Sovraffollamento e suicidi in carcere. E la politica tace di Franco Insardà Il Dubbio, 2 gennaio 2024 Nel 2023 si sono tolte la vita in cella 68 persone. Le presenze negli istituti sono oltre 60mila, e possono solo aumentare. Nel 2023 una persona ogni cinque giorni si è tolta la vita nelle carceri italiane. I 67 suicidi in carcere del 2023, 68 se la causa della morte dell’ultima vittima del 24 dicembre ad Avellino fosse da ascrivire a un suicidio, non sembrano però scuotere le coscienze, come successe l’anno scorso, quando i detenuti che si tolsero la vita furono 84. Un record assoluto che fece scattare l’allarme, con successivo effluvio di dichiarazioni di buoni propositi da parte del mondo politico di intervenire in modo rapido ed efficace. Poi passata qualche settimana e archiviata la fredda statistica i detenuti, le carceri con le loro celle fatiscenti, gli agenti penitenziari costretti ad operare in condizioni di lavoro impossibili, sono stati drammaticamente dimenticati e lasciati a se stessi. E così il 2023 è trascorso senza che nessuno muovesse un dito, senza che nessuno ascoltasse i continui appelli dei garanti e delle associazioni che quotidianamente sono impegnati a cercare di rendere l’esistenza in carcere meno dura. E così a fine anno ci siamo ritrovati di nuovo a parlare le carceri fatiscenti, il sovraffollamento e le condizioni degradate di vita per detenuti e personale, così come le ha fotografate l’associazione Antigone nel suo report di fine anno. Una condizione anticipata qualche settimana fa dal Garante nazionale delle persone private della libertà che ha sottolineato come, oltre ai suicidi confermati, bisogna considerare anche i “morti per causa da accertare”, che spesso risultano essere casi di suicidio. Dopo la fine di alcune misure deflattive adottate nel periodo della pandemia le carceri continuano a riempirsi e c’è il rischio che possa esplodere. E i numeri del sovraffollamento nelle carceri italiane si confermano drammatici: a fronte di 51.272 posti ufficialmente disponibili, al 30 novembre, i detenuti erano 60.116: 2.549 le donne, il 4,2% dei presenti 18.868 gli stranieri, il 31,4% dei presenti. Come fa notare Antigone nel suo report da settembre a novembre i detenuti sono aumentati di 1.688 unità. Nel trimestre precedente di 1.198. In quello ancora prima di 911. Nel corso del 2022 raramente si è registrata una crescita superiore alle 400 unità a trimestre. E secondo Antigone “se la popolazione detenuta dovesse continuare a crescere con il ritmo attuale tra un anno saranno oltre le 67.000 presenze”. Ma nell’agenda politica del 2024 non sembra che vi sia traccia dei problemi del sistema penitenziario, anzi in questo clima preelettorale, con la spasmodica ricerca di consensi elettorali, il carcere è un vero e proprio tabù. Nonostante il presidente Mattarella, nel suo discorso di fine anno, abbia espresso riconoscenza a chi lavora in carcere e a chi fa volontariato. I poveri detenuti hanno sperato per mesi nei 75 giorni di liberazione anticipata ogni sei mesi, previsti dalla proposta di legge del deputato Roberto Giachetti di Italia Viva, ma non ne hanno avuto più alcuna notizia. Anzi i provvedimenti del governo Meloni vanno in direzione decisamente opposta, dal dl Caivano, alle norme anti-rave, fino al recente pacchetto sicurezza, con misure peggiorative anche nei confronti delle detenute con figli piccoli, giungendo persino a proporre che le recluse incinte possano restare dietro le sbarre. Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, commentando il report dell’associazione ha lanciato imperterrito l’ennesimo appello: “La politica ponga il tema del carcere al centro della propria agenda e accetti di discuterlo senza preconcetti ideologici o visioni di parte. Ci auguriamo quindi che il 2024 riapra una grande discussione nel Paese sul carcere e sulle finalità della pena. Che si capisca che abbiamo bisogno di più misure alternative, di prendere in carico le persone - soprattutto quelle con dipendenza o disagio psichico - all’esterno, evitando che il carcere diventi un luogo di raccolta di marginalità e emarginazione. Antigone è a disposizione insieme al suo bagaglio di conoscenze e competenze maturate in quasi 40 anni di attività, monitoraggio e studio dei sistemi penitenziari e penali”. Addirittura il presidente dell’Unione Camere penali italiane, Francesco Petrelli, va oltre e in un recente intervento rilancia una proposta che in questo clima suona “blasfema”: amnistia e indulto. “Ringrazio gli amici e compagni di viaggio di Nessuno tocchi Caino - scrive Petrelli - , per essere stati i nostri giovani maestri della difesa degli ultimi; abbiamo marciato insieme per l’amnistia e per l’indulto, parole che oggi suonano come un’eresia e che dovrebbero invece, in questa situazione drammatica, tornare a circolare. È vero che in questo contesto, nel quale c’è nel Paese un evidente impoverimento della cultura dei diritti e delle garanzie, è difficile recuperare i valori dei nostri padri costituenti, quelle prospettive ideali”. Parole sante che rischiano, purtroppo, di cadere nel vuoto. Tanti, troppi, suicidi in carcere di Giuseppe Caforio* umbriajournal.com, 2 gennaio 2024 Lo Stato deve assicurare un percorso e un’opportunità riabilitativa. All’inizio del 2024 mi sembra doveroso intanto rivolgere un augurio di buon anno a tutto il mondo penitenziario fatto di detenuti, polizia penitenziaria, amministrazione civile, giudici, avvocati e non per ultimo ai familiari dei detenuti. È stato un anno complicato per le carceri italiane e soprattutto per le carceri umbre che hanno visto momenti di alta tensione con alcune rivolte fortunatamente sedate brillantemente, tanti troppi suicidi e una situazione sanitaria all’interno delle carceri al di sotto anche di quei parametri essenziali per garantire il diritto alla salute. In tale quadro appare proficuo il momento per fare alcune riflessioni su quella che la stessa funzione del nostro sistema carcerario. La funzione riabilitativa del carcere purtroppo appare sempre più una chimera perché spesso il carcere non solo non riabilita ma amplifica la deviazione che ha già condotto un detenuto all’interno delle prigioni. Non tutti i detenuti sono uguali. Vi è chi ha una propensione e un’abitualità a delinquere ma vi è anche chi , per percorsi sbagliati della propria vita, si è ritrovato a commettere reati pentendosi seriamente e dimostrando di voler rientrare in società rispettandone le regole. Allora se esistono delle differenziazioni rilevanti all’interno dei detenuti, è bene che anche le sanzioni e quindi le pene debbano essere differenziate. Sia chiaro la pena è di per sé sanzione e risponde al sacrosanto principio che chi sbaglia paga. Ma un conto è far scontare la sanzione per dare certezza della pena e altro è la funzione riabilitativa. Lo Stato deve assicurare un percorso e un’opportunità riabilitativa, sta poi al detenuto approfittarne. Il tema è che non sempre il carcere può essere il luogo migliore per un processo riabilitativo quando addirittura non è il posto peggiore. In tale quadro allora la giustizia riparativa, esperienza questa che ci deriva dal sistema anglosassone introdotta anche in Italia dove muove i primi passi, può essere una soluzione soprattutto per quella categoria di detenuti che oserei definire delinquenti per caso, a cui con la collaborazione della vittima e con una evidente intento riparatorio, si può dare una possibilità per ritornare sul binario della legittimità. In una parola il sistema sanzionatorio dei reati deve sempre più propendere verso la riparazione e sempre meno verso la detenzione in carcere dove dovrebbero andarci soltanto i detenuti abituali che pur avendo avuto più opportunità, persistono nel commettere reati. Se si ragiona in quest’ottica probabilmente potremmo dimezzare il numero dei detenuti nelle nostre carceri, così da risolvere sia il problema dell’affollamento, ma anche quello della carenza degli organici e soprattutto offrendo il pieno rispetto dei principi costituzionali. Il sistema carcerario sia l’estrema ratio per coloro che non hanno proprio intenzione di adeguarsi alle regole sociali e preferiscono perseverare nel delinquere. Su questi temi auspico che anche nella nostra Regione, nel consiglio regionale , ma anche nelle amministrazioni locali e nella società civile si possa aprire un confronto su quello che possa essere la modalità più opportuna di sanzionare, valutando ogni possibile misura alternativa al carcere, che dovrà essere sempre inteso come la misura residuale per chi delinque. *Garante dei detenuti della Regione Umbria Toc, toc, Presidente, s’è scordato la giustizia... di Iuri Maria Prado L’Unità, 2 gennaio 2024 O forse non se l’è scordata. Forse immagina che non sia un gran problema. E invece... Ecco tutte le ragioni per le quali riguarda non solo la nostra libertà ma anche le nostre tasche. Il fatto che alla fine dell’anno si decida di non dedicare nemmeno una parola alla giustizia, come ha deciso di fare il presidente Mattarella, può significare due cose: che la giustizia non è un problema, oppure che è un problema di cui tuttavia è legittimo disinteressarsi. Conosciamo l’obiezione. D’accordo i diritti, d’accordo lo Stato di diritto, queste menate: ma qui ad aggredire la vita e il benessere degli italiani ci sono i problemi veri, l’economia che arranca, le imprese che chiudono, gli investimenti che calano, la povertà che cresce, l’insicurezza nelle strade, l’immigrazione. Già. Ma il guaio è che non c’è una di queste cose - l’economia, la vita dell’impresa, il lavoro, la sicurezza, persino l’immigrazione - che non risenta direttamente e più o meno gravemente della cattiva influenza della giustizia. Perché la giustizia sarebbe un problema, un enorme problema, già se fosse soltanto un ricettacolo di problemi, e cioè se il problema della giustizia stesse soltanto nei problemi che la affliggono. Ma è peggio, è più grave, perché la giustizia non si limita ad avere problemi: li crea. E non li crea “soltanto” ai poveretti incarcerati ingiustamente, ai disgraziati travolti da indagini stralunate che finiscono nel nulla, alle vittime dei rastrellamenti giudiziari spazza-innocenti, tutte cose che suscitano la solita lagna dei soliti quattro garantisti che non capiscono che i problemi sono ben altri. No: la giustizia italiana crea problemi anche e proprio sul fronte di quelle effettive priorità, proprio nel circuito economico e produttivo, proprio nel flusso degli investimenti, proprio nella gestione della sicurezza, proprio nelle cose che, come demagogicamente si dice, “stanno a cuore” agli italiani. Vogliamo dimenticare i diritti dei detenuti nelle carceri sovraffollate? Vogliamo dimenticare che spesso sono poveri, spesso sono responsabili di delitti tenui, spesso sono stranieri resi criminali da leggi che ne fanno dei criminali per il sol fatto di essere stranieri e poveri? Va bene, dimentichiamoceli pure: ma quanto spendiamo per mantenere improduttive quelle decine di migliaia di persone? Quanti soldi spendiamo in questo modo, per assicurare loro, quando usciranno, un futuro che statisticamente è di recidiva? E quanto ne guadagna, in termini di sicurezza, la società? Vogliamo dimenticarci dei diritti dei cittadini spiati e intercettati come neanche in diciotto dittature sudamericane e asiatiche messe insieme? D’accordo, dimentichiamoceli: ma quanti soldi vengono spesi, e con quale frutto, per tenere impegnati i magistrati e le forze dell’ordine in questa pazzotica attività di intrusiva sorveglianza? Vogliamo dimenticare gli imprenditori distrutti da sequestri avventati e interdittive ingiuste, andati a ramengo perché un magistrato si è messo in testa che l’azienda era marcia? E dimentichiamocene pure, tanto quelli avevano messo via tanto soldi, mica muoiono: giusto? Ma a parte il fatto che a volte muoiono, perché si ammazzano: ma i dipendenti? E i fornitori? E l’indotto di commercio, di terzisti, di ricchezza supplementare che viene sacrificato quando un’impresa va a rotoli per via giudiziaria, tutto questo ce lo dimentichiamo? E gli investimenti stranieri che non arrivano perché un investitore vorrebbe passare il tempo a realizzare prodotti e servizi, non a riempire moduli antimafia, e vorrebbe avere a che fare con i collaboratori, con i concorrenti, con i sindacati, non con le procure della Repubblica, e vorrebbe metterci poco tempo, non anni e anni, per recuperare un credito: ecco, questi investimenti non mancano per caso, ma anche a causa di una giustizia che non si limita a essere inefficiente e offensiva verso i singoli, verso i diritti minuti e noiosi del cittadino qualunque, ma anche rispetto all’iniziativa di impresa, rispetto alla produzione, rispetto alla crescita del Paese. Non bastasse, si potrebbe aggiungere che un altro comparto delle cose pubbliche è vittima molto spesso dell’intemperanza giudiziaria. E si dirà che ai cittadini importa poco, anzi è il caso in cui essi più festosamente approvano quell’operato interferente e tanto meno comprendono (anche perché ben istigati in tal senso dalla retorica anticasta) quanto invece minacci i loro stessi diritti: ma un cenno al fatto che, per quanto sgangherato, il sistema democratico rappresentativo è meglio, è più affidabile, è più sicuro di quest’altro che lo vorrebbe sostituire, con i pubblici ministeri che fanno le liste elettorali e con i governi esposti al giudizio togato anziché a quello parlamentare, un cenno a questo modesto principio forse si potrebbe fare in un Paese che rischia di spedirlo in desuetudine. O no? Letterine a Nordio e agli altri attori della Giustizia: cosa chiediamo per il 2024 di Errico Novi Il Dubbio, 2 gennaio 2024 Riforme, certo. Un cambio di passo sulle questioni più urgenti, a cominciare dal carcere. Ma anche uno stile nuovo, una maggiore autorevolezza e autonomia dalla realpolitik. Ecco cosa ci aspettiamo dal guardasigilli e dai rappresentanti dei maggiori partiti. Potremmo dirne tante, sul ministro Carlo Nordio. Potremmo accodarci ai delusi. A chi lamenta uno scarto fra le promesse, le speranze che il suo stesso incarico