Il dolce e l’amaro di una sentenza che ci ricorda che la vita senza affetti è un deserto di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 29 gennaio 2024 Vogliamo iniziare una riflessione sulla situazione nelle carceri a partire dalla sentenza della Corte Costituzionale 10/2024, che apre orizzonti nuovi, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 dell’Ordinamento penitenziario “nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa, nei termini di cui in motivazione, a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia”. Ma vogliamo iniziare soprattutto con le parole del magistrato di Sorveglianza Fabio Gianfilippi, che ha il grandissimo merito di avere promosso la questione di legittimità costituzionale: “Una prima lettura della sentenza della Corte, che pur merita ben più ampio studio, non può che suscitare vivissimo apprezzamento per gli alti principi enunciati e per la grande nettezza, anche in termini di prospettive, che la caratterizza. A me pare che, a prescindere dal ruolo del legislatore, consegni all’amministrazione e alla magistratura di sorveglianza, già da domani, il compito di iniziare in concreto a ragionare di come consentire lo svolgimento dei colloqui intimi. Dove già esistono spazi, ma anche dove non ci sono ancora. Occorre uno scambio di idee e di esperienze, il più possibile rapido, anche guardando ai tanti Paesi in cui l’affettività da anni trova luoghi e tempi anche in carcere, con le Direzioni degli istituti penitenziari che, nonostante il tempo drammatico del sovraffollamento, sono certo comprendano l’opportunità grande che la decisione della Consulta offre alla comunità penitenziaria”. Prima di tutto quello a cui la Corte Costituzionale ci richiama tutti con forza è non dimenticare il “volto costituzionale” della pena, “che è una sofferenza in tanto legittima in quanto inflitta “nella misura minima necessaria”. E questa affermazione ci colpisce ed è “il dolce” della sentenza, in un momento in cui nella società passa invece l’idea che la pena deve essere inflitta “nella misura massima”. Anzi, la Corte fa di più, dice che negando alle persone detenute l’intimità degli affetti si rischia di arrivare a una “desertificazione affettiva” che è “l’esatto opposto della risocializzazione”. L’amaro invece, che suscita la sentenza, è la paura che l’immobilismo dell’Amministrazione possa porre mille ostacoli piuttosto che spianare la strada ai colloqui intimi, perché, come ci ha detto di recente una delle direttrici di carcere più aperte all’innovazione, Cosima Buccoliero, “Noi siamo autoreferenziali, abbiamo questa organizzazione che, cascasse il mondo, non riteniamo di dover cambiare, di modificare in funzione di opportunità che vengono dall’esterno”. E l’amaro è anche la certezza che saremo sommersi dalle banalizzazioni giornalistiche e politiche (ricordiamo i titoli “Celle a luci rosse” quando, anni fa, si è cominciato a parlare di colloqui intimi nelle carceri) e che dovremo fare un grande lavoro di comunicazione per smontare i luoghi comuni e le semplificazioni che avveleneranno il clima dopo la sentenza della Corte Costituzionale. E del resto la Corte stessa “è consapevole dell’impatto che l’odierna sentenza è destinata a produrre sulla gestione degli istituti penitenziari, come anche dello sforzo organizzativo che sarà necessario per adeguare ad una nuova esigenza relazionale strutture già gravate da persistenti problemi di sovraffollamento”. Ma proprio perché come volontari conosciamo il mondo del carcere e la sua quotidianità, proprio perché ci stiamo dentro ogni giorno, la nostra convinzione è che adesso ci voglia l’impegno di tutti, INSIEME, in ogni carcere, per cominciare a promuovere le prime esperienze di colloqui intimi. È una battaglia che speriamo veda la partecipazione di tutti quelli che hanno seguito e apprezzato la campagna che ha accompagnato la decisione della Corte Costituzionale, portata avanti su iniziativa in particolare di Andrea Pugiotto, ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Ferrara, che scrive ora a commento della sentenza “Si tratterà di monitorarne la doverosa attuazione, cui sono chiamate fin d’ora l’amministrazione penitenziaria e la magistratura di sorveglianza, nell’attesa di un (altrettanto doveroso) intervento del legislatore coerente con il giudicato costituzionale”. Il Volontariato è consapevole che in questa battaglia nessuno deve essere lasciato da solo, che non può essere affidata al “buon cuore” del singolo direttore la realizzazione di questi spazi di “libertà negli affetti” e che quelle che sono le disposizioni della Corte Costituzionale devono valere per tutti e nei tempi più rapidi possibile. Perché la sentenza parla chiaro, ma richiede anche di vigilare: “Venendo meno con questa decisione l’inderogabilità del controllo visivo sugli incontri, può ipotizzarsi la creazione all’interno degli istituti penitenziari - laddove le condizioni materiali della singola struttura lo consentano, e con la gradualità eventualmente necessaria - di appositi spazi riservati ai colloqui intimi tra la persona detenuta e quella ad essa affettivamente legata”. *Direttrice di Ristretti Orizzonti e presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia Sesso e affettività in carcere, la Consulta dice sì di Ilaria Dioguardi vita.it, 29 gennaio 2024 La Corte costituzionale ha dichiarato illegittima la norma dell’ordinamento penitenziario che nega gli incontri senza controllo visivo tra i detenuti e i partner. L’avvocato Brucale: “È un passo in qualche misura rivoluzionario, che disegna una strada da percorrere, ancora lunga, ancora difficile”. La sentenza della Corte costituzionale, n.10 del 2024 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art.18 dell’ordinamento penitenziario nella parte in cui non permette di avere colloqui “con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia”. “È un passo di estrema importanza nella direzione della necessità di riconoscere al carcere un volto umano e alla persona detenuta la possibilità di accedere, pur privata della libertà, alla piena estrinsecazione della propria personalità”, commenta Maria Brucale, avvocato, componente del Direttivo dell’associazione Nessuno tocchi Caino. Nella sentenza è scritto che “L’ordinamento giuridico tutela le relazioni affettive della persona nelle formazioni sociali in cui esse si esprimono, riconoscendo ai soggetti legati dalle relazioni medesime la libertà di vivere pienamente il sentimento di affetto che ne costituisce l’essenza”. “Già nel 1987 la Consulta aveva riconosciuto la sessualità come uno degli essenziali modi di espressione della persona umana qualificando la possibilità di disporne liberamente come “diritto soggettivo assoluto”. A distanza di oltre 35 anni da quella affermazione di principio”, continua Brucale, “il diritto è riconosciuto, sebbene circoscritto dalle esigenze di tenuta del sistema carcere in termini di sicurezza, e di ordine e disciplina. Il concetto di sicurezza non attiene al tipo di reato”. Non sono esclusi i reati ostativi - “La sentenza dice espressamente che non sono esclusi i reati cosiddetti ostativi e, in realtà, uno degli aspetti problematici della pronuncia della Corte è proprio la specificazione di tali concetti in sé troppo aperti: sicurezza, ordine e disciplina. Declinarli correttamente e applicarli rimane allo stato attuale una prerogativa delle amministrazioni penitenziarie e, in sede di reclamo, della magistratura di sorveglianza”, dice l’avvocato. “Ma sarà il tempo a dire quali situazioni o comportamenti varranno alla persona reclusa un rifiuto del diritto in ragione della sussistenza di ragioni di tutela interna dei penitenziari”. Il problema degli spazi - Altro aspetto problematico è quello delle strutture detentive sempre sovraffollate e inidonee allo stato attuale a garantire spazi adeguati e locali idonei a offrire a tutti l’accesso all’affettività intima. “Ancora, occorrerà misurarsi con le esigenze di attuazione del nuovo diritto - ovviamente preesistente ma solo oggi riconosciuto - per le tante persone che, pur avendo relazioni stabili all’esterno, non sono in grado di dimostrarle con un certificato di convivenza che all’estero, a volte, neppure esiste. Sarà necessario scongiurare il rischio che la fruizione del diritto venga nella pratica connessa a ragioni di premialità divenendo strumento di controllo della popolazione detenuta. È la sentenza a chiarire che il godimento di un diritto in quanto tale non può essere subordinato a logiche corrispettive”, prosegue l’avvocato. La resistenza sociale - “Bisognerà anche affrontare la resistenza sociale ad ammettere che anche chi è recluso viva la sessualità spogliando la stessa di una valenza ludica, quando non pruriginosa, e affermandola come essenza e sostanza di individualità, che ha inevitabili riflessi sulla salute fisica e psichica di chi ne è coattivamente privato. Resta la nota dolente dell’esclusione delle persone in 41 bis”, continua, “il regime di massima afflizione, a volte per oltre 30 anni escluse del tutto dall’ipotesi di un progetto di rieducazione e di reinserimento, con buona pace dell’anima costituzionale di ogni pena”. Un passo rivoluzionario - È comunque quello compiuto con la sentenza della Consulta un passo da più parti considerato storico, “in qualche misura rivoluzionario che disegna una strada da percorrere, ancora lunga, ancora difficile. Dovrà essere compreso prima o poi che tutelare il benessere delle persone in carcere, fare in modo che non escano annichilite dalla esperienza detentiva, tutela la società tutta. Ancora, purtroppo, tale visione è controintuitiva e si tende a considerare chi è ristretto altro da sé, lontano il più possibile dalle nostre vite”, prosegue Brucale. “Così si acuisce una sensazione di isolamento e di abbandono che chi vive la pena percepisce, a volte, come disperante e senza via di uscita fino alla scelta estrema del suicidio”. Già 12 suicidi dall’inizio dell’anno - Nel 2024 già 12 persone si sono tolte la vita, l’ultima ieri a Foggia. “Non è possibile ovviamente sondare il punto di rottura del loro vissuto che le ha