Sulla disobbedienza pacifica. La prigione non è vendetta di Paolo Borgna Avvenire, 4 gennaio 2024 Ci sono piccole norme che a volte sono la spia di scelte più ampie, di orizzonti culturali che segnano una svolta e delineano un nuovo futuro. A questo genere di “norme spia” appartiene l’articolo 18 del disegno di legge in materia di sicurezza, con cui si introdurrebbe nel codice un nuovo reato: la “rivolta in istituto penitenziario” (415 bis c. p.). Un reato con cui si punisce chi, all’interno di un carcere, organizza o anche solo partecipa ad una rivolta di tre o più persone mediante “atti di violenza o minaccia, di resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti ovvero mediante tentativi di evasione”. La novità non sta nell’incriminazione delle condotte violente o nel titolo del nuovo reato: “Rivolta in istituto penitenziario”. Le rivolte in carcere sono sempre state represse per i reati che durante la rivolta si commettono. Tipicamente: violenza, minaccia o resistenza a pubblico ufficiale, danneggiamento, evasione e (nei casi più gravi) incendio, sequestro di persona o lesioni. Non c’era certo bisogno di un nuovo reato per punire queste condotte. La novità sta in tre parole: “resistenza anche passiva”. Se si volesse brutalmente sintetizzare con uno slogan, il messaggio sarebbe: protestare pacificamente è un reato. O meglio: chiunque, se libero, può protestare pacificamente. Ma, se lo fa in carcere, sarà punito con altro carcere. Punire la semplice disobbedienza (di tre o più persone) ad “ordini impartiti” significa, tanto per fare alcuni esempi che traggo dal commento di un esperto di diritto carcerario, incriminare la protesta pacifica di detenuti che, magari per protestare contro il sovraffollamento, si “rifiutano di pulire o ordinare le camere o di adempiere agli obblighi lavorativi o anche solo di fare la doccia” (Alberto de Sanctis su “Il Riformista” del 23/12/2023). Sono tutte condotte che oggi possono tutt’al più configurare un illecito disciplinare e che, con la riforma, costituirebbero invece un reato. Chiunque abbia una minima conoscenza del carcere e della sua vita interna comprende che ciò significherebbe gettare benzina sul fuoco. C’è - in questa criminalizzazione della disobbedienza pacifica a carico esclusivamente di una categoria di persone (i carcerati) che, proprio in quanto già privati della libertà personale, non hanno altro modo di protestare - un quid di ostilità difensivo-repressiva che davvero fa paura. Dietro questa novità vi è una concezione del carcere che viene da lontano e che negli ultimi anni si è radicalizzata: concepire la prigione come vendetta e unica vera sanzione, avendo come orizzonte ossessivo l’idea di “più reati, pene più alte, circostanze aggravanti sempre più severe”. È una filosofia pervasiva e che ha messo radici sempre più profonde a prescindere dalle maggioranze al governo del Paese. Non dimentichiamo che un sottosegretario alla giustizia di un governo sostenuto anche da partiti di sinistra - chiamato a rispondere in Parlamento alle immagini degli agenti che, per reprimere la rivolta nel carcere di Santa Maria Capua Vetere nella prima fase del Covid, manganellavano detenuti anche sulla sedia a rotelle o già caduti in terra (quei video si trovano ancora nei siti web di vari quotidiani) - disse che si era trattato di una “doverosa azione di ripristino di legalità” Allora, pochi protestarono. Oggi, di fronte a questa piccola rivoluzione culturale che, per la prima volta nella storia della legislazione italiana, considera reato la resistenza passiva, pochi protestano (ad eccezione di associazioni come Antigone o degli avvocati penalisti). Di fronte a una politica che quotidianamente rincorre piccole polemiche su piccoli fatti, nessuno ingaggia, sull’opposizione a questa norma, una battaglia prioritaria in cui mettere in gioco la propria persona. In giorni e ambiti come questi viene da rimpiangere le battaglie liberali di un uomo come Marco Pannella. “Esecuzione penale tra sicurezza e dignità” giustizia.it, 4 gennaio 2024 Riportiamo il capitolo dedicato alle carceri dell’Atto di indirizzo politico-istituzionale per il 2024, volto ad indicare le priorità politiche che il Ministero della Giustizia intende realizzare nel corso del prossimo anno, in linea con il bilancio di previsione e, nel contesto europeo, in relazione ad un efficace impiego delle risorse messe a disposizione dal PNRR. Essenziale la sicurezza negli istituti penitenziari, tanto nell’interesse degli operatori quanto dei detenuti. In quest’ottica l’azione sarà volta a implementare i sistemi di sicurezza, con l’incremento delle misure di controllo e videosorveglianza, l’ammodernamento tecnologico degli apparati, l’utilizzo di body cam, di sistemi anti-droni e di apparati per il rilevamento di oggetti non consentiti; sarà inoltre potenziato il reparto cinofili. La divisione in circuiti e la differenziazione dei detenuti in base al grado di pericolosità saranno rafforzate per evitare che nelle sezioni detentive possano verificarsi eventi critici pregiudizievoli per l’ordine e la sicurezza, nonché per la tutela del personale operante tutto; sarà profuso ogni sforzo per prevenire le aggressioni al personale addetto agli istituti, attraverso una compiuta analisi delle condotte violente dei detenuti per anticiparne gli eventi aggressivi, elaborando sempre più efficienti modelli operativi e funzionali, corredati da aggiornati elementi formativi. Si proseguirà con il consolidamento della politica sul personale e la creazione di un ambiente di lavoro orientato al benessere organizzativo, attraverso investimenti consistenti e concorsi regolari, con il completamento delle piante organiche del personale, sia della dirigenza pubblica che di quella contrattualizzata, sia della Polizia Penitenziaria che del personale appartenente al comparto funzioni centrali; si continueranno ad attuare elevati standard formativi sia per il personale neoassunto che per quello già in servizio, per fornire strumenti necessari all’attività professionale, nonché per promuovere e rafforzare l’adesione ai principi di etica professionale. Sarà incentivato lo sviluppo di innovazioni tecnologiche legate alla gestione del personale e verrà consolidata la funzionalità delle piattaforme per favorirne l’accesso in sicurezza da remoto. Sarà prestata, inoltre, particolare attenzione al contrasto ad ogni comportamento che possa rendere opaco l’agire amministrativo e verrà promossa la cultura della trasparenza e dell’integrità, proseguendo l’attuazione del Programma triennale per la prevenzione della corruzione. Sul versante dell’esecuzione, al fine di garantire una pena dignitosa, si riconosce come prioritaria la realizzazione di un sistema fondato sulla valorizzazione del lavoro come forma principale di trattamento, unitamente allo studio, ai rapporti con il mondo esterno e alla promozione di ogni attività culturale, ricreativa e sportiva utile al reinserimento sociale. Riguardo all’assistenza sanitaria ai detenuti e ferme restando le prerogative regionali sull’implementazione delle REMS, si proseguirà con la sottoscrizione di appositi protocolli con il Ministero della salute, consolidando i presidi ospedalieri all’interno degli istituti penitenziari. Verrà implementata la rete di assistenza sanitaria protetta in grado di farsi carico in sicurezza della cura dei detenuti sottoposti ai regimi detentivi di maggiore rigore. Il miglioramento delle condizioni di detenzione verrà realizzato anche attraverso una costante attenzione all’innovazione e alla modernizzazione delle strutture penitenziarie e mediante la costruzione di nuovi padiglioni e nuovi istituti ad elevata azione trattamentale. Un’attenzione particolare sarà dedicata all’efficientamento energetico, con il duplice obiettivo del risparmio delle risorse e della sostenibilità ambientale. L’emendamento Costa? Non è un bavaglio, casomai una toppa sul processo mediatico di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 4 gennaio 2024 Liquidato da molti opinionisti come una “norma-bavaglio”, il recente emendamento Costa alla legge di delegazione europea, approvato alla Camera e in attesa di approvazione al Senato, ha già fatto molto discutere. La novità che si vorrebbe introdurre, cui fa da sfondo l’ormai noto “braccio di ferro” tra istanze di tutela del singolo (o di una cerchia di soggetti) e istanze di informazione dell’opinione pubblica, è quella che vieterebbe fino alla fine delle indagini preliminari la pubblicazione integrale o parziale da parte dei giornalisti dei testi (cioè delle motivazioni) delle ordinanze applicative di una misura cautelare - sino ad oggi consentita - che tuttavia contiene molto spesso anche i brani delle conversazioni intercettate, la cui pubblicazione, da Codice di rito, dovrebbe essere limitata ai soli “brani essenziali” (salvo poi dover accettare l’inevitabile unilateralità di tale scrutinio). Tra le più autorevoli posizioni critiche, la segretaria della Federazione nazionale della stampa italiana, Alessandra Costante, nel commentare l’emendamento Costa, ha dichiarato di ritenerlo “un provvedimento liberticida nei confronti della libertà di stampa ma anche delle libertà individuali. È pericoloso infatti anche per lo stesso destinatario del provvedimento di custodia cautelare”. Eppure, questa volta la realtà è una sola, risalente, radicata nel tempo e ben nota a coloro che, come chi scrive, frequentano quotidianamente i Palazzi di giustizia. È noto a tutti, infatti, che il legislatore degli ultimi anni (riforme “Orlando” e “Bonafede”) - preso atto del dilagante fenomeno distorsivo (cui una gran parte dell’opinione pubblica e della stampa sembrano ormai essersi assuefatte) dell’impiego dello strumento cautelare come una forma autosufficiente di “consumazione” ed esaurimento del giudizio di primo grado (costituita dalla richiesta di misura cautelare, che suona come una richiesta di rinvio a giudizio, e dall’ordinanza applicativa della stessa, che si vorrebbe dotare della medesima autorevolezza di una sentenza di condanna all’esito di un processo) - ha tentato quanto più possibile di porre dei limiti in materia di pubblicabilità sui giornali del contenuto integrale delle ordinanze; in particolare, di quel contenuto costituito dai brani delle conversazioni intercettate. Proprio considerato che, anche con riferimento a tale strumento investigativo, si è addivenuti sempre più ad un suo mutamento ontologico - da mezzo (ausiliario) di ricerca della prova a vero e proprio mezzo di prova - nonché al suo impiego ad un numero sempre più vertiginoso di fattispecie di reati (circostanze, entrambe, sulle quali il ministro Nordio ha promesso opportunamente una revisione profonda), l’emendamento Costa si pone come l’inevitabile “toppa”, più che bavaglio, per la tutela dei soggetti sottoposti ad indagine nonché per la tutela di soggetti del tutto estranei alle stesse che, di colpo, vedono comparire del tutto sine titulo il loro nome o quello di familiari sui quotidiani. La prassi giudiziaria ha testimoniato l’enorme abuso in fase cautelare, tanto da parte delle Procure quanto talvolta da parte dei gip, del ricorso ai brani intercettati come (unico, talvolta) contenuto della “parte motiva”, vuoi delle richieste di misure cautelari vuoi, appunto, delle ordinanze applicative, entrambe destinate alla successiva pubblicazione integrale da parte della stampa. Fermo, dunque, ed è bene sottolinearlo, che l’emendamento Costa non vieta in alcun modo alla stampa la possibilità di informare l’opinione pubblica circa l’avvenuta applicazione di una misura cautelare nei confronti di un soggetto, né di renderne note le ragioni a sostegno e gli elementi di prova addotti, si richiede, tuttavia, d’ora in avanti un maggior sforzo argomentativo agli organi di informazione, a tutela delle garanzie del singolo, che - in ultima istanza - non sono altro che le garanzie della collettività. Nessun attacco liberticida ad avviso di chi scrive, dunque, ma anzi il tentativo, soprattutto culturale, di riportare un equilibrio di garanzie, in particolare nelle fasi primigenie di inizio di un procedimento penale (le più delicate) degno dello Stato di diritto in cui viviamo. Anche qui il collega avvocato Costa ha centrato l’obiettivo di chiedere più prudenza e più tutela nei confronti del soggetto sottoposto a indagini: non si può fare altro che accogliere positivamente l’emendamento e sperare che l’iter proceda senza indugio. *Avvocato, Direttore Ispeg “Legge bavaglio? Gentile on. Costa ascolti i magistrati” di Edmondo Bruti Liberati Il Foglio, 4 gennaio 2024 Perché l’estensore del noto emendamento dovrebbe misurare seriamente le obiezioni di chi opera col diritto. Vi sono leggi che