alla Giustizia ha alimentato, e i risultati. Che poi, in fondo, il 2023 si è chiuso con un colpo di reni niente male: la norma che ha ricondotto le ordinanze cautelari nel recinto dell’impubblicabilità. Solo che fra le tante scommesse garantiste desiderabili e realizzabili, quella sugli atti dei gip è forse la sola destinata a suscitare reazioni controverse tra gli stessi cultori del diritto penale liberale. Ma il punto non è coinvolgere Nordio nell’analisi microscopica dei dettagli. Dal guardasigilli più garantista che la storia non solo recente ricordi ci aspettiamo, in realtà, uno stile, prima ancora che dei traguardi. Vorremmo che l’ex procuratore aggiunto di Venezia torni quel fuoriclasse raffinato capace per anni di deliziarci, dalle colonne del Messaggero e del Mattino, con i suoi editoriali. Non pretendiamo che ora realizzi tutto quanto prefigurava in quegli articoli. Sappiamo che la politica è cosa diversa dalla libertà di un commentatore. Però vorremmo che Nordio ritrovasse il carisma e la sicurezza che con quei suoi articoli sapeva trasmettere. Lo vorremmo vedere sicuro anche nel tenere botta di fronte agli inevitabili passaggi a vuoto. Perché magari arriverà presto la prescrizione, ma resterà in freezer la separazione delle carriere. Avremo magari un secondo “pacchetto giustizia”, sulle intercettazioni e non solo, ma dovremo assistere a complicate contorsioni sull’abuso d’ufficio. Chissà. Quello che conta è che Nordio, ogni volta in cui ci sarà da registrare un obiettivo realizzato o una promessa riposta nel cassetto, riesca a esibire l’autorevolezza di chi non subisce le scelte e riesce a mostrarci comunque un rotta chiara. Non chiediamo una terra promessa evidentemente impossibile da raggiungere, né il paradiso terrestre della giustizia, ma un viaggio concepito in modo da non farci vivere con la perenne angoscia del naufragio. Visto che non possiamo parlare solo di via Arenula e dei suoi inquilini, in questo gioco sui buoni propositi da “suggerire” ai protagonisti della giustizia passiamo quindi a una figura importante dell’opposizione, la responsabile di settore del Pd Debora Serracchiani. A lei, e con lei a Anna Rossomando, Walter Verini, Alfredo Bazoli, Franco Mirabelli e a tutti i parlamentari dem impegnati sulla giustizia, chiediamo di abbandonare il gioco di rimessa, quello che li ha spinti alla paradossale critica su una riforma della prescrizione ispirata alla legge del loro Andrea Orlando. Si liberino una volta per tutte del complesso giallorosa, cioè del tic giustizialista mutuato dagli alleati 5 Stelle, e tornino a essere propositivi e lucidi su temi ben precisi: non solo il processo penale e le sue regole ma anche il carcere, le norme antimafia, il doppio binario insopportabile del nostro sistema, e insomma tutte le distorsioni su cui non è accettabile tacere per convenienza politica. E a proposito di convenienze, non possiamo tenere fuori, dai wishes per l’anno nuovo, il partito della premier Giorgia Meloni. Ma più che a lei, indirizziamo la terza letterina alla figura che più di tutte ha pesato nelle ultime mosse di Palazzo Chigi sulla giustizia: il sottosegretario alla Presidenza Alfredo Mantovano. Al congresso nazionale forense, Mantovano ha tenuto un discorso importante sull’intelligenza artificiale applicata alla giustizia, e sappiamo che su quel versante, con lui oltre che con Nordio, siamo in buone mani. Però il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio è anche una delle figure che più direttamente interagiscono con l’Avvocatura dello Stato, e che perciò, per forza di cose, ben conoscono il dossier “misure di prevenzione”. In particolare, Mantovano sa bene che a breve, su certe abnormità del codice antimafia, potrebbe arrivare la sentenza Cedu relativa al caso Cavallotti, dalla quale confidiamo possa esserci un richiamo all’Italia per le ingiustizie che quel codice tuttora consente di consumare a danno degli innocenti. Ecco, da Mantovano, che è innanzitutto un magistrato e ben conosce l’urgenza della battaglia antimafia, ci aspettiamo un’azione decisiva per riportare le leggi sulle misure di prevenzione nell’alveo della Carta costituzionale. Cioè in una cornice che preveda il rispetto della presunzione d’innocenza, del giusto processo, del diritto di difesa e di non sappiamo quanti altri principi dello Stato di diritto. La giustizia, caro Mantovano, le sta certamente a cuore, né può risultarle indifferente il destino di chi, nell’ambito della lotta alla mafia, è trattato dalla giustizia come un sacrificio umano inevitabile. E siamo a Forza Italia. A chi, proprio sulle misure di prevenzione per esempio, si è battuto con coraggio. Tanto da aver proposto una legge che le riforma nella direzione giustamente auspicata da Pietro Cavallotti. Agli azzurri possiamo dire solo una cosa: continuate così, ragazzi. Ci rivolgiamo in particolare a quattro deputati e a un senatore, Tommaso Calderone, Annarita Patriarca, Pietro Pittalis, Giorgio Mulè e Pierantonio Zanettin: siete stati straordinari, davvero. Dagli emendamenti sulle intercettazioni che hanno cominciato a scardinare la “spazzacorrotti” all’iniziativa sulla prescrizione, fino appunto alla proposta di legge sulla prevenzione antimafia. Non sappiamo come andranno le cose per il vostro partito. Ma siamo certi che Silvio Berlusconi, se potesse, vi direbbe che è orgoglioso di voi, e che siete capaci di realizzare quanto nelle sue mani è spesso rimasto incompiuto. Non possiamo non tornare a via Arenula, per rivolgerci con un unico appello ad Andrea Delmastro e Andrea Ostellari, i due sottosegretari alla Giustizia che rappresentano Fratelli d’Italia e Lega. Non ci dilunghiamo: sappiamo che le istanze delle forze politiche di cui Delmastro e Ostellari sono espressione non consentono grandi slanci in nome delle garanzie, tanto più in una fase che per molti mesi vedrà spesso anteposte le urgenze da campagna elettorale. Ma c’è una cosa che non posiamo fare a meno di chiedere, ai sottosegretari: l’impegno per realizzare alcuni buoni propositi che loro stessi hanno da tempo espresso sul carcere. In particolare, il trattamento in comunità per i detenuti con tossicodipendenze, che Delmastro ha meritoriamente tirato fuori, e l’impegno faticoso ma irrinunciabile di assicurare ai reclusi una vera opportunità di rieducazione, che vede Ostellari direttamente coinvolto. È una questione di dignità del nostro sistema. E una quota tutt’altro che marginale di responsabilità ricade anche sui due sottosegretari alla Giustizia. Nel caso di Enrico Costa vale il discorso fatto per i parlamentari di FI: non possiamo che ringraziarlo a nome di tutti coloro ai quali sta a cuore lo Stato di diritto. Al responsabile Giustizia di Azione si deve tanto, tantissimo: dalle norme sulla presunzione d’innocenza al loro recente affinamento introdotto con la disciplina delle ordinanze cautelari. Dalla legge sul ristoro delle spese legali agli assolti al diritto all’oblio. Non mollare mai, onorevole. Sei la dimostrazione concreta che - nonostante il contesto difficile - la tenacia, la competenza e il coraggio possono portare le battaglie garantiste a vittorie insperate. E dulcis in fundo concludiamo con chi la giustizia la difende con altrettanto coraggio sia nelle aule parlamentari che al ministero, con l’ulteriore complicazione di dover mediare di continuo tra obiettivi e condizioni politiche. Parliamo di Francesco Paolo Sisto, viceministro della Giustizia. Diamo per implicito che valgono per lui le espressioni di compiacimento già riferite agli altri rappresentanti di FI e a Costa. In più a Sisto chiediamo di non perdere mai la pazienza. Virtù che certamente possiede e che più di tutte è messa a dura prova dalle imboscate degli avversari e degli stessi alleati. Non si stanchi mai di battersi per portare a casa i risultati, Sisto. Anche quando tutto intorno sembra spingere nella direzione sbagliata, continui a crederci. Alla fine, per la giustizia, per i diritti, nel processo penale ma anche nel civile, dove pure la difesa è stata messa a dura prova, chi conosce davvero la materia, come gli avvocati, e dunque come Sisto, ha un’arma ignota alla gran parte dei populisti. Si tratta solo di avere la pazienza per impugnarla - pacificamente, è chiaro - al momento opportuno. Giustizia 2023, primo tagliando per la riforma Cartabia di Debora Alberici Italia Oggi, 2 gennaio 2024 Il 2023 è stato l’anno che ha infiammato gli animi degli avvocati con una riforma complessa che, pur mirando ad accelerare il processo e a renderlo sempre più telematico, ha complicato, e non poco, la vita dei professionisti, creando grandi difficoltà di comprensione e quindi di gestione dei ricorsi. Nei mesi scorsi la Corte di cassazione è intervenuta con alcune decisioni cercando di fare chiarezza sul testo legislativo, ma saranno necessari molti altri interventi da parte degli Ermellini. Infatti, con una delle motivazioni più importanti del 2023, la Suprema corte ha fissato un paletto in materia di famiglia: abbiamo dovuto attendere ottobre per capire che con la riforma Cartabia è diventato possibile presentare un ricorso congiunto dei coniugi per avere separazione e divorzio insieme. Un escamotage processuale, questo, che risponde perfettamente alla ratio delle norme, accorciare i tempi della giustizia, che ancora oggi vedono l’Italia come fanalino di coda rispetto agli altri Stati europei. Una sentenza meno incoraggiante sullo stesso tema, e che di certo non abbrevia le cause sulla sicurezza lavoro, arriva qualche mese prima: la Corte di cassazione, nonostante la riforma, nega il proscioglimento del datore per particolare tenuità del fatto in caso di piccolo incidente sul lavoro. Insomma sono ancora tanti i chiarimenti attesi dai professionisti alle prese con i ricorsi “toccati” dalle nuove norme. Ma guardiamo l’anno più da vicino: molte sono state le decisioni in tema di compensi, di famiglia, e molte regole per l’uso dei social. A gennaio la Cassazione apre con una decisione con la quale fissa una vera e propria dead line oltre la quale il genitore separato non deve più mantenere il figlio, al di là del fatto che trovi lavoro oppure no: niente più assegno dopo i trentaquattro anni e prima il giovane dovrà dimostrare di aver fatto davvero il possibile per cercare un’occupazione, al di là del corso di studi seguito. Restando nell’ambito del diritto di famiglia la Corte, con una serie di interessanti decisioni, ammonisce le madri che impediscono ai padri separati di vedere i figli, paventando la possibilità di una condanna per sottrazione di minore con reclusione da uno a tre anni. A marzo brutte notizie per i legali. Con una sentenza che ha fatto molto discutere la seconda sezione civile del Palazzaccio ha infatti affermato che sono incluse nella parcella tutte le attività stragiudiziali e le denunce penali propedeutiche alla causa principale, attività per le quali il professionista non potrà chiedere un compenso ulteriore o separato. Ad aprile la Cassazione affronta il tema attualismo dei social cercando di mettere ordine nella giungla di insulti e offese su Facebook e Instagram. E lo fa con una decisione durissima: rischia una condanna per stalking chi intimorisce o minaccia un amico virtuale sulla sua bacheca. Con l’estate arriva una notizia fiscale di grande rilevanza. Ebbene, per la Suprema corte, il prestanome può essere assolto dall’evasione Iva quando a gestire tutto era il commercialista. La decisione ha fatto felici molti imprenditori che, di fatto, affidano la gestione della parte tributaria interamente al consulente. (Mala)giustizia italiana, due pesi e due misure per lo sputtanamento di un cittadino di Iuri Maria Prado L’Unità, 2 gennaio 2024 Denunciano il bavaglio. Ma ciò che imbavaglia l’informazione è esattamente l’abitudine di dar voce all’accusa e propalarne le ipotesi prima che essa sia scrutinata nel processo e con la decisione finale. Se un imprenditore vuole far circolare la notizia che un proprio concorrente è destinatario di un provvedimento cautelare, insomma un ordine di giustizia che interviene prima della decisione definitiva, deve stare molto attento. Deve spiegare su quali premesse è stato emesso quell’ordine. Deve spiegare che è provvisorio. Deve spiegare che è impugnabile. Deve spiegare che può essere revocato. Deve spiegare che la decisione finale potrebbe ribaltarlo. Se non fa tutte queste cose, se fa circolare la notizia senza guarnirla di tutte queste meticolose spiegazioni, di tutte queste specifiche avvertenze, di tutti questi dettagli descrittivi, commette un illecito. Bene, qual è la giustificazione in base alla quale si raccomanda (anzi si rende obbligatorio) che le notizie riguardanti provvedimenti giudiziari a carico di un’impresa non siano fatte circolare a casaccio, senza quell’apparato di avvisi? È semplice: si ritiene, con buona ragione, che una notizia costituita da un provvedimento di giustizia, o in esso contenuta, abbia nei confronti del cittadino e lettore comune una “particolare efficacia persuasiva”. Per capirsi: “L’ha detto un magistrato” (che quell’impresa razzola male, che ha fatto turbative di mercato, che agisce slealmente, eccetera), “vuoi forse che se lo sia inventato?”