Stefano Dal Corso, una storia di vergogna e di coscienza civile e democratica di Germano Monti MicroMega, 3 gennaio 2024 La morte per “suicidio” di Stefano Dal Corso in carcere a Oristano, l’ottobre scorso, non ha mai convinto sua sorella né l’avvocata. Dopo sette istanze di esame autoptico respinte, a seguito di una grande mobilitazione della società civile nel quartiere del Tufello e attraverso i media, il tribunale di Oristano ha finalmente disposto l’autopsia. Un passo avanti verso la verità e la giustizia per un detenuto, parte di quella popolazione sistematicamente ritenuta di serie B. Agosto 2022. Stefano Dal Corso non è quel che si dice un cittadino modello. Ha commesso qualche reato estorsivo e sta scontando la sua pena agli arresti domiciliari in casa della sorella Marisa, al Tufello, a pochi metri dal palazzo dove campeggia il gigantesco murales con l’immagine di un celebre abitante del quartiere, Gigi Proietti. Quel giorno Stefano è solo in casa con i due cani della sorella, che hanno bisogno di uscire. Non ci pensa troppo, prende il guinzaglio e li porta a fare una passeggiatina sotto casa. Sfortuna vuole che venga fermato da una pattuglia della polizia e, poiché ha violato gli arresti domiciliari, venga portato al carcere di Rebibbia. Poche settimane dopo, i primi di ottobre, Stefano deve affrontare un processo in Sardegna, ad Oristano. Avrebbe la possibilità di collegarsi in videoconferenza, ma sceglie di essere presente di persona perché questo gli consente di vedere la figlia, che vive in Sardegna con la compagna da cui è separato. Il processo si mette bene, Stefano può vedere la sua bambina e riceve anche una seria proposta di lavoro. È deciso a mettere la testa a posto, a ricostruirsi una vita, e lo fa sapere a Marisa. Alcuni contrattempi ritardano il suo ritorno a Rebibbia, dove deve scontare gli ultimi due mesi di reclusione. Secondo i rapporti ufficiali, il giorno prima della partenza per Roma, il 12 ottobre 2022, Stefano viene trovato impiccato nella sua cella. Per i responsabili del carcere di Oristano e per la magistratura locale, non c’è ombra di dubbio: Stefano si è suicidato. Ma Marisa non ci crede. Perché un uomo che deve scontare ancora solo poche settimane di reclusione, felice perché ha potuto riabbracciare la figlia che adora e che ha la concreta possibilità di ricostruire la propria esistenza, dovrebbe togliersi la vita? Sono tante le cose che non convincono Marisa e l’avvocata Armida Decina, che chiedono la documentazione relativa al “suicidio” di Stefano. Arriva ben poco: una relazione scarna e due immagini in fotocopia del corpo di Stefano. L’avvocata Decina insiste e, finalmente, giunge una documentazione più corposa, una relazione più dettagliata e accompagnata da alcune foto a colori. Una documentazione che, anziché chiarire i dubbi, li accresce. Nei documenti si legge che Stefano si sarebbe ucciso impiccandosi alle sbarre della finestra della sua cella con un lenzuolo fatto a strisce con un taglierino. Le foto, però, mostrano un letto perfettamente rifatto, con le lenzuola al proprio posto, e del taglierino non c’è traccia. La finestra della cella, poi, è esattamente sopra il letto, ad una distanza del tutto insufficiente per “appendersi”. Non basta: le poche foto inviate all’avvocata Decina mostrano Stefano completamente vestito, non ci sono immagini della scena del “suicidio” e non è possibile capire se sul corpo ci siano segni particolari. Inoltre, Marisa non riconosce quegli indumenti, anzi, è convinta che le scarpe indossate dal cadavere non siano quelle che Stefano portava sempre. La relazione, poi, appare confusa e contraddittoria sugli orari del ritrovamento del corpo e quelli della perizia medica effettuata. Quanto alle telecamere di sorveglianza, quel giorno non erano in funzione, a differenza di quello precedente e quello successivo al fatto, quando hanno funzionato regolarmente. C’è un solo modo per capire cosa sia realmente successo: effettuare un esame autoptico del corpo di Stefano ed è questa la richiesta avanzata dalla sorella di Stefano e dall’avvocata Decina. La Procura di Oristano rigetta la richiesta, affermando che non sussistano i motivi. Per Marisa inizia un calvario che non può non ricordare quello vissuto da un’altra sorella di un uomo morto mentre si trovava in “custodia” dello Stato: Ilaria Cucchi, sorella di Stefano Cucchi. 2023. La storia di Stefano Dal Corso inizia ad interessare l’opinione pubblica, anche a seguito di un episodio inquietante: l’8 marzo due sedicenti corrieri di Amazon consegnano alla sorella di Dal Corso un pacco, indirizzato al fratello, contenente un libro. Si tratta di un testo di Maria Simma, mistica austriaca che sosteneva di parlare con le anime dei defunti in Purgatorio. L’elemento inquietante è che nel libro consegnato a Marisa Dal Corso sono sottolineate due parole: “confessione” e “morte”. Ad Amazon, la consegna non risulta e le successive perizie rivelano che i timbri e il codice a barre sul pacco sono contraffatti. Il 29 marzo la senatrice Ilaria Cucchi promuove una conferenza stampa, cui prende parte anche Luca Blasi, in rappresentanza del Municipio III di Roma, quello dove si trova il quartiere di Dal Corso. Il 12 aprile centinaia di cittadine e cittadini del Tufello manifestano per le strade del quartiere per sostenere le richieste della famiglia di Stefano Dal Corso. La manifestazione vede gli interventi della sorella di Stefano e dell’avvocata Decina, oltre a quello dell’assessore Luca Blasi, che continua a seguire la vicenda in prima persona. In piazza è presente anche il Presidente del III Municipio, Paolo Marchionne, insieme ad altri componenti della giunta municipale. Per altri mesi, mentre il corpo di Stefano si trova in una cella frigorifera, si reiterano le richieste di effettuare l’autopsia, regolarmente respinte dalla magistratura di Oristano. All’iniziativa di Ilaria Cucchi si aggiungono quelle di Roberto Giachetti, parlamentare di Italia Viva, di Roberta Bernardini, dell’associazione “Nessuno tocchi Caino”, dei deputati Pd della commissione Giustizia, Debora Serracchiani, Federico Gianassi, Michela Di Biase, Marco Lacarra e Alessandro Zan. Nel frattempo, le istanze per l’effettuazione dell’autopsia respinte dai magistrati di Oristano sono arrivate a sette, nonostante i pareri espressi da alcuni autorevoli medici legali interpellati dalla famiglia di Stefano. Nella seconda metà di ottobre del 2023, però, ad un anno dalla morte di Stefano, la Procura di Oristano decide di riaprire le indagini, ipotizzando contro ignoti il reato di omicidio colposo e la vera svolta potrebbe essere quella avvenuta nella seconda metà di dicembre, subito dopo il settimo rigetto della richiesta di autopsia da parte della Procura di Oristano, quando l’avvocata Decina riceve una mail temporanea, di quelle che si autodistruggono dopo essere state lette, nella quale un uomo che dichiara di essere un agente della polizia penitenziaria le dice di voler parlare con la sorella di Stefano. Il colloquio avviene telefonicamente e viene registrato, rivelando una storia che - se confermata - getterebbe una luce ancora più livida su quanto accaduto nel carcere di Oristano. Una parte della telefonata viene trasmessa ai media, mentre l’audio integrale viene messo a disposizione della Procura di Oristano. Nella parte resa pubblica, la sorella di Stefano ascolta in lacrime un uomo che le racconta come sia stato ucciso il fratello: a colpi di manganello e poi con una sprangata per rompere l’osso del collo e simulare così una morte per impiccagione. A commettere l’omicidio e ad inscenare il suicidio sarebbe stata una “squadretta” di agenti di custodia, con l’obiettivo di silenziare Stefano, che aveva avuto la sfortuna di assistere casualmente ad un rapporto sessuale fra due agenti nell’infermeria del carcere, dove si era recato per ritirare un farmaco. L’uomo avrebbe detto anche di essere in possesso dei vestiti e delle scarpe di Stefano sporchi di sangue, poiché il corpo sarebbe stato rivestito con abiti e scarpe presi dalle donazioni della Caritas per i detenuti. L’uomo sostiene di avere un filmato del pestaggio, ripreso da una microcamera che aveva addosso quel giorno, spiegando di averlo fatto per “pararsi il c…”. Tutto da verificare, ma intanto, finalmente, il 28 dicembre viene comunicato che la Procura di Oristano ha accolto l’ottava istanza per l’effettuazione dell’autopsia sul corpo di Stefano, che giace ormai da quattordici mesi in una cella frigorifera. Non solo: l’ipotesi di reato, sempre contro ignoti, passa da quella per omicidio colposo ad omicidio volontario. Una storia di vergogna, dunque, perché tale è aver negato per ben sette volte il solo esame che possa aiutare a dissipare i dubbi sulla morte di un uomo che si trovava nella custodia dello Stato. La garante per i diritti dei detenuti di Roma, Valentina Calderone, nella conferenza stampa nel corso della quale è stata annunciata la disposizione dell’autopsia, ha osservato con amarezza come da parte di molte Procure esista un’attitudine pregiudizialmente ostile nei confronti delle istanze dei detenuti e delle loro famiglie, specialmente in presenza di vicende scabrose come quella che ha coinvolto Stefano Dal Corso. L’impressione - confermata in più occasioni - è che la trasparenza sia considerata un intralcio e i diritti dei prigionieri pressoché inesistenti e comunque inferiori rispetto a quelli di cui gode ogni cittadino della Repubblica. Persino in un caso come quello di Stefano, dove evidenti anomalie apparivano sin dal primo momento, anziché istruire un’indagine, una Procura della Repubblica si è ostinata per mesi a negare ogni possibilità di fare chiarezza, e non è possibile mettere da parte le domande al riguardo. Perché non sono state verificate immediatamente le testimonianze degli altri reclusi nel Carcere di Oristano? Perché non si è fatta chiarezza sulle discrepanze nei rapporti in merito agli orari? Perché non è stato preso in considerazione il fatto che i vestiti e le scarpe indossati da Stefano non erano i suoi, quando le scarpe erano persino di un numero diverso dal suo? Perché non sono state poste domande sull’insufficienza della documentazione fotografica? Che fine ha fatto il taglierino con il quale Stefano avrebbe fatto a strisce il lenzuolo usato per impiccarsi? E dove sarebbe stato preso quel lenzuolo, visto che quelli della sua branda erano intatti al loro posto e nessun detenuto, in nessun carcere del mondo e per ovvi motivi di sicurezza, ha a sua disposizione lenzuola di ricambio? Infine, perché si è voluto negare per sette volte l’effettuazione dell’esame autoptico? L’auspicio è che adesso l’inchiesta, rinvigorita dalla sconvolgente testimonianza ricevuta dalla sorella di Stefano, imbocchi con decisione la strada della ricerca della verità, perché questa è anche una storia di riscatto democratico. Se si arriverà a fare luce sulle circostanze della morte di Stefano Dal Corso, lo si dovrà in primo luogo alla determinazione di Marisa e dell’avvocata Decina, ma anche alla mobilitazione di una parte della politica e della società. Le iniziative parlamentari, la risonanza sulla stampa, la presenza attiva della giunta del Municipio, la solidarietà popolare del quartiere, con in prima fila gli attivisti del centro sociale Astra, hanno fatto sì che sulla vicenda non calasse il silenzio. La vitalità mostrata da tanta parte della società civile fa pensare che in questo Paese siano ancora presenti gli anticorpi democratici necessari per contrastare le derive autoritarie e securitarie. In un momento così buio come quello che stiamo vivendo, prenderne coscienza è confortante. Amore e 41-bis. Una lucida follia? di Giovanna Darko* vocididentrojournal.blogspot.com, 3 gennaio 2024 Amo un uomo che, dopo tre decenni al 41-bis, avrebbe il diritto di trovare una strada per tornare alla vita, per spendere nel mondo, tra gli altri, le conoscenze che tanti anni di sepoltura gli hanno dato. “Amo un fantasma”. Mi è stato suggerito di partire da questo titolo per scrivere della mia esperienza. Lo guardo - il titolo- e le labbra mi si increspano in un sorriso. Avete mai sentito parlare di un fantasma che deve stare attento al colesterolo? No? Neppure io. E quindi penso all’amore mio che, quando io scrivo “male”, mi risponde subito “non piagnucolare”. Perché “amo un fantasma” in realtà mi riporta alla casa di mia madre, così vuota dopo che mio padre morì, e alle lettere di lei che trovai nascoste perché non si potevano imbucare, mentre le mie vanno di là del mare e -se arrivano nel cimitero dei vivi- è in mano ad un uomo che arrivano, sebbene aperte, già lette, passate per molte mani... Fantasma qui è la responsabilità di chi dovrebbe prevedere il diritto all’affettività, al coltivare rapporti sani e invece nega colloqui, si impone come mastodontico apparato con tempi da lemure e il cervello di una medusa. Parlando di fantasmi, mi capita di parlare con quelli dei due grandi giudici che pensarono il “carcere duro”, il 41-bis. Un dialogo in cui mi capita di dire: “ma vi rendete conto di cosa hanno fatto del vostro lavoro? Un sistema per annullare l’uomo! Dovreste andare a parlare di notte all’orecchio dei vostri colleghi e dirglielo di avere il vostro coraggio di stravolgere tutto, guardare in faccia ciò che accade!”. Saranno deliri di chi apparecchia per uno e dorme da solo in attesa che qualcosa cambi? Ogni missiva comincia con la dicitura “dal regime persecutorio - sistema di tortura” - non ci stanno fantasmi la, mostri nemmeno, solo uomini a cui è stato rubato persino il pensiero di un futuro e sono stati sepolti nel cemento per essere eternamente pericolosi a priori, secondo alcuni perché sono mafiosi e “un mafioso smette di esserlo quando muore perché può uccidere solo con un gesto degli occhi”. A costoro mi verrebbe voglia di dire: “e ne sei sicuro? Ci sei andato a parlare? Hai visto come vivono? Hai visto come perde il senno e la salute chi senza più nulla sta nel nulla ad aspettare che sopraggiunga qualcosa, fosse anche la morte?”