Emergenza carcere: già tredici suicidi nel primo mese dell’anno di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 gennaio 2024 L’ultimo caso nell’istituto di Imperia, dove un uomo si è impiccato nella sua cella. Bernardini e Giachetti in sciopero della fame. Il sistema carcerario italiano si trova di fronte a una grave emergenza, evidenziata non solo dal sovraffollamento, ma anche dall’incremento recente dei suicidi tra i detenuti. Sotto l’ombra lugubre delle mura di cemento, un’altra tragedia si è consumata nel sistema penitenziario italiano: un uomo sessantaseienne, in attesa di giudizio per tentato femminicidio, ha trovato la sua fine per impiccagione nella sua cella del carcere di Imperia. Siamo quindi alla tredicesima vita che si auto-annichilisce nel mese di gennaio, un dato che pone l’Italia di fronte a una crisi carceraria senza precedenti. Il Segretario Generale della Uilpa Polizia Penitenziaria, Gennarino De Fazio, denuncia il silenzio assordante del ministro della Giustizia, che sembra ignorare il dramma dietro le sbarre. Nordio, durante le celebrazioni dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, ha paragonato i suicidi in carcere a una ferita, una malattia da accettare. Tuttavia, De Fazio respinge questa visione, sottolineando che le malattie si curano, e le ferite si rimarginano solo se viene somministrata la terapia adeguata. La situazione attuale, secondo De Fazio, richiede una risposta immediata e decisa da parte del governo. Il ministro della Giustizia e il governo devono smetterla di ignorare la crisi e adottare misure concrete. La Uilpa Polizia Penitenziaria propone un decreto carceri urgente per consentire assunzioni straordinarie, con procedure accelerate, al fine di colmare il vuoto di 18mila unità nella Polizia penitenziaria. De Fazio continua sottolineando la necessità di un deflazionamento della densità detentiva attraverso una gestione esclusivamente sanitaria dei detenuti malati di mente e percorsi alternativi per i tossicodipendenti. Questo approccio mira a ridurre la violenza, le aggressioni e le privazioni, creando un ambiente più favorevole al recupero e alla rieducazione. Parallelamente, la Uilpa Polizia Penitenziaria propone l’implementazione di una legge delega per la riforma complessiva del sistema d’esecuzione penale. Questa dovrebbe includere la riorganizzazione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e del Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità, nonché la ristrutturazione del Corpo di polizia penitenziaria. Questo passo è cruciale per affrontare il sovraffollamento carcerario e garantire una gestione più sicura e umana delle strutture. Un sinistro trend - Per comprendere l’allarmante escalation dei suicidi, è interessante osservare la tabella aggiornata dalla redazione di Ristretti Orizzonti. I dati mostrano i 13 suicidi dietro le sbarre. Di questi, 12 sono avvenuti per impiccamento e uno per sciopero della fame. La distribuzione geografica dei suicidi è abbastanza uniforme, con un massimo di tre detenuti che si sono tolti la vita nel solo carcere di Poggioreale, in Campania. La tabella mostra anche che i suicidi in carcere sono un problema che riguarda tutte le fasce di età, dai 23 ai 66 anni, con quelli più frequenti sotto i 39 anni. La tredicesima persona che si è tolta la vita nel solo mese di gennaio segue un sinistro trend che sembra peggiorare rispetto agli anni precedenti. Il carcere di Montorio è tornato al centro della cronaca per l’ennesimo suicidio, con tre giovani che hanno compiuto il gesto estremo tra novembre e dicembre scorsi. “Sbarre di Zucchero”, l’associazione che ha diffuso la notizia del dramma nel carcere veronese, critica aspramente il lavoro dell’Esecutivo e le dichiarazioni del ministro Nordio, categorizzando i suicidi dietro le sbarre come una malattia incurabile da accettare. “Sbarre di Zucchero” ribadisce con forza che non è più tollerabile che le persone sotto la custodia dello Stato si tolgano la vita con questa drammatica frequenza, come ha evidenziato durante il presidio organizzato domenica scorsa (28 gennaio), di fronte ai cancelli del carcere di Verona. La situazione è allarmante, e senza interventi urgenti, tutto può sfuggire di mano. Nel 2022 ci sono stati 84 suicidi, nel 2023 69, e il trend preoccupante continua nel 2024. Rita Bernardini e il deputato di Italia Viva Roberto Giachetti, da giorni hanno iniziato uno sciopero della fame, il Grande Satyagraha, promosso da “Nessuno tocchi Caino”, chiamando al dialogo con le autorità, in particolare il ministro della giustizia Nordio, affinché prendano in esame misure deflattive. La crisi dei suicidi nelle carceri italiane, insieme al grave sovraffollamento, richiede azioni immediate e mirate. Governo e Parlamento devono affrontare la situazione con urgenza, considerando le proposte dei sindacati di polizia penitenziaria e delle associazioni radicali come punti di partenza per un cambiamento radicale nel sistema carcerario. Numeri allarmanti e inerzia del Governo - Riguardo ai suicidi, i dati dell’Oms del 2019 evidenziano una discrepanza significativa tra il tasso di suicidi nella popolazione generale e quello nelle carceri italiane. Mentre in Italia il tasso era di 0,67 casi ogni 10.000 persone, in carcere era di 8,7 ogni 10.000 detenuti, suggerendo gravi problemi nel sistema penitenziario. Mettendo in rapporto i due tassi, vediamo quindi come in carcere i casi di suicidi siano oltre 13 volte in più rispetto alla popolazione libera. Per questo motivo, tra le proposte di riforma del regolamento penitenziario presentate, l’associazione “Antigone” sostiene la necessità di dedicare maggiore attenzione ad alcuni aspetti della vita penitenziaria, affinché il rischio suicidario possa essere controllato e ridimensionato. A tal fine, il regolamento dovrebbe prevedere innanzitutto una maggiore apertura nei rapporti con l’esterno, tramite la possibilità di svolgere più colloqui e soprattutto più telefonate in qualsiasi momento. Grande attenzione va posta al momento dell’ingresso e dell’uscita dal carcere, entrambe fasi particolarmente delicate e durante le quali avvengono numerosi casi di suicidi. L’introduzione alla vita dell’istituto deve avvenire in maniera lenta e graduale, affinché la persona abbia la possibilità di ambientarsi. Maggiore attenzione andrebbe prevista anche per la fase di preparazione al rilascio a fine pena, facendo in modo che la persona venga accompagnata al rientro in società. Oltre alle fasi iniziali e conclusive dei periodi di detenzione, particolare attenzione andrebbe dedicata a tutti quei momenti della vita penitenziaria in cui le persone detenute e internate si trovano separate dal resto della popolazione detenuta perché in isolamento o sottoposte a un regime più rigido e con meno contatti con altre persone. Ma tutto ciò deve essere accompagnato da misure deflattive. Lo scorso collegio del Garante Nazionale, ricordiamo, ha pubblicato uno studio dove è emerso un aumento costante della popolazione carceraria negli ultimi tre anni, con un incremento totale di oltre 8.000 persone (8.031), corrispondente al 13,31%. Contemporaneamente all’aumento della popolazione detenuta, si è registrata una diminuzione dei posti effettivamente disponibili: si è passati infatti dai 3.371 del 2020, ai 3.905 posti in meno nel 2024. Il risultato di questa combinazione è un drammatico aumento dell’indice di affollamento, passato dal 113,18% nel 2020 al 127,48% attuale. Numeri che potrebbero indicare la necessità di rivedere la concezione della pena. La destra, in particolare Fratelli d’Italia, sembra non credere nelle misure alternative al carcere. Anche gran parte dell’opposizione, con la componente grillina che ha sempre esaltato le manette, rimane sostanzialmente in silenzio. In ultima analisi, il principio di legalità, caro alla destra, di fatto è messo in discussione dalle attuali condizioni delle carceri italiane. Un suicidio in cella ogni due giorni: “Il 2024 anno nero delle carceri” di Giuliano Foschini La Repubblica, 30 gennaio 2024 L’ultimo si è tolto la vita domenica a Imperia. Tredici morti nel primo mese è il doppio del 2022 quando si raggiunse il record di 84 vittime. Detenuti e agenti stavolta uniti nella critica al ministro Nordio che ha parlato di “una malattia ineliminabile”. Leggetela così: “Dall’inizio dell’anno, in 28 giorni, 13 persone sotto la responsabilità di una famiglia, sono morte. Suicidate”. Verrebbe giù tutto. Le telecamere si assieperebbero fuori da quella casa, non si parlerebbe d’altro, si racconterebbero dettagli sui carnefici e sulle vittime. E invece: 13 persone dall’inizio dell’anno sono morte sotto la responsabilità dello Stato. In carcere. Eppure la cosa sembra interessare a pochissimi. Nessuno conosce i loro nomi, nessuno si chiede le loro storie (che trovate in questa pagina): “I suicidi in carcere sono purtroppo una malattia ineliminabile”, ha detto al Parlamento dieci giorni fa, il ministro della Giustizia Carlo Nordio. Ma davvero è “ineliminabile?” Quei detenuti morti erano malati: tossicodipendenti, pazienti psichiatrici, persone che avevano più volte tentato il suicidio, fuori e dietro le sbarre. Avevano commesso reati, vero. Anche orrendi. Imperdonabili. “Ma in questa maniera - ragiona una delle operatrici di Antigone, infaticabile il loro lavoro - di reati se ne compiono due: li commette chi va in galera, e chi, lo Stato, non è in grado di proteggerli e rieducarli”. In questo inizio tragico di 2023, si diceva, i suicidi in carcere sono stati 13. I numeri sono fuori controllo: nel 2022, anno nero dei suicidi, con 83 vittime, a gennaio i detenuti che si tolsero la vita furono sette. Lo scorso anno quattro, con 69 alla fine dell’anno. L’ultimo suicidio, l’altra notte, a Imperia: Michele Scarlata, un 65enne che aveva provato ad ammazzare sua moglie e poi a uccidersi. È stato fatto di tutto per salvarlo? Perché Matteo Concetti, 23 anni, con un gravo disagio psichiatrico, che più volte aveva chiesto aiuto, era stato chiuso in una cella di isolamento del carcere di Ancona dove si è tolto la vita? Per una volta detenuti e agenti penitenziari sono dalla stessa parte, danno la stessa lettura delle cose. “A Nordio - attacca Gennarino De Fazio, segretario generale della Uil - diciamo che le malattie si curano, o per lo meno ci si prova: violenze, aggressioni, privazioni, sofferenze d’ogni genere. In carcere non se ne può più. Bisogna intervenire davanti a questa strage”. Michele Scarlata, Imperia, 29 gennaio 2024 - L’allarme lo ha lanciato il suo compagno di cella, a Imperia, alle sei del mattino di domenica: “Correte, è in bagno”. Non c’era più niente da fare: Michele Scarlata, 65 anni, era già morto. Era in carcere da poche settimane: aveva tentato di uccidere la sua ex compagna. Qualche settimana prima aveva tentato il suicidio ingerendo psicofarmaci e appiccando un incendio in casa. Ivano Lucera, Foggia, 25 gennaio 2024 - Ivano Lucera aveva 35 anni e una storia difficile, ma in fondo uguale a centinaia di altre: un percorso di dipendenze che lo avevano portato ad avere problemi a casa. Era in carcere per una storia di maltrattamenti familiari: si è impiccato con le lenzuola. Ahmed Adel Elsayed, Rossano Calabro, 25 gennaio 2024 - Trentacinque anni, di origine egiziana, è stato trovato dagli agenti impiccato nel bagno della sua cella a Rossano Calabro. Era in carcere per una questione di droga ma il prossimo anno avrebbe finito di scontare la pena. Era nell’ala di media sicurezza di un carcere che ospita la maggior parte dei detenuti per fatti di terorrismo. “E nonostante questo manca personale”. Jeton Bislimi, Castrogno, 24 gennaio 2024 - Si è ucciso nel carcere di Castrogno a Teramo: musicista macedone, 34enne, da anni in Italia, il 14 novembre scorso aveva tentato di uccidere sua moglie con dieci coltellate. Aveva poi provato il suicidio ingerendo psicofarmaci. Antonio Giuffrida, Montorio, 22 gennaio 2024 - Nel novembre scorso era stato arrestato a Verona, dove viveva, per una storia di truffe. La scorsa settimana si è ucciso nel carcere di Montorio, nella città che lo aveva ospitato: 60 anni, di origine siciliana, è possibile che sia scattato anche un effetto emulazione. A Verona negli ultimi mesi ci sono stati quattro suicidi e due tentativi. “Ora basta”, dicono gli agenti. Luciano Gilardi, Poggioreale, 22 gennaio 2024 - È morto il 22 gennaio, nelle 24 ore nere delle carceri italiane (tre suicidi), il terzo suicidio nel giro di una settimana nel carcere Poggioreale dove la situazione del sovraffollamento è sempre più grave: aveva 34 anni, era in carcere per questioni di droga e tra un mese appena sarebbe tornato libero. Andrea Napolitano, Poggioreale, 15 gennaio 2024 - Era all’ergastolo per l’omicidio della sua compagna, Ylenia Lombardo. Napolitano si è ammazzato nel carcere di Poggioreale: l’uomo era in cura da anni presso il Centro di igiene mentale ed era stato segnalato come ad alto rischio suicidario. Mahmoud Ghoulam, Poggioreale, 15 gennaio - È una delle vittime di Poggioreale. Senza fissa dimora, 38 anni, di origine marocchina, Ghoulam era entrato in carcere pochi giorni prima di Natale. Da tempo viene denunciato dagli operatori il caso del carcere napoletano, dove si sta anche in otto in una cella, con detenuti per lo più stranieri e con “gravissime difficoltà con la mediazione culturale”. Fabrizio Pullano, Agrigento, 12 gennaio 2024 - Secondo la Dda di Catanzaro, in un’indagine coordinata dal procuratore Nicola Gratteri, era il capobastone del suo clan: 60 anni. Pullano si è ucciso nel carcere di Isola di Capo Rizzuto, impiccandosi alle sbarre della sua cella. Era nel reparto di alta sicurezza, sorvegliato a vista, anche perché nei giorni precedenti proprio in quella sezione c’era stata una rivolta dei detenuti. Alam Jahangir, Cuneo, 10 gennaio 2024 - Alam Jahangir aveva compiuto da qualche mese 40 anni. Era nato in Bangladesh ma da tempo viveva in provincia di Cuneo, dove i carabinieri lo avevano arrestato il 28 dicembre per maltrattamenti. Si è impiccato con un pezzo di lenzuolo. Stefano Voltolina, Padova, 8 gennaio 2024 - “Con lui abbiamo fallito, come altre volte. Facciamo almeno qualcosa per non dimenticarcelo, il nostro fallimento. Di lui, di Stefano, io non mi potrò mai dimenticare”, ha detto parlando di lui la sua vecchia prof delle medie che, con sorpresa, aveva nuovamente incontrato Stefano, 26enne, nella biblioteca del carcere di Padova. Arrestato per una violenza, non ha retto la galera: quando è stato fermato soffriva già di una forte depressione. Stefano Bonomi, Rieti, 6 gennaio 2024 - Sessantacinque anni, si è lasciato morire di fame nell’ospedale di Viterbo, dopo un trasferimento dal carcere di Rieti. Era da settimane in sciopero della fame tanto che il magistrato di sorveglianza aveva ordinato il suo ricovero coatto. Ma la situazione era già troppo compromessa. Era in galera per un furto, protestava perché non aveva avuto accesso ai benefici di legge. Matteo Concetti, Ancona, 5 gennaio - Aveva 23 anni ed era nel carcere di Ancona per reati legati alla droga e contro il patrimonio. Sarebbe stato libero dopo qualche mese. Da quando era poco più che un bambino faceva i conti con la droga e un disturbo bipolare. Era in una cella di isolamento. Suicidi e violenza in carcere: una vittima ogni due giorni. Uil-Pa: “Casi raddoppiati in un anno” di Thomas Usan La Stampa, 30 gennaio 2024 Tredici detenuti si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno. E dal primo gennaio al 30 novembre 2023 sono state ben 1.612 le aggressioni ai danni di agenti di polizia penitenziaria. Quello di oggi, a Imperia, è stato il tredicesimo suicidio in carcere dall’inizio del 2024. Una strage, che conta quasi una vittima ogni due giorni. I casi sono raddoppiati rispetto a un anno fa, quando i suicidi nei penitenziari, a gennaio, erano fermi quasi alla metà: sette. “Violenze, aggressioni, privazioni, sofferenze d’ogni genere - commenta il segretario generale del sindacato di polizia penitenziaria Uilpa -. In carcere non se ne può più e non basta vedere, ma bisogna capire, programmare e intervenire. Allo stato attuale a nostro parere non vi sono più neppure i presupposti giuridici per mantenere le attuali strutture penitenziarie che non assolvono nemmeno minimamente ad alcuna delle funzioni che sono a esse demandate dall’ordinamento”. Il carcere di Imperia è uno dei più piccoli in Liguria e registra alcuni problemi comuni con altri penitenziari, come il sovraffollamento. In questo caso, a fronte di 54 posti disponibili, nella struttura scontano la pena 76 detenuti. Un dato allarmante che si aggiunge all’aumento dei casi di violenza all’interno degli istituti penitenziari: “Dal 1° gennaio al 30 novembre 2023 sono state ben 1.612 le aggressioni perpetrate da detenuti e internati ai danni di operatori del Corpo di polizia penitenziaria - spiega -, secondo i dati censiti dall’Ufficio Attività Ispettiva e di Controllo del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria”. Una cifra in netto rialzo in confronto al 2022: “Con una crescita del 39% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno (erano state 1.159 ndr), continua irrefrenabile l’escalation di violenza nelle nostre carceri - sottolinea il segretario generale di Uilpa, segno tangibile che anche alcune timide e parziali misure che sono state recentemente introdotte non hanno minimamente inciso sull’ordine e sulla sicurezza penitenziaria, a meno di non voler pensare che abbiano sortito l’effetto contrario a quello che si proponevano”. Nei mesi di ottobre e novembre si sono registrate le percentuali di aggressioni maggiori, rispettivamente, del 50% e del 79% in confronto agli stessi mesi del 2022 e anche in rapporto alla media del periodo da gennaio a settembre dell’anno in corso. L’appello del sindacato al governo - Dopo il caso di Imperia, De Fazio ha voluto lanciare un appello direttamente al governo Meloni: “Il Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che qualche giorno fa in Parlamento aveva paragonato i suicidi in carcere a una malattia da accettare - incalza -, intervenendo durante le celebrazioni dell’inaugurazione dell’anno giudiziario ha parlato di ferita. Al Guardasigilli diciamo che le malattie si curano, o quantomeno se ne leniscono i sintomi, e le ferite si rimarginano, purché si sia in grado di somministrare la terapia adeguata”. Ma non finisce qui: “Dal ministro della Giustizia ci aspettiamo l’indicazione di una strategia e delle soluzioni cliniche, per restare in metafora, e non la presa d’atto di un necroforo - conclude -. Serve subito un decreto carceri per consentire cospicue assunzioni straordinarie, con procedure accelerate, alla sola Polizia penitenziaria mancano 18mila unità, e il deflazionamento della densità detentiva pure attraverso una gestione esclusivamente sanitaria dei detenuti malati di mente e percorsi alternativi per i tossicodipendenti”. “Dietro ai suicidi c’è l’incapacità di affrontare l’emergenza carceri” di Carlo Di Gennaro veneziatoday.it, 30 gennaio 2024 Di Giacomo (Osapp): “Si confermano gravi problematiche, prima fra tutte il sovraffollamento”. Con il dato aggiornato delle ultime ore, in Italia da inizio anno si registra un totale di 13 suicidi all’interno delle carceri. Alcuni istituti preoccupano particolarmente: al Montorio di Verona - su cui di recente si è soffermata l’attenzione mediatica perché tra i detenuti c’è Filippo Turetta, reo confesso dell’omicidio di Giulia Cecchettin - si sono suicidati quattro reclusi negli ultimi due mesi, altri due hanno tentato di farlo. A Venezia il periodo più critico in questo senso è stata l’estate del 2023: tra giugno e luglio si sono tolti la vita il tunisino Bassem Degachi, il romeno Alexandru Ianosi e il brasiliano Alexandre Santos De Freitas, morto per avere ingerito tappi di bottiglia e palline da calcetto. Più di recente, l’8 gennaio, un 27enne di Chioggia si è suicidato nel carcere di Padova. Vicende di questo tipo mostrano il fallimento dello Stato, che ha il compito di custodire i detenuti, e della funzione degli istituti di reclusione, che è quella di rieducare il condannato. Ed “evidenziano in modo più forte le gravi problematiche delle carceri, prima fra tutte il sovraffollamento”, come spiega Aldo Di Giacomo, vicesegretario dell’Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziari. Secondo i dati del ministero della giustizia, aggiornati al 31 dicembre 2023, i 189 istituti italiani ospitano più di 60mila detenuti a fronte di una capacità di 51.179 posti. In Veneto, sempre al 31 dicembre, erano presenti 2.600 detenuti rispetto ai 1.947 che potrebbero essere ospitati. “Le presenze sono in costante aumento - ha spiegato la scorsa settimana il procuratore generale di Venezia, Federico Prato - e la situazione di sovraffollamento degli istituti di pena è particolarmente preoccupante”. L’identikit del detenuto suicida si caratterizza per un’età sempre più giovane e per problemi di natura psichica, mentre cresce il numero di stranieri. “Per noi - dice Aldo Di Giacomo - è indispensabile un sussulto dell’amministrazione penitenziaria e della politica ad occuparsi seriamente del carcere. L’emergenza ha superato il punto limite, con lo Stato incapace di garantire la vita delle persone che ha in custodia e la vita del personale oggetto di attacchi quotidiani. I dati del 2023 sono agghiaccianti: oltre 1800 aggressioni da parte dei detenuti al personale di polizia penitenziaria. È intollerabile”. La situazione, infatti, è resa ancora più critica dalla cronica carenza di organico e dalla scarsità di educatori. Questo crea difficoltà di gestione che aumentano non solo la probabilità di gesti di autolesionismo da parte dei detenuti, ma anche di proteste e, appunto, di episodi di violenza. “Il personale è all’osso - denunciava poche settimane fa Gianpietro Pegoraro, coordinatore della Funzione pubblica Cgil del Veneto -. Mancano sovrintendenti e ispettori e in ogni istante, visto il sovraffollamento, può scattare l’allarme”. A riepilogare le priorità è Umberto Carrano, dell’Unione dei sindacati della polizia penitenziari: “Per mettere in sicurezza il lavoro della polizia penitenziaria servono adeguamenti degli organici, individuazione di strutture idonee per gli psichiatrici e l’interessamento da parte del Asl, Regione Veneto e amministrazione penitenziaria per l’apertura di un apposito reparto, all’ospedale di Venezia, per accogliere detenuti che necessitano di assistenza ospedaliera”. Il diritto dei detenuti all’amore di Andrea Pugiotto L’Unità, 30 gennaio 2024 Dice la Consulta: la progressiva affermazione del diritto all’affettività carceraria altro non è che “una tappa importante del percorso di inveramento del volto costituzionale della pena. L’ordinamento penitenziario non ne