a distanza di quarant’anni vengono citate con i nomi dei proponenti: la “Rognoni-La Torre”. L’”emendamento Costa”, aspira all’eternità, nelle intenzioni del proponente che su Il Foglio del 2 gennaio lo scolpisce nelle tavole di un “decalogo liberale”. Per ora si tratta di un emendamento inserito in una legge delega che di altro trattava e non sarebbe la prima volta che un governo, meglio riflettendo, non eserciti la delega. Ma vigila impavido l’on. Costa, senza ritrarsi dall’enfasi “finché avrò voce difenderò questa norma approvata dalla Camera e ringrazio i tanti che lo fanno al mio fianco”. E se chi non esita a dettare un decalogo si misurasse seriamente con le obiezioni di almeno altrettanti “tanti”?. Non sono mai stato a Maranello, ma suppongo che gli ingegneri della Ferrari, se non pendano dalle labbra, quanto meno ascoltino con attenzione le valutazioni di Leclerc e Sainz su innovazioni volte a migliorare le prestazioni della macchina. Eppure si respingono con fastidio le osservazioni di molti magistrati, tra i quali Pm che praticano o hanno praticato a lungo queste tematiche e giornalisti, che sono poi i diretti destinatari delle proposte. Altrettanto per le osservazioni di autorevolissimi professori di diritto e procedura penale, tra i quali i massimi esperti della materia. Le citazioni di ordinanze sovrabbondanti e di stralci di intercettazioni ininfluenti, ma “piccanti” finite sui giornali sono, pressoché tutte, reperti d’epoca. Da qualche anno è entrata in vigore e ormai, superate difficoltà tecniche, opera a regime il sistema dell’udienza stralcio a conclusione delle intercettazioni. Spesso si dimenticano due dati centrali. Primo: al pm deve essere preclusa la possibilità di operare una selezione, perché la difesa ha diritto di conoscere tutto e in una intercettazione che a prima vista (e anche al pm) può apparire irrilevante può trovare un importante spunto per la strategia difensiva. Secondo: tutto quanto depositato alle difese non è più coperto dal segreto dell’indagine. Al segreto non sono tenuti gli indagati e, ovviamente, neppure i difensori che legittimamente possono ritenere utile divulgare il materiale di cui dispongono, ad esempio in una strategia difensiva volta a sminuire il rilievo di una posizione rispetto ad altre. Ora con l’udienza stralcio i dati valutati, in contradditorio con la difesa, irrilevanti vengono appunto “stralciati” e depositati in un archivio riservato. Con una ulteriore innovazione si è previsto che i giornalisti possano chiedere copia delle ordinanze di custodia cautelare, facendo così cessare quello che, non a torto, era stato definito un “mercato nero” del documento; proprio gli esempi del passato che vengono riproposti dimostrano che la pretesa che non fosse pubblicato ciò che non era più segreto, logicamente insostenibile, di fatto era impraticabile. Un equilibrato sistema di segretazioni e liberalizzazioni, risultante da queste due innovazioni, consente il pieno controllo delle difese su tutti i materiali acquisiti, un efficace meccanismo di segretazione dell’irrilevante e la possibilità di acquisire alla luce del sole tutti i documenti necessari per esercitare un controllo critico sulla giustizia per i giornalisti, che la Corte Europea di Strasburgo ha chiamato “cani da guardia della democrazia”, proprio con riferimento alla cronaca giudiziaria. Innumerevoli documenti di istituzioni europee, pur attenti alla presunzione di innocenza, hanno insistito sulla esigenza di “trasparenza della giustizia”. Un’analisi non preconcetta della applicazione pratica di queste due recenti innovazioni ci mostra che non vi è stato un solo caso di illecita divulgazione di intercettazioni segretate. Ed inoltre la maggiore attenzione alla presunzione di innocenza e la consapevolezza della integrale pubblicabilità delle ordinanze di custodia cautelare sta progressivamente inducendo uno stile più sobrio e più attento nella citazione di intercettazioni. Non mancheranno eccezioni in negativo, ma, appunto, eccezioni. Eppure si vorrebbe tornare indietro al “mercato nero”, che non ha mai impedito pubblicazioni integrali, in favore della tecnica del “riassuntino”. I giornalisti e, tra di loro i cronisti giudiziari, esercitano quotidianamente l’arte della sintesi, ma, quando necessaria, la citazione testuale di stralci più o meno ampi del documento è garanzia di “buona stampa”. Una efficace dimostrazione della insensatezza dell’emendamento Costa lo ha fornito un quotidiano di assoluta certificazione liberal, “Il Giornale”, che in un un articolo pubblicato giusto il 31 dicembre, ha utilizzato proprio stralci integrali di numerose intercettazioni per svolgere valutazioni critiche sull’inchiesta Anas. Le intercettazioni sono un’odiosa interferenza nella privacy, ma sono indispensabili nelle indagini di criminalità organizzata, e altrettanto in quelle di corruzione ove vige il patto di ferro del silenzio tra corrotto e corruttore. La custodia cautelare, nelle sue diverse modalità, è in alcune circostanze necessaria. La motivazione delle ordinanze, pur nella sobrietà, deve necessariamente riportare tutti gli elementi di accusa che fondano, appunto “motivano”, la decisione della custodia cautelare. Nelle cose della giustizia vi è sempre la necessità di contemperare diverse esigenze e diversi valori in gioco. Con la spada e con gli “emendamenti epocali” si tagliano forse nodi, ma non si fa giustizia. *Ex Procuratore della Repubblica di Milano ed ex presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati Un garantismo a doppia velocità di Paolo Pandolfini Il Riformista, 4 gennaio 2024 Sarebbe bello che nel 2024 tutti venissero trattati come Davigo, stimati e considerati anche in caso di condanna alla prigione. Una ventata di sano garantismo pare avere investito in questo ultimo periodo la magistratura italiana. Dopo anni contrassegnati dalla ‘linea dura’ nei confronti delle toghe che incappavano in un procedimento penale o in uno disciplinare, l’approccio sembra essere radicalmente mutato. Ovviamente questo cambio di passo non può che far piacere ed è segno evidente di una diversa sensibilità verso condotte che in altri tempi avrebbero determinato ben altre conseguenze. Sembra essere passato un secolo dalla rimozione dalla magistratura di Luca Palamara, cacciato con ignominia, pur essendo incensurato, al termine di un turbo processo disciplinare durato appena un paio di settimane e dove il 90 percento dei suoi testimoni non erano stati ammessi. Un segnale di questo rinnovato approccio ispirato al miglior garantismo che avrebbe fatto sicuramente la felicità di Cesare Beccaria lo si riscontra nei confronti di Piercamillo Davigo, l’ex pm più famoso d’Italia e da sempre idolo dei manettari in servizio permanente effettivo. Il magistrato, come si ricorderà, venne condannato lo scorso anno dal tribunale di Brescia ad un anno e tre mesi di prigione per il reato, molto grave, di rivelazione del segreto d’ufficio circa la diffusione dei verbali delle dichiarazioni dell’ex avvocato esterno dell’Eni Piero Amara a proposito della loggia Ungheria. Secondo i giudici bresciani, Davigo con il suo comportamento avrebbe poi anche danneggiato l’allora collega del Csm e cofondatore della corrente Autonomia & Indipendenza Sebastiano Ardita, ora procuratore aggiunto a Messina, che per questo motivo era stato risarcito con 20mila euro. Davigo, andato in pensione come giudice ordinario ad ottobre del 2020 al compimento del settantesimo anno di età è rimasto in questi anni in servizio come giudice tributario, dove l’età pensionabile è invece fissata a settantacinque anni. Nonostante la condanna ad un anno e tre mesi di prigione, Davigo non ha subito alcuna conseguenza, continuando così a svolgere il delicato ed importante compito di giudice fiscale. Non risulta sul punto che sia stata aperta una pratica nei suoi confronti o che qualcuno gli abbia chiesto di fare un passo indietro. Giustamente, secondo noi, la presidenza del Consiglio dei ministri, titolare dell’azione disciplinare nei confronti dei giudici tributari, non ha voluto procedere, lasciando Davigo a giudicare serenamente sulle tasse e sulle imposte. Diverso scenario invece, solo qualche mese prima, per la consigliera di Stato Maria Grazia Vivarelli, anch’ella giudice tributario e condannata in primo grado per fatti, un abuso d’ufficio, che non riguardavano, però, la funzione di magistrato come Davigo, bensì quella di capo di gabinetto del presidente della Regione Sardegna Christian Solinas. Nel caso della magistrata amministrativa si è applicata la ‘linea dura’, con la sospensione dal servizio ed il ritiro del porto d’armi. Ed a proposito di sospensioni, vale la pena sottolineare ancora una volta le sperequazioni determinate dalla legge Severino, norma approvata nel pieno del furore giustizialista all’indomani delle gesta del consigliere regionale del Lazio Franco Fiorito, detto Batman, e che quando un domani sarà - speriamo - modificata sarà comunque sempre troppo tardi. Per un amministratore locale è sufficiente la condanna in primo grado per far scattare la sospensione. Sospensione che non scatta per il parlamentare per il quale la condanna deve essere passata in giudicato. Ben venga, dunque, il rispetto del principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza. Tornando a Davigo, pur essendo egli condannato per un reato inserito fra quelli contro la Pubblica amministrazione, in questi mesi è stato spesso chiamato in Parlamento per fornire i suoi pareri a proposito della riforma di questi reati. E nessun parlamentare si è mai sentito in imbarazzo: anzi, tutti lo hanno ascoltato con grande attenzione e prendendo appunti. C’è da auspicare che questo nuovo corso garantista valga un po’ per tutti e che si ponga fine alle micidiali black list per coloro che vengono solo sfiorati da una indagine. Per concludere, dunque, sarebbe bello che nel 2024 tutti venissero trattati come Davigo, stimati e considerati anche in caso di condanna alla prigione. L’ex pm di Mani pulite, va detto, da parte sua ha contribuito a questa svolta garantista decidendo, verosimilmente controvoglia, di fare appello alla sentenza di condanna. Davigo in passato aveva sempre affermato che gli appelli erano inutili e che servivano solo a prendere tempo e a foraggiare gli avvocati, e che non esistevano innocenti ma solo colpevoli che non erano stati scoperti. Ma è possibile considerare le vittime della mafia un pericolo per la collettività, com’è successo ai Cavallotti? di Fabrizio Costarella e Cosimo Palumbo* Il Dubbio, 4 gennaio 2024 La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con i quesiti posti al governo italiano, dimostra le perplessità nei confronti del nostro sistema di prevenzione. I giudici europei pongono richieste precise che avrebbero meritato risposte altrettanto precise. Ma, non potendo fornirle, il governo è costretto a rischiosissime spigolature che denotano spiccate tendenze solipsistiche e una certa predisposizione al masochismo. C’è un quesito, in particolare, che mette l’Italia con le spalle al muro: come è possibile che, nel nostro Paese, si possano confiscare i beni di chi è stato assolto? Già. Come è possibile? Siamo ai limiti della domanda retorica, tanto la risposta dovrebbe essere scontata: “non è possibile, scusateci”. Ma non per i nostri rappresentanti, che provano a rispondere mediante il consueto armamentario retorico, dialettico e lessicale, facendo leva su due cardini in particolare. L’autonomia e la differenza funzionale tra il procedimento penale e quello di prevenzione. Le sentenze assolutorie, dunque, non rappresenterebbero un ostacolo alla adozione di misure prevenzionali (né, in ciò, la parte pubblica vede la negazione della presunzione di innocenza), dal momento che il procedimento di prevenzione non si fonda sulle prove contenute nel fascicolo penale, né è destinato a concludersi con un accertamento di colpevolezza, quanto di mera pericolosità. La prima affermazione è una bugia sesquipedale (e noi non possiamo più accettare le bugie dette sulla pelle delle persone); sulla seconda bisogna intendersi. Anche il governo sa che, in Europa, la presunzione di innocenza ha una latitudine diversa, rispetto alla presunzione di non colpevolezza contenuta nell’art. 27 della Costituzione. L’art. 6 della Convenzione EDU, infatti, tutela anche la “percezione pubblica” dell’individuo, cioè la sua sfera reputazionale, assicurando che, anche al di fuori o dopo la chiusura del procedimento penale, in assenza di un formale accertamento di colpevolezza, egli non possa essere ritenuto colpevole di un qualche crimine. Così che, una volta che l’individuo sia stato assolto, non è possibile una rivalutazione dei fatti oggetto del procedimento