. L’amore ti arriva - hanno detto - come un fulmine che fa stramazzare al suolo. È vero e non è vero, perché il mio ha avuto bisogno di tempo per capire che con “un fantasma” ci si può stare anche se non ci stai. A vent’anni forse non ci sarei riuscita. Troppo forte la spinta di fare cose usuali per un uomo e una donna, come mettere su famiglia o semplicemente appropriarsi della carne, del respiro dell’altro per sentire di averlo accanto. Ma - scusate il francesismo - ho mangiato abbastanza merda e ho preso abbastanza botte per capire chi vale davvero e decidere di tenermelo anche se per ora sono i nostri inchiostri a rincorrersi, farsi dialogo, offrirsi carezze, baci e quel sostegno, quel rispetto, che altrove non ho trovato. Pensare che ci siamo evitati per anni perché fa paura pensare di amare qualcuno che non puoi vivere, non puoi stringere, con cui non puoi fare nulla se qualcun altro, molti altri, non ti autorizzano. Altro sorriso: penso all’amica che quindici anni fa mi diceva “sembri una medium. Parli con gente che non c’è”. Intanto lei è morta davvero e noi siamo ancora qua a dialogare oltre la distanza e le condanne, i muri e i pregiudizi, l’assenza di speranza imposta da una situazione che più che giustizia mette in atto vendetta e piace tanto alla politica e a quel popolino che si ciba del sangue del capro espiatorio di turno in un paese che rifiuta di guardare al suo passato e metabolizzarlo, si rifiuta di farlo proprio, e deve dare a qualcuno la colpa facendone un cattivo per sempre. E niente, forse ci vuole un’inclinazione al viaggio, all’avventura, per amare “un fantasma”. Di sicuro ci vuole la tenerezza e il piede di porco, la spranga e uno zaino capiente e il coraggio di mettersi a nudo togliendo ben più che i vestiti. Se in molti riescono a non pensarci riempiendo le giornate di impegni e cose da fare, per noi due le grandi domande sono sempre presenti: “chi siamo? Dove stiamo andando? A cosa serve?”. No, non amo un fantasma. Amo un uomo che, dopo tre decenni al 41-bis, avrebbe il diritto di trovare una strada per tornare alla vita, per spendere nel mondo, tra gli altri, le conoscenze che tanti anni di sepoltura gli hanno dato. E sono in molti coloro che potrebbero diventare “fari che permettono ad altri di non finire sugli stessi scogli su cui loro sono andati a sbattere”. Al mio fantasma che si definisce diversamente vivo, viene imposto però di mettere un altro al proprio posto, di attuare una “collaborazione” come se dire chi fosse con te quando hai fatto qualcosa di sbagliato ti sollevasse dalle tue responsabilità facendole ricadere sull’altro e attuasse quel pentimento che sappiamo tutti essere fatto interiore. E se lui avesse ragione quando afferma di non essere mai stato quello di certe narrazioni stampate nero su bianco e gridate dai fogliacci che delle vittime e dei carnefici fanno solo svendita? Ci siamo trovati, io e lui, come due bimbi che dopo un cenno di saluto, cominciano a giocare assieme e giocando a parlare e parlando a capire e capendo ad amare. Ci incontriamo nei sogni e la nostra casa è di carta ma siamo più vicini di tanti che dividono il letto ed il resto, ciò non impedisce di ospitare chi arriva a bussare in cerca di riparo da tempeste o solitudine, che viva il nostro dramma o altri o semplicemente voleva un caffè. L’hanno capito gli amici che con infinita delicatezza, nell’assenza, vedono una coppia come tante, due che si vogliono proprio bene. Io gli presto i miei occhi per vedere fuori e ricordarsi che è al mondo, lui è il mio porto sicuro e si assicura che al mondo mi resti voglia di starci. Abbiamo imparato a volare più in alto delle aquile e degli aerei e a scendere a profondità impensabili e ancora cerchiamo un sentiero per uscire dal labirinto che altri uomini hanno creato e assomiglia tanto a luoghi che gli uomini avevano giurato non sarebbero mai più esistiti, quelli dove i corpi si fanno cenere nei forni e certe ragioni diventano il torto più grande. Non so se l’ho detto bene, so solo che gli voglio bene, anzi di più, molto molto di più. *Il nome di fantasia scelto dall’autrice è dovuto all’esigenza di tutelare la privacy dei familiari, persone che loro malgrado pagano il prezzo dello stigma Cisco, formazione digitale nelle carceri italiane per professionisti dell’Ict di Marco Alfieri Il Sole 24 Ore, 3 gennaio 2024 Costruirsi un futuro di vita differente, grazie alle competenze digitali. Offrendo un valido modello emulativo a chi non ha alle spalle situazioni così complicate come la permanenza in carcere. Perché se ce la fanno loro, è il sottotesto, può farcela chiunque. Questa è una delle ragioni di fondo per cui il colosso statunitense Cisco, nel 2003, ha avviato una scuola di formazione Ict nelle carceri italiane. “Siamo partiti dalla struttura di Bollate, vicino Milano, grazie all’incontro di alcuni personaggi illuminati: l’allora direttrice del carcere, Lucia Castellano, un manager Cisco come Francesco Benvenuto e Lorenzo Lento, fondatore della Cooperativa Universo poi diventata una delle 35o Academy Cisco nel nostro Paese”, racconta Gianmatteo Manghi, ad di Cisco Italia. Vent’anni dopo, quell’esperimento pionieristico è diventato un vero e proprio programma strutturato che offre formazione di base e in aree strategiche come il networking, la cybersecurity, l’Internet of Things e prevede corsi e la possibilità di fare degli esami per conseguire certificazioni professionali Cisco, poi spendibili nel mondo del lavoro. All’interno del Networking Academy Cisco in carcere ci sono stati finora vari casi di persone che hanno potuto - uscendo dall’istituto di pena o lavorando in regimi di detenzione che Io consentono - trovare una vera occupazione, reinventandosi attraverso questo tipo di lavori. Alcuni detenuti sono diventati istruttori di Academy e quindi ora formano “colleghi” detenuti. Altri sono addirittura saliti ai vertici europei della consulenza in materia di cybersecurity. È il caso emblematico di Luigi Celeste, che ha scontato nove anni di carcere per omicidio volontario, dopo aver sparato a suo padre nel 2008. E oggi è diventato, appunto, un superconsulente informatico per molte grandi aziende. “Per noi la responsabilità sociale di impresa non esiste più”, prosegue Manghi. “Tutto quello che facciamo fa parte della nostra cultura di impresa e dei nostri valori codificati, il che significa realizzare ottimi risultati finanziari, creare un ambiente di lavoro eccellente capace di trattenere e attrarre talenti e produrre un effetto positivo sulla società e l’ambiente, realizzando la nostra mission in modo strategico e continuativo”. Dopo Bollate, famosa a livello internazionale per la sua capacità di recupero e riabilitazione dei detenuti, l’iniziativa si è ampliata in altri istituti di pena, mano a mano che c’era disponibilità e la possibilità di farlo. Oggi ci sono iniziative di Academy Cisco in ben otto carceri italiane, tra cui una realtà minorile e una divisione femminile (sempre a Bollate). Ovviamente non tutti i partecipanti ce la fanno a seguire questi percorsi, il contesto in cui si opera è spesso difficile; molte volte i detenuti hanno storie particolari alle spalle e deficit non più recuperabili. Ma tra le 1.500 persone certificate che hanno frequentato finora i corsi, cosa fondamentale, la recidiva è pari a zero. Un’altra azienda chiave in questo progetto di Networking Academy è Axians (brand del Gruppo Vinci Energies Italia). Insieme a Cisco di cui è partner, proprio partendo da Bollate, Axians ha strutturato un percorso di formazione di lunga durata attraverso il quale l’azienda punta ad attingere nuovi talenti per dare loro opportunità di lavoro nell’assistenza ai clienti del settore Ict. In pratica Axians ha creato un centro di controllo della rete dentro Bollate, una vera attività di impresa a beneficio dei loro clienti. Solo chi completa l’intero percorso potrà accedere alla possibilità di impiego: sei detenuti sono operativi nel lavoro quotidiano mentre c’è già stata una assunzione a tempo indeterminato (e altre ne seguiranno nel corso del prossimo biennio). Dal 2016 esiste anche un protocollo d’intesa con il Ministero della Giustizia a fare da apripista. Nel medio periodo l’obbiettivo di sistema, mettendo insieme Pubblica amministrazione illuminata, altre imprese di buona volontà e Terzo Settore, è quello di entrare gradualmente in tutte e 190 le carceri italiane. “Investire in progetti di formazione digitale serve più in generale per attrarre giovani nel nostro ecosistema, a beneficio di tutta l’economia italiana”, continua Manghi. “Queste skill, infatti, servono ormai in tantissimi lavori in modo trasversale: dal medico al giornalista, dal progettista all’architetto fino allo sviluppatore di software, in uno scenario in cui, nei prossimi 5 anni, rischiano di mancare fino ad un milione di persone con competenze digitali nel nostro Paese”. La settimana prossima si votano gli emendamenti al ddl Nordio di Valentina Stella Il Dubbio, 3 gennaio 2024 Oltre 160 emendamenti, contenuti in un documento di 105 pagine, chiedono una messa a punto al ddl che porta la firma del Guardasigilli. Il 9 gennaio in commissione Giustizia del Senato, a meno che non si dia priorità al dossier sul doppio cognome come avrebbe richiesto la premier Meloni, si voteranno gli emendamenti al ddl 808, il cosiddetto “pacchetto Nordio” che contiene modifiche su abuso d’ufficio, traffico di influenze, intercettazioni a tutela della riservatezza del terzo estraneo al procedimento, contraddittorio, collegialità e misure cautelari, inappellabilità delle sentenze di assoluzione. L’esame del testo presentato dal guardasigilli si era fermato a causa della regola per cui durante la sessione di bilancio non si possono discutere provvedimenti che comportino una spesa. E nel ddl Nordio è previsto un impegno finanziario di 1.291.000 euro per l’anno 2024, cifra necessaria per l’assunzione di 250 giudici destinati ad attuare l’introduzione del cosidetto “gip collegiale”. Ma andiamo con ordine. Oltre 160 emendamenti, contenuti in un documento di 105 pagine, reclamano modifiche alla riforma proposta dal ministro della Giustizia. Incardinato in commissione a Palazzo Madama ad inizio agosto, il provvedimento, composto da otto articoli, si avvia dunque a un restyling. Movimento 5 Stelle, Partito democratico e Alleanza Verdi Sinistra chiedono che venga soppresso l’articolo 2, comma 1 lettera n) che prevede l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione da parte del pubblico ministero, e l’articolo 1 che intende abrogare l’abuso di ufficio, considerato da Nordio un reato evanescente. Una scelta che per le forze di opposizione, come emerso pure da varie audizioni, presenterebbe invece diverse criticità. Il Pd però ha depositato anche un emendamento per rendere ancora più chiara, tassativa e dettagliata l’attuale norma. I dem propongono poi una modifica del Testo unico degli enti locali per separare le responsabilità dei sindaci da quelle dei tecnici. A chiedere misure più stringenti sono soprattutto Lega e Forza Italia che con un pacchetto di modifiche sembrerebbero puntare a porre un argine alla divulgazione di intercettazioni e documenti. Le loro proposte riprendono in sostanza il disegno di legge in esame sempre in commissione al Senato, depositato dal capogruppo Giustizia di FI Pierantonio Zanettin, relativo alle “Modifiche della disciplina delle intercettazioni del difensore dell’indagato e delle proroghe delle operazioni”. Tornando al disegno di legge Nordio, la senatrice della Lega Erika Stefani chiede di modificare l’articolo 684 del codice penale (relativo alla pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale) aggiungendo la “responsabilità civile di chiunque abbia pubblicato o pubblichi intercettazioni relative a soggetti diversi dalle parti”. Mariastella Gelmini, senatrice e vicesegretaria di Azione, propone che le testate che pubblicano atti coperti dal segreto istruttorio “decadano dal diritto all’erogazione di contributi o finanziamenti pubblici per l’anno in cui si è consumata la violazione”. E ancora, per la Lega, quando il giudice dispone la cancellazione dai supporti informatici o cartacei di “intercettazioni illecitamente pubblicate”, si deve prevedere “per ogni giorno di ritardo il pagamento di una somma non inferiore ad euro 100 e non superiore ad euro 500 a favore della cassa delle ammende”. Sempre il Carroccio e gli azzurri puntano a vietare “il sequestro e ogni forma di controllo delle comunicazioni” tra “indagato e il proprio difensore, salvo che l’autorità giudiziaria abbia fondato motivo di ritenere che si tratti di corpo del reato”. E “le comunicazioni e conversazioni tra difensore e indagato comunque intercettate non possono in nessun caso essere trascritte nemmeno sommariamente”. La violazione di questo divieto deve costituire, per FI e Lega, illecito disciplinare. Si prevede inoltre l’istituzione dell’albo delle utenze telefoniche dei difensori. Sempre in ambito di garanzie, il Pd ha presentato un emendamento in merito all’interrogatorio preventivo rispetto all’eventuale applicazione della misura cautelare per salvaguardare soprattutto le esigenze difensive. Lega e FI invece vogliono intervenire sulle proroghe delle intercettazioni: quelle “successive alla prima non possono essere concesse se nel corso degli ultimi due periodi di intercettazione precedenti, comunque autorizzati, non siano emersi nuovi elementi investigativi utili alle indagini. La motivazione di tali proroghe non può essere fondata esclusivamente su elementi