l’ignavia per lasciare inascoltate siffatte considerazioni. Ma probabilmente non di sola ignavia si tratta, bensì di fruttuoso calcolo politico. Robert Neel Proctor, docente di Storia della scienza nell’Università di Stanford ha coniato il termine agnatologia per denominare la scienza che studia le strategie che i gruppi di potere utilizzano per mantenere e diffondere l’ignoranza della collettività. Ad esempio, ingannandola sull’efficacia di certi placebo normativi. Così l’insicurezza sociale non è per certa politica un problema da affrontare sul piano culturale, economico, ociale, ma una condizione elettoralmente redditizia da coltivare. È facilissimo fingere di farsi carico dei pericoli e delle paure della gente digrignando i denti della cieca repressione penale, cioè moltiplicando i reati, aumentando le pene, ostentando l’intransigenza punitiva (“deve marcire in galera”). Non importa che ciò sia assolutamente inutile quanto a tutela della sicurezza. È infatti trucco da imbonitori, il racconto secondo cui il consorzio civile vive in sicurezza con i cattivi richiusi e i buoni liberi. A tacer d’altro, salvo che non si voglia punire tutti i reati con l’ergastolo ostativo, i condannati nella società libera debbono fare ritorno. E da come non da quando - ci fanno ritorno dipende la sicurezza sociale. Ed è statisticamente provato che un graduale, monitorato reinserimento sociale del condannato riduce drasticamente l’indice di recidiva. Mentre limitarsi a recludere le persone in quella sorta di stabulari di Stato, quali sono ormai molti nostri penitenziari, significa garantirsi che odieranno la società in cui faranno ritorno e nel cui nome sono state non già giustamente ristrette nella loro libertà, bensì oltraggiate nella loro dignità, costringendole in condizioni indegne di un uomo. Ma è difficile convincere l’opinione pubblica di questa elementare verità. Almeno sino a quando ci limiteremo a ricordare la funzione costituzionale della pena o ad invocare la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. È anche colpa nostra, operatori del diritto e dell’informazione, se la gente ascolta soltanto gli interessati allarmismi della politica. Non ci sappiamo far sentire. In questa democrazia emotiva il tema dell’insicurezza, sociale ed economica, monopolizza ogni ragionamento. A queste preoccupazioni è soprattutto necessario dare risposte: dobbiamo parlare dell’alto costo in termini di sicurezza e anche in termini economici di una visione ciecamente carcerocentrica della pena. Ma dobbiamo anche riuscire a interpellare la politica, incalzandola con domande che sarebbero ineludibili in una democrazia matura. A cominciare da due interrogativi di fondo. Alcune forze attualmente all’opposizione nella scorsa legislatura avevano saputo proporre l’unico approccio credibile per affrontare un problema tanto complesso come quello penitenziario, promuovendo gli Stati generali dell’esecuzione penale per poi abbandonarne politicamente i copiosi risultati, abbacinate da deprimenti calcoli elettorali: si riconoscono ancora in quell’approccio al problema o restano abbarbicate al dubbio di morettiana memoria “ma mi rende elettoralmente di più se difendo le mie proposte o se ne prendo le distanze?”. Quanto alla maggioranza: pensa di continuare ad impegnarsi nel compito molto arduo, ma sinora alla sua portata, di riuscire a peggiorare l’attuale situazione, non solo con la sua imbarazzante incontinenza panpenalistica, ma anche modificando l’art. 27 Cost. (per tarpare le ali alla funzione rieducativa della pena), abolendo il reato di tortura e introducendo il reato di ribellione carceraria? Carceri affollate, è sempre più emergenza di Ilaria Dioguardi vita.it, 5 gennaio 2024 La popolazione detenuta continua a crescere. A fronte di 51.272 posti ufficialmente disponibili, le persone sono oltre 60mila, con un tasso di affollamento medio del 117,2% e una situazione gravissima in alcuni istituti. Un report di Antigone fotografa la situazione delle carceri italiane a fine 2023. “Fra un anno si supereranno le 67mila presenze come ai tempi della condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo”, avverte Alessio Scandurra, coordinatore dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione dell’associazione. Da settembre a novembre 2023, i detenuti sono aumentati di 1.688 unità. Nel trimestre precedente di 1.198, in quello ancora prima di 911. Nel corso del 2022 raramente si è registrata una crescita superiore alle 400 unità a trimestre. A fronte di 51.272 posti ufficialmente disponibili (in realtà sono circa 3mila in meno), erano 60.116 le persone detenute il 30 novembre scorso. Insomma, non solo la popolazione detenuta cresce, ma cresce sempre di più. “L’aumento della popolazione detenuta è una costante del nostro sistema. I detenuti nelle carceri italiane aumentano sempre, tranne quando si adottano misure straordinarie per invertire la tendenza. Poi quando finiscono le misure straordinarie, riparte la crescita”, afferma Alessio Scandurra, coordinatore dell’osservatorio sulle condizioni di detenzione per l’associazione Antigone. “Il punto è che questa crescita, nell’ultimo anno ha subito un’accelerazione notevole. D’altronde il governo non solo non ha messo in campo delle misure per limitarla o contenerla, ma anzi ha introdotto nuovi reati, ha adottato delle misure tali per cui è normale che i numeri crescano. Si sono superate le 60mila presenze a fine novembre (il dato di fine dicembre non è ancora disponibile), con un andamento in continua crescita, soprattutto negli ultimi mesi”, continua Scandurra. “Fra un anno, quando andremo a fare i bilanci del 2024, se la popolazione detenuta dovesse continuare a crescere con il ritmo attuale, le presenze in carcere saranno oltre 67mila, come nel 2013, ai tempi della condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani, Cedu. Il che vuol dire una condizione invivibile per la popolazione detenuta e per chi in carcere ci lavora. Inoltre, probabilmente tutti quelli che sono gli indicatori classici, quali suicidi, autolesionismi, conflitti, rivolte, rischiano di aumentare e di accentuarsi. È una situazione di grande allarme di cui un po’ di sintomi si cominciano a vedere, come le recenti rivolte dei detenuti in carcere. È una situazione abbastanza alla luce del sole”. “A fronte di un’emergenza, il fatto che appesantisce il clima è che non c’è la percezione di una messa in cantiere di risposte a quest’emergenza. Probabilmente il governo sta facendo l’errore di pensare che siamo in una situazione di gestibilità, me lo auguro ma temo che non sia così. Per cui qualche misura straordinaria andrà pensata. Alcune misure che sono state pensate servono ad irrigidire il clima interno, come l’introduzione del nuovo reato in caso di protesta, di rivolta in carcere da parte dei detenuti”. Il consiglio dei Ministri ha approvato tre disegni di legge che costituiscono il nuovo pacchetto sicurezza. Si prevede il reato di “rivolta in carcere” per chi “usi atti di violenza o minaccia”, con una pena equiparata (si prevede una sanzione di 8 anni) a quella di chi pratichi la “resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti”. “C’è sempre quest’idea che, con le punizioni, si cambia la realtà. Non è così. Tra l’altro, una fetta importante della popolazione detenuta non ha molto da perdere, non sono attori razionali che fanno calcoli costi-benefici, altrimenti non starebbero in galera”, prosegue Scandurra. “Una risposta puramente punitiva su una piccola parte della popolazione detenuta può avere una presa, ma temo che sulla larga maggioranza questa presa non ci sia”. Degli oltre 60mila detenuti, 2.549 sono donne, il 4,2% dei presenti, mentre sono 18.868 gli stranieri, il 31,4% dei presenti. Il tasso di affollamento ufficiale medio è oggi del 117,2%, ma a fronte di questo valore in Puglia si è ormai al 153,7% (4.475 detenuti in 2.912 posti), in Lombardia al 142% (8.733 detenuti in 6.152 posti) e in Veneto al 133,6% (2.602 detenuti in 1.947 posti). La situazione in molti istituti è gravissima. A Brescia Canton Monbello l’affollamento è ormai al 200%, a Foggia al 190%, a Como al 186% e a Taranto al 180%. Gli spazi detentivi ufficialmente disponibili sono passati dai 50.228 della fine del 2016 ai 51.272 attuali: 1.000 posti detentivi in più a fronte di una crescita della popolazione detenuta nello stesso periodo di 5.463 unità, nonostante ogni governo nel frattempo abbia annunciato la costruzione di nuove carceri. Ma lo spazio a disposizione dei detenuti diminuisce. Nelle 76 carceri visitate dall’Osservatorio di Antigone negli ultimi 12 mesi in 25 istituti (il 33%), c’erano celle in cui erano garantiti tre metri quadrati calpestabili per ogni persona detenuta. Non a caso il numero di ricorsi da parte di persone che lamentavano di essere state detenute in condizioni che violano l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e che vengono accolti dai tribunali di sorveglianza italiani, è in costante aumento dalla fine della pandemia: sono stati 3.382 nel 2020, 4.212 nel2021 e 4.514 nel 2022. Ma lo spazio diminuisce anche in termini assoluti dato che, a seguito di una circolare del 2022, sono sempre di più i reparti detentivi in cui si applica un regime a celle chiuse e, dunque, durante il giorno i detenuti restano chiusi nelle proprie celle. “Il disagio psichico, la tossicodipendenza sono tutti indicatori di un contesto in cui, una volta che le condizioni materiali e di vivibilità basilari degenerano, è ovvio che anche il clima e la situazione degenerino. Mi sembra un quadro molto preoccupante di cui mi sembra che la politica preferisca non prendere atto, sperando che si possa continuare a non prenderne atto il più a lungo possibile. Quando arrivò, nel 2013, la condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo, “cascarono dal pero” ma in realtà era tutto davanti agli occhi di tutti. Dopo