penale, pur se in sede diversa, perché ciò determinerebbe una violazione della sentenza di assoluzione incompatibile con le garanzie del giusto processo. Numerose sono, sul punto, le precedenti pronunce europee. A fronte di tale aporia, l’Italia obietta che l’autonomia tra procedimenti assicura che quello di prevenzione non si basi sugli stessi fatti o sulle stesse prove di quello penale. La verità, che ci ostiniamo a nascondere all’Europa, è invece esattamente il contrario. Quello di prevenzione, nella assoluta maggioranza (prossima alla totalità) dei casi prende origine da un procedimento penale, con il quale condivide la base probatoria. Nel senso che il fascicolo delle indagini preliminari diventa, nella sostanza, il fascicolo del Tribunale di prevenzione. Sostenere il contrario non è serio. Sostenerlo nel caso Cavallotti, nel quale i decreti di confisca sono espressamente motivati con l’accertamento dei fatti contenuto nelle sentenze penali, è semplicemente uno spergiuro. Sostenerlo dopo l’introduzione dell’art. 578-ter del codice di rito penale, che prevede espressamente l’ambulatorietà dell’azione pubblica dal processo penale a quello di prevenzione (e, quindi, sancisce per Legge che i due procedimenti sono interconnessi tra loro), è da doppelganger: il governo si è inconsapevolmente sdoppiato, proiettando in Europa una differente - e più malvagia - versione di sé. All’Europa, spieghiamo magari anche “dove va” la prevenzione, non solo “da dove viene”. Sulla autonomia, intesa come l’intende la giurisprudenza convenzionale, non c’è davvero altro da dire. Sulla diversità di funzione, invece, si. Formalmente, infatti, le misure di prevenzione patrimoniale da pericolosità “qualificata” (nel caso dei Cavallotti, viene in rilievo una presunta contiguità mafiosa) hanno natura praeter delictum, cioè al di là della commissione (e, quindi, dell’accertamento) di un fatto costituente reato. Il Tribunale, infatti, deve rendere un giudizio di pericolosità e non di colpevolezza. Questo prevede il Testo Unico antimafia che, se la Corte Edu dovesse qualificare la confisca come sanzione penale, non sarebbe parte più conforme a Costituzione. Il problema, in questo caso, è tuttavia di merito. Il governo, tramite l’avvocatura, cerca di tracciare un impalpabile confine tra i concetti di partecipazione (rilevante nel processo penale) e appartenenza (rilevante nel procedimento di prevenzione) mafiosa, così come tra quelli di “contiguità” e “soggiacenza”. Immaginiamo quale possa essere lo stupore dei Giudici europei a recepire questi distinguo, frutto di una semantica costituita da vocaboli pensati con il solo fine di spiazzare chi legge le risposte del governo e, soprattutto, usati per “non farsi intendere”. Ma, nelle risposte ai quesiti posti dalla Corte EDU, Il governo omette di riferire la circostanza più importante: all’esito dei vari gradi del procedimento penale, i Cavallotti sono stati ritenuti vittime della mafia. Possono allora, le vittime della mafia essere considerate pericolose per la collettività e, in quanto tali, diventare vittime anche dello Stato? * Avvocati penalisti Terni. Morire di carcere, l’anno “nero” della Casa circondariale di vocabolo Sabbione di Christian Cinti ternitoday.it, 4 gennaio 2024 Quattro i suicidi registrati dietro le sbarre della struttura penitenziaria cittadina. Il triste “primato” assieme a Regina Coeli e San Vittore: i dati del dossier di Ristretti Orizzonti. Sei suicidi negli ultimi due anni. In particolare, il 2023, è stato un anno “nero” per il carcere di Terni: tre “impiccamenti” e un’asfissia conseguente all’incendio di una cella. Il più giovane era un marocchino di 28 anni, il più anziano un albanese di 62 anni, finito in cella dopo avere ucciso la moglie a coltellate nella zona di borgo Rivo. Numeri da brividi che fanno della casa circondariale di vocabolo Sabbione tra quelle con il più alto tasso di suicidi in Italia. A stilare questa drammatica mappa è lo studio “Morire di carcere”, realizzato da Ristretti Orizzonti, nel quale sono riportate le morti avvenute in prigione. Secondo il dossier, da inizio 2023 allo scorso 10 dicembre nelle carceri italiane sono morti 67 detenuti. l’ultimo suicidio è avvenuto a Trento, il 10 dicembre, il primo a Piacenza, lo scorso 16 gennaio. Il primo decesso a Terni risale alla fine del gennaio 2023. La vittima si chiamava Fabio Gloria ed era detenuto a Sabbione in seguito di alcune inchieste antimafia. Intorno alle 15 di sabato 28 gennaio, Gloria aveva fatto una videochiamata alla moglie dal carcere di Terni e, secondo il racconto dei suoi famigliari, aveva un occhio nero, conseguenza - come raccontato dallo stesso detenuto - di uno scontro con altri detenuti. Poi, verso le 23, la chiamata che informava la donna che suo marito si era tolto la vita impiccandosi. Dopo Gloria e dopo Urci Xhafer, a lasciare la vita dietro le sbarre di Sabbione era stato Abdelilah Ait El Khadir. Il 30 maggio scorso, il 35enne marocchino è morto dopo aver appiccato un incendio all’interno della propria cella, rimanendo intossicato dal fumo. L’incendio era stato appiccato al termine di una rivolta che aveva visto protagonista lo stesso nordafricano e che aveva coinvolto altri detenuti della struttura penitenziaria. L’ultimo a morire è stato un marocchino di 28 anni, trovato impiccato nella sua cella di isolamento lo scorso 17 settembre mentre aspettava di essere trasferito nel carcere di Capanne a Perugia. Il triste “primato” di quattro suicidi coinvolge anche il carcere romano di Regina Coeli e quello di San Vittore a Milano. Le carceri di Taranto, la sezione femminile di Torino, Milano Opera, Verona, Pescara e Venezia hanno fatto registrare tre decessi a testa. Secondo il dossier di Ristretti Orizzonti, nel 2023 sono state due le morti registrate nelle carceri di Firenze Sollicciano, Cagliari, Augusta. Un solo caso di suicidio, da inizio anno ad oggi, è stato registrato, infine, nelle carceri di Piacenza, San Gimignano (Pisa), Modena, Messina, Palermo Pagiarelli, Trani (Bat), Como, Napoli Poggioreale, Napoli Secondigliano, Ravenna, Treviso, Sicracusa, Chiavari Genova, Torino (maschile), Parma, Ragusa, Bergamo, Rossano Calabro (Cosenza), Frosinone, Busto Arsizio (Varese), Sassari, Biella, Santa Maria Capua Vetere (Caserta), Udine, Parma, Trento, Caltanissetta, Reggio Calabria - Arghillà, La Spezia. Oristano. Morte di Stefano Dal Corso, riaperte le indagini per “omicidio volontario contro ignoti” di Andrea Aversa L’Unità, 4 gennaio 2024 La battaglia della sorella Marisa. Era il 12 ottobre del 2022 quando il giovane è stato trovato senza vita nel carcere di Oristano. Diversi gli elementi emersi che hanno convinto l’autorità giudiziaria. Lo scorso ottobre il parlamentare Roberto Giachetti ha anche presentato un’interrogazione al ministro Nordio. La mattina del prossimo 12 gennaio, secondo quanto appreso da l’Unità, sulla salma di Stefano Dal Corso sarà effettuata prima una tac. Successivamente, a partire dalle 14, sarà eseguita l’autopsia. Il tanto atteso e voluto esame autoptico che finalmente dovrà chiarire le cause del decesso del giovane. Quest’ultimo, romano e 42enni, è stato trovato senza vita il 12 ottobre del 2022 in una cella del carcere di Massama, alle porte di Oristano. In un primo tempo il caso era stato chiuso come un suicidio per impiccagione, ma è stato riaperto a settembre grazie alle rivelazioni della moglie di un detenuto raccolte da Marisa Dal Corso, sorella della vittima. Già lo scorso 28 dicembre, in occasione di una conferenza stampa convocata dalla famiglia Dal Corso (alla quale hanno partecipato il loro avvocato, il legale Armida Decina, il Garante dei detenuti di Roma Valentina Calderone, la Presidente di Nessuno tocchi Caino Rita Bernardini e l’opinionista Luigi Manconi), la sorella Marisa aveva annunciato la grande novità: la Procura sta indagando per omicidio volontario al momento contro ignoti. “Ce l’abbiamo fatta, ci hanno detto sì all’autopsia - ha commentato con l’Ansa Marisa Dal Corso - Speriamo adesso che si arrivi alla verità sulla morte di Stefano, quella che abbiamo sempre sostenuto, e cioè che è stato ucciso. In questo modo potremmo chiudere finalmente questa terribile vicenda”. Per ben sette volte l’avvocata Decina aveva chiesto, senza successo, che si svolgesse l’esame autoptico sul corpo di Stefano. Adesso la procura di Oristano ha deciso per gli accertamenti necroscopici e il prossimo 12 gennaio affiderà l’incarico al medico legale Roberto Demontis. L’autopsia sarà eseguita a Roma, presso l’ospedale Gemelli. La famiglia avrà i suoi consulenti: il medico legale Claudio Buccelli, l’ematologa forense Gelsomina Mansueto e l’esperto tossicologico Ciro di Nuzio. La svolta è arrivata nelle ultime settimane con le rivelazioni di supertestimone, raccolte anche queste da Marisa Dal Corso e depositate in procura. Si tratta di un agente della polizia penitenziaria secondo il quale Stefano è stato ucciso perché aveva sorpreso due agenti durante un rapporto sessuale. Il detenuto sarebbero quindi stato portato in una cella e ucciso a manganellate, poi colpito con una spranga per provocare la rottura dell’osso del collo e simulare il suicidio. Turi (Ba). “Poliziotto suicida perché vessato dai colleghi” di Chiara Spagnolo La Repubblica, 4 gennaio 2024 Un ex detenuto fa ripartire l’inchiesta sulla morte di Umberto Paolillo. Il 18 febbraio 2021 il 56enne si è tolto la vita con la sua pistola di ordinanza lasciando un messaggio in cui si diceva vittima di bullismo. “Lo chiamavano gobbetta, dicevano che era ancora vergine, lo sfottevano perché viveva con i genitori, si confidava spesso con noi detenuti”, ha detto il testimone. Disposto l’interrogatorio dei poliziotti riconosciuti dall’uomo. “I colleghi lo prendevano in giro continuamente, lo sfottevano perché viveva ancora con i suoi genitori, lo chiamavano gobbetta, gli davano dei giornaletti porno. Umberto spesso si confidava con noi detenuti, lo vedevamo sempre triste. Quando abbiamo saputo del suicidio abbiamo pensato che fosse arrivato al limite e che il gesto fosse collegato a quello che subiva in carcere”: ricomincia dalle parole di un ex detenuto del penitenziario di Turi l’inchiesta sulla morte di Umberto Paolillo, l’agente di polizia penitenziaria che il 18 febbraio 2021 si è tolto la vita a Bitritto, sparandosi un colpo alla tempia con la pistola di ordinanza a 56 anni. Il giudice Francesco Rinaldi ha rigettato la richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura, a cui si era opposta la famiglia (rappresentata dall’avvocato Antonio La Scala), disponendo ulteriori indagini nell’ambito del fascicolo per istigazione al suicidio. Il sospetto è che la decisione di farla finita sia maturata a causa delle vessazioni subite in ambito lavorativo, delle quali Paolillo aveva più volte parlato alla madre Rosanna Pesce e al neurologo che lo aveva in cura, mettendole persino nero su bianco su alcuni fogli conservati in una cartella chiamata appunto “tutte le cattiverie subite”. Tali angherie sono state negate dalla maggior parte dei colleghi dell’agente ascoltati dai carabinieri mentre solo uno di loro ha riferito delle paure di Paolillo, delle richieste di aiuto durante alcuni servizi, dell’ansia di essere licenziato e anche di comportamenti molto duri da parte di alcuni superiori. A conferma di tali indicazioni sono arrivate poi le parole di un ex detenuto, che conosceva molto bene il poliziotto suicida, che ha riferito di aver assistito personalmente a condotte vessatorie: “Lo prendevano in giro, dicendo che aveva 60 anni, che era ancora vergine e che abitava ancora con sua madre”. Tali dichiarazioni, a detta del gip, “non possono trascurarsi”. Anche perché l’uomo ha riconosciuto con certezza, nell’album fotografico mostratogli dagli investigatori, gli agenti che avrebbero tenuto comportamenti bullizzanti nei confronti di Paolillo. Di questi poliziotti il giudice ha ordinato l’interrogatorio, insieme ad un ascolto più approfondito dell’ex detenuto. Anche se finora non sono emersi elementi utili per iscrivere nomi nel registro degli indagati - ha ragionato il giudice - è possibile che l’agente sia stato indotto al suicidio a causa delle continue pressioni subite sul posto di lavoro. Le indagini, dunque, non possono finire qui ma devono andare avanti alla ricerca dei presunti responsabili. Agrigento. In cella si gela: punito chi protesta di Frank Cimini L’Unità, 4 gennaio 2024 La galera si aggiunge alla galera. I detenuti del carcere di Agrigento si rivoltano utilizzando, secondo la ricostruzione della polizia penitenziaria, bastoni, acqua e olio bollente per protestare contro il freddo (gli impianti di riscaldamento non funzionano). La rivolta viene sedata e