Suicidi in carcere, a Imperia il 13esimo dall’inizio dell’anno di Paolo Pandolfini Il Riformista, 31 gennaio 2024 Nella Casa circondariale ligure lunedì, si è impiccato nella sua cella un 66enne in attesa di giudizio per femminicidio. È il 13esimo dall’inizio dell’anno. Il sistema carcerario è una emergenza nazionale. Oltre all’ormai cronico sovraffollamento, le prime settimane del 2024 stanno segnando un incremento senza precedenti dei suicidi tra i detenuti. L’ultima tragedia si è consumata lunedì scorso nel carcere di Imperia dove un uomo sessantaseienne, in attesa di giudizio per tentato femminicidio, si è impiccato nella sua cella. Dall’inizio dell’anno i suicidi dietro le sbarre sono stati tredici, di questi dodici per impiccamento ed uno a seguito dello sciopero della fame. La distribuzione geografica dei suicidi è uniforme nelle carceri italiane ed ha riguardato tutte le fasce di età, dai 23 ai 66 anni, la maggior parte sotto i 39 anni. Nel 2022 c’erano stati ottantaquattro suicidi, sessantanove nel 2023. Per sensibilizzare l’opinione pubblica su ciò che sta accadendo nelle carceri, l’ex parlamentare radicale Rita Bernardini e il deputato di Italia viva Roberto Giachetti hanno iniziato nei giorni scorsi uno sciopero della fame, il Grande Satyagraha, promosso da Nessuno tocchi Caino. Riguardo al tasso dei suicidi nella popolazione carceraria italiana, una ricerca dell’Oms del 2019 ne aveva evidenziato una discrepanza con quello nella popolazione generale. Se il tasso era di 0,67 casi ogni 10.000 persone, in carcere era di 8,7 ogni 10.000 detenuti, di fatto oltre tredici volte in più. L’associazione Antigone che da anni si occupa di carceri ha proposto, per invertire la rotta, una profonda rivisitazione del regolamento penitenziario che dovrebbe prevedere innanzitutto una maggiore apertura nei rapporti con l’esterno, tramite la possibilità di svolgere più colloqui e soprattutto più telefonate in qualsiasi momento. Grande attenzione andrebbe poi posta al momento dell’ingresso e dell’uscita dal carcere, fasi estremamente delicate e durante le quali si verificano spesso dei suicidi. L’entrata in carcere, in particolare, dovrebbe avvenire in maniera lenta e graduale affinché il detenuto abbia la possibilità di ambientarsi. E lo stesso dicasi per la fase di preparazione al rilascio a fine pena, in modo che l’ormai ex detenuto venga accompagnato al rientro in società. Nell’ultima relazione del Garante nazionale dei detenuti è emerso negli ultimi tre anni un aumento costante della popolazione carceraria, con un incremento di oltre ottomila detenuti, corrispondente al 13,31 percento. Insieme all’aumento della popolazione detenuta si è registrata una diminuzione dei posti disponibili, passando dai 3.371 del 2020 ai 3.905 posti in meno nel 2024, con conseguente modica dell’indice di affollamento, passato dal 113,18 percento nel 2020 al 127,48 percento attuale. Per Gennarino De Fazio, segretario della Uil polizia penitenziaria, servirebbe poi una gestione esclusivamente sanitaria dei detenuti malati psichiatrici e percorsi alternativi per i tossicodipendenti che sono ormai la maggioranza. A parte le iniziative radicali e di Italia viva, sul fronte della politica tutto tace. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio recentemente ha paragonato i suicidi in carcere ad una ferita, ad una malattia da accettare. Una affermazione che non è condivisa da tutta la maggioranza di centrodestra. “Come ho già avuto modo di dire in diverse occasioni, l’ecatombe dei suicidi nelle carceri ci impone di intervenire urgentemente, altrimenti quest’anno rischiamo davvero di arrivare al record assoluto”, ha ricordato il senatore Pierantonio Zanettin, capogruppo di Forza Italia in Commissione giustizia a Palazzo Madama. “Non possiamo certo rassegnarci di fronte a questi numeri così impressionanti: il detenuto è un uomo inerme nelle mani dello Stato che ha il solenne dovere di garantirne la salute del corpo e anche dell’anima”, ha aggiunto Zanettin, ricordando che “non possiamo certo aderire alla cultura dell’indifferenza e dello scarto, come più volte ci ha ammonito Papa Francesco”. “Qualcosa si deve fare per evitare questa deriva suicidaria”, ha quindi concluso il senatore azzurro. Un auspicio che si spera venga raccolto. “I suicidi in cella un’emergenza assoluta: Nordio ora intervenga” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 31 gennaio 2024 Francesco Bonifazi, deputato di Iv e fedelissimo di Renzi, si dice d’accordo con la proposta lanciata su queste colonne da Francesca Scopelliti di nominare Beniamino Zuncheddu senatore a vita. “Uno dei più grandi errori giudiziari della storia, commenta Bonifazi che poi definisce “non accettabile” il trattamento riservato a Ilaria Salis. Onorevole Bonifazi, che idea si è fatto del caso Salis e di come il nostro governo sta gestendo la situazione? Non voglio entrare sui presunti reati che Ilaria Salis avrebbe commesso e per cui peraltro si professa innocente ma non è accettabile che nel 2024, in un Paese che fa parte a pieno titolo dell’Unione europea, una donna, per giunta cittadina italiana, sia tenuta in condizioni di detenzione lesive della sua dignità. È stata tenuta in carcere per 35 giorni senza cambi d’abito, senza biancheria pulita. È stata condotta con mani e piedi legati in tribunale, con una catena, come se fosse un cane. Non è accettabile. Quello che mi auguro è che il governo riesca a riportarla a casa perché se così non fosse saremmo davanti a un fatto gravissimo. Il governo non può permettere che i diritti umani di una cittadina italiana siano violati in questo modo. Per giunta, Giorgia Meloni vanta ottimi rapporti con il premier Orban: si sono sentiti, ora mi auguro che li usi per riportare a casa Ilaria anziché per giocare a costruire una maggioranza di destra in Europa che è già traballante nelle proiezioni. Cosa pensa possa fare il governo per risolvere la questione? Quello che mi auguro è che il governo stia lavorando in silenzio per riportarla la forza della doppia destra europea, i conservatori e il gruppo radicale di Identità e Democrazia, perché solo in caso di un’affermazione davvero minacciosa i governi prenderebbero in seria considerazione la necessità di inaridire con ogni mezzo le due fonti che gonfiano i torrenti elettorali della destra, l’immigrazione e la crisi economica. Anche il Piano Mattei, insomma, è parte della cospicua posta in gioco in quelle che si profilano come le prime elezioni europee davvero importanti. Il ministro Lollobrigida ha detto di non aver visto le immagini di Salis in catene, mentre Tajani si sta muovendo la diplomazia: crede ci sia tensione tra Fi e Fd’I? Lollobrigida potrebbe avere una carriera come cabarettista: peccato che sia un ministro e non un comico. Anche se con lui i due aspetti si confondono. Il cognato della premier è totalmente inadeguato al ruolo che svolge: ogni volta che apre bocca danneggia il suo stesso partito. Dalla fenomenale idea della pastasciutta nello spazio lanciata al Tg1, ai proclami sul letame, non ne azzecca una. Ma vede, questa risposta sulla Salis dimostra un’arroganza insopportabile, la stessa che gli fa pensare di poter fermare un treno a suo piacimento. Quanto a Tajani, che dire: si accorge ora della situazione in cui versa una cittadina italiana? Mi auguro che lavori per portarla a casa. A gennaio si sono già registrati 13 suicidi in carcere, record assoluto per il primo mese dell’anno che fa pensare a quali angosciati numeri potrebbero essere toccati quest’anno: il governo dovrebbe fare di più su questo? I numeri dei suicidi in carcere dimostrano che si sta parlando di una vera e propria emergenza. Quei cittadini sono sotto la responsabilità dello Stato, che dovrebbe vigilare e provvedere allo loro integrità fisica e psichica. Fra sovraffollamento, carenza di personale, strutture fatiscenti, la situazione è drammatica. Il Ministro Nordio ha il dovere di intervenire ma qui si parla di un problema sistemico: molte persone in carcere, come denuncia da sempre il mio amico Bobo Giachetti, non dovrebbero starci. Non parlo solo di chi è sottoposto a carcerazione preventiva, ma anche dei malati psichici. A proposito di carcere, Beniamino Zuncheddu e stato liberato dopo 33 anni di carcere da innocente: condivide la richiesta a Mattarella di nominarlo senatore a vita? Questa è una storia che mi ha riempito di angoscia. Uno dei più grandi errori giudiziari della storia. Nominarlo senatore a vita sarebbe un modo per accendere un faro sulla mala giustizia e la proposta mi trova d’accordo. Ma quello che davvero serve è una riforma della giustizia vera, non i palliativi che vengono proposti da questo Governo. Mi auguro che il signor Zuncheddu riceva un risarcimento adeguato anche se nessuno potrà restituirgli i 33 anni di vita persa. La libertà, gli affetti, non hanno un prezzo e niente riuscirà a riparare a tanto dolore. Carceri, abuso d’ufficio, garantismo: ieri azione ha lanciato le sue proposte, crede che sulla giustizia sia ancora possibile il dialogo tra centristi, anche in vista delle Europee? Le proposte dell’amico Enrico Costa sono condivisibili. Italia Viva combatte fin dalla sua nascita una battaglia per una giustizia giusta: con Enrico abbiamo votato e combattuto in Parlamento condividendo la stessa visione, garantista. Il problema non siamo noi: è Carlo Calenda che non ha ancora fatto pace con il garantismo. Difficile dimenticare le sue dichiarazioni che più che a un centrista si addicono a un grillino. Ma noi andiamo avanti consapevoli che la mancata riforma non dipende certo dalla volontà del Ministro Nordio o dei centristi, ma da Fratelli D’Italia che rallenta la riforma con la scusa del premierato. In compenso, ogni giorno si inventano nuovi reati: alla faccia del garantismo. Mi chiedo ancora come forza italia possa accettare questa situazione: è proprio vero che, dopo la scomparsa di Berlusconi, gli azzurri hanno perso la loro identità sacrificata sull’altare del melonismo. Carcere, i colloqui intimi ora sono un diritto di Sarah Grieco Il Manifesto, 31 gennaio 2024 Non credo che esageri chi ha definito come “storica” o “rivoluzionaria” la sentenza con cui, pochi giorni fa, la Consulta ha dichiarato incostituzionali i controlli visivi durante i colloqui in carcere, senza concrete ragioni di sicurezza che li giustifichino. La pronuncia 10/2024 lo è davvero. I motivi sono tanti. Proviamo a riassumerli. Il primo. La Corte ha finalmente allineato il nostro paese alla stragrande maggioranza degli ordinamenti europei, dove il diritto alle visite intime è garantito da anni. Il secondo. I giudici costituzionali hanno “bollato” come irragionevole e lesiva della dignità della persona, ogni restrizione di un diritto o di una libertà senza un limite o una giustificazione. La libertà non può essere annullata da una prescrizione generale ed astratta; serve un “limite concreto”. Come a dire che, una volta varcata la soglia del carcere, non si è privati di tutti i propri diritti per essere sottoposti ad un “generale assoggettamento all’organizzazione penitenziaria” dello Stato. Occorre una ragione per la loro limitazione. La Corte ha così applicato quel principio fondamentale della storica sentenza n.26 del 1999, secondo la quale “i diritti inviolabili dell’uomo… trovano… nella restrizione della libertà personale i limiti a essa inerenti… ma non sono affatto annullati da tale condizione”. Il terzo. La pena, con questa sentenza, riacquista il suo “volto costituzionale”: la sofferenza è legittima solo se inflitta “nella misura minima necessaria”. Il diritto all’intimità, prima ancora che alla sessualità, da “esigenza reale e fortemente avvertita” diventa un diritto esigibile; da “problema che merita ogni attenzione” si tramuta in libertà. Finalmente, dopo anni di latitanza legislativa, di riforme frustrate, di progetti pilota rimasti tali le persone ristrette, anche nel nostro Paese, potranno riappropriarsi di quello che, sempre la Corte, aveva definito come uno “degli essenziali modi di espressione della persona umana”. Tutto questo è stato possibile anche grazie ad un’ordinanza di remissione, quella del Magistrato di Sorveglianza di Spoleto, inattaccabile. Oltre ad essere “storica”, la pronuncia 10/2024 è coraggiosa. Anziché utilizzare un meccanismo di rinvio, per consentire al legislatore di adeguarsi, con una sentenza additiva di principio, dichiara l’art. 18, nella parte sanzionata, come norma irragionevole e lesiva della dignità delle persone e, pertanto, illegittima. Senza ulteriori dilazioni. Ai giudici non sfugge, di certo, l’”impatto che l’odierna sentenza è destinata a produrre sulla gestione degli istituti penitenziari” e dello “sforzo organizzativo che sarà necessario”; ma tant’è. Troppo è stato il tempo trascorso dal monito del 2012 a cercare un punto di equilibrio tra sicurezza e diritti. E proprio per questo la Consulta richiama, ora come allora, il legislatore alle sue responsabilità. Occorre normare i tempi, gli spazi, le modalità. I giudici costituzionali indicano i principi ai quali il legislatore dovrà ispirarsi. La Società della Ragione, festeggia quella che è una grande vittoria, dopo anni di ricerche e proposte di legge E con noi si rallegreranno gli oltre 200 giuristi e personalità che si sono spesi a fianco del prof. Andrea Pugiotto, estensore e primo firmatario dell’appello Il corpo recluso e il diritto all’intimità. Alla Magistratura di sorveglianza e all’amministrazione penitenziaria non resta che adeguarsi; perché, anche grazie al sapiente lavoro di avvocati tenaci, le istanze di “visite intime” arriveranno. E tante. Dopo anni di “castrazione generalizzata”, di sguardi continui, di controllo incessante, dove anche solo un gesto di affetto poteva essere sanzionato, saranno tante/i le detenute/i che reclameranno il loro diritto a rapporti familiari “normali”, come raccomandato dalle Regole penitenziarie europee. Il Garante Ciambrello: togliere diritto alla libertà, non alla dignità di Roberta Barbi vaticannews.va, 31 gennaio 2024 Il nuovo portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà personale illustra i problemi che affliggono l’istituzione detentiva: sovraffollamento, emergenza sanitaria e bambini in carcere le questioni più urgenti sul tavolo. Coinvolgere maggiormente il Terzo Settore all’interno degli istituti di pena, istituire la liberazione anticipata a 70 giorni per buona condotta e offrire più occasioni di lavoro: questi i buoni propositi sui cui s’impegna a lavorare in questo 2024 iniziato da circa un mese e che lo vedrà portavoce della Conferenza dei garanti territoriali, Samuele Ciambrello, già garante dei diritti delle persone private della libertà personale per la Regione Campania. “Bisogna che si capisca finalmente che meno carcere significa più sicurezza; il 70% delle persone che tornano a delinquere (il dato attuale delle recidive in Italia ndr) è perché non hanno incontrato sul loro cammino in carcere cappellani, volontari, operatori - afferma - alle persone detenute viene tolto il diritto alla libertà, ma non deve essere tolto quello alla dignità”. Puntare sulle misure alternative - A inizio 2024, dati alla mano, le persone detenute in Italia ammontano a 60mila, contro una capienza di circa 47mila. “Abbiamo più di novemila detenuti che hanno condanne da un mese a 3 anni, oltre a circa 22mila che hanno un residuo pena che non supera i 3 anni - ha detto ancora - per migliorare la situazione l’unica è puntare sulla depenalizzazione e sulle misure alternative”. Ci sono, inoltre, 35mila detenuti migranti, che sono affetti da dipendenze o che hanno problemi di natura psichiatrica: “In pratica sono 35mila detenuti che oltre a essere in carcere hanno un problema in più che va affrontato - spiega Ciambrello - se è cambiata l’identità di chi entra in carcere, è necessario anche un aggiornamento delle figure professionali che vi lavorano, a partire dagli assistenti sociali, ma anche dagli psicologi e gli psichiatri”. Nel 2024 ancora 20 bambini in carcere - Del dramma dei bambini in carcere, il portavoce ha un’esperienza diretta: uno dei quattro Icam (Istituti a Custodia Attenuata per Madri ndr) presenti sul territorio nazionale, infatti, si trova a Lauro, in provincia di Avellino: “Ci vivono bambini la cui prima parola non è stata ‘mamma’ come sarebbe giusto, ma ‘apri’, ‘chiudi’ o addirittura ‘cella’ - racconta - nella scorsa legislatura per queste mamme era stata approvata la detenzione in comunità alloggio; ora, invece, con la possibilità concreta che le misure alternative per le mamme diventino facoltative il rischio è di tornare a riempire questi Icam”. Un’emergenza sanitaria costante -Nel 2008 Ciambrello fu tra i sostenitori della riforma sanitaria penitenziaria, quella che portò le competenze alle aziende sanitarie locali e territoriali, sancendo di fatto che il diritto alla salute è fondamentale e unico sia per i cittadini