condotte a determinarsi a tale gesto anticonservativo. Ma è certo che la sconfitta del sé, strada quasi obbligata di una reclusione che sgretola la personalità e si configura come interruzione di qualsiasi percorso o di esperienza lavorativa, familiare, affettiva, può determinare uno smarrimento irrecuperabile, una disfatta ultima che induca a scegliere di uscire dal dolore, dalla pena, dalla vita”. Perché a chi governa fa così paura la “resistenza passiva” dei detenuti di Alessandro Bergonzoni La Repubblica, 29 gennaio 2024 Nel “decreto sicurezza” c’è una norma che considera reato nelle carceri anche forme di protesta non violenta. Mentre è permesso e legale restare indifferenti di fronte alle ingiustizie. Uccidere è possibile lecito quasi nemmeno più tanto celato, normale e costante, nelle carceri di tutto il mondo, e quindi anche nel nostro stato democratico. Ma “fare il morto”, cioè fingersi tale come estrema antica e gandhiana forma di resistenza passiva pacifica, è diventato reato, contro la legge (leggesi per repressione aumentata attivamente). È permesso, concesso normale e spesso impunito, lasciare agonizzare anche un ricoverato in Tso (Franco Mastrogiovanni) per 82 ore, credendolo morto e immaginandolo vivo, o simulante, comunque lasciato in balia della propria sofferenza senza fare alcunché: la passività in questo caso è stata possibile e letale. Al pari è ammesso, legale e entrato nell’uso del conflitto di disinteresse, lasciare annegare al largo disperati profughi, per legge (o meglio vendetta come punizione “esemplare” per scoraggiare altri costretti a fuggire da dove fare il morto è un passatempo tipo Safari per prede umane). Tutti costretti a fare il morto davvero affiorando o scomparendo nelle nostre ed altrui acque. È accettato e “necessario fare il morto” in un centro profughi libico, egiziano o tunisino, se sponsorizzato e pagato dalla Presidenza del Parlamento europeo e da quella del Consiglio italiano (dove si perpetra il numero più alto di stupri “legalizzati” del mondo, come durante ogni guerra, ma sembra ormai chiaro che quelle non sono le donne che vogliamo difendere ma “solo” gente altra). Ho allargato volutamente il campo che parte da un decreto per i detenuti, per far capire cosa significhi per uno Stato, impedire una protesta passiva per poter far luce sui casi di reprimenda violenta attiva. Aggiungo che si comincia anche ad arrestare o multare chi “fa il morto” in strada, come forma di sit-in estremo ed esasperato, per tentare di far comprendere ormai fuori tempo massimo, quel che la scienza dice già da decenni: infatti tanti morti veri già galleggiano e continueranno a galleggiare nelle città alluvionate. Solo i privi di visione pur se vedenti (?), non riescono a mettere in relazione (amorosa e di diritti) con tutto il pianeta e i cambiamenti climatici sotto gli occhi, troppo sotto, di chi compie reati contro la terra, più reiterati e distruttivi di chi ne commette protestando. Non c’è poesia che tenga, cioè non c’è verso, di far percepire che il male minore ormai è maggiorenne, ma chiede comunque di non vedere film dell’orrore e dell’errore, in ogni stagione ormai devastante che Dio manda in terra (o meglio che l’uomo prepara con dovizia d’inazione e mancanza colposa di previsione, ancora una volta di una passività, questa sì ingiusta e pericolosa). La misura è colma o il colmo non ha più misura? Studiosi, filosofi, saggisti, saggi, faggi, agronomi, antropologi, psicologi, poniamo insieme le basi di una ricerca approfondita sulla “dismisura della passività”, amministrativa legislativa onnicomprensiva, con grazia e giustizia, tra “fare il morto” e essere morto, nel rispetto della Costituzione, che non definirò mai più la più bella fino a quando non avrà applicazione, realizzazione e rispetto in ogni suo passo e che se interpretata con passività porta sempre ad ulteriori disastri per il clima in generale e quello particolare che si respira nei luoghi di pena. Siamo al troppo pieno delle vasche, dei lavandini, siamo sull’orlo di quello che io definisco il “percipizio” non solo precipizio. Soltanto entrando in quel baratro, in quel laggiù profondo, si può percepire fino in fondo appunto, la dismisura abissale che c’è tra essere e uomo, tra persona e legislatore, tra natura e lo snaturarla, tra giudice e giusta pena, tra immobilità politica grave e libera passività di protesta di un reo, tra silenzio e violenza, protesta e manifestazioni pacifiche a fin di lungimiranza, e soppressioni sul nascere rischiando di farci scappare l’ennesimo morto. Chiedo che questa realtà “diminuita” per travisamento di garanzia di sicurezza nelle galere, almeno si confronti col bisogno di coscienza “aumentata”, che piazze e anime, studenti e donne, lavoratori e obiettori di connivenza ed omertà, stanno facendo nascere per farci vivi, “per fare il vivo”, quantomeno per salvarlo rispettarlo proteggerlo tutelarlo. È pura Ars Vivendi Creandi et Generandi, che ora non ha più niente di artistico: ed infatti la mancanza del lavorare ad arte, porta e porterà sempre più esseri a “fare i morti”, in tutti e due sensi. La certezza della pena non continui a giustificare l’incertezza del rispetto e della dignità di chi non migliorerà mai, né cambierà, né si ravvederà, se a sofferenza e vessazione se ne aggiunge altra, parimenti illegale per chi è in carcere non avendo rispettato un diritto. Esemplare deve essere il trattamento mai il castigo. Ingiusta detenzione, i numeri choc in Italia: ogni giorno tre persone finiscono in galera senza colpe di Franco Giubilei La Stampa, 29 gennaio 2024 Sono 30 mila, in 20 anni, le persone finite in galera senza colpe. Quasi un miliardo le spese per lo Stato. Gli anni di libertà rubati dalla giustizia italiana costano cari per le spese di risarcimento che lo Stato è chiamato a rifondere, due milioni e 460 mila euro all’anno, ma non hanno prezzo per le persone che subiscono la detenzione essendo innocenti. I numeri danno la dimensione di un fenomeno che in vent’anni, fra il ‘91 e il 2021, ha colpito 30 mila persone nel nostro Paese: significa che in media ogni anno 961 cittadini finiscono dietro le sbarre senza avere alcuna responsabilità dei delitti che vengono loro attribuiti. Nel lasso di tempo interessato, lo Stato ha sborsato quasi un miliardo di euro, 932.937.000 per l’esattezza. Nel solo 2022, 539 persone sono state incarcerate innocenti, per una cifra di 27 milioni 378 mila euro per indennizzi liquidati. Si potrà obiettare che l’errore, nelle indagini e nei processi così come in qualsiasi altra attività, non è umanamente eliminabile, ma qui c’è qualcosa di più se l’ingiusta detenzione investe tanta gente. Occorre comunque distinguere fra quanti “subiscono una custodia cautelare in carcere o agli arresti domiciliari, salvo venire assolti” e le persone che restano vittime di errori giudiziari veri e propri, cioè coloro che “dopo essere stati condannati con sentenza definitiva vengono assolti in seguito a un processo di revisione”, spiegano Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone. Sono i giornalisti che da oltre venticinque anni osservano il fenomeno dal loro osservatorio del sito www.errorigiudiziari.com. I dati fanno riferimento al 2022, quando gli errori giudiziari sono stati otto, uno in più rispetto all’anno precedente, mentre nell’arco dei ventun anni dal ‘91 in poi il totale ammonta a 222 casi - in media sette all’anno - per una spesa complessiva per risarcimenti di 76 milioni 255 mila euro. Se ci si ferma a considerare solo il 2022 la spesa ha sfiorato i dieci milioni, ma qui a colpire è il divario all’anno prima, quando la cifra era sette volte più bassa. Gli autori dell’analisi a questo riguardo spiegano però che sull’elaborazione degli indennizzi pesano “i criteri di elaborazione dei risarcimenti, che sono molto più discrezionali e variabili rispetto a quelli fissati invece dalla legge per l’ingiusta detenzione”. Questa degli innocenti chiamati a pagare per delitti che non hanno commesso è solo una delle piaghe che affliggono il mondo carcerario italiano e chi ha la ventura di varcare i cancelli di un istituto di pena. Il sovraffollamento delle celle su cui era intervenuta anni fa l’Unione europea, stabilendo una superficie minima a disposizione di ogni detenuto, è tornato a farsi sentire: i reclusi hanno raggiunto quota 60 mila mentre la capienza degli istituti ammonta ufficialmente a 51.272 posti. Ai detenuti in sovrannumero corrispondono, secondo i sindacati di categoria, organici insufficienti di polizia penitenziaria. Un disagio che si esprime anche nel numero abnorme di suicidi, uno ogni cinque giorni, denuncia l’associazione Antigone. Il carabiniere che ha scagionato Zuncheddu: “La verità è venuta fuori grazie a un bossolo” di Tommaso Fregatti La Stampa, 29 gennaio 2024 Michele Lastella, colonnello dell’Arma oggi alla guida del reparto operativo di Genova, ha fatto riaprire il caso: “Oggi vorrei stringergli la mano”. “Quando riaprimmo il caso trovammo che sulla scena del crimine c’era una seconda arma. Lo capimmo da un bossolo calibro 20 profondamente diverso dal 12 utilizzato per il triplice delitto. A quel punto ci siamo detti che a compiere la strage del Sinnai poteva essere stato solo un killer professionista o una “sorta di rambo”“. Michele Lastella è un colonnello dei carabinieri attualmente alla guida del reparto operativo dell’Arma di Genova ma più che altro è l’ufficiale che ha coordinato la squadra speciale creata dalla procura di Cagliari per indagare sulla riapertura dell’inchiesta della strage del Sinnai, tre pastori uccisi l’8 gennaio del 1991 all’interno di un ovile. Un eccidio per cui per 33 anni è stato in carcere un innocente: il pastore Beniamino Zuncheddu, oggi 59enne, che venerdì la Corte di appello di Roma ha assolto in maniera definitiva. Lastella, in gran segreto, nel 2019 ha iniziato a lavorare con i suoi uomini - sei militari del nucleo investigativo di Cagliari - proprio con l’obiettivo di capire se Beniamino Zuncheddu - tradito dal super testimone Luigi Pinna scampato alla strage - potesse essere davvero il killer”. Quando avete capito che in