la condanna, misero mano a misure che avrebbero potuto prendere un anno prima, senza arrivare alla condanna. L’evidenza non è di per sé sufficiente a mettere in moto le cose”, continua Scandurra. “Stiamo andando verso uno scenario allarmante che gli istituti e gli operatori penitenziari cercheranno di gestire come possono, ma chiaramente le risorse sono limitate, sia in termini di opportunità e di risposte che si possono fornire ai bisogni delle persone, sia in termini di spazi. Con il Pnrr sono stati stanziati interventi che sono talmente a lungo termine, che erano già stati finanziati prima, stavano su voci del bilancio del Ministero della Giustizia, poi sono stati stornati da lì al Pnrr: sono interventi di un’ordinaria gestione del sistema, non hanno molto di straordinario. Mettendoli tutti assieme”, dice, “non cambierebbero molto la situazione, anche se arrivassero a compimento domani. Premesso che la storia ci ha insegnato che le risposte sono solo un modo un po’ vigliacco per buttare la palla in tribuna, anche una risposta concreta e immediata non riuscirebbe mai a essere tempestiva per far fronte all’emergenza attuale”. Con un piano di ristrutturazione, grazie ai fondi del Pnrr, sono stati sbloccati 21 interventi per un totale di 166 milioni di euro. Nelle 76 carceri visitate da Antigone negli ultimi 12 mesi, il 31,4 % è stato costruito prima del 1940, la maggior parte di queste addirittura prima del 1900. Nel 10,5% degli istituti visitati non tutte le celle erano riscaldate e nel 60,5% c’erano celle dove non era garantita l’acqua calda per tutto il giorno e in ogni periodo dell’anno. Nel 53,9% degli istituti visitati c’erano celle senza doccia e nel 34,2% degli istituti visitati non ci sono spazi per lavorazioni. Nel 25% degli istituti non c’è una palestra o non è funzionante e nel 22,4% non c’è un campo sportivo o non è funzionante. Per quanto riguarda il personale, i funzionari giuridico pedagogici (educatori) sono diminuiti, erano in media uno ogni 87 detenuti nel 2022, sono diventati uno ogni 76 detenuti nel 2023. Ma restano numeri del tutto inadeguati in rapporto alle presenze. Invece, per quanto riguarda il personale di polizia penitenziaria si registra un calo: c’era in media un agente ogni 1,7 detenuti nel 2022, l’anno scorso era uno ogni 1,9 detenuti. “Se le presenze diminuiscono tutte le risorse, che già sono poche, risultano ancora di più inadeguate, compreso il personale sanitario. Tra l’altro, questo ha anche un effetto moltiplicatore”, spiega Scandurra. “La maggior parte delle persone detenute in carcere ci torna, ciò vuol dire che i problemi di fondo che li hanno portati all’arresto non sono stati risolti: è chiaro che più i percorsi di reinserimento sono fallimentari, più il tasso di recidiva aumenta e questo crea affollamento. Avere meno risorse in rapporto alla popolazione vuol dire offrire meno percorsi di reinserimento e un tasso di recidiva che cresce ancora”. “Lo sforzo deve essere in questa direzione. Da una parte abbiamo un sistema delle misure alternative che funziona bene, bisogna iniziare a potenziarlo. Dall’altra, dobbiamo avere presente che avremo comunque in carcere decine di migliaia di persone a cui vanno offerti percorsi che evitino che in carcere ci tornino. Questo deve essere lo sforzo del sistema penitenziario, e non solo: la scuola in carcere la garantisce il Ministero dell’Istruzione e del Merito, la sanità la garantisce il Ministero della Salute, la formazione professionale la fanno gli enti locali con le agenzie formative. Il carcere è un contenitore, il contenuto ce lo mettiamo tutti noi, in fondo: deve essere un impegno di tutti quello di garantire e di mettere a disposizione della comunità quello che serve e che la legge chieda che in carcere si faccia”, continua Scandurra. “Finché il carcere non riesce a garantire i bisogni elementari della popolazione detenuta, ovvero le condizioni materiali di detenzione, il diritto alla cura e alla salute, diventa difficile discutere di tutto il resto. Il lavoro quotidiano di chi lavora in carcere spesso è inseguire emergenze di basso profilo, per garantire che un istituto penitenziario stia in piedi, che non si allaghi. È chiaro che in un contesto di questo tipo, tutta una serie di altre attività, previste dalla legge, non sono presenti in una misura tale da garantire il contrasto alla recidiva”. Meloni: “Molto colpita dal caso Zuncheddu. Siamo intervenuti sulla carcerazione preventiva” di Nicoletta Cottone Il Sole 24 Ore, 5 gennaio 2024 Il pastore sardo è in carcere da 32 anni da innocente, accusato ingiustamente della strage di Sinnai. Attesa fine mese la sentenza del processo di revisione. La premier Giorgia Meloni ha parlato del caso di Beniamino Zuncheddu, scarcerato dopo 32 anni di ingiusta detenzione e in attesa della sentenza della Corte d’appello penale di Roma sul giudizio di revisione. Ne ha parlato rispondendo a una domanda di Radio Radicale, nel corso della conferenza stampa di inizio anno organizzata alla Camera dei deputati con la stampa parlamentare. Zuncheddu è il pastore sardo accusato della strage di Sinnai - tre morti e un feritoc, che è diventato il principale accusatore di Beniamino - al centro del processo di revisione della Corte penale d’appello di Roma iniziato tre anni fa, dove sono state prodotte prove che lo scagionano completamente segnalando la sua estraneità ai fatti. Processo nel quale le intercettazioni disposte dall’allora procuratore della Corte d’appello di Cagliari, Francesca Nanni, hanno svelato l’innocenza del pastore sardo che è stato in carcere per 32 anni da innocente. In attesa della sentenza prevista per la fine del mese di gennaio, la Corte d’appello di Roma lo ha scarcerato il 25 novembre 2023. Molto colpita dal caso Zuncheddu - “Sul caso Zuncheddu - ha sottolineato la premier - chiaramente sono rimasta molto colpita anche io, così come rimango molto colpita dal numero di questi casi che purtroppo in Italia ancora ci sono. Stimati negli ultimi trenta anni in media mille casi di cittadini che ogni anno sono vittime di ingiusta detenzione o di errore giudiziario. Nel 2022 sono diminuiti a circa la metà, ma sono comunque numeri molto alti, in particolare per i casi di ingiusta detenzione, che sono probabilmente frutto di un uso eccessivo della carcerazione preventiva”. Zuncheddu a Meloni: grazie, non sentirsi soli mi dà coraggio - “Ringrazio la presidente Meloni per aver parlato della mia vicenda. Non sentirsi soli in questa battaglia contro le ingiuste detenzioni è per me una grande cosa che mi dà coraggio e conforto. Alla presidente Meloni dico di occuparsi di carcere perché in carcere stanno tutti male, colpevoli e innocenti”. Lo ha detto Beniamino Zuncheddu ai microfoni di Radio Radicale nella rubrica Lo stato del Diritto condotta da Irene Testa, la garante dei detenuti in Sardegna che ha portato alla luce il caso Zuncheddu. Il ddl Nordio affronta il tema della carcerazione preventiva - “Siamo intervenuti con il ddl Nordio - ha detto la premier - che è attualmente all’esame del Senato e affronta con due precisi interventi normativi il tema dell’applicazione delle misure di carcerazione preventiva, senza depotenziare il lavoro della magistratura. Dice che prima di mettere qualcuno in carcere deve essere sentito non solo dal pubblico ministero, ma anche dal giudice. Si decide in forma collegiale. Abbiamo cercato di rendere la normativa più capace di circoscriversi alle reali necessità”. Il sovraffollamento si risolve aumentando la capienza - “Sul piano della politica carceraria in generale - ha sottolineato Giorgia Meloni - ereditiamo una situazione molto complessa, con sovraffollamento cronico di circa il 120%, 60mila detenuti circa a fronte della capienza delle nostre carceri di 50mila. Io che non credo che questo problema si possa risolvere con amnistie, indulti o svuota-carceri, devo cercare un’altra soluzione. Quello che abbiamo fatto, finora, da una parte è stato rafforzare il personale di polizia penitenziaria come mai era stato fatto in passato e dall’altro ampliare la capienza delle carceri”. Il problema delle carceri, ha detto la premier, “non si risolve diminuendo i reati, ma aumentando la capienza delle carceri”. Separazione delle carriere in programma - La separazione delle carriere “è nel nostro programma da sempre”, ma ritengo sia utile “non sovrapporre le due materie”, ha detto la presidente del Consiglio rispondendo a una domanda sulle due riforme costituzionali. “Ha un senso che le due riforme costituzionali non si sovrappongano, perché crea confusione nei cittadini”. Meloni ha anche aggiunto che questo non significa rallentare il percorso della riforma della giustizia, “se una cosa non mi piace la blocco”, ma “è utile non sovrapporle”. Quella storia d’amore tra Delmastro e il corpo di Polizia penitenziaria di Eleonora Martini Il Manifesto, 5 gennaio 2024 Dalla campagna elettorale in poi, la stretta relazione instaurata tra il sottosegretario di Fd’I e gli agenti. Nel suo Piemonte e non solo. La grigliata Sappe nel carcere di Biella, la cena Uspp nel giorno del rinvio a giudizio. Era il 27 luglio scorso quando il sindacato Sinappe si prese la libertà di organizzare, all’interno del carcere di Biella - nel cortile - una grigliata serale con tanto di logo della polizia penitenziaria alla quale parteciparono, secondo l’interrogazione parlamentare presentata subito dopo dal Pd, oltre ad alcuni dei 23 poliziotti che a febbraio vennero sospesi perché indagati di tortura nei confronti di tre detenuti della casa circondariale biellese, anche il sindaco leghista della città Claudio Corradino e il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro delle Vedove. Sulla lista degli invitati mancava però - per fare un esempio che descrive meglio la situazione - la Garante territoriale dei detenuti, Sonia Caronni. Ecco perché chiedere, come ha fatto ieri il dem Sandro