investigativi già utilizzati nel decreto di autorizzazione o in quello di convalida”. Se le intercettazioni riguardano persone non indagate, non potranno essere trascritte. Per gli azzurri devono andare via anche i nomi di persone estranee all’indagine. Per Zanettin “chiunque pubblica o diffonde ovvero concorre a pubblicare o diffondere con il mezzo della stampa o con ogni altro mezzo di diffusione atti di indagine, anche parziali o per riassunto, fino al termine dell’udienza preliminare e relativi a un procedimento penale è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 7.000 a euro 35.000”. Mentre Ivan Scalfarotto di Iv vorrebbe che il giudice possa chiedere al giornalista di rivelare una fonte quando la notizia diffusa può essere rivelata solo dagli inquirenti. Questo, spiega il parlamentare, “a tutela dell’indagato e per evitare la strumentalizzazione dei giornalisti per diffondere notizie su un’indagine in corso”. Infine il capogruppo del Carroccio Massimiliano Romeo propone di aumentare l’età per andare in pensione dei magistrati: 73 anni anziché 70. Da Fratelli d’Italia invece solo tre proposte piuttosto tecniche. Scontro con le toghe, la burrasca è partita di Gian Carlo Caselli La Stampa, 3 gennaio 2024 Chi non vuol vedere lo nega, ma la burrasca nel finale dell’anno è partita. Prima il sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro promette di “spezzare le reni alle correnti della magistratura”. Questa minaccia truculenta (anche per il linguaggio di evidente impronta “nostalgica”) rimbalza poi sulle parole del ministro della Difesa Guido Crosetto, che in un vortice di detti, precisazioni e parziali contraddetti, alla fine sembra attestarsi sulla versione che per parte sua non vi è mai stato un attacco alla magistratura, ma solo una “riflessione e preoccupazione riguardo ad alcune tendenze che vede emergere non in modo carbonaro ma in modo evidente”. E allora vien da chiedersi se l’attacco alla magistratura non sia diventato un attacco alla libera manifestazione del pensiero, tutelata “per tutti” dall’articolo 21 della Costituzione. Poi (perché non ci manchi nulla…) abbiamo avuto il caso di Paolo Corsini, dirigente Rai della sezione “Approfondimenti”, che dal palco di Atreju, kermesse di “Fratelli d’Italia”, ha rivendicato la sua militanza nel partito e si è rivolto ai suoi dirigenti con un cameratesco “noi”. Ora, non si tratta solo di folklore. Il punto anzi è piuttosto delicato. La Costituzione democratica, che ha segnato la fine del fascismo dopo la tragedia della seconda guerra mondiale, disegna una democrazia pluralista, basata sul primato dei diritti uguali per tutti e sulla separazione dei poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario), senza supremazia dell’uno sugli altri, ma con reciproci bilanciamenti e controlli. A questa concezione di democrazia qualcuno ne vorrebbe sostituire un’altra, basata sul primato della politica (meglio, della maggioranza politica del momento) e non più su quello dei diritti. Ma anche chi muove in questa direzione non può dimenticare un dato decisivo. Vero è che in democrazia la sovranità appartiene al popolo (per cui chi ha più consensi ha il diritto-dovere di operare le scelte politiche che vuole), ma è altrettanto vero che ogni potere democratico incontra dei limiti prestabiliti. Questa necessità (che la nostra Costituzione stabilisce fin dal suo primo articolo: la sovranità si esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione) è fondamentale. La vera democrazia, infatti, deve garantire spazi effettivi anche alle minoranze. Altrimenti, se la maggioranza si prende tutto, l’alternanza, che è il dna della democrazia, viene ridotta a simulacro e la vita sociale e civile ne esce mutilata. Tali spazi dipendono da tanti fattori, fra cui l’effettività del controllo sociale e del controllo di legalità. Controllo sociale significa informazione pluralista e indipendente (e sul punto … si accettano scommesse; anche al netto dei “bavagli” che proprio in questi giorni hanno cominciato a materializzarsi, col divieto di pubblicare le ordinanze di custodia cautelare finché non sono finite le indagini). Mentre controllo di legalità significa magistratura autonoma e indipendente, proprio quello che cominciando con Silvio Berlusconi e proseguendo fino ai suoi moderni epigoni viene costantemente osteggiato quando vi siano in gioco interessi “sensibili” per chi può e conta. Un limite che dovrebbe essere assolutamente invalicabile, in particolare, è rappresentato dal principio di legalità, in base a cui tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge e nessuno può sottrarsi alla sua osservanza, ma in realtà quegli interessi “sensibili” trovano spesso modo di aggirarli. È analizzando questa situazione, io credo, che si manifestano le “tendenze” che preoccupano il ministro Crosetto. Piero Calamandrei (nel libro “Elogio dei giudici scritto da un avvocato”) narra del miliardario che non riesce a fermare il processo contro suo figlio, che con l’auto ha sfracellato un povero passante. Col difensore il miliardario insiste di non guardare a spese, purché cessi lo “sconcio” del processo. L’avvocato non sa come spiegargli che “la giustizia non è una merce in vendita: quel giudice è una persona per bene”. Allora il miliardario salta su sdegnato: “Ho capito… lei non me lo vuol confessare che abbiamo avuto la sfortuna di cadere in mano di un giudice criptocomunista”. Quella che per Calamandrei era più che altro una “boutade”, oggi rischia di diventare una pericolosa deriva illiberale. A marchiare come comunisti (neanche più cripto) o toghe rosse i magistrati che hanno l’impudenza di fare il loro dovere, ad accusarli di essere prevenuti e faziosi, fino a trasformare la giustizia in un luogo dove si fa politica sol perché non si è disposti a fare la volontà di qualcuno, non è più un privato cittadino, esuberante protagonista di un eccesso verbale isolato. Sono martellanti campagne pubbliche, condotte senza risparmio di uomini e media, contro qualunque magistrato cui tocchi in sorte di dover trattare vicende che al potere non piace siano troppo disvelate. Nessuna sentenza - si proclama - può valere più del voto di milioni di italiani: gli interventi giudiziari “non conformi” sono eversione della democrazia. Tempi davvero brutti, quelli in cui a un giudice - per potere ricercare e affermare la verità - non basta essere onesto e professionalmente preparato, ma occorre pure saper essere combattivo e coraggioso. Diritti dell’indagato, luci e ombre a due anni dall’appello del Colle di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 3 gennaio 2024 Se il Capo dello Stato, nel suo messaggio di fine anno 2023, avesse pronunciato, al fianco di alti concetti come “dignità negate” e “diritti calpestati”, le tre paroline “Stato di diritto”, avrebbe dato sostanza alla agognata svolta sulla giustizia del suo discorso di insediamento di due anni fa. Quando fu tirato per la giacca e supplicato di accettare il secondo mandato, mentre stava già traslocando i mobili nella nuova casa, e colse l’occasione per ricordare, anche quale vertice del Csm, alla casta della magistratura, che l’indipendenza e l’autonomia sono beni da riconquistare ogni giorno. Pena la perdita di credibilità degli amministratori di giustizia. Un discorso alle Camere di trentotto minuti punteggiato da cinquantacinque applausi con i deputati tutti in piedi. State rischiando, aveva detto ai magistrati Sergio Mattarella, con il garbo che non somigliava all’irruenza di un Sandro Pertini ma neanche al ringhio picconatore di Francesco Cossiga, di perdere la fiducia dei cittadini. Soprattutto per sentenze ingiuste, “decisioni arbitrarie o imprevedibili”, per l’eccessivo interesse di alcuni verso il potere, per certe opacità dello stesso Csm travolto dalla zavorra delle correnti. Il dopo Palamara aveva avuto il suo peso, ma quel discorso del 3 febbraio 2022 era stato accolto come una svolta sulla giustizia che in realtà non c’è stata. Infatti la parola “giustizia” nel discorso di capodanno 2023 non è stata nominata. Ci sarebbe piaciuto sentirla, soprattutto al fianco di quell’altra che suona come “dignità”. La dignità dei protagonisti del processo penale, per esempio. A partire da quella del giudice, terzo e distante dalle parti. E la dignità dell’indagato, come prescritto con diversi provvedimenti dagli organi di giustizia europei. A partire da quella direttiva del 2016 sulla presunzione di innocenza, il cui testo, piuttosto esplicito e in linea con l’articolo 27 della nostra Costituzione, non era mai diventato legge italiana fino al 30 marzo 2021. Anzi, ai tempi del governo Conte e del ministro Bonafede, quelli in cui si varavano provvedimenti come la “spazzacorrotti”, la proposta del deputato Enrico Costa era stata bocciata nella commissione Giustizia della Camera. Poi, grazie anche alla mediazione della ministra Marta Cartabia, era diventata legge addirittura anche con il voto del Movimento cinque stelle. Se si parla di Costituzione, e i Capi di Stato, nei loro messaggi di fine anno, ma non solo, la citano sempre e giustamente a piene mani, non si può trascurare l’articolo 27 sulla non colpevolezza prima di una condanna definitiva. Così come quell’articolo 21 sulla libertà di stampa che troppo spesso cronisti e pubblici ministeri alleati citano a sproposito, per giustificare la propria complicità nella messa in berlina di chi ha la sfortuna di finire indagato se non addirittura arrestato prima del processo. Il testo della direttiva europea diceva testualmente: “La presunzione di innocenza sarebbe violata se dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche o decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza presentassero l’indagato o l’imputato come colpevole fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata”. Quella votazione tardiva del Parlamento italiano, a sei anni di distanza dall’emanazione della direttiva europea, avrebbe dovuto, nelle intenzioni anche della ministra Cartabia che l’aveva sostenuta con forza, porre fine alle conferenze stampa show, e ai nomi di fantasia che caratterizzavano inchieste e blitz. I risultati furono parziali. Ci fu un procuratore come quello di Roma, Francesco Lo Voi, che, appena insediato, aveva emesso una circolare per mettere un freno a quegli organi di polizia giudiziaria, soprattutto la Guardia di finanza, che chiedevano continue autorizzazioni a emettere comunicati stampa. E ci fu invece chi, come il procuratore di Catanzaro (oggi a Napoli) Nicola Gratteri, aveva continuato imperterrito con le conferenze stampa, cogliendo l’occasione per criticare le riforme Cartabia e fare sarcasmo con frasi del tipo “oggi abbiamo arrestato 60 presunti innocenti”. Proprio per questa applicazione della norma a macchia di leopardo e per l’esondazione continua di atti giudiziari, in particolare delle ordinanze di custodia cautelare, si capì che l’applicazione della direttiva europea non sarebbe stata completa senza un necessario nuovo intervento del Parlamento. Proprio nei giorni dell’intervento del Presidente Mattarella nel suo insediamento, con un’intervista alla nostra Valentina Stella (su Il Dubbio del 4 febbraio 2022), Giuseppe Belcastro, responsabile dell’osservatorio Informazione giudiziaria dell’Unione Camere penali, lanciò il sasso. “È sicuramente una criticità - aveva detto- il fatto che la nuova norma non abbia anche previsto espressamente il divieto di pubblicazione dell’ordinanza di custodia cautelare”. E sì, perché è in quel documento, che un guardasigilli del passato, Andrea Orlando, volle fosse reso pubblico al momento in cui veniva depositato a disposizione delle parti, che si annida la gogna, attraverso intercettazioni, resoconti arbitrari di polizia giudiziaria e arricchimenti morbosi finalizzati all’edicola più che alla giustizia. Quelle pubblicazioni, aveva aggiunto l’avvocato Belcastro, rappresentano “una lesione del diritto alla riservatezza, all’onore e alla presunzione d’innocenza dell’indagato”. È proprio così, e siamo arrivati ai giorni nostri, avendo ben chiaro il fatto che ogni buona legge deve avere anche una buona applicazione. Quella direttiva europea del 2016 non poteva trovare concreta applicazione se non si fosse superata la possibilità di volantinaggio di atti giudiziari che nei fatti continuava a mostrare l’indagato e l’imputato non solo come colpevoli, ma anche, troppo spesso, come propensi alla commissione dei reati, con descrizioni quasi lombrosiane. Siamo arrivati all’approvazione di una norma di civiltà che sposta alla fine delle indagini preliminari il momento in cui è possibile pubblicare, in tutto o in parte, le ordinanze di custodia cautelare, così completando l’applicazione della direttiva europea sulla presunzione di innocenza. Il termine di “legge bavaglio” è usato da procuratori e giornalisti. E la Fnsi, sceglie l’autocensura: non andate alla conferenza stampa del Capo del governo, dice ai propri iscritti. Imbavagliatevi contro il bavaglio. Separare le carriere dei magistrati non basta, occorre “laicizzare” la pubblica accusa di Pietro Di Muccio de Quattro L’Opinione, 3 gennaio 2024 Vorrei chiosare, non in polemica, l’articolo del giudice Roberto Tanisi sulla separazione delle carriere dei magistrati (www.beemagazine.it, 19 dicembre 2023). Premetto di non avere nessuna difficoltà a riconoscere in generale la ragionevolezza della sua contrarietà. Tuttavia desidero soffermarmi sul seguente passo della lunga e articolata esposizione dei motivi addotti a sostegno della sua tesi: “Ma se anche così fosse, se, cioè, la riforma garantisse piena autonomia al pm, il rischio potrebbe essere quello di avere un magistrato trasformato in una sorta di superpoliziotto, un “grande inquisitore” scevro da verifiche e controlli, che piuttosto