carcere c’era un innocente? “Diciamo che sin dall’inizio, rianalizzando tutte le carte dell’inchiesta e svolgendo sopralluoghi sul luogo del delitto - siamo andati almeno tre volte nel Sinnai -, abbiamo capito che la ricostruzione dei fatti conosciuta era inverosimile. Sia per quanto riguarda la dinamica della strage, sia per come erano state svolte le indagini che erano sempre andate in un’unica direzione”. Come si sviluppò la vostra attività investigativa? “Il caso venne riaperto nel 2019. Si decise con il magistrato di fare una sorta di squadra speciale per indagare sul caso” E la seconda arma? “Non abbiamo scoperto noi la cosa. Era già agli atti dell’inchiesta. Diciamo che chi indagò forse sottovalutò questo aspetto che, per noi, invece, fu molto importante”. Perché? “Perché cambiava lo scenario del delitto. Che avesse fatto tutto Zuncheddu sceso dalla montagna con due fucili in mano ci è sembrato subito inverosimile. O c’erano dei complici o non poteva essere stato lui. E poi è le indagini hanno dimostrato che il killer era presumibilmente destro. Zuncheddu, invece, è mancino”. Altri elementi che non tornavano? “Luigi Pinna, il pastore scampato alla strage ma soprattutto il supertestimone che accusò Zuncheddu, ha fornito testimonianze contraddittorie. Poco dopo il fatto Pinna, sentito dai carabinieri che indagarono inizialmente per poi passare l’inchiesta alla polizia, disse che non aveva visto nulla, che non avrebbe mai saputo riconoscere il killer perché indossava la calzamaglia. Poi dopo qualche mese cambiò improvvisamente versione dei fatti accusando proprio il pastore di Burcei”. Qui entra in gioco l’ex poliziotto Mario Uda che secondo l’accusa ha depistato l’indagine accusando Zuncheddu… “Non entro nel merito di queste considerazioni ma posso dire che l’azione dell’allora sovrintendente di polizia ci sembrò subito pressante. Molto probabilmente condizionata dall’azione di alcune fonti confidenziali che aveva all’epoca Uda e che gli riferirono di liti, minacce e diatribe proprio tra Zuncheddu e Gesuino Fadda, il capostipite dell’ovile del Sinnai e vittima della strage”. Quando avete capito che eravate sulla pista giusta? “Ci ha dato una grande mano l’indagine tecnica. Ricordo che Pinna si agitò moltissimo quando ebbe notizia della riapertura delle indagini su quella strage. In una intercettazione disse alla moglie che questa volta sarebbe finito in carcere. E ancora, dopo essere stato interrogato, all’uscita della Procura parlando sempre con la moglie disse “questi carabinieri non sono stupidi, sono intelligenti. Hanno capito che la foto di Zuncheddu l’avevo vista prima”. Si capiva comunque che nascondeva qualcosa”. Allora chi o chi sono gli autori della strage del Sinnai? “Non so se riapriranno il caso ma indagando qualche idea ce la siamo fatta. Vedremo poi come deciderà di operare la Procura di Cagliari. Posso dire che le piste da seguire a mio avviso sono due. Una legata a una lite per il bestiame. O un’altra che coinvolge la criminalità sarda dell’epoca e i sequestri di persona. Vedremo, per me la cosa più importante è che siamo riusciti a dimostrare l’innocenza e la dignità di un uomo”. Intercettazioni, l’ingannevole dibattito di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 29 gennaio 2024 Intorno al tema - cruciale in una società civile - delle intercettazioni di conversazioni private, il dibattito e la polemica hanno da tempo preso una piega ben lontana dalle reali criticità democratiche di questo strumento investigativo. Il tema della pubblicazione dei contenuti è certamente un tema sensibile e di grande rilevanza, ma non è il solo e nemmeno il principale. Prima di discutere se, come ed entro quali limiti vietarne la pubblicazione, sarebbe indispensabile informare la pubblica opinione delle norme che regolano la potestà dello Stato di intercettare i cittadini. Si scoprirebbe ad esempio che, se si indaga per la ipotesi di associazione mafiosa e reati asseritamente connessi, il potere di intercettazione, anche a mezzo trojan, è pressoché indiscriminato e -nei fatti- rimesso interamente alla valutazione discrezionale dell’organo dell’Accusa. E si apprenderebbe che l’attuale Governo si è assunto la responsabilità politica di estendere ulteriormente tale potere indiscriminato anche alle ipotesi in cui non si indaga su una associazione mafiosa, ma solo su reati comuni in ipotesi posti in essere “con modalità mafiose”. Si tratta di una estensione poderosa del potere delle Procure di ascoltarci, posta la sfuggente e multiforme nozione di “modalità mafiosa” che il PM potrà comodamente ed unilateralmente ipotizzare in fase di indagine. Ed invece, a leggere la stampa, questo sembrerebbe un governo impegnato a fortemente restringere l’uso giudiziario delle intercettazioni, oltre che a mettere “bavagli” alla stampa che voglia metterci il naso. Questa bolla del dibattito - ripeto, pur rilevante - della ricaduta mediatica delle intercettazioni ha del tutto distolto l’attenzione da ciò che il cittadino può doversi attendere dal potere dello Stato di intromettersi nelle sue private conversazioni, finendo paradossalmente per attribuire patenti di rigoroso riequilibrio liberale alle scelte di un governo che ne ha appena decretato il più micidiale potenziamento mai deliberato nella storia della Repubblica. D’altronde, questa assorbente centralità del dibattito sulla pubblicazione delle intercettazioni ha già prodotto danni irreparabili con la riforma Orlando del 2017 che, sull’odioso e falso presupposto che i responsabili principali fossero gli avvocati, ha di fatto sottratto ad essi (e quindi ai cittadini che essi assistono), il diritto di conoscere in modo completo il contenuto del materiale intercettato. La Polizia, per conto del PM, ascolta per mesi e seleziona ciò che ritiene “rilevante”, e di questo il difensore può avere copia. Tutto il resto (mesi e mesi di intercettazioni che PM e polizia giudicano, ovviamente nell’ottica accusatoria, “irrilevanti”) non potrà essere dato in copia alla difesa. Gli avvocati potranno solo arrangiarsi ad ascoltare quel materiale immenso, alla impossibile ricerca di prove contrarie all’accusa, in un ufficio aperto poche ore al giorno, prendendo appunti. Viva la riservatezza, morte al diritto di difesa. Intercettazioni e tramonto del processo accusatorio di Daniele Negri Il Riformista, 29 gennaio 2024 Inviolabile. Ovvero, passibile delle più vaste, agevoli, penetranti e prolungate intrusioni. Potremmo racchiudere in questo paradosso la sonora smentita che la realtà delle intercettazioni ha dato, nei decenni, alle alte pretese della Costituzione repubblicana quanto a tutela della sfera comunicativa riservata (art. 15). Riecheggiano flebili da lontananze perdute, del resto, le parole di schietta impronta liberale con le quali la Corte europea dei diritti dell’uomo, ragionando sul doveroso rispetto della vita privata da parte delle pubbliche autorità, poteva ancora qualificare l’ascolto clandestino dei dialoghi al telefono come ingerenza “indesiderabile” e di norma “illegittima” in una società democratica (caso Malone c. Regno Unito, 1984): insomma, un’eccezione da evitare, mal tollerata dallo Stato di diritto; praticabile con diffidenza, solo se strettamente necessaria. La comune esperienza, le statistiche giudiziarie e la retorica dominante nel discorso pubblico, complici l’inarrestabile potenza tecnologica e le emergenze dovute ai grandi fenomeni di criminalità (mafie, terrorismo apocalittico), attestano l’esatto contrario, cioè la pericolosa inclinazione del sistema verso la sorveglianza totale. Le modifiche via via apportate alla legislazione vigente, numerose quanto caotiche, hanno assecondato la tendenza spionistica in atto: sia tramite l’ampliamento della lista dei reati perseguibili controllando a distanza le comunicazioni riservate, sia con le aperture quasi indiscriminate all’uso dei risultati delle intercettazioni per provare fatti illeciti diversi da quello oggetto dell’autorizzazione originaria del giudice. Fino all’irruzione sulla scena del Trojan di Stato, al vertice dello strumentario poliziesco. Il tribunale costituzionale tedesco ne ammette l’impiego a patto che le figure di reato da accertare tutelino beni preminenti come la vita e l’incolumità fisica, in quanto l’intrusione occulta del captatore informatico lede il diritto fondamentale all’integrità e all’uso confidenziale dei dispositivi digitali (gli smartphone). Da noi, la legge include nell’elenco - come d’abitudine - anche i reati contro la pubblica amministrazione, scelta che altera visibilmente la scala di proporzionalità. Del resto, sfugge ormai ad ogni criterio di ragionevole misura il regime speciale previsto per il catalogo assai eterogeneo di delitti al quale giurisprudenza e legislazione incollano l’etichetta di “criminalità organizzata”, territorio ove le indagini condotte per mezzo delle intercettazioni, pure tra le mura domestiche, sono la regola indiscussa: al pubblico ministero è sufficiente contestare la forma associativa, non importa quale sia il tipo o la gravità del reato commesso, per attingere la soglia massima dei poteri d’ingerenza investigativa; leggi recenti hanno aperto la strada facilitata di ricerca della prova anche a delitti commessi da un’unica persona, in casi limitati che possono tuttavia servire da viatico per ulteriori, poco tranquillizzanti allargamenti. In tutto ciò, di garanzie individuali si stenta a vedere l’ombra. Il legislatore tesse, disfa e ritesse la tela delle norme che dovrebbero tutelare l’aspettativa di riserbo dei soggetti estranei alla vicenda penale, caduti accidentalmente nella rete di sorveglianza. Con l’unico risultato, beffardo, di innalzare gli ostacoli all’accesso delle difese al materiale acquisito dagli organi d’indagine, custodito negli archivi protetti dopo la selezione della polizia in ascolto. Sarebbe meglio concentrare l’intervento su presupposti, modalità esecutive e durata delle intercettazioni, ambiti nei quali la disciplina è in sé carente e la prassi sorvola sui restanti vincoli legali. Prioritaria è la pretesa di maggiore scrupolo da parte del giudice