parla. Il codice penale non la contempla. Nessun giudice l’ha mai irrogata. Eppure - benché priva di base legale - la deprivazione della sfera affettivo-sessuale è una punizione accessoria regolarmente inflitta a detenuti e detenute, senza eccezione alcuna: presunti innocenti o rei condannati. La buona notizia è che il Giudice delle leggi, finalmente, ha riconosciuto in questa primitiva punizione corporale una violazione al disegno costituzionale delle pene. E, con sent. n. 10/2024, ha rimosso dall’ordinamento penitenziario l’inderogabilità del controllo visivo sui colloqui tra il detenuto e il partner, tracciando la via per riconoscere anche in Italia la possibilità per il recluso di usufruire, in carcere, di spazi riservati in cui trattenersi con la persona cui è legato affettivamente, al riparo dal controllo degli agenti penitenziari. Tecnicamente, si tratta di una sentenza “additiva di principio”: dichiara illegittima l’assenza di una disciplina idonea ad assicurare l’effettività del diritto costituzionalmente riconosciuto. Il legislatore dovrà provvedere, stabilendone i modi “idonei a garantire l’esercizio dell’affettività dei detenuti, nel senso fatto proprio dalla presente pronuncia”. Nel frattempo, il diritto all’intimità inframuraria andrà assicurato dall’”amministrazione della giustizia, in tutte le sue articolazioni, centrali e periferiche, non esclusi i direttori dei singoli istituti” penitenziari. Sul come, tornerò più avanti. Prima ancora, infatti, in questa sentenza si può vedere il ritratto del “volto costituzionale della pena”, sfregiato in profondità dalla “desertificazione affettiva” causata dal dispositivo proibizionista, ora rimosso. La pena - ci ricorda la Consulta - comprime la libertà personale, ma non può sradicare le altre libertà con divieti generali e astratti ingiustificati. La pena, nella sua esecuzione, non può essere insensibile alle specifiche prospettive del rientro in società del singolo detenuto. La pena è una sofferenza legittima solo se inflitta “nella misura minima necessaria”, oltre la quale si risolve in una lesione della dignità della persona. Individualizzazione. Risocializzazione. Proporzionalità. Rispetto della dignità umana. La Costituzione dietro le sbarre questo significa, non il suo contrario: una Costituzione, cioè, prigioniera e impotente, cedevole alle esigenze di difesa e di vendetta sociale. Ecco perché -afferma la Consulta - la progressiva affermazione del diritto all’affettività carceraria altro non è che “una tappa importante del percorso di inveramento del volto costituzionale della pena”. Nella decisione della Corte si trova anche la conferma che il “pianeta carcere” non è un mondo a parte, ma è parte del nostro mondo. Non c’è motivo, dunque, perché non possa riconoscersi nelle carceri italiane quanto è raccomandato dal Consiglio d’Europa, quanto è affermato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, quanto è già riconosciuto in altri 31 paesi europei (ma anche, ad esempio, in Messico, Israele, Canada): la possibilità per il detenuto “di esprimere una normale affettività con il partner”. Infatti, a rendere l’amore dietro le sbarre un atto osceno - solitario, rassegnato, spesso subìto - è l’assenza di un’alternativa fin qui negata nel nostro Paese. Proprio perché quello penitenziario non è un ordinamento separato, la soluzione al problema dell’intimità in carcere non può essere delegata fuori dal carcere. L’alibi dei permessi premio non regge. Rispondono a “una logica premiale” impropria per l’esercizio di un diritto fondamentale. Sono benefici penitenziari cui accede “una quota modesta” di detenuti. Per tacere, poi, della paradossale condizione del detenuto in attesa di giudizio: in quanto recluso, gli è vietata l’affettività dietro le sbarre; in quanto imputato, non potendo fruire di permessi premio, gli è preclusa anche l’affettività extra moenia. Fa bene, dunque, la Corte costituzionale a riconoscere al problema in esame “una necessaria dimensione intramuraria”, che trova nei permessi premi “una risposta solo parziale”. Infine, è un mondo alla rovescia quello in cui si ridimensiona la negazione di una libertà (l’esercizio dell’affettività) perché, nel carcere, ben altre sono le libertà fondamentali negati. La logica dei diritti non è di reciproca esclusione, ma di coesistenza, se necessario attraverso un bilanciamento reciproco. Proprio perché interconnessi, l’attuazione della sent. n. 10/2024 costringerà a sciogliere anche altri nodi irrisolti: su tutti, quello di “strutture già gravate da persistenti problemi di sovraffollamento”. Eppure, già qualcuno parla di inutile sentenza-manifesto, “roba da vecchi illuministi incipriati che discettano in astratto”. In realtà i giudici costituzionali mostrano piena consapevolezza dell’”impatto” e dello “sforzo organizzativo” conseguenti alla loro decisione e della “gradualità eventualmente necessaria” alla sua attuazione. Tuttavia, la violazione di lunga durata della Costituzione e della Cedu “impone” il ripristino della legalità. Senza scuse e con la massima immediatezza possibile. Lo dimostra la tecnica decisoria scelta: la dichiarazione d’incostituzionalità, invece di un suo differimento ad altra udienza (com’è accaduto per la quaestio dell’ergastolo ostativo). Lo conferma il fatto che, “nelle more dell’intervento del legislatore”, è l’amministrazione penitenziaria ad essere chiamata “a un’ordinata attuazione dell’odierna decisione”, in collaborazione con la magistratura di sorveglianza chiamata a garantire la tutela giurisdizionale nei confronti degli atti della prima lesivi dei diritti dei detenuti (incluso l’esercizio dell’affettività inframuraria). Quanto alla legge che dovrà venire, nulla c’è da inventare. Il legislatore può capitalizzare il lavoro svolto dal Tavolo VI degli Stati generali per la riforma dell’ordinamento penitenziario, dedicato al “Mondo degli affetti e territorializzazione della pena”. Può recuperare le pertinenti iniziative legislative presentate, nella scorsa legislatura, dai Consigli regionali della Toscana e del Lazio. Può utilmente muovere dalla proposta di legge a firma dell’on. Magi (n. 1566) depositata alla Camera. Il guardrail di questa “azione combinata” tra legislazione, amministrazione e giurisdizione, è già nel catalogo in sentenza di problemi ed esigenze che si pongono per l’esercizio del diritto all’affettività in carcere: visite di durata congrua, non sporadiche, in locali appropriati e riservati, interni all’istituto; colloqui intimi cui ammettere - senza distinzione - il coniuge, la parte di unione civile, il convivente, la persona legata da “stabile legame affettivo”. Quanto alle sue limitazioni, andranno collegate esclusivamente a “esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina” nell’istituto e, per gli imputati, a “ragioni giudiziarie”. Anche l’amore in carcere, dunque, viaggia su un doppio binario che esclude i detenuti nei regimi speciali del 41-bis e della sorveglianza particolare, non anche i ristretti per reati cosiddetti ostativi, per i quali però si giustificherà “una più stringente verifica” circa i presupposti di ammissione al godimento del diritto. Quella prefigurata dai giudici costituzionali appare “una soluzione complessivamente mite e ragionevole” (Antonio Ruggeri). Si tratta ora di vigilare contro il rischio di manovre dilatorie che - c’è da scommettere - non mancheranno. Oggi, però, prevale la soddisfazione di vedere come dal ricorso di un detenuto nella Casa circondariale di Terni, valorizzato da un magistrato di sorveglianza avvertito e giuridicamente capace, l’impossibile si è fatto possibile: spes contra spem. “Io non esulto più per niente, ma sono contento”, ha scritto Adriano Sofri alla notizia della sentenza. Lo sono anch’io. Ok alla possibilità di garantire una vita sessuale ai detenuti: negarla lede la dignità della persona di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 30 gennaio 2024 Si apre finalmente la possibilità di garantire una vita sessuale alle persone detenute, a oggi da sempre negata nelle carceri italiane, a differenza di quanto accade in altri paesi europei. La Corte Costituzionale ha infatti reso nota la sua storica risposta al magistrato di sorveglianza del tribunale di Spoleto Fabio Gianfilippi - in un procedimento nel quale l’associazione Antigone aveva partecipato con un proprio atto di intervento - che la interrogava sul fatto se non fosse in contraddizione con i principi della Costituzione italiana la norma dell’ordinamento penitenziario che impone il controllo visivo del personale di custodia su tutti gli incontri che la persona detenuta effettua con i propri cari. Quando infatti nel 1975 entrò in vigore la legge fondamentale che regola ogni aspetto della vita nelle carceri del paese, il legislatore decise che i colloqui del detenuto o della detenuta con i propri parenti o con terze persone autorizzate non potessero venire ascoltati dall’autorità, ma dovessero svolgersi sotto lo sguardo della polizia penitenziaria. La Consulta dichiara oggi “l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 della legge sull’ordinamento penitenziario, nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia”. Non solo il coniuge, dunque. La straordinaria sentenza apre alle coppie di fatto, e quindi anche alle coppie omosessuali. Adesso i detenuti pretendono pure di fare sesso, si lamenterà sicuramente qualcuno. Ma se mettiamo da parte le lamentele e utilizziamo il ragionamento, è evidente come, se la pena deve avere come propria finalità quella di reintegrare il condannato all’interno della società, la privazione di una vita famigliare e affettiva pienamente vissuta costituisca un ostacolo alla finalità costituzionale della detenzione. La negazione della sfera affettiva e sessuale è una lesione della dignità della persona troppo grande per essere compatibile con il senso di umanità della pena. Gli organismi internazionali sui diritti umani affermano chiaramente che la persona detenuta non perde i propri diritti, se non quelli direttamente connessi con lo stato di reclusione. Sostanzialmente, la libertà di movimento. Non si perde però il diritto a essere curati dalle malattie, il diritto allo studio, il diritto alla libertà di informazione, il diritto alla vita di coppia e via dicendo. Si tratterebbe altrimenti di punizioni illegittime che nulla hanno a che fare con quelle previste dal codice penale. Purtroppo le carceri italiane sono piene di punizioni illegali. Il sovraffollamento che porta a vivere in spazi del tutto inadeguati ne implica senz’altro alcune. Il sistema penitenziario non è in grado di prestare la dovuta attenzione alle persone che tiene in custodia, perché sono troppe. Dall’inizio di questo 2024 sono già stati undici i detenuti che hanno scelto di togliersi la vita in carcere. Undici suicidi in meno di un mese, su una popolazione di circa 60.000 persone. Una piccola cittadina piena di tragedie. Speriamo che la nuova sentenza della Corte Costituzionale possa costituire un punto di partenza per rendere la detenzione meno disumana. Adesso sta all’amministrazione penitenziaria e alla magistratura di sorveglianza trasformare un diritto sulla carta in un diritto effettivo. *Coordinatrice dell’Associazione Antigone Illegittimo il divieto di affettività in carcere di Denise Amerini* collettiva.it, 30 gennaio 2024 La Corte Costituzionale afferma con una sentenza il diritto delle persone ristrette a trascorrere ore in intimità con il coniuge senza il controllo audiovisivo. È di pochi giorni fa la sentenza 10/2024 della Corte Costituzionale, con la quale si dichiara l’illegittimità dell’articolo 18 dell’ordinamento penitenziario, laddove “non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia”. L’art. 18, infatti, mentre esclude i controlli uditivi, prescrive in ogni caso il controllo visivo dei colloqui con il coniuge: “I colloqui si svolgono in appositi locali sotto il controllo a vista e non auditivo del personale di custodia” recita la disciplina. La sentenza è un ottimo risultato, raggiunto anche grazie alla mobilitazione di molte associazioni e organizzazioni, compresa la Cgil. Ricordiamo, fra le altre, la recente iniziativa “Affettività e carcere” promossa proprio per chiedere l’approvazione di una norma che garantisse la piena esigibilità del diritto all’affettività per le persone ristrette, come stabilito anche da atti sovranazionali, quali le raccomandazioni del Consiglio d’Europa del 1997. In quella occasione si chiedeva che il nostro Paese si dotasse finalmente di una legge, come già accaduto in molti Stati europei e non solo, che garantisse la possibilità di usufruire di appositi spazi, sottratti al controllo audiovisivo del personale di custodia, all’interno dei quali la persona ristretta potesse trascorrere diverse ore in intimità con i propri affetti. Più recentemente, lo scorso anno l’associazione Società della Ragione ha promosso un appello al riguardo, sottoscritto da molti giuristi, garanti, studiosi, cui anche la Cgil ha aderito. Oggi finalmente questa sentenza rimuove un limite pesante: i legami affettivi e familiari sono un parametro su cui modellare il processo di individualizzazione della pena, a prescindere da ogni valutazione premiale. E il diritto all’affettività e alla sessualità deve essere riconosciuto in sé e per sé, proprio in quanto diritto, la cui negazione confligge pesantemente con il principio costituzionale dell’umanità della pena, con la sua funzione rieducativa, perché la pena non deve mai essere afflittiva e negare i bisogni primari delle persone. Le necessità affettive sono espressione del più ampio diritto alla salute. Adesso il diritto è finalmente esigibile, e il parlamento deve adottare nel più breve tempo possibile una norma al riguardo, nel rispetto di quanto stabilito dalla sentenza della Corte, stanziando anche le risorse necessarie per garantire, insieme al personale necessario per soddisfare tutte le esigenze del carcere, i diritti e una vita dignitosa alle persone ristrette, troppo spesso costrette a trascorrere il periodo detentivo in spazi sovraffollati, angusti, fatiscenti, inadeguati, e senza possibilità reali di accesso a tutte quelle attività necessarie perché la pena risponda appieno al dettato costituzionale. Le persone ristrette devono scontare le pene decise dai giudici, nel rispetto delle norme, che consistono nella privazione della libertà ma non essere ulteriormente afflittive, mai lesive in nessun modo della dignità personale. Il sovraffollamento, l’alto tasso di suicidi e di atti autolesionistici dicono che oggi non è così. Per questo nel percorso tracciato con “La Via Maestra”, la Cgil sta organizzando un’iniziativa nazionale, con la partecipazione di studiosi ed esperti, che metta al centro i diritti delle persone ristrette: lavoro, salute, formazione, affetti, spazi dignitosi in cui vivere, in cui costruire il rientro a pieno titolo nella società delle persone libere. *Responsabile dipendenze e carcere dell’area stato sociale e diritti della Cgil Carceri, aspettando la norma che già c’è di Anna Grazia Stammati* cobas-scuola.it, 30 gennaio 2024 Il 2024 sembra essere iniziato, in carcere, sotto i peggiori auspici, con un andamento molto vicino all’annus horribilis, ovvero il 2022, caratterizzatosi per l’alto numero di suicidi tra la popolazione detenuta (circa 87 in un solo anno). Al 25 gennaio, infatti, sono 29 i morti nelle carceri italiane, di cui ben 11 per suicidio, mentre, proprio in questi stessi giorni, l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, per aver violato il divieto di tortura e trattamento inumano o degradante (articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo), in quanto non ha garantito le cure mediche necessarie a un detenuto, pur avendo stabilito che la prigione era compatibile con il suo stato di salute. La stampa, nazionale e locale, in continuità con l’anno precedente, riporta quotidianamente inchieste, dati, esperienze, posizioni, articoli, interviste a personalità autorevoli, che descrivono la realtà del carcere come un luogo infernale (dove a volte accadono anche buone cose, ma solo a volte) e di fronte a tale situazione emergenziale, da un lato si punta all’inasprimento delle pene e alla moltiplicazione dei reati per i cosiddetti crimini da allarme sociale, con le carceri che continuano a riempirsi (sono poco meno di 61.000 i detenuti, stipati in 47.540 posti, con un affollamento del 127% che in molti istituti - 103 su 189- raggiunge il 150%). Dall’altro lato, la maggior parte delle forze politiche richiede misure alternative alla detenzione, depenalizzazioni, indulti, decreti, nel giusto tentativo di sfollare le carceri, ma senza proporre, nel frattempo, cosa fare dentro le carceri, stracolme e inadeguate (anche negli istituti più “attrezzati”, non si riesce a fare tutto ciò che si dovrebbe, perché mancano direttori, educatori, magistrati di sorveglianza, assistenti sociali, docenti, agenti, personale amministrativo), per garantire a tutti i “ristretti” attività che permettano risocializzazione e ricollocamento al lavoro. Nell’annuale Relazione al Parlamento del dicembre scorso, il Garante nazionale delle persone private della libertà personale (Mauro Palma, ora sostituito dal nuovo Garante nazionale Felice D’Ettorre), ha fornito una precisa indicazione sull’area della sua azione in ambito penale, affermando che istruzione e formazione costituiscono “il primo intervento ‘trattamentalè. Perché sono queste a costituire il sostegno della consapevolezza che è preliminare all’assunzione della responsabilità - anche di ciò che si è commesso.” Tale sostegno è previsto, normato e sostenuto anche da protocolli stipulati tra Ministero dell’Istruzione e Ministero della Giustizia che dovrebbero darvi sostanza, ma la reale fruibilità dei percorsi di istruzione e formazione riguarda una esigua platea di “ristretti”, se si pensa che meno di un terzo della popolazione detenuta usufruisce dei corsi di istruzione. Le due istituzioni implicate nella determinazione di spazi e attività (Ministero della Giustizia e Ministero Istruzione, a cui il CESP e la Rete delle scuole ristrette da sempre hanno affiancato anche il Ministero dei Beni culturali), pur nei tentativi posti in essere, rimangono lontane da un intervento complessivo e soddisfacente per rispondere all’obbligo di fornire un trattamento adeguato ai detenuti. E pensare che al Ministero dell’Istruzione basterebbe aprire un Tavolo di confronto e fare il punto della situazione, come previsto persino dalla Legge 107/2015: “Decorso un triennio dal completo avvio del nuovo sistema di istruzione degli adulti e sulla base degli esiti del monitoraggio, possono essere apportate modifiche al predetto regolamento (art 1, comma 23) e che, al Ministero della Giustizia, basterebbe proseguire nell’attuazione di quanto scritto nei protocolli di intesa tra le parti e dar seguito alle Circolari e alle Linee di intervento già stabilite. Considerando il 2016, come l’anno di entrata a regime della Nuova istruzione Adulti, pur tenendo conto del Covid e della sospensione delle attività di istruzione, possiamo dire di essere oramai ampiamente fuori tempo, oltre che fuori norma, e che le strutturali carenze di personale e i mancati interventi a sostegno delle attività trattamentali, stanno creando un pericoloso corto circuito, in cui all’inerzia dei precedenti governi va sommandosi la deriva securitaria di questo governo, lasciando al degrado cui sono costretti i detenuti e all’autolesionismo, la risoluzione del problema, come dimostrano le statistiche relative alla percentuale dei suicidi in carcere rispetto a quelli che avvengono fuori. Mentre, infatti, nei paesi scandinavi la percentuale dei suicidi tra la popolazione libera appare più elevata rispetto alla popolazione detenuta, in Italia, al contrario, è percentualmente più elevato il numero di suicidi in carcere, rispetto a quelli della popolazione libera, a conferma che trattamenti più umani incidono nettamente, e in meglio, sulla vita e la riabilitazione dei detenuti. Nella lunga e complessa attività svolta in questi anni dal CESP e dalla Rete, al centro degli interventi per il riconoscimento della centralità di istruzione e cultura nell’esecuzione penale, sono stati posti quelli a sostegno delle attività didattiche, le quali, pur essendo le uniche a fornire continuità e a imprimere una diversa gestione dei tempi e degli spazi propri del carcere (e per questo entrando spesso in conflitto con la rigidità nella scansione degli stessi), ciononostante rimangono “al di qua” dei veri bisogni della popolazione detenuta, non riuscendo ad incidere veramente, né sul percorso trattamentale intrapreso dai detenuti, né sulla loro ricollocazione nella società. Con la caparbietà che ha contraddistinto i docenti e i dirigenti della Rete, tali interventi sono stati posti all’attenzione del Ministero della Giustizia che ha accolto molte delle istanze dei docenti, inserendo nel Programma nazionale di innovazione sociale dei servizi di esecuzione penale: legalità, cultura, sviluppo e coesione sociale, la realizzazione di progettualità, quali Biblioteche innovative in carcere (progetto presentato dal CESP e dalla Rete in partenariato con l’Università Roma Tre e svolto per sette anni a Rebibbia Nuovo Complesso), collegate in rete con le altre biblioteche del territorio, delle Scuole e delle Università degli Studi, strutturate in modo da diventare dei veri e propri poli culturali, oltre che di sviluppo di nuove professionalità; di Laboratori innovativi per la formazione professionale e per le attività lavorative e ricreative (nei diversi settori: sostenibilità ambientale, information & communication technology, etc.); per lo sviluppo delle Attività teatrali e delle Arti e dei mestieri, delle Attività sportive e delle professionalità correlate allo sport. Nonostante ciò e la necessità di attivare tali progettualità, già collaudate in molti istituti e gestite direttamente da questi e nonostante il coinvolgimento di sessanta docenti inseriti in altrettanti istituti penitenziari, la disponibilità di vari Dirigenti di scuole di primo e secondo livello e alcuni milioni di euro messi a disposizione degli istituti penitenziari per la realizzazione di attività trattamentali qualificate e attestate, a diciotto mesi di distanza si sono riusciti a realizzare pochissimi delle previste attività. Motivazioni? Le solite: mancanza di personale per la sorveglianza, difficoltà nella gestione di conti correnti che le direzioni devono aprire per ogni progettualità attivata, complicazioni nelle rendicontazioni dei fondi da parte dell’area amministrativa, impossibilità da parte dell’area educativa nel seguire i lavori progettuali oltre il già gravoso e complesso lavoro quotidiano. Dunque