che essere - come oggi è - promotore di giustizia, sarebbe un mero avvocato dell’accusa o della Polizia, non più tenuto istituzionalmente alla ricerca della verità ma, semplicemente, delle prove a carico dell’indagato”. La ragione precipua per la quale io, al contrario del giudice Tanisi, sono favorevole non solo alla separazione delle carriere, ma pure alla “laicizzazione” del pubblico ministero, sta esattamente nel fatto che, allo stato delle cose, il pubblico ministero italiano è un “promotore di giustizia” anziché un “avvocato dell’accusa o della Polizia” ed è “tenuto istituzionalmente alla ricerca della verità” anziché “semplicemente delle prove a carico dell’indagato”. Mi permetto di obiettare, avendone il radicato convincimento, che la “ricerca della verità” è compito di tre categorie umane: i filosofi, gli scienziati, i religiosi, non già dei magistrati, sia che inquisiscano, sia che giudichino. Per parte mia, non solo non riesco a intravedere o ricavare nella Costituzione un principio o una norma che abbia posto sulle spalle dei magistrati un tale insopportabile peso, ma sono portato a credere che sia impossibile caricarglielo addosso persino in astratto. Devo aggiungere che l’immane compito di “ricercare la verità” fa il paio con un’altra credenza circolante nell’associazionismo della magistratura, cioè che ad essa spetti un generale “controllo di legalità”. In un sistema libero e democratico, sotto l’imperio del diritto, il controllo generale della legalità è costituito dal sistema stesso, mentre i magistrati verificano la legalità dei casi di specie e sanzionano l’illecito penale. E basta. Le due espressioni “ricerca della verità” e “controllo di legalità” sono correlate ed evidenziano una concezione della giustizia e della giurisdizione che non posso condividere e m’inducono a concludere che la separazione delle carriere sia indispensabile per tentare, almeno, un bilanciamento delle posizioni di forza e di debolezza delle parti nel processo penale, nel quale l’indagato e l’imputato devono difendersi non solo dall’accusa ma dallo stesso accusatore, perché è un magistrato, una figura di rango incombente di per sé, non alla pari. “Superior stabat lupus…”. Sono “semplicemente le prove a carico dell’indagato”, appunto, l’onere specifico della pubblica accusa, che non dovrebbe avere autorità, formale e sostanziale, oltre il potere legale di ricercarle e allegarle, se parliamo di quel “giusto processo” tardivamente iscritto nella Costituzione con involontaria ironia, se non altro perché sembra l’unica Carta al mondo che prescriva la giustizia giusta temendone forse l’ingiusta. Con le carriere separate, il pubblico ministero rischierebbe di trasformarsi in un “superpoliziotto”, un “grande inquisitore”, teme il giudice Tanisi. A me sembra che troppe volte lo veda già così oggigiorno la maggioranza dei cittadini. E non solo. Infatti, fu un deputato (un magistrato!), che nel 1994, nel momento di massimo splendore dell’inquisizione giudiziaria e di massima vergogna del Parlamento, dichiarò in Assemblea che “il ruolo del pubblico ministero va divenendo imperiale e difficilmente contrastabile all’interno della realtà giurisdizionale”. Senza la toga di magistrato, il pubblico ministero avrebbe potuto assumere, seppure per abuso, un potere imperiale? Contro chi insorgeva quel deputato-magistrato? Contro un procuratore della Repubblica che aveva manifestato questo sprezzante e agghiacciante pensiero, degno di “Mani pulite” a cui era riferito: “Non è vero che gl’imputati venivano scarcerati quando parlavano, bensì rimanevano dentro fino a quando non parlavano”. Nel chiudere questa chiosa, per di più occasionale, confesso che la mia posizione sulla separazione delle carriere e la “laicizzazione” della pubblica accusa imporrebbe di completare l’opera con l’adozione dell’habeas corpus e della libertà su cauzione alla maniera anglosassone. Troppi pregiudizi, specifici del carattere nazionale e dell’ordinamento italiano, vi si oppongono al momento storico. “Rivedere la legge sulle misure di prevenzione”. Tocca all’Europa mettere (finalmente) ordine di Paolo Pandolfini Il Riformista, 3 gennaio 2024 Il 90% delle aziende sottoposte a sequestro e finite in mano agli amministratori giudiziari fallisce dopo poco. Bisogna fare luce su una normativa che colpisce, sulla base di generici sospetti, persone che sono state giudicate innocenti. Le interdittive antimafia, come i diamanti della sudafricana De Beers, sono “per sempre”. Nella vicenda raccontata dal Riformista la scorsa settimana e che ha coinvolto l’ex senatore del Pd Stefano Esposito, intercettato “abusivamente” dalla procura di Torino per circa 500 volte, spunta anche l’interdittiva antimafia nei confronti dell’imprenditore Giulio Muttoni, patron di Set Up, società organizzatrice di grandi eventi musicali. Muttoni, legato da amicizia decennale con Esposito, venne indagato nel 2014 per l’ipotesi di associazione a delinquere di stampo mafioso e quindi colpito dal provvedimento interdittivo emesso dalla prefettura di Milano. Secondo la tesi degli inquirenti, Muttoni aveva subito una presunta estorsione poi non denunciata. L’accusa, in particolare, si basava sulla cessione, verosimilmente per evitare “problemi”, di alcuni biglietti per gli spettacoli da parte di un socio di Muttoni a due persone che si sarebbe poi scoperto appartenere alla ‘ndrangheta. I due si erano presentati minacciandolo, come scrissero i pm nel capo di imputazione, che “se non avesse dato loro biglietti omaggio relativi alle manifestazioni organizzate avrebbero sfondato la porta dell’ufficio”, sottolineando quindi la “loro appartenenza ad una associazione di stampo mafioso di matrice calabrese e che i proventi della vendita dei biglietti che avrebbe dovuto loro consegnare erano destinati al mantenimento delle famiglie dei sodali detenuti”. In tal modo lo “costringevano a consegnare, in più occasioni, svariati biglietti relativi a concerti ed altre manifestazioni, così procurandosi l’ingiusto profitto rappresentato dalla successiva vendita e/o cessione a terzi dei predetti biglietti”. L’interdittiva del prefetto veniva giustificata in quanto l’imprenditore, soggiogato dall’intimidazione, pur non venendo a patti con il sodalizio, tuttavia cedeva all’imposizione subendo il relativo danno economico, “magari ricercando un’intesa volta a limitare quest’ultimo”. Sulla vicenda dell’interditdel tiva antimafia si innestava allora un altro filone di indagine per presunta corruzione, turbativa d’asta e traffico di influenze illecite che coinvolgeva Esposito, accusato di essersi attivato per farla revocare al suo amico. Nell’ambito di questa indagine Muttoni veniva intercettato circa 24mila volte ed Esposito, come detto, 500 volte pur essendo quest’ultimo senatore e quindi non intercettabile senza autorizzazione Parlamento. Per tali ragioni il Senato avanzava un conflitto di attribuzione, poi accolto, davanti alla Corte costituzionale, mentre nei confronti dei magistrati protagonisti dell’inchiesta (il pm Gianfranco Colace e la gip Lucia Minutella) la procura generale della Corte di Cassazione apriva un procedimento disciplinare con l’accusa di “grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile”. L’accusa di collusione con la criminalità organizzata nel frattempo, dopo anni di indagini, veniva archiviata su richiesta degli stessi pm, ma la misura interdittiva attuata dal prefetto (prima di Milano e poi di Torino) rimaneva in essere. Il legale dell’imprenditore, l’avvocato Fabrizio Siggia, in questi mesi si è rivolto, senza molto successo, più volte alla prefettura del capoluogo piemontese per capire i motivi di questa pendenza che ha creato enormi problemi ad una società che era arrivata a fatturare circa 15 milioni di euro. Sul punto bisogna ricordare che a breve la Corte europea dei Diritti dell’uomo si occuperà nuovamente dei rapporti tra processo penale e procedimento di prevenzione, a seguito del ricorso presentato dai signori Cavallotti, già imputati per partecipazione mafiosa e assolti con sentenza definitiva, ma, nell’ambito del parallelo procedimento di prevenzione, destinatari di confisca dei beni, in quanto “pericolosi qualificati”. Attualmente, senza contare i danni “collaterali”, il 90% delle aziende sottoposte a sequestro e finite in mano agli amministratori giudiziari fallisce dopo poco. “Rivedere la legge sulle misure di prevenzione non vuol dire fare un regalo alle mafie, non significa indebolire la lotta contro la criminalità organizzata. Vuol dire solo evitare che la vita di persone innocenti venga distrutta nuovamente. Com’è capitato alla mia famiglia”, ha ricordato in una recente intervista l’imprenditore siciliano Pietro Cavallotti. C’è solo da augurarsi a questo punto che l’Europa metta finalmente ordine in una normativa che colpisce, sulla base di generici sospetti, persone che sono state giudicate innocenti. E spesso neppure sulla base di quelli. Dopo trenta anni in cella nessuno spiraglio per il boss 80enne: “Deve restare al 41 bis” di Sandra Figliuolo palermotoday.it, 3 gennaio 2024 Fu arrestato a dicembre del 1994 e da allora ha trascorso esattamente trent’anni al 41 bis. E per lo storico boss di Passo di Rigano Michelangelo La Barbera, 80 anni, condannato a diversi ergastoli per le stragi di Capaci e via D’Amelio, ma anche per una serie di omicidi, come quelli del capitano dei carabinieri Mario D’Aleo e degli appuntati Giuseppe Bommarito e Pietro Morici e dell’europarlamentare della Democrazia Cristiana Salvo Lima, nonostante i ripetuti ricorsi contro le proroghe del carcere duro disposte dal ministero della Giustizia, non sembrano esserci spiragli di lasciare lo speciale regime detentivo. L’ultima decisione al riguardo è quella della prima sezione della Cassazione, depositata in questi giorni, che ha rigettato l’istanza del mafioso. La Barbera aveva impugnato davanti alla Suprema Corte l’ordinanza del tribunale di Sorveglianza di Roma del 16 marzo dell’anno scorso contro la proroga del 41 bis disposta dal ministero il 12 aprile del 2022, ma il collegio presieduto da Vito Di Nicola ha sancito la correttezza della decisione precedente, secondo cui “nonostante sia detenuto da molto tempo, La Barbera è capace di mantenere il controllo del territorio attraverso uomini di fiducia e suoi famigliari ed ha la capacità di mantenere un ruolo di grande rilevanza all’interno di Cosa nostra”. Nella sentenza, la Cassazione rimarca come “il tribunale ha sottolineato che i motivi di reclamo, quanto all’assenza di elementi nuovi da cui desumere la pericolosità del reclamante e la sua capacità di ripristinare i contatti con il clan, sono già stati valutati approfonditamente in passato, a seguito di precedenti reclami dal contenuto analogo, in particolare con l’ordinanza del medesimo tribunale di Sorveglianza del 29 aprile 2021” e “il mero decorso del tempo non fa venir meno le ragioni che giustificano il regime differenziato”. Inoltre “il ruolo di primo piano assunto dal detenuto nell’ambito di Cosa nostra - scrivono ancora i giudici - la sua elevatissima pericolosità sociale, lo spessore criminale desunto dai delitti efferati commessi, l’assenza di qualunque indizio di dissociazione giustificano, tutti, la proroga del regime differenziato”. La difesa del mafioso aveva invece messo in evidenza proprio come La Barbera sia detenuto ininterrottamente dal 1994 e come non sarebbero emersi elementi che dimostrano la sua capacità di mantenere i collegamenti con l’associazione, così “le affermazioni dell’ordinanza - sosteneva la difesa - sono quindi mere espressioni di stile, non fondate su elementi concreti”. Peraltro, secondo “i principi ormai consolidati dell’ordinamento italiano e di quello sovranazionale il detenuto deve poter ottenere una rivalutazione della propria posizione per dare concretezza al percorso rieducativo, pur in presenza di una pena perpetua. Oggi invece - affermava ancora la difesa - il soggetto è discriminato rispetto a chi ha la stessa condanna ma non è soggetto al regime del 41 bis, ed è impedito ad ottenere i benefici nonostante abbia aderito all’opera rieducativa”. Tesi ritenute “infondate” dalla Suprema Corte che ha per questo rigettato il ricorso e condannato il boss a pagare le spese processuali. I giudici sottolineano come anche le indagini più recenti “attestano l’operatività del mandamento di Boccadifalco-Passo di Rigano, di cui il ricorrente è stato a lungo capo”, ma anche “il ruolo di primissimo piano ricoperto da La Barbera, anche durante la sua lunga detenzione, dimostrato non solo dalla sua biografia criminale ma, più recentemente, dalla sua influenza all’interno di Cosa nostra, rilevabile nell’adozione, da parte dei clan mafiosi, di una linea strategica da tempo propugnata dal ricorrente, che oggi viene attuata attraverso l’infiltrazione nei gangli economici della società evitando lo scontro frontale con lo Stato” senza contare “l’assenza di qualsivoglia indizio di dissociazione dal contesto criminale di appartenenza” da parte del detenuto. Umbria. Il Garante: “Dimezzare il numero degli ospiti delle carceri: ecco come si può fare” La Nazione, 3 gennaio 2024 “In cella dovrebbero andare solo i detenuti abituali che pur avendo avuto più opportunità, persistono nel commettere fatti illeciti”. Per gli altri “la giustizia riparativa potrebbe essere una soluzione”. Il carcere ha senso se come obiettivo ha il recupero della persona. Il suo cambiamento, il ritorno (con nuova mentalità, nuove motivazioni e certezze) nella società che sta oltre le sbarre. Questa è la teoria. Per la pratica - vista la situazione complicata, che dura da anni - servono nuove riflessioni e proposte. Per il Garante dei detenuti dell’Umbria Giuseppe Caforio “il sistema sanzionatorio dei reati deve sempre più propendere