. E proprio per questo, proprio per il naturale affidamento suscitato da una notizia con sigillo giudiziario, si stabilisce che farne comunicazione è possibile solo nel quadro di quelle minuziose precisazioni. Ora, sarebbe bello capire per quale motivo mai si stabilisca la perentorietà di quei protocolli di comunicazione quando c’è di mezzo un provvedimento cautelare contro un’impresa (un sequestro di beni, un’inibitoria del commercio di articoli contraffatti, un qualsiasi provvedimento che aggredisce la vita aziendale, eccetera), mentre dovrebbe essere libero il volantinaggio delle carte accusatorie in forza delle quali un cittadino è sbattuto in galera. Valgono meno la reputazione e il diritto di difesa di un cittadino rispetto a quelli di una società commerciale? Chiunque direbbe di no. E invece sì. Se butto fuori un’ordinanza contro un’impresa accusata di contraffazione brevettuale devo fare uno slalom tra tanti di quei paletti che non ti dico; se invece la notizia è che Tizio avrebbe distribuito tangenti e Caio molesterebbe i bambini, buonanotte cautele e completezza dell’informazione. Ora, il più abusato argomento a favore della libertà di sputtanamento dei cittadini tramite la pubblicazione del verbo togato che li riguarda è questo: che se non fai così, e cioè se non consenti alla redazione di un giornale di farsi copisteria delle procure della Repubblica, allora tu impedisci alla gente di sapere. Il guaio è che i giornali non fanno il collage delle ordinanze cautelari per far sapere che non sono decisioni finali, per far sapere che potrebbe esserne riconosciuta l’illegittimità, per far sapere che quello messo in galera è un innocente fino a che non si prova il contrario, per far sapere che a dir poco una volta su due l’accusa è infondata, per far sapere che la voce dell’accusa dovrebbe valere quanto quella della difesa e via di questo passo: perché tutti questi sono dettagli tanto fastidiosi da associare alla purezza della notizia giudiziaria, quella secondo cui uno è un ladrone e l’altro un trafficante di droga o di influenze. Denunciano il bavaglio. Ma ciò che imbavaglia l’informazione è esattamente l’abitudine di dar voce all’accusa e propalarne le ipotesi prima che essa sia scrutinata nel processo e con la decisione finale. Reclamano il diritto di imbavagliarsi con le ordinanze. Decalogo liberale contro le ordinanze sbattute in prima pagina di Enrico Costa* Il Foglio, 2 gennaio 2024 Dieci ragioni per cui la norma sulla giustizia approvata dalla Camera è un giusto bilanciamento tra il diritto di cronaca, il diritto di essere informati e la presunzione di innocenza. In questi giorni la liaison tra alcuni pm e certi giornali, con M5s e Pd a rimorchio, si manifesta in tutta la sua solidità, e giunge al punto di capovolgere radicalmente la realtà. Penso al pubblico ministero che si spinge a sostenere che gli arrestati saranno desaparecidos della cui sorte non si potrà dare notizia, scordando che la norma prevede ben altro. O all’ex vicepresidente della Consulta, che giudica la norma incostituzionale, scordando che fino al 2017 era già così, senza che la Corte costituzionale abbia mosso censure. O a coloro che sollecitano l’Ue a intervenire, scordandosi che è proprio la direttiva europea sulla presunzione d’innocenza a chiedere agli stati una comunicazione giudiziaria rispettosa di tale principio. O a quelli che ci fanno credere che la pubblicazione di centinaia di pagine di ordinanze zeppe di brani intercettati e informative, ancor prima dell’interrogatorio, ancor prima del vaglio del riesame, ancor prima della chiusura delle indagini, sia a tutela dell’indagato, che dovrebbe così ringraziare i giornali notoriamente soliti fare il contropelo alle accuse contenute negli atti giudiziari. O al sindacato dei giornalisti che invita a disertare la conferenza stampa della premier, buttando a mare, loro sì, quel diritto di cronaca e quel diritto di essere informati che accendono e spengono a singhiozzo, secondo le convenienze del momento. Hanno tirato in ballo la dittatura, il Medioevo, la Cina. Avere contro, con attacchi durissimi, categorie che messe insieme hanno una forza dirompente, non è facile. Ma vado avanti convinto di essere nel giusto e ne spiego le ragioni. 1. Le ordinanze di custodia cautelare emesse durante le indagini sono atti anche di centinaia di pagine dal contenuto delicatissimo; infatti, per motivarle, i giudici vi inseriscono testi di intercettazioni telefoniche, verbali di sommarie informazioni, riferimenti espliciti a relazioni di polizia giudiziaria ed espressioni nette sulla colpevolezza dell’indagato come “capacità criminale” o altre analoghe, in linea con la prospettazione accusatoria; 2. Le ordinanze cautelari che intervengono durante le indagini preliminari - a differenza di ogni altro atto di indagine preliminare che, anche se non più “segreto” perché notificato al destinatario, non è mai pubblicabile alla lettera - sono subito pubblicabili integralmente, dalla A alla Z, sui giornali o sul web; così queste ordinanze vengono distribuite ai giornalisti direttamente dal pm. Spesso in rete si trovano i pdf di questi atti. Con il paradosso che i cronisti, alla luce della direttiva europea, possono ottenere sobri comunicati stampa dal procuratore capo, ma riportare integralmente un atto giudiziario lungo come un libro; 3. Le ordinanze di custodia cautelare sono quindi pubblicabili integralmente e “alla lettera” addirittura prima del vaglio del Riesame e della Cassazione che talvolta le annullano; 4. Il codice di procedura penale aveva ben chiari questi e altri aspetti e vietava la pubblicazione integrale delle ordinanze cautelari. Oggi è consentita per effetto di una modifica dell’articolo 114 Cpp intervenuta nel 2017; ancora oggi la maggioranza degli atti di indagine preliminare, anche se “notificati”, non sono pubblicabili integralmente; 5. I pm, anche contando sul fatto che le ordinanze di arresto sono pubblicabili “tra virgolette”, arricchiscono le loro richieste con particolari “coloriti” o con brani di intercettazioni “a effetto”, che il gip spesso riporta pedissequamente; così dribblano la norma sulla comunicazione sobria e ottengono il clamore mediatico, condizionando l’opinione pubblica; non escludo che taluni scelgano la strada dell’ordinanza di custodia cautelare proprio per il suo regime mediatico; 6. Le ordinanze di custodia cautelare contengono solo le accuse; la voce della difesa non c’è, perché la difesa al limite ricorrerà quando saranno già su tutti i giornali; 7. È evidente che una persona schiacciata da un simile “peso” reso pubblico con centinaia di pagine di motivazioni, quand’anche ottenesse, dopo settimane, l’annullamento dal riesame o, dopo mesi, l’archiviazione non riuscirebbe a capovolgere il racconto. Peggio ancora se arrivasse un’assoluzione dopo anni; 8. L’ordinanza di custodia cautelare è un atto del procedimento penale indirizzato a una persona che è presunta innocente; la direttiva europea stabilisce che la comunicazione giudiziaria deve essere rispettosa della presunzione di innocenza. Pubblicare alla lettera le ordinanze piene di accuse non vagliate dal Riesame o dalla Cassazione, durante le indagini, ancor prima che la persona sia interrogata e la difesa esponga le sue argomentazioni, entra in contrasto con la presunzione di innocenza; 9. Le oltre 30mila persone arrestate ingiustamente dal 1992 a oggi (in realtà molte di più, quasi 100 mila, perché molte non hanno richiesto o ottenuto il risarcimento) hanno tutte ricevuto un’ordinanza di custodia cautelare e poi, dopo anni, la riparazione per ingiusta detenzione; 10. Un conto è pubblicare una notizia sull’indagine dando conto delle contestazioni e delle misure cautelari, spiegando gli addebiti, altro è pubblicare un libro fitto di particolari ancora tutti da verificare in piena fase di indagini preliminari, alimentando giornali che campano di marketing giudiziario. In conclusione, la norma approvata dalla Camera è un giusto bilanciamento tra il diritto di cronaca, il diritto di essere informati e la presunzione di innocenza. Se per molti magistrati gli indagati sono solo “numeri”, se per alcuni giornalisti sono solo “notizie”, per un liberale sono persone in carne e ossa, che spesso si rivelano innocenti, ma anche quando non lo sono hanno il diritto a essere giudicate dal tribunale e non sulla piazza o sulla stampa. E lo stato, quando chiama qualcuno a rispondere di un reato, ha il dovere di garantire che se quella persona ne esce da innocente, abbia la stessa reputazione e immagine che aveva prima di entrare nell’ingranaggio giudiziario. E oggi quell’ordinanza sbattuta in prima pagina è una macchia indelebile. Il marketing giudiziario è quanto di più illiberale, arbitrario, incivile. Finché avrò voce difenderò questa norma approvata dalla Camera, e ringrazio i tanti che lo fanno al mio fianco. *Deputato, vicesegretario di Azione Abuso in atti di ufficio e abuso della funzione giudiziaria: il dibattito sull’abrogazione di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 2 gennaio 2024 La proposta di abrogazione dell’art. 323 c.p. nasce, come è noto, da un dato statistico e da una esigenza politica. Il dato statistico ci dice che un numero elevatissimo di procedimenti a carico di pubblici amministratori si conclude -dopo aver determinato danni politici e personali comunque non riparabili- con l’assoluzione degli imputati. Nel merito, si prende atto che, grazie a questa controversa norma, non a caso ripetutamente ma inutilmente modificata negli anni, l’autorità giudiziaria inquirente (le Procure della Repubblica) continuano ad esercitare un indebito potere di controllo e di condizionamento della Politica. Quest’ultimo è il dato dal quale non può comunque prescindere una discussione seria sulla prospettiva abrogativa. Perché se è vero che gli esiti delle indagini aperte in tutta Italia è massicciamente assolutorio (nei vari gradi di giudizio), le conseguenze politiche e personali irreparabili precedono di gran lunga quell’esito, e ne prescindono. Tra condizionamento mediatico, ragioni di opportunità e legge Severino, il malcapitato sarà intanto fatto fuori. Insomma un impatto del tutto anomalo sulle dinamiche ordinarie della vita democratica, cui occorre una volta per tutte porre rimedio. È tuttavia giusto ascoltare con attenzione anche chi dubita che l’abrogazione sia il rimedio giusto. Ovviamente non parliamo di voci populiste di nessuna qualità e di nessun interesse per un dibattito serio, ma di voci qualificatissime della dottrina penalistica contemporanea, che ci onoriamo di ospitare su questo numero di PQM. Le quali riconoscono senza esitazioni il grave squilibrio tra poteri che si è incancrenito intorno a questa norma, ma ricordano al contempo che l’origine della punizione delle condotte di abuso del Pubblico Ufficiale nascono proprio dalla esigenza, schiettamente liberale, di tutelare il cittadino dagli abusi di potere. E che puntano il dito contro la vera origine dello squilibrio tra i poteri dello Stato, è cioè da un lato l’esercizio incontrollato, incensurabile e mai sanzionabile, dell’azione penale da parte dei Pubblici Ministeri; dall’altro, il potere anche esso smisurato della interpretazione della legge da parte della giurisdizione, che finisce spesso per eludere e vanificare la volontà del legislatore, e con essa il principio di legalità. Ecco perché leggerete evocata l’esperienza spagnola, che sanziona addirittura come reato la prevaricacion judicial (una suggestione molto interessante, aggiungo). Insomma, una discussione appassionante, sviluppata tra punti di vista differenti che però condividono senza riserva l’allarmante fenomeno del controllo giudiziario della politica, che si realizza attraverso la concreta applicazione di questa norma, stigmatizzato -ed anche di questo potete leggere su questo bel numero di PQM - perfino dalla Corte Costituzionale. Siamo orgogliosi di lanciare questo dibattito, e con questa formidabile qualità di contributi. D’altronde, siamo nati per questo. La giurisdizione sia spazio e voce di alta cultura: quella dello Stato di diritto di Daniela Piana Il Dubbio, 2 gennaio 2024 Ne beneficerà la fiducia del cittadino nelle regole, nelle istituzioni e quindi nella stessa democrazia. Avere cura. È questa la cultura. Di cosa? Dei templi che costruiamo perché durino nel tempo. Chi li costruisce. Nessuno, di individuale, ognuno di partecipe, ancorché non necessario e nemmeno sufficiente, di un percorso che si chiama sviluppo delle istituzioni dello Stato di diritto. Che non valgono nella e per la dimensione individuale, valgono per la dimensione impersonale, anche se vivono attraverso il fare ed il pensare delle persone. Quali persone? In particolare, quelle che danno vita ai ruoli istituzionali impegnati nella affermazione del principio della supremazia del governo delle regole, prima che della arbitrarietà. Parole, ma non proprio. In tempi di rivoluzione copernicana le parole e i pensieri possono dare forma a bussole e sono importanti. La giurisdizione, ma soprattutto la sua alta cultura, ne è radice e nutrimento, quando si parla di tutela dei diritti, di bilanciamento e, dunque, di argini e perimetri dati all’esercizio del potere. Ecco perché la giurisdizione può essere spazio di creazione e di cura di una alta cultura, quella dello Stato di diritto che agisce nel tempo. La alta cultura si qualifica per la sua capacità di non prestarsi a negoziazioni distorsive del rigore concettuale ancor prima che scientifico-empirico. La alta cultura si qualifica per la sua capacità di vivere come bene comune, non rivale, la cui fruizione è possibile e foriera di significati condivisi, al di là dei perimetri funzionali nei quali essa trova la sua ratio nascendi. La alta cultura si qualifica per la capacità generativa non tanto di soluzioni quanto di lenti. Trattasi di “lenti bifocali” perché al loro interno si combina la consapevolezza del limite epistemologico del sapere con la postura di proiettarsi già in un futuro che, da quel limite, osa uscire avvalendosi di tutti i bilanciamenti che attengono al metodo del contraddittorio, della dialettica, della evolutività e della collegialità. La giurisdizione, in particolare nella sua voce istituzionale alta, espressione di una esperienza istituzionale vissuta nel rito, espressa nella parola, sublimata nel pensiero intriso di scienze del diritto - al plurale - può molto nell’anno che verrà. Può porsi come fonte di euristiche che aiutino la comprensione delle dinamiche di evoluzione della società, in particolare laddove la norma incontra il caso e la sua singolarità e con questa si confronta chiedendo un metodo evolutivo, comunque aperto, mai determinato ex ante dai formanti del diritto positivo. Può porsi come spazio di riflessione ed elaborazione della visione che ispira, a partire da una terzietà che è garanzia, la declinazione, nella normatività, di vincoli e opportunità, orientamenti e accenti del diritto che risponde alla domanda di una società