scattano nove arresti per danneggiamento aggravato. Alla protesta hanno partecipato una cinquantina di reclusi e siccome le indagini “sono ancora in corso” è molto probabile che altri detenuti subiscano a breve la stessa sorte. Il Consiglio dei ministri nel pacchetto sicurezza aveva inserito una nuova fattispecie di reato contro le rivolte in carcere e nei centri di permanenza per i rimpatri (Cpr) con pene che vanno dai due agli otto anni di reclusione. “Basta impunità a chi mette a ferro e fuoco gli istituti penitenziari - tuonava il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove ora alla ribalta della cronaca per la vicenda dello sparo alla cena di Capodanno - Mai più rivolte eterodirette dalla criminalità organizzata senza reazioni da parte dello Stato”. Delmastro si riferiva alle rivolte del marzo 2020 in piena era Covid costate la vita a 13 detenuti nel carcere di Modena in circostanze mai del tutto chiarite e in un primo momento associate a una regia mafiosa in realtà mai provata. Tanto che tale versione veniva smentita dalla commissione ispettiva del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria creata per indagare su quei fatti. Poi erano state addirittura ipotizzate alleanze tra mafiosi e anarchici durante lo sciopero della fame di Alfredo Cospito. Tutte chiacchiere a vuoto, propaganda. Il pacchetto sicurezza affinché entri in vigore aspetta l’approvazione del Parlamento ma in pratica è già operativo. Ci sarà anche formalmente il reato di “rivolta in carcere”. Era già accaduto con il reato anti rave party. Una legge ad hoc per punire un reato che esisteva già: l’occupazione illegittima di proprietà pubbliche. Si tratta di mosse dettate più dalla propaganda che da necessità. E che ora si ripete. Il sindacato di polizia Sappe parla di “avvenimenti annunciati” e ribadisce “basta con l’ipergarantismo nelle carceri dove ai detenuti viene permesso di tutto di autogestirsi con provvedimenti come la vigilanza dinamica e il regime aperto”. Ai detenuti è garantito intanto il diritto di morire di freddo perché nessun pacchetto sicurezza consente ai termosifoni di funzionare come dovrebbero. E chi protesta ha la certezza di avere altri processi e la carcerazione allungata. Per la gioia del Sappe e del sottosegretario Delmastro. Brescia. È un’emergenza sociale: Canton Mombello scoppia. Affollamento al 200% di Federica Pacella Il Giorno, 4 gennaio 2024 Il “Nerio Fischione” è l’istituto di pena in Italia più “fuorilegge”. Il report dell’associazione Antigone traccia la mappa delle strutture in difficoltà. Che il sovraffollamento sia un male cronico del sistema penitenziario è cosa nota, ma la velocità con cui sta crescendo l’affollamento nelle carceri ha assunto i contorni di un nuovo allarme. E in questo scenario Brescia, con il ‘Nerio Fischionè (Canton Mombello) è al primo posto in Italia tra le situazioni gravissime. A dirlo è l’associazione Antigone nel report di fine anno. “L’attuale tasso di crescita è estremamente allarmante - si legge nel report di fine anno -. Nell’ultimo trimestre (da settembre a novembre) i detenuti sono aumentati di 1.688 unità (a livello nazionale, ndr). Nel trimestre precedente di 1.198. In quello ancora prima di 911. Nel corso del 2022 raramente si è registrata una crescita superiore alle 400 unità a trimestre. Insomma, non solo la popolazione detenuta cresce, ma cresce sempre di più”. In questo contesto il tasso di affollamento ufficiale è del 117,2%, in Lombardia al 142% (8.733 detenuti in 6.152 posti). “La situazione in molti istituti è poi gravissima. A Brescia Canton Mombello l’affollamento è ormai al 200%, a Foggia al 190%, a Como al 186% e a Taranto al 180%”. Se gli spazi detentivi ufficialmente disponibili non aumentano, diminuisce però lo spazio a disposizione dei detenuti: non a caso il numero di ricorsi da parte di persone che lamentavano di essere state detenute in condizioni che violano l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e che vengono accolti dai tribunali di sorveglianza italiani, è in costante aumento da pandemia. Inoltre, sono sempre di più i reparti detentivi in cui si applica un regime a celle chiuse e dunque durante il giorno i detenuti restano chiusi nelle proprie celle. Cala leggermente il numero delle persone che lavorano in carcere alle dipendenze del carcere stesso, mentre sembrano finalmente aumentare le opportunità di formazione professionale: in Lombardia, su 8733 detenuti ci sono stati 840 iscritti. Napoli. Sara in cella con la madre: “Ma cosa ho fatto di male per essere in carcere?” di Katiuscia Guarino Il Mattino, 4 gennaio 2024 La bimba, appena 6 anni, è ristretta nell’Icam da quando aveva 18 mesi. “Che ho fatto di male per stare in carcere?”. È ciò che ha scritto su un foglio Sara, di appena sei anni. La piccola è la figlia di una detenuta madre ristretta presso l’Icam (l’istituto a custodia attenuata per detenute madri) di Lauro. Convive in carcere con la mamma da quando aveva appena diciotto mesi. Come lei ci sono altri cinque bimbi nell’istituto penitenziario con le proprie madri da quando erano in fasce. Frequentano la scuola dell’infanzia del territorio accompagnati dagli agenti e dai volontari. Hanno spazi dedicati al gioco all’interno della struttura. Sono curati e assistiti. Gli agenti in servizio non sono in divisa. Vivono in una struttura penitenziaria confortevole, ma sono pur sempre in un carcere. Il bambino dice: “Apri, chiudi, posso andare?, ho bisogno, sono autorizzato”, sottolinea il garante regionale dei diritti per i detenuti Samuele Ciambriello, che ieri ha organizzato un pranzo con detenute, agenti, volontari e la direttrice Rita Romano. “Serve una misura alternativa che è quella della comunità alloggio per quelle donne che vogliono vivere la maternità e che devono scontare la pena al di sotto dei quattro anni - riprende Ciambriello. Sono necessarie soprattutto attività ludiche e formative per i bambini”. Il pranzo è stato promosso dal garante insieme all’associazione Il sogno di Chiara Mastroianni e alla direttrice Romano. Un’iniziativa di inclusione per oltrepassare le sbarre che rientra nell’ambito delle attività organizzate nel carcere in occasione delle festività natalizie. Presenti, tra gli altri, l’ispettrice Teresa Simonetti e gli agenti in servizio nel penitenziario. Il pranzo ha rappresentato l’occasione per affrontare le problematiche che si registrano nella struttura e che riguardano principalmente le attività extrascolastiche per i bambini al di fuori delle mura carcerarie. “Questa struttura mi dà la possibilità di stare con mia figlia. Sto bene qui. Sono contenta. Mia figlia mi rende felice. Sta qui con me da quando aveva undici mesi. Chiedo solo che mia figlia faccia tutte le attività che fanno gli altri bambini al di fuori di queste mura”: è l’accorato appello di Beverly, nigeriana 42enne, in carcere da quattro anni insieme alla sua bimba di cinque. Ed è lo stesso appello che fa Belinda, sua connazionale 44enne: “L’Icam mi ha aiutata a capire gli errori. Sono qui con mio figlio di sei anni. E vorrei per lui una vita diversa all’esterno di queste mura”. Proprio per questo aspetto, la giunta regionale su impulso del consigliere Livio Petitto ha stanziato fondi da destinare all’Icam per programmare attività pomeridiane destinati ai piccoli delle detenute madri. “Verranno selezionate associazioni e cooperative che si occuperanno di attività ricreative, culturali, ludiche anche fuori dal carcere per i bambini”, fa sapere Ciambriello. Nell’Icam di Lauro sono ristrette attualmente sei donne con altrettanti bambini. Sono in servizio 23 agenti. Per quanto riguarda l’aspetto sanitario, opera una guardia medica tutti i giorni. Mentre il pediatra, che fino a qualche anno fa mancava completamente, è in servizio ogni quindici giorni. L’iniziativa di ieri mattina, è stata dunque promossa con l’associazione Il sogno di Chiara Mastroianni che ha distribuito panettoni, calze della Befana e dolciumi ai bambini. L’associazione è guidata da Antonio e Rosanna Mastroianni, papà e mamma di Chiara, l’assistente sociale che operava nello staff di Ciambriello scomparsa a soli 24 anni, in seguito a un incidente stradale. L’associazione porta avanti progetti dedicati ai bambini delle detenute e alle persone bisognose. Firenze. Sollicciano inumano, detenuto esce prima. “Decisione corretta, carcere da ricostruire” di Manuela Plastina La Nazione, 4 gennaio 2024 Il provvedimento del Tribunale di sorveglianza ha acceso i riflettori sulle condizioni di degrado all’interno del penitenziario fiorentino. Il garante: “Non ha senso tenere in piedi Sollicciano, costerebbe molto meno demolirlo e costruire una nuova struttura”. Giuseppe Fanfani, il garante dei detenuti della Toscana, ha visitato molte volte il carcere fiorentino. Conosce le sue criticità, tutti i suoi difetti, e non è rimasto stupito quando ha letto il provvedimento del tribunale di sorveglianza di Firenze che ha accolto il ricorso di un detenuto di 58 anni peruviano condannato per omicidio - difeso dall’avvocato Elisa Baldocci - e applicato uno sconto di pena di 312 giorni sulla base dell’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo, laddove si proibisce “la tortura e il trattamento o pena disumano o degradante”. “La motivazione del provvedimento è ineccepibile - aggiunge Fanfani -, è un esame analitico delle insufficienti qualità della struttura e di tutte le sue carenze che, messe in rapporto con la durata e il tipo di detenzione del soggetto in questione, violano i diritti dell’uomo”. Cimici nei letti e sui muri, e segni dei loro morsi sulle braccia dei detenuti, infiltrazioni d’acqua, muffa, pareti che si scrostano, ma anche dimensioni delle celle sotto gli standard richiesti dalla Cedu: sono i contenuti che compaiono nei verbali dei sopralluoghi dell’Asl e che il magistrato di sorveglianza, Maria Elisabetta Pioli, ha usato nel suo provvedimento per illustrare il “trattamento inumano e degradante” al quale sono sottoposti gli ‘ospiti’ di Sollicciano. Storture che ieri mattina hanno potuto constatare anche alcuni membri dell’Onac (Osservatorio nazionale sulle carceri dell’associazione italiana giovani avvocati). “Siamo stati nelle strutture di Pisa e Lucca - esordisce Francesca Bonagura, referente Firenze e Toscana -, ma come Solliciano è quella messa peggio”. In particolare, a essere teatro di decadenza e poca igiene sono il reparto accoglienza, nel quale “le celle sono in condizioni di igiene preoccupante” continua Alessandro Betti dell’Onac”, e quello Atsm, ovvero per la tutela della salute mentale. Ale dell’istituto penitenziario refertate anche negli atti del tribunale di sorveglianza, dai quali emergono anche “importanti problematiche igienico-manutentive”. Il provvedimento si staglia inoltre come una “spartiacque per il nostro mondo - continua Bonagura -, e io sicuramente proverò la stessa procedura per tutti quei detenuti che vivono in condizioni simili”. La legge prevede che ogni 10 giorni passati in quello stato di degrado, in cui vengono violati di diritti, si può chiedere un giorno di sconto. Quindi il pensiero adesso va “alla situazione che stanno passando gli altri 500 detenuti di Sollicciano, molti dei quali vivono in condizione sostanzialmente analoghe a quella dell’uomo peruviano”. Ancona. Caos nel carcere di Montacuto, detenuti si arrampicano sul tetto di Federica Serfilippi Corriere Adriatico, 4 gennaio 2024 Uno cade di sotto da un’altezza di 4 metri: corsa all’ospedale. La protesta: “Vogliamo essere trasferiti”. Il caos è scoppiato poco dopo l’ora di pranzo, nell’area dei passeggi di Montacuto. Due giovani detenuti, entrambi di origine tunisina, sono riusciti a salire sul tetto, ad una altezza di circa 4 metri. “Fateci uscire, vogliamo essere trasferiti” avrebbero iniziato ad urlare contro gli agenti della polizia penitenziaria. Questi ultimi per lungo tempo hanno provato a instaurare un dialogo con la coppia di tunisini: uno, alla fine, è sceso dal tetto, l’altro è caduto di sotto. L’ipotesi è che si sia lasciato volontariamente cadere. Il soccorso - Il nordafricano è stato immediatamente soccorso dagli agenti e dal personale medico dell’istituto penitenziario. Poi, è arrivata sul posto l’ambulanza inviata dal 118 per il trasporto d’urgenza all’ospedale. Nonostante la caduta, il giovane detenuto è rimasto sempre cosciente durante il trasferimento al pronto soccorso di Torrette. Non è in pericolo di vita nonostante i vari traumi provocati dalla caduta. L’allarme a Montacuto è scattato nel primo pomeriggio di ieri nel cortile del carcere anconetano. Stando a quanto è stato possibile ricostruire, due detenuti tunisini in qualche modo sarebbero riusciti a salire sul tetto dell’area, probabilmente arrampicandosi. Una