non mancano le norme, né le progettualità, già definite dalla programmazione della amministrazione penitenziaria (dunque non una semplice carrellata di fantasiose proposte progettuali e attività, come spesso avviene), ma vengono meno le possibilità di porle in essere, il che rende la finalità rieducativa, che è il vero obiettivo dell’esecuzione penale, una enunciazione di principio che non riesce ad avere seguito, e rende le norme un insieme di inutili e vane parole proprio agli occhi di chi sta intraprendendo la strada della “rieducazione”, attraverso la quale dovrebbe riacquisire il senso e il valore delle norme e del loro rispetto. Come abbiamo affermato in conclusione della nostra partecipazione al Festival Dei Due Mondi di Spoleto nel luglio scorso, per cercare di migliorare la vivibilità del carcere (senza nulla togliere a programmi di “sfollamento” dei penitenziari) non occorre aspettare norme che già ci sono, ma farle rispettare e, per riuscire nell’intento una volta per tutte e senza inutili attese, occorre partire da reti territoriali interistituzionali, per una presa in carico collettiva del carcere che rappresenta una realtà territoriale concreta, che va considerato come il pezzo di un quartiere delle città, per restituire il senso di una responsabilità comune nella gestione di un luogo che non può essere visto come semplice punto di arrivo di vite non omologate. Il CESP e la Rete, con il seminario svolto ad Alessandria il 1° dicembre scorso “Istruzione e cultura in carcere: La Rete delle scuole ristrette: Teatro e Biblioteche nei circuiti penitenziari” hanno iniziato a percorrere tale strada e accanto a docenti, dirigenti, direttori, educatori, hanno coinvolto gli attori istituzionali della città (sindaco, assessori, consulenti di Alessandria Incoming), con l’obiettivo di realizzare, a partire dal coinvolgimento di una molteplicità di forze sociali, quell’inclusione dei soggetti “ristretti”, che potrà poi acquisire nuova forza in un progetto di inclusione di livello nazionale. *Presidente CESP-Rete delle scuole ristrette Riflessioni in grate: la battitura dei ferri di Enrico Sbriglia* L’Opinione, 30 gennaio 2024 Chissà quante volte, verso le sei del mattino, mentre era inseguito dai pensieri, accucciato sotto la coperta di lana cotta dell’amministrazione penitenziaria, ruvida, così come lo sono le lenzuola e la federa che corredano il letto, meglio dire la branda ancorata alla parete, di acciaio, verniciata di un arancione spento, dove al posto della rete o delle doghe di legno, c’è una lamiera d’acciaio bucherellata, con sopra il materasso di una mescola antincendio spugnosa, avrà sentito il clangore della pesante chiave che ruota all’interno della serratura del blindato della sua cella. Entravano almeno in due, si trattava di agenti, uno con in mano una sorta di cilindro di metallo pieno, di regola di acciaio. No! nessuna preoccupazione, non stavano lì per aggredirlo, ma per fare la “battitura dei ferri”, quel rito quotidiano del sorvegliante che, con un movimento armonico, percuote tutte le sbarre delle finestre al fine di rilevarne, dal suono, la loro integrità. Nulla di straordinario, è solo uno dei mille rumori del carcere; quasi musicale per il poliziotto penitenziario esperto. Lo fa ogni giorno, tutti i giorni, nessuno escluso, almeno per due volte, mattino e sera. In fondo basta abituarcisi e immaginare che sia una sorta di cucù, come quello degli orologi svizzeri da parete, e la cosa passa inosservata. Certo, però, il nostro detenuto non può fare a meno di pensare che solo qualche ora prima, verso le tre o le quattro del mattino, anche se non ci fa ormai più caso, erano entrati ancora una volta gli agenti per fare la cosiddetta “conta dei detenuti”, accendendo i neon della stanza perché, si sa, le luci notturne non sempre funzionano e poi è meglio vedere bene, sono ergastolani. Anche questa è un’operazione che va compiuta più volte al giorno: serve per accertarsi sul numero degli ospiti che sono registrati come presenti, non voglia il Cielo che qualcuno abbia cercato di evadere. Ma ci sono le telecamere, gli allarmi, gli impianti anti-scavalcamento, diamine! È vero, ma tante volte potrebbero non funzionare e mancano semmai i soldi per ripararle e poi, francamente, gli occhi umani sono sempre un’altra cosa. Ma come potrebbe il nostro evadere, malconcio com’è, e poi dove potrebbe andare, con quali mezzi, soldi? Semmai rischiando di mettere nei guai i propri familiari, mah! Il nostro amico sardo, nel frattempo, ritorna a provare a dormire: domani lo aspetta un’altra giornata del nulla che si aggiungerà ai trenta anni che ha già consumato. Sono le sette, comincia ad albeggiare, sente il rumore stridulo delle rotelle del carrello della prima colazione: colazione? Nella ciotola di plastica in dotazione, che porgerà al ristretto “porta-vitto”, verrà versato un mestolo abbondante di caffellatte, con tanto poco caffè e tanto poco latte, estremamente liquido, ma digeribile, comunque una bevanda calda o alla peggio tiepida. Insieme a una ciriola da mangiare subito, prima che si solidifichi in un attimo. Che strano pane quello del carcere, tende a trasformarsi in poco tempo in pietra, come la pena. Il detenuto allora pensa al pane di casa, quello sì che è buono. Un pane che durava anche più giorni e che, insieme al pecorino fresco, ridotto a listelli con la lama affilata della sua pattada, gustava mentre vegliava sulle pecore che, pacifiche, brucavano l’erba delle colline, mentre le possenti querce da sughero regalavano la loro confortante ombra. È l’ora, però, di alzarsi e fare le abluzioni, si sente dopotutto fortunato, è in cella soltanto con un altro ristretto fisicamente più grosso di lui, anche il compagno sta dentro per omicidio, un omicidio che però ha confessato. Non sa se averne paura o meno, perché anche il nostro è recluso per omicidio, sono pari, sì, ma lui il reato non lo ha commesso, si è sempre proclamato innocente ma non è stato creduto: quante volte gli hanno chiesto di pentirsi del male fatto, di “cambiare vita”, di mostrare emenda, senso di responsabilità. In due i nostri prigionieri vivono meglio, anche se parlano poco tra loro, sono in fondo caratteri diversi, ognuno con i propri pensieri. Però hanno la fortuna di avere un bagno a disposizione; è un locale piccolo dove volendo, anche seduti sulla tazza, potrebbero cucinare o quantomeno girare il cucchiaio nel sugo che si accingono a preparare; lavarsi in due, ovviamente uno per volta, è più facile, purché si evitino gli schizzi di acqua sporca e saponata lì dove ci sono le pentoline, la caffettiera, i bicchieri di plastica e tutto il misero vasellame che costituisce la loro dotazione. La doccia non c’è, neanche il bidet, bah! dopotutto quando faceva il pastore non è che fosse così diverso, però che bello era, libero nei pascoli, poter guardare le stelle e sentire il vento sfiorare il viso, un vento che portava il profumo della macchia mediterranea e del mare. Nelle altre celle, invece, la vita è più difficile. Si è in quattro, sei, perfino otto, eh! Lavarsi diventa complicato, i minuti sono contati e tutti devono pisciare e cacare, e poi è lì che si deve cucinare e conservare quegli alimenti comperati, se si hanno i soldi sul proprio conto corrente, o quelli che vengono distribuiti dall’amministrazione penitenziaria o portati dai familiari. Avesse mai acquistato uno yogurt che non fosse prossimo alla scadenza, pensa il nostro, pur pagandolo come appena prodotto! Ma fa niente, dopotutto tutto ciò che non strozza ingrassa, ma almeno la carne un po’ più tenera non guasterebbe. In carcere oramai ha perso quasi tutti i denti, che volete? Mica c’è a disposizione dell’assassino o presunto tale il dentista e le protesi non sono gratis, dopotutto è un delinquente, un detenuto, suvvia! Non guarda più le sfere dell’orologio, a meno che non sia la giornata dei colloqui. Che bella la giornata delle visite! Ma anche che brutta, pensa, ove dovessero portargli delle tristi notizie: i genitori sono anziani e non lo vedranno più libero. Chissà com’è la ragazza del paese che corteggiava? Non riesce più a ricordarne la forma del viso, gli occhi sì, però. Mi fermo, le mie sono fantasie che rievocano i tanti racconti che ho ascoltato dai detenuti durante la mia vita professionale, anonime storie di prigionia. Forse sono state pure quelle di Beniamino Zuncheddu e dei suoi trentatré anni di carcere, prima che, a seguito del processo di revisione della condanna per la quale era stato condannato all’ergastolo, venisse proclamato innocente per non avere commesso il duplice omicidio. Potrebbero essere stati solo alcuni tra i più modesti momenti della sua prigionia, quelli “semplici” e innocui. Ma rituffandoci nella realtà: pensate che davvero ci sarà un modo per compensare quello che ha sofferto, patito, subito questo nostro cittadino? Quello che è accaduto a lui poteva capitare a tanti; poteva succedere anche a tutti coloro che, erroneamente confidando nelle leggi e nel rispetto di ogni procedura, scoprissero, invece, che vi è un mondo di una perfida Minerva, popolato da malvagi custodi, nel quale si preferisce l’abbrevio delle indagini, sostenute da teoremi e sotto-teoremi, alla defatigante e paziente raccolta di ogni elemento di prova: in quella dimensione priva di umanità, ogni mezzo è buono pur di dare in pasto a una opinione pubblica facilmente influenzabile, una giustizia da finger food, da consumare subito per poi leccarsi le dita, ma con quelle dita si inferiscono profonde ferite che deturpano la società. *Penitenziarista, coordinatore nazionale dei dirigenti penitenziari della Fsi-Usae (Federazione sindacati indipendenti dell’Unione sindacati autonomi europei) Al via il progetto Fipe per educare e formare al lavoro i detenuti di Enrico Netti Il Sole 24 Ore, 30 gennaio 2024 Oggi la firma del protocollo tra Fipe, il ministero della Giustizia e Seconda Chance. I reclusi vicini al fine pena possono lavorare all’esterno per poi rientrare in carcere. Viene firmato oggi il protocollo tra Fipe-Confcommercio, il Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap) presso il ministero della Giustizia e l’associazione Seconda Chance per creare percorsi di inserimento nel mondo del lavoro di detenuti. “Il nostro obiettivo è favorire la rieducazione dei reclusi e investire nel futuro della comunità perché i dati dimostrano che quando una persona in carcere impara un mestiere, un lavoro rientra poi nella società civile a tutti gli effetti” spiega Andrea Ostellari (Lega), sottosegretario di Stato alla giustizia con deleghe al trattamento dei detenuti, giustizia minorile e di comunità. Nel caso dell’accordo con Fipe si punta a creare o sviluppare professionalità come quelle di aiuto cuoco e altre figure della brigata di cucina ricercate dagli esercenti. “Il protocollo permette alle persone meritevoli e vicine al fine pena di lavorare all’esterno per poi rientrare in carcere la sera ma anche di fare lavorare più persone all’interno delle strutture per raggiungere un maggiore numero di detenuti - sottolinea O stellari che aggiunge -. Inoltre il governo si impegna a modificare la legge Smuraglia per incentivare ancora di più l’ingresso di aziende all’interno degli istituti”. Da un paio di anni Seconda Chance collabora con Fipe per la formazione e il training operativo di detenuti selezionati dalle aree educative, ammessi al lavoro esterno oppure in condizione di ottenere la semilibertà o l’affidamento in prova poi inseriti in pubblici esercizi. Una partnership che prevede lo sviluppo di intese anche a livello locale per intercettare e creare concrete occasioni di ripartenza. Fipe, Seconda Chance e il Dap individueranno i detenuti da coinvolgere nei progetti. “La fase propedeutica è andata bene e la stragrande maggioranza dei soggetti inseriti nel progetto ha continuato a lavorare con lo stesso imprenditore al termine della pena” racconta Aldo Cursano, vice presidente vicario nazionale Fipe che segue l’iniziativa insieme a Roberto Calugi, direttore generale Fipe. “Lavoriamo per sensibilizzare gli imprenditori anche con dei web seminar e quando trovano un capace aiuto cuoco, un pizzaiolo, un pasticcere se ci sono i presupposti al termine della pena si può arrivare al contratto a tempo indeterminato”. Un ruolo chiave nel progetto è in capo a Seconda Chance, associazione del terzo settore fondata e guidata da Flavia Filippi nel 2022. “Con la firma di domani (oggi per chi legge ndr) si consolida un rapporto che ha portato a 230 offerte di lavoro da parte di imprenditori mentre una trentina di detenuti oggi sono in attesa dell’approvazione da parte del magistrato di sorveglianza - dice Flavia Filippi -. È soprattutto nella ristorazione che si trovano opportunità di lavoro per i reclusi e con Fipe porteremo tanti altri ristoratori in carcere per valutare se trovano personale adatto alle loro attività”. Non mancano i percorsi alternativi: Seconda Chance con il Gruppo Bosch sta avviando un iter di formazione per meccanici di e-bike nelle carceri di Torino, Como, Monza e Ancona, con Amplia Infrastructures, gruppo Autostrade per l’Italia, si sta assumendo un detenuto a Bologna e uno a Firenze. Terna invece ha scelto un detenuto che dopo un anno a tempo determinato è stato assunto. La Fabbrica di San Pietro, in Vaticano, ha scelto un detenuto elettricista e altre due figure sono in arrivo. Video-lezioni per 20mila studenti-detenuti: intesa Giustizia-Rai ansa.it, 30 gennaio 2024 400 pc e 1.800 ore di video-lezioni in 190 istituti penitenziari. Quattrocento PC, con oltre 1.800 ore di video-lezioni destinati dalla Rai ai 20mila studenti detenuti presenti nei 190 istituti penitenziari. Sarà presentato giovedì 1 febbraio, alle ore 11 nella casa circondariale di Civitavecchia (Via Aurelia nord km 79,500 Roma), il programma “Scuola esercizio di libertà”, accordo tra Rai e ministero della Giustizia, che si inserisce nell’ambito del progetto quadro “La Cultura rompe le sbarre” di Rai Per la Sostenibilità-ESG. Interverranno il ministro della Giustizia Carlo Nordio, la presidente della Rai Marinella Soldi, il capo del Dap Giovanni Russo, il direttore di Rai per la Sostenibilità Roberto Natale, la direttrice di Rai Cultura Silvia Calandrelli e la direttrice del carcere Patrizia Bravetti. Sui 400 pc, attraverso un apposito software, la Rai ha reso accessibili offline, per gli studenti detenuti che non possono accedere ad internet, il lavoro realizzato da Rai cultura per Rai scuola: oltre 1.800 ore di video-lezioni di “La Scuola in tivù”, suddivise per materia e livello scolastico. La presentazione del progetto si terrà in presenza fino al raggiungimento dei posti disponibili e in streaming sul sito www.rai.it/ufficiostampa. I giornalisti e i cine/foto-operatori interessati dovranno accreditarsi inviando una email agli indirizzi cc.civitavecchia@giustizia.it e iniziative@rai.it, non oltre le ore 13 di mercoledì 31 gennaio, indicando nome, cognome, testata ed estremi di un documento di riconoscimento. Giustizia, la maggioranza tenta il blitz al Senato: subito in Aula il ddl Nordio che cancella l’abuso d’ufficio di Liana Milella La Repubblica, 30 gennaio 2024 È l’unico provvedimento firmato solo dal Guardasigilli: contiene anche la prima stretta sulle intercettazioni e impone l’interrogatorio dell’indagato prima dell’arresto. Subito in aula il no all’abuso d’ufficio e la prima stretta sulle intercettazioni. Se la maggioranza la spunta, potrebbe arrivare già questa settimana in aula al Senato il primo e unico disegno di legge del Guardasigilli Carlo Nordio. Quello che cancella il reato di abuso d’ufficio e comincia a vietare la possibilità di pubblicare le intercettazioni che vedono coinvolte terze persone. Da ieri la maggioranza lavora per quest’obiettivo, verificando se al suo interno l’accelerazione è condivisa e soprattutto sostenuta. E nella capigruppo fissata per le 15 sicuramente può contare sui numeri per spuntarla. Dopo il voto della Camera sulla nuova prescrizione - via quelle di Bonafede e Cartabia, si torna a una Orlando rivisitata - e soprattutto in attesa che anche questo provvedimento passi dalla commissione Giustizia, l’obiettivo dello stesso Nordio è quello di far votare in fretta sul suo ddl, ormai in attesa addirittura dall’inizio di agosto dell’anno scorso. Votato a palazzo Chigi all’inizio di giugno, il testo è poi rimasto “prigioniero” della Ragioneria che non riusciva a trovare la copertura necessaria per assumere i 250 giudici chiesti da Nordio per far decollare tra due anni il cosiddetto “gip collegiale”, cioè l’attuale giudice per le indagini preliminari che si “moltiplicherebbe” per tre diventando così un collegio di toghe molto più agguerrite rispetto all’unico gip attuale, per fare le pulci ai pubblici ministeri ed esaminare con più ampiezza, ma anche con più forza, le richieste di misure cautelari ma anche quelle per mettere un telefono sotto controllo o ancor peggio attivare il Trojan. All’idea dell’immediata discussione in aula sono ovviamente contrarie le opposizioni - Pd, M5S, Avs - che già si sono viste bocciare tutti gli emendamenti presentati che chiedevano sia di mantenere l’abuso d’ufficio, sia di cambiare del tutto la linea sulle intercettazioni. Col governo invece schierata Italia viva, e una volta in aula anche Azione. Tra le misure criticate anche quella che obbligherà il pm a interrogare l’indagato in procinto di essere arrestato proprio prima che venga fermato per ascoltare le sue “ragioni”. Una misura garantista voluta da Nordio, che vieta anche di pubblicare fino al processo tutte le intercettazioni che riguardano terze persone non coinvolte direttamente nelle indagini. All’accelerazione del ddl Nordio in aula può far seguito, nella commissione Giustizia a guida Giulia Bongiorno, che è diventata uno snodo di provvedimenti del governo, anche un ddl cofirmato dalla stessa Bongiorno e dal capogruppo di Forza Italia Pierantonio Zanettin sugli smartphone e sulle regole per porli sotto sequestro con forti limiti su tutto quello che non rientra nella pura e semplice comunicazione. All’insegna dello slogan di Nordio - “nel cellulare ormai c’è tutta una vita” - e dopo la sentenza della Consulta sul caso Renzi, il ddl sostenuto a gran voce dalla maggioranza, ma anche da Azione e Italia viva, metterà regole stringenti sull’uso di quanto “sta dentro” i cellulari. Quando la giustizia ti ruba la vita: tutta la storia di Beniamino Zuncheddu di Ermes Antonucci Il Foglio, 30 gennaio 2024 il più grave errore giudiziario di sempre. L’incredibile vicenda dell’ex pastore sardo, assolto dopo oltre 32 anni passati in carcere da innocente. Il depistaggio nelle indagini, i giudici che hanno fatto carriera, l’assoluzione nel processo di revisione- Quando lo scorso 27 novembre è stato scarcerato dopo oltre 32 anni, in attesa della sentenza del processo di revisione, Beniamino Zuncheddu si è avviato a piedi per tornare a casa. Una casa che era stato costretto a lasciare all’età di 26 anni, distante quaranta chilometri dal carcere da cui stava uscendo, quello di Cagliari Uta. Per fortuna Irene Testa, Garante dei detenuti della Sardegna e tesoriera del Partito radicale, una volta saputo dell’accoglimento dell’istanza di sospensione della pena, si è catapultata alle porte del carcere cagliaritano, intercettando Zuncheddu. “Voleva scappare via da quel posto, aveva paura che da un momento all’altro potessero incarcerarlo di nuovo”, racconta Testa al Foglio. Poi Zuncheddu, ancora frastornato, è stato accompagnato in auto al suo paese, Burcei, dove è stato accolto da una festa organizzata in parrocchia dai suoi concittadini e alla presenza del sindaco. È facile essere disorientati dopo 32 anni di carcere, soprattutto se trascorsi da innocente, come ha definitivamente stabilito venerdì scorso la corte d’appello di Roma, al termine del processo di revisione. Non è stato Zuncheddu, ex pastore di 58 anni, a compiere la cosiddetta “strage del Sinnai”: un triplice omicidio avvenuto l’8 gennaio del 1991, quando sulle montagne di Sinnai furono uccisi tre pastori e una quarta persona rimase gravemente ferita. In altre parole, Zuncheddu ha trascorso oltre 32 anni in carcere ingiustamente: si tratta del più grave errore giudiziario della storia del nostro Paese. Per capire come tutto ciò sia stato possibile bisogna tornare al gennaio 1991 e a ciò che accadde subito dopo la strage. Inizialmente le indagini non portarono a nessun risultato. L’unico superstite e testimone oculare, Luigi Pinna, riferì agli inquirenti di non aver potuto riconoscere colui che aveva sparato perché aveva una calza da donna sul volto ed era notte. A fine febbraio Pinna cambiò improvvisamente versione, a seguito dell’opera di convincimento da parte di un poliziotto, e indicò Zuncheddu come autore della strage. Zuncheddu fu condannato all’ergastolo. Ha trascorso 32 anni nelle carceri sarde di Badu e Carros, Buoncammino e Uta. Sono stati due episodi a cambiare il destino di Zuncheddu. Il primo risale al 2016, quando l’avvocato Mauro Trogu ha preso in carico la difesa dell’ex pastore sardo, diventando presto il suo angelo custode. Attraverso le sue indagini difensive, infatti, nel 2019 Trogu riuscì a convincere l’allora procuratrice generale di Cagliari, Francesca Nanni, ad aprire un processo di revisione per esaminare le nuove prove a sostegno dell’innocenza di Zuncheddu. Nanni giunse alla conclusione che la strage non era legata a presunti dissidi fra allevatori, bensì a un sequestro di persona che si era consumato in quella zona nello stesso periodo. Riaperto il caso, la procura autorizzò nuove intercettazioni ambientali nei confronti del superstite Luigi Pinna dalle quali emersero ammissioni e anche parziali pentimenti sull’accusa rivolta oltre trent’anni prima nei confronti di Zuncheddu. Il secondo momento di svolta è giunto l’estate del 2023, quando purtroppo Zuncheddu ha avuto un crollo fisico e psicologico preoccupante, che ha spinto l’avvocato Trogu a rivolgersi al garante Irene Testa. “Andai subito a trovare Beniamino in carcere - racconta Testa - Il processo di revisione era fermo da tre anni in corte d’appello e questa situazione stava spingendo Beniamino a lasciarsi andare. Stava perdendo tutte le speranze: essendo uscite le intercettazioni che lo scagionavano già da tre anni, si aspettava di poter uscire subito, invece era rimasto tutto fermo”. Irene Testa decise così di portare la vicenda all’attenzione nazionale, attraverso la trasmissione che conduce su Radio Radicale, intitolata “Lo stato del Diritto”. La vicenda di Zuncheddu ha così cominciato a conquistare l’attenzione di alcuni organi di informazione nazionale. Gaia Tortora, vicedirettrice del Tg La7 e presidente onoraria del Partito radicale - figlia di Enzo Tortora, al cui nome è legato il più celebre caso di malagiustizia italiana - ospita in trasmissione l’avvocato Trogu e Irene Testa, dando risalto al caso di Zuncheddu. Grazie all’attenzione mediatica, il processo di revisione riprende slancio, soprattutto per volontà del presidente della quarta Sezione penale corte d’appello di Roma, Flavio Monteleone. Nel corso dell’udienza del 14 novembre arriva l’ennesima svolta. Pinna infatti riferisce che all’epoca un poliziotto, Mario Uda, gli mostrò una foto di Zuncheddu prima di essere interrogato dal magistrato. “È lui il colpevole”, disse il poliziotto a Pinna, indirizzando le indagini. Pinna accusò così proprio Zuncheddu. Venerdì è arrivata la sentenza da parte dei giudici: assolto “per non aver commesso il fatto”. La Corte ha anche disposto la trasmissione degli atti alla procura capitolina in relazione a tre testimonianze rese in aula, tra cui quella dell’ex poliziotto che si occupò delle indagini all’epoca. L’innocenza di Zuncheddu è stata definitivamente riconosciuta dopo quasi 33 anni. “In carcere mi dicevano sempre: ‘Se ti ravvedi ti diamo la libertà’. Ma di cosa mi devo ravvedere se non ho fatto niente? Perché non ho accettato? Perché non ho fatto niente”, ha affermato l’ex pastore sardo in una conferenza stampa organizzata dai radicali. In questi giorni Zuncheddu preferisce non parlare, provato dal trambusto derivato dalla sua assoluzione e dai problemi di salute che lo affliggono. “Al momento dell’assoluzione ho tirato un grande sospiro di sollievo”, dice l’avvocato Trogu al Foglio. “Ero estremamente fiducioso, non vedevo la possibilità di una sentenza diversa, ma finché non lo senti non ci puoi credere fino in fondo”. “La mia mente adesso è già proiettata verso le motivazioni di questa decisione - aggiunge il legale di Zuncheddu - Il livello di progresso di civiltà giuridica dell’Italia dal 1991 a oggi la misureremo in base a ciò che verrà scritto in queste motivazioni”. Si riferisce alle responsabilità che saranno individuate per questo gravissimo errore giudiziario? “Sì - replica Trogu - Di chi sarà la colpa dell’errore? Solo del povero privato Luigi Pinna, testimone oculare di questo reato? Solo di Pinna e del poliziotto che gli ha fatto vedere le foto di Zuncheddu? O sarà anche colpa del pubblico ministero, che magari doveva vigilare meglio? O sarà anche colpa dei giudici che si dovevano rapportare con il dubbio in maniera più pacata, senza dare alle tesi difensive aggettivi quali ‘fantasiosè, ‘assurdè, ‘disperatè?”