Ruotolo, se “davvero la presidente Meloni pensa che la sospensione da Fratelli d’Italia del deputato pistolero Emanuele Pozzolo, indagato per lesioni colpose, possa chiudere la vicenda del capodanno” di Rosazza (Biella) e se “davvero il sottosegretario Delmastro può sostenere la sua estraneità rispetto al compagno di brindisi”, non è affatto peregrino. La presidente del Consiglio infatti durante la conferenza stampa di ieri ha, sì, stigmatizzato l’irresponsabilità e la scarsa serietà del “suo” deputato piemontese anticipando la richiesta che Pozzolo “venga deferito alla commissione dei probiviri di Fd’I indipendentemente dal lavoro che fa l’autorità competente e che nelle more del giudizio sia sospeso” dal partito, ma il problema resta. E il problema è lo strettissimo rapporto che il sottosegretario alla Giustizia con delega alle carceri ha instaurato con certi ambienti della polizia penitenziaria, soprattutto i più destrorsi e in particolare nel suo Piemonte. Ed è proprio quando si sposta nei suoi territori che il vercellese Delmastro - come riferiscono le voci di “radio carcere” - cambia il reparto scorte e utilizza i poliziotti locali. Personale che conosce talmente bene da poter invitare alle sue feste insieme alle loro famiglie. Qualcosa del genere deve essere accaduto anche alla pro loco di Rosazza. Ma le feste con gli agenti penitenziari, in generale, sono un must del nostro: gira per esempio un video di un Delmastro canterino alle prese con ‘O surdato ‘nnammurato durante una cena organizzata a Roma dall’Unione dei sindacati di polizia penitenziaria (Uspp) per festeggiare non si sa cosa, ma casualmente proprio nella sera del 29 novembre scorso, poco dopo il suo rinvio a giudizio per rivelazione del segreto d’ufficio nel caso Cospito. E il 4 dicembre scorso era in prima fila ad Abano Terme ad ascoltare le richieste del Sappe in tema di esecuzione penale minorile e riguardo l’uso del taser in carcere. Ma la storia d’amore tra Delmastro e il corpo della penitenziaria è iniziata anni fa, quando scelse le carceri per la sua campagna elettorale e iniziò a girare istituto per istituto. E così, aiutato dal vuoto lasciato da un Guardasigilli (Nordio) troppo assente e da un capo Dap (Russo) troppo silente, il sottosegretario è riuscito a penetrare i cuori degli agenti, tutti, ed in particolare a diventare l’idolo della polizia penitenziaria. “Non c’è poliziotto, di destra o di sinistra, che non adori Delmastro”, riferisce ancora “radio carcere”. Una relazione sentimentale coadiuvata da una serie di promesse, alcune delle quali parzialmente mantenute dal governo. Per esempio, ieri la presidente Meloni ha ribadito che la soluzione al sovraffollamento penitenziario non è “amnistie, indulti o tagliare i reati”, ma “rafforzare il personale di polizia penitenziaria e aumentare le carceri”. Peccato che, come spiega Mirko Manna della Fp Cgil Polizia penitenziaria, “ogni anno vanno in pensione tra le mille e le 1200 unità, e i concorsi fatti per 1400 agenti non bastano neppure a coprire il turn over. Bisognerebbe invece lanciare almeno un maxi concorso da 8 mila posti, come avvenne nei primi anni Ottanta, per coprire quelli che oggi vanno in quiescenza”. E ancora, non c’è stato alcun bisogno di cancellare il reato di tortura, come pure promesso in campagna elettorale: è bastato infatti creare il reato di “rivolta in carcere”, inserito nel nuovo pacchetto sicurezza, per far sentire protetti gli agenti penitenziari meno capaci di gestire la rabbia. E intoccabili i veri torturatori, quelli che non accettano le telecamere in ogni angolo delle carceri e le bodycam durante il servizio. Riforme, flebili speranze sulla giustizia: il bilancio 2023 è disastroso di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 5 gennaio 2024 Se un augurio dobbiamo formulare al Paese ed a noi tutti in tema di giustizia penale, è che il 2024 non abbia nulla a che vedere con il 2023. Tanto alte erano le aspettative, legate all’avvento in via Arenula del ministro liberale Carlo Nordio, quanto desolante la lunga teoria di promesse mancate e di provvedimenti legislativi schiettamente illiberali. Non una delle riforme liberali annunciate è approdata in Gazzetta Ufficiale e nemmeno è stata seriamente impostata, mentre riforme di segno decisamente populista sono state varate a passo di carica. Le abbiamo ricordate mille volte: dai 15 nuovi reati, all’inasprimento del regime delle intercettazioni telefoniche, all’aumento a pioggia delle pene edittali per reati già esistenti, agli inasprimenti del regime penitenziario. Insomma, l’esatto contrario di quanto promesso agli elettori, e di quanto solennemente preannunciato davanti alle Camere dal Ministro Guardasigilli. Ciò che ha sorpreso al di là di ogni più pessimistica aspettativa è stato proprio il segno culturale della politica giudiziaria in questo primo anno di governo. Vale a dire il segno di rigorosa continuità con l’esperienza del populismo giustizialista della sciagurata stagione gialloverde guidata dal prof. Conte. Nuovi reati dettati dalla cronaca e dai social; identificazione assoluta tra pena e carcere; retorica dell’antimafia come veicolo di ogni possibile controriforma in materia processuale. Le poche cose buone (penso ad esempio alla eliminazione della equiparazione tra reati di corruzione e reati di mafia in fase esecutiva) sono state frutto di singole iniziative parlamentari di parte della maggioranza in coordinamento con la componente liberale e garantista delle opposizioni. Se queste sono le premesse, tanto vale puntare almeno su alcuni obiettivi minimi ma concreti, in attesa di tempi migliori. Il primo dovrebbe riguardare, quanto alla pur differita riforma costituzionale della separazione delle carriere, almeno la scelta di campo chiara ed inequivoca da parte del Governo del modello di riforma. Non parole generiche, ma la adozione inequivocabile ed immediata di un testo (e l’auspicio è che sia quello scelto dai gruppi parlamentari di Forza Italia, Lega, Italia Viva ed Azione, cioè quello delle Camere Penali Italiane sottoscritto da 72mila cittadini). La seconda: abrogare, come dal primo giorno chiesto dai penalisti italiani, la assurda norma della riforma Cartabia che, imponendo cervelloticamente una nuova procura al difensore per proporre appello, falcidia impietosamente il diritto di impugnazione dei soggetti più deboli, in precario contatto con il proprio difensore d’ufficio. Terzo: almeno riaprire il dibattito sulle misure alternative al carcere, sul modello già elaborato nel dettaglio dalla Commissione Giostra nel 2017, per prevenire il disastro umanitario che sta per abbattersi sulle carceri italiane, e la inevitabile nuova condanna Cedu. Non certo una rivoluzione liberale, quella -facciamocene una ragione - necessita di ben altri interpreti. Ma almeno un segnale che inverta il disastroso bilancio 2023. Giustizia e informazione: il proibizionismo non è la soluzione giusta di Fernanda Fraioli Gazzetta del Mezzogiorno, 5 gennaio 2024 Che il rapporto debba essere disciplinato a dovere è cosa non soltanto nota, ma che non può più aspettare perché, se vero è che la giustizia si amministra in nome del popolo italiano, altrettanto vero è che questo debba essere messo al corrente di quel che lo riguarda. La votazione da parte della maggioranza parlamentare, insieme ad altri due partiti, dell’emendamento Costa alla legge di Delegazione europea del 19 dicembre, secondo il quale le ordinanze di custodia cautelare non potranno più essere pubblicate fino al termine delle indagini, riporta in auge l’atavico rapporto tra giornalisti e magistratura. E già tre giorni dopo ha fatto registrare in merito un’”obiezione di coscienza”, come è stata definita, da parte di un procuratore capo di una delle nostre Procure, mentre un altro ha aggiunto “legge ingiustificata, darò ancora gli atti” a motivazione della propria scelta di privilegiare la trasparenza delle fonti nella comunicazione giudiziaria. Da sempre i giornalisti hanno percorso i corridoi degli uffici giudiziari in cerca di notizie più che freschissime che gli consentissero lo scoop o quantomeno di scrivere un articolo interessante ed il più possibile accattivante rispetto ad altri. Da sempre sono riusciti in modo assolutamente anonimo ad entrare in possesso di queste notizie a volte, ammettiamolo pure, causando dei danni per aver riportato nomi, fatti e particolari rilevanti solo per il conseguente gossip che ora fanno da base alla novella normativa. Tecnicamente dovremmo dire che questa è la sua ratio legis, atteso che con ciò è soliti individuare lo scopo, il fine ultimo che il legislatore intende perseguire mediante l’emanazione di una disposizione normativa che, poi, servirà agli stessi giudici in sede contenziosa o precontenziosa per interpretarle, al di là del mero dato testuale, onde disciplinare il caso sottoposto al loro giudizio. Ma al di là di questa dotta dissertazione, il problema dei rapporti tra magistratura e giornalisti sotto questo punto di vista, resta. Che il rapporto debba essere disciplinato a dovere è cosa non soltanto nota, ma che non può più aspettare perché, se vero è che la giustizia si amministra in nome del popolo italiano, altrettanto vero è che questo, allora, debba essere messo al corrente di quel che lo riguarda in qualità di delegante. Finora le notizie venivano apprese sottobanco perché ai giornalisti, come a chiunque altro non strettamente addetto ai lavori, non è consentito l’accesso agli atti. Ad onor del vero, qualche Procura lo ammette - visto che comunque i giornalisti le notizie riuscivano pur sempre ad avere - ritenendo, dobbiamo riconoscere a ragione, che apprendere un fatto ed i suoi contorni direttamente da un atto originale offre sicuramente meno rischio di riportare annunci non corretti e/o rivisti dalla penna di chi scrive o, peggio ancora, di chi passa la notizia. Ora, invece, questa legge (che