che di diritto chiede forme sempre più diversificate, ma anche sempre più intelligibili. Può porsi come voce che rimette al centro dal vivere concreto dello Stato di diritto democratico il valore demiurgico delle parole, che nella giurisdizione “fanno le cose”, come atto performativo. Le istanze istituzionali terze sono state storicamente sempre caricate di aspettative e di funzioni legate alla necessaria garanzia che la società e le persone chiedono nelle fasi di trasformazione e di salto di paradigma. Che di salto di paradigma si tratti ciò che oggi stiamo vivendo appare chiaro. Ma diciamolo scomodando parole importanti. Ciò che si trasforma è la organizzazione e la ivi inclusa forma legittimante dell’esercizio del potere, nei suoi assetti differenziati e diversamente legittimati. Non si tratta di una questione per pochi studiosi di ingegneria istituzionale. Si tratta della domanda che scuote alla base la società del XXI secolo. La cultura è il primo argine nel limitare in modo riflessivo e costituzionalmente orientato l’esercizio del potere, qualsiasi forma di potere, anche quello del sistema giustizia. Coltivare la razionalità riflessiva ancorandola alla storia e potenziandola con linguaggi plurali e attenti alle scoperte scientifiche e tecniche permette di rafforzare le garanzie non come forme architetturali dell’ordinamento ma come principi di orientamento del comportamento e dell’azione. La cultura è la radice e la garanzia di distanziamento e pensiero critico. Farsi promotrice della elaborazione e nella diffusione di questo bene intangibile è nella missione e nei valori della giurisdizione. Sia la giurisdizione, con il precipitato di contenuti e di significanti che essa porta dentro, con la capacità di costruire templi destinati a durare, attore, spazio e voce di alta cultura dell’anno che verrà. Con la ricerca, con la formazione, con la comunicazione istituzionale. Ne beneficerà la fiducia del cittadino nel diritto. Ne beneficeranno il diritto e la democrazia. Scuola superiore della magistratura, l’intricato nodo sul presidente di Paolo Pandolfini Il Riformista, 2 gennaio 2024 Salvo imprevisti dell’ultimo momento, entro il mese è in programma l’insediamento del nuovo Comitato direttivo della Scuola superiore della magistratura, organismo quanto mai prestigioso con la sede principale a Scandicci e che si occupa della formazione e dell’aggiornamento delle circa diecimila toghe italiane gestendo un budget enorme, per la precisione circa 45 milioni di euro. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio alla vigilia di Capodanno ha nominato i cinque componenti di sua competenza: un magistrato, due professori e due avvocati. I sette componenti di competenza del Csm, sei magistrati ed un professore, saranno invece nominati nei prossimi giorni, tenendo conto che il mandato quadriennale dell’attuale Comitato direttivo termina il prossimo 30 gennaio e che il vice presidente Fabio Pinelli non ha alcuna intenzione di arrivare in ritardo all’appuntamento per il mancato accordo del Plenum. Una volta insediatosi il Comitato direttivo provvederà poi alla nomina del presidente della Scuola superiore. Fra i nomi scelti da Nordio, tranne quello della ex presidente della Corte d’appello di Venezia, la magistrata Ines Marini, nessuno sembra avere le carte per aspirare all’incarico di numero uno della Scuola, fino ad oggi sempre ricoperto dai presidenti emeriti della Corte costituzionale: Giorgio Lattanzi, Gaetano Silvestri e Valerio Onida. Il presidente della Scuola superiore, quasi certamente, sarà allora scelto fra i sette componenti che dovrà nominare il Csm. E su questo aspetto è partito da giorni il pressing del quotidiano Repubblica per la progressista Silvana Sciarra, anch’ella ex presidente della Corte costituzionale. Professoressa di diritto del lavoro, Sciarra venne nominata giudice costituzionale nel 2014 in quota Partito democratico ed è cessata dal mandato lo scorso novembre. Insieme ad altri sessanta professori, Sciarra ha presentato domanda per quell’unico posto che dovrà assegnare il Csm. Il fatto che la domanda sia stata depositata quando era presidente della Consulta non è affatto piaciuto ai laici di destra del Csm, che saranno determinanti nella nomina dei sette componenti, e che risentono inevitabilmente degli “umori” dei partiti di riferimento, Fratelli d’Italia e Lega soprattutto, i quali non hanno mai apprezzato le sue esternazioni su migranti e gender e che vorrebbero dunque un cambio di passo a Scandicci con una personalità di orientamento culturale maggiormente affine. L’incarico di presidente della Scuola superiore, come detto, da tempo risulta essere appannaggio esclusivo degli ex presidenti della Corte costituzionale, preferibilmente se legati a doppio filo al Partito democratico o alle correnti di sinistra della magistratura. L’attuale presidente Lattanzi è un ex magistrato iscritto, quando era in servizio, al gruppo progressista Movimento per la giustizia, quello di Armando Spataro. Silvestri, professore siciliano, venne eletto alla Consulta nel 2005 in quota Pd e ultimamente è diventato l’opinionista di riferimento di coloro che sono contrari al premierato proposto da Giorgia Meloni. Onida, infine, è stato l’ideologo di punta dell’anti berlusconismo militante degli anni Novanta del secolo scorso e dei primi anni Duemila. Morto nel 2022, Onida fu anche fra gli ispiratori dell’Ulivo di Romano Prodi e nel 2010 si candidò alle primarie del Pd, poi vinte da Giuliano Pisapia, per sfidare la sindaca di Milano di centrodestra Letizia Moratti. Quando Matteo Renzi venne eletto segretario del Pd, Onida uscì dal partito, iniziando una opposizione durissima alla nuova dirigenza. Nel 2016 si schierò con decisione per il No al referendum costituzionale, dando vita a numerosi comitati. Considerati i precedenti, è di tutta evidenza che la nomina di Sciarra non sia ben vista da parte della maggioranza di governo. Dopo i casi Santanché, Delmastro, Larussa junior, e Crosetto, c’è il fondato timore di commettere errori sulla giustizia, come quello ad esempio di lasciare la formazione dei magistrati sempre in mano a figure di riferimento della sinistra. La libertà di espressione e l’imparzialità di Vladimiro Zagrebelsky giustiziainsieme.it, 2 gennaio 2024 Tutti, anche i magistrati, hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione (in qualunque forma, anche non verbale). Ma l’esercizio di questa libertà porta con sé obblighi e responsabilità. Questo il quadro di principio come si ricava dalla integrazione dell’art. 21 della Costituzione con l’art. 10 della Convenzione europea dei diritti umani. Il codice etico della magistratura richiede al magistrato di ispirarsi a “criteri di equilibrio, dignità e misura” in ogni forma di espressione pubblica e, in generale, di mantenere una immagine di imparzialità e di indipendenza. Vi sono dunque degli obblighi che si traducono in limiti per il magistrato che si esprima pubblicamente fuori dell’esercizio delle sue funzioni. Limiti il cui superamento difficilmente dà luogo a qualche forma di illecito e che tuttavia definiscono la figura del magistrato nella società: essi richiedono sensibilità, prudenza, consapevolezza della speciale natura delle funzioni che sono proprie ed esclusive del magistrato ed anche delle attese sociali in ordine ad esse. Si tratta di un complesso di principi, esigenze e attese che hanno ampi margini di evanescenza. Quella stessa evanescenza che connota la nozione di “cultura della giurisdizione” cui spesso si richiama la magistratura associata e ha ricadute che distinguono il magistrato da ogni altro cittadino. Da ciò - dev’esser chiaro - non si trae che “il giudice si esprime solo nelle sentenze”, secondo una pretesa di silenzio che non ha base alcuna e non risponde all’interesse pubblico in una società democratica. In questo senso è l’importante orientamento della Corte europea dei diritti umani, più volte investita di ricorsi promossi da magistrati (spesso esponenti di associazioni di magistrati) colpiti da sanzioni penali o disciplinari per le loro dichiarazioni pubbliche. La Corte, con riferimento alla libertà di espressione, ha più volte indicato che in una società democratica le questioni relative alla separazione dei poteri e l’indipendenza della giustizia costituiscono soggetti importanti che richiedono un’ampia protezione. Da un lato la missione particolare del potere giudiziario impone ai magistrati un dovere di riserbo, anche perché le parole del magistrato sono ricevute come frutto di una valutazione obiettiva. Esse impegnano non solo chi le esprime, ma tutta l’istituzione giudiziaria. Si ha quindi ragione di aspettarsi che il magistrato si avvalga della libertà di espressione con discrezione e misura ogni volta che l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario (la cui protezione è menzionata dallo stesso art. 10 Conv.) rischino di esser messe in discussione. D’altro lato, il fatto che un dibattito su tali temi abbia delle implicazioni politiche non è ragione per impedire ad un giudice di esprimersi in proposito. E quando il magistrato si esprime nella qualità di attore della società civile, come un dirigente di un’associazione di magistrati, egli ha il dovere e non solo il diritto di intervenire su questioni che riguardano il funzionamento della giustizia. Come si vede, l’insieme di principi ed esigenze che entrano in campo trattandosi della libertà di espressione dei magistrati implicano sempre delicati bilanciamenti e contemperamenti: l’intervento del magistrato (e di un’associazione) può essere addirittura un dovere in una società democratica, ma non deve mettere in discussione la indipendenza ed imparzialità della giustizia, la sua immagine e la fiducia che deve poterne avere la società. Difficile esercizio, sempre legato alle forme del caso concreto, che richiede responsabilità da parte del magistrato e, per converso, pretende rispetto da parte di coloro cui le espressioni del magistrato sono rivolte. Indipendenza e imparzialità sono doveri fondamentali riguardanti i singoli magistrati e la magistratura nel suo insieme. Vi è un nesso stretto tra ciò che riguarda il singolo magistrato che si esprime e le ricadute sulla magistratura tutta. Quando si dice - e si pretende che abbia portata generale - che la magistratura è “potere diffuso”, si deve poi considerare che il potere giudiziario tutto è coinvolto nel comportamento dei singoli magistrati. D’altra parte, le espressioni pubbliche di un magistrato sono accompagnate da particolare attenzione, proprio perché chi parla è magistrato. Ciò vuol dire che il magistrato spende la sua qualità e quindi, che lo voglia o no, coinvolge la magistratura. Ecco allora un aspetto della “responsabilità” menzionata dall’art. 10 della Convenzione europea dei diritti umani. L’imparzialità è un aspetto particolarmente delicato ed importante che emerge quando vi sia polemica nei confronti del magistrato (il giudice in particolare) per sue espressioni, nel caso in cui successivamente, nell’esercizio delle sue funzioni, si pronunci su questioni toccate dalle sue precedenti prese di posizione. Si è detto e ridetto recentemente che l’imparzialità si traduce nell’obbligo di motivazione dei provvedimenti, la quale consente di valutarla, anche con le conseguenze possibili in sede di impugnazione. Ma non è così. L’imparzialità è esigenza autonoma ed è un carattere (e dovere) che precede la presa in carico di un affare da parte del giudice. Lo dimostra l’obbligo di astensione e la possibilità di ricusazione. La possibilità che la propria imparzialità sia messa in discussione nel processo impone al giudice una particolare prudenza prima del processo stesso. Il codice etico della magistratura richiede al giudice di valutare con particolare rigore l’esistenza di motivi di astensione per gravi motivi. E non è dubbio che vi sia un dovere del giudice di non mettersi in condizione di doversi astenere. L’imparzialità è qualcosa che riguarda l’idea che se ne fa lo stesso giudice - che si sente imparziale - ma soprattutto l’idea - non pretestuosa - che se ne fanno le parti processuali, con le ricadute possibili sull’opinione pubblica e sulla fiducia generale nella amministrazione della giustizia. A proposito dell’opinione pubblica o di suoi settori, si può certo volta per volta ritenere ch’essa sbagli nel giudicare l’imparzialità del magistrato. Ma pur nella difficoltà della questione, non si può semplicemente ignorarla, poiché la fiducia nella magistratura è essenziale condizione in una società democratica. Le prese di posizione pubblicamente espresse dai giudici danno luogo a problemi incidenti sulla loro imparzialità su due livelli: quello della generale fiducia sulla imparzialità della magistratura indipendentemente dall’incidenza su singoli provvedimenti e quello relativo alla partecipazione del giudice alla decisione di uno specifico caso. Con riferimento a questa seconda ipotesi e al tema della astensione rileva la sufficiente specificità del rapporto tra l’opinione espressa e l’oggetto della causa. Così, ad esempio, si ritiene che prese di posizione che esprimono un generale orientamento politico non implichino successivamente un dovere di astensione. Ma quando invece un nesso sufficientemente stretto esista viene in discorso quel che la Corte costituzionale, in tema di incompatibilità, ha chiamato “forza di prevenzione”: la difficoltà di cambiare idea e la naturale tendenza a mantenerla, tanto più quando quell’idea non sia rimasta nel foro interno, ma sia stata esplicitata. Imparzialità vuol dire anche disponibilità a cambiare idea all’esito dell’ascolto delle ragioni delle parti nel processo. In proposito esiste un campo importante di manifestazioni del pensiero, che il magistrato esprime in campi spesso strettamente legati a ciò che professionalmente deve trattare. Vi è, da sempre, una massiccia e ricca partecipazione di magistrati al dibattito dottrinale, con note a sentenza, articoli, relazioni a convegni, monografie su questioni di diritto, che spesso ricadono nel campo della loro attività giudiziaria. Non risulta che questa tipologia di partecipazione dei magistrati al dibattito sia stata messa in questione sotto il profilo della loro successiva imparzialità (esistono casi di ricusazione?). Forse perché si tratta normalmente di dibattito tecnico-giuridico? O perché zittire i magistrati significherebbe una troppo grave perdita sul piano dello svolgersi della elaborazione del diritto? La “forza di prevenzione” in tali casi non opera? O si ha fiducia nella capacità dei magistrati di allontanarsi dalle posizioni in precedenza espresse e ricollocarsi nel ruolo giudiziario (con le deliberazioni collegiali, quando è il caso, il richiamo ai precedenti, la considerazione degli argomenti sviluppati dalle parti, ecc.)