liberi che per quelli detenuti. “Capisco che ci siano delle difficoltà oggettive, ma il rimpallo delle responsabilità che si vede tra sanità e amministrazione penitenziaria offende le istituzioni - è il grido d’allarme del portavoce dei garanti - a volte arrivano specialisti nelle carceri per effettuare 25 o 30 visite, ma per vari motivi riescono a visitare solo una decina di ristretti; oppure capita che arriva il giorno di una visita esterna necessaria, ma il detenuto non ci può andare perché all’ultimo momento non è disponibile il nucleo di traduzione. E bisognerebbe anche rimettere mano ai reparti penitenziari negli ospedali che sono ancora troppo pochi in tutte le Regioni”. Infine, ma non certo per ultimo, il problema dei tossicodipendenti e degli psichiatrici che sono di fatto detenuti assieme ai ristretti comuni, mentre avrebbero bisogno di altre strutture, più specializzate, e non del carcere dove c’è spesso “troppa psichiatrizzazione e troppa approssimazione”. “Accade che molte famiglie di queste persone denuncino i propri figli per aggressioni, maltrattamenti o estorsioni pensando che il carcere possa aiutarli - conclude il garante - ma il carcere non è la risposta a tutto e anche le Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza ndr) non possono risolvere tutti i problemi”. Lavoro per i detenuti: accordo Dap, Fipe-Confcommercio e Seconda Chance di Marco Belli gnewsonline.it, 31 gennaio 2024 Un accordo quadro per la realizzazione di interventi qualificati finalizzati a promuovere attività formative e lavorative e a favorire il reinserimento sociale dei detenuti. Lo hanno sottoscritto oggi in Via Arenula, alla presenza del Sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari, il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Giovanni Russo, il Vice Presidente Vicario della Federazione Italiana Pubblici Esercizi (Fipe-Confcommercio) Aldo Mario Cursano e la Presidente dell’Associazione “Seconda Chance” Flavia Filippi. L’intesa vuole mettere insieme la vasta rete di oltre 335 mila aziende del settore della ristorazione, dell’intrattenimento e del turismo che fanno riferimento a FIPE e l’impegno associativo dei collaboratori di Seconda Chance che da oltre tre anni operano su tutto il territorio nazionale, consolidando una collaborazione già in atto da tempo. L’obiettivo è quello di creare, promuovere e realizzare opportunità di formazione e lavoro all’esterno degli istituti penitenziari per tutti quei detenuti che, per requisiti e posizione giuridica, saranno individuati dall’Amministrazione Penitenziaria. “L’accordo - ha sottolineato il Sottosegretario Ostellari - permetterà ai detenuti in possesso dei requisiti e più meritevoli di lavorare all’esterno e di rientrare la sera in carcere. Ma consentirà anche a un numero maggiore di detenuti di lavorare all’interno degli istituti penitenziari. Favorire la loro rieducazione costituisce un investimento nel futuro della comunità”. L’iniziativa, che avrà la durata di un anno e sarà automaticamente rinnovabile, rientra nell’ambito del programma di azioni che il Dap ha avviato - con il supporto, fra gli altri, di associazioni di categoria del settore imprenditoriale e di associazioni del terzo settore - per dare impulso a progetti di cooperazione istituzionale finalizzati a migliorare le condizioni di trattamento dei detenuti e a favorire il loro reinserimento nella società e nel mercato del lavoro attraverso qualificati percorsi formativi e lavorativi. Le imprese coinvolte da Fipe-Confcommercio saranno informate del regime di agevolazioni fiscali previste per chi assume detenuti e accompagnate all’interno degli istituti penitenziari dai rappresentanti di Seconda Chance. Qui si svolgeranno i colloqui con i detenuti in possesso dei requisiti necessari e quelli che saranno selezionati potranno essere ammessi al lavoro all’esterno, previsto dall’art. 21 dell’Ordinamento Penitenziario, regolarmente retribuiti. “Offrire opportunità alla voglia di riscatto dei detenuti, sotto forma di formazione professionale o di impiego lavorativo, costituisce la mission della nostra Amministrazione, così come l’ha prevista l’art. 27 della nostra Carta costituzionale”, ha detto il Capo del Dap Giovanni Russo. “Un aiuto importante può venire dalla società esterna: da associazioni di esercenti che si fanno portatrici degli interessi, ma anche delle possibilità offerte da oltre 335 mila imprese su tutto il territorio nazionale e da associazioni di volontariato capaci di portare il mercato del lavoro all’interno degli istituti penitenziari, favorendo il recupero di chi deve ritrovare un posto nella società. Ringrazio Fipe-Confcommercio e l’Associazione “Seconda Chance” per aver voluto essere parte di un impegno sociale importante”. “Oltre al suo valore economico, non dobbiamo dimenticare che il lavoro ha soprattutto un importante significato sociale. Un’organizzazione di rappresentanza come la nostra deve fare la sua parte attraverso nobili iniziative come questa che ufficializziamo oggi”, ha dichiarato Aldo Cursano, Vice Presidente di Fipe-Confcommercio. “È per questa ragione che la nostra Federazione è onorata di siglare questo significativo protocollo con Seconda Chance - di cui ammiriamo l’impegno e la determinazione - e il Dap. Oggi iniziamo un percorso che dà vita a una lunga serie di iniziative e promuove il lavoro come strumento di inclusione, dignità e integrazione, simbolo di una ritrovata dimensione sociale”. “Fipe-Confcommercio è stata vicina a Seconda Chance fin dagli esordi, da Romolo Guasco a Sergio Paolantoni a Roberto Calugi. Ho sempre sentito il loro sostegno e ho sempre desiderato che la nostra collaborazione diventasse più strutturata. Seconda Chance è un’associazione artigianale e microscopica ma grintosa, aspira ad essere presente in tutto il territorio nazionale, in poco tempo è diventata punto di riferimento per l’intera popolazione carceraria che sommerge di richieste di aiuto l’indirizzo mail info@secondachance.net. Sapere che Fipe-Confcommercio è ufficialmente al nostro fianco ci dà grande forza”, ha commentato la Fondatrice e Presidente di Seconda Chance, Flavia Filippi. L’anno nuovo ricomincia con gli attacchi delle toghe alla politica di Ermes Antonucci Il Foglio, 31 gennaio 2024 Alle inaugurazioni dell’anno giudiziario i magistrati si esprimono contro le riforme in esame al Parlamento: abuso d’ufficio, separazione delle carriere, premierato. E c’è chi parla persino dei danni provocati dal maggioritario. No all’abrogazione dell’abuso d’ufficio, critiche alle riforme della giustizia promosse dal ministro Nordio, bocciatura del premierato e persino riflessioni sui danni provocati dal sistema maggioritario. Più che cerimonie di inaugurazione dell’anno giudiziario, quelle andate in scena lo scorso fine settimana nelle sedi delle corti d’appello sono sembrate cerimonie di inaugurazione dell’ennesimo anno di esondazione della magistratura nel campo della politica. Diversi magistrati alla guida degli uffici giudiziari, infatti, hanno approfittato dell’occasione per lanciare siluri contro la classe politica o attaccare alcune delle riforme attualmente sotto esame del Parlamento, che in un paese normale dovrebbero rientrare nella sfera di autonomia del potere legislativo. Tra decine di interventi, ne abbiamo selezionati alcuni. L’intervento più “politico” è stato senza dubbio quello tenuto dal presidente della Corte d’appello di Bari, Francesco Cassano. Alla presenza del viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto, Cassano si è spinto a criticare la riforma costituzionale del premierato: “La riforma costituzionale del premierato elettivo, che mira a rafforzare il potere del governo e a ridurre i contrappesi, potrebbe avere ricadute anche sul potere giudiziario”, ha detto, sottolineando che “il previsto premio di maggioranza rischia di vanificare la ratio pluralista sottesa al quorum dei tre quinti dei voti del Parlamento in seduta comune, necessario per l’elezione dei membri laici del Consiglio superiore della magistratura, quorum che potrebbe essere raggiunto facilmente, senza alcun confronto con l’opposizione”. Peccato che l’eventuale premio di maggioranza (che nell’esame della riforma rischia pure di saltare) sarebbe del 55 per cento dei seggi, dunque inferiore al quorum richiesto dalla Costituzione per l’elezione dei laici del Csm. Ma non è tutto. Il presidente della Corte d’appello di Bari si è lanciato anche in una riflessione quasi politologica del sistema maggioritario: “La critica al provvedimento che trasmoda nell’aggressione a chi lo ha emesso appare uno dei frutti avvelenati del sistema maggioritario, introdotto sull’onda della crisi dei partiti politici ed evidentemente non fondato su un’area estesa ed omogenea di valori condivisi - ha detto -. Ne è seguita una ennesima anomalia italiana, un fondamentalismo maggioritario, una politica talvolta intollerante a qualsiasi forma di controllo da parte dei poteri di garanzia”. Cosa c’entri tutto ciò con l’inaugurazione dell’anno giudiziario non è dato sapersi. Anche il presidente della Corte d’appello di Palermo, Matteo Frasca, nella sua relazione ha criticato l’ipotesi di separazione delle carriere (“che continuo a ritenere inutile ai fini per i quali è stata concepita e pericolosa per la funzione della magistratura requirente”), il “progetto globale di riassetto del rapporto tra i poteri dello stato” e anche “l’intendimento di declassare il principio di obbligatorietà dell’azione penale dalla fonte costituzionale a quella della legge ordinaria”. Frasca ha poi attaccato l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio, sotto esame del Parlamento, sostenendo che “la paura della firma è un falso problema, la verità è che si temono i controlli”. No alla riforma anche da parte del procuratore generale di Genova, Mario Pinelli: “Non solo una decisione di tipo abrogativo contrasterebbe con le indicazioni dell’Unione europea, anche recentemente ribadite, e con la Convenzione Onu di Merida del 2003 ma, soprattutto, essa eliminerebbe un importante reato-spia rispetto a fenomeni delinquenziali più gravi”. Anche in questo caso una serie di inesattezze: dall’Ue non sono affatto giunte indicazioni contrarie all’abrogazione dell’abuso d’ufficio (la Commissione ha elaborato una proposta di direttiva, non ancora approvata), mentre il reato non è previsto come obbligatorio dalla Convenzione di Merida. L’idea che un reato debba esistere in quanto reato-spia, poi, contrasta con qualsiasi idea liberale del processo penale. Inesattezze ripetute anche a Napoli dal procuratore generale facente funzioni, Antonio Gialanella: “Ricordiamo che una direttiva europea va in direzione assolutamente contraria” (la direttiva, come detto, non esiste). Non poteva esimersi dall’intervenire sul piano della polemica politica il procuratore capo di Napoli, Nicola Gratteri, che ha criticato “gli interventi spot” del legislatore in materia di giustizia, rincarando poi la dose: “Bisogna che si siedano attorno a un tavolo gli addetti ai lavori, i magistrati, gli avvocati che vanno ogni giorno in udienza e che sanno veramente di cosa c’è bisogno per far funzionare il processo penale. Mettendo gente calata dall’alto, luminari di dottrina ma che non sono stati mai un giorno in udienza, abbiamo visto poi i risultati quali sono, e cioè la riforma Cartabia. E queste piccole riforme, cosiddette riforme Nordio, sono la conseguenza, la prosecuzione della riforma Cartabia”. Altro che inaugurazione dell’anno giudiziario. Ciò a cui si è assistito è la cerimonia funebre del principio di separazione dei poteri. “L’ingiusta detenzione è una piaga: sanzioniamo i pm che sbagliano” di Angela Stella L’Unità, 31 gennaio 2024 Il deputato di Azione Enrico Costa presenta la sua proposta di legge: “Dal 1994 sono state ingiustamente private della libertà 100mila persone”. Una proposta di legge per sanzionare sul piano disciplinare il magistrato che ha determinato una ingiusta detenzione: l’ha rilanciata ieri l’onorevole di Azione Enrico Costa durante una conferenza stampa convocata per illustrare i risultati sulla giustizia e una pdl su lobbying e conflitti di interesse. Sulla scia del caso Zuncheddu e sulla “necessità di riavvolgere il nastro per capire chi ha sbagliato” ha detto Costa, la sua pdl si prefigge l’obiettivo di trasmettere la sentenza che accoglie la domanda di riparazione per ingiusta detenzione agli organi titolari dell’azione disciplinare nei riguardi dei magistrati, per le valutazioni di loro competenza. Come si legge nella relazione “dal 1992 al 2020 30.000 persone hanno ricevuto l’indennizzo per ingiusta detenzione, con una media di 1.000 all’anno. Poiché il 77 per cento delle richieste di indennizzo vengono respinte, si può stimare che a essere privati ingiustamente della libertà personale negli ultimi trenta anni siano state quasi 100.000 persone. La spesa che lo Stato ha dovuto sostenere ammonta a quasi 900 milioni. Di fronte alle assoluzioni di persone che erano state arrestate, ha pagato solo lo Stato, mentre nessuna sanzione disciplinare è stata comminata a chi ha sbagliato. Dai dati forniti dal Ministero della giustizia su richiesta della Corte dei conti, emerge che negli anni 2016-18 sono stati aperti 3 fascicoli disciplinari (su 1.000 ingiuste detenzioni), tutti chiusi con l’archiviazione; nel 2019, zero fascicoli aperti”. Si chiede il vice segretario di Azione: “di fronte a tali situazioni che colpiscono le famiglie, l’attività lavorativa, la credibilità di soggetti che entrano nel sistema carcerario o la cui libertà personale viene ingiustamente limitata, può essere ammissibile che a pagare sia sempre e soltanto lo Stato?”. La risposta è no: per Costa si deve “abbandonare la cultura della comoda deresponsabilizzazione a favore di un più diretto e penetrante controllo sull’operato del magistrato”. Nella stessa conferenza stampa, il parlamentare ha illustrato altresì una pdl in materia di pubblicità delle sentenze di assoluzione o proscioglimento. La proposta del responsabile giustizia di Azione punta a potenziare le attribuzioni del Garante per la protezione dei dati personali affinché possa intervenire entro 48 ore se il direttore o il responsabile di una testata giornalistica, radiofonica, televisiva o online non dia notizia della sentenza assolutoria o di proscioglimento su richiesta dell’interessato nello stesso modo in cui è stata data notizia dell’indagine. Come è noto molti giornali e tg danno ampio spazio alle notizie degli arresti o di indagini, soprattutto su personaggi eccellenti. Tuttavia quando arriva l’assoluzione quasi nessuno ne dà atto: un po’ perché per i propri lettori non fa notizia, un po’ perché non si riesce ad ammettere l’errore, un po’ anche perché forse non lo si sa visto che le Aula di tribunali duranti i processi, ossia quando si forma la prova, restano semideserte. Eppure il Testo unico dei doveri della stampa all’articolo 8 prevede che il giornalista “in caso di assoluzione o proscioglimento, ne dà notizia sempre con appropriato rilievo e aggiorna quanto pubblicato precedentemente, in special modo per quanto riguarda le testate online”. Tuttavia la deontologia è spesso sottovalutata. Durante l’incontro con i giornalisti Costa ha illustrato anche un bilancio di quanto fatto in materia di giustizia dai banchi dell’opposizione specificando che “i nostri risultati non sono frutto di blitz ma di una visione complessiva”. Ma quali sono i risultati ottenuti? Rimborso spese legali agli assolti fino a 10.500 euro, diritto all’oblio per gli assolti tramite la deindicizzazione dei contenuti relativi al procedimento penale da parte dei motori di ricerca, recepimento della Direttiva sulla presunzione di innocenza, “sulla prescrizione siamo stati i primi a presentare una pdl e poi le altre forze politiche ci sono venute dietro, abbiamo trainato la maggioranza convinta ma timida sul tema” ha specificato Costa, divieto di pubblicazione integrale o per estratto del testo dell’ordinanza di custodia cautelare. Poi è passato ad elencare le proposte assorbite nel ddl Nordio in procinto di arrivare nell’Aula del Senato: abrogazione dell’abuso di ufficio, interrogatorio dell’indagato prima dell’esecuzione della custodia cautelare, giudice collegiale per decidere sulla misura cautelare, iniziative normative in materia di intercettazioni telefoniche e ambientali, con particolare riferimento alla loro diffusione, soprattutto se riguardano terzi non indagati e vengono estrapolate dal contesto generale. “Sulla separazione delle carriere - ha concluso Costa - il Governo ha tirato il freno a mano, ma aveva consentito l’approvazione di una nostra mozione che impegnava il Governo a farlo. Poi è arrivato il premierato e tutto si è fermato. Noi continueremo a insistere perché questo tema venga affrontato sia in commissione che in Aula, per capire se c’è una convergenza su questa”. Quale risarcimento