legge ancora non è perché ancora non varata) intende vietarne la pubblicazione favorendo - proprio come un secolo fa il Noble Experiment ha fatto con il XVIII emendamento della Costituzione degli Stati Uniti - ogni forma di interdizione al loro uso e consumo. In ciò dobbiamo dire persuasi che l’effetto sarà lo stesso. Conosciamo tutti dai libri di scuola, dai racconti dei nonni o molto più semplicemente dalla cinematografia gli effetti perversi del proibizionismo. Ed in questo caso v’è da credere che non sarà diverso. Ci sono soggetti che, per forza di cose, devono venire a conoscenza del contenuto di tali provvedimenti e nell’impossibilità di controllarli, ma soprattutto di provare l’avvenuta diffusione per mano loro delle notizie, se ne fanno portatori presso la stampa. E così quella che, per ogni notizia, non soltanto di carattere giudiziario, funge da cassa di risonanza, corre il rischio di diffondere il consentito, il non consentito, ma soprattutto di non rispettare la tempistica che in numerosi casi è il maggior indiziato. Tutto ciò detto, molto sommessamente, ci permettiamo di rilevare che se una disciplina dei rapporti in tale campo è cosa non solo buona e giusta, ma addirittura auspicabile, altrettanto vero è che una sua regolamentazione più che passare per un proibizionismo da XVIII emendamento, dovrebbe molto più semplicemente prevedere un accesso ufficiale agli atti di Procura onde trarre dalla reale stesura degli stessi quegli elementi che consentano al giornalista di redigere un articolo il più possibile fedele, magari prevedendo, qui, delle conseguenze non piacevoli in caso di ricostruzione dolosa, ma con la certezza della genuinità della fonte. In tal modo, ne siamo persuasi, anche la presunzione di innocenza - principale bene che la novella normativa dice di voler salvaguardare - ne sarebbe tutelata in quanto anch’essa figlia di una corretta e veritiera informazione. “Oggi in edicola vince lo spettacolo emotivo, non la responsabilità” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 5 gennaio 2024 Sensazionalismo e suggestione possono impossessarsi dell’informazione e provocare seri danni. I rischi che si corrono anche in riferimento a recenti inchieste giudiziarie sono tanti, a partire dalla gogna mediatica. Ne abbiamo parlato con il professor Alberto Abruzzese, sociologo dei processi culturali e comunicativi. Professor Abruzzese, l’elemento della suggestione svolge nei processi mediatici un ruolo decisivo per una maggiore diffusione delle notizie? Sicuramente. L’informazione, anche quando riguarda temi sostanziali e di grande rilievo, si basa su dinamiche legate al consumo personale degli eventi. Nell’ambito della legge e delle diverse articolazioni della legge, che riguardano le sfere alte del potere e le normative che regolano la società, l’emotività delle persone è di continuo sollecitata. È naturale che il mercato dell’informazione speculi su questo. C’è un meccanismo che va continuamente fatto funzionare. Mi riferisco all’attrazione a leggere. Per fare ciò bisogna andare al fondo delle emozioni delle persone. Un meccanismo molto particolare? Direi perverso. Questo meccanismo probabilmente è perverso perché l’ambito affidato alla sfera dei consumi impatta su una società che ha, ormai, degli argini molto deboli. Ha delle capacità di controllo altrettanto deboli. Pensiamo alla situazione in cui si trova la persona nei confronti della notizia. Scatta un meccanismo emotivo che gli fa prendere parte, crea curiosità e genera una reazione volta a sentirsi vittima o protagonista rispetto a quanto funziona o non funziona nella giustizia. Oltre al meccanismo emotivo personale, occorre prendere in considerazione pure il contesto generale? C’è una società che evidentemente ha sempre di più indebolito il dispositivo di autocontrollo della persona. Anche temi di grande rilevanza, come la giustizia, vengono abbandonati a una dimensione ondivaga, emotiva e variabile. In questo modo il campo dell’attenzione sociale è ristretto allo spazio chiuso della persona, all’emozione immediata, essendo cadute le capacità di formazione della persona. La percezione razionale e quella emotiva hanno confini sempre più indistinguibili. La curiosità del mondo invece che una attenzione al mondo. Tra le conseguenze che derivano da alcune modalità di acquisizione e diffusione delle notizie abbiamo la gogna mediatica con la distruzione della reputazione di chi ne è vittima. È anche questo un segno dei tempi? Il fenomeno da lei indicato, purtroppo, ha origini lontane, anzi, è sempre esistito. Si tratta di un fenomeno che riguarda lo spazio più intimo delle persone e delle relazioni interpersonali. Sappiamo benissimo, anche solo nella dimensione familiare, quanto sia facile che scattino meccanismi di interdizione, di maldicenza, di aggressività. Questi fenomeni diventano drammatici e deleteri perché nella cornice e nello spazio sociale in cui avvengono si sono indeboliti molti dei valori di riferimento e dei meccanismi di controllo. Viviamo dando rilevanza all’immediato, piuttosto che a valorizzare quanto la società, nel suo insieme, riesce ad ordinare secondo distinzioni di affidamento e credibilità. Le singole persone, pertanto, decidono di schierarsi o di non schierarsi in base alla loro sfera personale e senza tenere conto di un senso di appartenenza ad una organizzazione sociale. Prevale, dunque, lo spettacolo emotivo sul senso di responsabilità sui fatti di cui si viene informati. I mezzi di informazione hanno rilevanti responsabilità? Gli apparati di informazione operano a più livelli, essendo stratificati tra i loro vertici, che risentono dell’intreccio dei poteri in campo, e tra gli esecutori. Un buon giornalista sa che sta facendo il proprio lavoro, a beneficio della propria carriera, se riesce ad attrarre il lettore o lo spettatore. C’è un meccanismo a spirale che porta a sfruttare la notizia soprattutto come elemento di attrazione al di là della rilevanza della notizia in sé, separandola dal semplice effetto emotivo. In merito all’inchiesta Inver-Anas, un giornale ha usato l’espressione “spunta il nome di” per provocare l’effetto suggestione. Una modalità di agire che non tiene conto di alcune conseguenze deleterie che si possono avere? Scatta un meccanismo pericolosissimo perché non sono salvaguardati alcuni dispositivi di sicurezza, chiamiamoli così, volti ad evitare che quello che è maldicenza venga preso come verità. Pensiamo ad un delitto. Non si riflette sulle prove reali, sull’autore del delitto e sui motivi per cui è stato commesso, ma si pone l’attenzione sull’attrattiva, sull’immaginarsi l’autore del delitto o attribuire il delitto a qualcuno piuttosto che a un altro. Si vuole trasferire la ricerca della verità e le prove necessarie per legittimare la verità su un livello, precostituito, del conflitto tra diverse posizioni. Nel caso al quale lei ha fatto riferimento, si partecipa alla scena accontentandosi del fascino dello scontro. I giornalisti hanno una grande responsabilità. Dovrebbero contribuire a raffreddare l’intensità dell’informazione giudiziaria per renderla più obiettiva possibile ed evitare danni? Cosa ne pensa? Potremmo generalizzare dicendo che l’etica del giornalista fa i conti con un sistema complessivo dei ruoli sociali cui sono venute sempre meno le capacità di controllo sul proprio lavoro. Abbiamo diversi professionisti, in questo caso ci stiamo soffermando sui giornalisti, che fanno il loro lavoro con sensibilità diverse. Si è accentuato un rapporto sbilanciato tra professione e vocazione della persona. Prevale la tecnicalità dell’informazione o, nel caso del politico, la strategia in termini di potere, piuttosto che il senso di responsabilità sulla propria funzione. Una situazione che si è accentuata con il trascorrere del tempo. Le professioni dipendono da meccanismi di formazione. Questi ultimi dovrebbero essere messi in moto sin dalla giovane età di ogni individuo. Siamo caduti sempre più nell’errore di trasmettere tecniche legate alla professione, anziché i valori legati alla persona. Il senso di responsabilità della persona, rispetto a quello che dice e a quello che fa, è passato in secondo piano. La questione del conflitto tra professione e vocazione non nasce oggi. Nell’attuale momento storico è andata in crisi la capacità di tenere insieme i valori della persona con le esigenze della professione. Succede tanto nell’informazione quanto nella politica. La politica lavora per detenere il potere, l’informazione per conservare il mercato. Attenti, con la vittima al centro del processo la civiltà scompare di Lorenzo Zilletti* Il Dubbio, 5 gennaio 2024 La vittima è la Costituzione. Sì, avete letto bene, sulla e c’è un accento. Si tratta di un accento grave, come giuridicamente, culturalmente e politicamente grave è quello che il senatore Balboni (FdI), in compagnia di un variopinto rassemblement di parlamentari (dal piddino Parrini, al grillino Marton, al rossoverde De Cristofaro), vorrebbe apprestarsi a fare sull’articolo 111 della Costituzione: introdurvi la figura della vittima. L’iniziativa preoccupa, ma non sorprende. Come insegna l’ultimo lascito di Filippo Sgubbi, nell’epoca del diritto penale totale - quella dove si punisce senza legge, senza verità e senza colpa - la vittima ha mutato codice genetico. Da persona offesa dal reato, le cui sacrosante aspirazioni a vederne perseguito il reale colpevole sono affidate alla mano pubblica dei rappresentanti dello Stato, si è trasformata in un “eroe moderno, ormai santificato”. Il credito morale di cui gode “rende sempre giusta la sua causa”, le sue aspettative “diventano fonte di responsabilità penale”. In funzione della tutela delle vittime, nell’ambito del procedimento - e quindi dopo che un fatto è accaduto - sempre più di frequente il giudice elabora il contenuto dei precetti penali, ridisegnando il perimetro dei reati e