? La questione però esiste e non è irrilevante nel dibattito generale sull’incidenza delle manifestazioni del pensiero dei magistrati sulla loro imparzialità: vuoi per una improbabile restrizione della partecipazione dei magistrati al dibattito dottrinale, vuoi per una meno schematica e polemica considerazione del tema generale. Napoli. Secondigliano: detenuti tra celle anguste e attività trattamentali di Andrea Aversa L’Unità, 2 gennaio 2024 La visita per il Partito Radicale insieme a due avvocati dell’Aiga (Associazione italiana giovani avvocati): il ‘viaggio’ nel reparto sanitario, nel polo universitario e del lavoro, nel reparto “Tirreno”. Questa struttura ospita solo persone condannate in via definitiva e accusate di reati associativi, ergastolani ed ex 41bis. Solo un settore è dedicato ai colpevoli di reati comuni: il “Mediterraneo”. Numeri e cifre del penitenziario napoletano. “Che cos’è questa?”, ha chiesto il bambino. “Una stanza per farvi giocare”, ha risposto la donna. Lui è il figlio di un detenuto, lei un’agente della Polizia penitenziaria. Il luogo in questione, ormai in disuso, è una camera di pochi metri quadri divorata da muffa e infiltrazioni. La sua funzione, come quella di altri spazi dedicati, è quella di consentire a un papà detenuto di giocare con il proprio figlio. Benvenuti a Napoli, nella casa circondariale ‘Pasquale Mandato’, meglio noto come carcere di Secondigliano. Siamo stati in visita nel penitenziario con una delegazione del Partito Radicale della quale hanno fatto parte gli avvocati iscritti all’Aiga (Associazione italiana giovani avvocati), Alfonso Abbagnale e Antonella Palladino. L’occasione è stato il consueto appuntamento “Natale in carcere”. Per il ‘viaggio’ all’interno del carcere napoletano siamo stati accolti dal I° Dirigente e Comandante della Polizia Penitenziaria Gianluca Colella. Ad accompagnarci, con massima disponibilità ed educazione, sono stati il Dott. Bruno Bucconi, responsabile delle attività trattamentali per i detenuti, e dalla Vice Comandante Varone della Penitenziaria. Il giro nel carcere c’è stato lo scorso 29 dicembre, due giorni prima dell’ultimo dell’anno. Era una giornata di colloqui, ecco perché sono saltati all’occhio i tanti bambini felici di rivedere e riabbracciare i propri padri. Come scritto in precedenza a Secondigliano, vi sono diverse aree adibite all’incontro tra genitori e figli. Spazi anche esterni, sfruttati maggiormente d’estate. Ci è stato detto che a causa di alcuni decreti varati dal nuovo governo, che ha limitato i permessi per i detenuti dell’alta sicurezza, all’interno del penitenziario durante l’anno ci sono stati un po’ di disordini. Il “Natale in carcere” del Partito Radicale a Secondigliano - Veniamo ai numeri. Il totale dei detenuti presenti nel carcere è di 1350. Quel giorno, grazie anche ai permessi dati ai detenuti in vista delle festività, ce n’erano 1231. La capienza regolamentare, secondo quanto pubblicato sul sito del Ministero della Giustizia, è di 1077 posti. Di conseguenza, vi sono 273 persone in più del previsto. Tuttavia, la struttura del Pasquale Mandato è moderna - ad esempio rispetto a quella del carcere di Poggioreale - e garantisce spazi più ampi e una vivibilità più civile e dignitosa. Di conseguenza, il sovraffollamento è percepito in modo molto diverso. Del resto, i detenuti - quasi tutti - vivono in coppia in celle per due persone. Carcere di Secondigliano: spazi e celle - Gli spazi sono molto angusti, a detta dell’amministrazione penitenziaria rispettosi della sentenza Torreggiani. A detta dei reclusi, invece, le celle sono microscopiche. I bagni sono interni, le docce in comune. Non sono stati segnalati problematiche particolari legate alla mancanza di acqua calda e riscaldamento ma un problema di infiltrazione sta causando danni ad alcune strutture: nello specifico la muffa ha iniziato a ‘divorare’ parti delle aree detentive. Carcere di Secondigliano: i dati - Il carcere di Secondigliano ha cinque reparti che hanno il nome dei mari che bagnano l’Italia. Il Mediterraneo è il reparto dei detenuti per reati comuni dove la maggioranza vive in uno stato di enorme libertà. Al suo interno vi sono il polo universitario e i laboratori per il lavoro dei reclusi. Poi ci sono tre reparti di alta sicurezza e uno di media sicurezza: il Tirreno (quello visitato da noi), il Ligure, l’Adriatico e lo Ionio. In questo penitenziario vi sono detenuti condannati in via definitiva per reati associativi, vi sono ergastolani ed ex 41 bis. Ma anche persone appartenenti a ‘categorie protette’ come sex offenders e transessuali (12). Nel 2023, in questo penitenziario, c’è stato un suicidio accertato, qualche decesso e diversi tentativi - veri e strumentali - da parte di molti reclusi di togliersi la vita. Carcere di Secondigliano: i numeri - In merito al numero degli agenti della Penitenziaria, i dati che abbiamo avuto discordano da quelli che ci sono sul sito del Ministero. Le unità disponibili sono 980 ma tra permessi e turnazioni, ne sono effettive 780. Ne servirebbero almeno 200 in più. Inoltre, nonostante il personale sia di livello, ha un’età media molto vicina alla pensione. Molti altri, invece, sono giovani padri che godono di permessi parentali. Ci sono 16 educatori su 18 previsti e nessun mediatore culturale / traduttore in grado di relazionarsi con detenuti di origine africana, asiatica, araba. In tutto i detenuti stranieri sono 60. Carcere di Secondigliano: il Sai - Vi è un numero elevato di reclusi che soffrono di dipendenze e il giorno della nostra visita c’erano 17 ricoverati con malattie psichiatriche su 18 posti disponibili (persone che invece di stare in carcere dovrebbero essere ospitate nelle Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza, Rems). L’infermeria era piena: 51 pazienti che occupavano i 51 posti messi a disposizione. La prima tappa della visita è stato il reparto del Servizio di assistenza intensificato (Sai), ovvero il reparto dedicato all’assistenza sanitaria. Abbiamo avuto modo di parlare con il responsabile, il Dott. Francesco Maffettone che ci ha parlato delle tante collaborazioni tra l’amministrazione penitenziaria e l’Asl Napoli 1 Centro volte a internalizzare e quindi migliorare il servizio sanitario per i detenuti. Carcere di Secondigliano: l’assistenza sanitaria - Il Sai è dotato di due postazioni operative 24 ore su 24 per le emergenze. Esse sono composte da un medico e un infermiere (o un Operatore socio sanitario, Oss). Vi sono 10 medici ordinari che lavorano 24 ore la settimana. Si dividono due per reparto. Inoltre, ci sono 24 medici specialisti. Le criticità. Manca da almeno due anni la possibilità di effettuare radiografie. Mentre la frequenza di visita interna al carcere è abbastanza buona, quella esterna è vittima di lunghe tempistiche. In questo modo i detenuti sono costretti ad attendere molto tempo per una visita. In generale, la principale patologia che ‘colpiscè i reclusi è l’ipertensione cardiaca. A disposizione del carcere vi sono 2 psichiatri esterni e 2 psicologi interni. Sono oggettivamente pochi. Carcere di Secondigliano: scuola e polo universitario - Seconda tappa del ‘tour’: il polo universitario. Da questo punto di vista, quello dell’istruzione, il carcere di Secondigliano rappresenta un’eccellenza a livello nazionale. I detenuti possono seguire corsi dalle scuole medie fino all’università. I reclusi, quindi, possono prendere il diploma e la laurea. In totale vi sono 50 iscritti divisi in 19 classi, i laureati sono stati 5. Le aule, da un punto di vista strutturale, non ci hanno impressionato e ci sono parse piccole e in parte fatiscenti. Poi siamo andati a vedere i laboratori che impegnano 327 detenuti - lavoratori. Il Polo arti e mestieri comprende un’officina meccanica, una sartoria (dove lavorano 6 persone, 5 ore al giorno) e una falegnameria (che impiega 10 persone) che comprende anche una liuteria. Carcere di Secondigliano: laboratori e lavoro - La selezione dei reclusi che hanno accesso al lavoro avviene tramite graduatoria stabilita dal centro dell’impiego territoriale, insieme ai principali sindacati di categoria e a una commissione interna al carcere. La chiesa e alcune associazioni fanno in modo di vendere ciò che i detenuti producono con lo scopo di creare un’economia circolare interna al penitenziario. Altri lavori sono commissionati dalla stessa amministrazione penitenziaria. Purtroppo il reinserimento nel mondo esterno del lavoro resta comunque difficile. In cantiere vi è un progetto, finanziato dalla Regione Campania sulla digitalizzazione degli archivi. Carcere di Secondigliano: spazi esterni - Il carcere di Secondigliano è dotato anche di spazi esterni. Quelli dedicati al tradizionale passeggio sono molto stretti, tuttavia, la struttura penitenziaria ha due campi da calcio (uno in sintetico per giocare 5 contro 5, uno di terra per giocare in 8 contro 8), degli orti (coltivati dai detenuti) e c’è il progetto per la costruzione di un campo di basket (con la collaborazione della Federazione Italiana Pallacanestro, Fip). Prima di uscire e andare via, abbiamo avuto il piacere di salutare e conoscere la Direttrice Giulia Russo. La dirigente ci ha congedati descrivendoci quanto sia complesso gestire un penitenziario. Possiamo sintetizzare in questo modo: “Si fa quel che si può con le risorse che si hanno a disposizione”. Prato. In via Zipoli una casa per ricominciare. Lo spazio che aiuta gli ex detenuti La Nazione, 2 gennaio 2024 “Una casa per ricominciare”. E la casa si chiamerà San Leonardo di Noblac, come l’abate benedettino vissuto in Francia nel VI secolo, e spesso raffigurato con delle catene o dei ceppi perché è considerato patrono dei carcerati. Ed è proprio per loro, i detenuti, anzi, coloro che hanno finito di scontare la pena carceraria, che è pensato il nuovo progetto della Fondazione Caritas di Prato. Una casa, appunto, per ricominciare. “Si tratta di un nuovo passo nel contrasto alla recidiva - spiega don Enzo Pacini, direttore della Caritas e cappellano del carcere della Dogaia -, perché chi esce da un periodo di detenzione si trova indubbiamente in difficoltà e se qualcuno non lo sostiene e lo accompagna in percorsi di autonomia e di ripresa della propria vita, è molto probabile che questa persona torni a delinquere”. Questo progetto troverà spazio all’interno di un terratetto lasciato in eredità alla diocesi di Prato da un’anziana signora che ci ha vissuto fino al giorno della morte. Nel testamento è scritto che l’abitazione sarebbe stata donata per l’assistenza dei bisognosi e dei senzatetto. L’edificio, una tipica casa alla pratese a tre piani con piccolo stanzone annesso, si trova in via Zipoli e prima di essere messo a disposizione del progetto avrà bisogno di essere ristrutturato. Casa San Leonardo sarà composta da sei stanze con bagno e angolo cottura privati, mentre al piano terra ci saranno alcuni spazi comuni e la presenza di un operatore dedicato. È prevista anche la realizzazione di un laboratorio dove svolgere attività formative o lavorative. L’obiettivo è quello di rendere autonomo ogni ospite, perché è dall’autonomia personale che inizia il cammino verso il reinserimento sociale. L’alloggio dato in uso all’ex detenuto sarà temporaneo, per non più di un anno o due, “il tempo necessario per dargli modo di fare un salto di qualità nella propria vita”, conclude don Enzo. Un progetto importante. Una mano tesa per aiutare chi esce dal carcere a scrivere una nuova e migliore pagina della propria vita. Rimini. Alla vigilia di capodanno visita di monitoraggio alla Casa circondariale riminitoday.it, 2 gennaio 2024 Hanno partecipato le sezioni di Rimini del Partito Radicale, con Ivan Innocenti; della Camera Penale, con l’avvocato. Valeria Solleciti; del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati con l’avvocato. Linda Mastrodomenico e di Aiga, con l’avvocato Efrem Ceccaroli. Il 31 dicembre è stata fatta la tradizionale visita di monitoraggio alla Casa Circondariale di Rimini da parte delle rispettive sezioni di Rimini del Partito Radicale, con Ivan Innocenti; della Camera Penale, con l’avvocato. Valeria Solleciti; del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati con l’avvocato. Linda Mastrodomenico e di AIGA, con l’avvocato Efrem Ceccaroli - “Ringraziamo il Partito Radicale e l’Osservatorio Nazionale AIGA sulle Carceri (ONAC) - ha dichiarato quest’ultimo - per questa opportunità di visita della Casa Circondariale di Rimini, nonché Camera Penale di Rimini ed il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Rimini per la presenza dimostrata. Volendo spiegare brevemente l’operato dell’ONAC, esso monitora la situazione delle carceri italiane, sensibilizza l’opinione pubblica e il legislatore sull’importanza di una riforma dell’ordinamento penitenziario. L’attività dell’ONAC si focalizza sulla dignità dei detenuti, il principio di rieducazione della pena e le condizioni lavorative e umane all’interno delle carceri. Ogni Sezione territoriale di AIGA può collaborare all’attività di questo osservatorio nazionale. L’auspicio è che, se la nostra rinnovata Sezione di Rimini abbia volontà di proseguire il suo impegno sociale, tale sia ispirato da una partecipazione intellettuale e materiale di giovani avvocati volenterosi, consapevoli e critici”. Padova. Avvocati contro il bullismo, apre uno Sportello gratuito