verso la riparazione e sempre meno verso la detenzione in carcere dove dovrebbero andare soltanto i detenuti abituali che pur avendo avuto più opportunità, persistono nel commettere fatti illeciti”. Una considerazione espressa rivolgendo “un augurio di buon anno a tutto il mondo penitenziario fatto di detenuti, polizia penitenziaria, amministrazione civile, giudici, avvocati e non per ultimo ai familiari dei detenuti”. “È stato un anno complicato - rileva Caforio - per le carceri italiane e soprattutto per quelle umbre che hanno visto momenti di alta tensione con alcune rivolte fortunatamente sedate brillantemente, tanti troppi suicidi e una situazione sanitaria all’interno delle carceri al di sotto anche di quei parametri essenziali per garantire il diritto alla salute. La funzione riabilitativa del carcere purtroppo appare sempre più una chimera perché spesso il carcere non solo non riabilita ma amplifica la deviazione che ha già condotto un detenuto all’interno delle prigioni”. Per il Garante comunque “non tutti i detenuti sono uguali”. “C’è chi ha una propensione e un’abitualità a delinquere - ha sostenuto - ma vi è anche chi, per percorsi sbagliati della propria vita, si è ritrovato a commettere reati pentendosi seriamente e dimostrando di voler rientrare in società rispettandone le regole. Allora se esistono delle differenziazioni rilevanti all’interno dei detenuti, è bene che anche le sanzioni e quindi le pene debbano essere differenziate. Sia chiaro la pena è di per sé sanzione e risponde al sacrosanto principio che chi sbaglia paga. Ma un conto è far scontare la sanzione per dare certezza della pena e altro è la funzione riabilitativa. Lo Stato deve assicurare un percorso e un’opportunità riabilitativa, sta poi al detenuto approfittarne”. “Il tema - afferma ancora Caforio - è che non sempre il carcere può essere il luogo migliore per un processo riabilitativo quando addirittura non è il posto peggiore. In tale quadro allora la giustizia riparativa, esperienza questa che ci deriva dal sistema anglosassone introdotta anche in Italia dove muove i primi passi, può essere una soluzione soprattutto per quella categoria di detenuti che oserei definire delinquenti per caso, a cui con la collaborazione della vittima e con una evidente intento riparatorio, si può dare una possibilità per ritornare sul binario della legittimità”. Per Caforio “se si ragiona nell’ottica” che in carcere dovrebbero andare soltanto i detenuti abituali “probabilmente potremmo dimezzare il numero dei detenuti nelle nostre carceri, così da risolvere sia il problema dell’affollamento, ma anche quello della carenza degli organici e soprattutto offrendo il pieno rispetto dei principi costituzionali”. “Il sistema carcerario - aggiunge - sia l’estrema ratio per coloro che non hanno proprio intenzione di adeguarsi alle regole sociali e preferiscono perseverare nel delinquere. Su questi temi auspico che anche nella nostra Regione, nel Consiglio regionale, ma anche nelle amministrazioni locali e nella società civile si possa aprire un confronto su quello che possa essere la modalità più opportuna di sanzionare, valutando ogni possibile misura alternativa al carcere, che dovrà essere sempre inteso come la misura residuale per chi delinque”. Agrigento. Sedata rivolta in carcere, si visionano i filmati dei disordini Corriere del Mezzogiorno, 3 gennaio 2024 I rivoltosi avevano affrontato gli agenti con mazze e gettando acqua e olio bollente, va avanti il lavoro di identificazione degli autori degli scontri. La loro richiesta: vogliamo celle meno gelide. Nove detenuti arrestati, un paio di agenti di polizia penitenziaria contusi nei tafferugli, suppellettili delle celle sparse qua e là nei corridoi, il presidio delle forze dell’ordine all’interno e anche fuori l’istituto di pena - erano presenti carabinieri e polizia in assetto anti-sommossa - durato tutta la notte. Si può dire però che sia tornata alla normalità la situazione al carcere “Pasquale Di Lorenzo” di Agrigento dopo la rivolta inscenata da una cinquantina di detenuti nel tardo pomeriggio di ieri in cui si sono vissuti lunghi attimi di tensione. Specie quando i detenuti hanno affrontato gli agenti di polizia penitenziaria con mazze di legno e gettando loro addosso anche acqua calda e olio bollente. I nove fermati sono ora accusati di sequestro di persona, resistenza e violenza a pubblico ufficiale, danneggiamento aggravato ma il numero di detenuti che corrono il rischio di incappare in nuove misure di prevenzione è destinato ad aumentare. Già in nottata, su disposizione del procuratore aggiunto Salvatore Vella, arrivato in carcere con i sostituti Elenia Manno e Grazia Cifalinò, le forze dell’ordine hanno preso a visionare i filmati ricavati dalle telecamere a circuito chiuso per identificare gli altri protagonisti della rivolta. Una protesta che avrebbe avuto origine, in particolare, dalle mancate risposte alla richiesta di adeguare il riscaldamento delle celle che per le basse temperature di queste settimane sono diventate gelide. Oltre a sollevare il tema dell’inefficienza dei riscaldamenti i detenuti avevano poi avanzato una serie di altre richieste. Firenze. Centinaia di detenuti chiedono lo sconto di pena per le condizioni disumane del carcere di Andrea Vivaldi La Repubblica, 3 gennaio 2024 Ai sensi della normativa europea si può chiede un giorno di riduzione per ogni 10 passati nel degrado. Poco prima di Natale un gruppo di detenuti ha chiesto uno sconto di detenzione perché era piovuto nelle loro celle e, una volta spostati, si erano ritrovati in spazi sovraffollati. In autunno un altro grappolo di istanze di diversi carcerati fiorentini che lamentavano la presenza di cimici. La situazione a Sollicciano, nonostante alcuni interventi di miglioramento in corso, resta molto difficile. A volte critica. E così ogni anno sui tavoli della magistratura di sorveglianza, al tribunale di Firenze, arrivano decine di richieste di detenuti che, a norma di legge, chiedono una riduzione della pena. Perché hanno dovuto vivere in condizioni inaccettabili. La legge prevede infatti che ogni 10 giorni passati in quello stato di degrado, in cui vengono violati di diritti, si può chiedere un giorno di sconto. In alcuni casi, ad esempio se il carcerato sta ormai per uscire di prigione, può essere chiesto anche un risarcimento economico. “Negli anni a Firenze abbiamo aiutato a presentare centinaia di istanze per far ottenere questo beneficio” spiega Giuseppe Caputo, coordinatore degli sportelli di tutela legale e sociale dell’associazione L’Altro Diritto, che offre assistenza per la compilazione delle pratiche. “La magistratura fiorentina tende a tenere in considerazione nell’accoglimento o meno delle domande soprattutto la disponibilità degli spazi, più che le condizioni abitative difficili. Però a Sollicciano - prosegue - mancano le docce nelle celle e spesso i detenuti devono usare il lavello in cui puliscono anche le pentole. Molti hanno lamentato le cimici nei materassi, le infiltrazioni”. Le richieste così si moltiplicano. Non tutte vengono accolte, anzi. Ma sono un segnale dello stato in cui ancora versa il carcere. “Abbiamo avuto il caso ad esempio di un uomo, condannato a 5 anni per violenza sessuale, che ha avuto una riduzione di 12 giorni per aver passato circa 4 mesi in uno spazio inferiore ai 3 mq (minimo di legge, ndr), oltre che altri problemi legati ai sistemi di raffreddamento, porte e finestre” spiega l’avvocato Antonio Olmi, che lavora a Firenze assieme al legale Lorenzo Nannelli. In passato ci sono state istanze anche dalla sezione femminile a causa di celle con muffe e forte umidità. “A Sollicciano ci provano un po’ tutti i detenuti a chiedere la riduzione, è una possibilità legittima” afferma Eros Cruccolini, garante dei detenuti di Firenze. “Sono in corso lavori da 7 milioni di euro per infissi e cappotto, che dovrebbero finire in questi primi mesi 2024. Dei miglioramenti ci saranno, ma si va comunque ad agire su una struttura vecchia, con problemi storici che rimangono”. Ogni volta il detenuto che chiede lo sconto deve indicare con precisione lo spazio avuto a disposizione in cella, con quante persone stava, se ha subito trattamenti disumani, l’igiene. “L’istanza è molto specifica - spiega l’avvocato Elena Augustin, che ha seguito alcuni casi -. Ogni volta il magistrato chiede una relazione sulla veridicità di quanto esposto e poi valuta se ci sono gli estremi per l’accoglimento”. La prima sentenza (la “Torreggiani”) avvenne nel 2013. Quando la Corte Europa accolse il ricordo di 7 detenuti e condannò l’Italia perché c’erano stati dei trattamenti inumani, degradanti. Fu uno spartiacque. Da quel momento i casi si moltiplicarono. A Firenze il primo fu firmato nel 2015. All’epoca il magistrato di sorveglianza Susanna Raimondo accolse il ricorso dell’avvocato Giovanni Conticelli per un detenuto che lamentò di aver subito “non una detenzione, ma una segregazione”, disse lui stesso. Oggi la situazione di Firenze “è la peggiore in Toscana - spiega Giuseppe Fanfani, garante regionale dei detenuti - poi ci sono Prato, Livorno e Pisa. I carceri sono luoghi di sofferenza inumana che offendono quel dettato costituzionali secondo cui la pena dovrebbe invece essere espletata in condizioni di rieducazione”. Napoli. C’è un grande Parco Verde... di Lea Cicelyn Vanity Fair, 3 gennaio 2024 Siamo stati a Caivano, vicino a Napoli, noto come una delle più grandi piazze di spaccio in Europa dove si sono consumati orrori sui minori. Molte famiglie vivono qui come in una prigione a cielo aperto, vittime di un sistema violento. Lo Stato se ne è finalmente accorto, ma sono le associazioni e le iniziative di alcuni abitanti a contrastare il degrado e a vincere il sentimento di sfiducia nelle istituzioni. Oltre le infinite linee che spaccano Napoli tra destini di criminalità e di società, che demarcano le zone “bene” da quelle “malamente”, a 13,1 km dalla città, ben oltre l’immaginario di chi crede di conoscere il luogo in cui vive, c’è un parco. Si chiama Parco Verde, in molti ne hanno sentito parlare comedi una delle più grandi piazze di spaccio d’Europa, altri ricorderanno i numerosi episodi drammatici che hanno visto protagonisti i minori. Non ultimi gli avvenimenti di quest’estate. Sono passati tre mesi dal blitz ordinato dal governo Meloni per ripulire il quartiere e, dalle testimonianze raccolte, quest’operazione, oltre ad avere avuto un impatto positivo, sembra essere stata accolta con grande favore dai residenti. Il Parco Verde di Caivano è un rione di case popolari che a seguito del terremoto degli anni Ottanta ha accolto numerose famiglie, catapultate in quello che sarebbe diventato un ghetto. Una catastrofe di quarant’anni fa che risulta una ferita mai suturata dagli interventi adeguati. Le abitazioni fatiscenti e il degrado in cui è avvolto il quartiere rivelano che il diritto all’abitare non si limita al possedere una casa. Non c’è un cinema, né un teatro, nemmeno una farmacia all’interno del Parco. Non esistono servizi. Nonostante il verde, il cielo terso, il profumo dei panni stesi ai balconi di abitazioni dalla pulizia impeccabile, il quartiere sembra una prigione a cielo aperto. Le alternative mancano come l’aria, come l’accesso ai diritti di base. Una zona isolata e abbandonata a sé stessa. Un luogo dove la cultura del ghetto si propaga e si diffonde centellinandosi in infinite forme di ghettizzazione, amplificando la paura e l’inadeguatezza nei confronti di qualunque forma di integrazione. Così si facilita la nascita di regole interne, sistemi altri. Forme di sopravvivenza lontane dai controlli, oggetto di curiosità e risonanza mediatica. “Quando sono venuto qui ad abitare era bellissimo, me lo ricordo come se fosse ora. C’era una baracca dove preparavano le merende con il pane fresco nelle ceste e il prosciutto tagliato con il coltello. Qui dentro si veniva a vendere ancora con la carretta portata dai cavalli. Poi è cominciata la mia brutta storia, quella con l’eroina”. È la testimonianza del “Feroce”, soprannominato così perché da giovane era capace di fare a botte con due, tre persone alla volta, lasciando tutti a terra. È arrivato nel Parco da bambino, oggi ha 50 anni. Ha abbandonato gli studi in quarta elementare e a 15 anni ha cominciato quella che lui definisce la sua “discesa verso il fondo”: le rapine, gli scippi, la droga, il carcere e la comunità. Il suo destino simile a quello di tanti altri ha però una peculiarità: è stato l’unico pregiudicato in famiglia. “Io ho sbagliato da solo”, racconta e prosegue: “Avevo degli ottimi riferimenti in famiglia, ma mi sono lasciato portare su un’altra strada, quella spianata. Ma con l’amore di un genitore ci si può salvare. Quello che rimpiango è che ho visto il Parco annaffiato di droga e “a draga accir ‘a gente”. Oggi lavora onestamente, fa il camionista. Mentre parla scambia ogni tanto due parole con Rocky, il pastore tedesco che è la sua ombra. Lo accarezza e dice: “Questo è fedele all’uomo perché non conosce i soldi”. E su un territorio senza alternative, c’è la strada della criminalità per conoscere i soldi, nel quartiere non è difficile incontrarla. Non c’è residente al Parco che non abbia assistito a una sparatoria, a un episodio drammatico o che non abbia traccia sulla propria pelle di un sistema violento. Il dolore cammina accanto alle persone, nelle persone. Salvatore Vitale per esempio ne ha viste molte, forse le ha viste tutte. “Totò, sì ‘a storia”, così gli dicono. Strappato anche lui al quartiere di Materdei all’età di 13 anni, oggi ne ha 52. “Quello che ho visto in questo Parco è uno schifo, quanti morti hanno alzato da terra”. Lo dice con ingenuità e semplicità. Salvatore non è mai andato a scuola, è nato con una disabilità cognitiva a causa di una