così dando vita a un nuovo genere di processo politico, in cui la sua indipendenza e imparzialità sono irrimediabilmente compromesse. Spalleggiata dai media, la voce “intimidatoria” delle vittime, scavalca l’ambito risarcitorio e aspira a determinare la sanzione, reclamando pene più severe. Né si ferma allo stretto ambito del processo, invocando sanzioni sociali extrapenali (per esempio l’interdetto a ricoprire incarichi pubblici, per i congiunti di mafiosi o per il condannato che abbia integralmente espiato la propria pena) o pretendendo di incidere perfino sulle modalità di esecuzione della pena (non in quel carcere; non tramite misure alternative). Le crude diagnosi di Sgubbi trovano conferma nell’analisi di chi studia la procedura penale e denuncia i tradimenti di un Codice che, già prima della cosiddetta riforma Cartabia, aveva subìto in trent’anni di vigenza “1352 interventi di modifica, di media 45 all’anno, quasi 4 ogni mese, 1 alla settimana”. Nella prassi, ricorda Oliviero Mazza, la vittima ha assunto un inopinato ruolo centrale sulla scena processuale, a spese della presunzione d’innocenza costituzionalmente tutelata: funzione del processo è accertare se un reato fu commesso e se l’imputato ne è effettivamente il responsabile; illogico è perciò accreditare preventivamente la vittima di uno status - quello di persona che ha subìto il reato - che dev’essere ancora dimostrato. Ciononostante, son sotto gli occhi di tutti le limitazioni sempre più stringenti che l’azione combinata del populismo legislativo e giudiziario hanno inferto al metodo dialettico: si pensi, a titolo esemplificativo, all’assunzione della testimonianza dei soggetti cd. deboli, dove - ancora Mazza - debole diventa la prova. Il vittimocentrismo imperante muove, non a caso, all’attacco dell’articolo 111 della Carta fondamentale, una norma ampliata a larghissima maggioranza nel 1999 per assicurare al Codice di procedura repubblicano l’ombrello della tutela costituzionale, rafforzare le garanzie dell’accusato ed elevare a regola aurea il principio del contraddittorio. Dietro la suadente e irrealizzabile promessa di non voler limitare i diritti dell’indagato/ imputato, ma soltanto di equipararvi quelli della vittima, si nasconde un equivoco di fondo, non sempre inconsapevole: nei sistemi giuridici di quello che un tempo si chiamava il mondo libero, la vittima non è parte del processo; o lo è, in taluni di essi, solo eventualmente ed al ristretto fine di esercitare la pretesa risarcitoria privatistica, “sfruttando” l’occasione pubblica del giudizio penale. La contesa penalistica è un affare tra lo Stato e il cittadino, tra il pubblico ministero e l’imputato, che si svolge (o dovrebbe svolgersi) davanti a un giudice terzo e imparziale. Siamo all’abbiccì della storia del mondo occidentale, della sua evoluzione dal sistema della vendetta privata a quello della pena pubblica, ove la risposta sanzionatoria è immaginata per finalità che trascendono le esigenze della vittima. E dove, con buona pace di un altro alfiere del vittimocentrismo, il senatore Scarpinato (che auspica “un riorientamento dell’intero sistema giustizia, oggi orientato tutto dal punto di vista dell’indagato”), il diritto penale e processuale penale assumono una dimensione essenzialmente garantistica e di delimitazione del potere punitivo. Rassicuriamo gli inquilini di Palazzo Madama: non c’è bisogno di leggere Hassemer per sapere che “senza la neutralizzazione della vittima non vi sarebbe neppure lo Stato moderno. La neutralizzazione della vittima del reato comporta infatti niente meno che il monopolio della violenza da parte dello stato nell’amministrazione della giustizia penale. Questi due elementi vanno di pari passo”. Basterebbe conoscere qualche riga del Manifesto del diritto penale liberale e del giusto processo dell’Unione delle Camere Penali Italiane. *Avvocato in Firenze Montacuto e Santa Maria Capua Vetere: cosa è successo nei due penitenziari di Andrea Aversa L’Unità, 5 gennaio 2024 Ad Ancona c’è stata una protesta con due detenuti saliti sul tetto della struttura: uno di essi è caduto ed è stato soccorso. Inoltre ci sono giunte segnalazioni per presunti casi di mala sanità. In provincia di Caserta, per la Polizia Penitenziaria, c’è stata una rivolta che ha causato gravi danni e la presa in ostaggio di alcuni agenti. Ma il Garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello ha smentito. Ieri due detenuti di origine tunisina sono saliti sopra il tetto del carcere di Montacuto ad Ancona per protestare. I motivi pare siano riconducibili al trasferimento presso un altro penitenziario e al cambio dei numeri utili alla richiesta delle dovute autorizzazioni. Durante la mobilitazione, uno dei due reclusi, è caduto schiantandosi al suolo da un’altezza di circa quattro metri. Non è in pericolo di vita ed è stato soccorso e trasportato in ospedale. Pare che entrambi fossero detenuti nel reparto psichiatrico e che uno dei due, al ritorno dal nosocomio, avesse dato fuoco alla cella. Il carcere marchigiano è uno dei peggiori d’Italia in termini di vivibilità e sovraffollamento, diversi - nell’ultimo periodo - le vicende balzate all’onore delle cronache. Cosa è successo ad Ancona nel carcere di Montacuto - Le ultime segnalazioni giunte alla nostra redazione e raccolte dall’associazione Sbarre di zucchero, hanno riguardato due casi di presunta mala sanità. Ha scritto la sorella di un detenuto: “Mio fratello è detenuto nel carcere di Montecuto. È malato di diabete, sono due anni che non fa una visita e sono tre giorni che lui non fa l’insulina per protesta. Inoltre, è affetto da disturbi mentali. Sono molto preoccupata, il diabete può salirgli fino a un valore di 450 / 500. Ho mandato mail e provato a telefonare ma non riesco a mettermi in contatto con il carcere e con un garante per i diritti dei detenuti. Mio fratello ha solo 32 anni ed ha diritto ad essere curato. Oggi i suoi compagni per solidarietà hanno iniziato la battitura”. E ancora, dalla parente di un altro detenuto a Montacuto: “Mio fratello è affetto da idrocele, da più di un anno e mezzo. Ha anche fatto la pre-ospedalizzazione ma ad oggi non è ancora stato operato. Forse stanno aspettando che gli vengano tagliati i testicoli perché fra un po’ andrà in necrosi. Vi prego aiutateci perché altrimenti lo lasciano morire così”. Cosa è successo nel carcere di Santa Maria Capua Vetere - Nel penitenziario in provincia di Caserta la mancata concessione di un permesso a un detenuto per recarsi al funerale di un parente, avrebbe scatenato - secondo le note della Polizia Penitenziaria e dei suoi sindacati - una violenta rivolta. Oltre 200 detenuti avrebbero preso in ostaggio alcuni agenti, si sarebbero barricati in una specifica sezione del reparto ‘Volturno’ e avrebbero danneggiato gravemente la struttura penitenziaria. Gennarino De Fazio, segretario generale della Uipla Polizia Penitenziaria, ha chiesto - appellandosi alle istituzioni - misure urgenti per risolvere le problematiche che da anni caratterizzano la vita in carcere. Ma secondo il Garante per i diritti dei detenuti della Regione Campania Samuele Ciambriello non è andata così. Quest’ultimo ha spiegato a Il Riformista: “Secondo voi come è possibile che una rivolta che avrebbe visto protagonisti 230 detenuti sia rientrata nel giro di poco tempo con direttore, vice-direttore e magistrato di sorveglianza già tornati a casa? Mi hanno telefonato i familiari dei detenuti dopo aver letto i comunicati dei sindacati di polizia penitenziaria. La verità è un’altra: con il nuovo decreto sicurezza basta che tre persone non rientrano in cella dopo l’ora d’aria per classificare questo episodio come una rivolta. Ho parlato con il magistrato di sorveglianza Marco Puglia. Mi ha spiegato che la protesta di pochi detenuti è rientrata poco dopo il suo arrivo. Ho parlato anche con il vice-direttore Marco Casale del carcere che era presente sul posto. Nessuno mi ha parlato di danni ingenti all’interno della struttura. La verità è che non è successo nulla di quello che hanno battuto le agenzie dopo aver ricevuto i primi comunicati della penitenziaria”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Ciambriello: “Procurato allarme della Polizia penitenziaria” di Ciro Cuozzo Il Riformista, 5 gennaio 2024 “Con il nuovo decreto sarà sempre così”. “Secondo voi come è possibile che una rivolta che avrebbe visto protagonisti 230 detenuti sia rientrata nel giro di poco tempo con direttore, vice-direttore e magistrato di sorveglianza già tornati a casa?”. Parte con una domanda la prima risposta di Samuele Ciambriello, garante dei detenuti in Campania, quando gli viene chiesto cosa è effettivamente successo nel carcere Raffaele Uccella di Santa Marica Capua Vetere (Caserta), già tristemente noto per la mattanza durante le prime settimane di Covid che, ad oggi, vede decine di agenti penitenziari imputati. Per Ciambriello di stratta di “procurato allarme” da parte dei sindacati di polizia penitenziaria che sempre più spesso sono soliti “enfatizzare in negativo” tutto quello che succede all’interno del carcere. Ma la ragione è anche un’altra e il garante la cristallizza: “Mi hanno telefonato i familiari dei detenuti dopo aver letto i comunicati dei sindacati di polizia penitenziaria. Parlavano di 230 persone asserragliate nel carcere per una presunta rivolta ma la verità è un’altra: con il nuovo decreto sicurezza basta che tre persone non rientrano in cella dopo l’ora d’aria per classificare questo episodio come una rivolta”. Infatti con il disegno di legge in materia di sicurezza pubblica la rivolta in carcere diventa reato quasi a prescindere. Tutto è nato dal permesso di necessità negato (chiedeva di andare al funerale di un parente) a un detenuto ospite nel padiglione Volturno, “il reparto più avanzato di trattamento che c’è a Santa Maria, con progetti di inclusione socio-lavorativa e programmi avanzati” spiega Ciambriello che ringrazia il magistrato di sorveglianza Marco Puglia, che già quattro anni fa, durante la mattanza avvenuta a inizio marzo, ebbe un ruolo fondamentale nel denunciare gli abusi e le torture dei poliziotti penitenziari. “Ho parlato a telefono con lui e mi ha spiegato che la protesta di pochi detenuti è rientrata poco dopo il suo arrivo. Ho parlato anche con il vice-direttore Marco Casale del carcere che era presente sul posto. Nessuno - precisa Ciambriello - mi ha parlato di danni ingenti all’interno della struttura. La verità è che non è successo nulla di quello che hanno battuto le agenzie dopo aver ricevuto i primi comunicati della penitenziaria”. “Purtroppo - osserva amareggiato - dobbiamo un po’ abituarci perché con il nuovo decreto del governo ogni protesta, anche silenziosa e pacifica, diventa una rivolta. Così passerà sempre il messaggio che Caino, il detenuto, ha sbagliato e sbaglierà sempre”. Torino. Il detenuto “Spartaco”: 6 figli e solo 4 telefonate (di 10 minuti) al mese di Fulvio Fulvi Avvenire, 5 gennaio 2024 Sul numero di telefonate che i detenuti possono fare ai parenti, carcere che vai, regole che trovi. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio lo aveva promesso alla vigilia di Ferragosto dopo la sua visita alle Vallette di Torino in seguito alla morte di due giovani recluse, una per suicidio, l’altra, madre di due bambini, per inedia dovuta a disperazione: “Due chiamate in più al mese per tutti”. Lo scopo è quello di far sentire meno soli i ristretti, alleviarne le sofferenze e salvare vite spesso sull’orlo del baratro. Sarebbero stati venti minuti di conversazione in aggiunta ai quaranta già consentiti dall’ordinamento penitenziario. “Lo Stato non abbandona nessuno” aveva puntualizzato Nordio. Ma finora, quattro mesi dopo l’annuncio (condiviso con il nuovo capo del Dap, Giovanni Russo), il Consiglio dei ministri non ha ancora varato il provvedimento e nel frattempo ogni decisione in merito è lasciata alla sensibilità e alla consapevolezza dei direttori degli istituti di pena che valutano caso per caso usando criteri di ragionevolezza. Regole diverse da struttura a struttura, quindi, e comprensibile disappunto dei soggetti interessati. “Alla Casa circondariale Lorusso-Cotugno (la stessa visitata da Nordio il 13 agosto scorso e una delle strutture più critiche, ndr) dal 1° gennaio sono state ridotte le nostre chiamate ai familiari: da 6 a 4 al mese, come era prima del Covid” denuncia in una lettera ad Avvenire un recluso padre di sei figli che si firma “Spartaco”: “Ma, fermo restando che noi siamo ristretti nella libertà - prosegue - ciò non significa che le famiglie debbano pagare da innocenti la nostra detenzione: come pensate che io possa curare i rapporti con tutti i miei figli avendo a disposizione soltanto una telefonata di 10 minuti alla settimana? Con quale criterio dovrei decidere di parlare con l’uno o con l’altro dei miei cari?”. E quello di “Spartaco” non è certo il solo caso esistente tra i circa 60mila detenuti delle carceri italiane, il 30% dei quali stranieri e per la maggior parte con parenti lontani. “Il danno l’ho fatto e lo sto pagando - spiega il carcerato delle Vallette - darmi la possibilità di educare i figli a non commettere errori e al rispetto delle regole mi sembra il minimo che possa fare: ma con quali strumenti se è così limitata la comunicazione con loro?”. Un’osservazione che dovrebbe far riflettere chi decide. Telefonare a un parente, da un numero controllato, allontana la possibilità per i detenuti di farsi del male e li tranquillizza: sono stati 68 i suicidi in carcere nel 2023 (l’ultimo di un 31enne ad Avellino, la vigilia di Natale) e non si contano più gli episodi di autolesionismo, le aggressioni e le risse dietro le sbarre, che vedono come vittime quasi sempre gli agenti penitenziari. Parlare al telefono (perché non tutti possono partecipare con continuità ai colloqui in presenza), può rafforzare o contribuire a ricucire legami spesso precari o lacerati, sollecita la responsabilità del singolo a essere genitore, nonno, figlio: è, insomma, una possibilità per rimettersi in gioco quando, scontata la condanna, si tornerà a vivere nella società civile. “Si provi a considerare due cose in merito al mantenimento di relazioni familiari: la prima riguarda la pericolosità sociale dello “sfasciarsi” di una famiglia - afferma “Spartaco” - così come di una coppia, ovvero le problematiche che sorgerebbero alla fine della pena quando il rientro a casa è aggravato da dissidi, divorzi e separazioni; la seconda situazione è quella di mantenere queste relazioni il più sane e forti possibili anche nella sofferenza, con una speranza cristiana e la possibilità di curare gli affetti, che come un giardino hanno bisogno di amore e attenzioni particolari, specifiche e semplici per essere mantenute”. Nonostante l’articolo 27 della Costituzione sulla funzione rieducativa della pena, su questo fronte l’Italia è in posizione di retroguardia tra i Paesi europei. Eppure tra le regole stabilite dall’Unione c’è quella (alla quinta premessa) che afferma che “la vita all’interno del carcere deve essere più simile possibile a quella all’esterno di esso”. Ma, a quanto pare, non è sempre così. Verona. La denuncia dei volontari: “Turetta, troppi privilegi”. Il carcere: “È come gli altri” di Angiola Petronio Corriere del Veneto, 5 gennaio 2024 Polemica dell’associazione Sbarre di zucchero sul trattamento riservato al 22enne reo confesso del femminicidio di Giulia Cecchettin. La direttrice smentisce: “L’infermeria reparto a sé ma nessun trattamento di favore”. Tre. Talmente “invisibili” da essersi suicidati. Eterei, come gli altri 490. E uno, assolutamente “appariscente”. È su questa proporzione che trascorrerebbe la vita nel carcere di Montorio, a Verona. Quello in cui, come in tutti i penitenziari italiani, i detenuti sono accatastati per il sovraffollamento e la mancanza cronica di agenti di polizia penitenziaria. Ma anche quello in cui dal 25 novembre scorso è detenuto Filippo Turetta, il 22enne di Torreglia, nel Padovano, reo confesso dell’omicidio della coetanea ed ex fidanzata Giulia Cecchettin che abitava a Vigonovo, nel Veneziano. Ed è su quei tre suicidi - per i quali è stato aperto un fascicolo in procura a Verona - e su quella presenza “ingombrante” che è tornata l’associazione Sbarre di Zucchero che si occupa dei diritti dei carcerati. L’associazione accusa - “La linea di Sbarre di Zucchero sulla presenza di Turetta a Montorio è stata chiara dall’inizio - è scritto in un comunicato firmato da Monica Bizaj, Micaela Tosato e Marco Costantini -. Dopo aver reso noto il malumore che aleggiava tra detenuti, parenti ed avvocati, abbiamo scelto il silenzio ma, di fronte alla perdita di queste giovani vite (Farhady Mortaza, 30 anni, in cella da solo per problemi psichiatrici, Giovanni Polin, 34 anni, Oussama Sadek, 30 anni, anche lui isolato, in cella da solo nonostante precedenti atti di autolesionismo, a 3 mesi dal fine pena) non possiamo tacere di fronte al differente trattamento detentivo. Nel carcere di Verona c’è chi può trascorrere il tempo giocando con la Playstation e c’è chi viene abbandonato in una cella di isolamento...”. Chiede, l’associazione, di “capire perché esistano dei privilegi. Perché un diritto se non è per tutti diventa un privilegio a tutti gli effetti e noi non possiamo e non vogliamo far finta di nulla”. La replica del carcere - Che si tratti di “privilegi” lo smentisce la direttrice della casa circondariale veronese. “Nessun trattamento di favore a Turetta. I detenuti che si trovano come lui in infermeria non hanno le occasioni di socialità che hanno gli altri. Pertanto hanno l’accesso a una Playstation. Questo non è un privilegio e, inoltre, di Playstation ne arriveranno altre a breve”, spiega Francesca Gioieni. “Privilegi”, quelli imputati a Turetta che gli stessi detenuti avevano negato, con una lettera aperta. “La popolazione carceraria - c’era scritto - non avrebbe acconsentito ad agevolazioni di favore rispetto ad altri”. Ma Sbarre di zucchero nel comunicato rilancia: “In un carcere dove manca praticamente tutto - occasioni lavorative, assistenza medica, con abuso di somministrazione di psicofarmaci, situazione igienico-sanitaria al limite dell’abitabilità, con celle insalubri, dove la doccia è presente solo in due sezioni, c’è una sezione con a disposizione la consolle dei videogiochi, mentre in tutte le altre sezioni regna il nulla più disperato, tanto disperato da portare al suicidio”. Le giornate di Turetta - Lui, Filippo, le giornate le passa al primo piano della sezione infermeria dove è in osservazione. Non è in isolamento proprio per evitare, non potendo essere garantita una sorveglianza continua, che compia atti di autolesionismo. In cella è con un altro detenuto che gli fa da “tutore” e consigliere. Alla playstation sembra che non sia neanche interessato. Legge quei libri che gli sono stati dati in carcere. Lo stesso trantran quotidiano di ogni detenuto, in attesa delle valutazioni per essere spostato dall’infermeria a una sezione “normale”. Lì dove inizierà la sua reale vita da recluso. Terni. Un carcere di massima insicurezza. “Recuperare i detenuti? Impossibile” di Emanuele Lombardini Avvenire, 5 gennaio 2024 Morire in carcere, o peggio ancora morire di carcere. Una condizione che in alcuni penitenziari ha superato il livello di guardia. Lo certifica il report dell’associazione “Ristretti Orizzonti” che nella triste classifica annuale dei morti suicidi in cella del 2023 - ben quattro vittime per penitenziario - ha messo a fianco di Regina Coeli e San Vittore anche il più piccolo istituto di Terni. Cosa sta accadendo da mesi nell’istituto umbro? E come si spiega tutto questo? Terni è da tempo alle prese con grandi problemi di gestione e deve fare i conti con le ripetute aggressioni ai danni degli