di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 2 gennaio 2024 Il bullismo è una piaga che richiede, per essere affrontato e sconfitto, il coinvolgimento di più soggetti e plurime istituzioni. Da questa consapevolezza è partito l’Ordine degli avvocati di Padova, che ha fornito un supporto fondamentale per la creazione dello “Sportello legale bullismo”. Il progetto coinvolge anche la Provincia di Padova e la dirigenza scolastica di Padova. Un lavoro che parte da lontano e che si aggancia ai numerosi casi di cronaca con al centro negli ultimi tempi i giovani. Di qui il protocollo di intesa sottoscritto nelle scorse settimane per promuovere un ambiente scolastico sicuro e inclusivo, volto a sensibilizzare i giovani, le loro famiglie e la cittadinanza sulla prevenzione e il contrasto del bullismo e del cyberbullismo. “Ogni giorno nella nostra attività professionale - spiega il presidente del Coa di Padova, Francesco Rossi - ci troviamo ad affrontare situazioni legate al bullismo e al cyberbullismo. Per questo abbiamo accolto con grande entusiasmo la possibilità di collaborare con la Provincia e il Provveditorato agli studi. Intendiamo offrire la nostra professionalità e la nostra competenza su questioni estremamente delicate. Un ringraziamento lo rivolgo ai colleghi che saranno impegnati in prima linea nel supporto a famiglie e insegnanti. Lo sportello legale contro il bullismo è improntato alla massima trasparenza e rispetto dei principi deontologici. Il servizio fornisce informazioni chiare e accessibili sul diritto civile e penale, con particolare attenzione alle leggi relative ai fenomeni del bullismo scolastico. Inoltre, è totalmente gratuito e si basa sulle competenze di avvocati che offrono pro bono la loro consulenza”. Nel protocollo di intesa viene precisato che sarà evitata la promozione di servizi legali a pagamento o la formulazione di preventivi legali. Il servizio di assistenza sarà disponibile presso la sede della Provincia di Padova; gli incontri saranno fissati su appuntamento e si svolgeranno una volta al mese. L’obiettivo è anche quello di garantire la riservatezza dei colloqui. Il dirigente dell’Ufficio scolastico territoriale di Padova e Rovigo, Roberto Natale, sottolinea l’importanza della collaborazione con l’Ordine degli avvocati. “Il bullismo - afferma - è un fenomeno conosciuto da tempo, ma è indubbio che in questi ultimi anni episodi di prevaricazione, violenza verbale, fisica e psicologia hanno assunto una connotazione socialmente più allarmante. A questo si è poi aggiunto più recentemente il fenomeno del cyberbullismo, che essenzialmente consiste nella diffusione sui canali social di contenuti offensivi o di materiale fotografico privato, allo scopo di denigrare, deridere, umiliare qualcuno. Molti studenti, vittime di questi atti di violenza, si chiudono in se stessi, interrompono la frequenza scolastica e cadono in situazioni di depressione. Questa la ragione per la quale è forte l’impegno di tutte le istituzioni per il contrasto a qualsiasi forma di prevaricazione e umiliazione”. I dati diffusi dal ministero della Salute rilevano che, al di sotto degli undici anni, il 19% dei maschi e il 20% delle femmine sono vittime di bullismo. Tra i 13 e i 15 anni, queste percentuali si riducono al 15% dei maschi e al 18% delle femmine, mentre sopra i 15 anni si attestano al 10% dei maschi e al 9% delle femmine. Le statistiche più recenti delle Nazioni Unite riportano che nel mondo uno studente su tre, tra i 13 e i 15 anni, ha vissuto esperienze di bullismo. Complessivamente, nel mondo, 246 milioni di bambini e adolescenti subiscono ogni anno qualche forma di violenza a scuola o episodi di bullismo. Verona. A migranti e senza dimora manca la tessera sanitaria: le cure al Cesaim sono 7mila di Beatrice Branca Corriere Veneto, 2 gennaio 2024 Da cinque anni, nella provincia di Verona, la maggior parte dei richiedenti asilo sono sprovvisti di STP, la tessera sanitaria degli Stranieri Temporaneamente Presenti. Non possono accedere al sistema sanitario nazionale per ricevere le cure e l’unica opzione è rivolgersi al Cesaim il Centro Salute Immigrati. Questa associazione offre da 30 anni un servizio di cure mediche a chi non ha la tessera sanitaria. Nel 2023 le prestazioni effettuate sono state circa 7mila e la maggior parte degli utenti erano proprio richiedenti asilo. In media sono state visitate tra le 15 e le 60 persone ogni giorno. Rispetto al 2022 gli accessi sono aumentati del 10%, un dato che però non stupisce visto che sono aumentati gli arrivi in Italia, e quindi anche a Verona, sia dalla rotta mediterranea che da quella balcanica. “Dal 2018 i richiedenti asilo aspettano anche tanti mesi prima di ricevere la STP - spiega Gianfranco Rigoli, presidente del Cesaim -. Basti pensare che l’anno scorso la possedevano solo in 40 su 1.189. Questo perché c’è un’interpretazione più restrittiva della normativa nazionale nella provincia di Verona. Manca omogeneità a livello regionale e stiamo cercando di intervenire con le istituzioni attraverso la Rete Veneta della Società Italiana di Medicina delle Migrazioni. Vogliamo tutelare soprattutto i soggetti più fragili come le persone con dipendenze, chi viene dimesso dal pronto soccorso e deve fare delle visite specialistiche, i minori e le donne in gravidanza. Stiamo infatti cercando di istituire con la prefettura un protocollo affinché le pratiche per la STP vengano accelerate almeno per le donne che rischiano altrimenti di ricevere la tessera quando ormai hanno partorito”. Oltre ai richiedenti asilo il Cesaim, con i suoi 80 volontari tra infermieri e medici specializzati, assiste anche persone senza fissa dimora, gli irregolari senza visto e chi è rimasto senza tessera sanitaria perché ha perso la residenza o il lavoro pur avendo un permesso di soggiorno ancora regolare. La sede dell’associazione di trova al Palazzo Sanità ed è stata messa a disposizione dall’Ulss 9 che fornisce anche una parte di medicinali oltre a quelli donati dal Banco Farmaceutico. Tra i medici volontari ci sono quelli generalisti e gli specialisti in diabetologia, ginecologia, cardiologia, pediatria, ortopedia, dermatologia e psichiatria. Le patologie più comuni sono la scabbia e le malattie respiratorie. In aumento ci sono però anche i casi psichiatrici che sono legati all’esperienza traumatica della migrazione e alle violenze subite nelle carceri in Libia o in altri Paesi. Milano. L’ultima notte 2023 per le strade con i volontari dei City Angels di Andrea Ruggieri Il Riformista, 2 gennaio 2024 Potrebbe essere chiunque di noi. Nessuno escluso. Questa è la sensazione, nettissima, che mi lascia la serata di Capodanno passata con i volontari dei City Angels di Milano. Donne e uomini fantastici, generosissimi, che anche la sera di San Silvestro si prendono cura dei loro “utenti”, come chiamano i tanti, tantissimi, troppi senzatetto che vivono al freddo e al gelo per le strade, e sotto i portici, di Milano. Cui prima servono la cena (a quelli che risiedono nel loro centro di accoglienza di Niguarda, sempre in overbooking per eccesso di richiesta), poi vanno a portare assistenza sulla strada. Dove, prima sorpresa, alcuni scelgono di stare. Deliberatamente. Perché i centri di accoglienza, ricordano loro, sono posti in cui hanno vissuto esperienze costellate di violenza e furti. Meglio il freddo e il gelo. È più sicuro. Il centro di accoglienza dei City Angels di Milano è molto ben tenuto. È concesso in comodato d’uso trentennale dal Comune, che rimborsa l’associazione in ragione di 18 euro al giorno per ogni senzatetto ospitato. Non bastano, ovviamente, e per di più le spese devono essere anticipate. Soprattutto, siamo a Capodanno 2024, e l’ultimo rimborso è datato marzo 2023. Insomma, se vuoi dare una mano, devi potertelo permettere perché devi anticipare i soldi. Arrivo al centro di accoglienza un po’ in ritardo (a Milano piove, non c’è uno straccio di taxi in servizio, e Uber ci mette 20 minuti ad arrivare), e trovo tutti già seduti. Ai fornelli, a cucinare, c’è Jonathan Falcone, editore di professione, benefattore per passione, che come ogni anno da nove anni a questa parte ha appena rimediato 100 panettoni che verranno offerti a cena, ma anche dopo cena, quando dal centro di accoglienza ci si sposterà sulla strada, a offrire assistenza ai senzatetto che dormono all’addiaccio (“Questa è l’unica sera dell’anno in cui mi sento davvero utile”, dirà Jonathan a fine serata, a mezzanotte, tra spari di fuochi ed euforia che scorre, quasi smorzata, sullo sfondo del capodanno di questi volontari). In sala, a servire ai tavoli, un brillante chef come Filippo La Mantia, dedica a tutti un sorriso e una carezza (“Ho i figli grandi in giro per il mondo, mi fa piacere dare una mano”). Oltre lui, altri operatori dei City Angels, sorridenti. Seduti, a mangiare cotechino con lenticchie e patate, scaloppine, cannoli siciliani e panettone, gli ospiti di questo centro gestito da Mario Furlan, uomo concreto ed entusiasta, e dalla sua compagna spagnola. Molti di loro sono stranieri (ivoriani, egiziani, marocchini, anche un inglese di Newcastle con cui ricordiamo Alan Shearer, striker del Newcastle e della nazionale), alcuni italiani (siciliani, milanesi stessi). Con mia grande sorpresa, sono tutti discretamente di buon umore. Philippe, ivoriano, tutta una sua certa simpatica eleganza, mi spiega la sua parabola in Italia e ringrazia tutti con un sorriso che sembra Eddie Murphy. Gli altri si prendono in giro. Sono compagni di vita da tempo, tutte persone abbastanza sole, che si fanno compagnia. Hanno bisogno, è chiaro, ma non sono bisognosi. Sono educatissimi, e hanno lo sguardo buono di chi ha sofferto. Tra loro, Salvo, siculo-eritreo come si definisce lui, sorridentissimo, e Filippo, siciliano, un tempo mafioso, 40 anni di carcere sulle spalle, oggi libero “dopo aver pagato il conto con la giustizia”, che incassa la battutaccia di Mariano, il quale passando gli dice scherzando: “Te ne dovevano dare 50 di anni, altro che…”. Sullo sfondo, in televisione, Sergio Mattarella tiene il suo discorso di fine anno. Qualcuno ascolta, qualcun altro no. La distanza tra bellissime parole di principio e il piano terra di queste persone ormai in pace con se stesse ma paradigma plastico di quanto lo Stato non sappia fare tutto quanto pretende di fare, è tutta in quel frame: l’istituzione tiene un bel discorso. L’Italia che soffre lo reputa tale: un discorso, appunto. A Mario Furlan ora servono finanziatori per mantenere il centro. C’è qualche imprenditore che non fa mancare il suo sostegno generoso, ma urgono soldi e una madrina capace di rappresentare l’associazione e aiutarla nel fund raising. Alle 21,30 i primi ospiti salutano, ringraziano, e vanno a dormire. I volontari invece sono già sulla strada, e attendono che Furlan li raggiunga a piazza Fontana. Siamo a ridosso del Duomo, tra le grandi vetrine dei marchi di lusso, e c’è una distesa di gente che dorme nemmeno in sacco a pelo, ma solo con qualche cartone addosso. E che allora, chiede per favore ai volontari se hanno qualche coperta da lasciargli. Già, i volontari. Tutti con una pettorina che rassicuri i senza tetto che loro sono lì per aiutare, e con un nome in codice. Swat e Cia fanno i custodi, poi al pomeriggio le pulizie domestiche, infine i volontari. Lui, peruviano che si chiama Pedro, rincuora tutti i senzatetto che incontra e presso cui si china, caritatevole. “Anche io ero scivolato in strada, e ho saputo tirarmene via. Adesso aiuto chi ancora non ce la fa”, ricorda. E lì fuori, sotto al nostro mondo, ce ne è un altro, con le sue regole, un suo protocollo, le sue miserie, e anche i suoi gesti di nobiltà. I volontari parlano con questi signori, ne raccolgono amarezze e sofferenze, scherzano e ridono, il tutto offrendo cibo, bevande calde, coperte, abbigliamento che possa scaldarli. Mentre loro chiedono, sempre con questa gentilezza un po’ mortificata, biancheria intima che, non potendo lavare, usano e gettano di continuo. È una vergogna che in una nazione che ambisce a dirsi civile, ma che civile non è, ci siano persone costrette a dormire al freddo e al gelo, senza potersi lavare (anche se i City Angels sono dotati di un mezzo mobile che ha una doccia e gira offrendo ai senzatetto di poterlo fare), mentre buttiamo dalla finestra miliardi di soldi pubblici per assistere chi potrebbe ma non vuole fare una mazza. Questo, anche se quando poi ci parli, scopri che alcuni costretti non sono. “Sono in mezzo alla strada perché ho scelto di starci”, mi dice Gabriele, homeless emiliano che ‘vivè a Milano-. “Nella mia vita precedente ero rimasto solo e soffrivo moltissimo la solitudine. Qui ho ritrovato una comunità, ho compagnia”. O, come mi spiega Valentino, barba e capelli grigi da rockstar trasandata, begli occhi verdi vividi e stanchi, simpatico e caustico, grande voce che esibisce cantando, e ghigno da uomo consumato e ormai libero da ogni convenzione: “Io sono 40 anni che vivo in strada, non saprei nemmeno più dormire in un appartamento, ma ringrazio questi ragazzi, ci commuovono sempre”, dice parlando dei volontari, mentre guarda un video di Papa Francesco sul telefono di un suo amico. Perché è incredibile, ma a parte un giovane cretino che li insulta passando (peraltro, ripreso proprio da un suo amico, che gli intima di avere rispetto, e nel farlo lascia due euro nel bicchiere della carità di un senzatetto che avrà la sua stessa età) questi sono personaggi cui la gente vuole bene, cui la gente portava piatti cucinati a casa con le proprie mani. Tanto che diversi di loro, alla nostra offerta, rispondevano: “No grazie ho già quel che mi serve”. Ma è incredibile per me ascoltare homeless italiani che sono istruiti, parlano un italiano perfetto, quasi forbito in alcuni casi. Pietro che spiega quanto non avere una residenza allontani il datore di lavoro; Angela, pugliese, che fa le pulizie negli hotel, come suo marito, che conti alla mano dimostra di non riuscire a ottenere un affitto e dunque vive in tenda di fronte alla Rinascente del Duomo, mentre moltissimi rumorosi immigrati festeggiano di trovarsi al centro