mancanza di ossigeno durante il parto e la madre non se l’è sentita di affidarsi alle scuole del quartiere. Vive in una casa al terzo piano di viale Tulipano, uno dei sette viali in cui è diviso il Parco. Non è autonomo, è la sorella a prendersi cura di lui. Percepisce una pensione per l’invalidità che supporta la famiglia, il minimo indispensabile per tirare avanti. Poveri e anziani abbandonati: nella Legge di bilancio per loro non c’è un centesimo di Mario Marazziti L’Unità, 3 gennaio 2024 Il presidente Mattarella ha rivolto agli italiani e alla nostra classe dirigente un messaggio di fine anno denso, profondo, forse il più bello dall’inizio dei suoi mandati. Pace e cultura della pace, il monito sulle armi, la responsabilità dei governi di fronte al global warming, una prospettiva esistenziale per i giovani, ancorata nel mondo reale, per resistere alle sirene digitali che si sostituiscono alle relazioni umane, e per resistere al richiamo della violenza: l’inveramento della Costituzione, mai come adesso bussola per il rispetto della dignità umana e l’accesso ai diritti. Con un paio di occhiali offerto a tutti, contenuto nella parola “riconoscere”. Riconoscere i diritti delle persone, che ne sono depositarie prima e indipendentemente dagli stati e dai poteri: e questo contiene un’idea di stato amico, di istituzioni che dialogano con i cittadini per capirli e “riconoscere” la loro dignità, che non respingono, impegnate nella riduzione delle disuguaglianze: un’alternativa alla “cultura dello scarto” - parole di Papa Francesco - per cui alcuni sono esseri umani e altri no. Proprio per “riconoscere” e diventare capaci di riconoscere i diritti umani, che precedono quelli di cittadinanza e quelli civili, sempre più esposti al rischio di essere ristretti a pochi: chi ha esiste, gli altri diventano invisibili - quelli che hanno, invece di quelli che non hanno, e quindi nemmeno “sono”. Un obbligo per quelli che gestiscono potere e hanno ruoli pubblici. I commenti al discorso di Mattarella sono ovunque, ma vorrei soffermarmi solo su una reazione, quella della presidente del Consiglio, che ha sottolineato come vi sia consonanza piena su “sanità e lavoro”: coerentemente, non una parola sui diritti. Non è casuale, infatti, che il 29 dicembre anche un semplice ordine del giorno che avrebbe impegnato il governo all’ovvio, per i fondi delle missioni internazionali come in Libia, cioè a monitorare e tracciare l’uso dei fondi erogati e il rispetto dei diritti umani da parte dei paesi che li ricevono, è stato bypassato. Era l’appello che abbiamo lanciato da l’Unità, e che è stato raccolto e presentato da Ciani (Demos, PD), Onori (M5S), Fratoianni e Bonelli (Verdi e Sinistra): il governo e la maggioranza non vogliono tutelare i diritti umani di chi è detenuto in Libia, né impegnarsi a chiedere trasparenza nell’uso dei fondi erogati. Ma anche sulla sanità le parole del capo del governo non sono vere. Le leggi di bilancio dicono meglio delle parole dove “batte il cuore”: “prima gli italiani che se lo possono permettere”, sì. Gli altri non entrano nemmeno nel numero. Per la sanità pubblica universalistica, essere curati e vivere bene è un diritto indipendente dai cambi di governo e da quanti soldi si hanno. Ma l’accesso alla sanità pubblica è diventato sempre più difficile, silenziosamente si lesina su esami e farmaci, man mano che cresce l’età, incoraggiati da circolari economiciste e da cattiva cultura. Anche i farmaci antivirali - che pure ci sono - spesso non vengono prescritti alle persone a rischio, per patologie ed età. Non sappiamo più i numeri veri dei morti da Covid-19, perché registrati sotto altre cause, tra le “morti con Covid”. Una politica del minimo produce danni durante una pandemia ancora vigorosa associata al picco del virus influenzale: fa vittime, anche se non si sanno e sembra che non ce ne siano. Norme “svuota-pronto soccorso” permettono di inviare i pazienti direttamente presso alcune strutture private convenzionate per acuti, al prezzo dei posti letto per acuti, dando la facoltà di “sforare” il tetto pattuito delle convenzioni con la sanità pubblica. Con “provvedimenti per il popolo” si aumentano i soldi che si danno alla sanità privata, e crescono i costi stessi. Siccome la coperta è quella, restano meno soldi per altri comparti sanitari. La legge di bilancio non copre per la sanità nemmeno i costi dell’inflazione; non programma il rafforzamento della rete di medicina di base: nel 2030 dovrebbero esserci 23.000 posti di medici di base scoperti. La cosa riguarderà 1 un italiano su 2. Non si programma il rafforzamento delle professionalità nei pronto soccorso, né della rete nazionale di specialisti necessari, a partire dai pediatri, già insufficienti in un paese, l’Italia, dove di bambini ne nascono davvero pochissimi. Lo stesso vale per gli infermieri, e non si prevede neppure una corsia di buon senso per il riconoscimento e l’aggiornamento dei titoli degli infermieri che hanno conseguito il titolo all’estero peruviani, filippini già in Italia, e altri che verrebbero volentieri. Ma c’è un caso eclatante, che la presidente dovrebbe capire bene, perché è stata, purtroppo, colpita da “vertigine parossistica”, giramenti di testa e nausea “per colpa degli otoliti”. È una condizione invalidante, doppiamente fastidiosa per chi viene da una vita piena di impegni, volitiva. E merita simpatia e comprensione. Significa che non si riesce, finché dura, a fare quasi niente da soli, anche le funzioni ordinarie, gira tutto, e tutto, per un po’, diventa complicato. È una non autosufficienza temporanea. È un’esperienza istruttiva, che aiuta a mettersi nei panni degli altri: è quello con cui centinaia di migliaia, milioni di persone anziane convivono: il bisogno di aiuto. Non serve l’ospedale, ma qualcuno che aiuti in casa: l’assistenza domiciliare, un caregiver. L’epidemiologia è precisa in proposito: la solitudine è una grande concausa di morte. Non solo per motivi psicologici, perché favorisce depressione e abbandono. Ma anche perché diventa un moltiplicatore quando ci sono altre patologie croniche, anche se non letali. Da soli il rischio di morire, anche senza una malattia grave, raddoppia. A Roma il 40 per cento degli ultraottantenni vive solo. E gli anziani in Italia sono 14 milioni, quasi un quarto degli italiani. Tutte le famiglie sono coinvolte, in qualche modo. L’85 per cento dei decessi per coronavirus ha riguardato persone con più di settant’anni, quelle sopra gli ottanta sono il 56%. Ma otto volte su dieci il bisogno che porta in ospedale - quando si è soli - è sociale, non sanitario, non c’è bisogno di un ospedale specializzato, di un posto-letto. Per gli anziani soli e quelli con poche reti sociali l’istituzionalizzazione è diventata la normalità. Ma c’è un grande MA, che deve fare riflettere e agire diversamente. Nei luoghi di ricovero, R.S.A., istituti, case di riposo, nursing homes, nella prima ondata di Covid-19, quella dei camion militari con le bare da Bergamo, almeno il 42 per cento di tutte le vittime sono state in luoghi di cura, anche se ci vivono solo 3 anziani su 100. Ci sono studi europei che hanno registrato quasi il 60 per cento di tutte le vittime della pandemia nei luoghi di ricovero. E altrettanto negli Stati Uniti e in Canada. Cioè: la casa ha protetto almeno 15 volte di più delle R.S.A e degli istituti, di qualunque tipo, anche senza aiuti e sostegni speciali. È un luogo terapeutico - totalmente sottoutilizzato - che con aiuti specifici può offrire risposte a un gran numero di persone, a costi molto contenuti, e con un vantaggio nella qualità della vita e nella coesione sociale di grande impatto. Non c’è stata una lobby potente che facesse camminare in fretta questa integrazione di modello. Ma c’è stata lo stesso negli ultimissimi anni, una “svolta storica”, definita tale dal governo Meloni, quando il 26 gennaio 2023 ha approvato la Legge Delega per la condizione anziana e la non autosufficienza, che è stata il risultato del lavoro straordinario fatto dal 2020 dalla cosiddetta commissione Paglia. È stata costruita, fino a diventare uno dei grandi progetti trasmessi dal Governo Draghi all’attuale, una “rivoluzione copernicana”, basata proprio sulla casa come luogo terapeutico, fondata sulla medicina di prossimità, con un finanziamento iniziale quantificato - prima volta nella storia - di 4,5 miliardi di euro: per avviare un ripensamento dell’assistenza agli anziani non autosufficienti attraverso un continuum di servizi personalizzati, l’integrazione dei servizi sociali e sanitari, l’assistenza domiciliare integrata, il ruolo delle comunità, senza sradicamento e con grandi risparmi di scala. Ci sono stati nove mesi per metterla a punto. Ci sono voluti quasi venti anni per trovare ascolto, dalla nascita nel 2004 del programma sperimentale Viva gli Anziani, creato dalla Comunità di Sant’Egidio assieme a eccellenze universitarie, che è oggi entrato nelle 50 best practices dell’Onu per il sostegno all’invecchiamento attivo (anche anziani che aiutano altri anziani) e il contrasto della non autosufficienza. MA la legge di Bilancio non ha messo un euro per finanziare quello che per nove mesi il governo ha sbandierato come propria scelta. Paolo Ciani, nella dichiarazione di voto alla Camera il 28 dicembre, sconsolato, ha registrato che per gli anziani, per questa legge che esiste e che è una conquista di civiltà, lo stanziamento è stato zero: “Se non c’è una norma pubblica, se non c’è una norma dello Stato che si interessa dei nostri anziani, chi potrà, avrà risposte, chi non potrà, morirà in solitudine”. Tutto qua. Al governo Meloni e alla maggioranza che in Parlamento ha votato per non finanziare la Legge delega per gli anziani e i non autosufficienti (189 contro 121) l’interesse per la salute e la vita di chi invecchia e ha bisogno di aiuto ad oggi è zero. Come i soldi stanziati. Ci sono tre mesi, prima che tutto decada, per finanziare la Legge Delega. Eppure la presidente del Consiglio dovrebbe capire meglio di che si tratta, dopo questi giorni di fastidiosa, temporanea, invalidità. Può ancora porvi rimedio. Prima che non resti a una gran parte di italiani l’unica prospettiva di vivere male gli ultimi anni, e di morire peggio. Magari in un istituto rifinanziato senza battere ciglio e senza tanti controlli con i soldi di una sanità impoverita e, così, sempre più insostenibile in un paese che invecchia prima e più degli altri. Nelle parole del Capo dello Stato la pace riesce a sconfiggere l’orrore di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 3 gennaio 2024 Guerra. Questa parola fa tremare i polsi delle persone più sensibili e attente. Questa parola si è impossessata anche del Ventunesimo secolo e viceversa. Una parola letta e riletta sui libri di storia, ascoltata nei racconti di chi l’ha vissuta in prima persona, di chi è stato al fronte, indossando una uniforme. Il regista Pupi Avati ha definito la guerra come la “peggiore esperienza che possa vivere un essere umano”. Parole pronunciate da una persona che sa distinguere bene la realtà dalla finzione cinematografica e che vale la pena prendere in seria considerazione. Ma la storia non insegna mai niente? Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha pronunciato la parola guerra, al singolare e al plurale, per ben otto volte nel discorso di fine anno, mandato in onda a reti unificate il 31 dicembre. “La guerra - ogni guerra - genera odio”, ha detto il presidente della Repubblica davanti a milioni di italiani. “E l’odio durerà, moltiplicato, per molto tempo, dopo la fine dei conflitti. La guerra è frutto del rifiuto di riconoscersi tra persone e popoli come uguali. Dotati di pari dignità. Per affermare, invece, con il pretesto del proprio interesse nazionale, un principio di diseguaglianza. E si pretende di asservire, di sfruttare. Si cerca di giustificare questi comportamenti perché sempre avvenuti nella storia”. Il Capo dello Stato con la solennità che impone anche l’appuntamento dell’ultimo giorno dell’anno ha voluto rimarcare la propria preoccupazione per quanto sta accadendo a poca distanza dall’Italia, “nel cuore dell’Europa” e “sulle rive del Mediterraneo”. L’Ucraina si sta avvicinando al secondo anniversario - il 24 febbraio - dell’invasione russa; la Striscia di Gaza è quasi stata rasa al suolo, dopo le incursioni sanguinarie dei terroristi di Hamas nei kibbutz israeliani e nel corso di una festa con migliaia di giovani nel deserto del Negev. Le prospettive per questo nuovo anno sono tutt’altro che rosee. Putin continua a usare un linguaggio da boss, sprezzante per i fratelli - rinnegati - ucraini, stando ben attento a non pronunciare la parola che egli stesso ha vietato in patria: guerra. Chi viola questo divieto rischia grosso, in Russia. Lo dimostrano le tante storie che da oltre due anni Il Dubbio racconta con puntualità. Storie di donne e uomini liberi, desiderosi di esprimere il proprio pensiero e contestare chi ha portato all’isolamento della Russia. Pensiamo all’avvocato e deputato municipale Alexei Gorinov, condannato nella primavera del 2022 a sette anni di carcere per aver esortato “la società civile a fare ogni possibile sforzo per fermare la guerra”. Nelle “ultime dichiarazioni”, davanti al tribunale del distretto di Mescankij, Gorinov ha usato numerose volte la parola vietata da Putin: “La guerra è il mezzo più rapido di disumanizzazione dell’umano, è quando il confine tra il bene e il male si fa labile. La guerra è sempre sangue e violenza, è corpi straziati, è arti strappati. È morte, sempre. E io non l’accetto, anzi la rifiuto”. Il Capo dello Stato non ha nascosto preoccupazione e sgomento. “La guerra - ha aggiunto - non nasce da sola. Non basterebbe neppure la spinta di tante armi, che ne sono lo strumento di morte. Così diffuse. Sempre