. Già, i magistrati. Ma chi sono le toghe che si sono occupate del caso Zuncheddu? A portare avanti l’accusa è stato il pm Fernando Bova, già protagonista negli anni Ottanta di una delle pagine nere della giustizia italiana. Nel 1981, infatti, come giudice istruttore, condusse le indagini sulla scomparsa dell’avvocato Gianfranco Manuella, finendo per accusare uno dei più celebri avvocati dell’epoca, Aldo Marongiu, e due suoi colleghi di studio, disponendo l’arresto in carcere nei loro confronti. Il tutto sulla base delle dichiarazioni di presunti pentiti. I tre trascorsero due anni in carcere in via preventiva, prima di essere assolti da tutte le accuse. Superato il calvario giudiziario, Marongiu si ammalò di leucemia, per poi morire l’11 maggio 1992. Non solo. Durante la sua arringa al processo di revisione di Zuncheddu, l’avvocato Trogu ha ricordato che nel 1987 Bova era stato punito dalla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura per aver tenuto in carcere un testimone per quattro mesi, quando il reato di falsa testimonianza non era più punibile perché era intervenuta l’amnistia. Tra i giudici che hanno condannato Zuncheddu, accogliendo le tesi dell’accusa, spiccano invece Carlo Piana, che fece carriera diventando capo della procura di Cagliari (a lui oggi è intestata l’aula della corte d’assise in cui, ironia della sorte, venne condannato Zuncheddu), e Maria Grazia Corradini, arrivata fino alla prima sezione di Cassazione e poi nominata presidente della Corte d’appello di Cagliari. Un’altra brillantissima carriera. Un po’ come quanto successo con i magistrati che accusarono e condannarono Enzo Tortora. La figlia di Enzo, Gaia, ha seguito tutte le udienze del processo di revisione di Zuncheddu. “A ogni udienza pensavo di essere su ‘Scherzi a partè”, ci dice. “Dal primo giorno mi sono chiesta come abbia fatto il tribunale di Cagliari a condannare all’ergastolo Beniamino. Purtroppo da quello che è venuto fuori si fa fatica a parlare di errore. È stato un riconoscimento indotto per togliersi dalle scatole la vicenda, prendendo il primo ‘scemo’ che girava”. Gaia Tortora ammette che seguire così da vicino il caso di Zuncheddu le “ha fatto male”, perché le ha ricordato di nuovo quanto subìto da suo padre, ma aggiunge che non tutto è stato negativo: “Ho provato tanta stima e riconoscenza per il collegio giudicante, presieduto da Monteleone, che è sempre stato molto attento e scrupoloso. C’è stata una parte di riconciliazione. È come nel caso di mio padre: c’è una giustizia che toglie e una giustizia che restituisce. Quando senti quella parola, assolto, ricominci a respirare. È insopportabile però pensare che occorra tutto questo tempo”. “Ho ripensato a ciò che diceva mio padre: bisogna dare voce a quelli che non ce l’hanno, agli sconosciuti. E questo è quello che proverò a fare anche in futuro”, conclude Gaia Tortora. “Sono felice per Beniamino ma sono spaventata da una giustizia così”, afferma Irene Testa. “Questa è una vicenda particolare, perché c’è stato un depistaggio, però ci sono stati giudici che hanno condannato Beniamino in tutti i gradi di giudizio, nonostante le carte parlassero chiaramente in senso contrario. Anche la magistratura dovrebbe interrogarsi sulle proprie responsabilità”. Non solo. “Dopo l’assoluzione mi sarei aspettata una telefonata a Beniamino da parte del ministro della Giustizia, Carlo Nordio - aggiunge Testa - Sarebbe stato un bel gesto non solo nei confronti di Beniamino, ma anche di tutti i cittadini italiani, che hanno bisogno di riacquistare fiducia nella giustizia. Il caso di Beniamino ci fa capire che ci può essere una giustizia sana, ma anche che c’è una giustizia che va riformata, che sbaglia sulla vita delle persone e non si assume poi le proprie responsabilità”. In particolare, per Testa “bisognerebbe riflettere innanzitutto sulle indagini preliminari, perché gli errori in questa fase sono la costante di quasi tutte le ingiuste detenzioni o errori giudiziari. In un quadro di riforma della giustizia andrebbe affrontato anche il tema della responsabilità civile dei magistrati”, conclude. Intanto l’avvocato Trogu conferma che in seguito all’assoluzione di Zuncheddu presenterà una richiesta di riparazione per errore giudiziario: “Stiamo parlando di una necessità oggettiva. Beniamino in questi 33 anni non ha potuto costruire niente, non ha un lavoro. Ce lo hanno restituito mezzo cadavere, perché sta malissimo. Negli ultimi anni ha avuto un decadimento psicofisico evidente, anche legato all’ansia legata alla scarcerazione. Lui vedeva le prove a suo favore sul tavolo, ma tutti i giudici gli negavano la scarcerazione, dal tribunale di sorveglianza alla corte d’appello di Roma. Quest’ansia lo ha veramente logorato e ora non è in condizioni di lavorare. Da quando è stato scarcerato, lo scorso novembre, ha passato il suo tempo da un medico all’altro, perché ha una condizione di salute molto precaria. L’urgenza adesso è che si curi”. Quei ricordi condizionati dalla ricerca di una “verità” a ogni costo sono il vero male di Glauco Giostra* Il Dubbio, 30 gennaio 2024 Era innocente. Beniamino Zuncheddu ha scontato più di 32 anni di dura detenzione perché ritenuto colpevole dell’uccisione di tre pastori e del ferimento di un quarto. All’epoca, il pastore superstite, dopo aver inizialmente negato la possibilità di individuare l’aggressore in quanto questi aveva il volto coperto da una calza, sollecitato più volte a riconoscere in Beniamino Zuncheddu l’omicida, sia mostrandogli una sua foto, sia precisando che aveva un movente e nessun alibi, se ne convinse (“io mi convinsi”) e puntò l’indice accusatore contro di lui in ogni grado del processo, che si concluse con la condanna all’ergastolo dell’imputato. Nell’odierno giudizio di revisione il testimone d’accusa, ritrattando la sua deposizione alla luce delle nuove emergenze, ha pronunciato una frase che dovrebbe far riflettere: “per tutto il processo ero convinto che a sparare fosse stato Zuncheddu (…). Se dovessi tornare indietro probabilmente farei lo stesso errore”. Per quanto dolorosamente clamorosa, non si richiama questa notizia per gridare allo scandalo di un grave errore giudiziario: dobbiamo rassegnarci alla fallibilità della giustizia amministrata da uomini. E neppure si intende dedurre da questa angosciante vicenda che sarebbe bene diffidare sempre delle sentenze dei tribunali: ogni altro modo di rendere giustizia è meno credibile. Prendendo doverosamente atto che non è nelle nostre possibilità conoscere la verità, o meglio avere la certezza di averla conseguita, quello che possiamo, e che quindi dobbiamo fare, è predisporre l’itinerario cognitivo ritenuto più affidabile, nelle condizioni e conoscenze date, per approssimarci alla verità e pretendere che un soggetto terzo, il giudice, si attenga ad esso per rendere giustizia. La sentenza emessa al termine della procedura prescritta, dice un brocardo latino pro veritate habetur, deve, cioè, essere recepita come verità dal popolo nel cui nome è stata emessa (salvo che il sopravvenire di prove non dimostri, come in questo caso, che è stato condannato un innocente). Questo significa dover accettare che vi può essere una sentenza pienamente valida e corretta, ma orfana di verità. Dobbiamo sapere che non possiamo evitarlo; è la dolorosa conseguenza della nostra necessità di giudicare senza avere strumenti in grado di assicurarci la verità. Quello che però possiamo, e quindi dobbiamo garantire è di aver dato fondo a tutte le nostre modeste risorse per apprestare un metodo in grado di ridurre al minimo il rischio dell’errore. E invece dolorosissime vicende giudiziarie come queste stanno a ricordarci che ancora possiamo e, quindi, dobbiamo, migliorare. Il vigente codice di procedura penale aveva ovviato ad una ingenuità del codice Rocco: si riteneva che fosse irrilevante la tecnica di acquisizione dei “reperti cognitivi” che il fatto storico, come un mosaico frantumato, lascia nella realtà fisica e nella percezione sensoriale umana. Si pensava che più tessere del mosaico venivano comunque recuperate, più attendibile sarebbe stato il compito del giudice che doveva ricomporlo. Convinzione che sarebbe senz’altro da sottoscrivere se la persona informata sui fatti fosse una res loquens e il suo prodotto narrativo non fosse destinato a cambiare a seconda di chi, come, dove, quando la compulsa. Le scienze della mente, invece, avevano dimostrato che la rievocazione del ricordo viene sensibilmente influenzata dalla tecnica maieutica con cui lo si “estrae”: con il mutare del forcipe muta, talvolta anche in modo radicale, la conformazione del feto della memoria. Si convenne allora - e ancor oggi nessuna evidenza scientifica induce a riconsiderare quella scelta - che la migliore levatrice del ricordo fosse la formazione dialettica della prova testimoniale: ciò che viene unilateralmente raccolto dall’inquirente pubblico o privato per mettere a punto la linea accusatoria o difensiva è materiale conoscitivo inaffidabile. Ad avere pieno valore probatorio, di regola, è soltanto ciò che il teste, incalzato dalle domande delle parti, riferisce al giudice. Se il Codice vigente ha rimosso l’ingenuità epistemologica su cui poggiava quello precedente, temo che esso stesso poggi su un presupposto non meno fallace: l’inossidabilità del ricordo; cioè l’inalterabilità del patrimonio mnestico. L’attuale sistema è implicitamente costruito intorno all’idea che sia irrilevante ciò che càpita al testimone tra la sua percezione e quando sarà chiamato a rievocarla nel contraddittorio delle parti dinanzi al giudice della decisione. Ciò presuppone che il ricordo costituisca una sorta di reperto archeologico che giace, inerte, nello scantinato della memoria; che il problema per il testimone sia soltanto quello di ritrovarlo alla luce della potente “torcia” del contraddittorio e di consegnarlo al giudice. Il ricordo, invece, è materia viva, deteriorabile e plasmabile. “La memoria, che è suscettibile e a cui non piace essere colta in fallo - scriveva Josè Saramagotende a riempire le dimenticanze con creazioni di realtà spurie”. Un falso ricordo viene sovente indotto da certe ricostruzioni mediatiche o - come nella vicenda Zuncheddu- dalle incalzanti suggestioni di chi è deputato a cercare la verità, ma spesso è sopraffatto dall’urgenza di trovare un colpevole. Ci sono infatti domande che tendono a condizionare la risposta, quando non a suggerirla. Questa subdola suggestione risulterà tanto più condizionante quanto più autorevole sarà la figura dell’interrogante agli occhi dell’interrogato, che successivamente opererà in modo inconsapevole ogni possibile rielaborazione mnestica per cercare di non discostarsi da quanto l’interrogante aveva lasciato intendere fosse la “sua” verità. “Tornando indietro probabilmente farei lo stesso errore”, ammette convinto il decisivo teste d’accusa. E ciò spiega come mai anche il miglior metodo di formazione della prova sia risultato imbelle: il contraddittorio è in grado di garantire la sincerità, non la veridicità delle risposte. Nessun esame incrociato sarà in grado di far riferire quanto originariamente percepito a un dichiarante che crede nella verità del suo falso ricordo. Ora che la tecnologia lo consente, bisognerebbe allora almeno prevedere come obbligatoria la videoregistrazione delle dichiarazioni assunte nel corso dell’indagine. È probabile che se ai giudici che hanno emesso la sentenza contro Zuncheddu la difesa avesse potuto mostrare come era stato più volte “interrogato” il principale teste d’accusa, avrebbero usato la dovuta diffidenza verso quella memoria insufflata dall’inquirente e probabilmente avremmo evitato ad un innocente questa dolorosissima, ingiusta esperienza, e a noi l’ascolto di una vicenda che strazia i timpani della nostra coscienza. *Giurista Sperare in una giustizia capace di emendarsi dopo i casi Zuncheddu di Mario Chiavario Avvenire, 30 gennaio 2024 Qualche giorno fa le immagini di una sfilata di toghe rosse hanno evidenziato l’aspetto più spettacolare di un cerimoniale d’altri tempi: si trattava, come si sa, dell’inaugurazione dell’anno giudiziario della Corte di Cassazione, cui avrebbe fatto seguito, dopo beve tempo, quella nelle sedi delle 26 Corti d’appello. E ci si può domandare se, a prescindere dall’effetto scenico, non prevalga il rischio di ridurre tali eventi a “un rituale solenne nella forma, ma sostanzialmente ripetitivo e, quindi, inutile”, avente, come unica alternativa a sua volta negativa, il trasformarli in cahiers de doléances. Ad averlo detto non è stato qualche irriverente commentatore, ma Margherita Cassano, Prima presidente della Suprema Corte, nella sua relazione d’apertura. La storia di queste cerimonie può comunque suggerire qualcosa. Fino al 2005, invero, gli unici ad avervi voce effettiva erano i titolari delle Procure generali istituite presso le Corti, ossia i capi dei più alti uffici del pubblico ministero: il che suscitava vibrate contestazioni pure all’interno della magistratura, per il pericolo di unilateralismo nella illustrazione di dati e problemi. In quell’anno, il quadro veniva perciò sostanzialmente modificato, rompendo il tradizionale monopolio. A tenere le relazioni sono i presidenti delle corti, in assemblee convocate ad hoc, in cui hanno diritto di parola, oltre ai procuratori generali, il ministro della giustizia (o, a rappresentarlo nelle sedi locali, persone appartenenti al suo staff), il vicepresidente del Csm (o, sul territorio, altri membri del Consiglio), così come i rappresentanti dell’avvocatura, statale e privata. E nessuno, oggi, potrebbe volere un ritorno all’indietro. Si è dunque arrivati a una pluralità di voci. Ed è un particolare non trascurabile e di per sé positivo. Ciò posto, anche quest’anno il panorama delle ventisei inaugurazioni distrettuali si è presentato variegato e non privo di dissensi anche radicali, specialmente in rapporto a scelte normative o gestionali, attuate o progettate, dal governo in carica. Il linguaggio, però, dall’una e dall’altra parte, è suonato per lo più lontano da asprezze: in qualche misura, giustificabili altrove; sicuramente, assai meno qui. Quanto alla giornata inaugurale in Cassazione, svoltasi alla presenza del Presidente della Repubblica, sono da sottolineare, tra le altre, due espressioni di moderazione per niente affatto di comodo. Da un lato, l’equilibrio con cui Luigi Salvato, Procuratore generale, ha trattato temi tra i più controversi come quelli del principio di obbligatorietà dell’azione penale e della stessa collocazione funzionale e istituzionale del pubblico ministero: senza adagiarsi su pregiudiziali difese dell’esistente ma senza sconti, comunque, per tentativi di ledere l’indipendenza della magistratura requirente. D’altro lato, l’impegno con cui Margherita Cassano ha tenuto fede a un proposito: cooperare a rendere l’assemblea un autentico “momento di riflessione e di confronto”, legando la trasmissione di “un messaggio di speranza” non a un ingenuo ottimismo ma sempre e soltanto a una “concretezza di dati”, strada maestra per “contribuire a rinsaldare la fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni”. A riscontro, tra i primi risultati dell’“organico intervento riformatore del 2022” (c.d. legge Cartabia), l’incremento della mediazione in sede civile, e, in penale, la “regolamentazione compiuta della giustizia riparativa” e i progressi nel campo della riduzione della durata dei processi. La speranza, d’altronde, non fa chiudere gli occhi di fronte a persistenti, gravi criticità della giustizia italiana. Di metodo: così, quando lamenta che la “rapida successione di leggi, soprattutto se ispirate da logiche settoriali, determina i presupposti di possibili incoerenze del sistema e pesanti ricadute sul funzionamento della giustizia”. E di merito, avendo specifico riguardo a tre esempi tra i più dolorosi: situazione carceraria ed esecuzione di pene; infortuni sul lavoro; femminicidi. Del resto, speranza e fiducia non possono mai coprire tragiche realtà. Ce lo ha ricordato, benché conclusa dalla fine di un incubo, una vicenda agghiacciante, tornata in primo piano proprio in coincidenza con le cerimonie inaugurali dell’anno giudiziario. È quella vissuta per trentatré anni dal pastore sardo Beniamino Zuncheddu, ingiustamente condannato per un feroce delitto in base a una testimonianza non veritiera. Ora è stato assolto, a seguito di una revisione del processo, al cui innesco - altra coincidenza non voluta - ha dato un apporto decisivo, quando reggeva la Procura generale di Cagliari, un’altra protagonista di queste inaugurazioni; Francesca Nanni, oggi titolare della stessa funzione a Milano. Nulla, infatti, potrà mai restituire a Zuncheddu gli anni di vita spezzata, alle cui sofferenze si è aggiunta la drammatica beffa del non avere potuto uscire anticipatamente di prigione grazie a un “ravvedimento” pur sollecitatogli, non avendo lui nulla di cui “ravvedersi”. “Contro Zuncheddu più di un errore: sembra quasi un complotto” di Simona Musco Il Dubbio, 30 gennaio 2024 Il corpo di Beniamino Zuncheddu è stato piegato più dalla speranza che dal torto subito. Una speranza che ha risvegliato in lui il pensiero, tenuto a bada per 33 anni, di poter vedere riconosciuta quell’innocenza che ha sempre urlato, ma che nessuno ha mai voluto ascoltare. Perché la sua non è una semplice storia di errore giudiziario: quello a suo danno assomiglia più a un complotto, una macchinazione che ha stritolato la vita di un uomo privandolo di tutto. Zuncheddu è entrato in carcere da giovane, a 27 anni, accusato per una strage, quella del Sinnai, che non ha mai compiuto. E ne è uscito da vecchio, come ha riassunto lui stesso. Una frase semplicissima e insieme devastante per chi crede nella giustizia. Come Mauro Trogu, l’avvocato che lo ha salvato da quel dramma. Che con l’ingiustizia subita da Zuncheddu aveva perso la fiducia in quel sistema che oggi, anche grazie a lui, può dirsi - in parte - riabilitato. Avvocato, come si è avvicinato al caso Zuncheddu? Sono stato incaricato dalla sorella di Beniamino, a fine 2016, per ottenere una misura alternativa alla detenzione, dopo l’ennesimo rifiuto. In carcere gli era stato detto che per uscire l’unica cosa da fare era confessare. Lui a questa cosa qua proprio non ci ha mai pensato, neanche lontanamente. Provava sconforto. Quando la sorella mi ha raccontato dell’andamento del processo di merito io non le ho creduto. Ma quando ho letto le sentenze ho cambiato idea. Cos’è cambiato? Mi sono sentito veramente turbato. Era chiaro che fossero ingiuste. Lui è stato condannato sulla base di una testimonianza oculare: in questo ovile vennero uccise tre persone e una si salvò. Quest’uomo divenne il testimone a carico di Beniamino, ma solo 45 giorni dopo i fatti. Inizialmente disse che non era nelle condizioni di riconoscere chi aveva sparato, perché l’aggressore - corpulento e agile - aveva un collant da donna sul volto. Poi, improvvisamente, cambiò versione: disse di aver mentito per paura. Lei come ha capito che si trattava di una bugia? Al pm descrisse un volto, ma era più la discrezione di una fotografia, quella di Zuncheddu, che gli era stata mostrata. Descriveva l’ombra sotto il mento, che era l’ombra del flash. Così ho capito che questo cambio di versione era stato determinato dal lavorio di un poliziotto che, tra l’altro, al dibattimento, ammise candidamente di aver ritenuto menzognera la prima dichiarazione e di averlo spinto con un’opera di persuasione a dire la verità, in tanti colloqui mai verbalizzati - altra grande anomalia -. Così contattai un criminologo esperto di psicologia della testimonianza, Simone Montaldo, il quale mi spiegò i gravissimi danni che può fare sulla memoria questo modo di condurre le indagini. Questo bastava a riaprire le indagini? Servivano dati oggettivi più solidi. Abbiamo deciso di fare un sopralluogo nell’ovile, rimasto tale e quale. Abbiamo ricostruito le condizioni di buio che erano presenti all’epoca e ci siamo resi conto che il testimone non poteva assolutamente aver visto ciò che raccontava di aver visto. Ci siamo avvalsi, a quel punto, di un ulteriore consulente, Mario Matteucci, colonnello dei carabinieri esperto di ricostruzione di scena del crimine, che con uno scanner 3D ha ricostruito gli