potrà mai restituire a Beniamino Zuncheddu 33 anni di vita? di Paola Balducci Il Dubbio, 31 gennaio 2024 È possibile porre rimedio a una condanna ingiusta? Come dimostrare la propria innocenza anche a seguito di una condanna espiata, nel caso in cui sia stato commesso un errore giudiziario nei propri confronti? Nel caso di Beniamino Zuncheddu, ci sono voluti 33 anni di carcere fra Badu e Carros, Buoncammino e Uta, una condanna all’ergastolo e un processo di revisione per essere finalmente assolto da un’accusa di strage, per fatti risalenti al 1991. Si chiude così, con una pronuncia di assoluzione per non aver commesso il fatto, una vicenda che probabilmente passerà alla storia come uno dei più grandi errori giudiziari della storia processuale italiana e che però non restituirà a un uomo più di metà della sua vita passata in cella. Zuncheddu era stato ritenuto l’unico responsabile dell’uccisione di tre persone nella cosiddetta “strage del Sinnai”, avvenuta l’8 gennaio del 1991 in Sardegna, a danno di tre pastori. L’impianto accusatorio, con buona pace dello standard probatorio “oltre ogni ragionevole dubbio”, si era retto in prima battuta sulla tesi di presunti dissidi tra gli allevatori della zona. Tuttavia la prova regina, ritenuta decisiva ai fini della colpevolezza di Zuncheddu, è stata la testimonianza di un sopravvissuto all’agguato, che inizialmente affermò di non aver riconosciuto l’aggressore, per poi cambiare versione e indicare Zuncheddu come unico autore degli omicidi. Testimonianza, come si è scoperto a seguito di un’intercettazione telefonica, a sua volta condizionata ampiamente in fase di indagini preliminari da un poliziotto, che avrebbe mostrato al teste ancor prima dell’interrogatorio una foto di Zuncheddu, presentandolo come colpevole. Una pista ipotetica e una testimonianza “condizionata”: è bastato solo questo per far passare a un uomo più della metà della sua vita in carcere. Zuncheddu si è sempre dichiarato innocente, distaccandosi da un fatto che ha sempre affermato di non aver commesso e così non accedendo ad alcun beneficio penitenziario. Nel nostro ordinamento, difatti, al fine di poter beneficiare di tali istituti, è necessaria molto spesso una revisione critica del fatto commesso, un ravvedimento quanto più sicuro possibile sulla propria condotta. La stessa ratio guida uno degli istituti più controversi del nostro sistema, l’ergastolo ostativo, che vieta la concessione di benefici al condannato per determinati reati che non collabori con la giustizia. La Corte Costituzionale è intervenuta più volte sul tema, sollevando non pochi dubbi sulla costituzionalità dell’art. 4- bis e invitando costantemente il legislatore a modificarla, così come avvenuto nel 2022. Ma come può, quindi, adempiere al programma rieducativo e dunque ottenere i relativi benefici penitenziari, un individuo condannato che sa di essere innocente, di non aver commesso un fatto, di non poter collaborare in quanto totalmente estraneo al reato a lui ascritto? In questo caso il processo di revisione, definito come mezzo di impugnazione straordinario, può porsi come valido alleato al fine di provare ancora, anche dopo una condanna, la propria innocenza. Tuttavia, per la sua natura rescissoria di un giudicato già formatosi, si presenta come un istituto utilizzato in un numero molto limitato di casi, solo in presenza di argomenti talmente forti e decisivi da sovvertire una decisione di colpevolezza. Ed è la stessa Carta Costituzionale, all’art. 24, ad ammettere la possibilità infausta di incorrere in un errore giudiziario, affermando che “la legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari”. La revisione si pone dunque come una clausola di salvezza nel nostro ordinamento, che prevede inoltre il diritto a una riparazione commisurata alla durata della pena espiata nonché alle conseguenze personali e familiari che ne sono derivate. A questo punto la domanda che sorge spontanea è solo una: quale risarcimento potrà mai ridare a Beniamino 33 anni della sua vita? Quale commisurazione potrà mai considerarsi equa per riparare all’errore giudiziario commesso? Certo è che la revisione può rappresentare la fine di un incubo per tantissime vittime di errori giudiziari, vittime talvolta di una giustizia superficiale, che non merita di essere chiamata tale. Se dopo tre gradi di giudizio, come previsto dal nostro ordinamento, è ancora possibile provare la propria innocenza, riavere la propria vita, cercare di recuperare ciò che si è perso, lo dobbiamo a un legislatore che ha permesso di porre rimedio alle ingiustizie processuali, che non sono così poche come si potrebbe pensare: secondo le statistiche raccolte, dal 1991 al 2022 in Italia ci sono stati 222 casi di errori giudiziari, di cui 8 soltanto nel 2022. Il caso di Zuncheddu ci deve portare a riflettere su questo: le condanne penali, soprattutto di questo genere, portano a delle conseguenze totalizzanti e drammatiche sulla vita delle persone. Ma soprattutto, occorrerebbe non far discendere automaticamente dalla costante dichiarazione di innocenza del condannato una presunzione di adesione al fatto criminoso o una mancanza di collaborazione con la giustizia. Si spera che Zuncheddu possa essere l’ultima vittima di un errore giudiziario di tale entità, ma allo stesso tempo, non possiamo che sperare che la sua vicenda possa aprire la strada a un utilizzo consapevole e coerente dello strumento della revisione: non antagonista, ma alleata della giustizia, permettendole di correggere il tiro e di dare nuova vita a chiunque ne sia stato ingiustamente privato. La forza di quel video e le leggi bavaglio di Ilaria Cucchi e Fabio Anselmo La Stampa, 31 gennaio 2024 È stata violata la privacy di Ilaria Salis. Quelle immagini che la ritraggono condotta in aula, legata mani e piedi e tenuta alla catena, mai avrebbero dovuto essere trasmesse. Questo ci si aspetta che ora dica il Governo dopo tutte le corbellerie che abbiamo ascoltato in queste ore. Siamo convinti che in effetti ciò corrisponda perfettamente ai pensieri di coloro che, in nome della riservatezza, stanno letteralmente imbavagliando l’informazione. Nessuna immagine di Ilaria Salis risolve magicamente ogni problema. Questa è la cultura democratica di coloro che si definiscono amici di Orban, premier dell’Ungheria. Un modello politico verso cui hanno sempre dichiarato di voler tendere. Quelle immagini, tuttavia esistono eccome. Ilaria Salis esiste ed è una cittadina Italiana, arrestata in quel paese che fa parte dell’Unione Europea e sottoposta a trattamenti disumani e degradanti ben documentati, perché si protesta innocente. Un altro imputato di nazionalità tedesca si è dichiarato colpevole. Nonostante sia stato pertanto condannato, è stato restituito al Paese d’origine. Delle due l’una: O la Germania conta di più di noi o Ilaria viene sottoposta a quell’orrore solo perché non ha confessato. Entrambe le ipotesi sono politicamente inaccettabili perché indegne per un sistema che vorrebbe definirsi civile e democratico. Commovente è la difesa del Primo Ministro ungherese da parte del capo della Farnesina Tajani: Orban non c’entra! È tutta colpa della Magistratura! Fantastico. Cosa potevamo aspettarci da Forza Italia? La magistratura per loro è da sempre una vera e propria ossessione, soprattutto quella italiana ma va bene lo stesso se si ha occasione di poter attaccare quella ungherese, a prescindere dalle sue effettive responsabilità. Peccato che le disquisizioni giuridiche della Farnesina trovino smentita da parte della stessa Ungheria sotto accusa. Ad indignarsi per le accuse provenienti dalla stampa italiana non è la magistratura ungherese ma il Servizio penitenziario di quel Paese. Tajani vada a scuola di Diritto. Il Ministro Lollobrigida non ha visto nulla. Non sa nulla. Magari era in treno e mica poteva fermarlo per andare a guardare la televisione. Ora ci aspettiamo che il Ministro della Giustizia Nordio invochi la censura di quelle orribili immagini ed il silenzio stampa per ragioni di interesse nazionale ed a tutela della nostra concittadina. Il quadro sarebbe, così, perfetto. Quelle immagini, tuttavia, sono state pubblicate. Esistono. Ilaria Salis esiste. La sua vita è nelle mani di un Paese che travolge in modo drammaticamente plateale ogni suo più elementare diritto. Quel che più è drammatico è che noi, quelli del “prima gli italiani”, abbiamo perso ogni credibilità in materia di tutela dei diritti umani. Dalle bocche del Governo solo parole sommesse, balbettanti, imbarazzate. Perché noi siamo quelli del sovraffollamento delle carceri, quelli condannati più e più volte dalla CEDU per le violazioni dei diritti umani, quelli dei CPR lager. Quelli durissimi con gli ultimi e debolissimi coi forti. Quale autorevolezza possiamo avere nel rivendicare il rispetto di Ilaria Salis da parte delle autorità ungheresi? Nessuno. Ma lei, vivaddio, esiste perché la stampa ce l’ha mostrata. Le sue sofferenze sono reali e sono diventate le nostre. Presto non sarà più così in nome della privacy. Un abbraccio fortissimo a suo padre Roberto che sta lottando per lei con grandissima dignità. “I diritti sfregiati nei nostri tribunali”. La denuncia di Antigone di Fausto Carioti Libero, 31 gennaio 2024 Gli imputati ammanettati nel tragitto dalla cella all’aula. Ingabbiati durante le udienze. Fotografati violando la legge. Indignazione ad alto volume dell’opposizione per il caso di Ilaria Salis, la 39enne italiana apparsa ammanettata e incatenata in un tribunale di Budapest, e il motivo è ovvio: l’Ungheria è governata da Viktor Orbàn, e insistere su quel trattamento umiliante è un modo per colpire Giorgia Meloni, uno dei pochi leader europei ad avere un buon rapporto personale e politico con il presidente magiaro (almeno finché i due non parlano di Ucraina). Tutto strumentale, insomma, a puntellare la narrazione del governo italiano con orbace e manganello. Solo che non c’è bisogno di andare nell’Ungheria di Orbàn per vedere scene del genere. E nemmeno occorre tornare indietro a quella foto del 17 giugno 1983: Enzo Tortora in manette mentre i carabinieri lo scortano nella vettura che l’avrebbe condotto in carcere. O all’immagine-simbolo di Tangentopoli, dieci anni dopo: Enzo Carra, giornalista legato alla Dc, con gli schiavettoni ai polsi nel palazzo di giustizia di Milano. Per vedere un imputato - un presunto innocente - portato in manette in aula o rinchiuso in una gabbia durante il processo, basta entrare in un tribunale italiano oggi. Solo che nessuno s’indigna. Il titolo di una ricerca pubblicata nel 2021 dall’associazione Antigone, che segue la vita nelle carceri italiane dagli anni Ottanta, dice già molto: “Gabbie, box, manette: gli imputati e i mezzi di coercizione nei tribunali italiani ed europei”. Lì si legge che “è frequente, in Italia e in molti Paesi europei, che gli imputati, in tribunale, siano sottoposti a mezzi di coercizione. Spesso vengono tradotti da un ambiente all’altro del tribunale con le manette ai polsi, nonostante la presenza di agenti ai loro fianchi”. Nel nostro Paese succede pure che, in attesa di apparire davanti ai magistrati, gli imputati “si ritrovino ristretti in celle adiacenti all’aula dell’udienza, anche in questo caso ammanettati e affiancali da agenti di polizia”. E che poi, una volta entrati nell’aula del tribunale, seguano il processo chiusi nei “gabbiotti” con sbarre metallo. Le leggi ignorate - Questo ed altro accade nonostante la presunzione d’innocenza scolpita nella Costituzione: “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. Nonostante la legge sull’ordinamento penitenziario, per la quale “nelle traduzioni individuali l’uso delle manette ai polsi è obbligatorio quando lo richiedono la pericolosità del soggetto o il pericolo di fuga o circostanze di ambiente che rendono difficile la traduzione”. Mentre “in tutti gli altri casi l’uso delle manette ai polsi o di qualsiasi altro mezzo di coercizione fisica è vietato”. E nonostante l’articolo 474 del Codice di procedura penale, per il quale “l’imputato assiste all’udienza libero nella persona, anche se detenuto, salvo che in questo caso siano necessarie cautele per prevenire il pericolo di fuga o di violenza”. Siccome le udienze, di norma, sono aperte al pubblico e ai giornalisti, in questo modo girano “normalmente” le immagini degli imputali, che magari al termine del processo saranno assolti con formula piena, chiusi in gabbia o ammanettati. E anche questo, avverte Antigone, “spesso avviene in contrasto con la normativa vigente. Ciò riguarda principalmente il momento dell’arresto o della traduzione da un posto all’altro”. Il Codice di procedura penale, infatti, a partire dal 1999, afferma che “è vietata la pubblicazione dell’immagine di persona privata della libertà personale ripresa mentre la stessa si trova sottoposta all’uso di manette ai polsi ovvero ad altro mezzo di coercizione fisica, salvo che la persona vi consenta”. Eppure, rimarca l’associazione, capita anche che quelle immagini “siano fornite dalle autorità stesse”. Sbarre, barriere e manette, come si è visto, in Italia dovrebbero essere ammesse solo se indispensabili a scongiurare il pericolo di fuga. Ma dalle interviste che Antigone ha fatto con avvocati di vari fori d’Italia emerge che, nel deciderne l’uso, “non si prendono in conto elementi legati al caso - come la resistenza al momento dell’arresto - da cui si potrebbe far desumere una presunzione di pericolosità del soggetto”. Tutti gli avvocati hanno espresso “forti riserve rispetto alla reale esigenza di ricorrere a questo strumento allorché si è scortati da agenti, in luoghi da cui la fuga è quanto meno inverosimile”. E nessuno di loro “serbava memoria o aveva conoscenza di tentativi di fuga attuati prima o nel corso dell’udienza”. Ciò nonostante, manette e gabbiotti sono usati: per inerzia, perché questa è l’abitudine. Lo ha denunciato anche la Camera penale di Milano nel 2016, in documento titolato “L’estetica della giustizia, le gabbie e l’ipocrisia”. “Nelle aule milanesi”, scriveva l’associazione degli avvocati, “in particolare negli inferi del piano terra nella zona dedicata alle direttissime, si assiste alla celebrazione dei processi con moltissimi imputati detenuti accalcati nelle gabbie”. Solo negli ultimi anni, proseguiva il documento, “si registra una maggiore sensibilità, che porta ad ingressi scaglionati e quindi ad un minore affollamento”. Tutto ciò, “oltre ad essere contrario ad un principio generale di dignità, ostacola in modo significativo una effettiva partecipazione consapevole dell’imputato al proprio processo e una utile comunicazione con il proprio difensore”. La norma Cartabia - Qualcosa è cambiato nel 2021, quando Marta Cartabia, su pressione dell’Unione europea, ha aggiunto un comma all’articolo 474 del Codice di procedura penale: da allora spetta al giudice, con un’ordinanza apposita e dopo aver sentito le parti, disporre l’uso dei gabbiotti o di altri strumenti, e questo limita gli abusi. La guardasigilli del governo Draghi, insomma, ha fatto quello che i suoi predecessori, molti dei quali (Diliberto, Fassino, Orlando, Bonafede) esponenti dei partiti che ora alzano la voce, si erano guardati bene dal fare. Eppure, nemmeno lei ha risolto il problema. “In Italia per fortuna non capita di vedere in aula persone ammanettate piedi e mani”, dice il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella. “Ancora troppo spesso, però, accade che vi sia la traduzione in manette negli spostamenti verso l’aula. E talvolta, a seconda del tipo di persona sotto processo, gli imputati in aula sono chiusi nei gabbiotti, senza manette. Ma i mezzi di coercizione dovrebbero essere usati il meno possibile e solo se vi è un’espressa richiesta motivata in questo senso, ossia non di routine”. Così ora il rischio ora è il solito: che ci si indigni per le violazioni della dignità degli imputali nei tribunali ungheresi, perché torna utile per ragioni politiche, e si continui a considerare normale ciò che accade nei tribunali italiani. Schiavettoni ai piedi: ma anche qui resistono manette e gabbie in aula di Vincenzo Bisbiglia Il Fatto Quotidiano, 31 gennaio 2024 “In Italia un caso Ilaria Salis non si sarebbe verificato”. Ne è sicuro Aldo Di Giacomo, segretario generale del Sindacato Polizia Penitenziaria, interpellato dal Fatto: nel nostro Paese i cosiddetti “schiavettoni” - i ferri con catene alle caviglie, con cui l’antifascista italiana è stata portata nell’aula di tribunale a Budapest - “non si usano più da decenni”. “La sensibilità istituzionale ha ridotto al minimo l’utilizzo di mezzi coercitivi”, aggiunge Roberto Lamacchia, presidente di Giuristi democratici. Norme che arrivano soprattutto dall’Europa, di cui fa parte anche l’Ungheria. Eppure chi gira tutti i giorni per i tribunali italiani vede file di detenuti che vengono condotti alle direttissime in manette, a volte anche con catene che li