agenti e con episodi di autolesionismo da parte della popolazione carceraria. Il primo a togliersi la vita, a gennaio di un anno fa, è stato E.G., detenuto a seguito di inchieste sulla mafia: si è impiccato in cella dopo una rissa con altri detenuti. Poi è stata la volta di un cittadino albanese rinchiuso per aver ucciso la moglie a coltellate. A fine maggio la morte di un uomo di origini marocchine per intossicazione, dopo che quest’ultimo aveva dato fuoco alla cella al termine di una rivolta che lo aveva visto protagonista con altri detenuti. Infine lo scorso settembre l’ultimo suicidio, sempre per impiccagione, del più giovane, un altro uomo maghrebino appena ventottenne, che era in attesa di essere trasferito al carcere di Capanne a Perugia. Il problema sicurezza, a oggi, rappresenta una montagna troppo alta da scalare per una struttura, quella umbra, dotata anche di un reparto dedicato al 41 bis (in passato ospitò anche Bernardo Provenzano) ma priva del supporto esterno di una Rems, una Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza, in grado di garantire spazi adeguati in particolare alle persone con problemi psichici. La situazione di promiscuità e difficile convivenza tra detenuti con storie diverse alle spalle fa poi il paio con la cronica mancanza di personale. “Non c’è dubbio che il carcere di Terni sul fronte sicurezza sia uno dei peggiori d’Italia - spiega Fabrizio Bonino, segretario regionale umbro e nazionale del Sappe. Le motivazioni sono diverse e la prima è che un istituto che potrebbe contenere non più di 400 detenuti, ne ospita 500. Ci sono tante sezioni, ma non c’è personale sufficiente per tenere tutto sotto controllo”. La mancanza di personale va estesa peraltro ad altri ambiti. “Lo psicologo viene ad esempio una sola volta a settimana, gli educatori lo stesso: troppo poco per poter prevenire episodi di questo genere” dice Bonino. “I volontari e le strutture come la Caritas fanno un lavoro egregio e sempre apprezzato, ma purtroppo non è sufficiente”. Un richiamo che nei giorni scorsi era arrivato anche da Giuseppe Caforio, Garante dei detenuti dell’Umbria, che aveva denunciato la rinuncia all’azione di recupero, facendo dunque venire meno il fine ultimo della detenzione: “Il carcere non è il luogo migliore per un processo riabilitativo, al contrario”, aveva sottolineato nei giorni scorsi puntando l’indice sulla necessità di alleggerire la presenza in cella. “Se uno o più agenti hanno in carico tre piani del carcere e 100 detenuti, come fanno a garantire che non succeda nulla? Il sistema sta andando completamente in tilt, si gestisce solo l’emergenza” rincara la dose Bonino. Riccardo Laureti, segretario regionale della Fns Cisl conferma: “A Terni il problema del sovraffollamento riguarda soprattutto i reparti di media sicurezza, che accolgono detenuti psichiatrici anche dalla Toscana, dove la Rems c’è ma è piena: anche per questo come Cisl ci stiamo battendo perché la Regione ne costruisca una. Psichiatri e psicologi hanno poche ore assegnate e non ce la fanno e nelle celle ci sono anche fino a quattro detenuti. Al carcere di Terni erano assegnati tre educatori, ma coi pensionamenti adesso non sempre ci sosono e comunque non bastano. Le associazioni di volontariato sono sempre le benvenute, ma non possono fornire quel supporto specialistico che servirebbe. Inoltre mancano anche le opportunità per il reinserimento lavorativo dei detenuti”. Proprio di recente è nata a questo scopo una struttura presso il convento del Beato Antonio Vici a Stroncone, messa in piedi dall’associazione “Il Leccio” di Disma. Un quadro desolante che fa alzare le braccia in segno di resa anche a chi fornisce supporto spirituale, come spiega il cappellano del carcere padre Massimo Lelli. “Spesso non c’è nemmeno il tempo per conoscere le storie di chi vive dietro le sbarre, perché queste persone vanno e vengono rapidamente” spiega padre Massimo. “Purtroppo il fine di rieducazione, recupero e reinserimento del detenuto si è perso. Ci vogliono persone e mezzi economici: si fa qualcosa ma è molto poco rispetto a quello che servirebbe. Così ci si concentra solo sulla sicurezza, cercando di far fronte alle carenze che ci sono e creano problemi”. Palermo. Pino Apprendi: “La violenza in cella si può fermare migliorando le condizioni di vita” di Francesco Patané La Repubblica, 5 gennaio 2024 Intervista al Garante palermitano per i diritti dei detenuti: “La Regione presieduta da Schifani non sta facendo nulla per garantire ai detenuti il diritto alla salute”. “Nelle carceri siciliane non è garantito il diritto alla salute, ci sono detenuti con gravi problemi psichici e di tossicodipendenza che nemmeno dovrebbero entrare in cella e i percorsi di reinserimento sono pochi e inefficaci. Questo porta alla violenza e ai suicidi a cui assistiamo nelle strutture detentive dell’Isola”. Pino Apprendi, il garante palermitano per i diritti dei detenuti, è appena uscito dall’istituto penale per minorenni Malaspina di Palermo dopo l’ennesimo episodio di violenza. Possibile che sia scoppiata una rivolta perché mancava lo spumante a Capodanno? “È stato un pretesto, il problema vero sono i ragazzi trasferiti dalle strutture del Nord Italia a Palermo, quasi tutti nordafricani arrivati come minori stranieri non accompagnati, fuggiti dalle case di accoglienza e arrestati. Sono una decina sul totale di 25 ragazzi. Vogliono tornare nelle regioni padane dove hanno amici e familiari e pensano che la violenza sia il modo per farsi trasferire. Alcuni di loro sono stati nelle prigioni libiche e non hanno paura di affrontare gli agenti di polizia penitenziaria”. Da minori non accompagnati a ospiti degli istituti penali in pochi mesi. Qualcosa non ha funzionato nel sistema di accoglienza, non crede? “Non funzionano soprattutto le case di accoglienza dove i ragazzi non vengono seguiti e dove non intraprendono un percorso di integrazione. È quasi consequenziale la fuga dalle case con l’arresto per reati comuni, soprattutto furto e spaccio di droga”. Un mese fa al Malaspina è stato bruciato un materasso in cella, due giorni fa ad Agrigento in 50 hanno minacciato gli agenti con l’olio bollente. A Trapani un’ala del carcere è stata devastata dagli insorti. Come si ferma tutta questa violenza? “Con il miglioramento delle condizioni dei detenuti. In Sicilia la Regione presieduta da Renato Schifani non sta facendo nulla per garantire ai detenuti il diritto alla salute. Il governo nazionale non affronta la questione sovraffollamento e i percorsi di recupero e reinserimento dei detenuti sono insufficienti per una popolazione carceraria che in Sicilia ha superato le 6.700 presenze”. In che modo è negato il diritto alla salute? “Ci sono tempi lunghissimi nella consegna di medicinali ai detenuti e passano molti mesi per ottenere una visita specialistica. Alcune carceri hanno strutture fatiscenti che rendono la detenzione al limite della sopportabilità. Fino a quando le celle saranno un carcere nel carcere continueremo a contare i suicidi e gli episodi di violenza. Se manca la salute, se viene meno o è insufficiente il supporto ai soggetti fragili il rischio suicidario si moltiplica”. La presenza di tossicodipendenti e malati psichici non aiuta... “Ci sono persone che non dovrebbero nemmeno entrare in carcere. Detenuti con gravi patologie psichiche già certificate che vengono rinchiusi senza adeguato supporto. Questi soggetti una volta entrati nel sistema non li recuperi più. Psichiatri e psicologi sono insufficienti rispetto all’entità del problema. Disabilità mentale e tossicodipendenza nelle carceri sono questioni enormi che nessuno vuole affrontare”. Agrigento. I penalisti sulla rivolta: “Condizioni degradanti, in alcune celle entra la pioggia” di Gerlando Cardinale agrigentonotizie.it, 5 gennaio 2024 Il presidente della Camera, Angelo Nicotra: “I fatti andranno accertati ma vanno garantiti i diritti dei detenuti, non si possono negare acqua calda e assistenza medica”. “Senza entrare nel merito dei fatti accaduti nel carcere di Agrigento, che verranno accertati, va detto - come recita la Costituzione - che il trattamento carcerario non può essere contrario al senso di umanità e tendere alla rieducazione del condannato”. Il presidente della Camera penale di Agrigento, Angelo Nicotra, interviene con una nota sulla rivolta al carcere “Di Lorenzo” dei giorni scorsi e spiega: “Assistiamo a condizioni carcerarie di vita degradate per i detenuti e personale, per sovraffollamento (in Italia i detenuti sono 10.000 in più dei posti disponibili), assenza di riscaldamenti (annosa questione non più rinviabile in particolare al carcere di Agrigento, dove anche in alcune celle vi sono infiltrazioni di acqua piovana dalle finestre), senza acqua calda nelle celle, carenza di assistenza medica, soprattutto specialistica (il diritto costituzionale alla salute deve essere garantito anche ai detenuti). Nell’anno 2023 abbiamo avuto 67 suicidi in carcere”. Nicotra aggiunge: “L’Europa ci ha più volte richiamati per l’eccessivo uso della custodia cautelare in carcere. Come si vede i problemi non si risolvono introducendo nuovi reati, ma occorrono interventi specifici, tra cui per esempio come più volte annunciato dal ministro Nordio l’utilizzo di caserme dismesse, dove eventualmente collocare soggetti condannati per reati minori”. Da Cucchi a Cecchettin, il dolore non si giudica di Gianluca Nicoletti La Stampa, 5 gennaio 2024 Le critiche di protagonismo al padre di Giulia sono stereotipi della tragedia classica. C’è chi invoca una dimensione “punitiva” del dolore, ma giudicarlo è sbagliato. Quando la collettività si pone di fronte a forme di elaborazione “attive” di una sofferenza, il giudizio è sempre implacabile. Non si tollera l’uscita dai canoni tradizionali dell’afflizione che impongono riserbo, silenzio, annientamento. Nemmeno nell’epoca della cultura digitale, in cui ognuno