del mondo che vogliono scalare, ma che non mi pare apprezzino molto, visto come si rivolgono a chi li ospita. Chiunque di noi potrebbe essere uno di questi uomini e donne sfortunati eppure così pieni di dignità da rifiutare cibo e coperte, se già ne hanno, dicendo: “Offritene a chi ne è sprovvisto”, sempre ringraziando, e non avendocela con nessuno. Non sono persone che recriminano, non sono frustrate. Qualcuno si vergogna, altri sono mortificati, altri attendono una chance che se fossimo una nazione meno ingessata forse gli daremmo. Ma sono persone di una educazione che mi ha colpito e commosso. E che ti ricordano di distinguere tra inconvenienti e problemi, come sanno i volontari, che sono davvero l’Italia migliore, quella della pietà intesa nel senso più nobile del termine, della prevalenza della bontà sull’indifferenza, e della carità come iniezione di dignità, ma anche della totale assenza di giudizio. Chi lo fa perché ha commesso un errore e deve riparare; chi perché si dice egoista, e spiega che “fare del bene mi fa del bene”. Ma tra volontari e senzatetto, anche se con storie e condizioni diverse, c’è una chimica, un’intesa: equilibrati, gentili, e riconoscenti gli uni agli altri. Con le cui vite si intrecciano in un racconto di miseria e nobiltà, restituendo una pagina molto toccante ed edificante a chiunque abbia l’occasione di viverla. Stavolta, è toccato a me, e ringrazio di cuore. La prossima, perché no, a qualcuno di voi. Vi farà bene. Come lo ha fatto a me. Buon 2024, con l’augurio di avere il coraggio di essere buoni. Non ce ne è da vergognarsene. E con l’ambizione di creare più opportunità per tutti. Perché solo così se ne esce. “Benvenuti in galera”, il documentario sul primo ristorante al mondo in un carcere lospecialegiornale.it, 2 gennaio 2024 “Benvenuti in galera”, il documentario di Michele Rho, narra la storia del primo ristorante al mondo aperto dentro un istituto di pena - quello di Bollate, a Milano - e delle persone che ci lavorano ogni giorno. Dopo l’anteprima al Filmmaker Festival 2023 ci sarà l’anteprima a Milano l’11 gennaio 2023 alla Cineteca Milano Arlecchino e poi il film inizierà il suo viaggio in sala. Il tema della carcerazione e della condizione del detenuto è sempre di estrema attualità, ma spesso si preferisce non affrontarlo oppure parlarne con un certo grado di retorica: il carcere è scomodo e fa paura. Raccontando il progetto di In Galera, il primo ristorante al mondo aperto dentro un istituto di pena, il film documentario ci porta dentro un carcere cercando di abbattere queste paure e diffidenze attraverso le storie di chi sta cercando di riprendere in mano la propria vita lavorando. Per i ragazzi protagonisti il lavoro significa redenzione, vita e futuro: Davide, Said, Jonut, Chester, Domingo, Pavel sono uomini che hanno commesso errori e che stanno cercando una seconda possibilità dalla vita, molti di loro attraverso il lavoro. Ideato e supervisionato da Silvia Polleri, questo ristorante di alta classe (e progetto sociale) è aperto a tutti: i camerieri indossano divise, e lo chef ha studiato nella scuola di Gualtiero Marchesi. Ma il ristorante non è solo un luogo di lavoro per i detenuti, è anche un modo innovativo per la comunità esterna di entrare in contatto con la realtà carceraria in modo nuovo e diverso: un ponte tra il carcere e il mondo esterno. “La parola “Benvenuti” è un benvenuto per tutti voi per conoscere meglio e non avere paura o diffidenza quando vedete un detenuto o entrate un istituto di pena. - ha dichiarato il regista Michele Rho - il documentario condivide la straordinaria storia di In Galera, gestito interamente dai detenuti sotto la supervisione di una donna tenace, mia madre: ma il mio obiettivo non era raccontare solo la storia di un ristorante eccezionale né, naturalmente, la storia di mia madre. Così, il ristorante stesso è diventato una lente speciale attraverso cui esplorare il mondo del carcere, tema importante su cui confrontarci”. Michele Rho è regista e sceneggiatore. Ha conseguito il diploma in regia teatrale presso la Scuola d’arte drammatica Paolo Grassi di Milano, e ha frequentato il Master of Fine Art in Directing and Screenwriting presso la Columbia University di New York. Lavora nell’ambito del cinema, del teatro e della televisione. We Rock è la casa di produzione con cui produce e coproduce film e documentari. Il suo primo film, “Cavalli”, è stato prodotto da Rai Cinema, distribuito da Lucky Red e presentato alla 68esima Biennale del Cinema di Venezia. Nel 2017, il suo documentario “Mexico! Un cinema alla riscossa” è uscito nelle sale cinematografiche con la distribuzione di Officine Ubu. “Vi spiego la bufala della trattativa Stato-mafia” di Luca Fazzo Il Giornale, 2 gennaio 2024 L’avvocato di Mori smonta in un libro vent’anni di teoremi. Forse nelle 368 pagine che l’avvocato Basilio Milio, difensore del generale dei carabinieri Mario Mori, ha dedicato - nel suo libro “Ho servito la Repubblica”, edito da Ornitorinco - al gigantesco imbroglio giudiziario chiamato “Trattativa Stato-mafia”, a dire l’ultima parola sulla bufala ordita dalla procura della Repubblica di Palermo è un uomo che oggi non può più difendersi. Anzi, non poteva difendersi neanche quando il teorema mosse i primi passi, perché era provvidenzialmente morto poco prima. Si chiamava Francesco Di Maggio ed era, all’epoca della inesistente trattativa, il vicedirettore delle carceri. Pochi lo sanno, ma nel teorema costruito dal pm Antonino Ingroia e dai suoi colleghi, Di Maggio è il personaggio chiave: perché è lui, dicono, a dare corso alla richiesta di Cosa Nostra per fermare le stragi, ovvero la revoca del 41 bis, il carcere duro, a centinaia di mafiosi. Mori, dice la Procura di Palermo, recapita la richiesta a Di Maggio, e Di Maggio - grazie all’inanità dei suoi capi, il direttore del Dap Adalberto Capriotti e il ministro Giovanni Conso - fa uscire dal 41 bis 334 detenuti. Di Maggio è morto, e questo ha reso di lui il colpevole ideale. Ma Di Maggio ha comunque parlato: attraverso quelli che ne hanno conosciuto la durezza implacabile, a volte spropositata. Sono le testimonianze che Basilio Milio riporta. Parla Olindo Canali, giovane pm brianzolo che Di Maggio voleva portare con se al Dap, la direzione delle carceri: “Uomo di un rigore terribile”. Parla, de relato, anche Capriotti, e vorrebbe essere un insulto: “Un fottutissimo forcaiolo”. Ma è un insulto che dimostra quanto demenziale fosse anche solo ipotizzare che Di Maggio fosse il ventre molle dello Stato, l’uomo adatto per raccogliere pavidamente gli ordini della Cupola mafiosa. E d’altronde in una intercettazione che sta circolando di nuovo in questi giorni, il consigliere giuridico del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, Loris D’Ambrosio, e il ministro Nicola Mancino mostrano tutta la loro incredulità davanti alla descrizione di un Di Maggio succube delle pretese di Cosa Nostra: “Io francamente di dire che Franco Di Maggio fosse favorevole all’alleggerimento del 41 bis lo escluderei”, dice D’Ambrosio. Se c’era qualcosa che poteva stare a cuore a Di Maggio, dicono i due, era poter mandare i suoi uomini nelle carceri, convincere i boss a collaborare con la giustizia. Ce ne sono a bizzeffe, nel libro di Milio, di esempi che rendono inverosimile, quasi grottesca, la pervicacia con cui il teorema sulla trattativa Stato-Mafia è stato portato avanti per decenni, prima di inabissarsi definitivamente in Cassazione, lasciando in gramaglie le “vedove inconsolabili della trattativa”, quelli che a lungo hanno potuto “costruire fortune mediatiche e non solo sulla pelle delle persone per bene”, come scrive Milio. Già, le persone per bene: come Di Maggio, come il generale Mori, i suoi colleghi Antonio Subranni, Mauro Obinu, Giuseppe De Donno, tutti uomini delle istituzioni mascariati come complici della furia mafiosa. La favola di uno Stato che si arrende (eppure intanto si catturava Riina, si catturava Provenzano, si azzerava la Cupola) è stata raccontata in tutte le salse e va in onda tuttora, riveduta e aggiornata. Ma dietro ci sono sempre le solite balle. Una di esse viene smontata da Milio con effetti quasi comici: perché si scopre che la sostituzione di Nicolò Amato ai vertici del Dap non fu decisa per aprire la strada a Capriotti e a Di Maggio per eseguire i voleri mafiosi, ma perché voluta dal presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Che ce l’aveva a morte con Amato perché aveva fatto passare un giorno intero prima di rispondere a una sua telefonata. E in questo flash c’è tutto Scalfaro. Ma come è potuto accadere tutto ciò? Come si è potuta spacciare Cosa Nostra, con le sue “dinamiche irrazionali e imprevedibili” come un Leviatano in grado di manovrare lo Stato? Dal libro di Milio finalmente una risposta chiara: “Gli ufficiali dei carabinieri hanno sempre ritenuto che i loro guai giudiziari siano la conseguenza dello scontro con la procura di Palermo originato dall’indagine su mafia e appalti”. L’indagine che Borsellino voleva portare avanti insieme ai carabinieri del Ros, e che la Procura di Palermo archiviò, tre giorni dopo la strage di via D’Amelio. Ma questo meriterebbe un altro libro. Migranti. Respingimenti illegali e stragi di naufraghi: ora le Procure si muovono? di Angela Nocioni L’Unità, 2 gennaio 2024 Sul tavolo della Procura di Roma c’è una denuncia per un respingimento collettivo illegale di 172 migranti in Libia molto simile a quello avvenuto lo scorso 15 dicembre al largo di Zwara in acque internazionali. È stato presentato a fine dicembre da due vittime sudanesi di quella deportazione avvenuta il 14 giugno del 2021. In entrambi i casi a coordinare l’operazione di soccorso ai naufraghi è stato il Comando delle capitanerie di porto della guardia costiera (l’Mrcc) italiana. In entrambi i casi a deportare i naufraghi in Libia è stato il rimorchiatore Vos Triton, battente bandiera di Gibilterra, mandato sul luogo del salvataggio da un ordine dell’Mrcc di Roma. Nell’ultimo caso, quello del 15 dicembre, ha deportato in Libia 25 sopravvissuti a una strage in cui sono affogate 61 persone, tra cui molti bambini, cadute in mare da un gommone sgonfio la cui posizione esatta Gps era stata comunicata alle 17,26 all’Mrcc di Roma dalla piattaforma di aiuto ai migranti Alarmphone, quattro ore prima che l’Mrcc avviasse i soccorsi. Perché la Guardia costiera italiana ha aspettato tanto, cosa ha fatto nel frattempo, perché quando si è decisa a inviare un allarme Inmarsat alle navi in area l’ha fatto “per conto della guardia costiera libica” (come se si potessero coordinare soccorsi evitando di esser responsabili di dove vengono portati i sopravvissuti)? Il Comando delle capitanerie di porto di Roma si rifiuta di rispondere da ormai due settimane. Non spiega nemmeno se è stato qualcuno dalla Libia a chiedere di inviare l’allarme Inmarsat (chi, in caso, l’ha chiesto? Un ufficiale libico? Un ufficiale italiano che fa le veci dei libici e magari sta in Libia?). Né dice se l’ha mandato Roma perché i libici non sono in grado di mandare un messaggio Inmarsat da soli. In tal caso, come pensare di potergli affidare i soccorsi in mare e quindi una zona Sar di competenza? D’altronde il report di Alarmphone su quel caso spiega chiaramente che, al solito, la guardia costiera libica (composta da bande di miliziani in lotta tra loro) non rispondeva al telefono per ricevere la segnalazione dell’emergenza. Che quando alla fine qualcuno ha risposto non era in grado di comunicare in inglese. E che comunque le motovedette la Libia non le ha mandate perché c’era il mare grosso. Si tratta delle motovedette che l’Italia ha dato alla guardia costiera libica e che quello stesso giorno sono uscite in almeno tre casi per fare delle catture e non dei soccorsi. Ricevuto da Roma l’ordine di fare il salvataggio, la Vos Triton ha preso a bordo i 25 sopravvissuti e li ha portati in Libia dove ora sono rinchiusi illegalmente in prigione. Lo ha deciso il comandante del rimorchiatore il porto di sbarco o ha obbedito a un ordine? Di chi? Era Roma che coordinava i soccorsi. Chissà perché proprio la Vos Triton è arrivata, benché così in ritardo, sul luogo segnalato. Dal Comando della capitaneria di Roma si vedono tutte le imbarcazioni che navigano, si ha una finestra dettagliata sui movimenti in mare, e si può comunicare con gli equipaggi direttamente. In quattro ore davvero non era passata nessuna nave in quell’area di mare di solito trafficatissima dove ci sono piattaforme petrolifere e numerose rotte commerciali assai battute? Perché non sono state mobilitate da Roma altre imbarcazioni prima della Vos Triton? A queste e ad altre domande - per esempio perché l’Mrcc abbia taciuto la presenza nella scena del naufragio della nave italiana Asso Trenta, rivelata da Sergio Scandura di Radio radicale che ha studiato i tracciati, e cosa abbia fatto esattamente l’Asso Trenta durante i soccorsi - la Guardia costiera non risponde. Avrà mica dato la precedenza alla Vos Triton per evitare di far salire i naufraghi su una nave italiana ed essere costretta a quel punto a portarli in Italia? Magari se glielo chiede un magistrato risponde. Quel che è certo è che se la Guardia costiera non potrà tacere davanti alla Procura di Roma (sempre che la Procura non voglia seppellire l’esposto delle vittime) per quel respingimento collettivo illegale avvenuto nel giugno di tre anni fa, molto simile a questo del 15 dicembre 2022, lo si deve a due ragazzi sudanesi deportati che hanno fatto appello alla giustizia italiana (e alle persone in Italia che si sono occupate di seguire il ricorso, tra gli altri l’avv Arturo Salerni del Comitato nuovi desaparecidos). Ecco la storia. La mattina del 14 giugno 2021 un barcone partito dalla Libia con a bordo 172 persone rimane alla deriva al largo di Zuwara, oltre la piattaforma petrolifera in acque internazionali che si vede navigando verso Lampedusa. Alcune persone si sentono male. Manca l’acqua. Alto il rischio che un movimento improvviso nello scafo sovraffollato rovesci tutti in mare. Alarm Phone riceve un Sos alle 2,17. Individuata