nella valutazione degli elementi indiziari, ad evitare motivazioni del decreto autorizzatorio meramente riproduttive della richiesta del pubblico ministero. La legge dovrebbe inoltre specificare quali “categorie di persone” rientrino tra i possibili bersagli dell’ascolto (in tal senso è la giurisprudenza di Strasburgo, Huvig c. Francia, 1990), circoscrivendo il campo all’indagato e a chi si abbia ragione di supporre in contatto con il medesimo (così dispone, ad esempio, il codice tedesco). Il criterio di sussidiarietà andrebbe formulato in modo tale che l’impiego delle intercettazioni, specie se abbinate al captatore informatico, risulti consentito solo quando la prova non sia altrimenti acquisibile con mezzi meno invasivi. Le operazioni, contenute entro lassi di tempo molto brevi. L’ascolto interrotto, non appena le conversazioni nel domicilio virino su argomenti della vita intima. La circolazione dei risultati verso altri procedimenti ridotta a strettissima eccezione. Stando ai propositi del governo e a qualche testo di iniziativa parlamentare, sembra venuta l’ora di alcune minime limitazioni. La reazione è stata immediata e decisa. Non stupisce che siano i pubblici ministeri a prendere la tribuna nel tentativo di bloccare sul nascere velleità del genere, essendo comprensibile - resta da vedere se giustificato - il timore di dover rinunciare anche solo in parte ad un’arma formidabile; all’”unico” ed “essenziale” strumento di successo - sostengono - nella strenua, incessante lotta contro “chi delinque”. Le indagini e il processo penale, da tempo, non mirano più ad accertare la responsabilità riguardante singoli e ben ritagliati fatti di reato. Se è una storia complessa e ramificata che va scoperta, con la sua trama, gli intrecci, le relazioni personali, i sottofondi nascosti, allora le intercettazioni sono il mezzo ottimale e, insieme, quello in grado di lasciare in disparte le regole del contraddittorio nella formazione della prova, quando verrà il tempo del dibattimento. In altre parole esse portano, se intraprese a tutto campo, al definitivo tramonto del processo accusatorio. Il Paese delle intercettazioni: in Italia l’invasivo metodo di indagine è aumentato di anno in anno di Leonardo Filippi Il Riformista, 29 gennaio 2024 Il bel Paese è anche il Paese delle intercettazioni. Infatti, l’impiego di questo insidioso ed invasivo metodo di indagine in Italia è stato progressivamente ampliato, aumentando di anno in anno i casi nei quali è ammesso. Basta leggere gli artt. 266 e 266-bis c.p.p. per rendersi conto che il numero dei reati che consentono l’intercettazione è stato progressivamente esteso. Ma l’armamentario intercettativo non si ferma alle intercettazioni disposte al fine di consentire la prosecuzione delle indagini. Infatti, esistono anche le intercettazioni che, pur avendo la finalità di agevolare le ricerche del latitante, la giurisprudenza ritiene però utilizzabili anche come prove del reato. Senza considerare le intercettazioni preventive, che hanno una funzione di pubblica sicurezza, cioè mirano alla prevenzione dei reati. Da qualche anno, ha fatto ingresso nelle indagini il virus trojan e, prima ancora che ci fosse una legge ad ammetterlo, le Sezioni unite della Corte di cassazione l’hanno legittimato, in spregio alla riserva di legge ex art. 15 Cost. Si ammette persino l’intercettazione all’estero quando l’attività di captazione avviene con la tecnica dell’instradamento su ponti telefonici italiani utilizzati per la fatturazione, fingendo così che l’intercettazione si sia svolta in Italia e che pertanto non richieda alcuna cooperazione internazionale. L’ultima frontiera dell’invasività investigativa riguarda l’intercettazione dei criptofonini. Che iniziata in Francia con l’intercettazione addirittura del server e quindi la captazione in massa di tutti gli utenti della piattaforma SKY ECC, non tarderà a trovare proseliti anche in Italia. Vi è anche una disciplina speciale, che attenua i presupposti dell’autorizzazione all’intercettazione e che, introdotta nel 1991 per fronteggiare la criminalità organizzata, è stata estesa a reati di ogni tipo. Se poi si tiene conto della facilità con cui i giudici per le indagini preliminari autorizzano le intercettazioni, di solito su un prestampato contenente formule ripetitive delle disposizioni codicistiche, talvolta con motivazione per relationem alla richiesta del P.M., il quale spesso richiama la richiesta della polizia giudiziaria, si comprende la ragione dell’altissimo numero di intercettazioni nel nostro Paese. È nota la ricerca di qualche anno fa del Max Planck Institute, secondo il quale l’Italia è il paese “più intercettato del mondo”, con 76 intercettazioni ogni 100.000 abitanti. Si aggiunga che è assai arduo far dichiarare l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, in quanto la giurisprudenza afferma che tale inutilizzabilità implica l’onere della parte, a pena di inammissibilità del motivo per genericità e aspecificità, di indicare, specificamente, l’atto che si ritiene affetto dal vizio denunciato e la rilevanza degli elementi probatori desumibili dalle conversazioni, imponendo così al difensore di effettuare lui la cosiddetta prova di resistenza, che dovrebbe invece essere riservata al giudice. A fronte di una così aggressiva investigazione, i diritti della difesa, che sono necessariamente successivi alle operazioni di intercettazione, sono ridotti al lumicino. È sufficiente considerare che dovette intervenire la Corte costituzionale per riconoscere al difensore dell’indagato, sottoposto a misura cautelare personale, il diritto ad una copia delle conversazioni intercettate e utilizzate ai fini dell’adozione del provvedimento cautelare, anche se non depositate. Ed anche ora si afferma in giurisprudenza che il difensore che propone il riesame non può chiedere copia di tutte le intercettazioni eseguite ma ha l’onere di presentare una richiesta di accesso e acquisizione degli esiti captativi che sia specifica, ossia formulata in termini tali da indicare, con precisione, i files delle captazioni di cui chiede l’autorizzazione all’ascolto e il rilascio di copia, sicché, in mancanza di tali indicazioni, il ritardo del pubblico ministero a provvedere non può ritenersi ingiustificato e l’eventuale mancato accesso della difesa agli atti non determina alcuna nullità del procedimento: resta da capire come possa il difensore, che non conosce il contenuto delle intercettazioni, indicare, con precisione, i files di interesse per la difesa. Com’è noto è vietata l’intercettazione delle comunicazioni del difensore con il proprio assistito e tale divieto è rafforzato da un ulteriore divieto di utilizzazione dei risultati in tal modo ottenuti: ma la giurisprudenza consente sempre l’intercettazione della comunicazione tra difensore e assistito limitandosi ad accertarne caso per caso e solo a posteriori il contenuto e, soltanto se ne riconosce la natura difensiva, la registrazione è dichiarata inutilizzabile. Non è migliore l’aspetto relativo alla tutela della riservatezza, vista la quotidiana diffusione di conversazioni su fatti estranei alle indagini. Insomma, un quadro legislativo e giurisprudenziale veramente desolante e irrispettoso sia dell’”inviolabile” segretezza delle comunicazioni, sia della privacy, sia del diritto di difesa. Si può perciò concludere, senza esagerazioni, che l’Italia è una Repubblica fondata sulle intercettazioni. Bambini, orfani di femminicidio: chi gli sta accanto? La Repubblica, 29 gennaio 2024 I dati inediti: nel 36% dei casi erano presenti durante l’uccisione della mamma. Marco Rossi Doria: “Così diventano orfani due volte. La responsabilità di star loro accanto e non lasciarli soli”. Non ci sono stime ufficiali su quanti siano gli orfani delle vittime di femminicidio in Italia. Con i Bambini, nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile ha avviato “A braccia aperte”, la prima iniziativa di sistema in loro favore e a supporto delle famiglie affidatarie. In gergo vengono definiti “orfani speciali” perché la perdita di uno dei genitori è avvenuta per mano di un coniuge. Ma sono doppiamente orfani, perché la perdita della madre per mano del padre significa anche che l’altro genitore non ha più contatti con il figlio o la figlia e questi, divenuti maggiorenni e consapevoli dell’accaduto, quasi sempre non vogliono più vederli. I 4 progetti finanziati. Sono 157 gli orfani presi in carico dai quattro progetti finanziati dal Con i Bambini. Questo dato è variabile perché altri 260 in tutta Italia sono stati già agganciati dai partenariati gestori, e a breve inizieranno anch’essi un percorso di sostegno e accompagnamento con le loro famiglie. 