avrebbe pieno diritto di costruire liberamente una propria epica individuale, è ammessa la scelta di strumenti personalizzati di elaborazione del proprio lutto. Guai a uscire dallo stereotipo della tragedia più classica, con la vedova inconsolabile, il padre annichilito dal dolore, i figli che non si daranno mai pace. Il Canonico napoletano Carlo Celano (1617-1693) descrive in una sua cronaca quello che la regola sociale del cordoglio, al suo tempo, imponeva a una vedova. L’idea fondamentale era che la donna dovesse essere punita; veniva innanzitutto affumicata bruciando paglia umida di modo che restasse completamente annerita negli abiti e nel volto. Ogni altra donna che entrava nella casa per la veglia funebre, le strappava una ciocca di capelli e la buttava sul cadavere del morto. Le ultime arrivate, che la trovavano pressoché calva, la graffiavano fino a portarle via pezzi di pelle da porre sul marito morto. Per svolgere questa operazione di scarnificazione si erano precedentemente affilate le unghie sui manici delle zappe. Nel caso di morte violenta in più la donna doveva ostentare gli abiti insanguinati della vittima, invocando i figli a vendicare il padre. Subiva lo stesso trattamento, però distesa con le chiome sciolte accanto al cadavere dell’ucciso. Tre secoli e mezzo dopo la perfetta elaborazione collettiva di un lutto è ancora condizionata dalla memoria recondita di un’ancestrale giustificazione antropologica, che era alla base di quel barbarico rituale. Ogni condivisione pubblica del cordoglio continua a essere influenzata dalla necessità di una dimensione “punitiva” del lutto. Non è intimamente tollerabile altra risposta, se non quella rituale dell’annichilimento e mortificazione, come se fosse ancora considerata una colpa il sopravvivere alla perdita di una persona cara. Il perbenismo bigotto dei primi anni del dopoguerra era naturalmente infarcito di questo giustizialismo per omessa ostentazione di sofferenza. Si consegnavano al furor di popolo dei rotocalchi i vip, soprattutto donne, che si ricostruivano vite spensierate dopo essere state icone di sofferenza. Si ricordi tra tutte Jacqueline Kennedy, poi Onassis, a cui stava colpevolmente stretto il ruolo forzato di vedova del “Presidente buono”. Intelligenza artificiale e informazione: le allucinazioni pericolose di Barbara Stefanelli Corriere della Sera, 5 gennaio 2024 La causa del New York Times contro OpenAi e Microsoft avrà conseguenze per il futuro dei media. E non solo. La parola dell’anno che si è appena chiuso è stata “intelligenza-artificiale”, perché nessun sintagma racchiude con più efficacia quel combinato di speranza e timore/terrore con cui guardiamo al nostro futuro, prossimo e remoto. Non a caso uno degli ultimi atti del 2023 - significativi per noi tutti, giornalisti e lettori - è stata la causa aperta dal New York Times contro OpenAi e Microsoft dopo mesi di trattative che avevano l’obiettivo di raggiungere un punto d’equilibrio quanto all’utilizzo delle informazioni del quotidiano americano negli ingranaggi dei programmi generativi (ChatGpt e Gpt-4) delle due corporation. Quel confine tra mondi diversi non è stato individuato e lo strappo, che passerà presto negli spazi fisici di un tribunale di Manhattan, avrà conseguenze per il futuro dei media. E non solo. Che cosa sostiene il Nyt ? Sostiene che il giornalismo di qualità, leva tuttora irrinunciabile per il funzionamento delle democrazie liberali, è destinato a scivolare rapidamente in uno spazio rischioso per la propria sopravvivenza se i contenuti originali di cui rivendica fonti & proprietà vengono ingeriti e triturati dai chat, shakerati e ricomposti, infine offerti sul mercato a basso prezzo in risposta alle richieste del pubblico. È una questione di accuratezza, di fake news o di news approssimative destinate a inquinare la comprensione delle notizie: si parla di “allucinazioni”, cioè risposte fantasiose - se non completamente errate - pubblicate sulle piattaforme citando articoli, immagini e video firmati New York Times ma senza mai offrire un link di riferimento come avviene quando attiviamo un motore di ricerca. Ed è, nello stesso tempo, un problema di modelli di sostentamento: le informazioni aspirate dal web e immesse nei circuiti “staccate” dagli oneri di produzione (il lavoro degli inviati e delle redazioni, per semplificare) bruciano la concorrenza e spingono le testate “tradizionali” (che avevano però imparato a traghettarsi attraverso l’universo digitale) sull’orlo del fallimento. Editoriale, perché la qualità non fa più la differenza. Economico, perché il traffico si sposta altrove intaccando la tenuta degli abbonamenti. I costi sono dunque incrociati: nella citazione in giudizio di OpenAi e di Microsoft, vengono indicati “miliardi di dollari in danni statuari e reali” per l’impresa Nyt e - soprattutto - una perdita “enorme” per la società intera. Lo smembramento del giornalismo indipendente: sicuramente imperfetto ma costituzionalmente votato ad avvicinarsi il più possibile all’obiettività dei fatti e impegnato con le opinioni ad accelerare i cambiamenti. Per questo il nodo del copyright, il diritto d’autore declinato ai tempi accelerati dell’intelligenza artificiale, sarà così determinante. Le cause ormai si sommano le une alle altre. Ci sono quelle di scrittori come Franzen e Grisham, quella intentata dall’agenzia fotografica Getty, le prime avanzate da personaggi dello spettacolo. Anni di sfide legali ci attendono. E ci riguardano, direttamente. L’obiettivo resta quel punto di incontro e di equilibrio, sinora fallito. Perché sarà insensato (e impossibile) fermare lo sviluppo tecnologico dell’AI. Ma sarebbe catastrofico abbandonarci alle ondate di falsità e furia generate dalla disinformazione. Nelle gabbie dei Cpr gli immigrati detenuti protestano per il freddo: manganellati Angela Nocioni L’Unità, 5 gennaio 2024 Lamette ingerite dai detenuti al Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Milano. E polizia antisommossa la notte di capodanno a quello di Gradisca d’Isonzo, provincia di Gorizia. Il 31 dicembre al Cpr di Gradisca - senza riscaldamenti dagli inizi di dicembre - è stata anticipata la chiusura delle gabbie: alle 21 invece che alle 24. Tre ore in meno d’aria ai detenuti. In seguito alle rimostranze di alcuni dei prigionieri è intervenuta la polizia in tenuta antisommossa. Manganellate contro chi protestava, raccontano da là dentro. Il tentativo di sequestro dei telefoni cellulari ha causato ulteriori reazioni e proteste. Emergenza anche al Cpr, appena commissariato, di Milano. Lì detenuti hanno ingoiato delle lamette per poter essere portati in ospedale e uscire da lì. Quella che segue è la testimonianza di una attivista della rete Mai più lager, no ai cpr. “A Gradisca, dove si sta al gelo, la struttura è fatta di celle da 6 con latrina interna e un cortiletto molto piccolo, con grate, cancelli e rete sul soffitto. Il cortiletto è separato dalla cella solo da vetri. Questo cortile ingabbiato è il luogo in cui le persone rinchiuse possono andare oltre alla mini-cella che è talmente piccola che mangiano sul letto. Per loro è vitale questo spazio. Il 31 dicembre hanno chiuso alle 21, hanno messo dei catenacci. Protesta dei detenuti. Arrivata polizia, una persona in tenuta antisommossa e uno col manganello che se l’è presa con chi più animosamente protestava. I feriti hanno chiesto di essere portati all’ospedale, ma invano. Lì c’è una infermeria. Già di solito non li portano in ospedale figurarsi dopo una protesta. Hanno provato a chiamare l’ambulanza, ma dall’ambulanza gli hanno risposto che non hanno l’autorizzazione ad entrare in cpr. I cpr di Gradisca e di Milano sono gli unici che lasciano il cellulare a chi è dentro. A Gradisca glielo restituiscono dopo l’udienza di convalida, glielo tolgono nelle prime 48 ore, che poi è quando una persona che finisce là dentro avrebbe più bisogno del telefono per contattare un avvocato. L’art 14 del testo unico dell’immigrazione dice che le persone rinchiuse devono avere libertà di comunicazione con l’esterno, anche telefonica. Quelle poche righe di quell’articolo sono l’unica disciplina legale, legittima, a regolare i Cpr. Il resto sono circolari, testi amministrativi. Quell’articolo è stato rinnovato dalla ex ministra Larmorgese e dispone che i telefoni cellulari siano lasciati nella disponibilità dei detenuti, in realtà vengono sequestrati all’ingresso ovunque e mai più resitutiti. Tranne a Milano, dove c’è stata una ordinanza del tribunale su un ricorso fatto da Asgi, l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione, nel marzo del 2021”. Cosa è accaduto esattamente con l’ingestione delle lamette da parte di alcune persone detenute? “È successo che stavolta, siccome il Cpr è commissariato da dicembre, hanno mandato all’ospedale quelli che avevano ingerito le lamette. Normalmente non succede. Prima del commissariamento potevi anche ingerire cose metalliche e ci mettevano giorni a mandarti in ospedale, se ti ci mandavano. Nei Cpr li tengono dentro anche se si sono ingoiati le lamette perché in qualche modo vengono poi vengono espulse. Accade spessissimo. Quasi tutti i giorni dentro i Cpr c’è qualcuno che ingerisce pezzi metallici. Di solito vengono ingoiati da persone che stanno per essere rimpatriate, lo fanno nella speranza di non essere rimpatriate. Stavolta a Milano è successo che le hanno ingerite di sicuro almeno 2 persone, una fonte ci ha detto che sono 7 in realtà. Poi, usciti dall’ospedale, sono state rilasciati per motivi di salute. Prima di essere rinchiusi nel Cpr c’è una visita medica che certifica che la persona è in uno stato di salute idoneo a stare lì. Se sopraggiunge una inidoneità deve essere rilasciato subito. Presumo che siano stati rilasciati perché il Cpr è commissariato e non si poteva fare altrimenti, di solito non rilasciano nessuno perché s’è ingerito le lamette”.