più letali. Fonte di enormi guadagni. Nasce da quel che c’è nell’animo degli uomini. Dalla mentalità che si coltiva. Dagli atteggiamenti di violenza, di sopraffazione, che si manifestano”. La guerra, per dirla con le parole di Oriana Fallaci, “è un infanticidio rinviato di vent’anni”. Alla parola più inquietante dei nostri giorni Sergio Mattarella ha però contrapposto un’altra - pace -, che lancia un raggio di luce e speranza in questo primo vagito di 2024. La parola pace è stata pronunciata invece nove volte. Una prevalenza casuale o ricercata dal Quirinale? Chissà. Sicuramente il discorso del presidente della Repubblica ci apre ancora una volta gli occhi e ci induce a costruire nella quotidianità, lontano dalle ricorrenze, un mondo più vivibile, più lieto e più giusto, che rifugge la violenza e il linguaggio che la genera. Non sono soltanto errori di Massimo Franco Corriere della Sera, 3 gennaio 2024 È un inizio dell’anno segnato da giochi pericolosi. E il riferimento non è solo alle vittime di chi maneggia con disinvoltura irresponsabile le armi: dai vicoli della provincia campana dove si spara “per scherzo” uccidendo con proiettili vaganti, ai castelli piemontesi dove un parlamentare di Fratelli d’Italia, Emanuele Pozzolo, ha portato a una festa una pistola che ha ferito uno dei presenti. La perplessità è più di fondo. Nasce dai messaggi culturali che, volutamente o meno, arrivano dalla nomenklatura di governo all’opinione pubblica. Sono messaggi che spesso servono da alibi a opposizioni incapaci di offrire valori e principi autenticamente alternativi. Si potrebbe anche liquidare questo sfondo come una somma di spericolati gesti goliardici, classificabili come gaffes. Significherebbe, però, minimizzare fatti che accrediterebbero come “normali” alcuni comportamenti, mentre tali non sono. Meglio dire con chiarezza che in poche settimane l’immagine trasmessa dal governo di destra è passata da un profilo di prudenza e responsabilità, a un ibrido preoccupante. Mescola e intreccia aderenza alla realtà e richiamo di vecchi schemi ideologici, i meno condivisibili. E in qualche caso lascia affiorare perfino una pretesa di impunità che stride con la storia almeno di una sua parte. Tra proposte poi rientrate, per fortuna, di dare armi ai sedicenni, al no al Meccanismo europeo di stabilità, il Mes, fino a ostentati cenni di indulgenza verso gli evasori fiscali e alla rinnovata solidarietà coi gestori degli stabilimenti balneari, agli attacchi a una parte della magistratura, si delinea una sorta di fronte arretrato del governo. È una specie di trincea ideologica scavata nell’illusione di proteggersi da avversari veri e immaginari. Ma rischia di stravolgere qualunque prospettiva di adesione ai valori e alle prospettive dell’Europa, e di offrire una sensazione di debolezza, non di forza della coalizione guidata da Giorgia Meloni. È come se la maggioranza non riuscisse a esprimere l’interesse nazionale nel senso più unitario e politico del termine, limitandosi a riflettere solo quello di una somma di lobby: micro-interessi di pezzi di società, che non solo confliggono con le esigenze di crescita e evoluzione del Paese, ma risultano inevitabilmente in conflitto tra loro: anche tra le stesse forze della coalizione di destra. Non è chiaro come spinte divergenti così potenti potranno trovare un amalgama di qui alle elezioni europee di giugno. D’istinto, verrebbe da dire che avverrà il contrario: si radicalizzeranno e diventeranno più corrosive, regalando di riflesso spazio agli oppositori più estremisti. Ma non può bastare la loro avversione pregiudiziale a giustificare l’involuzione che si avverte in questa fase tra i partiti di governo. Non può non colpire l’autocompiacimento per il potere raggiunto che a tratti manifestano esponenti della maggioranza. Sono frequenti le istantanee di una classe dirigente ansiosa di riempire le caselle a sua disposizione, quasi non avesse tempo e voglia di prepararsi a governare non solo a lungo ma bene. Eppure, se non prevalgono istinti suicidi la legislatura non dovrebbe essere a rischio. La situazione e i rapporti di forza sono tali che permetterebbero di programmare il futuro, costruendolo senza l’affanno delle scadenze elettorali. Una simile impostazione lascerebbe spazio e tempo per portare a compimento un’evoluzione della propria identità senza rimanere ostaggi di quella poco gloriosa del passato, o delle pulsioni deteriori di un sovranismo tanto forte numericamente quanto sterile quando deve diventare cultura di governo e delle alleanze: in Italia come in Europa. Pensare di utilizzare come sponde continentali forze malate del peggiore nazionalismo contro le “prepotenze” di Germania e Francia si rivelerebbe presto un’illusione; ancora più cocente per l’Italia, se il sovranismo populista riuscisse a governare l’Ue. Essere leali nei confronti della Nato, nella difesa dell’Ucraina e a sostegno di Israele potrebbe risultare insufficiente, se a questo non si affianca un europeismo declinato per tutto il 2023 in modo rassicurante. Lo stesso approccio alle riforme istituzionali appare viziato da un eccesso di aspettative e di furbizia; e da un non detto destinato alla fine a emergere in primo luogo tra le forze di destra. Più che una visione complessiva del sistema, il progetto mostra singole riforme in competizione: il premierato di Giorgia Meloni e l’autonomia regionale di Matteo Salvini, con la separazione delle carriere dei magistrati come bandiera dei reduci di Silvio Berlusconi. Ma la sintesi non si vede ancora. Al massimo, emerge una volontà negoziale, un “do ut des” che dovrebbe elidere le contraddizioni. Non sarà facile comporle, però. E non perché sinistra e Movimento 5 Stelle si mettono di traverso. I loro “no”, semmai, sono funzionali a una maggioranza che non esclude di cambiare la Costituzione a colpi di referendum. Anche la dose di improvvisazione che accompagna queste promesse di palingenesi istituzionale potrebbe rivelarsi un “gioco pericoloso”. Soprattutto se dietro a parole di rispetto formale della Costituzione qualcuno sognasse una forzatura tesa a piegarne gli equilibri e le garanzie: proprio quelle che hanno permesso alle minoranze politiche del passato di farsi maggioranza e di governare l’Italia. La destra e la “cultura” delle armi: non c’è solo Pozzolo di Giorgio Beretta* Il Manifesto, 3 gennaio 2024 Una “cronaca politica” di capodanno. Dietro c’è la cultura di governo che vuole le armi da strumento di offesa, a mezzo ordinario per la difesa personale e per la sicurezza pubblica. È diventato un caso politico quanto accaduto nella notte di San Silvestro al deputato di Fratelli d’Italia, Emanuele Pozzolo. Durante la festa di Capodanno nei locali della Pro loco di Rosazza, un paesino in provincia di Biella, dalla pistola regolarmente detenuta dal deputato meloniano è stato sparato un colpo che ha ferito ad una gamba il genero di un agente della scorta del sottosegretario alla Giustizia e compagno di partito Andrea Delmastro, presente alla festa. Il deputato ha dichiarato che non era lui a maneggiare l’arma quando il colpo è partito “accidentalmente”. L’arma sarebbe una North American Arms LR22, un revolver di piccole dimensioni - sta nel palmo di una mano - facilmente occultabile che viene spesso usato come seconda arma. La pistola è stata sequestrata e la prefettura di Biella ha avviato il procedimento di revoca del porto d’armi per difesa personale rilasciato al parlamentare che è ora indagato per lesioni aggravate. Dopo aver inizialmente invocato l’immunità parlamentare, Pozzolo avrebbe acconsentito di sottoporsi allo stub per rilevare eventuali tracce di polvere da sparo non consegnando però i propri abiti ai carabinieri: lo avrebbe fatto solo circa sei ore dopo i fatti. Immunità che però, secondo la Procura di Biella, non doveva essere eccepita perché non era stato chiesto all’onorevole di sottoporsi a perquisizione personale o domiciliare. Pozzolo, 38 anni di professione consulente legale con alle spalle una lunga militanza politica prima in Alleanza Nazionale, poi nella Lega Nord e quindi in Fratelli d’Italia, è stato eletto deputato di FdI nel 2022. In più occasioni si è espresso sui social a favore del possesso delle armi e tra i suoi messaggi - diversi dei quali sono stati cancellati da Facebook dopo il primo gennaio - si trova ancora traccia di alcune sue dichiarazioni: nel 2015, dopo la strage in Oregon, Pozzolo scriveva che “per Obama è sempre colpa delle armi. Eppure io non ho mai visto una pistola sparare da sola”. Che invece è quello che sostiene dopo la notte di Capodanno. E nel giugno del 2016, postava un messaggio su Facebook (oggi risulta cancellato) che iniziava cosi: “L’Ue vuole togliere le armi ai cittadini onesti per combattere il terrorismo. Spieghiamo a questi maiali che…”. È il mantra della lobby della armi che trova in Salvini e oggi soprattutto nei politici di Fratelli d’Italia, la propria sponda politica: il riferimento è Giovanbattista Fazzolari, attuale sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri con delega all’attuazione del programma di governo nel governo Meloni. Non è un caso che proprio Fazzolari, nella scorsa legislatura, sia stato il promotore della legge che nel dicembre del 2021 ha abrogato il divieto di vendita in Italia di armi corte in calibro 9×19 mm parabellum. Vi è poi il senatore di Fratelli d’Italia, Bartolomeo Amidei: lo scorso luglio ha presentato un disegno di legge che, oltre a modificare ampiamente le normative sulla caccia, intendeva permettere anche ai sedicenni di andare a caccia portando legittimamente un’arma a questo scopo. Iniziativa ritirata nelle scorse settimane dopo le polemiche sollevate dalla pubblicazione della notizia. È stato invece approvato dal Consiglio dei Ministri ed è in esame in Parlamento il disegno di legge proposto dal ministro degli Interni, Matteo Piantedosi, che autorizzerà gli agenti di pubblica sicurezza a portare senza licenza un’arma diversa da quella di ordinanza quando non sono in servizio. La norma permetterà a 300mila agenti di girare sempre armati con un’arma propria. Il ministro Piantedosi l’ha spiegata dicendo che l’arma di ordinanza è difficilmente occultabile e che il provvedimento servirà a “impedire la commissione di un reato”. E qui sta il punto. Oggi possono girare armati con un’arma propria acquistabile senza l’obbligo di ottenere una licenza solo prefetti, questori, magistrati e ufficiali di pubblica sicurezza. Ma lo scopo è quello della propria difesa personale: norma comprensibile visto che si tratta di persone che svolgono per lo Stato una professione rischiosa. Il provvedimento del governo è finalizzato alla “pubblica sicurezza”: compito per il quale spetterebbe allo Stato fornire le armi e un addestramento adeguato, che invece, viene dato per scontato. Sono solo alcuni dei provvedimenti messi in campo dalle destre. Ma quello che si vuole ottenere è un ribaltamento della visione delle armi e della “cultura” che le circonda. Da strumento di offesa, il cui possesso va regolato rigorosamente, a mezzo ordinario per la difesa personale e per la sicurezza pubblica. Il prossimo passo sarà l’ennesima modifica alle norme sulla legittima difesa: per rendere - come invocano da anni - la difesa sempre legittima. *Analista dell’Osservatorio Permanente Armi Leggere e Politiche di Sicurezza e Difesa - OPAL Cannabis. Aspettando la legge tedesca, qualcosa si muove di Leonardo Fiorentini Il Manifesto, 3 gennaio 2024 In Germania le difficoltà del Cancelliere Scholz e delle forze politiche che compongono il governo del “semaforo” hanno avuto come conseguenza anche il rinvio del voto al Bundestag sul primo pilastro della riforma tedesca sulla cannabis. In Italia, dopo mesi di martellamento dell’offensiva ideologica e repressiva condotta dal sottosegretario Mantovano a suon di decreti (Antirave e Caivano su tutti), dalla minaccia di aprire carceri per tossicodipendenti e dai fondi dell’8 x1000 e non ultimo da una campagna insulsadi spot televisivi, la società civile ha finalmente risposto. L’ipotesi del referendum per l’abrogazione della pena carceraria per la detenzione di cannabis attraverso il referendum è nella fase della individuazione di un quesito che superi le obiezioni della Corte costituzionale contestualmente alla definizione di due proposte di legge proposte nel seminario del settembre scorso a Firenze organizzato dalla Società della Ragione, per precisare i poteri della Corte stessa nei binari della Costituzione. Nel frattempo è stata condotta da +Europa la campagna dei Venerdì per la democrazia, per la realizzazione della piattaforma pubblica per la raccolta digitale delle firme. Prendendo spunto proprio dalla proposta tedesca, Meglio Legale, insieme ad oltre un nutrito gruppo di associazioni fra cui Forum Droghe, Associazione Luca Coscioni e Antigone, ha lanciato la proposta di legge di iniziativa popolare Io Coltivo che in poche settimane ha già raccolto oltre 25.000 delle 50.000 necessarie per essere presentata in Parlamento. La proposta di legge vuole consentire la coltivazione domestica fino a 4 piante di cannabis per uso personale. Allo stesso tempo prevede la creazione delle Associazioni di Coltivatori (Cannabis Social Club) con lo scopo di coltivare e distribuire il raccolto ai suoi membri (massimo 200). Inoltre è prevista la completa decriminalizzazione dell’uso personale. Sarà quindi consentito il trasporto fino a 30 grammi di cannabis, che è anche il massimo mensile distribuibile ad un socio del club, e la detenzione presso il proprio domicilio del raccolto della coltivazione casalinga. Le sanzioni amministrative oggi previste, come il ritiro della patente e del passaporto, verranno abolite. Resterà punibile la guida in stato di alterazione. L’aspetto più interessante