volta sulla sommità hanno iniziato ad urlare in segno di protesta: “Vogliamo cambiare carcere” avrebbero detto. Con professionalità, gli agenti hanno instaurato con loro un fitto dialogo, cercando di farli scendere e tutelando la loro incolumità. L’interlocuzione è andata avanti a lungo, fino a che uno non è sceso. L’altro è precipitato di sotto, rovinando al suolo. Fortunatamente non ha riportato lesioni gravi tali da far temere per la sua vita. I numeri - L’episodio si inserisce in un contesto di tensione che da tempo caratterizza il carcere di Montacuto. Stando all’ultimo report del Ministero della Giustizia, sono 330 i detenuti a fronte di una capienza di 256 posti. Sotto organico, invece, la pianta della Penitenziaria. Ferrara. Emergenza tra le sbarre: “Celle sempre più sovraffollate” di Lucia Bianchini Il Resto del Carlino, 4 gennaio 2024 Report di Benvenuti e Laruccia (Partito Radicale) dopo la visita nell’istituto penitenziario “Situazione peggiore rispetto ad agosto. Nuovo padiglione, incerti i tempi dei lavori”. Rimangono il sovraffollamento e la carenza di personale le problematiche più gravi riscontrate alla casa circondariale ‘Costantino Satta’ da Maura Benvenuti e Vito Laruccia, membri del consiglio generale del Partito Radicale, in occasione della consueta visita alla struttura. “Come ci ha riferito la comandante - spiega Benvenuti, capo della delegazione ferrarese del partito - ci sono 111 detenuti in più rispetto alla capienza massima, per un totale di 382 persone, due detenuti per ogni cella, quando prima erano uno per cella. Il problema è poi la carenza di personale, la situazione è peggiorata rispetto alla visita di agosto, e questo obbliga i pochi presenti a molti turni, senza avere la possibilità di darsi il cambio per poter trascorrere qualche festività con la famiglia”. Per quanto riguarda i dipendenti ci sono stati nuovi arrivi, che però non hanno compensato la carenza. “Hanno mandati undici nuovi agenti - continua l’esponente del partito Radicale -, ma ne sono usciti, tra trasferimenti e pensionamenti, più di venti. Altro problema sarà il pensionamento della direttrice”. Altra situazione molto seria rimane quella dei tossicodipendenti e dei malati psichiatrici che sono rispettivamente 180 casi di tossicodipendenza e dieci pazienti psichiatrici diagnosticati prima dell’ingresso nella struttura. “Molti però - specifica Maura Benvenuti - sviluppano disturbi dopo l’ingresso in carcere, o si accentuano situazioni latenti. La settimana scorsa c’è poi stato un decesso, non si sa la ragione, si tratta di uomo che non aveva patologie e non aveva dipendenze, ha avuto un arresto cardiaco durante l’ora d’aria, nell’area esterna della struttura”. I visitatori riportano che sono stati effettuati l’80% dei vaccini influenzali e già effettuate 12 vaccinazioni Covid su un centinaio richieste, e si proseguirà man mano che arriveranno le dosi di farmaco. I detenuti possono contare, oltre che su cinque medici e nove infermieri e il supporto di diversi specialisti, sulla presenza di una psicologa sei giorni a settimana e di uno psichiatra due giorni a settimana, quest’ultimo proveniente dal dipartimento di via della Ghiara, che in caso di emergenza può intervenire in tempi brevi, fatto che i radicali ritengono “Molto positivo, in molte altre carceri non ci sono queste possibilità. Rispetto ad altre strutture che membri del nostro partito hanno visitato, la situazione a Ferrara è ancora gestibile”. È presente nella struttura una specifica area dedicata ai collaboratori di giustizia, con sala colloqui dedicata e la possibilità di collegarsi con i tribunali in occasione dei processi senza la necessità di uscire, ed anche sette detenuti nel reparto alta sicurezza “nato per i terroristi durante gli anni Settanta, che ora ospita soprattutto scafisti”, raccontano Benvenuti e Laruccia. La direzione ha inoltre comunicato la vittoria della gara d’appalto per la costruzione del nuovo padiglione, su cui non si hanno ancora tempistiche sull’inizio e la realizzazione dei lavori, ma che ridurrà sensibilmente le aree del campo e dell’orto della struttura. “Non siamo più solo noi ad andare in carcere, era partito Marco Pannella da solo, ora ci sono anche Aiga e la Camera penale, e questo ci fa molto piacere” è la constatazione di Vito Laruccia, vista la presenza alla visita di presidenza e rappresentanti dell’Associazione Italiana Giovani avvocati e della Camera Penale ferrarese. Ferrara. “Criticità nella sezione collaboratori di giustizia e manca il Garante dei detenuti” di Lucia Bianchini Il Resto del Carlino, 4 gennaio 2024 La visita del Partito Radicale al carcere dell’Arginone ha evidenziato criticità nella sezione Z, scarsità di personale, fondi e progetti, e preoccupazione per l’ampliamento previsto che ridurrebbe gli spazi all’aperto. Manca ancora il Garante dei detenuti. Durante la visita del Partito Radicale nel carcere dell’Arginone, ieri, era presente anche una rappresentanza composta da avvocati del direttivo della Camera Penale Ferrarese e del direttivo di Aiga Ferrara. Nel corso della visita, la delegazione sul numero dei detenuti presenti (ad oggi si contano ben 382 unità), sulle varie sezioni di cui si compone l’istituto carcerario, nonché sulle attività trattamentali. Pur apprezzando gli sforzi di tutto il personale per consentire ai detenuti la fruizione del maggior nu­mero di attività possibili (scuola, orti, campo sportivo, laboratori, etc.), “non si può non sottolineare come la scarsità del personale, di fondi e di progetti - si legge in una nota di camera penale e Aiga - impediscano di estendere le attività trattamentali (in particolare quelle lavorative) a numeri rilevanti di detenuti, sì da rendere effettiva la finalità rieducativa della pena e la conseguente risocializzazione delle persone condannate in via definitiva. Criticità sono state riscontrate in particolare nella ‘Sezione Z’ che accoglie circa 20 detenuti familiari dei collaboratori di giustizia, con posizione giuridica mista, i quali hanno a più riprese lamentato condizioni detentive non adeguate, e comunque una situazione di sostanziale isolamento all’interno del carcere stesso (pur motivata da esigenze di sicurezza individuate dal Ministero), tale da rendere ancor meno tollerabile il regime detentivo”. Il progetto di ampliamento della casa circondariale, “che prevede la costruzione di un nuovo padiglione da destinare ad attività ancora peraltro sconosciute alla stessa amministrazione, continua a destare forte preoccupazione. Tale padiglione dovrebbe infatti sorgere nelle aree ove ora si sviluppano gli orti e il campo sportivo determinando, così, una drastica riduzione degli spazi all’aperto utilizzati per lo svolgimento di importanti attività all’aperto. E manca ancora il garante dei detenuti”. Forlì. Nuovo carcere, l’idea è di 20 anni fa, poi vari stop: “Ora l’ultimo cantiere può partire” di Sofia Nardi Il Resto del Carlino, 4 gennaio 2024 Ritrovamenti archeologici e bellici, crisi, ritardi, ricorsi: dal 2007 a oggi si è perso troppo tempo. Le opere per concludere sono state assegnate dal ministero. Ecco cosa resta da costruire. Una lunga e complessa vicenda giudiziaria ha a lungo bloccato i lavori di realizzazione del nuovo carcere, già in avanzato stato di edificazione al quartiere Quattro, ma ora i nodi si stanno sciogliendo e il cantiere sembra pronto a riprendere la sua attività. La relazione di avanzamento dei lavori firmata dall’ingegner Roberto Gambarota, responsabile del procedimento, getta una luce sullo stato dell’arte e su quello che, a operazioni finalmente concluse, sarà il nuovo penitenziario di Forlì. Uno sguardo al passato: la realizzazione è stata suddivisa in tre distinti interventi (prima fase, primo stralcio e secondo stralcio) in funzione dei finanziamenti disponibili. In particolare un primo finanziamento di 900.000 euro è servito, nel 2003, per la progettazione: la lunghissima vicenda della casa circondariale, di fatto, è partita proprio 20 anni fa. Un secondo finanziamento di 8,1 milioni è arrivato nel 2005, per appaltare la prima fase. Un terzo finanziamento di 30 milioni è stato disposto nel 2006 e ha consentito l’appalto dei lavori di 1° stralcio. Un quarto e ultimo finanziamento di 20 milioni di euro è stato disposto nell’esercizio finanziario 2010 e ha permesso l’appalto dei lavori di 2° stralcio, quelli che dovevano completare l’opera. La prima fase, per 7,5 milioni, comprende la realizzazione di una parte degli alloggi di servizio, di cui tre terminati e tre ancora al rustico, del block house di ingresso, di parte delle centrali tecnologiche e della recinzione. I lavori sono stati consegnati nel marzo 2008 e ultimati nel giugno 2010. Il primo stralcio (l’importo è di 39 milioni) comprende la realizzazione del muro di cinta, del fabbricato adibito a direzione e caserma agenti, delle sezioni detentive di media sicurezza e di custodia attenuata, dei servizi (lavanderia, laboratori, magazzini). I lavori erano stati aggiudicati nel dicembre 2007, ma il ritrovamento di reperti archeologici e di un ordigno bellico hanno rallentato di molto il cantiere. A ciò si sono aggiunte le vicende societarie della Cir Costruzioni (maggio 2011). E anche l’impresa Lungarini SpA di Fano, nuovo appaltatore, è andata avanti con grave ritardo, il che ha reso necessaria la risoluzione del contratto a febbraio 2016. Per poter andare avanti è stato necessario rielaborare il progetto per adeguarlo alle nuove norme tecniche (le leggi cambiate avevano reso i progetti obsoleti). Il progetto adeguato è stato posto in appalto nell’ottobre 2018, e nel settembre del 2019 è stato appaltato alla ‘Devi Impianti - Rialto Costruzioni’. Ed eccoci al secondo stralcio: l’importo totale era di 20 milioni e comprendeva in origine la finitura dei primi 3 alloggi, la realizzazione di ulteriori 6, la realizzazione delle sezioni detentive dei protetti, dei semiliberi, quella femminile (l’unica della Romagna), della palestra e degli impianti sportivi all’aperto, nonché il completamento dell’esterno. Poi le note vicende giudiziarie: il ricorso della seconda azienda che aveva risposto al bando e, da qui, una pausa lunga anni. Ora, dopo la sentenza del Consiglio di Stato, le opere sono state aggiudicate dal Ministero. “La situazione attuale del cantiere? - si legge nel rapporto - Si potrebbe procedere alla risoluzione per grave ritardo, ma tale provvedimento, oltre ad avere le consuete conseguenze (difficoltà nel completare le opere e contenzioso con l’appaltatore), determinerebbe la necessità di prendere in consegna il cantiere, con spese e manutenzione dei fabbricati già realizzati. Tale ultima problematica potrà essere superata con l’avvio del cantiere del primo stralcio”. Adesso non resta che aspettare, ma, in questo caso, forse non troppo a lungo. E per l’ultima volta. “Nati pre-giudicati”, il film di Stefano Cerbone con ?i detenuti del carcere di Secondigliano di Leandro Del Gaudio Il Mattino, 4 gennaio 2024 Tra i giovanissimi che hanno preso parte al progetto gli studenti dell’istituto Galiani. Janet e Marinella si incontrano a scuola, un luogo dove trovano riparo dalle ansie di tutti giorni. Lì, tra i banchi di una scuola di periferia, almeno per qualche ora, Janet e Marinella dimenticano quello che hanno lasciato nelle rispettive abitazioni. Già, perché entrambe hanno alle spalle un inferno domestico. Diventeranno amiche, le due ragazze, quell’amicizia vera che si forma tra i banchi di scuola che nessuna altra esperienza è in grado di cambiare. Crescono unite, si rafforzano a vicenda, sanno di poter sfidare assieme pregiudizi ed emarginazione riservati a chi vive in famiglie legate alla criminalità organizzata. Poi, arriva la cesura, il taglio netto che spezza ma solo da un punto di vista fisico il loro legame. Scoppia una faida, l’ennesima parentesi sanguinaria di una guerra di camorra che infiamma e avvelena Ponticelli, il loro quartiere. E Janet e Marinella appartengono a due famiglie rivali, da questo momento non potranno più vedersi, dovranno dire addio alla loro amicizia. È il cuore di “Nati pre-giudicati”, film di Stefano Cerbone, regista e produttore di Secondigliano affiancato dal fratello Massimo (casting director) e dal direttore di produzione Francesco Granato in un film di formazione, un progetto di rinascita dedicato ai bambini delle periferie, in particolare a quelli nati all’ombra di contesti segnati dalla malavita organizzata. Ma restiamo al film: il lavoro ha ottenuto il patrocinio del Comune, per volontà dello stesso sindaco Gaetano Manfredi, data “la rilevanza sociale e culturale” del prodotto. Spiega Stefano Cerbone: “Salvare anche un solo bambino da un destino segnato dal crimine significa salvare