1) - Il progetto Orphan of Femicide Invisible Victim segue il Nord Est 2) - Nel Nord Ovest opera il progetto S.O.S. - Sostegno Orfani Speciali 3) - Nel Centro Italia è attivo il progetto Airone 4) - Al Sud Respiro - Rete di Sostegno per Percorsi di Inclusione e Resilienza con gli orfani speciali. Nel Sud il maggior numero di orfani. La percentuale più alta di orfani accompagnati riguarda il Sud, al momento (ottobre 2023) ci sono 100 orfani presi in carico grazie al progetto Respiro. Ma il dato è fortemente in crescita. Per il 74 per cento dei beneficiari l’età di ingresso nel progetto è tra i 7-17 anni, per il 17% l’età è compresa tra 18-21 anni e per il rimanente 8% l’età è inferiore a 6 anni. Di questi, il 56% sono di sesso maschile e il 43% femminile (1% non specificato). Il 95% dei beneficiari presi in carico ha la cittadinanza italiana, solo il 5% ha cittadinanza di altri paesi UE o extra-UE. Nel 36 per cento dei casi i bambini erano presenti al momento dell’evento. Il lutto traumatico infantile. Questo elemento ha conseguenze che condizioneranno ancor più pesantemente per gran parte della vita. I minori che diventano orfani a seguito di tali tragici eventi subiscono un impatto psicologico devastante, il quale inevitabilmente influisce negativamente sulla loro sfera emotiva e relazionale. Le conseguenze psicologiche creano una vera e propria sindrome del lutto traumatico infantile. Il bambino, sopraffatto dalla sofferenza e dalla reazione al trauma, diviene incapace di elaborare il lutto, trovandosi intrappolato in uno stato di dolore cronico. Disabilità intellettive. Il 13% degli orfani presenta forme di disabilità (precedenti al trauma); tra le più comuni vi sono disabilità intellettive e relazionali e un ulteriore 8% presenta Bisogni Educativi Speciali (BES), disturbi evolutivi specifici o disturbi psichici. Nelle famiglie affidatarie. Il 42% oggi vive in famiglia affidataria, il 10% vive in comunità e il 10% con una coppia convivente. Solo il 5% è stato dato in adozione e vive con una famiglia adottiva. L’83% delle famiglie dei beneficiari arriva a fine mese con grande difficoltà, spesso per la necessità di circondarsi di professionisti e specialisti per supportarli con i bambini, come emerso dalle interviste ai famigliari che si prendono cura del minore, i cosiddetti caregiver. Ciò nonostante, gli spazi in cui la famiglia vive risultano essere adeguati ai bisogni dei domiciliati nella gran parte dei casi. I nuclei familiari includono in media tra i 3 e i 5 componenti compresi i bambini. Disuguaglianze nelle opportunità. La condizione socio economica degli orfani e delle famiglie affidatarie è un altro elemento discriminante per la crescita di bambini e ragazzi che hanno subito un trauma così forte. ll 52 per cento riceve misure di sostegno al reddito: il 6 per cento reddito di cittadinanza, il 45% altre misure. L’impossibilità ad accedere agli strumenti a loro tutela, o avere le stesse opportunità degli altri ragazzi non fa altro che acuire ancora di più il discrimine che sono costretti a subire anche per il loro futuro. Il 15 per cento di loro dichiara di avere un reddito annuale inferiore a 12 mila euro, l’8 per cento superiore, mentre per il 77 per cento l’informazione non è nota. Una realtà ancora sommersa. La realtà dei cosiddetti orfani di femminicidio è tanto complessa quanto ancora sommersa. Così l’azione di prossimità che Con i Bambini promuove rappresenta, al contempo, una vera inchiesta conoscitiva del fenomeno. Per inquadrare meglio il fenomeno vanno presi in considerazione i fattori che caratterizzavano la vita dei ragazzi orfani di femminicidio antecedenti all’evento. Fuori dai radar dei Servizi Sociali. Gran parte dei nuclei familiari ovvero il 65% non era in carico ai servizi sociali prima dell’evento, nonostante la presenza di elementi di vulnerabilità. Fatta eccezione per 25 casi cioè il 35% dei beneficiari, in cui il nucleo familiare di origine non presentava elementi di vulnerabilità, in tutti gli altri casi, si riscontrano elementi di vulnerabilità che rendono ancora più complessa la gestione delle dinamiche familiari. Tra questi i più comuni sono la presenza di familiari con dipendenze da sostanze o altro, e di familiari con provvedimenti giudiziari prevalentemente di natura penale. La violenza assistita psicologica. Allarmanti sono i dati relativi ad ulteriori elementi che possono rappresentare eventuali traumi o eventi stressanti antecedenti al crimine domestico. Questi includono soprattutto la violenza assistita: fisica, psicologica, sessuale, indicando che numerosi sono i fattori e i campanelli di allarme che è urgente riuscire a cogliere come predittivi della violenza. In particolare, la violenza assistita psicologica - vale a dire una vera e propria forma di maltrattamento psicologico sottovalutato o ignorato, che produce i suoi effetti sul minore a livello emotivo, cognitivo, fisico e relazionale - è stata segnalata in 50 casi su 70. Dire la verità oppure no? Nei casi di femminicidio presi in carico dai progetti di Con i Bambini il 36 per cento dei bambini erano presenti al momento dell’uccisione della madre, inoltre tre bambini le cui madri sono state vittime di femminicidio nel 2015 e nel 2017, al momento della presa in carico da parte del progetto non erano ancora stati resi consapevoli o a conoscenza della verità rispetto all’evento. In altri 7 casi di femminicidi avvenuti tra il 2016 e il 2022 i bambini risultano essere solo in parte a conoscenza e consapevoli della verità. In numerosi casi è stato grazie al supporto del progetto che le famiglie affidatarie hanno accettato di raccontare la verità rispetto all’accaduto. Da altre interviste è emerso che i professionisti che all’inizio avevano seguito le famiglie avevano al contrario consigliato di non dire la verità, o non erano in grado di gestire le emozioni durante i colloqui, confermando l’importanza della formazione e della seria supervisione per affrontare questo lavoro complesso e prezioso, che oggi le reti al lavoro garantiscono. L’idea di un modello flessibile. L’iniziativa voluta da Con i Bambini mira a sviluppare un modello flessibile e personalizzato di intervento multidisciplinare sistemico a sostegno degli orfani speciali. Nel corso dei 48 mesi di accompagnamento competente e intenso gli obiettivi sono: costruire una solida rete affettiva e relazionale che sostenga gli orfani nella loro crescita intesa in modo olistico (scuola, supporto psicologico, sport, orientamento al lavoro, ecc.); favorire il consolidarsi di una rete a sostegno degli affidatari insieme ad associazioni, terzo settore e attori della società civile di ogni territorio e dell’intero territorio nazionale; attivare sistemi per la precoce intercettazione del rischio di violenza domestica. Marco Rossi Doria. È insegnante ed esperto di politiche educative e sociali, oltre che sottosegretario all’Istruzione del Governo Monti dal 2011 al 28 aprile 2013 e poi riconfermato allo stesso incarico dal 2 maggio 2013 al 22 febbraio 2014 nel Governo Letta. “La tragedia dei femminicidi purtroppo non finisce - ricorda Rossi Doria, oggi presidente di Con i Bambini - siamo tutti colpiti da questa condizione terribile. Centinaia di bambini e ragazzi vivono una situazione difficile, fortemente traumatica: la mamma viene uccisa spesso davanti ai loro occhi dal padre, che finirà i suoi giorni in prigione o si suiciderà come spesso accade”. “Orfani due volte”. “I bambini sono orfani due volte - ha aggiunto Rossi Doria - perdono madre e padre in un solo momento anche perché chi resta in carcere difficilmente vede i propri figli. A crescere gli orfani di femminicidio sono i parenti di prossimità: nonni, zii, che però, nei fatti, non godono ancora, purtroppo, di costanti azioni di prossimità che le politiche pubbliche si ripromettono da tempo di attuare e vengono lasciati soli ad affrontare un dramma così grande che ha bisogno di un’attenzione specializzata, così come di supporto burocratico, economico, organizzativo, legale, ecc.”. E poi c’è la vita che deve ricominciare. Gli studi, il lavoro e la necessità di curare la ferita profonda che è dentro di sé. Con i Bambini grazie al Fondo di contrasto della povertà educativa segue in tutta Italia i ragazzi e i bambini rimasti orfani a causa dell’uccisione della madre, sperimentando, così, un modello di intervento che dovrà servire ai decisori pubblici per garantire i risultati auspicati su un tema tanto difficile. “Il Fondo - ha concluso Marco Rossi Doria - ha assunto la responsabilità di mettersi accanto e accompagnare passo passo questi ragazzi nel migliorare la propria vita e avere una opportunità di elaborazione, per quanto possibile, di un evento inconsolabile e di crescita”. Cos’è il Fondo per il contrasto della povertà educativa. Nasce nel 2016 da un’intesa tra le Fondazioni di origine bancaria rappresentate da Acri, con Governo e Terzo Settore. Sostiene interventi finalizzati a rimuovere gli ostacoli di natura economica, sociale e culturale che impediscono la piena fruizione dei processi educativi da parte dei minori. Per attuare i programmi del Fondo, a giugno 2016 è nata l’impresa sociale Con i Bambini, organizzazione senza scopo di lucro interamente partecipata dalla Fondazione Con il Sud. Con i Bambini, attraverso decine di bandi e iniziative, ha selezionato oltre 400 progetti in tutta Italia sostenuto complessivamente con più di 450 milioni di euro. Nella gestione dei bandi, è stato introdotto l’elemento della valutazione di impatto. I progetti, attivi in tutta Italia, coinvolgono oltre mezzo milione di bambini e ragazzi, insieme alle loro famiglie, che vivono in condizione di disagio, mettendo in rete oltre 7.500 organizzazioni, tra terzo settore, scuole, enti pubblici e privati. Piemonte. Gli Uffici di Prossimità, 25 sedi per una giustizia più vicina ai cittadini di Stefano Lorenzetto Corriere della Sera, 29 gennaio 2024 Sono nove i Tribunali coinvolti sul territorio piemontese e coprono un bacino di utenza composto da circa 500 comuni e 650 mila abitanti. E ancora: 6 mila i contatti registrati dalla nascita, 3 mila e 500 i cittadini “aiutati”, 4 mila e 350 i servizi offerti (di questi, il 40 per cento riguarda il deposito di atti giudiziari e il 60 per cento indicazioni tecniche e altre richieste). Sono i numeri che raccontano i 25 Uffici di Prossimità, un servizio gratuito di orientamento e informazione rivolto ai cittadini con l’obiettivo di accorciare la distanza con i Palazzi di giustizia e rendere così il sistema legale un po’ più vicino e familiare. Un progetto pilota che la Regione Piemonte ha sperimentato per prima a partire dal 2019 e che presto potrebbe essere esportato nel resto d’italia. A sottolineare il pregio di questi Uffici, che vedono impiegati in tutta la regione 80 operatori (che hanno seguito un corso di formazione di 15 mila ore di assistenza sul campo), è stato il presidente della Corte d’appello Edoardo Innocenti Barelli in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario: “Uno strumento che può aiutare a rendere più semplice e lineare il rapporto dei cittadini con il mondo della giustizia, che spesso può apparire distante. Soprattutto dopo l’abolizione delle Preture e la revisione della geografia giudiziaria”. Revisione che nel 2013 ha ridotto il numero dei Tribunali, tagliando quelli minori. Ma che per il presidente non si può più mettere “in discussione con la ventilata riapertura di piccoli uffici che, nel nostro distretto, comporterebbe un ulteriore depauperamento delle già scarse