legano gli uni agli altri. Insomma, magari non alle gambe, ma gli “schiavettoni” sono tutt’altro che in archivio. Come mai? La stella polare è la direttiva 343 del 2016 del Parlamento europeo sul “rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali”. Qui, il considerato numero 20 recita: “Le autorità competenti dovrebbero (notare il condizionale, ndr) astenersi dal presentare gli indagati o imputati come colpevoli, in tribunale o in pubblico, attraverso misure di coercizione fisica, quali manette, gabbie di vetro o di altro tipo e ferri alle gambe”, a meno che “il ricorso a tali misure sia necessario per ragioni legate al caso di specie in relazione alla sicurezza”. Il passaggio chiave sta proprio nella seconda parte, perché apre alla discrezionalità: la “necessità” legata “alla sicurezza”. Fattore che nessuno valuta, come confermato dal XVII Rapporto dell’associazione Antigone: “Da diverse interviste con avvocati operanti in vari fori d’Italia - si legge nell’estratto redatto da Eleonora Colombo e Claudio Paterniti Martello - è emerso con chiarezza come a monte non vi sia alcuna valutazione concreta, puntuale, relativa al singolo caso”. D’altronde è la stessa direttiva europea ad amplificare la discrezionalità, anche per i “ferri” alle gambe: “La possibilità di ricorrere a misure di coercizione fisica non implica che le autorità competenti debbano prendere una decisione formale in merito”. Come spiega il rapporto Antigone, il caso ungherese non è un unicum. In Italia, ad esempio, sono diffuse le “gabbie” dove i detenuti vengono fatti accomodare nelle udienze, non solo nelle aule bunker per i reati di mafia. Anzi. La Corte europea dei Diritti dell’Uomo (sentenza Khodorkovskiy e Lebedev contro Russia, 25 luglio 2013) dice che la “gabbia metallica può costituire trattamento degradante”. In Francia, come in Russia, dopo il 2016 hanno trovato diffusione i “gabbiotti” in plexiglass, che eliminano l’effetto sbarre, ma minerebbero il diritto dell’imputato di dialogare col difensore. Anche in Spagna gli imputati spesso sono posti in manette dentro box trasparenti. Poi ci sono i casi extra-Ue. Negli Usa le catene ai piedi vengono utilizzati regolarmente. In Arizona, addirittura, in casi estremi è si vede ancora la chain gang, gruppi di detenuti con la “palla al piede”. Qual è la differenza, dunque? Che le foto in manette (o con i “ferri”) vengono pubblicate sempre più raramente: il codice deontologico dell’attività giornalistica (legge 675/1996) è chiarissimo: “Le persone non possono essere presentate con ferri o manette ai polsi, salvo che ciò sia necessario per segnalare abusi”. Il boss Matteo Messina Denaro, arrestato nel 2023, ad esempio non fu ritratto in manette. In Italia le catene ai detenuti furono tolte da una legge durante Tangentopoli di Manuela D’Alessandro agi.it, 31 gennaio 2024 Il Garante dei detenuti di Milano, Francesco Maisto, spiega come avvenne il cambiamento e con quali difficoltà. In Italia non si sono mai visti detenuti con le catene ai piedi mentre fino al 1992 era una scena usuale quella di reclusi che venivano accompagnati dal carcere alle aule di tribunale in fila legati a una catena. Lo spiega Francesco Maisto, garante dei detenuti del Comune di Milano ed ex presidente del Tribunale di Bologna. “Il cambiamento arriva durante Tangentopoli, quando suscitarono un grande clamore le immagini del politico e giornalista Ezio Carra, trascinato per il Palazzo di Giustizia di Milano con gli schiavettoni. Dieci anni prima in molti si indignarono per l’immagine di Ezio Tortora mostrato in manette dopo l’arresto. Decisiva fu la legge 492 del 1992 arrivata nel momento in cui cambiò il regolamento e il compito di accompagnare i detenuti passò dai carabinieri agli agenti della polizia penitenziaria”. La norma introdusse “il principio generale che, salvo particolari circostanze come la pericolosità del soggetto o il pericolo di fuga, non fosse ammesso l’uso delle manette nella traduzione del recluso”. La svolta, afferma Maisto, “fu graduale” e a questo proposito ricorda un episodio che lo vide protagonista quando guidava la Sorveglianza a Bologna: “Il tribunale che presiedevo stava in una strada molto stretta dove non ci potevano passare i mezzi della polizia penitenziaria. Così i detenuti venivano esposti al pubblico ludibrio in manette e alla vista dei bambini dell’asilo che stava in quella strada. Su questo ebbi un duro scontro con l’allora sindaco Sergio Cofferati. Finì che gli uffici vennero spostati in un’altra sede”. Anche nelle carceri, precisa Maisto, “è vietato tenere in manette i detenuti”. Nell’agosto dello scorso anno, la direttrice del carcere di Vigevano firmò una circolare in cui lo ricordava a proposito di episodi “di uso improprio dei mezzi di coercizione fisica”. Una catena a mo’ di guinzaglio come quella a cui è stata legata Ilaria Salis non si è mai vista in Italia ma “c’erano i fili che collegavano schiavettone a schiavettone i detenuti che, così messi in fila, arrivavano nelle aule di giustizia”. Esiste tuttavia un articolo del regolamento penitenziario che prevede la possibilità di “traduzioni collettive” anche attraverso un “cavo principale di acciaio suddiviso in tratte”. Quando i detenuti entrano in aula le manette vengono in ogni caso sempre tolte. Verona. Morto suicida in carcere, la cugina sporge querela di Laura Tedesco Corriere del Veneto, 31 gennaio 2024 “Lasciato morire”. Oussama Sadek aveva solo 30 anni: si è ucciso in cella ad appena tre mesi dal ritorno in libertà. Togliersi la vita in cella a 30 anni e con la libertà alle porte: a Oussama Sadek mancavano solo tre mesi al carcere veronese di Montorio. “Non vedeva l’ora di uscire, faceva tanti progetti, contava i giorni” ricordano commossi il fratello e la cugina. Allora, perché alle 16.50 dell’8 dicembre 2023 il giovane detenuto marocchino con piccoli precedenti di spaccio si è impiccato in cella d’isolamento? Quello di Sadek è stato uno dei cinque suicidi che da agosto hanno tragicamente segnato la casa circondariale di Verona, dove si trovano reclusi anche Filippo Turetta e Benno Neumair, due giovani protagonisti di alcune tra le più cruente pagine di cronaca nera recenti. “Poco, troppo poco invece si parla di drammi come quello di Oussama” evidenzia l’avvocato Vito Cimiotta: è a lui che si è rivolta la cugina della vittima, Nzha, per sporgere denuncia dopo che il fascicolo (modello 45, senza ipotesi di reato né indagati) è già stato archiviato senza disporre l’autopsia. Nella denuncia dei familiari si fa riferimento all’esposto presentato dai detenuti della sezione 5 corpo 3, secondo cui Oussama “lamentava da tempo un grave disturbo e disagio psicologico, aumentato negli ultimi giorni e palesato al corpo di polizia penitenziaria di turno, che lo aveva già segnalato prontamente ai sanitari della Casa Circondariale, probabilmente non intervenuti nei tempi e modi necessari”. Eppure, “Oussama altre volte aveva tentato il suicidio, tentando di impiccarsi o darsi fuoco ed era stato salvato dai compagni di cella”. Il 5 dicembre, tre giorni prima del suicidio, “era stato collocato nella sezione di isolamento matricola”. Il punto-chiave per la famiglia è che “appare strano che un soggetto si suicidi a tre mesi dalla scarcerazione, dopo essere stato recluso per più di due anni. Sarebbe opportuno verificare tutto il decorso medico psichiatrico e capire la compatibilità con l’isolamento. Tali verifiche sono doverose considerato che aveva seri problemi psichiatrici e che, probabilmente, il collocamento in isolamento e la mancata vigilanza hanno condotto alla morte”. A soli 30 anni, con la libertà imminente. Ivrea (To). “Chiediamo chiarezza sulla morte in carcere di Andrea Pagani Pratis” di Davide Petrizzelli torinotoday.it, 31 gennaio 2024 Il caso di Andrea Pagani Pratis, il 47enne di Castelnoceto in provincia di Alessandria, trovato morto nel carcere di Ivrea lo scorso 9 gennaio 2024 è arrivato in Consiglio regionale. A sollevare la questione è stata Francesca Frediani, consigliera regionale di Unione Popolare. “Le circostanze relative alla morte sono oggetto di indagine: pare che, nonostante avesse dichiarato un crescente malessere già da diversi giorni, i medici gli abbiano diagnosticato una banale influenza”, spiega Frediani, “L’autopsia ha però evidenziato che la causa del decesso, inizialmente attribuito ad un infarto, è un edema polmonare”. “Abbiamo chiesto all’assessore alla Sanità, Luigi Icardi, se la Regione abbia verificato la corretta applicazione dei protocolli sanitari”, continua Frediani, “Secondo quanto riferito in aula, l’ASL TO4 avrebbe confermato il rispetto delle procedure. Seguiremo con attenzione l’evolversi delle indagini, anche per dare seguito al nostro impegno nell’ambito del gruppo di lavoro sulla Sanità penitenziaria che ha recentemente relazionato in aula, evidenziando le numerose criticità riscontrate nelle strutture detentive piemontesi”. La consigliera ha spiegato che deve essere fatta chiarezza sulla vicenda. L’uomo era detenuto in carcere per l’omicidio del padre Antonello, ucciso a 74 anni il 19 settembre 2019 per questioni di denaro. Avrebbe dovuto scontare una condanna definitiva a 18 anni. Genova. Scagni aggredito in cella: la procura indaga sull’operato degli agenti della penitenziaria di Laura Nicastro La Repubblica, 31 gennaio 2024 Alberto Scagni è stato lasciato aggredire nel carcere di Marassi? Ci fu una omessa vigilanza, una sottovalutazione di avvisaglie di insofferenza del suo compagno di cella che avrebbero dovuto portare al suo spostamento? A queste domande cercherà di rispondere la nuova inchiesta della Procura di Genova per omissione di atti d’ufficio. Il fascicolo, a carico di ignoti, è stato aperto dal procuratore aggiunto Vittorio Ranieri Miniati, che coordina il gruppo Reati contro la pubblica amministrazione, e affidato alla collega Patrizia Petruzziello. Scagni, dichiarato seminfermo e condannato a 24 anni e mezzo per l’omicidio della sorella Alice, accoltellata la sera del Primo maggio 2022 sotto casa in via Fabrizi a Quinto, era stato preso a calci e pugni dal suo compagno di cella a Marassi a metà ottobre. Una aggressione che aveva causato lesioni giudicate guaribili in sette giorni. Dopo quell’episodio il killer era stato trasferito nella casa circondariale di Sanremo dove poi, poche settimane dopo, era stato sequestrato, torturato e picchiato selvaggiamente da due “concellini”, finendo anche in coma. I suoi avvocati, i legali Alberto Caselli Lapeschi e Mirko Bettoli, avevano chiesto alla direzione del carcere genovese di avere la relazione su quanto successo e anche il nome di chi lo aveva picchiato senza mai ottenere risposta. Per questo, dopo che Alberto era stato risvegliato dal coma, avevano presentato un esposto. Le omissioni non riguarderebbero solo la gestione del detenuto, ma anche la comunicazione, o meglio la mancata comunicazione da parte di Marassi ai suoi legali. “Notizie centellinate sulla salute di un cittadino italiano detenuto in carcere italiano, e negato il bollettino medico al suo avvocato” la denuncia della mamma Antonella Zarri. Bettoli e Caselli Lapeschi avevano mandato una Pec dopo il primo episodio senza avere mai risposte “anche dopo un nostro sollecito”. Poi c’era stata la brutale aggressione a Valle Armea e vista la gravità di quanto accaduto era stato aperto un fascicolo d’ufficio dal procuratore capo di Imperia Alberto Lari. A metà gennaio Scagni era stato trasferito dal reparto di Fisiatria di Sanremo all’ospedale San Martino per la riabilitazione. A settembre sempre a Marassi Roberto Molinari, 58 anni, era stato ucciso a sprangate dal suo compagno di cella Luca Gervasio, 48 anni. Quest’ultimo era stato dichiarato due volte seminfermo di mente e non avrebbe dovuto stare in cella con altri. Ma non c’era nessuna cella singola e quindi era finito insieme a Molinari. La vittima, senza fissa dimora, era stato aggredito con una gamba di un tavolino mentre ancora dormiva. Il pestaggio era stato anche ripreso dalle telecamere di sorveglianza interne. Alcuni giorni prima Molinari era stato picchiato da Gervasio e i medici della casa circondariale avevano suggerito di separarli. Suggerimento caduto però nel vuoto. Trento. Il volontario Piergiorgio Bortolotti censurato e cacciato dal carcere di Donatello Baldo iltquotidiano.it, 31 gennaio 2024 “Non sono più gradito”. L’ex direttore del Punto d’Incontro curava il giornalino con i detenuti. La direzione non gli permette più l’ingresso nella Casa circondariale. “Non gradito”. Inizia con queste parole lo sfogo di Piergiorgio Bortolotti, che diventa anche denuncia nei confronti dell’amministrazione della Casa Circondariale di Gardolo che ha chiuso la porta all’ingresso del volontario. “Non gradito. Dopo dieci anni di servizio - spiega Bortolotti - termino la mia presenza come volontario dentro il carcere di Trento, dove mi occupavo del giornale “Non solo dentro” in collaborazione con un gruppo di detenuti”. In un lungo post su Facebook l’ex direttore del Punto d’Incontro, amico storico del fondatore Don Dante, spiega che da alcuni anni il giornale usciva in allegato al settimanale diocesano Vita Trentina, ed era sostenuto dall’Associazione provinciale di aiuto sociale. Un’esperienza meritoria, che cercava di dare voce ai detenuti, che li coinvolgeva nella redazione degli articoli, attraverso il confronto, l’incontro. “Sono stato messo alla porta” - “Non mi è stato rinnovata l’autorizzazione ad entrare in carcere per il 2024. Sono stato messo alla porta dalla direzione del carcere - scrive sul post - perché ritenuta persona ostile”. Bortolotti si chiede: “Tutto nasce dalla pubblicazione di alcuni articoli critici di detenuti (sono stato ritenuto l’ispiratore?) che in quanto referente avrei dovuto censurare?”. E prosegue così: “Non ne faccio una questione personale. Spero che il progetto, anche senza di me possa continuare, e che il giornale “Non solo dentro” possa continuare ad essere, come abbiamo sempre voluto che fosse, la voce della Casa circondariale di Trento. Rispettosa di quanti vi operano e ci vivono, ma anche veritiera di quella che è la vita reale dietro le sbarre, non dissimile da quella di tante altre realtà, pur in presenza di una struttura nuova e potenzialmente adatta allo svolgimento di tante attività che potrebbero concorrere a rendere la detenzione più sopportabile e capace di offrire reali percorsi di “rieducazione” come da mandato costituzionale”. Carcere, “istituzione totale” - Borolotti spiega anche quale sia la sua idea di carcere: “Per quello che lo conosco di persona, per quanto lo conosco dall’ampia letteratura al riguardo e non ultimo perché è una istituzione totalizzante, non serve a rendere migliori le persone rinchiuse. Nella migliore delle ipotesi le rende più avvedute, più scaltre; insegna a sopravvivere conformandosi all’ambiente o, se si è in grado di farlo, imponendosi sopra altri. Naturalmente in carcere vi lavorano anche persone, educatori, psicologi, medici, infermieri e agenti di custodia che svolgono i loro compiti con umanità e professionalità e che al pari dei detenuti vivono sulla propria pelle le innumerevoli contraddizioni congenite al sistema. Il carcere cambierà - dice convinto Bortolotti - nella misura in cui cambierà la cultura della giustizia e della pena, come è stato per i manicomi. E allora non sarà più utopistico immaginarlo come estrema ratio per i delitti più gravi, ma sempre salvaguardando la dignità e i diritti di chi viene recluso”. I tanti messaggi di solidarietà - Nei commenti al post di Piergiorgio Bortolotti la solidarietà di moltissimi. Tra questi la consigliera provinciale di Alleanza Verdi-Sinistra Lucia Coppola - “ne ho parlato coi miei colleghi di minoranza”, scrive - e un’altra consigliera provinciale prende la parola, Lucia Maestri del Pd: “Non ci sono parole, Piergiorgio. Ma non sei solo”, mentre il collega di gruppo Paolo Zanella rilancia il post di Bortolotti e scrive: “Carcere ancor più totalizzante nel momento in cui espelle chi dà voce ai reclusi. Una vicenda che merita senz’altro di essere approfondita”. Solidale anche l’ex consigliere comunale dem Paolo Serra: “Dispiace del mancato rinnovo, una realtà quella carceraria che ha necessità di uscire fuori verso la cittadinanza per far conoscere la realtà di chi vive o lavora in carcere”, mentre la presidente della Circoscrizione di Meano Giulia Bortolotti parla di “triste e preoccupante censura”. Forti le parole dell’attuale direttore del Punto d’Incontro Mattia Civico: “Mi dispiace Piergiorgio. Soprattutto perché non è un buon segno per una istituzione pubblica non essere capace di ascoltare anche qualche stimolo “fastidioso”. E “mettere alla porta” chi ha solo voglia di dare una mano (e lo testimonia la tua vita intera) è quantomeno sciocco. Un brutto segnale per noi, per i detenuti e per chi, come giustamente ricordi, lavora con passione e umanità”. Così Jacopo