un’intera famiglia della prossima generazione. Il progetto fa leva sulla partecipazione di giovani attori, ragazzi provenienti da quartieri di Secondigliano e Ponticelli, in alcuni casi figli di detenuti che hanno vissuto sulla loro pelle l’orrore della malavita organizzata”. Nel cast sono inserite anche persone che hanno vissuto da angoli prospettici differenti vicende legate alla camorra: è il caso di Vittorio Porcini, ex sostituto commissario di Ponticelli protagonista di ben settemila arresti; e Gennaro Panzuto, ex boss del quartiere Torretta, oggi collaboratore di giustizia. Nel film, spiega il regista e produttore, “hanno lavorato attori come Gigi Savoia, Gianni Parisi, Gianluca Di Gennaro, Carmine Paternoster, Marina Suma, oltre alla preziosa e amichevole partecipazione del deputato Gaetano Amato”. Tra i giovanissimi che hanno preso parte al progetto, è giusto annoverare Fabiana Granato, Janet Monaco e gli studenti dell’istituto Galiani, che ha ospitato la troupe per tre giorni, mentre le musiche originali sono di Mr Hyde e Enrico Rispoli. Il film si arricchisce anche del contributo dei detenuti del reparto Ionio del carcere di Secondigliano con frasi, considerazioni e suggestioni nate dal confronto con le loro esperienze di vita inserite nella trama. “Un modo per valorizzare il lavoro dell’associazione Per.Sud”, ha spiegato Cerbone, nel raccontare l’importanza del confronto su temi legati all’emarginazione sociale. Prossimamente il film sarà presentato a Napoli. Marco Boato, una vita per la politica: da Sociologia a Roma di Chiara Marsilli Corriere del Trentino, 4 gennaio 2024 Moderato nei modi, nei toni, nelle parole scelte per difendere anche in maniera appassionata le proprie idee. E intransigente nei pensieri, nelle scelte di barricata, nell’esercizio ad ogni costo della democrazia come strumento. È in questo ossimoro che sta la vita e la carriera di Marco Boato, ora diventato anche il titolo di una biografia firmata dalla penna del giornalista catanese Marco Di Salvo. “Marco Boato. Il moderato intransigente” (Edizioni Efesto, 2023), è un volume di dimensioni agili che in poco meno di 300 pagine ripercorre la storia dell’ex parlamentare, dalle aule dell’università fino ai banchi di Montecitorio e di Palazzo Madama. A dare il via alla pubblicazione è l’introduzione del giornalista e storico Carlo Romeo, che subito inquadra la caratura dell’uomo di cui si va a parlare: “Fare bene il parlamentare è un lavoro complesso, un mestiere difficile, impegnativo. (…) È difficile oggi vedere in questi rappresentanti del popolo la dignità che ebbe un tempo la prima generazione di parlamentari, molti dei quali avevano avuto modo, grazie al regime fascista, di studiare e riflettere a lungo nelle carceri o al confino, Marco Boato è stato uno dei migliori parlamentari che abbia avuto modo di conoscere”. Il volume nasce da una attenta ricerca storica di documenti e materiale giornalistico, ma soprattutto dalla feroce memoria di Boato stesso. La narrazione si sviluppa serrata tra le ricostruzioni di Di Salvo, che spesso lascia la parola direttamente al protagonista, ricostruendo su carta il dialogo che ha generato il libro. La storia inizia a Venezia, dove Boato nasce nel 1944, e si sposta subito a Trento, tra quelle aule di Sociologia che vedranno svilupparsi appieno le caratteristiche del futuro politico, già allora soprannominato “il rivoluzionario con la cravatta”, per lo stile di abbigliamento classico unito all’impegno nell’ambito di Lotta Continua, che lo porterà all’elezione a deputato nel 1979. Sono anni intensissimi e pericolosi: nel 1977 rischia la vita in un attentato organizzato in occasione del convegno contro la repressione a Bologna. “Tre-quattro anni dopo, durante una delle mie visite in carcere come parlamentare Radicale, qualcuno di Prima Linea mi disse “A Bologna avevano deciso di ucciderti”“, racconta lo stesso Boato. Sin da subito la sua attività parlamentare si concentra sui temi della giustizia e delle carceri, “il deputato radicale che più andò a trovare i prigionieri e l’unico deputato in assoluto che andò a parlare anche con i neofascisti”, ricorda ancora Boato. I primati del moderato intransigente non si fermano alle visite ai detenuti: suo è il record assoluto dell’intervento più lungo mai pronunciato nelle aule parlamentari, non solo italiane: dalle 20 del 10 febbraio alle 14 dell’11 febbraio, 18 ore no stop, interamente a braccio, in occasione della conversione in legge di un decreto sul fermo di polizia. Seguono gli anni della fondazione dei Verdi, l’elezione a primo Senatore verde italiano, il lavoro di ricerca sugli ordigni inesplosi davanti al Tribunale di Trento nel 1971, le peripezie dei Verdi, la discesa in campo di Silvio Berlusconi. Il tutto in un mosaico di nomi, episodi e date che hanno segnato il recente passato italiano. Quella di Boato, scrive Di Salvo, è soprattutto la storia di uno spreco: “La storia di Marco Boato è simbolicamente la storia di uno spreco. In lui è rappresentato pienamente ciò che ha saputo farsi l’Italia di una generazione, quella giunta a maturità fra gli anni Sessanta e Settanta, che è stata di fatto esclusa dalle leve del potere politico del nostro paese. Uno spreco di risorse intellettuali, di capacità politica”. Completa l’opera la seconda parte del volume, interamente composta da una selezione di scritti di Boato, nei quali si può esplorare l’evoluzione della complessità del pensiero del parlamentare, dai primi interventi riguardanti i movimenti studenteschi universitari fino alla guerra in Ucraina, passando per il necessario impegno ecologista dell’Europa Unita. Un libro che è sì una biografia, ma è anche il racconto di un mondo nel quale affondiamo ancora profondissimamente le radici. In Italia 8 milioni di armi. E gli Usa lo dimostrano: non ci renderanno più sicuri di Roberto Saviano Corriere della Sera, 4 gennaio 2024 La diffusione di armi è la prima causa di insicurezza sociale di un Paese. Il pensiero intuitivo che una maggior facilitazione all’accesso alle armi permetterebbe una maggiore sicurezza perché, rendendo tutti minacciosi, ogni minaccia si estinguerebbe, è un dato falso. Ma come - qualcuno, leggendo, dirà - se un ladro sa che, entrando in un appartamento, vi troverà l’inquilino armato, il timore potrebbe fermarlo. Ebbene, questo pensiero semplice è completamente falso. Il ladro non solo non si fermerà, ma entrerà armato di una semiautomatica e sarà tanto più pronto a sparare. Chiunque affermi che diffondere armi porti a una diminuzione dei reati, non conosce in nessun modo le dinamiche che governano il rapporto tra diffusione di armi e crimine. Più armi in circolazione non portano a una maggiore sicurezza ma solo più sangue. Gli incidenti di Capodanno arrivano nel dibattito di cronaca nazionale, ma incidenti analoghi accadono in ogni momento dell’anno e nella parte maggiore dei casi restano relegati all’invisibilità delle informazioni locali. Non sappiamo con un dato certo quante armi legali circolino in Italia oggi, come denunciato dall’Osservatorio permanente sulle armi di Brescia (centro fondamentale in Italia per comprendere il loro impatto sul territorio), e a leggere i dati sono proprio le istituzioni che non li rendono formalmente accessibili. Non abbiamo quindi una stima di Stato che sia ufficiale sulla circolazione di armi (licenze date per caccia, per difesa personale, per sport). I riferimenti statistici a cui tutti facciamo riferimento sono quelli prodotti da Small Army Survey, un centro di ricerca svizzero considerato tra i più autorevoli al mondo che stima in 1,5 i milioni di armi legalmente detenute in Italia e in 6,6 milioni il numero di quelle illegali in circolazione. Parliamo quindi di oltre 8 milioni di armi presenti nel nostro Paese e la stima è considerata da tutti gli esperti fortemente al di sotto dei parametri reali. Questi numeri suonano neutrali, il possesso di un’arma non presupporrebbe un morto, un incidente, un crimine, o almeno i più la pensano così. Si arriva all’assurdità di considerare un’arma letale anche un’automobile, perché in grado di causare incidenti mortali. Ma una automobile non viene acquistata per sparare, un’arma sì... Sembra assurdo doverlo ribadire. È vero, dunque, quel che scrive Cechov, e cioè che se c’è un fucile appeso al muro prima o poi sparerà. La diffusione di armi favorisce i reati non li previene, la diffusione di armi e gli Stati Uniti ne sono la prova reale e definitiva: nessuna arma dissuade dal commettere un reato, ma la presenza di armi rende ogni situazione potenzialmente più violenta. Negli Usa, gli Stati con più armi da fuoco coincidono con quelli che hanno il maggior numero di omicidi violenti. Due testi utili di riferimento per comprendere la situazione italiana sono “Dritto al cuore” di Luca di Bartolomei e “Il Paese delle armi” di Giorgio Beretta. Entrambi raccontano come il nostro Paese, di fatto, smettendo di occuparsi di armi nel dibattito politico e pubblico, si trovi in una situazione d’emergenza senza essersene nemmeno reso conto. Il trucco che la politica usa in materia di sicurezza è intanto creare insicurezza e poi rispondere all’ansia di insicurezza con la scorciatoia del rendere più facile l’accesso a un’arma. Invece di rispondere con politiche economiche che disarticolino la miseria, che smontino i focolai sociali generatori di violenza, che aumentino sorveglianza e presenza sul territorio, arriva la più semplice delle risposte: armatevi e difendetevi da soli. Armi per tutti non è sicurezza, è solo un modo furbo per delegare al privato cittadino la propria sicurezza e in questo modo non dover rispondere del mancato finanziamento delle polizie, del mancato recupero delle periferie, del mancato contrasto alle dipendenze. L’arma che ha ucciso per errore la signora Concetta Russo durante la notte di Capodanno ad Afragola era una Beretta 84 risultata rubata e comprata sul mercato illegale da suo nipote che l’aveva presa per usarla a Capodanno e probabilmente per difesa personale. Il mercato illegale è aumentato a dismisura generando anche un nuovo tipo di furto censito in decine di indagini, il furto di armi negli appartamenti. Vengono presi di mira appartamenti di cacciatori o di persone con porto d’armi sportivo o per difesa per essere svaligiati proprio delle armi. Pensate il paradosso: armarsi per non subire rapine e riceverle proprio perché si è armati. Il mercato nero ha sempre più richiesta, la domanda è in crescita e anche l’offerta sta, negli ultimi anni, diventando diffusa. Ci sono diverse motivazioni che hanno portato a una proliferazione nel nostro Paese di armi clandestine, la prima è che le mafie hanno dismesso il monopolio della gestione delle armi sul territorio. Per intenderci, negli anni ‘90, trovare una pistola per esempio a Nola, paese in provincia di Napoli, era difficilissimo salvo ottenerla dal clan Alfieri che voleva però sapere la motivazione di quella richiesta, prima di vendere un’arma. Lo stesso accadeva in qualsiasi area governata dalle organizzazioni mafiose. La richiesta di un’arma non poteva essere disgiunta dalla motivazione; non solo, quell’arma poteva essere data o negata. Questo permetteva ai clan di avere la mappa degli armati, motivo per cui per esempio negli anni ‘70 le formazioni terroristiche rosse e nere dovevano ricorrere o alle rapine alle armerie o ai mercati internazionali perché il mercato nero delle armi controllato dalle mafie li avrebbe esposti. Il mercato di armi illegali in Italia ha una sola direzione: Albania-Italia; pensate, mentre si fantastica di alleanze sulla gestione dei migranti con norme assurde e anticostituzionali, il vero centro del dibattito dovrebbe essere il traffico di armi. Non c’è arma clandestina in Italia che non passi per la mediazione dei cartelli albanesi (Romania e Bulgaria gli altri due mercati di provenienza). Lo snodo da fermare è proprio qui e oggi il dibattito deve essere questo: dove porta questa massiccia presenza di armi diffuse sul territorio? È tollerabile che si parli di armi, che si maneggino come se fossero giocattoli? Ogni politica leggera su questo tema e che tende ad armare sta diffondendo insicurezza e sangue. Le armi in mani diverse da quelle di chi ha competenze e compito di gestirle sono letali e chiunque pensi che armandosi si sta mettendo al sicuro sta ragionando su un equivoco. Le parole che sto spendendo qui sono rivolte ad innescare dibattito perché l’Italia trovi una strategia per interrompere la proliferazione di armi legali e illegali sul proprio territorio. Ne va della sicurezza - quella vera - di tutti. Gino Cecchettin pensa a una rivoluzione culturale, ma i populisti pensano a stravolgere la Carta di Oliviero Mazza* Il Dubbio, 4 