risorse del personale amministrativo”. Ed è in questo contesto che va letta la nascita della rete degli Uffici di Prossimità, capaci di andare in soccorso dei cittadini nell’ambito della cosiddetta “volontaria giurisdizione”: cioè, quelle pratiche che non richiedono il tramite di un avvocato. “Un progetto di successo e un modello di efficacia - sottolinea il presidente della Regione Alberto Cirio -. Un esempio di buona amministrazione che avvicina i servizi ai cittadini, soprattutto alle fasce deboli, superando la necessità di recarsi negli uffici giudiziari, che spesso sono lontani e di difficile accesso. È un modello replicabile per il quale il Piemonte si candida a proseguire la sperimentazione per rendere il servizio ancora più capillare sul territorio”. L’iniziativa è promossa dal ministero della Giustizia (nell’ambito del programma operativo Governance, finanziato dal Fondo sociale europeo e dal Fondo europeo di Sviluppo regionale) e il Piemonte è stato scelto come regione pilota per la sperimentazione, con un investimento complessivo di 3 milioni di euro capace di coprire i 54 mesi di attività. Tecnologia e digitalizzazione sono le chiavi che hanno permesso di delocalizzare all’interno delle sedi comunali alcune attività che prima potevano essere effettuate esclusivamente negli uffici giudiziari: tra le pratiche che si possono attivare ci sono le istanze al giudice tutelare, la richiesta di amministrazione di sostegno, la nomina di un curatore speciale e le autorizzazioni al rilascio di documenti validi per l’espatrio dei minori. I documenti vengono digitalizzati e inviati telematicamente alla cancelleria del Tribunale di riferimento che registra l’istanza e la invia al giudice, il quale emetterà il provvedimento richiesto. E la Regione in questo schema ha il compito di definire il modello organizzativo e procedurale per delineare l’impalcatura per la diffusione degli Uffici di Prossimità, decongestionando così anche il lavoro del personale amministrativo dei Palazzi di giustizia e riducendo code e inutili trasferte per i cittadini. Piemonte. Arriva la giustizia penale online, ma il debutto è al rallentatore di Sarah Martinenghi La Repubblica, 29 gennaio 2024 I magistrati: troppi problemi con il nuovo programma ministeriale “App”. Arnaldi di Balme (Anm): “Sistema ancora in costruzione, rinviato di un anno il passaggio al processo telematico”. Attesa da anni, la rivoluzione telematica nel settore penale è sbarcata in procura. I pm e i gip da qualche settimana sono alle prese con il programma ministeriale “App”, che al momento li vede lavorare in digitale solo nelle richieste e nei provvedimenti di archiviazione. E non sono mancati intoppi, bug, dubbi e difficoltà, illustrati anche all’inaugurazione dell’anno giudiziario. Se in civile infatti i fascicoli cartacei sono ormai un ricordo del passato, nel settore dei reati tutto funziona ancora tra cartelline colorate e faldoni. Ma l’obiettivo di sveltire le pratiche grazie a App è ancora un orizzonte lontano. Il sistema che si blocca, aggiornamenti continui, troppi passaggi uniti alle difficoltà (per chi mastica leggi ma non è un fulmine in informatica), di caricare gli atti e completare le operazioni di firma digitale, hanno portato scompiglio e perplessità. L’entusiasmo per la novità, insomma, ha fatto i conti con un po’ di malumore. Anche il presidente locale dell’Anm Enrico Arnaldi di Balme l’ha sottolineato sabato mattina: “Sappiamo che si tratta di una necessaria fase di transizione” e i magistrati “sostengono, anche con entusiasmo” l’informatizzazione del settore penale “ma è difficile fare i conducenti di un’auto su cui si stanno ancora montando freni e pneumatici”. Si tratta di “un lavoro in itinere” che “a oggi fatica a ricompensare in termini di energie e tempo”. L’App, ha sottolineato Arnaldi, “è ancora in costruzione, tanto che si è dovuto rinviare di un anno il passaggio integrale al processo penale telematico”. E per la gestione delle archiviazioni “l’incompletezza dell’applicativo crea un flusso continuo di problemi tecnici e organizzativi che stanno mettendo in crisi le procure e gli uffici dei gip”. Il futuro spaventa anche per l’intelligenza artificiale. “Potrebbe far scomparire o ridimensionare fortemente le nostre professioni” ha spiegato la pg Sabrina Noce, secondo cui occorre “vigilare per mantenere salda l’indipendenza della magistratura dagli algoritmi e tenere fermo il controllo umano sulle decisioni”. Se l’Ia potrà aiutare i giudici “ad adottare decisioni informate e basate su precedenti consolidati e autorevoli” tuttavia il rischio è “la standardizzazione”. La strada è “non considerare solo i fascicoli come numeri, ma ricordare che dentro vi sono esseri umani, che ricorderanno per tutta la vita il procedimento penale che li ha coinvolti”. Calabria. Disagio mentale e autori di reato, solo due strutture Antonio Anastasi quotidianodelsud.it, 29 gennaio 2024 Rems, queste sconosciute: tra i tanti problemi che affliggono l’esecuzione della pena nel nostro Paese e nel distretto della Corte d’Appello di Catanzaro, la presidente facente funzioni, Gabriella Reillo, ha individuato il settore “più critico” proprio nel trattamento dell’autore di reato affetto da infermità di mente. Nella relazione pronunciata durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario, la presidente Reillo ha constatato la “drammaticità della situazione nelle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza”. Nonostante sia trascorso ormai un decennio dall’abolizione degli ospedali psichiatrici giudiziari, “le soluzioni apprestate risultano quantitativamente e qualitativamente insufficienti rispetto all’utenza, e al bisogno di curare e custodire questa categoria di autori di reato, come drammaticamente più volte denunciato anche dalla Corte Costituzionale”. Nel territorio del Distretto ci sono soltanto due strutture destinate a servire tutta la Calabria: una nel Cosentino, a Santa Sofia d’Epiro, l’altra a Girifalco, in provincia di Catanzaro. Entrambe le strutture sono state progettate per ospitare 20 pazienti, dunque sono previsti 40 posti complessivi nel territorio. “I posti letto in Rems risultano, in linea con il preoccupante trend nazionale, largamente insufficienti a gestire il fenomeno sempre più dilagante della malattia mentale nel sistema penale”, denuncia la presidente Reillo. Una situazione che ha “ricadute gravissime sulla gestione degli autori di reato affetti da patologie psichiatriche” e che configura una “lesione del diritto alla salute”. Questo perché molte persone che dovrebbero essere ricoverate nelle Rems sono detenute in carcere, altre restano libere nonostante la pericolosità. Insomma, “una situazione certamente non confacente ad uno Stato di diritto, che pone il magistrato di sorveglianza, nonché il giudice di merito, quale giudice dell’esecuzione, in grandi difficoltà allorquando riscontri che il soggetto sia affetto da disagi psichici incompatibili con il regime carcerario”. Spesso, osserva la presidente, si sopperisce alla mancanza di posti in Rems con la libertà vigilata arricchita di prescrizioni di carattere terapeutico e con obbligo di risiedere in una struttura idonea ad accogliere il condannato al carcere con disagio mentale ma questa è “una soluzione che non può considerarsi soddisfacente, in primis, per ragioni logistiche, stante la difficoltà di trovare strutture disposte ad accogliere un soggetto per definizione socialmente pericoloso, in secundis, soprattutto in Calabria, per ragioni giuridiche, atteso che la libertà vigilata non è una misura di sicurezza detentiva”. Ci sono due strutture alternative alle Rems nel distretto, dove dovrebbero essere accolti ospiti meno pericolosi, ed è in cantiere una terza struttura, seppure con un numero inferiore di posti letto. Intanto, la Corte d’appello, per sopperire alle criticità, sta contribuendo alla redazione di un protocollo d’intesa con il Dipartimento di salute mentale finalizzato ad avviare una interlocuzione tra l’autorità giudiziaria e una équipe altamente specializzata che si occupi della presa in carico del paziente giudiziario, che rediga i progetti terapeutici e, soprattutto, individui la migliore collocazione per le persone che difficilmente riescono ad autogestirsi in case private e ad essere gestiti dalle famiglie. Imperia. Detenuto si impicca in carcere, indagini in corso Il Secolo XIX, 29 gennaio 2024 Tragedia nel carcere di Imperia. Un detenuto 66enne, Michele Scarlata, originario di Villalba, in provincia di Caltanissetta, ma residente in Liguria, è stato trovato morto impiccato nella propria cella. L’uomo era accusato del tentato omicidio della moglie. A nulla sono valsi i soccorsi da parte degli agenti della Polizia penitenziaria. Un evento che riporta alta l’attenzione sulla situazione delle carceri italiane e, in particolare, del Ponente ligure, tra sovraffollamento e una condizione di detenzione spesso al limite. Verona. Manifestazione davanti a Montorio contro i suicidi in carcere veronanetwork.it, 29 gennaio 2024 Si contano ormai quattro casi di suicidio in carcere a Montorio negli ultimi due mesi. Un terribile fenomeno che preoccupa, insieme al sovraffollamento e alla carenza di servizi e opportunità per il reinserimento sociale dei detenuti. Manifestazione davanti al carcere di Verona-Montorio ieri pomeriggio, per portare l’attenzione sull’allarmante serie di suicidi degli ultimi mesi. Il presidio è stato organizzato dall’associazione “Sbarre di Zucchero” insieme ad altri gruppi e realtà, come la rivista padovana “Ristretti Orizzonti”. Chiedono maggiori attenzioni alla salute - fisica e psicologica - dei detenuti e spazi adeguati. Negli ultimi due mesi risultano infatti ben quattro suicidi nella casa circondariale di Montorio, oltre ad almeno tre tentativi. Il presidente della Corte d’Appello di Venezia Carlo Citterio, nel corso della relazione all’inaugurazione dell’anno giudiziario, con dati riferiti al periodo giugno 2022-giugno 2023, ha detto: “Nelle carceri del Veneto i posti previsti sono 1947, i detenuti invece sono 2481, di cui 1250 stranieri e 131 donne. È cresciuto il numero dei suicidi, da 4 a 6, dei tentati suicidi da 95 a 99 e di episodi di autolesionismo, da 768 a 787. Ricordiamoci che i detenuti sono affidati allo Stato e il suicidio è un’anomalia difficilmente accettabile” Solo un paio di settimane fa era stato in visita al carcere di Montorio il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari. In quell’occasione aveva parlato del problema del sovraffollamento delle strutture di detenzione, da risolvere “non con svuota-carceri, ma con nuovi spazi”, e dei suicidi. Una delle risposte per migliorare la situazione - diceva Ostellari - è lo strumento del lavoro, da potenziare. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Detenuto di 59 anni muore per infarto nel carcere militare di Mario Basso sassate.it, 29 gennaio 2024 Pochi giorni fa, un luogotenente della GdF, condannato in via definitiva a 7 anni di carcere per peculato, è morto d’infarto nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere. Inutili i soccorsi, anche per l’inadeguatezza della struttura sanitaria. Il detenuto deceduto si chiamava Francesco Caccamo, aveva 59 anni ed era finito prima in carcere e poi ai domiciliari in seguito ad uno scandalo che nel 2017 aveva portato alla prima condanna da parte del Tribunale di Catania per quattro “Fiamme Gialle” accusate di peculato, falso e calunnia. Altri due finanzieri erano stati invece assolti. Confermato in appello e dalla Cassazione, il verdetto aveva così riportato Caccamo e complici dietro le sbarre per la definitiva espiazione della pena. Fin qui, tutto regolare. Ciò che non è normale è quanto accaduto dopo l’infarto: scarsi i soccorsi e poi silenzio assoluto sulla conclusione del dramma. Brescia. Il carcere scoppia: i detenuti sono quasi il doppio della capienza di Federica Pacella Il Giorno, 29 gennaio 2024 Canton Mombello è al limite ma il ministro Nordio intervenuto all’anno giudiziario ha detto che ci sono le risorse per un nuovo istituto. Girone infernale Canton Mombello, zeppo all’inverosimile e sempre più obsoleto. Gli ultimi dati emersi in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario rendono conto di una situazione nella ottocentesca Casa circondariale al limite dell’ingestibilità. A fronte di un incremento generalizzato della popolazione detenuta in tutti gli istituti penitenziari del distretto, le carceri bresciane sono quelle messe peggio. Al 30 giugno scorso l’indice di sovraffollamento di Canton Mombello aveva superato il 181 per cento, che nei mesi a seguire ha toccato quota 200: 335 detenuti e una capienza da 180 posti. Anche la Casa di reclusione di Verziano, la cui struttura è decisamente più accogliente e nuova, registra il 170,42 per cento di detenuti in più. Il tasso di insofferenza dietro le sbarre è alle stelle: nel periodo compreso tra il 30 giugno 2022 e i 12 mesi seguenti due detenuti si sono tolti la vita e 38 ci hanno provato. Si sono contati 54 aggressioni e 191 casi di autolesionismo. A farne le spese è anche la Penitenziaria, chiamata a fare i salti mortali per tenere sotto controllo la situazione - solo l’altro ieri gli agenti sono riusciti a bloccare a Canton Mombello una donna tunisina incinta che aveva cucito in in giubbotto destinato a un detenuto tre panetti di hascisc, 50 grammi di droga rischiando la propria incolumità. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio, sabato al Palagiustizia, ha dichiarato di aver ben presente le criticità degli istituti penitenziari di Brescia, “I fondi sono stati stanziati, è tutto pronto per far partire il progetto della nuova struttura”. In che termini, e quando, tuttavia, non l’ha detto. “Il Governo e la politica si muovano affinché il nuovo progetto diventi realtà il prima possibile e nel frattempo si trovino rimedi a una situazione inaccettabile in un Paese civile”, è l’appello del presidente dell’Ordine degli avvocati Giovanni Rocchi. La cifra a disposizione, 38 milioni e 800 mila euro stanziati lo scorso novembre per ampliare Verziano e 15 milioni erogati nel 2015 sarebbero sufficienti per la nuova struttura. “Canton Mombello va chiuso e sostituito con un padiglione studiato con il coinvolgimento di chi vive il carcere - è l’idea del senatore PD Alfredo Bazoli, seconda commissione Giustizia -. Servono almeno 400 posti, i 250 di cui si parla non risolvono. Servono spazi e attrezzature, anche per le attività di inserimento lavorative, ricreative e sportive”. Brescia. La Garante: “L’affettività dei detenuti deve essere garantita, malgrado il sovraffollamento” di Federica Pacella Il Giorno, 29 gennaio 2024 La Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo l’articolo 18 dell’ordinamento penitenziario che prevede controlli a vista durante i colloqui. Sì all’affettività in carcere, ma la sentenza della Corte Costituzionale, di per sé storica, si innesta in un contesto in cui il sovraffollamento incide su ogni diritto dei detenuti. Lo spiega bene la garante dei diritti delle persone prive di libertà del Comune di Brescia, Luisa Ravagnani, all’indomani della sentenza che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 dell’ordinamento penitenziario, nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa a svolgere i colloqui con il partner senza il controllo a vista del personale di custodia, laddove non ci siano problemi di sicurezza. Ravagnani era stata tra i 200 fra giuristi e personalità della società civile che aveva aderito all’appello promosso dalla Società della Ragione alla vigilia della decisione della Corte. “È un punto di partenza fondamentale, di cui avevamo bisogno - spiega -. Ora dovremo aspettare come il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Tribunale di Sorveglianza e lo stesso legislatore agiranno, in coerenza con il giudicato costituzionale”. Garantire il diritto all’affettività significa strutturare il carcere in modo che i detenuti possano coltivare le relazioni famigliari, come del resto avviene già nella maggior parte d’Europa (ma l’Italia è lontana anni luce dai modelli europei, come dimostra il caso delle telefonate, controllate nel nostro Paese, libere altrove per i casi in cui non ci siano problemi di sicurezza). “Finalmente si è definito un concetto che era chiaro a quanti gravitano attorno al carcere, giuristi, accademici, famigliari. Si vedrà come e quando sarà applicato, ma c’è da dire che partiamo da una base di sovraffollamento che incide su ogni diritto dei detenuti”. Roma. Carceri, va in scena nel Teatro di Rebibbia “Credo ancora nelle favole” istituzioni24.it, 29 gennaio 2024 La messa in scena è il frutto del lavoro del laboratorio di teatroterapia che coinvolge detenuti comuni afferenti alla sezione media sicurezza. L’attività è condotta dalla Dott.ssa Irene Cantarella, ideatrice del progetto insieme alla Dott.ssa Sandra Vitolo, entrambe psicologhe e psicoterapeute. L’uso del teatro come strumento terapeutico è una pratica sempre più diffusa per esplorare profonde sfere emotive e affrontare tematiche complesse. In questo contesto, un percorso terapeutico innovativo ha visto protagonista la paternità reclusa, rivelando luci e ombre delle dinamiche familiari attraverso la lente della recitazione. Sul palcoscenico gli attori detenuti si esibiranno eccezionalmente con figli e familiari per rappresentare emozioni realmente vissute e frammenti di vita, cosi come raccontate nel copione interamente autobiografico. Il lavoro teatrale è oggettivazione scenica del percorso terapeutico compiuto sull’affettività. In particolare, è stato affrontato il tema della paternità reclusa e delle dinamiche familiari connesse al reato con le sue conseguenze: da qui la scelta significativa di coinvolgere nella rappresentazione teatrale tutti i componenti delle famiglie dei ristretti. Lo spettacolo, inoltre, tocca argomenti relativi alla dimensione di coppia, cosi come vissuta dai detenuti all’ interno del carcere e da mogli e compagne all’ esterno; queste si sono impegnate in un percorso di rivisitazione delle modalità relazionali utilizzate con il partner che si sono concretizzate, il più delle volte nel passato, in atteggiamenti giustificanti legati al coinvolgimento affettivo-emotivo. La costruzione del copione è stata frutto degli incontri di analisi introspettiva effettuata con i singoli protagonisti e condivisa, successivamente, nella dimensione gruppale. Analogo lavoro terapeutico è stato esteso ai nuclei familiari, con incontri collettivi a cadenza mensile, che danno data luogo alla costruzione di un gruppo attivamente coinvolto, all’ interno del quale si sono condivise le vicende personali, intime emozioni e le incertezze sul futuro. II percorso laboratoriale, così realizzato, ha stimolato la rivisitazione critica delle proprie scelte di vita e l’individuazione di risorse interiori per adottare soluzioni funzionali al processo di crescita personale. II coinvolgimento delle famiglie ha raccontato come anche queste, universo affettivo del detenuto, siano costrette loro malgrado a scontare una condanna. II lavoro psicologico si è concretizzato anche nella riorganizzazione di responsabilità più adeguate ai ruoli di ciascuno, gettando le basi per un positivo ritorno alla vita sociale. La comunità può essere sensibilizzata alle sfide affrontate da coloro che vivono dietro le sbarre, incoraggiando una maggiore comprensione e supporto. Attraverso la recitazione, si apre uno spazio unico per l’esplorazione delle emozioni, la comprensione delle dinamiche familiari e la ricostruzione delle relazioni Le vicende portate in scena narrano dell’uomo, non gia detenuto e del suo riscoprirsi persona all’interno dell’istituzione totale. Storie di fragilità e di solidarietà, storie di ricerca di un’identità diversa oltre l’etichetta deviante; percorsi di affermazione della dignità umana, per mettersi in gioco anche di fronte ad un pubblico esterno. Attraverso la recitazione, si apre uno spazio unico per l’esplorazione delle emozioni, la comprensione delle dinamiche familiari e la ricostruzione delle relazioni II materiale autobiografico offerto dai detenuti della Casa di Reclusione Rebibbia e dalle loro famiglie è stato raccolto e riadattato