Zannini di Sinistra Italiana: “Grazie Piergiorgio per tutto quello che fai e per quello hai fatto. Sono tempi neri, e questa vicenda ce lo ricorda”, mentre la presidente di Futura Claudia Merighi parla di “decisione davvero grave oltre che triste”. E aggiunge: “Mi auguro che questa decisione possa essere cambiata. Le voci di chi abita il carcere andrebbero ascoltate, tutte”. Tra i commenti al post di Bortolotti anche quello del direttore di Atas Emiliano Bertoldi: “Mi spiace molto, mi scandalizza e mi preoccupa questo modo di agire di un’istituzione. Tanto più di un’istituzione già di per sé totalizzante, che dovrebbe invece cercare di mettersi in discussione”. Milano. Dal carcere minorile al carcere per adulti, un protocollo d’intesa per tutelare passaggio Adnkronos, 31 gennaio 2024 Garantire continuità nella cura per giovani tossicodipendenti o alcool dipendenti durante il passaggio dalla detenzione minorile al carcere per adulti. È l’obiettivo di un protocollo d’intesa siglato oggi a Milano, presso l’Istituto penale per minorenni “Cesare Beccaria”. Il progetto, dal titolo “Giovani Marinai”, vede coinvolti l’Asst Santi Paolo e Carlo, il tribunale per i minorenni, la procura presso il T.M., le direzioni del centro per la giustizia minorile e del provveditorato regionale amministrazione penitenziaria per la Lombardia. L’ingresso in carcere rappresenta un momento cruciale nella vita di ogni individuo, indipendentemente dall’età, condizione sociale o motivo della detenzione. L’obiettivo primario è trasformare l’esperienza carceraria in un’opportunità di cambiamento, evitando che diventi un periodo di trascuratezza che non contribuisce al recupero del detenuto. Questo imperativo è particolarmente importante per i giovani in fase di maturazione e con esigenze specifiche di cura. Il progetto ‘Giovani Marinai’ si propone di fornire interventi clinici e socio-educativi di alta intensità, garantendo continuità tra le fasi di detenzione all’istituto Beccaria e a San Vittore. Il progetto si basa sulla collaborazione tra le équipe sanitarie e sociosanitarie della Asst Santi Paolo e Carlo, presenti rispettivamente nel carcere minorile (Spazio Blu) e nel reparto a trattamento avanzato del carcere per adulti (trattamento avanzato Nave). La sinergia tra gli operatori e i servizi della Giustizia contribuirà a inserire i giovani in un contesto trattamentale improntato alla prospettiva riabilitativa. “La collaborazione tra le équipe sanitarie e sociosanitarie della Asst Santi Paolo e Carlo, insieme agli sforzi congiunti delle istituzioni coinvolte, rappresenta un modello da seguire -spiega Simona Giroldi, nuovo direttore generale dell’Asst Santi Paolo e Carlo-. Il progetto ‘Giovani Marinai’ affronta in modo pionieristico l’importante transizione dalla detenzione minorile al carcere per adulti, riconoscendo la necessità di garantire continuità nella cura per giovani tossicodipendenti o alcol dipendenti. La promozione di interventi clinici e socio-educativi di alta intensità è un elemento chiave per trasformare l’esperienza carceraria in un’opportunità di cambiamento”. Presente all’evento anche il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale che ha sottolineato l’importanza dell’iniziativa nel promuovere il rispetto dei diritti individuali anche durante il periodo di detenzione. L’evento ha incluso anche testimonianze di ex ospiti del reparto La Nave e arricchito dall’esibizione del “Coro Amici della Nave”. Velletri (Ro). Telemedicina nel carcere, per garantire cure e visite ai detenuti di Elisabetta Bonanni latinaquotidiano.it, 31 gennaio 2024 La Asl Roma 6 si impegna per garantire cure migliori ai detenuti del carcere di Velletri. “Puntiamo sulla telemedicina al carcere di Velletri perché abbiamo il dovere di intervenire subito per risolvere le criticità e migliorare l’accessibilità alle cure sanitarie per i detenuti. Con le visite specialistiche effettuate tramite la telemedicina possiamo prenderci davvero cura delle persone, garantire sicurezza e minimizzare i rischi associati agli spostamenti. Tutto questo è parte di quel processo di umanizzazione delle cure che insieme al Commissario Straordinario Francesco Marchitelli, la nostra Asl Roma 6 ha intrapreso con coraggio”. Con queste parole il Direttore Sanitario della Asl Roma 6 Vincenzo Carlo La Regina ha spiegato l’importanza dell’introduzione della telemedicina nella Casa Circondariale di Velletri durante una riunione tecnica che si è tenuta alla presenza della Direttrice del carcere Annarita Gentile, il Comandante Dirigente Aggiunto Mauro Caputi, Emanuela Falconi Direttrice Uosd Sanità Penitenziaria Asl Roma 6 e Laura Bianchi del Servizio Infermieristico e gestione del Personale. Di fatti, nel carcere di Velletri, l’adozione della telemedicina porta con sé una serie di benefici che stanno rivoluzionando il panorama della salute carceraria. Questo innovativo approccio ha dimostrato fin da subito di essere un catalizzatore di cambiamento positivo su diversi fronti. La tempestività delle cure è un altro punto di forza. Con la possibilità di ottenere consulenze mediche specializzate in tempi più brevi, i detenuti beneficiano di diagnosi più rapide come rimarcato dal Direttore Sanitario Asl La Regina. Questo non solo migliora l’efficacia del trattamento, ma può anche prevenire l’aggravarsi di condizioni mediche. Nel frattempo, proseguono le iniziative di inclusione e attività sociale. La visita del Direttore Sanitario della Asl Roma 6 si è conclusa con la partecipazione alla consegna di nove attestati in occasione della terza edizione del corso della Asl di caregiver rivolto ai detenuti che si è tenuto presso la Casa circondariale di Velletri con docenti la Dirigente Internista Dottoressa Marialuisa Diaco, la Dottoressa Laura Bianchi e i Fisioterapisti dott. M. Andreoli e dott. M. Corbia. I partecipanti al corso hanno apprezzato moltissimo il momento di formazione. Il caregiver è una persona responsabile di un altro soggetto dipendente, anche disabile, di cui si prende cura. Il corso che si è tenuto nel carcere di Velletri sottolinea dunque l’importanza della responsabilità e dell’aiuto agli altri. Per molti detenuti, questo può rappresentare una nuova prospettiva di vita, in cui la loro esperienza personale diventa una fonte di supporto per gli altri. Questa dinamica può contribuire a una trasformazione positiva della percezione di sé stessi e del loro ruolo nella società. Reggio Calabria. “Troppi problemi per i detenuti” di Daniela De Blasio* calabria.live, 31 gennaio 2024 Nel corso dell’incontro organizzato a Palazzo San Giorgio di Reggio Calabria in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, la Presidente f.f. della Corte d’Appello di Reggio Calabria, Olga Tarzia, ha posto l’attenzione sull’importanza di investire sul sistema carcerario, poiché la struttura attuale necessita di una profonda trasformazione. La Presidente Tarzia ha sostenuto la necessità di garantire una migliore accoglienza ai detenuti, consentendo loro condizioni minime di vita all’interno dei penitenziari. Infatti gli attuali problemi di sovraffollamento carcerario e la scarsità di personale addetto alla sicurezza degli istituti penitenziari rappresentano una situazione critica che richiede interventi immediati. È opinione diffusa che le condizioni di reclusione non devono cancellare il rispetto dei diritti inviolabili dell’uomo ma devono favorire il suo più completo reinserimento nella vita sociale civile dopo aver scontato la condanna, ma la realtà è spesso tutt’altra cosa. Il sovraffollamento carcerario influisce negativamente sia sulla salute fisica che su quella mentale dei detenuti e, unita alla mancanza di un numero sufficiente di agenti, contribuisce all’insorgere di tensioni e conflitti tra i detenuti, aumentando il rischio di violenza e instabilità all’interno delle carceri. La carenza di personale crea condizioni di insicurezza per i detenuti, ma anche per il personale penitenziario stesso. Per non parlare delle pessime condizioni igieniche, della mancanza di privacy e spazi personali, che compromettono il benessere dei detenuti e la loro riabilitazione, che può essere pregiudicata dalla coabitazione forzata che potrebbe avere un’influenza negativa sul loro percorso di recupero. Si impone, dunque, un’adeguata riflessione sull’apparato penitenziario, in ordine al modo di concepire la detenzione. Siamo tutti consapevoli che il carcere dovrebbe rappresentare la punizione per i reati commessi, ma non possiamo dimenticare la dimensione fondamentale della rieducazione, che è la parte che spesso viene tristemente trascurata. È fuorviante considerare la pena come l’unico obiettivo del sistema giudiziario, per questo bisogna lavorare per sviluppare programmi che mirino a riparare il danno causato e a reinserire i responsabili nella società. La struttura carceraria dovrebbe essere rinnovata non solo sotto il profilo dell’accoglienza e delle condizioni di vita dei detenuti, ma anche per favorire la riabilitazione e la restituzione della dignità a chi ha commesso un reato, affinché non sia etichettato ed emarginato dalla società. Fermo restando lo spirito del principio sancito dalla Costituzione in ordine alla finalità rieducativa e non afflittiva della pena, tesa al recupero del reo, l’obiettivo finale è quello di creare una struttura carceraria che non sia solamente punitiva, ma che dia l’opportunità ai detenuti di riguadagnare la propria dignità attraverso percorsi di reinserimento sociale e riabilitazione nonché la promozione di iniziative trattamentali che diano la possibilità ai detenuti di intraprendere, in concreto, un percorso rieducativo all’interno della struttura penitenziaria. È infatti notorio quanto sia facile che l’esperienza del carcere si trasformi, soprattutto per i più giovani, in un’ulteriore e più importante addestramento alla devianza soprattutto nelle aree in cui la criminalità organizzata è più diffusa. Il carcere non è un non-luogo ma è una realtà con cui bisogna confrontarsi; un sistema che deve garantire la sicurezza della collettività, ma che, al contempo, deve garantire il rispetto dei diritti umani e non può e non deve limitarsi solamente a un luogo di detenzione, ma deve svolgere un ruolo attivo nella rieducazione e nella riabilitazione di coloro che vi si trovano. La rieducazione rappresenta una delle principali finalità del sistema penitenziario che richiede un ripensamento del sistema carcerario, con una maggiore attenzione ai diritti dei detenuti e maggiori risorse umane e finanziarie allo scopo di garantire un ambiente più sicuro, dignitoso e con programmi di recupero concreti, rapportati con la realtà che i detenuti, una volta scontata la pena, incontreranno nel loro “nuovo” percorso di vita. La sensibilizzazione alle tematiche come queste è fondamentale per promuovere un cambiamento culturale e istituzionale, che dovrà necessariamente portare ad una maggiore attenzione verso il sistema carcerario e una migliore gestione delle risorse investite, in termini umani ed economici. Per questi motivi c’è il bisogno di offrire un percorso detentivo alternativo in cui gli strumenti del trattamento quali lavoro, istruzione, formazione professionale, rapporti con la famiglia, trovino piena attuazione ed in cui il tempo della detenzione sia tempo di recupero e di costruzione di sé. *Presidente della Lega dei Diritti umani di Reggio Calabria Castelfranco Emilia (Mo). Il saio arriva dal carcere: ci attendono “Giorni Nuovi” Laura Badaracchi Avvenire, 31 gennaio 2024 Un laboratorio sartoriale carcerario che confeziona borse, portafogli, coperte, sciarpe, presine, grembiuli e anche - l’unico in Italia - il classico saio francescano. Succede da alcuni mesi nella casa di reclusione Forte Urbano a Castelfranco Emilia grazie alla cooperativa sociale “Giorni Nuovi” di Modena, fondata nel 2015 da alcuni volontari. “Il tessuto lo compriamo a Modena e a Carpi, i clienti invece sono frati di vari conventi italiani. L’idea di produrre il saio ci è stata suggerita dal cappellano della casa di reclusione di Castelfranco, che è un frate”, ha spiegato Francesco Pagano, presidente della cooperativa, che con due sarte volontarie e un detenuto sarto originario del Gambia riesce a realizzare su misura gli abiti indossati dai religiosi seguaci di San Francesco per un costo che sfiora i 100 euro, oltre a camicine da battesimo in cotone rifinite in pizzo e ricamo a croce con filo d’oro, acquistate da varie parrocchie a 3,50 euro ciascuna tramite il negozio online (www.giorninuovi.jimdofree.com). E in progetto ci sono anche tuniche per la prima comunione e per i diaconi. Ma nel carcere già da oltre tre anni funziona un altro laboratorio per la produzione di ostie e particole, in cui lavorano part-time altri due detenuti assunti dalla cooperativa: da farina doppio zero e acqua, miscelate da un’impastatrice, vengono realizzati ogni giorno 25 pacchi da 500 particole e 15 confezioni da 25 ostie usate dal celebrante. A finanziare l’acquisto dei macchinari necessari - in seguito donati dalla cooperativa al penitenziario - l’arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, il cardinale Matteo Maria Zuppi. Non solo: i sarti detenuti con il supporto dei volontari producono anche copri-amboni ricamati a mano, portachiavi a tema religioso e croci devozionali morbide chiamate “Stringila”. “Il lavoro è stato da subito il principale obiettivo di noi volontari. Avviando delle piccole attività di sartoria nel reparto femminile, riuscendo ad avere anche delle commissioni di forniture di borse, coperte, sciarpe, stole, bomboniere e articoli di artigianato. L’altra fonte di risorse attualmente è costituita dalla vendita di frutta. Olio extra vergine di oliva, miele e confetture completano la gamma degli alimenti prodotti o commercializzati da noi” come bomboniere e presepi, ha chiarito Pagano. “All’inizio il nostro impegno era squisitamente di natura religiosa, ma i detenuti ci chiedevano con insistenza un lavoro e una casa. Per questo non facciamo del semplice assistenzialismo o della carità, ma cerchiamo di creare occasioni di lavoro come strumento di recupero dei detenuti alimentando i loro sogni e speranze di uomini alla ricerca di un senso della loro esistenza”, ha aggiunto il presidente della cooperativa sociale Giorni Nuovi, ispirata alla spiritualità di don Oreste Benzi, fondatore dell’associazione Papa Giovanni XXIII che sottolineava: “L’uomo non è il suo errore”. Infatti i motivi che ispirano l’azione dei volontari “sono gli insegnamenti del Vangelo e della Dottrina sociale della Chiesa”, come recita lo Statuto della cooperativa. Nell’inferno di Huntsville, le sette prigioni di Richard Linklater di Giulia D’Agnolo Vallan Il Manifesto, 31 gennaio 2024 Al Sundance - concluso domenica scorsa - il regista americano ha presentato il folgorante “Hometown Prison”. Il film di Linklater non è ambientato nella Germania nazista ma nel Texas contemporaneo, a Huntsville, la cittadina dove il regista è cresciuto, il fulcro del sistema industriale carcerario che alimenta una buona parte della cassa statale, e la sede di sette prigioni, tra cui quella in cui si effettuano il maggior numero di esecuzioni made in Usa. Linklater, che è cresciuto guardando i muri di mattoni rossi di quella prigione, torna a casa ed esplora ciò che passa, e non, tra l’interno e l’esterno di quei muri, scavando nelle implicazioni economiche, umane e morali della coesistenza tra “la normalità” e l’omicidio di stato. Si è chiuso domenica (ma i premi sono stati annunciati venerdì) il quarantesimo Sundance Film Festival - un’edizione segnata da un programma di premiere di alto profilo più avventurose di quelle viste degli ultimi anni (è stata decisiva, in quel senso, la presenza dell’etichetta newyorkese A24, con 3 film) e da una dimensione retrospettiva, suggerita organicamente sia dal compleanno (celebrato anche con proiezioni di greatest hits) che dal ritorno a Park City di autori “storici” come Steven Soderbergh (il suo The Presence è stato acquistato al festival da Neon) e Richard Linklater. Oltre al bellissimo Hitman (in prima mondiale a Venezia 2023 -u scirà via Netflix in primavera), il regista texano ha portato a Sundance un episodio della serie “God Save Texas”, adattata dal libro omonimo di Lawrence Wright, prodotta da Alex Gibney e in arrivo su Hbo il 26 febbraio. Raccontati in prima persona da Linklater, con un’intimità quasi diaristica, i folgoranti ottantasette minuti di “Hometown Prison” sono l’antidoto più efficace alla pretenziosità formale e morale del film che probabilmente vincerà l’Oscar per il miglior lungometraggio straniero, “A Zone of Interest”. Il film di Linklater non è ambientato nella Germania nazista ma nel Texas contemporaneo, a Huntsville, la cittadina dove il regista è cresciuto, il fulcro del sistema industriale carcerario che alimenta una buona parte della cassa statale, e la