gennaio 2024 Dietro la scelta, compiuta dal papà di Giulia, di affidarsi a un consulente per la comunicazione sembra esserci solo la volontà di rafforzare il proprio impegno contro la violenza sulle donne. Il punto è che la sua tragedia è diventata, per i fan del populismo penale, pretesto di uno stravolgimento della Costituzione, in cui al centro del processo sarebbe la vittima anziché l’imputato La notizia che l’ing. Gino Cecchettin, padre della povera Giulia, si sia affidato a una nota agenzia di comunicazione londinese per curare i rapporti con la stampa e per sviluppare progetti futuri, come un libro o una fiction, induce a riflettere su quello che sembra profilarsi come un cambio di paradigma del processo mediatico. Una premessa è d’obbligo: nessuno intende formulare giudizi, meno che mai di carattere morale, sull’atteggiamento tenuto dai familiari di Giulia, segnalando, peraltro, come il padre, in particolare, abbia finora incarnato un modello di compostezza, misura e razionalità nell’affrontare lo straziante dolore della perdita della figlia. Nel caso Cecchettin si è registrata una prima fase, legata al fatto di cronaca, caratterizzata dall’abituale atteggiamento dei media istituzionali intenti a fornire una versione dei fatti marcatamente colpevolista, condita dalla descrizione della presunta personalità deviata dell’indagato, e ciò a prescindere dallo stretto (e lodevole) riserbo tenuto tanto dagli inquirenti quanto dal difensore del giovane indiziato. Il caso di cronaca ha però subito lasciato il posto alla rielaborazione in chiave politica, culturale e sociologica, sempre attraverso l’intervento pervasivo dei media, ma anche nel nuovo contesto della incontrollabile giustizia social-mediatica, dove ognuno può affacciarsi alla tribuna del web per pronunciare il suo discorso, in uno Speakers’ Corner virtuale, illimitato e sostanzialmente senza regole. Dall’informazione sull’indagine in corso si è passati al dibattito pubblico sul patriarcato, sui femminicidi (neologismo ormai accolto nei dizionari), sul modello culturale delle società occidentali e sui diritti delle donne. In questa prospettiva potrebbe essere letta anche la scelta dell’ing. Cecchettin, un modo più “evoluto” di intervenire in prima persona nella battaglia politica per prevenire gli omicidi e la violenza nei confronti delle donne. Sarebbe lo scenario più rassicurante, ben lontano dalla pura e semplice spettacolarizzazione di gravi reati alla quale siamo tristemente abituati attraverso il processo parallelo che si celebra nei vari talk show. Sullo sfondo rimangono però almeno due questioni problematiche. La prima è la garanzia del giusto processo in un caso che ha registrato una tale sovraesposizione mediatica, al punto da diventare una questione di carattere politico trattata, sia pure con notevole garbo istituzionale, persino dal Presidente della Repubblica nel suo discorso di fine anno. Il tribunale del popolo ha già da tempo condannato Filippo Turetta, segnando non solo la strada per l’indubitabile affermazione di responsabilità, ma soprattutto per l’aspettativa di una pena esemplare. Come potrà il giudice, chiamato a decidere in nome del popolo italiano, emettere una sentenza di condanna che possa tener conto di eventuali circostanze attenuanti? Sarà in grado di vincere la straordinaria pressione di un caso giudiziario che non solo ha scosso profondamente la coscienza del Paese, ma è addirittura divenuto il paradigma di una lotta politica e di una invocata rivoluzione culturale? La seconda questione riguarda la legislazione emotiva che immancabilmente segue i fatti di cronaca, ma questa volta non si limita all’ennesimo restyling del “codice rosso”, volendo addirittura incidere sulla Costituzione, inserendo il seguente comma nell’art. 111: “La Repubblica tutela le vittime di reato e le persone danneggiate dal reato”. Nelle intenzioni di chi ha proposto tale modifica, si vorrebbe marcare un ribaltamento della logica stessa del giusto processo, dando prioritaria attenzione e tutela alle vittime del reato rispetto all’imputato. Una proposta pericolosamente intuitiva, secondo cui la vittima va tutelata rispetto al carnefice, ma di impatto potenzialmente dirompente rispetto alla logica controintuitiva del processo penale in cui, fino al giudicato di condanna, l’imputato è presunto innocente e la vittima, di conseguenza, è presunta non tale. Al netto di evidenti rigurgiti di populismo penale, la proposta di riforma della Costituzione è ispirata da un gravissimo errore di elementare sintassi processuale e, proprio per l’analfabetismo che la contraddistingue, rischierebbe, se approvata, di far implodere il sistema processuale penale. A meno di non voler accedere a una interpretazione sistematica costituzionalmente ortodossa che, alla luce della presunzione d’innocenza che accompagna l’imputato nel corso dell’intero processo, riservi la tutela accordata alle vittime e ai danneggiati ai soli soggetti che abbiano acquisito tali status per effetto della condanna irrevocabile dell’accusato. Questa sarebbe l’interpretazione più aderente all’idea stessa di un giusto processo in cui il soggetto che si assume abbia subito il reato non può godere, in quanto tale, di una tutela anticipata che presuppone logicamente il pieno accertamento di responsabilità a carico dell’imputato. Nel processo la tutela deve essere accordata ai diritti fondamentali di chi può aver subito il reato ad opera di chi potrebbe averlo commesso, senza attribuzioni anticipate di status. Una tutela accordata, quindi, alla persona, prima ancora che ne sia accertata la qualità di vittima. Ma trattandosi, come detto, di una logica controintuitiva, è facile pronosticare che la paventata riforma costituzionale potrebbe avere ben altro impatto sul già precario equilibrio dei valori del giusto processo. E allora la quesitone politica non sarà più solo la tutela delle donne, ma quella della tutela di ogni individuo di fronte al pregiudizio di una pretesa punitiva dello Stato orientata a favore della vittima. *Ordinario di Diritto processuale penale all’Università degli studi Milano-Bicocca L’educazione all’affettività tocca alla scuola: non si può delegare tutto alle famiglie di Stefania Ascari* Il Fatto Quotidiano, 4 gennaio 2024 Durante l’esame della legge di bilancio alla Camera dei deputati ho ribadito per l’ennesima volta un concetto fondamentale: la violenza sulle donne è innanzitutto un fenomeno criminale, strutturale e culturale che trae nutrimento dal patriarcato sociale, dalla misoginia, dal sessismo, dalle disuguaglianze di genere, dall’omertà, da discriminazioni e stereotipi. La scuola allora deve essere il luogo dove, attraverso l’insegnamento dell’educazione affettiva e sessuale, siano poste le basi per sradicare le radici della violenza. Non si può delegare tutto alle famiglie perché nel nostro Paese l’affettività e la sessualità sono considerate ancora un tabù e non tutte le famiglie hanno gli strumenti per trattare il tema con i propri figli, né possiamo pretendere da loro che lo facciano in modo professionale. La scuola, invece, può responsabilizzare il singolo individuo creando uno spazio di ascolto, dialogo e confronto, con il supporto di figure competenti e imparziali a cui è possibile porre domande e ottenere delle risposte. Questo aspetto è fondamentale perché se non si trovano risposte all’interno della famiglia o nella scuola si cercano altrove, spesso in rete o nella pornografia. Il tema naturalmente non è giudicare la pornografia, ma chiedersi che strumenti essa possa dare alla persona che sta guardando, soprattutto se giovanissima, se questa è in grado di capire la differenza tra il porno e il sesso, tra la finzione e la realtà. Nel dibattito pubblico si finge di ignorare che la pornografia sia diventata l’unico strumento preposto all’educazione e alla formazione affettiva e sessuale dei più giovani, all’interno di una società che ha smesso da tempo di educare. Da qui l’importanza che la scuola torni ad essere una colonna portante, anche con riferimento alla previsione sistemica e continuativa di percorsi di educazione affettiva e sessuale nel rispetto delle diverse fasce di età. Io credo sia importante partire con l’insegnamento di una geografia del corpo, in modo da conoscere il proprio corpo, un corpo che cresce, cambia e si trasforma. Poi parlare di prevenzione, tenuto conto del fatto che dalle statistiche risulta che le giovanissime generazioni usino sempre meno le precauzioni. E questa mancanza di informazioni sulla salute sessuale, sulla contraccezione e sulle malattie sessualmente trasmissibili è un problema. Così come lo possono essere le gravidanze indesiderate. Bisognerebbe poi parlare di consenso, che un no significa no, del diritto di non essere toccata, né abbracciata contro la propria volontà. Far capire che l’amore non c’entra nulla con il possesso, che la diversità sessuale va rispettata, così anche la parità di genere. Si deve fornire un alfabeto gentile delle emozioni per aiutare i giovanissimi a riconoscerle e contenere quelle più negative, quali la rabbia e la gelosia. Fare anche educazione digitale e spiegare, per esempio, che alcune cose che avvengono in rete sono reato, basti pensare al revenge porn, la diffusione di video o immagini a contenuto sessualmente esplicito senza consenso. I destinatari di questo confronto e dialogo sulle relazioni, sull’affettività e sulla sessualità non sono solo i ragazzi e le ragazze; i giovanissimi crescono assieme a noi, li educhiamo, siamo i loro modelli di riferimento che ci piaccia o meno. Per questo è necessario che gli adulti vengano coinvolti nel percorso educativo, dal momento che oggi si assiste a una sorta di scaricabarile tra scuola e famiglia senza capire che la scuola, la famiglia e la Società tutta, comprese le istituzioni, devono collaborare. Non basta fare un’ora al mese a scuola se poi si rientra a casa e in tutti gli altri spazi sociali i comportamenti, i valori sono totalmente contrari a ciò che è stato appreso. Io voglio che mia figlia e le figlie di tutti crescano in un Paese in cui possano essere libere dalla paura, libere di esprimersi, libere di fiorire e di amare. Perciò sarebbe stato fondamentale istituire un fondo destinato alle scuole di ogni ordine e grado per il finanziamento di percorsi formativi di educazione affettiva e sessuale. Per Vanessa Ballan, Giulia Cecchettin, per tutte le donne vittime di femminicidio non bastano minuti di silenzio. Di silenzio ne abbiamo fatto abbastanza. Abbiamo fatto secoli di silenzio. Adesso è il momento di far rumore, di raccogliere le lacrime e di pretendere una rivoluzione culturale che inizi dalla scuola. Anche oggi la nostra proposta sull’educazione affettiva e sessuale è stata bocciata dalla maggioranza parlamentare, ma verrà il momento in cui riusciremo a portare il nostro Paese nell’Europa dei diritti e a costruire un futuro migliore. *Avvocata e deputata Migranti. L’intesa Italia-Albania è una mostruosità incostituzionale di Rosario Russo* Il Dubbio, 4 gennaio 2024 L’art. 10, 3° è un fiore all’occhiello della nostra Costituzione. Garantendo secondo legge l’asilo nel nostro stato, esso assicura anche agli stranieri l’effettivo esercizio delle libertà democratiche previste per i cittadini italiani, qualora esse non siano riconosciute e tutelate dallo stato di provenienza. In sede costituente fu previsto espressamente che tale diritto dello straniero non è subordinato alla condizione della reciprocità: spetta allo straniero, ancorché egli sia cittadino di uno stato che non preveda analoga tutela. Così la Carta contribuisce concretamente all’universalizzazione (della tutela) delle libertà fondamentali. Di così elementari rilievi non può non tenersi conto nella valutazione giuridica degli accordi sull’immigrazione stipulati tra Albania e Italia, in attesa che si pronunci la Corte Costituzionale albanese. Sennonché ipotizzando che i propositi del governo italiano vadano in porto, si presentano insormontabili difficoltà. Si immagini intanto che un gruppo di naufraghi provenienti dall’Etiopia sia salvato nel Canale di Sicilia dalla nostra Marina militare o da una Ong. Intanto, in forza della legge del mare, essi hanno il diritto di sbarcare nel Pos (Place Of Safety, luogo di salvezza) più vicino (Lampedusa, Agrigento, Pozzallo etc.), che non è certamene sulle lontane coste dell’Albania. In secondo luogo, e più radicalmente, gli stessi naufraghi hanno altresì fondato diritto di chiedere asilo alle autorità italiane, perché provengono da un paese, l’Etiopia, che non garantisce ai propri cittadini il godimento delle libertà democratiche. Sennonché, tralasciando il Regolamento di Dublino III, “ per la contradizion che nol