la posizione, contatta prima Malta alle 3,43 (oltre all’agenzia europea Frontex e all’Unhrc) e poi Roma. Alle 11,54 l’Italia comunica che “un rimorchiatore” sta raggiungendo la zona per i soccorsi. Non dice il nome della nave. Si tratta della Vos Triton, una grande nave rossa che batte bandiera di Gibilterra e che risponde all’ufficio italiano della società olandese Vroon. La nave rossa arriva a qualche centinaio di metri dal barcone stracarico e si ferma. Non dà messaggi ai naufraghi che sbracciano pericolosamente per chiedere aiuto. Otto ragazzi, uno di loro si chiama Mosab, si buttano in acqua e raggiungono a nuoto il rimorchiatore. Filma tutta la scena Sea Bird, il piccolo aereo da ricognizione della Ong Sea Watch, che nel frattempo ha raggiunto la zona. E l’equipaggio del rimorchiatore lo sa. La Vos Triton prende a bordo gli otto e poi si avvicina, aggancia il barcone e carica tutti a bordo. Il porto sicuro più vicino è Lampedusa. Eppure la Vos Triton non gira la prua verso l’isola siciliana, me resta ferma in attesa con i naufraghi accalcati sul ponte e il barcone tenuto a una fiancata da un cavo. Per ore. Alle 18,30 da sud arriva la motovedetta 656 Zawiya, una di quelle date dall’Italia alla Libia. Tutti i naufraghi vengono obbligati a salire a bordo della motovedetta che li riporta in Libia. Il respingimento di massa indiscriminato è stato ordinato espressamente o lasciato compiere implicitamente dall’Mrcc che ha ordinato e coordinato i soccorsi? O la decisione è stata assunta autonomamente dal comandante della Vos Triton? Il quale in questa ipotesi, chissà perché mai, si sarebbe preso per sua volontà la briga di aspettare per ore, con il ponte pieno di gente disperata, la motovedetta libica con l’incomprensibile intento di violare il diritto del mare, la convenzione di Ginevra e una serie di norme sul diritto dei naufraghi. La notizia che la Vos Triton si stava dirigendo sul luogo dell’emergenza è stata data da Roma ad Alarm Phone. Allora il respingimento è stato disposto e coordinato da Mrcc Italia? Per saperlo il Comitato Nuovi Desaparecidos e l’allora senatore Gregorio De Falco hanno chiesto allora un “accesso agli atti”, sia al ministero della Difesa che a quello delle Infrastrutture, da cui dipendono la centrale Mrcc e la Guardia Costiera. Dal Ministero hanno negato i documenti dicendo che avrebbero creato problemi nei rapporti con la Libia e sostenendo che non si può concedere accesso a atti su “programmazione, pianificazione e condotta di attività operative-esercitazioni Nato e nazionali, tra le quali rientrano talune attività di vigilanza e di pattugliamento avvenute nell’area marittima interessata dall’evento e che ha visto coinvolti assetti militari europei”. Contro il rifiuto è stato fatto ricorso al Tar del Lazio che il 27 marzo del 2022 l’ha accolto dando 40 giorni di tempo per consegnare i documenti oscurando le parti ritenute da non pubblicare. I giudici hanno precisato che dai filmati realizzati dall’equipaggio dell’aereo della Ong Sea Watch “non emerge la presenza di navi o aerei militari Nato sulla scena dell’evento”. Allo scadere dei 40 giorni i ministeri hanno fatto ricorso al Consiglio di Stato che ha avallato la loro volontà di silenzio invocando “ragioni di sicurezza” a tutela di rapporti diplomatici internazionali. La sentenza del Consiglio di Stato avrebbe messo una pietra tombale sul caso, ma due dei ragazzi deportati in Libia, due vittime del respingimento, si sono appellati alla giustizia italiana anche in nome degli altri che erano sul barcone. L’hanno fatto sostenuti dall’Associazione Giuristi per l’Immigrazione (Asgi), il Comitato Nuovi Desaparecidos, Open Arms, Progetto Diritti, Sea Watch, Mediterranea, Jl Project e Alarm Phone. Uno dei due ricorrenti, Mosad, sudanese, subito dopo lo sbarco a Tripoli, viene rilasciato. Incredulo, si allontana dall’area portuale e raggiunge una delle piazze dove vengono reclutati i migranti per qualche lavoro occasionale. Lì dei poliziotti, accertato che è sudanese, lo rinchiudono nella prigione di Qaryan, dove tra infinite vessazioni viene tenuto più di un anno. Lui un giorno convince una delle guardie a prestargli il cellulare, chiama l’Unhcr per chiedere aiuto. Non succede nulla. In prigione lì ci sono molte persone con documenti Unhcr che attestano il loro status di richiedenti asilo ma, come lui, non riescono a ricevere aiuto. Mosad viene trasferito nelle celle di Zuwara, a Mellitah, dove resta per oltre tre mesi, fino al 24 novembre, quando viene caricato su un autobus insieme a molti altri e portato nel deserto, in una zona vicina al confine con il Sudan e l’Egitto. Riesce a chiamare di nuovo l’ufficio l’ufficio Unhcr di Tripoli. Dice che ha capito che lo stanno riportando in Sudan dive non puó assolutamente rientrare. Lo lasciano nel Sahara oltre il confine del Sudan, è il dicembre 2022. Dopo dodici giorni riesce ad arrivare verso Khartoum e infine cerca rifugio a Port Sudan. In Sudan c’è la guerra civile. L’altro ricorrente, Adam, è stato più fortunato ed è riuscito a nascondersi a Tripoli. Racconta Emilio Drudi per il Comitato nuovi desaparecidos che uno dei legali dei migranti, Arturo Salerni spiega: “Interpellato dal quotidiano Avvenire durante il respingimento l’amministratore delegato della società di navigazione si è rifiutato di fornire notizie e chiarimenti su quanto stava accadendo. Ora, appena si aprirà il procedimento presso la Procura di Roma, però, sarà costretto a parlare. A maggior ragione sarà obbligato a farlo il comandante della nave. E allora emergeranno con precisione le responsabilità di chi ha impartito gli ordini e di chi li ha eseguiti senza porsi minimamente alcun problema, né di natura legale né di natura etica”. Aspettiamo tutti di vedere come e quando la Procura di Roma deciderà di trattare quest’esposto dei due sudanesi. Un procedimento giudiziario sul respingimento del 14 giugno 2021 - sul quale il Comando delle capitanerie di porto, il Ministero delle Infrastrutture e quello della Difesa e non ultimo il Consiglio di Stato hanno fatto l’impossibile pur di imporre il segreto - potrà forse rispondere indirettamente anche a qualcuna delle domande sulle quali la Guardia costiera, anche sull’ultima strage del 15 dicembre, tace. Medio Oriente. 22mila palestinesi uccisi in 87 giorni. La mossa del Sudafrica ora fa paura di Chiara Cruciati Il Manifesto, 2 gennaio 2024 Gaza. Altro giorno di bombardamenti sui campi profughi. Arrivano migliaia di dosi di vaccino per i neonati, ma l’Onu non sa come distribuirli. E Ben Gvir si inventa una nuova punizione: messa al bando la carne dai pasti dei prigionieri politici. A qualche giorno dall’iniziativa sudafricana alla Corte internazionale di Giustizia, a Tel Aviv inizia a crescere la preoccupazione che il Tribunale dell’Aja possa mettere sotto inchiesta Israele per genocidio. A riportarlo ieri era il quotidiano israeliano Haaretz, secondo cui i vertici dell’esercito sarebbero stati avvertiti del “pericolo reale” di un’incriminazione dai loro consiglieri legali. Di certo l’ufficio del procuratore generale si sta preparando ad affrontare la denuncia del Sudafrica per violazione della Convenzione contro il genocidio del 1948, con la prima audizione - prevista già ieri - del ministro degli esteri. Sul tavolo, probabilmente, il bilancio delle vittime dell’offensiva israeliana a Gaza: sono ormai 22mila, a cui si aggiungono almeno 7mila dispersi. Altri 57.600 i feriti. Significa che in 87 giorni il 4% della popolazione palestinese della Striscia è stata uccisa o ferita. Due terzi sono donne e minori. Ieri l’Unicef è tornata ad alzare la voce su X: 8mila i bambini uccisi nei raid. Che in queste settimane si concentrano sul centro e sul sud, quello in cui metà della popolazione si è spostata in cerca di un’effimera salvezza. Tra gli altri, ieri è stato colpito di nuovo il campo profughi di al-Maghazi (teatro del massacro della vigilia di Natale, ammesso dallo stesso esercito israeliano, oltre 100 uccisi): 15 morti e decine sotto le macerie. E di nuovo il campo di Jabaliya, almeno sei vittime. Nelle stesse ore, su X, l’esercito israeliano diceva di aver ucciso a Deir al-Balah, nel centro della Striscia, Adil Mismah, un comandante di Hamas che aveva preso parte all’attacco del 7 ottobre (1.200 uccisi in Israele). È qui a Deir al-Balah, denunciano i palestinesi, che ieri l’aviazione ha colpito aree che erano state indicate come “sicure” nelle mappe cangianti delle forze armate israeliane: cinque membri della stessa famiglia hanno perso la vita poche ore dopo il loro arrivo. Si muore anche a sud, a Khan Yunis e Rafah, dove sono state prese di mira le vicinanze dell’European Gaza Hospital (cinque vittime). Nel totale collasso del sistema sanitario, ieri l’Onu annunciava l’arrivo nella Striscia di migliaia di dosi di vaccino per neonati, denunciando in contemporanea le difficoltà a farli giungere a destinazione. “Ora la sfida sarà portarli a ogni bimbo che ne ha bisogno - ha detto ad al Jazeera Gemma Connell, rappresentante dell’agenzia Ocha - Ci sono neonati qui a Rafah, ma anche a Jabaliya che è sotto assedio e tagliata fuori dal mondo”. Intanto in Cisgiordania, dove proseguono gli arresti politici (5mila dal 7 ottobre), ieri il ministro della sicurezza nazionale Ben Gvir ha messo al bando la carne dai pasti dei prigionieri palestinesi, ultima di una serie di restrizioni in carcere (dalla sospensione delle visite mediche a quella dell’incontro dei familiari). Ben Gvir ha poi attaccato Katy Perry, commissaria ai servizi detentivi da lui cacciata una settimana fa perché responsabile - dice - di non obbedire ai suoi ordini. Medio Oriente. La sfida nel Mar Rosso vicina a un punto di non ritorno di Guido Olimpio Corriere della Sera, 2 gennaio 2024 I ribelli Houthi e gli Usa “mostrano i muscoli”. Il movimento yemenita usa le incursioni per sottolineare la solidarietà verso i palestinesi. Davanti alle aggressioni ripetute la Casa Bianca ha tre esigenze: garantire la sicurezza su una rotta commerciare strategica; evitare l’escalation; resistere alle pressioni da parte di un’ala del Congresso che accusa Joe Biden di essere troppo cauto. La sfida nel Mar Rosso è un pericoloso gioco di equilibrio dove i protagonisti mostrano muscoli, colpiscono ma cercano al tempo stesso di evitare un conflitto totale. Anche se, giorno dopo giorno, ci si avvicina al punto di non ritorno tra informazioni non sempre verificabili. Domenica le unità Usa che proteggono la via d’acqua hanno reagito all’ennesimo atto di pirateria da parte dei filo iraniani Houthi distruggendo con gli elicotteri tre barchini che avevano tentato di assaltare un cargo. Lunedì sera sono circolate notizie - poi smentite - di un altro scontro a fuoco tra una nave statunitense e vedette yemenite. Teheran, intanto, ha spostato una sua fregata, l’Alborz, in zona mentre la fazione sciita ha ribadito che proseguirà negli attacchi al traffico marittimo fintanto che Israele resterà nella Striscia di Gaza. Crisi concatenate, con ripercussioni ampie. Davanti alle aggressioni ripetute la Casa Bianca ha tre esigenze: garantire la sicurezza su una rotta commerciare strategica; evitare l’escalation; resistere alle pressioni da parte di un’ala del Congresso che accusa Joe Biden di essere troppo cauto. Secondo i media il Pentagono sta valutando dei piani per accentuare la forza della rappresaglia e l’affondamento dei battelli è un primo test, con un confronto limitato ma diretto. C’è chi non esclude raid di missili da crociera - come avvenne nel 2016 - operazioni contro le basi usate per lanciare i droni e le batterie di missili antinave. Gli americani potrebbero cercare di stabilire “regole di ingaggio” simili a quelle adottate con le milizie - sempre sostenute dall’Iran - in Siria e Iraq: ogni provocazione armata riceverà una risposta proporzionata. Un tentativo di imporre un principio di deterrenza senza precipitare in un’altra guerra. Scenario temuto da Washington ma anche dagli alleati locali, come Arabia Saudita ed Emirati, e da quelli occidentali. Francia e Italia sono per la tutela della navigazione, però si sono sfilate dalla coalizione creata dagli Usa. La Gran Bretagna è interventista: per il quotidiano Times è pronta ad agire con i suoi caccia. Resta il punto centrale: le eventuali mosse militari metteranno fine alla minaccia dei miliziani? La soluzione non dipende solo dagli Stati Uniti ma, ovviamente, è legata alle decisioni degli Houthi e, in buona parte, all’influenza dello sponsor iraniano. Il movimento yemenita usa le incursioni per sottolineare la solidarietà verso i palestinesi, per dimostrare la capacità di condizionare uno scacchiere con mezzi relativamente economici (ma dall’alto impatto), per accrescere il proprio status, per collaborare con Teheran, interessata a manovrare senza però pagare un prezzo. Secondo gli analisti gli Houthi e gli iraniani muovono su una strategia binaria: mantengono un “fuoco lento” (ecco gli strike selezionati), sperano di evitare passi irreversibili. L’Iran cammina su un sentiero abituale dove i suoi leader usano parole forti ma lasciano poi i fatti alle milizie amiche, impiegate spesso per controbattere ai colpi portati da Israele. Un tentativo formale di separare le responsabilità. Gerusalemme, a sua volta, fa di tutto per smascherare i legami operativi, ideologici, militari tra gli ayatollah e i movimenti. Altalenante l’approccio di Washington. Gli americani, sempre per delimitare le tensioni, hanno inizialmente considerato minore il coinvolgimento di Teheran nelle molte trame, compresi gli assalti degli Houthi. E lo hanno detto pubblicamente. Una posizione poi rivista in seguito all’intensificarsi dei pericoli per la navigazione. L’intelligence statunitense ha accusato gli iraniani di appoggiare concretamente i combattenti yemeniti nelle loro missioni attorno allo Stretto di Bab el Mandeb. Un ripensamento che potrebbe anticipare una ritorsione Usa piena di incognite. Da questa storia, a prescindere dagli sviluppi è emersa una lezione severa. Il sistema è fragile e basta un attore minore - se ben organizzato - per scuoterlo.