sede di sette prigioni, tra cui quella in cui si effettuano il maggior numero di esecuzioni made in Usa. Linklater, che è cresciuto guardando i muri di mattoni rossi di quella prigione, torna a casa ed esplora ciò che passa, e non, tra l’interno e l’esterno di quei muri, scavando nelle implicazioni economiche, umane e morali della coesistenza tra “la normalità” e l’omicidio di stato. Se, nella forma dell’inchiesta, si sente l’instancabile passione investigativa di Gibney e di Wright, il tocco di Hometown Prison è puro Linklater - la sua ricerca profonda condotta in lunghe conversazioni con vecchi amici o conoscenti, attraverso la memoria di sua madre, parlando con impiegati del carcere. Non priva di uno humor che ricorda certi momenti di La vita è un sogno (Dazed and Confused) o Tutti vogliono qualcosa (Everybody Wants Some), due tra i suoi film che contengono riferimenti diretti agli anni trascorsi a Huntsville. Il Gran premio della giuria è andato a “In the Summers” di Alessandra Lacorazza Sempre da segnalare, tra le serie, è “Conbody vs Everybody”, scritta e diretta da Debra Granik, un progetto affascinante e sentito (ancora in cerca di distribuzione, ne abbiamo visti 2 episodi) che segue la storia di un ex carcerato e della palestra che ha aperto nel Lower East Side di New York, dove impiega in qualità di trainer uomini e donne usciti di prigione come lui. Granik (due volte vincitrice a Sundance con Down to the Bone e Winter’s Bone) era anche uno dei tre membri della giuria del concorso lungometraggi Usa, che ha assegnato il gran premio della giuria e quello per la miglior regia a In the Summers, dell’esordiente colombiano/americana Alessandra Lacorazza. “Questo film ci ha colti di sorpresa. Come succede spesso con i grandi film. Non avevamo idea di dove il viaggio ci avrebbe portati ma, all’ultimo fotogramma, sapevamo di aver visto qualcosa di ipnotico. È la storia di una famiglia in frantumi che rifiuta di darsi per vinta. Un film come questo può passare inosservato. Ed è perché speriamo che abbia la visibilità che merita, in quanto straordinario esempio di cinema, che abbiamo deciso di premiarlo”, ha dichiarato la giuria di cui facevano parte anche lo scrittore/illustratore Adrian Tomine e l’attrice Lena Waithe. Vale la pena di citare la motivazione dei premi un po’ per la scelta controtendenza di concentrarli (le giurie e Sundance sono sempre troppo ecumeniche) e poi per l’accenno alla possibilità che il film risulti invisibile. Questa storia, in quattro capitoli, scanditi negli anni, delle visite estive di due bambine al padre, in un paesino del New Mexico, è sicuramente una delle cose più belle viste in concorso. Il ritratto di un rapporto impossibile (lui è fragile, insicuro, “fallito” sotto molti punti di vista; le seduce e le delude continuamente; loro crescono e sviluppando la distanza e i tumulti interiori dell’adolescenza) che si spezza e poi si rinnova nel rituale di quella vacanza imposta. Nonostante gli interpreti includano, nel ruolo del padre, il rapper portoricano René Perez Joglar, alias Residente, e, in quello di una delle figlie cresciute l’attrice Lio Mehle (Mutt), In the Summers non era sicuramente uno dei titoli delle competizione intorno ai quali si era creata eccitazione e durante il festival - come per esempio il deludente Love Me di Sam e Andy Zuchero, con Kristen Stewart e Steven Yeun, sprecati nel ruolo di una boa e di un satellite; o di A Real Pain, il secondo film di Jesse Eisenberg, acquistato al festival dalla Searchlight. Forse perché la scelta di mettere i quattro concorsi online, nella seconda settimana del festival (mentre le premiere si potevano vedere solo in presenza) ha inevitabilmente messo in secondo piano i film più piccoli, che poi si potevano “recuperare” anche non in sala - con il rischio magari di vederli male, non vederli del tutto. Il che è un po’ un’ingiustizia e un peccato perché la dimensione della scoperta è sempre stata importante nella storia del Sundance. Tre antidoti contro l’odio e la paura di Mauro Magatti Corriere della Sera, 31 gennaio 2024 Pluralismo, educazione e innovazione istituzionale giocano un ruolo decisivo. I segnali che indicano il generale riorientamento del clima psicosociale contemporaneo sono numerosi e, purtroppo, convergenti. L’elenco è impressionante: il fondamentalismo ha contagiato tutte le grandi matrici religiose, arrivando a giustificare la violenza e il sostegno del terrorismo; il razzismo e l’antisemitismo riemergono e risuonano persino nel cuore delle società più avanzate, a partire da quella americana e tedesca; l’odio sociale circola abbondantemente nei social, alimentando risentimento e hate speech; in sistemi politici molto diversi sono al potere “uomini forti”, cinici disincantati che non hanno remore nel calpestare le leggi e il diritto internazionale; infine, la moltiplicazione dei focolai di guerra rischia di saldarsi in un unico grande conflitto globale con a tema la riscrittura dell’ordine mondiale. Il mondo sembra scivolare lungo un piano inclinato, preso dal vortice di potenti forze irrazionali che imprigionano l’inconscio collettivo. Viviamo un momento storico in cui la ragionevolezza stenta a offrire un punto di appoggio sufficiente per affrontare le tensioni esistenti. Quello che sembra evidente è che l’interesse economico e l’innovazione tecnologica non bastano per governare la complessità: il contraltare della liberazione del desiderio individuale su scala globale - un successo straordinario della fase storica alle nostra spalle - è oggi il contagio della paura, del risentimento, dell’odio. Che si risolve poi nella logica, arcaica ma sempre efficace, dello schema amico-nemico: semplificando la realtà e parlando all’emotività, l’identificazione di un nemico (interno e/o esterno) è la via più semplice per assorbire e scaricare a terra la tensione accumulata. Ciò comporta la sistematica distorsione della realtà, piegata alle esigenze emotive di gruppi sociali che ritrovano così un loro punto di consistenza. Due esempi illustrano bene il punto. Negli ultimi anni, in diversi Paesi occidentali la paura dello straniero - e specificatamente dell’Islam - è stata un cavallo di battaglia dei partiti di estrema destra. Ma il numero di islamici è sistematicamente sopravvalutato: in Germania, a fronte di una presenza pari al 4%, la “percezione” è che siano il 21%. Idem in Francia (dove, a fronte di una presenza del 9%, la percezione pubblica sale al 28%) e in Italia (dove il 5%, è proiettato al 19%). E ancora: si può discutere sulla lungimiranza dei rapporti tra Nato e Russia che hanno seguito la fine dell’Unione sovietica. Ma l’argomento usato da Putin - che ha ripetutamente parlato di accerchiamento occidentale mirante ad annientare la Russia - è del tutto esagerato. Pura propaganda che il leader russo traduce poi nel tetro progetto di una “denazificazione” del’Ucraina. Contrariamente a quanto siamo portati a pensare, anche in un’epoca caratterizza da una interconnessione informativa senza precedenti le dinamiche sociali continuano a seguire copioni antichi. Come dimostrano questi due esempi, gli innegabili successi della crescita non riescono a placare le paure che vengono poi ingigantite, deformate, strumentalizzate. Anzi, in un mondo sempre più astratto e mediatizzato - nonché a elevatissima complessità - i fattori psichici inconsci riaffiorano con inaspettata intensità. Diventando materiale a disposizione della volontà di potenza di élites del tutto disinteressate al destino concreto di interi popoli. Muoversi in questo contesto è difficilissimo: il groviglio del circuito azione-reazione risulta inestricabile. Le paure tendono, infatti, a trasformarsi in vere e proprie paranoie. L’azione di contrasto, seppure necessaria, non è sufficiente. Soprattutto se finisce per alimentare un circolo vizioso che si avvita su se stesso. Le paure vanno ascoltate, non negate. Per quanto distorte, esse ci dicono qualcosa della realtà. Qualcosa di cui è necessario tenere conto. D’altro canto, nel clima psicosociale che stiamo vivendo, i discorsi e gli interventi puramente funzionali e razionali, pur necessari, non bastano. Per addomesticare la furia che circola a livello planetario, occorrono visioni del mondo positive, capaci di toccare il piano simbolico ed emotivo. Occorre, cioè, mobilitare quel piano spirituale (nel senso più pieno e laico del termine) che le società avanzate paiono aver drammaticamente abbandonato. Non si risponde alla paura con l’evocazione di paure ancora più grandi. Tecnica a cui purtroppo si è fatto ampiamente ricorso negli ultimi decenni. E, purtroppo, anche negli ultimi mesi. Al contrario, bisogna rafforzare i tre antidoti che la tradizione democratica ci consegna: un pluralismo capace di mettere a confronto dati, letture, interpretazioni diverse; un investimento in educazione e formazione proporzionato rispetto alla complessità del mondo che abbiamo costruito; la capacità di una vera innovazione istituzionale (a livello nazionale e internazionale) per tagliare l’erba sotto i piedi agli imprenditori della paura e dell’odio. Il dopo Covid ha generato una stagione in cui, a tutti i livelli, i rapporti sociali sembrano destinati a ristrutturarsi secondo il codice dell’odio, della violenza, del conflitto, della guerra. Occorre, con realismo, prenderne atto. Senza smettere di domandarsi qual è il modo per sfuggire alle logiche che lo rafforzano. Migranti. Governo sotto i riflettori: l’Ue valuta il Decreto immigrazione e sicurezza di Emanuele Bonini La Stampa, 31 gennaio 2024 Commissione e Corte di giustizia ribadiscono la centralità dei minori non accompagnati e il ricorso limitato ai centri. L’Italia e il governo Meloni sotto la lente d’ingrandimento di Bruxelles per le nuove regole in materia di gestione dei richiedenti asilo minorenni. La Commissione europea, rileva la commissaria per gli Affari interni, Ylva Johansson, “sta analizzando” le disposizioni contenute nel decreto legge Immigrazione e sicurezza del 5 ottobre 2023. L’esecutivo comunitario non è voluto entrare nel merito, nel rispetto del processo legislativo di uno Stato membro, e ha atteso l’esaurimento dell’iter di approvazione. Le nuove regole, entrate in vigore il 5 dicembre 2023, ora sono ora al vaglio per quanto riguarda il trattamento dei minori. C’è il dubbio che in Italia si faccia un ricorso troppo facile dei centri di accoglienza. Qui Johannson ricorda che sia la strategia dell’UE sui diritti dei minori del 2021 sia la comunicazione del 2017 sulla protezione dei minori migranti sottolineano che “la vulnerabilità dei minori migranti richiede una tutela, delle garanzie e un sostegno aggiuntivi e mirati” e che la detenzione dei minori dovrebbe essere utilizzata “come ultima risorsa e per il tempo opportuno più breve possibile”. E’ qui che l’esecutivo comunitario intende valutare “la conformità ai requisiti del diritto dell’Unione” del decreto Immigrazione e sicurezza. In Italia gli operatori intravedono il rischio che i minori non accompagnati finiscano in centri per adulti. Ma sono loro. I partiti di opposizione attaccano, e in sede europea il Movimento 5 Stelle, ha sollevato il tema con tanto di interrogazione sulle misure del governo Meloni e il rispetto delle regole comuni. Che si intrecciano con la giurisprudenza. La Corte di giustizia dell’Unione europea ha sancito la supremazia dei minori. Nel caso di migranti minorenni non accompagnati va garantito il ricongiungimento familiare con membri della famiglia già presenti su suolo Ue. Pronunciamenti del 2022, che stabiliscono anche che se il minore compie 18 anni mentre l’iter di gestione della domanda è in corso e non è chiuso, fa fede il momento in cui è iniziato. Il fatto di diventare maggiorenni durante la procedura non cambia l’obbligo alla protezione speciale. Un principio ribadito una volta di più anche con la sentenza di oggi. “Un rifugiato minore non accompagnato ha diritto al ricongiungimento familiare con i genitori anche se è diventato maggiorenne nel corso della procedura”. Questo il contenuto, che arriva nel momento in cui la Commissione annuncia di aver acceso i riflettori sulla legislazione italiana. La direttiva sul ricongiungimento familiare riconosce una specifica protezione per i rifugiati. Data la loro particolare vulnerabilità, la normativa favorisce specificamente i rifugiati minori non accompagnati concedendo loro il diritto al ricongiungimento familiare con i genitori e “tale diritto - specifica la Corte - non può essere subordinato alla maggiore o minore celerità nel trattamento della domanda”. Un elemento ulteriore che si inserisce nel dibattito italiano e nelle intenzioni della maggioranza tricolore. A cui la commissaria Johansson, chiamata in causa dagli italiani in Parlamento Ue, ricorda che “il principio dell’interesse superiore del minore deve costituire un criterio guida fondamentale per tutte le procedure, comprese quelle relative allo status di migrante”. Migranti. Naufragio di Cutro, Frontex accusa l’Italia: nuove rivelazioni sollevano i sospetti di Marco Bresolin La Stampa, 31 gennaio 2024 Un rapporto dell’agenzia Ue rivela: quando fu avvistata l’imbarcazione due ufficiali italiani erano con noi e non rilevarono alcun pericolo. Il monitoraggio spettava a Roma. Senza risposta l’offerta di un aereo per sostenere le attività di soccorso. Il rimpallo di competenze tra l’Italia e Frontex per il naufragio di Cutro, che nella notte tra il 25 e il 26 febbraio di un anno fa costò la vita ad almeno 94 migranti, si arricchisce di nuovi importanti elementi che sollevano ulteriori dubbi sulla condotta delle autorità italiane. Il primo: al momento dell’avvistamento del barcone, nella centrale di sorveglianza dell’agenzia a Varsavia c’erano anche due ufficiali italiani e “nessuno dei due ha comunicato che il caso fosse di particolare interesse”. Il secondo: quando Frontex ha deciso di non classificare l’avvistamento come situazione di pericolo, “non c’è stata alcuna obiezione” da parte degli italiani presenti nella sala, “né c’è stata la richiesta di fare ulteriori accertamenti”. Il terzo: subito dopo il naufragio, quando è stata decretata l’operazione di ricerca e soccorso, Frontex ha offerto la disponibilità di un aereo per perlustrare la zona, ma “non è stata ricevuta alcuna risposta scritta”. Il quarto: a posteriori, Frontex ha chiesto all’Italia informazioni sull’attività di monitoraggio intrapresa dopo la segnalazione, ma anche in questo caso non sono arrivate risposte. Gli elementi sono contenuti in un rapporto redatto dall’ufficio per i diritti fondamentali di Frontex che La Stampa ha potuto visionare. Il documento risale al 17 novembre scorso e sottolinea che, dopo la segnalazione dell’imbarcazione, l’Italia avrebbe dovuto “imperativamente” avviare un’attività di “monitoraggio o persino di assistenza” perché, pur in assenza di segnali di un pericolo imminente, “casi come questo possono degenerare rapidamente in una situazione di emergenza”. Sulle attività intraprese o meno dalle autorità italiane in seguito alla segnalazione da parte dell’agenzia, Frontex spiega di non avere elementi per giudicarle proprio perché non sono state fornite le informazioni richieste. Per questo spera che l’indagine della magistratura “porterà chiarezza”. I nomi e la funzione dei due “esperti” italiani citati nel documento sono stati protetti da “omissis”, ma secondo fonti di Frontex citate da “Euractiv” - il sito d’informazione che per primo ha rivelato l’esistenza del rapporto - si tratterebbe di un ufficiale della Guardia di Finanza e uno della Guardia Costiera. La Stampa ha contattato entrambi i corpi, ma non è stato possibile avere un commento a riguardo. Il documento ripercorre tutti i momenti-chiave di quella nottata, a partire dalla segnalazione dell’imbarcazione avvistata dall’aereo “Eagle 1” alle 22.26 del 25 febbraio 2023. “Al momento dell’avvistamento - si legge - entrambi gli esperti italiani erano presenti nella sala” e stavano “osservando il rilevamento in tempo reale”. “Nessuno dei due - annotano i funzionari di Frontex - ha comunicato al team leader che il caso fosse di particolare interesse”. Nel rapporto, inviato a Roma alle 23.03, sono state dettagliate tutte le informazioni: velocità di navigazione a 6 nodi e mare forza 4 (“moderato”), rilevamento di una telefonata satellitare partita dall’imbarcazione verso la Turchia, presenza di una persona sul ponte della nave, “possibile presenza di altre persone” sotto il ponte in base alla “significativa risposta termica”. Quest’ultima osservazione “è stata fornita in modo tempestivo”, anche se l’aereo di Frontex “non aveva i mezzi per stabilire in maniera indipendente” la possibile presenza di altre persone a bordo. Sulla base di questi elementi, “in assenza di evidenti segnali di situazione di pericolo”, Frontex ha considerato che l’imbarcazione non fosse in emergenza. E “non ha ricevuto obiezioni