omicidi. E ha confermato in maniera oggettiva che il testimone non aveva potuto vedere nulla. Con questo materiale sono andato a bussare alla porta dell’allora procuratore generale di Cagliari, Francesca Nanni, che si era appena insediata. Che trovò un collegamento con un sequestro di persona a scopo di estorsione che si era consumato in quegli stessi luoghi, in quegli stessi mesi. Ma quale sarebbe stato il movente di Zuncheddu? Di natura agropastorale. I difensori dell’epoca sostennero la tesi del collegamento col sequestro Murgia, ma vennero quasi derisi dalla Corte d’appello. Nanni avviò dunque una nuova indagine, disponendo delle intercettazioni a carico del testimone oculare, che fu convocato in procura per dei chiarimenti su questa vicenda. Davanti agli inquirenti mantenne la sua versione, ma una volta salito in macchina disse alla moglie: “Hanno capito tutto, hanno capito che Mario mi ha fatto vedere la foto di Beniamino prima”. Si trattava di Mario Uda, il poliziotto che condusse le indagini. Con queste intercettazioni avevamo la prova regina per far riaprire il caso. Così si arriva al momento della verità: Luigi Pinna, il testimone oculare, in aula... Dopo un’ora e mezza di esame, ha ammesso tutto: Mario, ha detto, mi ha fatto vedere le foto prima, io non riconoscevo nessuno per via del collant, però il poliziotto, mi aveva convinto che quello fosse il responsabile, era sicuro. Come si era arrivati a Zuncheddu? Il nome di Beniamino sarebbe stato fatto, secondo il poliziotto, da una fonte fiduciaria. Cioè anonima e di cui il poliziotto si è rifiutato di indicare il nome, anche adesso, nel giudizio di revisione. Lei gli ha creduto subito? Quando sono andato a trovarlo ero convinto di andare a trovare un triplice omicida. Ma poi ho capito che avevano detto la verità. E conoscendo Beniamino mi sono reso conto che era così. Mite, tranquillo, pacifico. Senza rancore. Preferiva morire in galera piuttosto che dire una bugia. E viveva nella speranza che prima o poi la verità venisse fuori. Ma la speranza è anche una cosa che può uccidere. E 30 anni di speranza sono tanti... Io l’ho conosciuto dopo 26 anni di carcere. Quando ha cominciato a capire che c’era la seria possibilità di avere la revisione ha iniziato ad avere un’ansia che purtroppo lo ha logorato. Lui diceva: c’è la prova dell’innocenza, perché non mi fanno uscire? Sono stati degli anni devastanti. Io mi chiedevo: ma cosa c’è sotto? A un certo punto diventi complottista. Cioè? Nel confronto tra Uda e Pinna, il poliziotto ha tirato fuori da una valigetta un atto che aveva conservato a casa e che non era mai confluito nel fascicolo del pm: un identikit dell’aggressore, fatto in ospedale quando Pinna era ricoverato. Identikit che non corrispondeva per niente a Beniamino. Mi sono chiesto se in Questura non ci fosse altro. E il procuratore, che non si fidava di come avrebbero potuto gestire quegli atti, ne ha disposto il sequestro. E cosa ha scoperto? Nel fascicolo mancavano i primi 10 giorni di indagine. C’era un verbale che confermava che l’aggressore non era riconoscibile perché travisato. E poi un’annotazione di Uda che, dopo aver sentito i familiari delle vittime e aver fatto un po’ di indagini sul territorio, indicava come pista più accreditata il collegamento con il sequestro Murgia. Solo che quel documento non venne mai depositato nel fascicolo del pm. Beniamino, oggi che uomo è? Hanno restituito al mondo un catorcio di uomo. L’ho visto deperire giorno dopo giorno: temevo non arrivasse alla prossima udienza. E devo ringraziare la garante Irene Testa, che poi ha dato il via alla campagna del Partito Radicale: è riuscita ad attivare la struttura sanitaria del carcere e lo ha salvato. Ora pensa a curarsi. Poi si vedrà. Beniamino Zuncheddu senatore a vita, perché l’orrore dell’ingiustizia non sia mai più dimenticato di Francesca Scopelliti* Il Dubbio, 30 gennaio 2024 È la storia di un italiano, uno di noi: si chiama Beniamino Zuncheddu, nel 1991 ha 27 anni, è un bel giovanotto sardo, fisico asciutto, una curata chioma nera, un bel sorriso che mostra tutti i suoi denti, e nessuna ruga. Ma soprattutto ha mille aspettative per il suo futuro: una moglie, dei figli, un importante allevamento di pecore. Tutto può sognare e programmare tranne che di venire accusato di un triplice omicidio, essere condannato all’ergastolo e farsi 33 anni di galera: innocente! Nel momento del fattaccio, Beniamino è da un’amica, lontano dal luogo del delitto ma il tronfio protagonismo delle forze dell’ordine supportato da avvocati sciattoni e giudici superficiali lo condannano senza uno straccio di prova, valorizzando l’accusa di un teste e rinunciando alla verifica dell’alibi. Poi accade che, grazie allo scrupoloso impegno di un giovane avvocato e al coscienzioso lavoro di un magistrato (può capitare di trovare “il giudice a Berlino”), venga riaperto il processo e riconosciuta la sua innocenza. È il 26 gennaio, alla vigilia del giorno della memoria! “Mi hanno rubato tutto: prima ero giovane, ora sono vecchio”, dice con parole semplici ma sacrosante. E sa bene, Beniamino, come sa chiunque abbia fatto la galera da innocente, che nessuno potrà restituirgli quella vita rubata: ora è canuto per quel che è rimasto della sua folta chioma, ha le guance scavate da sofferenti rughe, la bocca con pochi denti e lo sguardo appannato da una triste incredulità! “È finito un incubo”, dice ancora questo gentile “ragazzo” diventato vecchio senza vivere, perché in carcere non si vive, perché lì dentro il tempo, a dirlo è Enzo Tortora, “è un gocciolare interminabile, inutile, assurdo... Io uscirò cambiato. Stravolto. Come reduce da un cataclisma lunare...”. I sentimenti di Zuncheddu non sono diversi e spera soltanto di riprendersi quel che resta della sua vita a partire dai suoi 59 anni. Riceverà un risarcimento, per fortuna, anche se lui - anima buona - ha già cominciato a lavorare in un bar per sbarcare il lunario, a conferma di quanto sia un brav’uomo. Così lo presentano quei giornali e quelle tv che oggi si occupano di lui, ma che fra qualche giorno avranno altro di cui occuparsi. Sui giornali e sulle televisioni non ci sarà più spazio per il pastore sardo che si è fatto da innocente 33 anni di galera. Ma Beniamino non può essere dimenticato, non lo merita lui, non lo meritiamo noi italiani, perché è un simbolo per il nostro Paese, è la testimonianza di come un errore giudiziario può negarti di vivere, è un caso - grave - di malagiustizia che va ad aggiungersi a tanti altri, anche se meno gravi. Beniamino Zuncheddu è il memento della sua vicenda, è una testimonianza di quello che in uno stato di diritto non può, non deve accadere. È un testimone attivo. Beniamino è per la malagiustizia quello che Liliana Segre è per la Shoah: ambedue testimoni del male assoluto che non può ripetersi. È un confronto esagerato, retorico, pomposo? Nell’uno e nell’altro caso si parla di privazione della libertà, di sequestro di persona, di violazione dei principali diritti umani, di indisponibilità della vita di ognuno da parte di chiunque, con la differenza che la senatrice Segre è stata vittima di quell’olocausto voluto dalla folle ideologia nazifascista, Zuncheddu da un errore dettato dalla proterva sciatteria di chi pretende di difendere e rappresentare la legalità. E allora, Presidente Mattarella, lo faccia. Nomini Beniamino Zuncheddu senatore a vita: sarà la memoria per il nostro futuro perché come dice Primo Levi “chi dimentica il passato è condannato a riviverlo” e nessuno - tantomeno lei che rappresenta tutti gli italiani - immagino voglia che si ripetano vicende come quelle di Beniamino Zuncheddu, di Enzo Tortora. E se questa proposta provoca un ironico sorriso, basti ricordare ancora lo scrittore torinese, superstite dell’olocausto: “Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare”. E colpire chiunque. *Presidente Fondazione per la giustizia Enzo Tortora Campania. I Garanti dei detenuti: “Di troppe speranze deluse in carcere si muore” avellinotoday.it, 30 gennaio 2024 I Garanti delle persone private della libertà personale della Campania si sono riuniti per discutere dei problemi degli istituti di pena e dell’Area penale esterna, provincia per provincia. Ieri si è tenuto un incontro tra i Garanti delle persone private della libertà personale della Campania, presso l’Ufficio del Garante campano Samuele Ciambriello. Presenti il Garante di Napoli Tonino Palmese, la Garante di Benevento Patrizia Sannino, il Garante di Avellino Carlo Mele. L’obiettivo è mettere a fuoco l’emergenza carceri in Campania, anche alla luce degli ultimi suicidi, discutendo dei problemi degli Istituti di pena e dell’Area penale esterna, provincia per provincia. Dalla riunione è stato prodotto un documento in cui si riscontrano le principali criticità. “Di troppe speranze deluse in carcere si muore! Otto piaghe che rischiano di schiantare il sistema penitenziario: sucidi, sovraffollamento, malasanità, organici ridotti all’osso, mancanza di figure sociosanitarie (medici, infermieri, psicologi, psichiatri, educatori, assistenti sociali), strutture a pezzi (mancanza di acqua calda, servizi igienici, riscaldamento), processi infiniti e custodia cautelare, poche misure alternative al carcere anche per chi deve scontare meno di 2 anni. Serve un potenziamento dell’organico delle carceri e dell’U.E.P.E.”, così il documento approvato. I Garanti si sono impegnati ad organizzare in breve tempo incontri su scala provinciale, invitando a questi seminari i direttori delle carceri, le aree educative, i dirigenti sanitari, i magistrati di sorveglianza, l’U.E.P.E., i cappellani, i volontari ed i rappresentanti del Terzo settore. Nella discussione, a proposito dei sucidi, il Garante campano Ciambriello ha fornito alcuni dati allarmanti relativi all’anno 2023: 156 tentativi di suicidi; 17 educatori mancanti; 2 articolazioni psichiatriche non funzionanti (Sant’Angelo dei Lombardi e Benevento); 480 agenti di Polizia penitenziaria mancanti a livello regionale. Imperia. Suicidio in carcere. La Uil-Pa: “Celle piene e violenze di ogni genere” di Giulia Mietta Corriere della Sera, 30 gennaio 2024 Vittima un 66enne, che era in attesa del giudizio di primo grado per tentato femminicidio. De Fazio (Uilpa): “Il sistema non regge più, serve subito un decreto”. Una “strage continua”, scrive il sindacato di polizia penitenziaria Uilpa dopo la notizia dell’ennesimo suicidio in carcere, il tredicesimo in Italia dall’inizio dell’anno. Questa volta a Imperia. Vittima un detenuto di 66 anni, che si è impiccato. “Un italiano, originario di Villalba, in Sicilia, ma che risiedeva in Liguria - spiega il segretario generale Uilpa Gennarino De Fazio - e che era in attesa del primo grado di giudizio per il tentato femminicidio della moglie”. Il trend di questo avvio 2024, come già evidenziato qualche giorno fa da questo giornale, è preoccupante. Nel 2022, quando si raggiunse la cifra record di 84 suicidi in carcere in un anno, nel primo mese, gennaio, i detenuti che si erano tolti la vita erano stati sette. “Il mese non è ancora finito e il tragico dato è quasi raddoppiato”, dice De Fazio che lancia un appello al governo. “Il ministro della Giustizia Carlo Nordio, ha paragonato i suicidi in carcere a una malattia da accettare e a una ferita, al Guardasigilli diciamo che le malattie si curano, o quantomeno se ne leniscono i sintomi, e le ferite si rimarginano, purché si sia in grado di somministrare la terapia adeguata, dal ministro della Giustizia ci aspettiamo l’indicazione di una strategia e di soluzioni cliniche, per restare in metafora, e non la presa d’atto di un necroforo”. Quella di Imperia è tra le strutture penitenziarie più piccole in Liguria ma comunque accusa il colpo di problemi cronici, a partire da quello del sovraffollamento: i detenuti sono 76 a fronte di 54 posti disponibili. Ma la mancanza di spazio non è l’unico problema: “Violenze, aggressioni, privazioni, sofferenze d’ogni genere. In carcere non se ne può più e non basta vedere, bisogna capire, programmare e intervenire. Allo stato attuale a nostro parere non vi sono più neppure i presupposti giuridici per mantenere le attuali strutture penitenziarie che non assolvono nemmeno minimamente ad alcuna delle funzioni che sono a esse demandate dall’ordinamento”, conclude il segretario Uilpa. “Noi la diagnosi l’abbiamo fatta e abbiamo anche individuata la terapia, serve subito un decreto carceri per consentire cospicue assunzioni straordinarie, con procedure accelerate, e il deflazionamento della densità detentiva pure attraverso una gestione esclusivamente sanitaria dei detenuti malati di mente e percorsi alternativi per i tossicodipendenti, non si può far finta di nulla difronte alla strage continua”. Verona. Oussama Sadek, morto nel carcere di Montorio: la famiglia vuole vederci chiaro di Andrea Aversa L’Unità, 30 gennaio 2024 L’avvocato Cimiotta: “Denuncia per mancata sorveglianza”. La vittima aveva 30 anni ed è stata trovata impiccata. Caso archiviato come suicidio. Non è stata disposta l’autopsia. Il giovane aveva problemi psicologici ed era recluso per reati minori. Dopo il tragico episodio i detenuti della sezione 5 corpo 3 del penitenziario veronese hanno inviato una lettera al Dap e al Tribunale di Sorveglianza: “Sadek lasciato solo”. In merito ai tanti casi di suicidi avvenuti a Montorio (3 soltanto durante lo scorso mese di dicembre), l’onorevole Flavio Tosi ha presentato un’interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia Carlo Oussama Sadek aveva 30 anni. Era detenuto da due anni e mezzo e a fine marzo sarebbe stato di nuovo un uomo libero. Invece, il giovane marocchino, è stato trovato impiccato nella sua cella. Era l’8 dicembre scorso, quello di Sadek è stato bollato come suicidio, l’ennesimo avvenuto dietro le sbarre del Carcere di Montorio a Verona. Lo scorso mese di dicembre, dentro le mura del penitenziario veronese, sono stati ben tre i detenuti che si sono tolti la vita. Un tragico record. Sadek era detenuto per reati minori legati alla droga. Era recluso da due anni e mezzo e gli restavano solo 90 giorni prima di tornare in libertà. La sua famiglia ha più volte ribadito che Sadek non aveva mai lasciato intendere che si sarebbe tolto la vita. Anzi, a detta loro, il giovane avrebbe voluto cominciare da zero e provare a ricostruire la sua esistenza. Per questo motivo non sono mai stati convinti della ‘semplice’ ipotesi del suicidio. Per loro il 30enne è stato lasciato solo, isolato e non sorvegliato a dovere. Tutto ciò nonostante Sadek avesse dei problemi psicologici. Carcere veronese di Montorio: tre suicidi in un mese - Ecco il motivo per il quale la famiglia del giovane ha incaricato l’avvocato Vito Cimiotta di presentare un esposto: “Abbiamo presentato una querela - ha spiegato il legale a l’Unità - contro ignoti per mancata vigilanza. Il carcere e gli psicologi sono responsabili delle persone detenute che hanno un profilo come quello di Sadek. Non è accettabile che nei penitenziari ci sia questa continua serie di morti, per cause naturali o per suicidi. Il governo dovrebbe fare delle verifiche: a Montorio è purtroppo diventato un fenomeno ricorrente”. Ivrea (To). Processo per le botte nel carcere, sparisce il reato di tortura: restano le lesioni di Andrea Bucci La Stampa, 30 gennaio 2024 E cala la mannaia della prescrizione. Tra le posizioni prescritte anche quella del medico che, secondo gli investigatori, prendeva il caffè mentre uno dei detenuti veniva riempito di pugni e calci. In carcere a Ivrea non ci fu tortura, ma solo lesioni. Il reato è stato derubricato, questa mattina, anche alla luce del pronunciamento della recente sentenza della Corte di Cassazione, dalla gip di Ivrea Marianna Tiseo che ha rinviato a giudizio oltre venti agenti di polizia penitenziaria per le presunte botte ai detenuti. Si tratta di episodi che risalgono al 2015 e 2016 e che sono stati avocati dalla procura Generale di Torino. Questa mattina in aula la giudice ha anche giudicato prescritti tre capi di imputazione di lesioni. Tra le posizioni per le quali è subentrata la “mannaia” della prescrizione vi è quella dell’unico medico che figurava tre le persone indagate. Era accusato di lesioni in concorso con altre guardie: secondo la ricostruzione degli investigatori sorseggiava il caffè mentre alcune guardie riempivano di calci e pugni un detenuto. Era il 7 novembre 2015 e il caso è prescritto. Per altri 20 capi di imputazione il processo si aprirà il 27 maggio. Sono state ammesse le costituzioni di parte civile del garante nazionale dei detenuti, di quello regionale e di quella presentata dal Comune di Ivrea. Si è costituita parte civile anche Antigone, l’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale. Cuneo. “Liberi di coltivare”, prodotti agricoli dal carcere al ristorante di Manuela Soressi Il Sole 24 Ore, 30 gennaio 2024 Progetto per il lavoro dei detenuti della Casa Circondariale di Cuneo con la collaborazione di Joinfruit e di Open Baladin Cuneo. La prospettiva di una nuova vita passa anche dai colori e dai sapori di pomodori, zucchine, verdure a foglia, fragole, mirtilli e lamponi. Sono quelli che saranno coltivati nella serra appena inaugurata dalla Casa Circondariale di Cuneo e in 800 mq a campo aperto grazie al progetto “Liberi di Coltivare, coltivare una rinascita” promosso dall’OP Joinfruit e da Open Baladin Cuneo. Un’iniziativa nata per coinvolgere il territorio nell’azione rieducativa dei detenuti, attraverso la cooperazione tra le aziende e l’istituto penitenziario cuneese (che nell’ultimo anno ha accolto una novantina di detenuti in più a causa dell’apertura di un secondo padiglione destinato alla media sicurezza) con l’obiettivo di offrire a ogni persona la potenzialità rieducativa e inclusiva del lavoro. “Questo progetto è una risposta importante alla forte domanda di lavoro che i detenuti evidenziano costantemente - spiega il direttore della Casa Circondariale di Cuneo, Domenico Minervini - e su cui stiamo impegnando, come attesta anche la riorganizzazione del laboratorio interno di panificazione, gestito dalla cooperativa Panatè, finalizzato a ospitare un maggior numero di detenuti assunti”. “Liberi di Coltivare, coltivare una rinascita” rappresenta una concreta opportunità per i detenuti di formarsi e avere la prospettiva di un successivo inserimento lavorativo nelle due aziende promotrici del progetto, che si impegnano anche a collocare e valorizzare le produzioni di questa iniziativa attraverso i propri canali di vendita e ristorazione. Del resto i due partner piemontesi rappresentano il primo e l’ultimo anello di questa filiera virtuosa: Joinfruit (200 soci, 1800 ettari di superfici coltivate e una produzione annuale di oltre 80mila tonnellate di frutta) mette a disposizione tutte le sue competenze tecniche, con un agronomo esperto impegnato a seguire e formare i detenuti per aiutarli a imparare questo lavoro e a sfruttare le capacità acquisite per trovare un’occupazione, anche presso la stessa Joinfruit. Dal canto suo Open Baladin Cuneo si impegna ad acquistare tutti gli ortaggi, anche grazie alla pianificazione della produzione in funzione delle esigenze di approvvigionamento del locale. Un approccio anti spreco e pro sostenibilità economica del progetto. “L’agricoltura sociale è uno strumento importante di riabilitazione e formazione, una possibilità per i detenuti di acquisire competenze, ma soprattutto dignità e prospettive di rinascita a nuova vita - commenta il direttore di Joinfruit, Bruno Sacchi -. Come organizzazione di produttori siamo onorati di poter trasmettere il nostro know-how di imprenditori agricoli a chi ha bisogno di una seconda chance, al tempo stesso contribuendo al bene della nostra comunità attraverso azioni che favoriscono la sicurezza sociale”. Livorno. Fitodepuratore a Gorgona, i detenuti impegnati nella realizzazione dell’impianto comune.livorno.it, 30 gennaio 2024 Il primo febbraio la pubblicazione dell’avviso di manifestazione di interesse. Nell’avviso di manifestazione di interesse che Asa, soggetto attuatore degli interventi legati al Progetto Gorgona, pubblicherà il prossimo primo febbraio per l’individuazione di un operatore economico al quale affidare i lavori relativi all’ammodernamento dell’impianto di fitodepurazione saranno inserite premialità in caso di assunzione dei detenuti presenti sull’isola. La notizia è stata lanciata questa mattina, nella Sala Cerimonie di Palazzo Comunale, nel corso di una conferenza stampa nella quale è stato fatto il punto sullo stato di attuazione del progetto Gorgona, progetto promosso dal Comune di Livorno in partenariato con il gestore idrico ASA, l’Istituto Penitenziario di Livorno, il Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano e l’Università di Firenze. Per l’occasione erano presenti il sindaco Luca Salvetti, l’assessore allo Sviluppo Economico del Comune di Livorno Gianfranco Simoncini, Camillo Palermo di Asa, Perla Macelloni e Marcella Gori per la Casa Circondariale di Livorno e Marco Solimano Garante delle persone private della libertà personale del Comune di Livorno. Sull’isola di Gorgona è in corso di realizzazione, infatti, un innovativo sistema depurativo delle acque reflue, oltre ad un intervento di produzione di energia da fonti rinnovabili a copertura dei consumi energetici dell’impianto di fitodepurazione che punta a far diventare l’isola autosufficiente e green. A questi si aggiunge la volontà di realizzare progetti sperimentali nel campo dei rifiuti. A tal proposito sono già intervenuti incontri con Reti Ambiente e Aamps. Per la realizzazione di questi interventi innovativi, Comune di Livorno, ASA e Amministrazione Penitenziaria hanno ottenuto un finanziamento di circa 700 mila euro dal Fondo per gli investimenti nelle Isole Minori del Dipartimento per gli Affari regionali e le Autonomie della Presidenza del Consiglio. “Voglio ricordare che l’isola è un quartiere della città - ha sottolineato il sindaco Salvetti parlando del progetto -. Nel tempo sono stati diversi i momenti in cui Gorgona è stata attenzionata e al centro di progettualità che guardano all’ambiente e alla sostenibilità. In questo luogo, con tutte le sue peculiarità, tutte le sue problematicità, accadono cose significative e belle”. “In questi anni - ha aggiunto l’assessore Simoncini - come Amministrazione Comunale abbiamo scelto di fare di Gorgona un luogo sperimentale dell’economia circolare. In questa direzione il progetto che oggi si va a realizzare ne è un simbolo. Ciò che ci preme sottolineare, tuttavia, non è solo l’aspetto ambientale, quanto quello sociale, nel senso che Asa nella manifestazione di interesse premierà quella impresa che privilegerà l’inserimento lavorativo dei detenuti. In questa direzione va anche il Gorgona