consente” l’attuazione del diritto d’asilo ex art. 10 Cost. è ovviamente limitata al territorio italiano e non è esportabile o decentrabile nel territorio albanese, su cui l’Italia non ha - e non può avere - alcun effettivo controllo. In questo senso il diritto di asilo proclamato dalla nostra Costituzione è territorialmente definito soltanto all’interno dei confini dello stato italiano. Gli accordi tra l’Italia e l’Albania valgono - nei propositi dell’attuale governo - a scoraggiare gli emigranti che, approdando sulle nostre coste, si proponessero di chiedere asilo in Italia, ma proprio per questo scontano necessariamente la violazione - e si direbbe la destrutturazione - dell’art. 10 della nostra Costituzione, quale che sarà l’attesa decisione della Corte Costituzionale di Tirana. Per rendersene conto è sufficiente immaginare che, durante il ventennio fascista, tutti gli antifascisti italiani rifugiati nella civilissima e libertaria Svizzera fossero stati dirottati dalle autorità elvetiche in un altro stato, per esempio nella Spagna franchista sostenuta dalla Germania nazista e da Mussolini. Ci sarà pure una qualche ragione per cui i naufraghi chiedono asilo allo stato italiano anziché a quello albanese (come pure previsto dall’art. 40 della sua Costituzione)? Quale che sia la decisione della Corte Costituzionale albanese, l’asilo ex art. 10 Cost. o si accorda, e si attua interamente, in Italia o, tradendo la volontà del richiedente, mistifica la nostra Carta! *Già Sostituto Procuratore Generale della Corte di Cassazione Medio Oriente. Settimo prigioniero palestinese deceduto in cella di Stefano Mauro Il Manifesto, 4 gennaio 2024 Da Human Rights Watch ad Haaretz, crescono le denunce di abusi dentro le prigioni israeliane: “Come Guantánamo”. “Abdel Rahman Bassem Al-Bahsh, 23 anni di Nablus, è il primo martire del 2024 e il settimo prigioniero assassinato nelle carceri israeliane dal 7 ottobre”, scrivono in una dichiarazione congiunta la Commissione per gli Affari dei Prigionieri e il Club dei Prigionieri Palestinesi (Pps). “Si conosce la sorte di questi sette martiri - ha detto Qaddoura Fares, portavoce della Commissione - ma sono centinaia le testimonianze di violenze e torture che arrivano da tutte le prigioni, con il dubbio di altre vittime di cui non si sa più nulla”. Secondo le due organizzazioni palestinesi, l’uccisione di Al-Bahsh è avvenuta “contemporaneamente alla morte di un numero imprecisato di detenuti di Gaza nel campo di Sde Teman”, denominato “la Guantanamo israeliana” - che detiene oltre 3mila civili scomparsi nei rastrellamenti a Gaza - per la brutalità “delle violenze e delle esecuzioni sommarie” descritte dall’ong Euro-Med Human Rights Monitor. Anche Human Rights Watch (Hrw) ieri ha denunciato la “detenzione illegittima di migliaia di lavoratori di Gaza, senza alcuna accusa specifica”, sottoposti “a maltrattamenti umilianti, pestaggi e torture”. Aggressioni con i cani, cibo lanciato a terra e calpestato dalle guardie, pestaggi di detenuti nudi e legati. Michelle Randhawa, responsabile di Hrw, ha commentato: la “ricerca dei combattenti di Hamas non giustifica gli abusi sui lavoratori a cui era stato concesso il permesso di lavorare in Israele”, precisando di non aver ricevuto “risposta dalle autorità israeliane circa la loro sorte”. Secondo Hrw sembra che Israele non abbia “più linee rosse” nei maltrattamenti ai prigionieri palestinesi. E le testimonianze di quelli rilasciati durante la tregua ne sono una conferma. Riguardano tutte le carceri: Megiddo, Gilboa, Ofer, Beersheba e Damon in particolare. Conferma arriva anche dal quotidiano israeliano Haaretz che riporta di “aggressioni, umiliazioni e violenze continue nei confronti di tutti i prigionieri: uomini, donne e minori”, con denunce ignorate dai funzionari del servizio carcerario israeliano. Ruqayah Amra, una delle prigioniere palestinesi rilasciate nello scambio del mese scorso, ha detto che “le donne vengono picchiate o toccate nelle parti intime nei bagni della prigione e costantemente minacciate di violenza sessuale dalle guardie carcerarie”. Sulle denunce delle detenute - oltre 200 - stava lavorando l’attivista e deputata del Fronte Popolare della Liberazione della Palestina (sinistra palestinese), arrestata il 26 dicembre, per la quarta volta, dalle autorità israeliane perché “appartenente a un’organizzazione terrorista” e “propaganda sovversiva”. Mahmoud Katnani, altro prigioniero liberato, ha confermato le “quotidiane incursioni dei reparti antisommossa nelle sezioni, con il lancio di granate nelle celle e pestaggi” e l’utilizzo di numerose misure punitive: celle sovraffollate con oltre 25 detenuti, mancanza di acqua, elettricità e cibo o la negazione di cure per i detenuti malati. Secondo l’ong israeliana HaMoked, l’uso sistematico della violenza nelle carceri segue le “direttive” del ministro per la sicurezza nazionale Ben Gvir, che ha dato precise indicazioni per “vendicarsi contro i prigionieri palestinesi”, fino a dire pubblicamente che “per ogni giorno trascorso senza il rilascio di un prigioniero israeliano, un detenuto palestinese dovrebbe essere giustiziato”. Dal 7 ottobre il numero dei prigionieri palestinesi è salito a oltre 7mila, con 2mila in detenzione amministrativa, senza accusa né processo. La morte di Al-Bahsh porta a 244 il numero dei prigionieri uccisi nelle carceri israeliane dal 1967. Iran. Il 2023 della rivolta delle donne. Almeno 18 sono state giustiziate da inizio anno di Micol Maccario Il Domani, 4 gennaio 2024 Più di un anno dopo la morte di Mahsa Amini, il regime cerca di reprimere il dissenso. L’attivista iraniana Rayhane Tabrizi: “Le proteste continuano, anche se si sono trasformate”. “Nessuno può prevedere come inizia una rivoluzione. Né può sapere quando un’ingiustizia farà in modo che la furia di un popolo superi la sua paura”. Così scriveva a fine settembre 2022 la giornalista americana-iraniana Roya Hakakian sull’Atlantic. Erano i giorni dell’inizio delle proteste dopo l’uccisione di Mahsa Jîna Amini, la ventiduenne curda morta il 16 settembre all’ospedale Kasra di Teheran. L’episodio era stato definito dalla guida suprema dell’Iran, Al? Kh?mene?, “un terribile incidente, un evento doloroso”. In realtà Mahsa Amini era stata caricata su una camionetta e portata in un centro di riabilitazione, dove le chadorì (termine che in questo caso indica le filogovernative con lo chador nero integrale) insegnano alle bad-hejabi (le mal velate) come indossare il velo. Dopo essere stata picchiata è entrata in coma ed è morta. Nel giro di qualche giorno ottanta città e quasi tutte le province iraniane sono state coinvolte nelle manifestazioni, che si sono allargate ovunque: le strade e le piazze di tutto il mondo si sono riempite al grido di “woman, life, freedom”. I motivi delle manifestazioni - Subito dopo il 16 settembre le proteste hanno chiesto giustizia per la morte della ventiduenne curda. Con il tempo hanno assunto sempre più un carattere intersezionale. Non rivendicando solo maggiori libertà personali e diritti civili, ma anche economici e sociali per tutti. I manifestanti hanno dato voce a un dissenso più ampio rivolto contro Kh?mene? e, più in generale, contro la Repubblica islamica. Come scrive la giornalista Farian Sabahi in Noi donne di Teheran (2022), “contestano la mala gestione della cosa pubblica ed esprimono preoccupazione per la disoccupazione e l’inflazione. In prima linea ci sono i giovani, anche adolescenti: non vedono prospettive, sanno che i loro sogni verranno spenti da un regime autoritario”. Cosa è successo quest’anno - “Le proteste in Iran continuano ancora oggi. Però la forma delle manifestazioni di massa nelle strade si è trasformata - dice l’attivista iraniana Rayhane Tabrizi - diventando disobbedienza sociale attuata principalmente dalle donne. Continuano a distribuire volantini, scrivere sui muri slogan, urlare dalle finestre la sera, svuotare i conti correnti per creare una debolezza economica nella struttura del regime. Il popolo iraniano non si è fermato, adesso agisce in profondità, anche creando contatti con politici e giornalisti”. Le donne cercano, nonostante tutti i rischi, di sfidare il regime, anche rimanendo in pubblico senza il velo e indossando la gonna. “Questa disobbedienza è un atto fortemente politico. Il regime in risposta ha introdotto multe pesanti, frustate e incarcerazioni da cinque a dieci anni”. Nel 2023 è successo ciò che era già accaduto nel 2022. Questa volta il nome è quello della sedicenne Armita Geravand. Dopo essere stata ferita da un’addetta al controllo delle leggi sul velo in un vagone della metropolitana di Teheran, aveva perso conoscenza ed era entrata in coma. È stata sepolta nella capitale il 29 ottobre sotto la sorveglianza delle autorità. Secondo quanto riporta Radio free Europe, il giorno del funerale circa quindici persone sono state picchiate e arrestate, tra queste c’era anche Nasrin Sotoudeh, avvocata e attivista per i diritti umani, vincitrice del premio Sacharov nel 2012. Armita è solo uno dei tanti nomi di giovani, uomini e donne, uccisi perché non hanno rispettato le regole della morale e le imposizioni del regime. Un anno dopo l’inizio delle proteste il bilancio è di 23.497 persone arrestate, 639 uccise, di cui 79 minori (dati della Foundation for defense of democracies aggiornati al 17 dicembre). Inoltre, si contano sette vittime giustiziate in relazione alle proteste secondo la commissione d’inchiesta internazionale indipendente nominata dalle Nazioni Unite. La pena di morte è utilizzata come strumento di repressione e paura, alcune delle vittime sono state uccise come punizione anche per reati minori, come il danneggiamento di beni pubblici. A questi numeri si aggiungono maltrattamenti, torture, stupri delle detenute e intimidazioni nei confronti delle famiglie che chiedono verità e giustizia. La portata delle violenze sessuali è difficile da stimare perché molte vittime non si rivolgono alle autorità per denunciare. Nonostante ciò, Amnesty International ha documentato almeno 45 casi in più della metà delle province iraniane. Nei mesi scorsi, inoltre, centinaia di scuole in tutto il paese hanno riportato più di un migliaio di casi di avvelenamento probabilmente da gas tossico diffusi soprattutto tra le ragazze, causando il ricovero di alcune di loro in ospedale con sintomi respiratori e neurologici. L’obiettivo al momento rimane ignoto, ma l’ipotesi è quella di intimidazione nei confronti delle studentesse, protagoniste delle proteste contro il regime. Nei mesi anche l’attacco ai diritti umani e civili di donne e uomini è continuato. Secondo Iran human rights, diciotto donne sono state giustiziate nel 2023. L’ultima è stata Samira Sabzian, il 20 dicembre, una donna costretta a sposarsi all’età di 15 anni e vittima di violenze domestiche accusata di aver avvelenato il marito. Tra il 2010 e il 2021 sono state condannate a morte almeno 164 donne, nel 66 per cento dei casi la motivazione era quella di aver ucciso il marito o il partner. Un dato che contribuisce a rendere la Repubblica iraniana il paese con il più alto numero di esecuzioni pro capite a livello mondiale. I riconoscimenti - Che la situazione in Iran sia stata centrale a livello globale quest’anno l’hanno dimostrato due tra i più importanti riconoscimenti mondiali: il premio Nobel per la pace e il premio Sacharov per la libertà di pensiero. Il 131esimo Nobel per la pace è stato conferito all’attivista iraniana Narges Mohammadi “per la sua lotta contro l’oppressione delle donne in Iran e la sua battaglia per promuovere i diritti umani e la libertà per tutti”. Mohammadi è stata arrestata dodici volte, la prima nel 1998. Il premio è stato ritirato dai suoi due figli che vivono in esilio in Francia perché l’attivista è attualmente detenuta nel carcere di Evin. Il premio Sacharov, invece, è stato assegnato a Mahsa Jîna Amini e al movimento Donna, vita, libertà. Alla cerimonia però non hanno potuto partecipare i membri della famiglia Amini perché l’8 dicembre sono stati fermati all’aeroporto di Teheran dalle autorità iraniane e i loro passaporti sono stati confiscati. Con il passare dei mesi la cronaca relativa a ciò che succede in Iran è passata sempre più in secondo piano, nonostante nel paese le proteste e le violazioni dei diritti umani non siano finite. “Purtroppo, l’Iran sta vivendo quello che succede sempre quando ci sono delle guerre - dice Tabrizi - tutto rientra all’interno di una fase quotidiana, ci si abitua e se ne parla sempre meno. Era successo già con l’Afghanistan. Ormai sembra normale che una donna afghana rimanga chiusa in casa. Noi cerchiamo in tutti i modi di tenere l’attenzione elevata, non vogliamo essere ignorati e dimenticati”.