o consigli contrari da parte dell’esperto italiano che era nella stanza”. Dopo l’incidente, quando le autorità italiane hanno attivato le attività di ricerca e soccorso, nelle prime ore del mattino “Frontex ha offerto un sostegno aereo suggerendo il decollo anticipato di un mezzo di sorveglianza”. L’ufficio per i diritti fondamentali ha “esaminato tutta la corrispondenza” tra il team leader di Frontex e il centro di coordinamento marittimo italiano (Mrcc), ma in seguito all’offerta “non è stata ricevuta alcuna risposta scritta”. L’aereo è poi decollato comunque molte ore dopo, alle 17.58, e ha raggiunto il luogo della tragedia alle 20. Dopo tre ore di ricerche è rientrato alla base “senza aver trovato né corpi né superstiti”. Migranti. Il caso Apostolico in Cassazione. Il pm: atti alla Corte europea di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 31 gennaio 2024 Ma per la Procura è illegittima la “disapplicazione” del decreto da parte della giudice. Il “caso Apostolico” - dal nome della giudice catanese Iolanda Apostolico che per prima disapplicò il cosiddetto “decreto Cutro” sul trattenimento dei richiedenti asilo provenienti da Paesi considerati sicuri, ritenuto in contrasto con la normativa europea - approda nell’aula delle Sezioni unite civili della Corte di cassazione con un piccolo colpo di scena. La Procura generale sostiene che la decisione del tribunale di Catania è sbagliata e che le procedure di trattenimento si svolsero legittimamente, ma chiede di investire la Corte di giustizia europea: devono essere i giudici di Lussemburgo a stabilire se la “garanzia finanziaria” da quasi 5.000 euro prevista come alternativa al trattenimento è conforme o meno al diritto comunitario. La Cassazione - riunita al massimo livello per la “particolare rilevanza” della questione sollevata - emetterà il suo verdetto nelle prossime settimane, ma intanto la discussione andata in scena ieri nel “Palazzaccio” ha riportato la vicenda entro i naturali confini del diritto italiano ed europeo. Dai quali era ampiamente uscita con le polemiche politiche sui comportamenti “extra-giudiziari” della magistrata che firmò il primo provvedimento contestato, considerati di pregiudiziale opposizione al governo. Di quella diatriba non c’è stato il minimo sentore nel botta e risposta tra l’Avvocatura dello Stato, che a nome del ministero dell’Interno chiede di annullare le ordinanze catanesi (firmate non solo da Apostolico), e l’avvocata Emanuela Lo Faro che, per conto dei migranti tunisini ancora in attesa di conoscere il loro destino, sollecita la Corte a respingere i ricorsi governativi. In mezzo la Procura generale, secondo cui il decreto Cutro non è in “radicale contrasto” con la normativa dell’Unione europea sull’accoglienza e la protezione internazionale, e dunque i provvedimenti emessi a Catania sarebbero illegittimi. Tuttavia la norma che prevede il versamento di una cauzione di 4.938 euro (con fideiussione bancaria o polizza assicurativa) per non essere trattenuti negli appositi centri (fino a 4 settimane) potrebbe risultare così gravosa da non costituire una reale alternativa, e quindi essere incompatibile con la Direttiva comunitaria. Di qui la richiesta di inviare gli atti a Lussemburgo. Una posizione “intermedia” che fa gioco al governo Meloni per la premessa (il decreto non andava disapplicato), ma non per la conclusione. Sia pure attutito dal linguaggio prettamente tecnico, il documento sottoscritto dall’avvocato generale Renato Finocchi Ghersi e dal sostituto procuratore generale Luisa De Renzis afferma infatti che la richiesta di quella “garanzia finanziaria” è sostanzialmente irragionevole e sproporzionata. Impedire, ad esempio, che lo somma di denaro non possa essere fornita da terze persone “sembra introdurre criteri di eccessiva penalizzazione e di discriminazione”; e l’importo “indicato in misura fissa e non individualizzata” contrasta con la proporzionalità e l’adattamento alla “situazione individuale” richiesto da altre regole europee. Per non parlare di come una persona senza documenti possa accedere a una banca. Ciò nonostante, per i pm l’ultima parola spetta alla Corte di giustizia, l’unica che può dire se ogni valutazione sulla congruità di queste misure è rimessa ai singoli Paesi o invece ci siano criteri e “parametri desumibili dal diritto comunitario” da rispettare. Migranti. Cgue: ricongiungimento anche per il rifugiato diventato maggiorenne di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 31 gennaio 2024 Lo ha chiarito la Corte Ue, sentenza nella causa C-560/20, affermando che ha diritto al permesso anche la sorella non autosufficiente. Il raggiungimento della maggiore età nel corso della procedura di ricongiungimento familiare, da parte di un “rifugiato minore non accompagnato”, non osta all’ingresso dei genitori nell’Unione europea. Lo ha chiarito la Corte Ue con la sentenza nella causa C-560/20 (Landeshauptmann von Wien) aggiungendo che nel caso specifico deve essere concesso anche un permesso di ingresso e di soggiorno alla sorella maggiorenne del rifugiato non autosufficiente. Inoltre, tale diritto non può essere subordinato alla disponibilità di un alloggio, di un’assicurazione contro le malattie oppure a risorse sufficienti per loro e per la sorella. Il caso - I genitori e la sorella maggiorenne di un cittadino siriano, minore non accompagnato, hanno presentato domanda di ingresso in Austria dopo che il ragazzo aveva ottenuto lo status di rifugiato. Le autorità austriache glielo hanno negato in quanto, nel frattempo, il giovane siriano era diventato maggiorenne. A questo punto i familiari hanno promosso un giudizio dinanzi al Tribunale amministrativo di Vienna che, a sua volta, ha girato la questione alla Corte di giustizia. La sorella, si precisa nel rinvio, a causa di una paralisi cerebrale, dipende in modo totale e permanente dai genitori. La motivazione - In primo luogo, la Corte dichiara che un rifugiato minore non accompagnato, diventato maggiorenne nel corso della procedura relativa alla domanda di ricongiungimento familiare con i suoi genitori, ha comunque diritto al ricongiungimento. Si tratta infatti di un diritto che non può essere subordinato alla maggiore o minore celerità nel trattamento della domanda. In secondo luogo, la Corte rileva che, a causa della malattia della sorella, se quest’ultima non fosse ammessa al ricongiungimento con i genitori, il rifugiato sarebbe, de facto, privato del suo diritto. In tal modo violando sia l’obiettivo della direttiva relativa al ricongiungimento familiare, sia i dettami della Cedu. La Corte constata, in terzo luogo, che non si può esigere né dal rifugiato minorenne né dai suoi genitori che essi dispongano, per se stessi e per la sorella gravemente malata, di un alloggio sufficientemente grande, di un’assicurazione contro le malattie nonché di risorse sufficienti. È infatti praticamente impossibile, prosegue la Corte, per un rifugiato minore non accompagnato soddisfare tali condizioni. Parimenti, è estremamente difficile per i genitori del minore, concludono i giudici, soddisfare simili condizioni ancor prima di aver raggiunto il figlio. Pertanto, subordinare la possibilità del ricongiungimento familiare dei rifugiati minori non accompagnati con i loro genitori a queste condizioni equivarrebbe a privare tali minori del loro diritto al ricongiungimento. Ungheria. Caso Ilaria Salis, legalità perduta di Luigi Manconi La Repubblica, 31 gennaio 2024 Perché si è sopportato questo scempio per quasi un anno? C’è una ragione generale. E poi ce n’è una particolare. Come in un cupo dipinto medievale o nelle tavole di un allievo di Caravaggio o nella Ronda dei carcerati di Van Gogh, ecco la figura di Ilaria Salis in ceppi: è ammanettata mani e piedi e le catene che la legano sono agganciate a un cinturone impugnato da una guardia carceraria come un degradante guinzaglio. Sorride a testa alta, ma appare esausta. E se questa ostensione del corpo di Salis, dei suoi polsi e delle sue caviglie, non fosse l’involontaria documentazione di un dispotismo di regime, bensì un vero e proprio messaggio inviato all’Europa e all’Italia? In altre parole l’autocrazia ungherese sembra voler comunicare: questo è il nostro sistema penale, lo stato delle nostre carceri, il trattamento riservato agli accusati. È questa l’amministrazione della giustizia e il codice di procedura penale cui non vogliamo in alcun modo rinunciare e di cui dovete farvi una ragione. È difficile spiegarsi altrimenti la persecuzione alla quale, da undici mesi, è sottoposta la nostra connazionale: ogni tappa del suo calvario giudiziario e carcerario sembra destinata ad affermare violentemente il conflitto tra l’idea della giustizia coltivata da uno stato di diritto, e auspicata dall’Europa, e quella messa in pratica da una autocrazia sempre più illiberale. Insomma è in corso uno scontro asperrimo e, per così dire, all’ultimo sangue tra opposte concezioni del diritto. Non sembra rendersene conto il ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani, che ha solennemente dichiarato: “La magistratura ungherese è indipendente”. Qualcuno gli corra dietro e gli ricordi che il Parlamento europeo, la Commissione europea, la Corte europea dei Diritti umani, la pensano esattamente al contrario. Così si è arrivati a questo ultimo atto, indecente e oltraggioso, messo in scena nell’aula del tribunale di Budapest. È come se ci venisse detto: questa donna, e proprio perché fieramente antifascista, è una nemica e il nostro sistema penale e penitenziario la tratta di conseguenza, ricorrendo a quel “diritto del nemico” che tiene in spregio le garanzie dell’imputato e i diritti della persona detenuta. È, appunto, una limpida questione di democrazia. D’altra parte, cosa sono gli standard di civiltà giuridica indicati dalle convenzioni e dai trattati? Una formula che può apparire quanto mai rarefatta tanto essa risulta riservata a una dimensione di pura astrazione e di formalismo delle norme. Ma, se si pronunciano quelle parole mentre si guarda il video di Ilaria Salis in catene, si potrà avere un’idea del carico di sofferenze che la civiltà giuridica e i suoi strumenti (diritti, garanzie, tutele) può aspirare a contenere e a lenire. Intervistata da questo giornale, chi ha condiviso per qualche tempo la prigionia di Salis così racconta: “Eravamo nella stessa cella in 6-7, un bagno di un metro quadrato, un tavolo, nessun fornello, fon e bollitore, i letti infestati di cimici: io e Ilaria non abbiamo dormito per una settimana”. Si dirà, e non a torto, che le condizioni di molte celle del sistema penitenziario italiano non sono migliori, ma questo - lungi dal costituire una giustificazione - dovrebbe rappresentare una ragione di più per esercitare il controllo sulle condizioni di reclusione, in Italia come in Ungheria, e per contestare questa violazione sistematica dei diritti umani. Il carcere di Budapest è parte integrante dell’Ue e del suo spazio giuridico: dunque la sorte di Ilaria Salis interpella la coscienza europea e i suoi valori fondativi. Ma perché si è sopportato questo scempio di legalità per quasi un anno? C’è una ragione generale, dipendente dall’indifferenza che circonda quanto - e quanto di orrore - accade in tutte le carceri. E, poi, c’è una ragione particolare, dovuta alla forte amicizia politica che lega il governo italiano al regime ungherese e al suo leader. Se ne è scritto anche troppo in queste ore e il rischio è che sia una spiegazione sin troppo semplice. Proviamo, dunque, a rovesciare questo approccio e chiedere che il rapporto privilegiato tra la premier italiana e Viktor Orbán sia la risorsa alla quale attingere per compiere un atto di giustizia, consentendo a Ilaria Salis il trasferimento in Italia, dove attendere, agli arresti domiciliari, la sentenza del tribunale ungherese. Questa sì, sarebbe una prova di autorevolezza e di credibilità per il nostro governo. Così finora non è stato. Solo due giorni fa, il ministro Tajani ha denunciato con un tweet le condizioni di detenzione di Salis (un tweet? Ma che razza di politica è mai questa?) e ha convocato l’ambasciatore ungherese, ma risulta evidente che si sono buttati via mesi e mesi di totale inerzia. Il padre di Ilaria, Roberto Salis, ha dichiarato: “Finalmente l’ambasciatore italiano a Budapest ha trovato il tempo per incontrarmi, tra un party e l’altro”, benché sapesse che “nostra figlia era stata incatenata già quattro volte”. Insomma, per la diplomazia italiana, un’autentica bancarotta. Tenuto conto che gli italiani detenuti in un Paese straniero sono circa 2.200 ci si può solo augurare che la loro sorte sia tutelata meglio di quanto è finora accaduto alla 39enne maestra elementare cresciuta in Brianza. Ungheria. Caso Salis, Lega e Forza Italia in pressing: “Il governo riferisca” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 31 gennaio 2024 Tajani: “Si rispettino i diritti, ma Orban non c’entra”. Lollobrigida: “Non ho visto le immagini”. Lega e Forza Italia, assieme alle opposizioni, chiedono al governo di riferire in Aula sul caso di Ilaria Salis, italiana detenuta da quasi un anno in Ungheria e che lunedì è stata portata in udienza con mani e piedi ammanettati e tenuta con una catena da un’agente penitenziaria. Azzurri e leghisti percepiscono chiaramente la difficoltà di Fd’I nel gestire un caso che riguarda al tempo stesso una connazionale e un governo amico come quello di Viktor Orban, e per questo cercano di approfittarne pressando, da un lato, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni perché intervenga personalmente nella vicenda e, dall’altro, accusando “la sinistra” di voler “strumentalizzare la vicenda”. E Meloni interviene, ma solo in serata, sentendo l’omologo ungherese in vista del Consiglio Ue straordinario di dopodomani e portando il caso alla sua attenzione nel pieno rispetto dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura ungherese. Poche ore prima, l’informativa chiesta durante la capigruppo a Montecitorio, nella quale ha preso la parola il deputato azzurro Pietro Pittalis, che ha espresso “la più ferma condanna senza se e senza ma per l’ingiusto trattamento al limite del disumano che abbiamo purtroppo dovuto vedere in un paese europeo”. Per questo, ha aggiunto, “ci associamo alla richiesta sapendo che il governo non potrà che confermare le note positive del suo operato”. Sulla stessa linea anche l’intervento del deputato leghista Davide Bellomo, che ha concluso: “Esprimiamo parere favorevole alla richiesta di informativa ma non per le motivazioni che ho ascoltato dalle opposizioni”. Nel frattampo erano le uscite spericolate dei fedelissimi di Meloni (ci torneremo) a dimostrare la difficoltà di gestione di un caso che si è fatto via via più spinoso col passare delle ore. Sentito in audizione davanti alle Commissioni Esteri di Camera e Senato, Tajani ha spiegato che l’ambasciatore italiano in Ungheria Manuel Jacoangeli ha incontrato il ministro della Giustizia ungherese, dopo aver visto genitori e avvocati di Salis, e che questa mattina sono previsti nuovi colloqui tra Jacoangeli e la famiglia e tra quest’ultima e la detenuta. Pur specificando che “Orban non c’entra”, il segretario di Fi ha però sottolineato che “catene, lucchetti e vigilanti in tenuta antisommossa appaiono sproporzionati rispetto alle esigenze procedurali e non in linea con la direttiva comunitaria sul trattamento dei detenuti in attesa di giudizio”. Parole ben diverse da quelle espresse dai piani alti di Fd’I. “Basta andare a vedere un rapporto come quello fatto da Antigone per sapere che in Italia è più o meno uguale - ha detto ad Agorà su Rai Tre Nicola Procaccini, europarlamentare e copresidente del gruppo Ecr, mentre il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida si è difeso dietro un poco credibile “non ho visto le immagini e per questo non commento”. “Probabilmente il ministro dell’Agricoltura si è messo due fette di salame ungherese e non Made in Italy sugli occhi, visto che non riesce a vedere le violazioni dello Stato di Diritto e dei più basilari diritti dei detenuti da parte del suo amico Orban nei confronti di una cittadina italiana”, la risposta del segretario di PiùEuropa, Riccardo Magi. Il leader della minoranza internadi Fd’I Fabio Rampelli ha svelato di essere in contatto già da giorni con il padre della ragazza, che venerdì vedrà anche il presidente del Senato Ignazio La Russa. “Il problema riguarda la dignità dei detenuti, che deve stare a cuore a tutti, in Ungheria e in ogni altra parte del mondo, compresa l’Italia”, ha detto La Russa intervenendo in Aula a Palazzo Madama. Sdegno è stato espresso anche dal segretario della Cisl Luigi Sbarra, il quale ha chiesto l’intervento delle istituzioni italiane perché “il rispetto della persona e dei diritti fondamentali, anche di un detenuto, deve sempre essere garantito”. Sul piede di guerra le opposizioni, che chiamano in