Academy, lo strumento che cerca di costruire le competenze lavorative per gli ospiti della Casa Circondariale”. “Dopo aver progettato e pianificato questo intervento - ha affermato Camillo Palermo - ci troviamo oggi a presentare questa manifestazione di interesse che uscirà il primo febbraio e che conterrà gli elementi essenziali per poter fare un lavoro che ha un alto contenuto simbolico, il fatto di privilegiare l’impiego dei detenuti rientra nelle specifiche indicazioni che abbiamo ricevuto a suo tempo dal carcere per sviluppare questo tipo di interventi”. L’infrastruttura che sarà realizzata prevede il recupero delle acque reflue per produrre acqua per irrigare e allo stesso tempo recuperare i nutrienti da utilizzare come compost. In questo modo su Gorgona viene riproposta un’esperienza che ha già visto protagonista Asa nell’ambito del progetto europeo “Hydrousa” nell’isola greca di Lesvos. “Voglio ringraziare l’Amministrazione Comunale - ha dichiarato Macelloni - per la vicinanza dimostrata; una sensibilità che finalmente fa parlare di Gorgona, ma anche del carcere di Livorno, come facenti parte a tutto tondo del territorio cittadino. Per quanto riguarda questi progetti - ha proseguito - Gogona prova ad essere un luogo dove si possono sperimentare progetti di sostenibilità ambientale fondamentali anche dal punto di vista di creare in concreto occasioni di lavoro per i detenuti che siano poi formazioni professionali spendibili al momento del rientro in società”. “Abbiamo accolto con favore fin dall’inizio il progetto - ha chiosato Gori - che consideriamo di estremo valore per i detenuti. Un’opportunità forse unica, come unica è Gorgona, dove il trattamento è fondamentalmente improntato sul lavoro”. Grande soddisfazione è stata espressa anche dal Garante delle persone private della libertà personale Solimano che ha fatto osservare come questo progetto sia “una testimonianza ulteriore di quanto ci sia attenzione nei confronti del tema del reinserimento, dell’inclusione sociale”. Milano. Due incontri sul carcere promossi da Sbarre di Zucchero e Fondazione Casa della Carità agensir.it, 30 gennaio 2024 Nel 2023 nelle carceri italiane si sono tolte la vita 69 persone. E già 11 sono stati i suicidi in questo primo mese del 2024. Proprio partendo da questo drammatico dato, che purtroppo cresce su base quasi quotidiana, l’Associazione Sbarre di Zucchero, insieme alla Fondazione Casa della Carità, promuove, a Milano, due incontri sul carcere. “Secondo l’ultimo studio del Garante nazionale delle persone private della libertà, a gennaio 2024 negli Istituti di pena italiani, la popolazione detenuta ha raggiunto la cifra di 60.382 persone, superando la capienza effettiva di 47.300 posti disponibili, con un indice di sovraffollamento del 127,48%”, ricorda una nota. Il primo incontro, dal titolo “Il coraggio di restare. Il dramma dei suicidi in carcere”, si terrà mercoledì 31 gennaio, alle 17.30. Parteciperanno don Paolo Selmi, presidente della Fondazione Casa della Carità, Micaela Tosato, fondatrice di Sbarre di Zucchero, Francesco Maisto, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Milano, Giorgio Leggieri, direttore della II Casa di reclusione di Milano - Bollate, Silvia Landra, medico psichiatra nelle carceri di Bollate e San Vittore, don Virginio Colmegna, presidente onorario della Fondazione Casa della Carità. Nel secondo incontro, in programma mercoledì 21 febbraio alle 17.30, si parlerà invece di “Quando il carcere è donna”, insieme a don Paolo Selmi, presidente della Fondazione Casa della Carità, Giacinto Siciliano, direttore della Casa circondariale San Vittore, Roberto Bezzi, responsabile dell’Area educativa della II Casa di reclusione di Milano - Bollate, Adolfo Ceretti, criminologo, professore ordinario di criminologia e docente di mediazione reo-vittima nell’Università di Milano-Bicocca (in attesa di conferma), Susanna Ronconi, ricercatrice, formatrice, attivista nell’impegno sociale e per i diritti umani, e don Virginio Colmegna, presidente onorario della Fondazione Casa della Carità. Entrambi gli incontri saranno moderati da Luigi Pagano, già provveditore regionale e vice capo Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, e si svolgeranno presso l’auditorium della Casa della Carità, in via Francesco Brambilla 10, a Milano. La prenotazione è consigliata all’indirizzo: www.casadellacarita.org/incontri/incontri-carcere. “Sbarre di Zucchero si pone come obiettivo garantire un ‘dopo il carcerè, perché tutti possano ricevere una seconda opportunità e che sia concesso a tutti, con le proprie forze e i propri mezzi, nonché attraverso il sostegno del movimento, di stringere tra le mani questa opportunità - afferma Micaela Tosato -. Ci piace ricordare, seppur con un velo di tristezza, le ultime parole di Donatela Hodo (che si è suicidata in carcere a Verona nel 2022, ndr.), scritte su un foglietto di carta a quadretti, una breve lettera d’amore al suo fidanzato: ‘Leo, amore mio, mi dispiace, sei la cosa più bella che mi poteva accadere per la prima volta in vita mia; penso e so cosa vuol dire amare qualcuno, ma ho paura di tutto, di perderti e non lo sopporterei. Perdonami, sii forte, ti amo. E scusami’. Ed ecco, allora, il focus del movimento: l’attivismo si focalizza sul fare sì che ‘nessuno abbia più paura di tutto’, come era accaduto a Donatela. Affinché quelle celle sovraffollate, inadeguate totalmente alla vita ed agli esseri umani, non diventino più bare. Sbarre di Zucchero intende, con forza, riportare al centro del dibattito italiano un tema che, troppo spesso, è relegato ai margini della società e non viene preso affatto in considerazione seriamente dalle forze politiche”. “La Casa della Carità - aggiunge don Paolo Selmi - da sempre si occupa dei diritti e dell’inclusione delle persone detenute, entrando in carcere con le sue attività sociali e culturali e portando il carcere fuori dalle sue mura. Perché il carcere - per citare il titolo di una recente mostra che abbiamo ospitato nel nostro auditorium - è un luogo della città e i suoi abitanti non sono alieni, ma sono persone a cui è stata tolta la libertà, a cui però non deve essere tolta la dignità”. Il carcere è un ripostiglio sociale da cui si esce con le relazioni di Ginevra Lamberti Il Domani, 30 gennaio 2024 Un romanzo che ha come protagonista un’ex detenuta mostra la sospensione del tempo che si crea in cella. E costringe il lettore a fare i conti con una realtà spaventosa: nessuno è immune dal male e dalla colpa. Il lunedì di novembre in cui Emilia e Riccardo imboccano un sentiero dal nome evocativo (Stra’ delle Forche, si chiama) non è un lunedì qualunque. È il giorno dei morti e una figlia insieme al padre si addentra in un bosco per raggiungere Sassaia, minuscola frazione semi-abbandonata, celata allo sguardo del consorzio umano. Là Emilia spera di trovare un rifugio. Non crede (non davvero) che in alcun luogo al mondo, per quanto isolato, possa esistere per lei occasione di una nuova vita. Soprattutto, non crede di meritarla. Emilia è la protagonista di “Cuore nero”, il nuovo romanzo di Silvia Avallone uscito nell’anno appena iniziato per Rizzoli. Emilia ha trascorso gli ultimi 14 anni della sua vita in un carcere femminile. Ha ucciso, con premeditazione e per futili motivi. Adesso che ha scontato la sua pena è stata restituita alla società, ha implorato il padre di permetterle di andare a vivere - da sola - in una vecchia proprietà di famiglia persa nel bosco a ridosso di una cittadina montana di nome Alma. Da lì, sperando di riuscire ad avere almeno un televisore che le faccia compagnia, si muoverà a piedi dentro e fuori la vegetazione alla ricerca di un lavoro e di un modo per continuare a esistere. La sua vicenda si incrocerà con quella degli unici due abitanti del borgo deserto: Bruno, maestro elementare che legge le poesie di Osip Mandel’štam, e Basilio, vecchio artista di paese. Emilia ora possiede uno smartphone, uno strumento che non esisteva quando è entrata - ancora adolescente - in quello che a volte chiama ancora “Istituto”, ma lo smartphone di compagnia ne tiene poca perché quale rete sociale puoi avere quando hai passato metà della tua vita separata dal mondo? Dentro quella scatola ci sono solo i messaggi di Marta (amica di tutti quegli anni di reclusione, l’altra veterana della condanna penale che insieme a Emilia guardava le coetanee arrivare e andarsene) e del padre Riccardo, che senza mai tentennare ha deciso di restarle accanto. La sospensione del tempo - Il sentiero che la protagonista di Cuore nero percorre è molto più impervio di quello fisico che la porta dalla frazione al centro di Alma. Attorno a lei e insieme a lei si sviluppano affetti, relazioni famigliari ed extra-famigliari, opportunità raccolte, disattese e poi raccolte di nuovo, sorgono dubbi, paure, pregiudizi, improbabili invidie e rigurgiti di crudeltà. Perfino prescindendo dagli eventi che di capitolo in capitolo sconvolgono le pagine del romanzo di Avallone, il personaggio di Emilia rappresenta simbolicamente qualcosa di molto difficile da guardare in faccia senza scoprire le tenebre dei nostri pensieri più tetri e anti-democratici. Non è raro trovarsi a discutere con famigliari, amici, persone per cui proviamo sentimenti di affetto di argomenti abbastanza spinosi da rischiare di ferirsi a vicenda. Uno di questi è il carcere, il concetto stesso di pena. Parlandone si può scoprire che l’idea di recupero e di reinserimento è spesso distante dal sentire comune in tema di giustizia. Si può scoprire che il legittimo desiderio di autotutela troppo spesso conduce a quello di chiudere degli individui in un luogo a parte, molto distante da un fantomatico “noi”, e “buttare via la chiave”. Anche per questo - perché parla alle nostre paure più profonde - Cuore nero si cimenta con un roveto sia letterale (molti sono i rami irti di spine disseminati nel bosco che porta Emilia a Sassaia) che metaforico. Nonostante l’oscurità di cui Cuore nero ci parla, Avallone non rinuncia mai a una delicatezza che sembra imparentata con Cambiare l’acqua ai fiori (e/o, 2019), grande caso editoriale firmato da Valérie Perrin in cui una storia drammatica, a sfondo cimiteriale, finisce con il richiamare un Favoloso mondo di Amelie che incontra il genere noir. Emilia Innocenti (questo il cognome della protagonista) ci si presenta con il corpo di una donna adulta che abita il nuovo millennio e le movenze, gli istinti, il guardaroba di una giovanissima ragazza degli Novanta del Novecento. L’effetto è volutamente straniante, appena lo sguardo si posa su Emilia, comprendiamo che il mondo va avanti veloce mentre le persone recluse vivono la sospensione del tempo. Ripostiglio sociale - Emilia non viene da una condizione socio-economica svantaggiata. È stata una ragazza con le sue ferite, i suoi dolori, i suoi traumi, i suoi lutti e le sue solitudini, ma con alle spalle una buona famiglia, affetto, opportunità. La sua estrazione sociale è assimilabile a quella che abbiamo visto in Piper, la protagonista di Orange is the new black, serie ormai considerata antologica e interamente ambientata in un carcere femminile statunitense. Piper non ha commesso un crimine contro la persona, ma la sua pena è in ogni caso piuttosto lunga per una persona bianca, istruita e mediamente agiata, il cui percorso prevedeva tutt’altro. Il carcere, risulta evidente nella serie Netflix così come in Cuore nero, è il ripostiglio sociale in cui finiscono le persone più povere, prive di mezzi e preparazione, spesso straniere, molto spesso non bianche, o certamente non del bianco giusto. Due realtà indigeribili - Emilia Innocenti con la sua sola presenza fisica dimostra due realtà indigeribili: che abbiamo creato una società profondamente iniqua, e che dalla colpa e dal male nessuno può dirsi esente, immune, inattaccabile. In questo contesto la tessitura di relazioni, il collegamento con l’esterno e l’istruzione sono l’unica forma di emancipazione immaginabile. Questo il messaggio a cui danno voce con le loro vicende sia Emilia che Marta. Lo stesso messaggio è veicolato perfino da Bruno, distante dal carcere, avulso dal crimine, e tuttavia impegnato nella scuola, che attraverso la voce dei suoi personaggi viene esplicitamente definita da Avallone spina dorsale del reinserimento e livellatore di disparità sociali. L’istruzione è il territorio della sospensione del giudizio. La via d’uscita - Nei giorni in cui le imperfezioni della giustizia umana mostrano un volto che spaventa (il 25 gennaio, in Alabama, Kenneth Smith è stato il primo condannato a morte giustiziato tramite maschera di azoto anziché con iniezione letale, mentre il 26 gennaio in Italia è stato dichiarato innocente con formula piena Beniamino Zuncheddu, ex pastore sardo che ha ingiustamente trascorso in un carcere 33 anni della sua vita) Cuore nero ci presenta una storia che oscilla tra violenza, ingiustizie e irragionevolezze, presa in carico di responsabilità, goffaggine, desiderio di cambiamento, oscillazione tra la possibilità di dare una seconda opportunità e quella di negarla, amicizia. Nel bene e nel male i suoi personaggi ci dicono che anche nel più remoto isolamento (in un carcere, in un borgo deserto) non esiste via d’uscita diversa dall’incontro con l’altro e che l’incontro con l’altro per essere tale deve compiersi attraverso un movimento reciproco. Cuore nero (Rizzoli 2024, pp. 368, euro 20) è un romanzo di Silvia Avallone. Io sono vulnerabile: l’arte (e le vite) in carcere di Maurizio Ermisino retisolidali.it, 30 gennaio 2024 Io sono vulnerabile, dunque vivo. Arte è amare la realtà! è un progetto che usa forme artistiche diverse per affrontare la vulnerabilità umana. Siamo a Velletri, nell’ex Carcere Pontificio. Entrare nell’ex Carcere Pontificio di Velletri, dove siamo stati a visitare Io sono vulnerabile, dunque vivo. Arte è amare la realtà!, un progetto transdisciplinare a cura di Sergio Mario Illuminato, che abbraccia diversi linguaggi artistici approfondendo il tema della vulnerabilità umana, è un insieme di sensazioni contrastanti. E molto forti. L’ingresso nell’antico istituto di detenzione, dove non ci sono più detenuti dal 1992, è chiaramente un momento molto sconvolgente già di per sé. All’esterno si notano grate molto particolari, le bocche di lupo, che oggi sono vietate perché tolgono ulteriormente luce ed aria alle finestre delle celle. Salendo per le scale, una grata al centro sembra la gabbia di un ascensore e invece è una recinzione per evitare i suicidi. Una volta dentro, balzano agli occhi gli spazi angusti e opprimenti di quella vecchia struttura. E anche l’effetto del tempo sugli ambienti, le crepe sui muri, le finestre rotte. Gli infiniti faldoni di vecchi documenti portati e poi lasciati lì una volta che il carcere è finito in uno stato di abbandono. In questo suggestivo contesto, un gruppo di artisti e professionisti delle arti visive, del cinema, della fotografia, della danza e della musica, insieme a insegnanti, tecnici e studenti dell’Accademia di Belle Arti e dei licei romani si è unito per creare il progetto Io sono vulnerabile, dunque vivo. Arte è amare la realtà!, realizzato nell’ambito dell’Accademia di Belle Arti di Roma, con il patrocinio di Regione Lazio, di Città Metropolitana di Roma Capitale e del Comune di Velletri, produzione esecutiva di Movimento Vulnerarte APS, con la collaborazione di Compagnia Atacama e Festival Internazionale Danza Contemporanea Paesaggi del Corpo. In un luogo che già di per sé mette i brividi, l’arte arriva a connetterci a questi luoghi e a far riflettere sul suo senso e sull’esperienza che è stata, ed è ancora, l’istituzione carceraria. Dietro le opere le pareti e i pezzi di vita di chi là dentro ci ha vissuto - Io sono vulnerabile ha trasformato un luogo dimenticato da oltre trent’anni in un vibrante spazio dedicato all’arte e al dialogo, aprendo nuove possibilità di riflessione per le generazioni future. Al centro del progetto c’è la vulnerabilità umana, un tema sempre più attuale in un mondo che spesso sembra muoversi a una velocità frenetica. In un’epoca in cui l’individualismo e la competizione dominano, spesso dimentichiamo che, al di là delle facciate che mostriamo al mondo, siamo tutti vulnerabili in modi unici e profondi. “L’idea del progetto è avvicinarci a temi che la società sembra voler tenere lontani” ci ha spiegato il curatore Sergio Mario Illuminato. “La vulnerabilità oggi è negata. Anche nell’arte. Sembra che, in questo momento, tutto debba funzionare. Il fallimento, l’errore, componenti fondamentali con cui ci relazioniamo, sono energia. Riunendo questi artisti volevamo riscoprire l’energia di questi luoghi, passarci attraverso. Ciò che vediamo è bello, è consolidato, ma è molto più interessante la parte invisibile del nostro quotidiano, che permette a ciò che vediamo di esistere. La chiave per arrivarci è il dolore, che ti permette di arrenderti a qualcosa che va oltre di te”. Un passato di confinamento e isolamento - L’ex Carcere Pontificio di Velletri è stato appositamente selezionato nel progetto Io sono vulnerabile per adottare una prospettiva diversa sull’arte, in cui l’attenzione è posta non solo sull’estetica, ma anche sull’etica e sulle implicazioni politiche. Questo spazio mette in discussione il fruitore, suscitando un impatto emotivo. E vi assicuriamo che è fortissimo. Le pareti di pietra logorate e le sbarre che testimoniano il passato carcerario diventano una parte essenziale della narrazione artistica, evidenziando un confronto tra il presente e il passato, tra il tempo e la trasformazione dei materiali. Gli spazi dell’ex carcere testimoniano un passato di confinamento e isolamento. Oggi questi stessi luoghi servono come tela per esplorare il tema universale e intimo della vulnerabilità umana. ISpazi testimoni di un passato di confinamento e isolamento fanno oggi da tela nell’esplorare il tema universale e intimo della vulnerabilità umana - In questo contesto, le opere d’arte, create con materiali di recupero presi proprio dall’edificio del carcere e nate dalla visita degli artisti, vivono in simbiosi con l’ambiente circostante. Ne sono influenzati, ne sono testimonianza, sono l’espressione delle emozioni che quei luoghi provocano in chi ci si trova. Le opere sono volutamente lasciate senza titolo e nome dell’autore, per evitare che risaltino troppo, che diventino protagoniste. Devono invece essere un tutt’uno con il luogo in cui sono esposte. Sono spesso staccate dal muro. E non sono illuminate da una luce per enfatizzarle, ma da una torcia fornita al visitatore, in modo che ognuno di noi possa scegliere la propria visione. La mostra non è nelle singole opere, ma è l’insieme, sono i quadri e l’ambiente ad essere opera d’arte. Dobbiamo approcciare in qualche modo la morte - I quadri si possono toccare, sentire. E in questo modo modificare. Le opere, come le pareti e le inferriate di quell’edificio, subiscono il passare del tempo. “Ci sono elementi organici presi dai materiali più strani: sono qui da un anno, cambiano, si evolvono” ci spiega Sergio Mario Illuminato. “Il Colosseo non sarebbe così interessante se nel frattempo il tempo e la natura non si fossero riappropriati di un’opera fatta dall’uomo. Su queste opere ad agire è una parte diversa del cervello, che non ha a che fare con la bellezza, ma con la convergenza tra natura e cultura. E dove si affaccia una cosa profonda che cerchiamo di rimuovere, che è il fatto che dobbiamo approcciare in qualche modo la morte, e dobbiamo considerare il nostro degrado come inevitabile”. Arriviamo così all’ultimo piano, nel salone più grande, l’unico leggermente più arioso, quello che ospitava la cappella (su una parete si intravede il segno di quella che era una croce), il cinema. Era la sala della socializzazione. Ed è qui che è stata anche registrata, e dove oggi viene proiettata, una performance di danza contemporanea, coreografata da Patrizia Cavola e Ivan Truol con Camilla Perugini e Nicholas Baffon. “Alla base di tutto questo c’è l’incontro tra il corpo che danza e il luogo, con tutta la sua memoria, le atmosfere che rimandano, una trasmissione di emozioni, pensieri tra il corpo e il luogo” ci ha spiegato Patrizia Cavola. “Abbiamo fatto questa esperienza abitando vari luoghi del carcere e in ognuno abbiamo pensato di portare cose diverse. Alcune in celle molto piccole, da cui è uscito il senso di chiusura, di poca libertà, la solitudine. Qui, nel luogo della socialità, abbiamo scelto la danza, per comunicare, in contrasto con questa polvere e queste crepe, il contatto umano, la bellezza, la vita”. Un senso di chiusura, sofferenza, impedimento, solitudine - Quella di Patrizia Cavola, nata e cresciuta a Velletri, è una storia emozionante. “Questo è un luogo che ho conosciuto da bambina, e tornarci è stato rincontrare un luogo denso di memoria” ci ha confidato. “Ho avuto una compagna di scuola delle elementari che era la figlia del direttore del carcere. La prima volta che Sergio mi ha invitato qua ho avuto un flash di emozioni fortissime. È un luogo che avevo conosciuto ancora integro, funzionante. Ma con quelle immagini e quei suoni di chiavi e di cancelli che si aprivano e chiudevano che agli occhi e alle orecchie di una bambina erano una cosa inconfondibile”. “È un percorso che ha messo insieme lo sguardo di Sergio, con le sue opere d’arte, e il nostro di coreografi, e questo luogo, con la sua polvere, le sue crepe, la sua memoria, la sua disperazione. È un luogo duro, forte da percorrere. Appena arrivati qui abbiamo sentito un senso di chiusura, sofferenza, impedimento, solitudine. E anche la voglia di rispondere a tutto questo cercando l’amore, il contatto, lo sfogo dinamico. La reazione a questi spazi è molto vitale, energica. È la voglia di rispondere a questa chiusura e questa solitudine”. Le scritte sui muri, veri e propri pezzi di vita e di anima - Le opere d’arte vivono insieme a quelle celle, ci dialogano continuamente. Dietro alle opere ci sono le pareti, e i pezzi di vita di chi là dentro ci ha vissuto. Ed è qui che si scatena ancora di più l’emozione. Ci sono i poster di Madonna, o delle top model degli anni Novanta, presi dalle riviste e attaccati alle pareti come unica finestra sul mondo, come unica via di consolazione. E, soprattutto, ci sono le scritte vergate sui muri dai detenuti, veri e propri pezzi di vita e di anima, confessioni che li mettono a nudo. “I tagli sulla pelle non sono un’illusione perché non guariscono più”. “Io e tutto ciò che mi circonda mi consuma. Che senso ha la vita?”