della proposta, introdotto per la prima volta nella proposta di legge elaborata dalle associazioni che da anni elaborano il Libro Bianco sulle droghe, è il ruolo centrale proprio dei Cannabis Social Club. Essi diverrebbero infatti il solo canale distributivo: escludendo il profitto, si delinea un modello che anche nella distribuzione predilige il controllo sociale e permette il passaggio delle competenze fra utilizzatori più e meno esperti. Un controllo che non è più solo legale ma che, come riportato negli studi di Forum Droghe sull’autoregolazione nel consumo di cannabis, trova nei club un setting sociale capace di sostenere e sviluppare le capacità della persona di controllare il proprio rapporto con la cannabis. La cultura legata alla pianta fa di questi luoghi anche un “presidio” di informazione contro l’uso di cannabinoidi sintetici, caratterizzati da livelli di rischio e danno potenziale molto più alti, facilmente accessibili attraverso il deep web e il cui uso - grazie al proibizionismo sulla pianta - è in ascesa fra i più giovani anche in Italia. La campagna di raccolta firme proseguirà fino a primavera, con una serie di eventi in numerose città. Per il momento si può sottoscrivere on line con lo SPID, con firma elettronica e con il sistema TrustPro (in questo caso pagando 3 euro per il servizio). In assenza di piattaforma pubblica i costi (circa 1,20 euro a firma) sono sostenuti dagli organizzatori che hanno avviato una raccolta fondi giunta a sfiorare i 27.000 euro. Firma e dona per la proposta di legge su iocoltivo.org L’agonia del diritto internazionale, travolto dalla legge del più forte di Domenico Quirico La Stampa, 3 gennaio 2024 Anche l’Occidente si adegua alle guerre perfide, asimmetriche, che massacrano i civili: condanna Putin e Assad, ma chiude gli occhi davanti a Gaza: perché conta solo vincere. È una verità tragicamente verificabile ogni giorno, in mille luoghi dove agonizzano umanità sfinite: il diritto internazionale, bellico, umanitario non esiste più, è un postulato, un gesto normativo indimostrabile nella realtà. Non perché qualche onnivora canaglia internazionale o imperversante demagogo riesca a renderlo talvolta inapplicato accumulando orribili abilità. La violazione isolata non fa crollare il sistema, anzi lo rafforza come per qualsiasi sistema giuridico che presuppone la violazione. La ferita è più profonda: ovvero nessuno tiene più conto del Diritto nell’agire nella mischia internazionale o nell’impartire ordini a soldati e guerriglieri. La reputazione strategica si ottiene solo al prezzo di innumerevoli ingiustizie legalistiche e bestiali atavismi. Le Leggi sacrosante servono per la propaganda contro il nemico e per tirarle fuori dagli zaini quando si imbandiranno i processi ai vinti. Nelle guerre e nei confronti tra Blocchi del terzo millennio per tutti è facile compiere il male, come ai tempi degli assiri, ci riescono tutti, a occidente e a oriente. Assumere esplicitamente la realtà inesorabile che viviamo, tutti, in un modo darwiniano sottomessi alla sola legge del più forte, è invece impresa insolita. Stati Uniti auto-assolutori - La esistenza di leggi universali e intangibili è diventata purtroppo una astrazione per cattedre universitarie, osanna di sofisti, petrarchismi legulei per ciarloni da pulpito. Un mondo regolato da norme innegoziabili che l’Uomo può conoscere ed osservare si è raggrinzito a nostro messianismo, un testo rivelato dagli “sviluppati” e regni collegati a “quelli in via di sviluppo” a cui non è concessa che la chance di colmare la giuridica arretratezza e convertirsi alla modernità dei diritti umani. Dietro il sipario, intanto, la guerra è tornata alla sua torva, inumana essenza, guerra da masnadieri ovvero forza e violenza allo stato puro, regolate solo dall’arbitrio e dalla ingiustizia. È una verità che dovrebbe scandalizzare un gran numero di anime sincere in Occidente, dove sono i fondatori di questa religione dell’Umanità con il suo Decalogo, i diritti dell’Uomo. E invece si continua a fingere formule omeopatiche che attribuiscono il delitto agli sciagurati, ai cattivi, agli autocrati, ai fanatici: Putin infatti invade, ammazza i civili con bombardamenti indiscriminati, rapisce bambini... Hamas realizza pogrom di massa e usa ostaggi... Insomma le guerre dei nichilisti che non si affidano certo a lodevoli scartafacci... Noi invece. Sarebbe rassicurante se fosse così. Come la mettiamo ad esempio con la guerra di Gaza? Due democrazie, Stati Uniti e Israele, si scambiano da due mesi incontri e missioni di alto livello per fissare, insieme, il limite “accettabile” di violenza che l’esercito ebraico rovescia ogni giorno sulla popolazione della Striscia. Accettabile: si dice così a Washington dove sono sempre in fregola per processare criminali internazionali. Il perimetro del diritto bellico assegnato ai palestinesi, che certo non sono in massa complici del delitto di Hamas, viene dunque fissato attraverso un accordo contrattuale, come una lustrale transazione tra privati. Ventimila defunti per Biden e Blinken sono evidentemente al di sotto di questa linea, non sono delitto. Per non parlare di distruzione pianificata di costruzioni civili, bombardamento di ospedali, deportazione sotto minaccia della popolazione, impicci alla distribuzione di aiuti umanitari, prigionieri sottratti a qualsiasi controllo internazionale. Post eventa, gli americani si vanteranno di aver svolto una funzione moderatrice. Altro che prognosi giuridiche, nella prassi non sembrano esistere cose impossibili perché troppo immorali. Terrorismo da ricchi - Analizziamo le guerre direttamente americane. Non le tardive reminiscenze di My Lai e del preistorico conflitto nel Vietnam, veniamo all’ultima meraviglia bellica made in Usa, i droni: quale assoluzione si può trovate nel diritto internazionale sul disinvolto utilizzo di questo terrorismo da ricchi che purtroppo la produzione industriale ha ormai messo nelle disponibilità anche di criminali meno sofisticati? Le armi proibite…che fiaba! Bombe a frammentazione, al fosforo, ordigni micidiali che lasciano tracce per sempre, missili la cui imprecisione è la migliore qualità perché fa più danni tra gli innocenti: tutti ne hanno gli arsenali stracolmi e le usano. Diavolo! Servono eccome: a vincere. È colpa degli altri se siamo costretti a questi mezzi. Passanti inermi abbattuti per precauzione, per evitare vittime tra i propri combattenti: siete proprio sicuri che sono regole che trovereste solo nei manuali operativi di jihadisti, russi invasori e sgherri di Bashar al-Assad? Armenia e Sudan dimenticati - Proviamo a far di conto su quanti sono gli orfani del Diritto internazionale; non si risparmiano certo gli zeri. Che potranno raccontare gli armeni cacciati dagli azeri come se fossero armenti entrati nel campo del vicino? E gli otto milioni di fuggiaschi sudanesi a chi si rivolgeranno per veder punita la norma che vieta severamente di sottoporre i civili inermi a violenze e saccheggi? Che vi diranno della loro esperienza del Diritto umano i tigrini che il premio Nobel per la pace, il premier etiope, ha cercato di sterminare con la fame per costringerli ad arrendersi? Chi terrà una lectio magistralis agli abitanti del Niger, del Mali e del Burkina Faso, vittime dei massacri di jihadisti e regolari dell’esercito, e dei bombardamenti a casaccio dei francesi? Nelle guerre di nuovo tipo, bastarde, asimmetriche, annientatrici, in cui rientra anche quella apparentemente classica tra Russia e Ucraina e i suoi alleati, le regole di discriminazione e proporzionalità, che vietano punizioni collettive e invocavano un rapporto tra mezzi impiegati e danni inferti e tra mezzi e scopi, sono impossibili. I civili innocenti sono un lusso che nessuno può permettersi. Oggi la guerra è regolata dalla perfidia, a quella che era un tempo la strategia dei terrorismi si uniformano senza ipocrisia gli eserciti regolari, alle prese con l’enigma irrisolto di debellare un avversario imprendibile, che non si inchina alla maggiore potenza. La reciprocità è il principio della guerra. E così tutti anche le democrazie devono scendere sul terreno della violenza pura. Bisogna vincere. La sconfitta non risparmia nessuno, soprattutto nelle democrazie dove chi è al comando deve sottoporsi al giudizio. Non quello remoto e ininfluente della Storia. Quello degli elettori. Israele. Così la Corte Suprema difende la democrazia di Tania Groppi La Stampa, 3 gennaio 2024 Ci sono giudici a Gerusalemme. L’anno 2024, un anno pieno di incognite per la pace e la democrazia, come ci ha ricordato nel suo denso e accorato discorso del 31 dicembre il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, si apre con una notizia che arriva, proprio il 1° gennaio, dal Medio Oriente martoriato. Per una volta, non è una notizia di guerra. È di una sentenza che si parla, una sentenza della più alta corte di Israele, la Corte suprema che, convocata eccezionalmente nella solenne composizione di 15 giudici, ha annullato la legge fondamentale (una sorta di legge costituzionale), fortemente voluta dal governo Netanyahu, che sottraeva al potere giudiziario la possibilità di annullare gli atti del governo per “irragionevolezza”. Detta così, sembra una questione minimale, imbevuta di “giuridichese”. In realtà, la legge approvata il 24 luglio 2023 dalla Knesset, il parlamento unicamerale controllato dalla coalizione di governo, di cui fanno parte partiti della destra più estrema, costituiva il primo tassello di un progetto molto più ampio di svuotamento del sistema dei “checks and balances”. Gli altri elementi erano la modifica delle norme sulla nomina dei giudici, che avrebbe consegnato al governo il controllo del comitato che seleziona i magistrati; la sottrazione delle leggi fondamentali - che in Israele (paese sprovvisto di una costituzione in senso proprio) hanno il carattere di leggi costituzionali - al sindacato di costituzionalità; l’introduzione di un quorum qualificato (pari all’80% per cento dei suoi componenti) affinché la Corte suprema potesse dichiarare l’incostituzionalità delle leggi; la possibilità per la Knesset di superare a maggioranza semplice qualsiasi decisione giudiziaria. Contro queste norme le componenti democratiche della politica e della società israeliana si sono battute con tenacia, dando luogo a grandi manifestazioni popolari che per dieci mesi, sabato dopo sabato, hanno riempito le piazze e le strade di Israele. Un movimento di mobilitazione mai visto prima in Occidente, benché negli ultimi anni i casi di “regressioni democratiche”, portati avanti a colpi di revisioni costituzionali o legislative dalle maggioranze politiche siano diventati piuttosto frequenti, anche in democrazie fino a ieri considerate “stabilizzate”. Un movimento in cui gli studiosi sono riusciti a far comprendere alla gente l’importanza di strumenti apparentemente distanti dalla vita delle persone, come il “rule of law”, la separazione dei poteri, l’indipendenza del potere giudiziario, la giustizia costituzionale, dando vita a un grande processo di “pedagogia costituzionale”. È soltanto tenendo conto di questo contesto che si può comprendere una decisione come quella del 1° gennaio. Con essa la Corte, con un’ampia maggioranza, di 13 giudici su 15, stabilisce per la prima volta che anche le leggi fondamentali possono essere sottoposte al controllo di costituzionalità, qualora violino i principi supremi, ovvero quei principi non scritti derivanti dal carattere di “Stato ebraico e democratico” di Israele, secondo la formula prevista dalla Dichiarazione di indipendenza del 1948. Inoltre, la legge fondamentale che sottraeva al controllo di ragionevolezza gli atti del governo, rendendone assai più difficile il sindacato da parte dei giudici, viene dichiarata incostituzionale perché ritenuta in contrasto con tali principi supremi, benché con una maggioranza più ristretta, di 8 a 7. In questo modo, il primo tassello del pacchetto Netanyahu è smantellato, grazie a una decisione che già in queste prime ore gli studiosi israeliani definiscono come una “autodifesa” della democrazia costituzionale di fronte a un attacco estremo. Tutto ciò in mezzo a una guerra drammatica, una guerra di cui la Corte suprema si mostra pienamente consapevole, al punto da dire, con le parole della sua presidente, la giudice Hayut, che “anche in questo difficile momento la Corte deve svolgere il suo ruolo, tanto più quando vengono in gioco questioni relative al nucleo essenziale dell’identità di Israele”. Anzi. Come scrive il giudice Amit, è proprio in questo momento che Israele ha bisogno di rafforzare la democrazia: ma l’emendamento che elimina il controllo di ragionevolezza “va nella direzione opposta, e rafforza ulteriormente il potere dell’esecutivo”. Per una volta, non è “guerra”, ma “democrazia” la parola che ci giunge dal Medio Oriente, da Israele, in questo inizio di 2024. Una parola che ci arriva da una Corte, da quindici giudici. Che ci ricordano che la democrazia va difesa sempre, anche in tempo di guerra, anche in tempo di emergenza, e non ci sono scuse. Che la democrazia è ben più del governo della maggioranza: essa non può che essere democrazia costituzionale. Che ciò implica limiti e controlli, pesi e contrappesi, senza i quali non si ha democrazia, ma tirannia della maggioranza. E che i giudici sono chiamati a vigilare su tale nucleo inderogabile di principi, anche laddove, come è accaduto in Israele, il legislatore costituzionale abbia perso la bussola. Quindici giudici che, nelle loro diverse opinioni, che si sviluppano per 738 pagine, hanno potuto nutrirsi delle riflessioni degli studiosi, di un intenso dibattito pubblico, di una attiva mobilitazione dei cittadini. C’è tanto su cui riflettere, per l’anno che inizia, per gli anni che verranno.