causa direttamente palazzo Chigi. “Meloni chiami Orban, gli dimostri tutto lo sdegno e riporti Ilaria Salis in Italia - ha detto il responsabile Esteri del Nazareno Peppe Provenzano - È stata portata in aula incatenata come una bestia, come nel medioevo e mi dispiace che un ministro della Repubblica abbia dichiarato di non aver visto quelle immagini, un trattamento che in Italia nemmeno al 41 bis”. E se il leader M5S Giuseppe Conte parla di governo “di patrioti non solerti”, Iv ha convocato per domani un flash mob davanti all’ambasciata d’Ungheria. Sul fronte processuale, probabile, a detta degli avvocati di Salis, che nella prossima udienza del 24 maggio vengano chiesti gli arresti domiciliari in Italia. Nessun commento da Bruxelles. “Quello che posso ricordare, è che la Commissione, nel dicembre 2022, ha presentato una raccomandazione sulle condizioni di detenzione degli Stati membri”, ha dichiarato il portavoce dell’esecutivo Ue per la Giustizia, l’uguaglianza e lo Stato di diritto, Christian Wigand. Ungheria. Giustizia al guinzaglio e diritti al macero: è la democratura di Orban di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 31 gennaio 2024 Il senso di Viktor per lo Stato di diritto: da anni Budapest applica un’agenda illiberale, dall’attacco alla separazione dei poteri alle bordate contro gli organi di informazione. Da quando Viktor Orban e la sua Fidesz sono saliti al potere nel 2010, l’Ungheria ha subito una decisa svolta populista che ha dato la spinta a iniziative ultraconservatrici e di attacco sistematico a diversi diritti fondamentali. È lo stesso Orban che con grande fierezza respinge l’idea di democrazia liberale modello dell’Ue, definendo “illiberalismo” il suo credo politico. Per il Parlamento europeo, che da anni tiene Budapest sotto osservazione, si tratta di un “ibrido di autocrazia elettorale” come sottolineato anche dall’Ocse per la quale le elezioni in Ungheria sarebbero “libere ma distorte”. Nel corso degli anni il blocco di potere di Orban ha così applicato un’agenda palesemente illiberale in vari settori della vita pubblica entrando in rotta di collisione con le istituzioni comunitarie in un continuo tira e molla di sanzioni e fondi congelati. Dall’attacco alla separazione dei poteri, alle bordate a testa bassa contro il pluralismo politico e gli organi di informazione non governativi. Budapest ha limitato la libertà di stampa attraverso leggi “anti fake news” degne della Russia di Putin o della Turchia di Erdogan, introducendo una pena detentiva di cinque anni per chiunque riporti informazioni errate sulla pandemia oppure sulle misure del governo, nominando dei dirigenti di Fidesz negli organi di controllo dei media nazionali. Il governo ha inoltre messo sotto tutela l’intero sistema giudiziario attraverso leggi che limitano l’indipendenza dei tribunali e dei magistrati. Di fatto, il potere giudiziario e quello mediatico sono diventati una variabile dipendente del potere esecutivo e legislativo, mandando in frantumi uno dei principi fondamentali dello Stato di diritto. Per chi ha seguito la deriva anti-democratica del decennio “orbaniano” le immagini, terribili, dell’italiana Ilaria Salis, trascinata in un’aula di tribunale con le manette ai polsi e alle caviglie, non creano particolare stupore. Se lo scorso maggio, per tentare di sbloccare i finanziamenti dell’Ue (circa dieci miliardi di euro), il governo ungherese ha varato una timida e incompleta riforma della giustizia che dovrebbe rafforzare l’autonomia della magistratura, troppe rimangono le violazioni compiute dal governo incompatibili con gli standard europei. Anche nel campo dei diritti civili le cose infatti non vanno meglio, basti pensare alla crociata contro le persone gay e le comunità Lgbtq, alla lunare associazione tra omosessualità, questioni di genere e pedofilia che caratterizza la “legge per la protezione dell’infanzia” censurata da Bruxelles e dal Consiglio europeo, o i provvedimenti contro le ong rivolti principalmente contro la Central European University, fondata proprio dal miliardario statunitense di origine ungherese George Soros noto per le sue idee progressiste e definito da Orban “una forza oscura che minaccia la sovranità dell’Ungheria”. In questa offensiva politica e culturale la parola d’ordine è: preservare l’identità nazionale magiara, un’eccezione culturale e linguistica circondata e minacciata dagli vicini slavi e germanici, ma soprattutto dagli immigrati di religione musulmana che, con la complicità delle ong, vorrebbero recidere le radici spirituali della società ungherese. L’operazione di recupero comprende anche e soprattutto l’identità religiosa, il cristianesimo che scorre nelle vene della nazione, la beatificazione della famiglia tradizionale, le critiche alla “dissolutezza morale” dell’Occidente con le sue “devianze”, il grande potere accordato alla Chiesa ungherese e alle scuole cattoliche, l’introduzione della teoria del “disegno intelligente” da contrapporre all’evoluzionismo darwiniano nei programmi ministeriali. Poi ci sono le espulsioni di massa di migranti minorenni in fuga dalle zone di guerra e le misure per rendere impossibile l’ottenimento del diritto d’asilo per gli stranieri. Anche l’invasione russa dell’Ucraina ha provocato ulteriori fratture con gli alleati europei; come fosse una quinta colonna del Cremlino, Budapest ha infatti posto il veto sul pacchetto da cinquanta miliardi di euro di aiuti destinati a Kiev ricevendo da Bruxelles la minaccia di nuove sanzioni economiche e il congelamento di un prestito di venti miliardi. Un tira e molla sfibrante in cui Viktor Orban sembra avere sempre il coltello dalla parte del manico. Ungheria. Manette, celle strapiene, parenti dietro il vetro: le carceri finiscono nel mirino Ue di Alessandro Grimaldi La Stampa, 31 gennaio 2024 La denuncia delle Ong: dal sovraffollamento deriva anche il problema della violenza, difficile da far affiorare. Un ragazzo ungherese, arrestato per crimini legati alla tossicodipendenza, ancora in attesa di giudizio, cade dal letto in carcere. Si rompe il femore. Dovrebbe essere operato d’urgenza ma viene trasferito in ospedale solo 12 ore dopo la caduta. Ha una gamba più corta dell’altra, ma quando si risveglia sul letto di ospedale ha comunque un piede ammanettato al letto. La giurisdizione europea vorrebbe che in questi casi i famigliari stretti vengano avvisati appena possibile, ma la famiglia viene informata solo dopo 24 ore. È una delle storie raccolte dal Comitato Helsinki Ungherese, l’Ong che si occupa del monitoraggio della situazione carceraria ungherese e che denuncia come l’Ungheria non abbia attuato le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo che stabiliscono violazioni dei diritti su larga scala riguardanti le condizioni di detenzione all’interno del Paese. La madre di tutti i problemi è il sovraffollamento delle carceri. Nell’istituto penitenziario di Gyorskocsi utca, che è anche il carcere delle detenzioni preventive, dove si trova Ilaria Salis, a fine ottobre 2023 si registrava una sovrappopolazione carceraria del 107%, 1.387 detenuti contro i 1.293 previsti. Secondo le statistiche Eurostat, nel 2021 nelle carceri ungheresi c’erano 191,38 detenuti ogni 100.000 abitanti, il numero più alto tra i Paesi Ue, quasi il doppio dell’Italia, 93,44. “Il sovraffollamento delle carceri porta con sé serie conseguenze. Problemi igienici innanzitutto. Se le cimici del letto sono un problema riaffiorato in Europa negli ultimi anni, nelle carceri ungheresi la disinfestazione viene effettuata, ma poi i detenuti vengono fatti rientrare non nei tempi opportuni e il problema persiste” dice Lili Krámer, criminologa, responsabile nel Comitato Helsinki della situazione carceri ungheresi. Dal sovraffollamento origina anche il problema della violenza, difficile in verità da far affiorare per la protezione reciproca tra il personale carcerario. Quando Orbán, già primo ministro nel 1998, torna al governo nel 2010, con la super-maggioranza dei 2/3 dei seggi in Parlamento che ha conservato anche nelle tre elezioni successive, riconferma molti dei suoi vecchi ministri tra cui agli Interni Sándor Pinter, figura grigia e mai sotto i riflettori, che ha poi mantenuto la stessa carica fino ad oggi. È Pinter che mantiene una delle grandi promesse della campagna elettorale di Fidesz, un inasprimento del codice penale che riempie subito le carceri ungheresi. Si finisce in prigione per furti, multe non pagate, e se ci sono di mezzo crimini violenti la pena raddoppiata al terzo crimine. La popolazione carceraria schizza alle stelle e serve a poco costruire nuovi istituti di pena se questi vengono subito riempiti, “è come avere una busta dove infiliamo sempre oggetti e non svuotiamo mai. Molto scarso è anche il ricorso alle pene alternative” dice Krámer. Anche vecchie carceri austroungariche, la più vetusta a Balassagyarmat ha circa 200 anni, restano in uso. Altri problemi vengono dallo stigma sociale ancora legato al carcere, che fa accettare ad esempio l’uso inumano delle manette a mani e piedi, una soluzione ora praticamente onnipresente, ma prima molto più rara. È diventata frequente quando nel 2017 si verificò il caso di un tentativo di fuga una volta sciolti i polsi. Nonostante una recentissima sentenza definitiva della Corte Europea, permane poi la presenza di un vetro di plexiglass durante i colloqui in molti istituti. È una decisione autonoma dei direttori. In teoria permessa solo in casi di evidente rischio di sicurezza, passaggio di oggetti e micro smartphone tra le parti. Stessa discrezionalità per il tempo di visita dei parenti richiesto dal pubblico ministero per timore di inquinamento delle prove. È quello che ha costretto Ilaria Salis a parlare per la prima volta con il padre solo dopo mesi dal fermo. Per due ore al mese. Romania. Detenzione shock: c’è un italiano in condizioni disumane di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 31 gennaio 2024 Sbattuto dapprima in una cella invasa da topi e zeppa di escrementi anche sui materassi, vecchi e maleodoranti, poi trasferito in una di circa 35 metri quadri dove alloggiano 24 detenuti, in condizioni igienico-sanitarie immonde, con un buco per terra per fare i bisogni, sporco e nauseabondo, e con la possibilità di lavarsi una volta alla settimana. Come se non bastasse, i riscaldamenti non funzionano mentre fuori ci sono temperature che in inverno raggiungono i 10 gradi sottozero. Parliamo di Filippo M., un giovane italiano recluso nell’istituto penitenziario di Porta Alba di Costanza in Romania. Uno dei peggiori istituti penitenziari di Europa. Questo grido di allarme emerge da un’interrogazione parlamentare presentata dal deputato Roberto Giachetti di Italia Viva, che denuncia le condizioni disumane e degradanti in cui versa Filippo M., il cittadino italiano detenuto in Romania. Il giovane di 29 anni, originario di Caltanissetta, si trova nell’istituto penitenziario di Porta Alba di Costanza, considerato uno dei peggiori carceri europei e già oggetto di condanne dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu) per trattamenti inumani e degradanti. La madre di Filippo, Ornella M., ha raccontato la drammatica situazione durante una conversazione con Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino, nel corso della trasmissione di radio Leopolda “Carceri, bisogna vederle” del 26 gennaio 2024, sottolineando non solo le criticità del processo, ma soprattutto le modalità cruente dell’esecuzione penale. Il giovane è stato arrestato il 3 maggio 2023, durante un festival musicale a Costanza, con l’accusa di traffico internazionale di sostanze stupefacenti. La condanna in primo grado è di 8 anni e sei mesi, con l’appello previsto per aprile 2024. Il quadro delle condizioni detentive è agghiacciante: appena giunto in carcere, Filippo è stato messo in isolamento Covid per 21 giorni in una stanza infestata dai topi e zeppa di escrementi. Successivamente il ragazzo è stato spostato in una cella di circa 35 metri quadri dove alloggiano 24 detenuti con un buco per terra per i bisogni. Ha la possibilità di lavarsi una volta alla settimana, raramente con l’acqua calda, in docce che consistono in tubi che fuoriescono dalle pareti senza separazioni per preservare un minimo di privacy. Anche i riscaldamenti non funzionano mentre fuori ci sono temperature che in inverno raggiungono i 10 gradi sottozero. Come se non bastasse, al giovanei è stato anche vietato di poter ricevere una coperta. L’alimentazione fornita dall’istituto consiste in una sgradevole poltiglia servita con il mestolo per cui i detenuti che possono permetterselo acquistano a caro prezzo ciò che fornisce lo spaccio interno, consistente prevalentemente in scatolame, biscotti e altri prodotti confezionati. In questo quadro desolante, è accaduto che il 26 gennaio scorso Filippo M. sia stato aggredito da un compagno di cella riportando una ferita al labbro e ustioni a una gamba e rischiando di essere accoltellato da un altro recluso. C’è da aggiungere che Filippo è un ragazzo incensurato che non aveva mai avuto problemi con la giustizia prima di questa vicenda, il che rende la sua situazione ancora più allarmante. Nella sua interrogazione parlamentare, il deputato di Italia Viva Giachetti chiede al governo se sia a conoscenza dei fatti descritti e cosa intenda fare tramite la propria rappresentanza diplomatica per tutelare e assistere il cittadino italiano, verificando le attuali condizioni di detenzione e il rispetto in esse delle regole europee sul trattamento dei detenuti. Inoltre, chiede quali iniziative di competenza intenda assumere affinché siano garantiti i diritti umani fondamentali del ragazzo italiano detenuto in Romania. Quindi non c’è solo il terribile caso di Ilaria Salis, detenuta in condizioni degradanti nel carcere ungherese. A ciò si aggiunge la vicenda di Filippo. Altro caso emblematico delle condizioni di detenzione inumane e degradanti che si verificano in alcune carceri europee. Il governo italiano è quindi chiamato a intervenire con la massima urgenza per tutelare i diritti umani del giovane italiano e garantire che sia trattato con dignità e rispetto. Stati Uniti. In aumento i crimini di odio nelle scuole di Marina Catucci Il Manifesto, 31 gennaio 2024 Un rapporto dell’Fbi, il primo di questo genere, ha rivelato che le scuole sono il terzo luogo dove avvengono più crimini d’odio negli Stati Uniti. Si parla di scuole che vanno dalla materna alle università, quindi il termine “crimine” va inteso con le giuste cautele, visto che coinvolge anche bambini di pochi anni, forse sarebbe più corretto parlare di una commistione di “azioni” o “episodi” e di crimini veri e propri, ma non per questo il dato è meno preoccupante. Leggendo il rapporto si vede che tra il 2018 e il 2022 l’agenzia ha rilevato più di 4.000 episodi d’odio nelle scuole, di cui oltre il 60% riguardano il ciclo che va dalla materna fino alle superiori, università escluse. I casi più comuni riguardano atti di intimidazione, vandalismo e aggressione fisica. Il target della maggior parte di queste azioni sono gli studenti neri, seguiti da quelli Lgbtq+ ed ebrei. Nel 2022 i reati d’odio nelle scuole hanno registrato un aumento, e ne sono stati denunciati più di 1.300 fra scuole e campus universitari. L’impennata nel 2022 rispetto ai due anni precedenti segnala anche il ritorno in presenza dopo il periodo pandemico che ha costretto molti studenti a casa; l’Fbi stessa lo sottolinea ed ha osservato nel suo rapporto che il calo del 3,9% delle segnalazioni di crimini d’odio dal 2019 al 2020 “potrebbe essere dovuto agli ordini di permanenza a casa legati alla pandemia che hanno causato il passaggio delle scuole dalle lezioni in presenza all’apprendimento online”. Al netto di questa precisazione l’Fbi ha sottolineato che gli atti d’odio contro gli studenti neri restano i più alti, si parla di 1.690 reati avvenuti nelle scuole nel corso dei cinque anni presi in analisi, seguiti da quelli contro gli studenti ebrei (745) e Lgbtq+ (741) che si equivalgono. Nel rapporto i federali spiegano anche che gli episodi, a cui loro si riferiscono, chiamandoli “incidenti”, sono composti da uno o più reati commessi dallo stesso soggetto, o da un gruppo di persone che agiscono insieme nello stesso momento e luogo, pertanto, “un incidente può comportare più di un reato”. Questa é la prima volta che l’Fbi e il Dipartimento di Giustizia pubblicano un rapporto completo sui crimini d’odio nelle scuole con il fine di aiutare un’analisi più approfondita dell’incidenza di questi episodi, in modo che le forze dell’ordine e le amministrazioni scolastiche e locali possano lavorare per “mitigare o prevenire episodi futuri nelle scuole”. Il rapporto è particolarmente importante in quanto arriva nel mezzo della guerra tra Israele e Hamas che, secondo i gruppi di difesa, ha portato a un picco di episodi di antisemitismo e islamofobia.