. È per questo che, una volta dentro, da quell’antico carcere non si vorrebbe più uscire. Perché si sa che verrà, giustamente, riqualificato, ma con la riqualificazione sparirà la memoria di quelle vite, di quegli uomini e quelle donne che sono stati lì dentro con cui, per qualche ora, ci è sembrato davvero di parlare. Sai che non vedrai più quell’edificio com’era e com’è, che non leggerai più quelle confessioni. E allora con queste persone, che non hai conosciuto ma che in realtà stai conoscendo, vorresti rimanerci ancora un po’. Per ascoltarli, perché in qualche modo ti hanno chiesto di farlo. Migranti. La denuncia dei magistrati: minori stranieri abbandonati alla criminalità di Antonio Maria Mira Avvenire, 30 gennaio 2024 Le procure sono preoccupate per gli arrivi massicci di giovani non accompagnati: non si riescono a garantire percorsi di accoglienza e integrazione. Allarme minori stranieri non accompagnati. Accoglienza in condizione “drammatiche” e sempre più ragazzi che finiscono nei giri criminali. A denunciarlo i magistrati di varie procure in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. C’è una parola che è stata citata più volte nel corso degli interventi sabato scorso. La parola minori. Minori e criminalità, minori e droga, minori e violenza, minori e scuola, minori e emarginazione, minori e mancanza di tutele. Ma soprattutto minori stranieri non accompagnati (Msna). C’è poco da stupirsi visto che gli Msna sbarcati sulle coste italiane lungo tutto il 2023 sono stati 17.319, rispetto a 14.044 nel 2022, 10.053 nel 2021, 4.687 nel 2020, 1.680 nel 2019. Numeri confermati dal procuratore generale di Bologna Paolo Fortuna e dall’avvocato generale Ciro Cascone. “È ormai più che drammatica la situazione dell’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati, il cui numero esorbitante e in crescita inarrestabile ha messo in ginocchio il sistema regionale di accoglienza e ha reso quasi impossibile il puntuale controllo delle loro condizioni di vita e la tempestiva attivazione delle procedure di tutela, regolarizzazione e integrazione”. Per provare a migliorare la situazione, scrivono i due magistrati, “si susseguono le conferenze e i confronti con le Prefetture, per le enormi difficoltà di distribuire sul territorio i minori e di collocarli in strutture adeguate alle loro esigenze”. È quanto denuncia anche la presidente della Corte d’appello dell’Aquila, Fabrizia Francabandera. “È in esplosivo aumento, ben oltre il 50%, il numero dei minori stranieri non accompagnati arrivati in Abruzzo, ben 839, in gran parte provenienti dalle zone subsahariane dell’Africa, fatti sbarcare a Ortona su indicazione del governo”. Il riferimento è agli assurdi sbarchi delle Ong, costrette a giorni di viaggio aggiuntivo dopo i salvataggi. Il magistrato fa un quadro preoccupante. “Si tratta di minori, non di rado vittime di tratte e violenze durante il terribile viaggio che li porta in Italia, che vengono collocati nelle strutture Sai, da tempo sature, nonostante sia stato disposto l’aumento indiscriminato di posti per ogni struttura esistente, anche quelle non specializzate”. Invece, aggiunge “ai minori stranieri privi di riferimenti familiari occorrono mediatori culturali, corsi di lingua italiana, la progettazione specifica di corsi di formazione professionale. L’assenza di scolarizzazione e di progetti di inclusione si traduce in una violazione dei loro diritti umani, perché impedisce ogni possibilità di crescita e autonomia, esponendoli anzi al rischio concreto di diventare, anche nel nostro territorio, vittime di sfruttamento, manovalanza reclutata per attività criminali”. Un quadro analogo a quello fatto in questi mesi dai sindaci e dalle associazioni del volontariato. Eppure, conclude la presidente, “questi ragazzi potrebbero rappresentare vere opportunità per un Paese in grave crisi demografica come il nostro, non solo problemi da gestire precariamente nel lasso di tempo che li separa dalla maggiore età, per poi essere lasciati al loro destino”. Un quadro che viene confermato dal presidente della Corte d’Appello milanese Giuseppe Ondei che denuncia come nel 2023 nel distretto giudiziario c’è stato un “incremento del numero di reati commessi dai minori stranieri non accompagnati, quasi tutti infrasedicenni”. Con un amaro commento. “L’obiettivo della giustizia minorile è quello di assicurare tutela ai minori fragili e disagiati. Purtroppo i dati statistici e le gravi carenze di risorse che contraddistinguono la sconfortante situazione della giustizia minorile nel distretto milanese rendono evidente come sia impossibile garantire i risultati sopra indicati”. Inoltre si aggrava “la situazione” già “critica della sezione immigrazione” del Tribunale di Milano, “a causa dell’impressionante aumento delle procedure in materia di protezione internazionale e di asilo politico”. Così i tempi di definizione dei procedimenti sull’immigrazione, dato anche il costante aumento dei ricorsi, “ha raggiunto la soglia preoccupante dei tre anni”. E i rischi di finire nei giri criminali vengono sottolineati anche dal procuratore generale di Genova, Mario Pinelli, che denuncia come “il numero dei minori stranieri (per lo più non accompagnati) indagati, è passato da 777 a 1.110, con una crescita addirittura del 43%”. Mentre il procuratore generale facente funzioni della Corte d’Appello di Trieste, Giancarlo Bramante, segnala come i flussi migratori, “che da molti anni hanno assunto dimensioni senza precedenti” continuano, come anche quello dei minori non accompagnati “provenienti da Kosovo e Albania. Una presenza che “si è verosimilmente tradotta in un aumento dei reati quali piccole rapine o piccole estorsioni”. Ilaria Salis, in tribunale in Ungheria con catene a mani e piedi: “Trattata come un animale” di Federico Berni Corriere della Sera, 30 gennaio 2024 Ilaria Salis, insegnante 39enne detenuta a Budapest da quasi un anno, è comparsa davanti ai giudici in catene, con le manette ai polsi e alle caviglie. È accusata di aver aggredito due estremisti di destra. Entra in aula sorridendo. Jeans, maglione a righe e capelli lunghi. A vederle solo il volto, ispira quasi serenità. È quando lo sguardo si allarga su tutta la sua figura, il corpo minuto ma atletico di una donna che ha sempre fatto sport, che l’immagine si fa molto più dura. Ilaria Salis, imputata davanti all’autorità giudiziaria ungherese, detenuta a Budapest da quasi un anno, compare infatti davanti ai giudici in catene. Ha le manette ai polsi e alle caviglie. I ceppi, a loro volta, sono legati fra loro a un cinturone, attaccato ulteriormente a una sorta di guinzaglio, tenuto dalle guardie penitenziarie. Dietro di lei e i due coimputati tedeschi, ci sono gli uomini di un corpo speciale degli agenti di custodia. Energumeni in tenuta mimetica antisommossa, con il giubbotto antiproiettile e il “mephisto” nero calato sul volto. Come se stessero scortando un pericoloso criminale, un boss mafioso. È in queste condizioni che si è aperto il processo alla 39enne maestra elementare milanese Ilaria Salis, militante antifascista, arrestata nella capitale magiara a febbraio dello scorso anno, a seguito di una contromanifestazione tenutasi nei giorni in cui la città era diventata sede di un raduno di neonazisti provenienti da tutta Europa. È accusata di aggressione ai danni di due estremisti (guariti in pochi giorni) e, per un sistema di calcolo delle aggravanti, in base alla legge ungherese, partendo dal presunto reato di lesioni in concorso e di far parte di una “associazione estremista”, rischia fino a 24 anni. Se il padre, gli avvocati e altri attivisti hanno sempre denunciato le condizioni “degradanti” della sua detenzione, in certi periodi “assimilabili alla tortura”, il modo con cui la ragazza è stata accompagnata in aula per la prima udienza è la fotografia plateale di ciò che Salis e la sua famiglia stanno vivendo in questi mesi. Prima del processo, nelle scorse settimane, la pubblica accusa aveva offerto all’imputata di riconoscere il fatto ed evitare di conseguenza il processo con una condanna a 11 anni. Una sorta di equivalente del “patteggiamento”, a voler cercare un’analogia con l’ordinamento italiano, che è stato però respinto dai legali della cittadina italiana. Dal punto di vista processuale, lunedì, non è successo granché: esposizione del capo di imputazione, apertura dell’istruttoria, richieste probatorie e rinvio dell’udienza al mese di maggio. Con l’imputata c’erano gli avvocati Eugenio Losco e Mauro Straini, oltre al padre Roberto Salis, artefice della mobilitazione per riportarla in Italia. La donna si è dichiarata innocente: “llaria ha contestato la mancata traduzione degli atti di indagine, e di non avere ancora potuto visionare le immagini della videosorveglianza usate come prova contro di lei”, hanno fatto sapere i legali. Resta comunque l’indignazione per l’immagine della donna in catene, per quanto la stessa fosse stata anticipata già da tempo dagli stessi legali. “È stato uno choc. Ci aveva detto che veniva sempre trasferita in queste condizioni ma vederla ci ha fatto impressione. Era tirata come un cane, con questa guardia che la tirava con una catena di ferro. Ed è rimasta così per tre ore e mezza”, ha dichiarato l’avvocato Losco. “È una grave violazione della normativa europea - ha aggiunto - l’Italia deve far finire questa situazione ora”. Uno dei due coimputati, tedeschi, che a differenza dell’insegnante milanese si è dichiarato colpevole, è stato condannato a tre anni. Il giudizio immediato è stato possibile poiché l’uomo ha ammesso le accuse contestate dalla procura ungherese. La sua difesa ha annunciato ricorso puntando a una riduzione della pena, e ad un riconoscimento della detenzione cautelare già scontata. Ilaria Salis, invece, è considerata “l’imputata centrale” del processo, e per lei la battaglia, dentro e fuori il palazzo di giustizia, è appena iniziata. Ungheria. Salis, il guinzaglio della vergogna: umiliate Italia e Ue di Flavia Perina La Stampa, 30 gennaio 2024 Manette e guinzaglio a catena, saldamente tenuto in mano da un agente: le immagini del processo ungherese a Ilaria Salis dovrebbero scandalizzare l’Italia e l’Europa più degli abbracci di Victor Orban a Vladimir Putin e delle sue intemerate contro “l’Unione stupratrice”. Sono la prova provata che nello spazio di libertà che immaginiamo di abitare, nel Continente dello Stato di diritto che celebriamo ogni giorno, esiste un’area franca in cui una militante coinvolta nei tumulti contro una manifestazione neonazista può essere trattata così. Come un animale da tenere al laccio. Il processo è stato rinviato al 24 maggio e non si sa come finirà: Ilaria Salis rischia 11 anni di carcere. In aula erano presenti i genitori, che Salis ha potuto rivedere solo nel settembre scorso dopo sei mesi di detenzione senza alcun contatto, e soltanto in due colloqui. Il suo avvocato non ha potuto presentare richieste probatorie perché gran parte degli atti non sono stati tradotti e la difesa non ha avuto accesso ai filmati dell’accusa. L’idea che la giustizia ungherese ha dei diritti di una detenuta è risultata evidente dalle modalità del suo ingresso in aula: non solo le catene ma pure la vigilanza di due colossi in tenuta antisommossa, col volto celato dai passamontagna, che hanno affiancato l’imputata a ogni passo neanche fosse Pablo Escobar. Non c’è aula giudiziaria d’Europa dove queste siano considerate modalità accettabili, per quanto gravi siano le accuse. Persino gli jihadisti del Bataclan o il pluriomicida di Utoya sono entrati in tribunale a mani libere e hanno potuto sedersi vicino ai loro avvocati. Il pieno riconoscimento dei diritti della difesa è considerato, ovunque, il pilastro indispensabile di un verdetto che non appaia un atto di ritorsione o di vendetta. Per la democratura ungherese il problema, evidentemente, non si pone, anzi: l’esibizionismo securitario di ieri contiene un chiaro messaggio agli alleati, e persino al governo amico dell’Italia. Da noi si fa così, se non vi piace amen. Che il caso Salis sia per l’Ungheria un caso simbolico, su cui costruire un messaggio al tempo stesso revanchista e intimidatorio, lo conferma l’accanimento su un’imputazione in apparenza di poco conto: le due presunte vittime dell’aggressione contestata hanno riportato lesioni guaribili in 6 e 8 giorni e non hanno sottoscritto alcuna denuncia. Erano in piazza per il cosiddetto “Giorno dell’onore” che celebra la resistenza nazista all’Armata Rossa: una manifestazione che sarebbe in teoria vietata ma continua a riunire, anno dopo anno, skinheads e neonazisti da tutta Europa, e ovviamente è catalizzatore anche dei contestatori di opposto segno. E anche qui il corto circuito è evidente: è difficile immaginare come pienamente europeo un Paese dove ogni 9 febbraio è normale imbattersi in cosplayer in divisa da SS e zaini con la croce uncinata. “L’anomalia ungherese” ci dice, con questo processo, che ha intenzione di rimanere tale non solo nelle grandi questioni che la oppongono al resto d’Europa, come gli aiuti all’Ucraina, ma anche - soprattutto - nella gestione autocratica di ogni potere e conflitto interno, dove il metro che misura l’azione dello Stato sono gli interessi del governo e del suo capo: bene skin e neonazi che tutto sommato condividono il verbo identitario e il vangelo anti-immigrati del sistema, male, malissimo, chi attraversa le frontiere per accapigliarsi con loro. Ilaria Salis forse ha preso parte a un pestaggio insieme a un gruppo di anarchici, forse no: lei si dice innocente. Ma suo malgrado è diventata la bandiera di un ammonimento molto più largo, non molto dissimile a quello riservato da ogni dittatura agli “stranieri” che si impicciano delle loro questioni interne. E si capisce perché il governo italiano, che pure si sta interessando alla vicenda, avanzi con i piedi di piombo. Evidenziare con troppa veemenza l’assoluta anomalia del trattamento ungherese nelle carceri e nei tribunali significherebbe avallare gli allarmi sulla deriva antidemocratica di quel Paese. E tuttavia qualcosa si muove. La Farnesina si è interessata al caso. È stata superata la fase in cui Salis era descritta dalle destre come “il nuovo caso Cospito” costruito dalle sinistre intorno a una “sedicente maestra” in realtà attivista di un gruppo militarizzato, e si è capito che in questa storia è in gioco anche la reputazione italiana e il rispetto dovuto ai diritti dei nostri cittadini. Le immagini dell’imputata alla catena hanno fatto il resto: il ministro degli Esteri Tajani ieri ha chiesto al governo ungherese di “vigilare e intervenire”, ricordando che Salis è una carcerata (da un anno!) in attesa di giudizio e che ci sono norme comunitarie a tutela della dignità dei detenuti. Si ipotizza il trasferimento ai domiciliari, magari in Italia, visto che il processo potrebbe richiedere altri lunghi mesi. L’augurio ovviamente è che la diplomazia arrivi dove il diritto ungherese non è ancora arrivato. Resteranno comunque le immagini di quelle catene e di quel guinzaglio, insieme col racconto di una detenzione medievale tra topi e brodaglie: testimonianza innegabile che le sanzioni dell’Europarlamento alla “anomalia ungherese” non sono invenzioni radical-chic o attacchi a uno Stato sovrano ma tentativi di difendere il nostro modello di civiltà e diritti, quello che fa la differenza tra cittadini e sudditi. Ungheria. Ilaria Salis: riportarla in Italia, subito di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 30 gennaio 2024 La procura ha formalizzato una richiesta a undici anni di carcere di fronte a lesioni personali lievissime. Qualche graffio o poco più. L’arretramento dello Stato di diritto ungherese è da ieri sotto gli occhi di tutti. E a tutti è sbattuto in faccia con quelle immagini di Ilaria Salis ammanettata mani e piedi tra due poliziotti incappucciati e in tuta mimetica. È la più esplicita rappresentazione di sé che potesse fare la giustizia penale ai tempi di Viktor Orbàn. È una iconografia poliziesca da regime. Una fotografia che le autorità ungheresi, per nulla preoccupate della presenza di osservatori esterni e di telecamere, hanno voluto ostentare al mondo per raccontare ciò che a loro dire dovrebbe incutere la giustizia penale: terrore, sfiducia, umiliazione, vergogna. Ciò accade in un paese dove il potere politico ha cercato negli ultimi anni di minare l’indipendenza della magistratura e dove si è aperta la possibilità per il procuratore generale di interferire nell’autonomia decisionale dei procuratori territoriali. Il rapporto dell’Unione europea sullo stato di diritto in Ungheria del 2022 aveva evidenziato come fosse cambiata l’architettura della magistratura inquirente prevedendo tra magistrati vincoli di subordinazione che odorano di controllo, influenza, ingerenza. Nella vicenda giudiziaria di Ilaria Salis si percepisce qualcosa di così sproporzionato rispetto ai fatti realmente accaduti da evocare l’assenza di un giudizio equilibrato e indipendente. La procura ha formalizzato una richiesta a undici anni di carcere di fronte a lesioni personali lievissime. Qualche graffio o poco più. Pene così alte il codice italiano Rocco di epoca fascista le ha previste nel caso di lesioni consistenti in malattie inguaribili, perdita di un senso o di un arto. Ilaria Salis è da quasi un anno in custodia cautelare in una delle prigioni di Budapest. Ha finora dovuto sopportare condizioni detentive durissime, sia per la materialità delle stesse che per il regime a lei imposto. Un regime, di parziale isolamento, che a noi si riserva a persone di elevatissimo profilo criminale. In un recente documento presentato dall’Hungarian Helsinky Comittee al Comitato europeo per la prevenzione della tortura, in occasione della visita ispettiva del marzo 2023 nelle prigioni magiare di cui ancora non è pubblicato il relativo rapporto, si denuncia come le organizzazioni della società civile non abbiano più possibilità di accedere ai luoghi di detenzione. L’amministrazione penitenziaria ungherese ha rescisso unilateralmente gli accordi di cooperazione con l’Hungarian Helsinky Committee. Così le prigioni di quel paese sono tornate all’opacità del regime precedente. Ugualmente sono stati indeboliti tutti i meccanismi istituzionali di controllo delle carceri e delle stazioni di polizia. Di fronte a un caso del genere è obbligo morale e giuridico delle autorità del nostro paese fare tutto il possibile per sottrarre Ilaria Salis a quelle condizioni. Vanno offerte tutte le rassicurazioni utili a riportare Ilaria in Italia in esecuzione di una misura cautelare non detentiva. Ci dispiace che il ministro Nordio, durante il question time al senato sul caso Salis, abbia affermato che l’Italia non avrebbe una buona reputazione nel campo della cooperazione giudiziaria in quanto, dopo avere ottenuto l’estradizione di Silvia Baraldini (anno 1999), l’avrebbe poi addirittura bene accolta all’aeroporto e le avrebbe fatto scontare una pena solo parziale. Beh, di quella stagione e di quella storia ricordo i dettagli. Anche lì vi era una pena sproporzionata, assurda: quarantatré anni per un delitto senza spargimento di sangue. Una pena eseguita contro una persona che non stava bene. Fortunatamente in Italia alcuni magistrati sensibili al diritto e ai diritti umani ridussero le afflizioni ingiustamente subite da Silvia Baraldini. Dunque, di quella storia e del comportamento delle autorità politiche e giudiziarie di allora il ministro della giustizia dovrebbe essere fiero, da garantista quale si definisce. Infine, qualche giorno fa il ministro ha negato l’estradizione in Argentina del sacerdote Franco Reverberi accusato di tortura e omicidio durante il regime fascista di Videla. Ha dichiarato che lo ha fatto in quanto attento alle condizioni di salute del presunto torturatore. Ora gli chiediamo di preoccuparsi delle condizioni di salute psico-fisiche di Ilaria Salis, pregiudicate da una carcerazione inumana e sproporzionata. Ungheria. Caso Salis, l’ambasciatore ungherese convocato dalla Farnesina di Giansandro Merli Il Manifesto, 30 gennaio 2024 La Farnesina convocherà l’ambasciatore ungherese a Roma Adam Kovacs per protestare contro le condizioni di detenzione di Ilaria Salis e parallelamente si farà sentire presso le autorità magiare a Budapest. La Farnesina convocherà l’ambasciatore ungherese a Roma Adam Kovacs per protestare contro le condizioni di detenzione di Ilaria Salis e parallelamente si farà sentire presso le autorità magiare a Budapest. La mossa arriva dopo la diffusione delle immagini che ritraggono la concittadina trascinata in tribunale con guinzaglio e catene nell’udienza che si è tenuta ieri. “Chiediamo al governo ungherese di vigilare e intervenire affinché vengano rispettati i diritti, previsti dalle normative comunitarie, della cittadina italiana Ilaria Salis detenuta in attesa di giudizio”, aveva twittato nel pomeriggio il ministro degli Esteri Antonio Tajani. “È una fotografia molto dura. Ci stiamo attivando, attraverso i canali diplomatici, facendo tutto il possibile per attenuare le condizioni rigorose in cui è detenuta”, ha poi dichiarato il ministro della Giustizia Carlo Nordio. Il governo, però, non ha speso una parola sul passaggio più importante, quello su cui la famiglia e i legali di Salis premono da settimane: lavorare per riportarla in Italia. Protestano i parlamentari delle opposizioni, da Alleanza verdi e sinistra al Pd fino a Italia Viva e Azione. “Il governo italiano deve intervenire e chiederne il rilascio”, afferma la deputata dem Laura Boldrini. Intanto il consiglio comunale di Milano, dove Salis viveva, ha adottato un ordine del giorno per chiedere all’esecutivo di intervenire affinché possa “trascorrere il periodo di custodia cautelare nel suo paese e partecipare in videoconferenza dall’Italia al processo”. “La Commissione è sempre disponibile ad aiutare nel quadro di questi contatti bilaterali che sono stati presi dall’Italia con l’Ungheria”, ha detto il commissario europeo alla Giustizia, Didier Reynders, nella conferenza stampa al termine del Consiglio Affari generali. Medio Oriente. “Chi salva una vita salva il mondo intero”, israeliana o palestinese che sia di Pasquale Pugliese* Il Fatto Quotidiano, 30 gennaio 2024 L’apparente cortocircuito della storia che ha fatto sì che alla vigilia del Giorno che le Nazioni Unite dedicano alla memoria dell’Olocausto, la Corte internazionale di giustizia rendesse pubblica la sentenza che riconosce la plausibilità delle accuse di genocidio dei palestinesi rivolte dal Sudafrica ad Israele - chiedendone di interrompere immediatamente tutte le violenze che possono renderlo effettivo - è in realtà un inveramento della funzione pedagogica e programmatica, non solo celebrativa, del 27 gennaio. La Risoluzione dell’Assemblea generale dell’Onu istitutiva del Giorno della memoria (60/7 dell’1 novembre 2005) esorta gli Stati a svolgere programmi formativi al fine di prevenire sia gli atti di genocidio che le manifestazioni di intolleranza e violenza contro tutte le comunità “su base etnica o religiosa ovunque si verifichino”. Anche se a commetterle, naturalmente, è il governo dello “Stato ebraico”, perché essere eredi storici delle principali vittime delle violenze nazifasciste non rende automaticamente immuni dal commetterne a propria volta. “Possiamo riconoscere l’unicità di quel genocidio - scrive Roberta De Monticelli su il manifesto (28 gennaio 2024) - senza dover ammettere che lo stato di Israele non sia imputabile di crimini contro l’umanità, compreso quello di genocidio”. Del resto il nesso tra quella violenza storicamente subita dai padri e questa attualmente perpetrata da (alcuni tra) i figli era già stato segnalato, tra gli altri, da Noam Chayut, uno dei giovani fondatori dell’organizzazione pacifista israeliana Breaking the silence che, nel libro The girl who stole my Holocaust (La bambina che rubò il mio olocausto), racconta l’impatto emotivo della sua visita ad Auschwitz svolta da studente prima dell’obbligo militare e il cortocircuito tra quella memoria e ciò che era obbligato a fare con l’esercito israeliano nei territori palestinesi occupati in Cisgiordania. In particolare le violenze efferate, subite e assistite, nei confronti dei bambini. Fino a quando un giorno Noam racconta che stava consegnando avvisi di confisca di beni e nei dintorni stava giocando un gruppo di bambini, subito scappati via alla vista dei militari, salvo una bambina rimasta paralizzata dalla paura. Chayut aveva provato a farle un sorriso gentile, ma quella era scappata a sua volta terrorizzata. “Chayut aveva visto il riflesso di un male annientante - ne scrive Masha Gessen sul New Yorker (Internazionale, 19-25 gennaio 2024) - che come gli era stato insegnato era esistito solo tra il 1933 e il 1945, e solo dove governavano i nazisti”, e invece realizza in quel momento che proprio lui stava riproducendo elementi di quel male. Per questo Chayut lascia l’esercito e, da allora, si impegna a raccontarne e arginarne la violenza. In fondo, che la violenza genocidaria sia sempre riproducibile perché non è stata commessa da mostri ma da individui “normali” che hanno attivato i dispositivi del “disimpegno morale”, analizzati da Albert Bandura e da altri psicologi sociali, è la rivelazione di quella “banalità del male” della quale aveva avuto prova Hannah Arendt al processo di Eichmann a Gerusalemme. “I giudici sapevano che sarebbe stato quanto mai confortante poter credere che Eichmann era un mostro - scrive Arendt - ma il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce n’erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali. Questa normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme, perché implica che questo nuovo tipo di criminale, realmente hostis generis humani, commette i suoi crimini in circostanze che quasi gli impediscono di accorgersi o di sentire che agisce male”. Di fronte alla banalità del male, la salvezza possibile risiede - allora come oggi - nella responsabilità del bene, ossia nell’impegno personale di coloro che assumono su di sé la responsabilità di riconoscere, identificare e agire contro il dilagare della violenza, chiunque ne sia vittima. Chiunque ne sia carnefice. È accaduto durante la seconda guerra mondiale, quando molti non ebrei rischiarono la vita per salvare gli ebrei ricercati dalle deportazioni nazifasciste: dalla resistenza nonviolenta in Danimarca che salvò quasi tutti i danesi di origine ebraica; al villaggio di Le Chambron-sur-Lignon che, guidato dal pastore Andrè Trocmè, riuscì a nascondere e salvare migliaia di ebrei francesi; a Villa Emma di Nonantola, dove furono protetti e salvati dalla popolazione locale 70 giovani ebrei fuggitivi da varie parti di Europa; a molti altri casi agiti dai “Giusti tra le nazioni”. Anche la scelta di Naom Chayut, come quella degli obiettori di coscienza e dei pacifisti israeliani che da decenni si impegnano contro l’occupazione della Palestina, come la scelta del governo sudafricano di denunciare i crimini del governo israeliano - facendosi in questo caso erede attivo della storia di verità e giustizia di Nelson Mandela - rappresentano forme attuali della responsabilità del bene. Che rispondono, allora come oggi, al verso del Talmud che recita: “Chi salva una vita salva il mondo intero”. Che sia ebrea o musulmana, israeliana o palestinese. O di qualunque altra appartenenza. *Filosofo, autore su pace e nonviolenza Medio Oriente. A Gaza la diplomazia deve alzare la voce di Nathalie Tocci La Stampa, 30 gennaio 2024 Una milizia della Resistenza islamista in Iraq uccide tre soldati americani in una base militare della coalizione anti-Isis in Giordania, ferendone altri 34. Il presidente americano Joe Biden punta il dito contro l’Iran, in quanto sostenitore della milizia irachena, e promette una risposta. Al tempo stesso la diplomazia si intensifica nella ricerca di una via di uscita dalla guerra sanguinosa di Israele nella Striscia di Gaza. Come spiegare l’apparente schizofrenia tra deterrenza militare e diplomazia e quale delle due forze è messa meglio in questo momento? Che siamo nel vortice dell’escalation regionale è noto da tempo. L’attacco in Giordania dell’altro giorno è il caso potenzialmente più incendiario di un botta e risposta in corso da quattro mesi: è la prima volta dall’attacco di Hamas in Israele del 7 ottobre che muoiono soldati americani in Medio Oriente. La milizia irachena ha colpito la base Usa in Giordania dopo che qualche settimana fa gli Stati Uniti avevano ucciso un comandante di Harakat al-Nujaba, una delle fazioni dominanti della Resistenza islamista in Iraq. Quell’uccisione, a sua volta, era stata descritta da Washington come un atto di autodifesa, alla luce dei circa 160 attacchi subiti dal 7 ottobre fino a oggi dai 3500 soldati americani di stanza in Siria, Iraq e Giordania. Dalla sua, la milizia irachena - al pari degli Houthi in Yemen e Hezbollah in Libano - giustifica e rivendica gli attacchi alla luce del sostegno americano alla guerra di Israele a Gaza, che in questi mesi ha ucciso più di 26 mila palestinesi. Dall’altra parte, la diplomazia si intensifica. I Paesi arabi lavorano a un loro piano che prevede un cessate il fuoco, il rilascio di tutti gli ostaggi e la normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita nel quadro di un percorso chiaro verso la creazione di uno Stato palestinese. Gli europei vi fanno eco, con l’Alto rappresentante Josep Borrell che, dopo aver dato luce verde all’operazione navale europea nel Mar Rosso, tenta di recuperare con un piano di pace in dieci punti per Israele e Palestina. E poi c’è la diplomazia di Washington, che attraverso la mediazione del capo della Cia Bill Burns, insieme a Qatar e Egitto, tenta di traghettare verso il traguardo un cessate il fuoco prolungato e un rilascio degli ostaggi israeliani. Che la deterrenza militare e la diplomazia coesistano è l’Abc della politica estera. Più si intensifica l’una, portando per definizione con sé anche il rischio dell’escalation militare, più deve accelerare anche l’altra. Fin qui nulla di strano. Il problema è che mentre sul fronte della deterrenza militare l’attivismo ha portato a decisioni esplicite e azioni chiare - dagli attacchi di Usa e Regno Unito in Yemen per mettere fine alla minaccia degli Houthi alle navi mercantili che transitano per lo stretto di Bab al-Mandeb, alla decisione europea di lanciare l’operazione navale nel Mar Rosso per garantire la sicurezza marittima -, sul fronte della diplomazia i risultati faticano ad arrivare. Lo scenario rimane invariato: la maggior parte degli attori in campo ripudia una guerra regionale. È emblematico sia il fatto che Teheran abbia preso le distanze dall’attacco ai soldati americani in Giordania sia che il portavoce della Casa Bianca abbia risposto assicurando che neanche gli Stati Uniti cercano una guerra con l’Iran. Biden, in poche parole, resiste alla chiamata alle armi che arriva dall’interno, come quella del senatore repubblicano Lindsey Graham, che ha invocato una risposta militare che “colpisca l’Iran duramente”. Ma finché la guerra a Gaza continua e la diplomazia non si impegna per un cessate il fuoco permanente, la minaccia di una guerra regionale diventerà sempre più concreta. La guerra a Gaza rappresenta tanto la legittimazione quanto la scusa per milizie di ogni genere di gettare benzina sul fuoco della violenza. E più i Paesi occidentali nicchiano, da ultimo con l’assordante silenzio riguardo alle misure cautelari imposte a Israele dalla Corte Internazionale di giustizia (in contrasto vistoso con l’immediata sospensione degli aiuti umanitari all’Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi per il sospetto, in corso di indagine, che alcuni suoi dipendenti siano stati coinvolti nell’attacco terroristico del 7 ottobre), più lo spettro di una guerra regionale si avvicina. Italia-Africa. Il Piano Mattei più che prendere forma diventa filosofia di Giulia Pompili Il Foglio, 30 gennaio 2024 Giorgia Meloni promette concretezza ai leader africani e ingaggia un duello con la Francia. L’endorsement dell’Unione europea. I corridoi di Palazzo Madama sono tutto un brulichio di commessi, capi delegazione, funzionari che corrono a occupare stanze e a posizionare le bandiere per i bilaterali - “quella che è, São Tomé e Príncipe?”, “me serve Mozambico di là!”. Il Vertice Italia-Africa, per la prima volta trasformato da Meloni in un vertice a livello di capi di stato e di governo, è un po’ una prova generale del G7 a guida italiana, confuso quanto basta per essere un vertice di 12 ore (domenica sera c’è stata soltanto la cena al Quirinale), senza alcun tavolo di lavoro collettivo ma solo un’esposizione da parte dei singoli ministri di governo di potenziali progetti intervallati da interventi dei rappresentanti africani. Tutto quasi perfetto, però, nella sua funzione di vetrina internazionale. Fuori programma compresi: l’apertura del vertice, che avrebbe dovuto essere tutta una celebrazione della nuova strategia africana di Meloni e del Piano Mattei che porta la sua firma, è stata offuscata dall’intervento di Moussa Faki, presidente della Commissione dell’Unione Africana (per la cronaca, in scadenza di mandato). Faki, l’uomo che impersonava il duo di comici russi nella famigerata telefonata, nel suo discorso d’apertura dice che sul Piano Mattei “avremmo auspicato di essere stati consultati”, e che l’Unione africana è pronta a discuterne ma “non vuole tendere la mano, non siamo mendicanti”. Piuttosto, dice Faki, siamo in cerca di un nuovo paradigma di cooperazione e contro “le barriere securitarie, che sono barriere di ostilità”. Un messaggio piuttosto chiaro alle politiche dei porti chiusi del governo italiano. Ma nessun problema: subito dopo prende la parola la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, che parla di “team Europa al suo meglio”, guardando con complicità Meloni, e dà l’investitura ufficiale, inserendo il Piano Mattei nel più vasto progetto europeo del Global Gateway da 150 miliardi di euro. Quelli italiani, ha detto Meloni, saranno invece 5,5 miliardi, una “dotazione iniziale” dei quali “circa 3 miliardi provengono dal Fondo italiano per il clima e circa 2,5 miliardi dalle risorse della cooperazione allo sviluppo”. Ma “l’ingegno è vedere possibilità dove altri non le vedono”, dice la presidente del Consiglio citando Mattei, e quindi conferma che ci sarà l’appoggio di aziende private partecipate, e poi di istituzioni internazionali e “altri stati donatori”. E s’appoggia pure al come dicevano gli antichi - letterale, “Come è stato detto fin dall’antichità”, cioè da Plinio il Vecchio nel Naturalis Historia - e dice: “Dall’Africa sorge sempre qualcosa di nuovo”, per introdurre il frequente slogan dello smentire tutto, soprattutto “i pronostici”. È l’underdog dei rapporti con l’Africa, che chiede concretezza per cambiare il modello di cooperazione e lancia diversi progetti pilota, divisi in cinque priorità tematiche: l’istruzione, la salute, l’agricoltura, l’acqua e l’energia. Sull’ultimo punto menziona il progetto Elmed fra Italia e Tunisia, il “ponte energetico” sviluppato dall’italiana Terna e dalla società tunisina Steg in realtà firmato dal primo governo gialloverde, quando al Mise c’era Di Maio. E sull’agricoltura si fa Lollobrigida, e promette che l’Italia non farà solo food security ma anche food safety, quindi niente “cibo in laboratorio” in un mondo “nel quale chi è ricco potrà mangiare cibo naturale e chi è povero si potrà permettere solo quello sintetico” - smentendo di fatto decine di studi che hanno rivelato come la coltivazione di mais ogm abbia ridotto l’insicurezza alimentare di ampie zone del sud globale. Meloni cerca la vetrina internazionale menzionando più volte un generico “atteggiamento predatorio” che c’è stato finora con l’Africa. Il riferimento è probabilmente alla Repubblica popolare cinese, che non è stata mai menzionata esplicitamente nei discorsi pubblici, per una questione di opportunità: molti dei leader che ieri erano a Roma sono dipendenti dalle linee di credito cinesi, e Pechino ha ancora l’Italia e il suo governo, da poco uscito dalla Via della seta, osservati speciali. Ma il riferimento continuo ai predatori forse Meloni lo fa anche in una sorta di compulsiva rivalità a distanza con la Francia, che in realtà sta perdendo sempre più influenza in Africa. Ma è questo uno degli aspetti che crea più curiosità all’estero, di questa nuova strategia africana di Palazzo Chigi: qualche giorno fa il Monde ricordava “l’ambizione africana” di Meloni, una specie di vocazione coltivata per anni, una tradizione del suo partito, e anche nel periodo all’opposizione la presidente faceva spesso riferimento diretto alle attività predatorie francesi (cinque anni fa a “Non è l’Arena” si presentò con una banconota di franco cfa, quello stampato da Parigi che circolava fino a poco tempo fa in alcuni dei paesi dell’Unione economica e monetaria dell’Africa occidentale). Eppure ieri ad ascoltare i lavori a porte chiuse in Aula a Palazzo Madama c’erano anche gli ambasciatori dei paesi del G7, compreso quello francese, invitati un po’ tutti all’ultimo momento per dare forma alla promessa fatta ai leader africani di “portare l’Africa al G7”. È soprattutto a loro che si è rivolta Meloni nelle dichiarazioni finali, tornando a parlare di una “filosofia, un modello di cooperazione”, ma che adesso ha bisogno di concretezza. Insomma, aiutateci ad aiutarli a casa loro. Italia-Africa. Piano Mattei: bene gli aiuti, ma non è l’alternativa all’emigrazione di Maurizio Ambrosini Avvenire, 30 gennaio 2024 È una buona cosa sostenere lo sviluppo dell’Africa. Il fatto che se ne discuta seriamente, insieme ai leader africani, che si elabori un piano di aiuti pluriennale, che si preveda di stanziare risorse sostanziose: tutto questo va nella giusta direzione. Purché si tenga conto della preoccupazione delle Ong: rispettare l’impegno di dedicare alla cooperazione internazionale lo 0,70% del Pil, senza dirottare risorse dalla cooperazione alle imprese private. Ciò che non torna nel piano Mattei è però l’obiettivo sotteso, neppure troppo velato: che mediante gli aiuti si possano fermare le migrazioni dall’Africa verso l’Europa. È sbagliata la lettura del fenomeno e inefficace la terapia. Sul primo versante, i riflettori puntati sull’Africa come fonte di migrazioni massicce e insostenibili deriva dall’allarme sbarchi. Ma gli sbarchi, e gli ingressi di rifugiati, sono solo una modesta frazione di un fenomeno migratorio molto più ampio, nel complesso stabile nei numeri da una dozzina d’anni: gli immigrati residenti sono circa sei milioni, compresi gli irregolari, e da anni non aumentano più, tanto che si lamenta una carenza di manodopera. Richiedenti asilo e rifugiati erano 340mila a fine 2022, ora presumibilmente 400mila o poco più: meno del 10% del totale, comprendendo circa 150mila profughi ucraini. I residenti stranieri originari dell’Africa sono poco più del 20%, ma la maggioranza provengono dal Nord-Africa, con il Marocco in testa. Gli sbarchi sono un fenomeno drammatico, ma incidono molto poco su questi numeri. E, non va dimenticato, avvengono in mancanza di altre soluzioni per cercare scampo in Europa. Quanto alla terapia, l’idea di un investimento nei luoghi di origine per offrire un’alternativa all’emigrazione, intervenendo sulle cause delle partenze, si scontra con tre contraddizioni. La prima deriva proprio dai nostri fabbisogni di forza lavoro, non più colmati dagli apporti dell’Europa Orientale. Salvo immaginare una catastrofe economica, è inevitabile prevedere per il futuro un consistente arrivo di immigrati extra-europei. La seconda contraddizione deriva dalle guerre, dalle repressioni e dall’instabilità di vaste regioni africane. Basti pensare al Sudan, terreno di un conflitto interno dimenticato: mezzo milione di profughi sono già riparati in Sud Sudan. Aiuti, sviluppo, promozione della pace, contrasto delle politiche predatorie che alimentano i conflitti: tutto questo servirà, ed è altamente auspicabile, ma non produrrà frutti immediati. Si incontra qui la terza contraddizione: gli studi sul rapporto tra sviluppo economico e migrazioni spiegano che in una prima fase il miglioramento delle condizioni di vita in un paese produce un aumento dell’emigrazione. Più persone accedono alle risorse necessarie per partire, ottengono un’istruzione che apre orizzonti e accresce le competenze spendibili, maturano nuove aspirazioni che non possono ancora soddisfare sul posto. Solo nel lungo periodo uno sviluppo stabile riesce a offrire alternative credibili all’emigrazione. C’è in realtà un modo per ottenere risultati immediati nel contrasto delle migrazioni indesiderate, come quelle dei profughi africani (non immigrati illegali, come si continua a ripetere). È il finanziamento dei governi dei paesi di origine, e soprattutto di transito, affinché stronchino i flussi di esseri umani che cercano altrove una vita dignitosa. Gli aiuti possono tradursi, come si è già visto con Libia e Tunisia, in forniture militari e addestramento delle forze di sicurezza. Possono di fatto finanziare il ricorso alla violenza e alla detenzione arbitraria per fermare le persone in viaggio verso l’Europa. Servono dunque più attenzione, più dialogo, più investimenti per l’Africa, ma indirizzandoli nella direzione di uno sviluppo umano senza secondi fini e senza cinismi inconfessati. L’ennesimo orrore in Iran. Sale l’allarme esecuzioni di Mariano Giustino Il Riformista, 30 gennaio 2024 Alla fine li hanno impiccati i quattro prigionieri politici curdi in Iran che avevano lanciato un disperato appello ai leader dell’Unione europea, al mondo libero, affinché ponessero fine alle loro relazioni diplomatiche e commerciali con la Repubblica Islamica, per fermare il boia che quotidianamente, all’alba, nell’ora della prima preghiera del mattino, impicca gli oppositori e i pacifici manifestanti del movimento “Donna, Vita, Libertà”. Pejman Fatehi (28 anni, di Kamyaran), Mohsen Mazloum (27 anni, di Mahabad), Vafa Azarbar (26 anni, di Bukan) e Mohammad Hajir Faramarzi (28 anni, di Dehgolan), quattro giovani curdi accusati di essere stati spie del Mossad. Hanno subito un processo sommario. I loro corpi penzolavano penosamente con la corda al collo sospesi in aria nel salone della morte della prigione “Ghezel Hesar” a Karaj, dopo aver lottato con l’illusione di liberare le loro mani legate dietro la schiena. Hanno tentato, invano, per pochi eterni secondi di allentare la corda che stringeva il loro collo fino a spezzarlo. Hanno lottato per pochissimi secondi, annaspando nel vuoto, in quel vuoto che è stato quello dell’indifferenza della comunità internazionale. I loro corpi si erano poi scossi in un estremo sussulto di morte mentre una schiuma bianca fuoriusciva dalla loro bocca. Sono spirati nell’ora della preghiera del mattino, in nome di Dio, al grido di Allahu Akbar. Le organizzazioni umanitarie di monitoraggio delle esecuzioni, come Hengaw che ha sede a Oslo, hanno documentato che circa 1/3 delle 829 impiccagioni effettuate in tutto il 2023 riguarda i “curdi rojhelat” (cioè i curdi dell’est, dell’Iran). Si tratta di un numero pari al 53,5% in più rispetto al 2022, quando furono giustiziati 540 prigionieri. Tra questi vi sono 22 donne e 5 minori. È bene precisare che i quattro giovani curdi uccisi non sono affatto spie di Israele. L’accusa di essere al servizio del Mossad, mossa agli oppositori più insidiosi per Tehran, cioè ai curdi, serve al regime per rendere “accettabile” presso una larga parte dell’opinione pubblica iraniana nazionalista e antisionista le condanne a morte. Chiunque in Iran si opponga alla Repubblica islamica e ai Guardiani della rivoluzione è tacciato di tradimento e di essere al servizio dello “Stato sionista” e degli Stati Uniti. I quattro prigionieri politici curdi, così come tutti gli altri, hanno subito un processo sommario e segreto senza il supporto di un avvocato difensore. Le accuse non erano sostanziate da alcuna prova documentale, ma solo dalla parola di falsi testimoni procurati ad hoc dai pasdaran e, nonostante ciò, la magistratura iraniana li ha ritenuti colpevoli di aver orchestrato un piano per conto di Israele per sabotare un sito di difesa nella provincia centrale di Isfahan. Domenica i parenti dei quattro attivisti curdi erano stati convocati per un ultimo saluto poche ore prima dell’impiccagione. Cresce nella società civile la preoccupazione per l’aumento esponenziale delle esecuzioni, che già in questi primi 30 giorni del nuovo anno viaggiano al ritmo di 2,5 al giorno. Il loro arresto era avvenuto nel luglio del 2022 con il solito modus operandi dei pasdaran, cioè con la loro “sparizione forzata”. Rinchiusi nella camera di tortura del carcere di Karaj, sono stati sottoposti a indicibili sevizie e fustigazioni affinché confessassero reati mai commessi. Una tattica questa comunemente usata dai guardiani della rivoluzione contro gli attivisti, anche i più pacifici, donne e uomini e anche minori. L’esecuzione di questi quattro prigionieri viola la Convenzione internazionale sui diritti dell’Uomo essendo basata su confessioni estorte sotto tortura e senza un giusto processo, in pratica si tratta di uccisioni extragiudiziali. Il regime iraniano sta arrestando anche i manifestanti che erano stati accecati dai pasdaran durante le proteste antiregime. Matin Hassani, 23 anni, un giovane residente a Bukan, fu accecato durante la repressione delle proteste del novembre 2019. Ora è stato rapito dalle forze di sicurezza e trasferito in un luogo sconosciuto, due giorni dopo aver visitato il luogo di sepoltura di Yalda Aghafazli, un’altra vittima che aveva perso la vita durante quelle proteste, e per aver diffuso un video riguardante questo evento.