teatralmente dalle promotrici del progetto e conduttrici del laboratorio che hanno curato e coordinato la direzione artistica della rappresentazione scenica. L’evento teatrale, insieme ad attività di backstage, rielaborato in chiave cinematografica ed intervallato dalle interviste ai protagonisti sul valore che l’attività di teatroterapia riveste per ciascuno, diventeranno un docufilm diretto dal regista Amedeo Staiano. Attraverso la recitazione, si apre uno spazio unico per l’esplorazione delle emozioni, la comprensione delle dinamiche familiari e la ricostruzione delle relazioni. Il Documentario si snoderà tra la loro quotidianità e quella delle loro famiglie nella vita esterna all’istituto, e ha come focus principale la sensibilizzazione di un pubblico giovanissimo. Il progetto audiovisivo è esclusivamente a sfondo sociale, autoprodotto e senza scopo di lucro, si sottolinea che tutta la catena produttiva e realizzativa, unitamente alle figure professionali interessate è strutturata su un principio gratuito volontario solidale, vede l’appoggio morale e operativo di diverse aziende del settore. Parteciperà in concorso e fuori concorso a diversi Festival Nazionali e Internazionali, possibili passaggi televisivi e soprattutto ha come obiettivo il coinvolgimento di giovani spettatori, quindi proiezioni in Scuole, Associazioni, Manifestazioni dedicate a tematiche sociali, sul concetto dell’uso gratuito e non della vendita Carcere, il fumetto diventa messaggio di riscatto di Ilaria Dioguardi vita.it, 29 gennaio 2024 Un graphic podcast sull’esperienza di inserimento e reinserimento lavorativo e sociale di uomini e donne sottoposti a provvedimenti dell’Autorità giudiziaria. Si chiama “Udepe Repè, la storia vera di un podcast mai pubblicato”. Il Consorzio La Rada lo ha diffuso con il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università degli Studi di Salerno. Il fumetto è diventato libro di testo per gli studenti universitari di Diritto penale e Criminologia. I personaggi di Udepe Repè, la storia vera di un podcast mai pubblicato hanno delle impronte digitali al posto delle teste e raccontano le loro storie di inserimento e reinserimento lavorativo e sociale. “L’idea di questo fumetto nasce dal progetto Ponte del 2022. Il Consorzio La Rada aveva necessità di divulgare i risultati del progetto e abbiamo pensato a quest’idea originale”. A parlare è Giulio Escalona, psicologo e project manager del Consorzio La Rada, autore del fumetto. Il progetto Ponte, finanziato dal ministero della Giustizia - Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità da anni, grazie all’Ufficio Distrettuale Esecuzione Penale Esterna, Udepe di Salerno, al Consorzio La Rada e ad altre cooperative sociali, si occupa di inserimento e reinserimento lavorativo, e di inclusione sociale di donne e uomini sottoposti a provvedimenti dell’Autorità giudiziaria, ovvero in affidamento in prova al servizio sociale o in regime di detenzione domiciliare. Escalona, come nasce l’idea di questo fumetto? Il progetto Ponte 2022 è stato realizzato dal Consorzio La Rada in partnership con la cooperativa sociale Stalker (che segue il progetto dal 2018), la società agricola Epoca e l’associazione culturale Paideia Onlus. Protagonista in particolare del progetto (e anche del fumetto) è la cooperativa Stalker, socia del Consorzio, che, nella piana del Sele, porta avanti un laboratorio di trasformazione di prodotti ortofrutticoli, con il coinvolgimento di persone con fragilità. L’idea iniziale era quella di realizzare un podcast. Ho seguito da vicino i lavori dei tirocinanti e degli operatori dell’associazione e delle cooperative coinvolte. Ho raccolto circa 40 ore di interviste. Ascoltandole, mi sono reso conto che uno dei problemi raccontati dalle persone era quello di essere cristallizzati come perenni criminali o, comunque, persone che hanno sbagliato. Utilizzando solo le voci, e non video e foto, mi sembrava di fare qualcosa di eticamente scorretto, di cristallizzare le loro voci in un contesto, mentre stavano tutti lavorando per essere anche qualcos’altro. Da lì l’idea di trasformare tutto in un fumetto. Il Consorzio La Rada lo considero un laboratorio aperto, ci confrontiamo continuamente. Poi ci siamo confrontati con l’Udepe di Salerno e siamo andati avanti con questo progetto. Copertina di Udepe Repè, la storia vera di un podcast mai pubblicato Perché il titolo Udepe-Repè? È un titolo onomatopeico, che dà l’idea di una situazione di festa, di una fanfara che fa un po’ ridere. Per quanto l’argomento che trattiamo sia serio e importante, ho cercato di sdrammatizzare un po’ nel titolo, che continua con la storia vera di un podcast mai pubblicato, un’annunciazione fallita. Abbiamo salvaguardato totalmente le parole delle persone, il resto è stato disegnato (male) dal sottoscritto. Un pretesto grafico che mi ha consentito di unificare i personaggi e di renderli anonimi. Le impronte digitali ce le abbiamo tutti, ma per qualcuno pesano di più. Le persone coinvolte hanno apprezzato il fatto che abbiamo dato peso alle loro parole, alle loro riflessioni. Il graphic podcast è stato distribuito tra i ragazzi, all’università... Abbiamo ricevuto tanti feedback positivi. Tra gli apprezzamenti, anche quello di Francesco Schiaffo, professore ordinario di Diritto Penale dell’Università di Salerno, che ci ha fatto anche un regalo enorme scrivendo la postfazione del fumetto. Scherzando, il professore affermava che avrebbe dovuto essere un libro di testo utilizzato dagli studenti di Diritto penale perché spiega con parole semplici il punto di vista delle persone che stanno facendo un percorso di pena. E così è stato, Udepe-Repè è stato distribuito agli studenti del corso di Diritto penale e Criminologia della facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Salerno. Come ha raccolto le testimonianze di sei uomini e donne, illustrate e raccontate nel fumetto? Durante due giornate, una trascorsa al laboratorio di produzione della cooperativa Stalker, che si trova in un posto meraviglioso (un’azienda agricola sperimentale regionale che si chiama Improsta), e un’altra in una giornata di formazione e di festa con altri partecipanti. Le storie di queste sei persone si intrecciano nel fumetto, racconto uomini e donne che conoscono nuovi lavori che hanno le caratteristiche del Terzo settore, non legate semplicemente al profitto e alla produzione, ma a un sistema che mette al centro anche le esigenze personali dei lavoratori. Al di là di quello che viene raccontato, nel fumetto riporto una riflessione, legata alla difficoltà di raccontare il lavoro del Terzo settore perché c’è sempre il rischio, in ambiti così delicati, che il racconto diventi un’etichetta, un marchio, che fa leva sul pietismo. Il fumetto è una chiave ottimale di racconto. Nel graphic podcast parliamo anche dei vantaggi che queste persone hanno potuto avere grazie al progetto, come i colloqui con uno psicologo. Ho dovuto tagliare molto materiale, purtroppo. Il progetto Ponte è andato avanti nel 2023, ma quest’anno si interrompe perché sono stati tagliati i fondi. Stiamo cercando con la cooperativa Stalker altre forme di finanziamento. Il progetto ha avuto anche un lieto fine. Quale? Una delle persone tirocinanti è stata assunta dalla cooperativa Stalker. È stato molto emozionante per me essere presente e vivere il momento (unico) in cui è stata comunicata l’assunzione alla persona. Il fatto di assumere al termine del tirocinio non è scontato, si pensa che dopo un percorso di inserimento e reinserimento lavorativo la persona voglia affacciarsi alla società e non rimanere in una comfort zone del Terzo settore. Il fatto di aver assunto una persona era assolutamente non previsto, ma c’era così tanta motivazione e competenza da parte del lavoratore che c’erano tutte le condizioni per poter proseguire un percorso professionale insieme, ed è stato bellissimo. I delitti, le pene e la lezione di Capitini di Enzo Musolino L’Unità, 29 gennaio 2024 È altamente pericoloso uno scopo - anche di presunta “Giustizia” - che sacrifichi il destino degli uomini alla violenza, alla dittatura, alla potenza. Ciò che assume davvero rilevanza sono gli strumenti della politica: il fine, infatti, vive già nel mezzo approntato per raggiungerlo. Rinviare il “bene politico” per l’immaturità dei tempi e assumere mezzi discordi da questo fine per mutare il presente, significa tradire ogni positivo sviluppo sociale, mortificare l’approdo. Aldo Capitini parla, a proposito, di “fiducia cieca”, di una vuota retorica che nega in nuce la fede dei persuasi religiosi. La persuasione, infatti, sorge proprio dalla assoluta corrispondenza tra mezzi nonviolenti, aperti e democratici, e il fine della realizzazione di una società libera e giusta. Solo se l’apertura all’altro, alle sue ragioni, è totale, si può giungere a quell’accordo tra diversi, a una politica davvero popolare (perché pluralista) che sappia assicurare l’equilibrio tra libertà e giustizia. Non conta davvero sentirsi nel giusto, affermare così autoritativamente il disvalore altrui. Il persuaso religioso - che è anche un militante laico e anticlericale - non si rassegna alla dialettica degli opposti e alle sue sintesi precarie, opera per una realtà diversa, trasfigurata. Una realtà nella quale il male è superato attraverso un’apertura che non condanna all’immobilismo, alla pena senza scampo del reo inchiodato al fatto. Il piano religioso non è il piano giuridico. La battaglia contro il male è, innanzitutto, non rassegnarsi alla sua invincibilità; è una libera aggiunta che coinvolge anche i peccatori, che ne trascende i limiti riconoscendoli - riconoscendoci - capaci, infinitamente capaci di altro, di riscatto e rinascita. Così operando, emerge il contributo di tutti nella realizzazione concreta dei valori, senza lasciare nessuno indietro. Emerge il ruolo del perdono che vede nell’altro qualcosa di meglio di un peccatore, che abbandona il riflesso condizionato della violenza reattiva, della pena come risposta, mezzo, rigido strumento correzionale per raggiungere il fine dell’espiazione. Solo un mutamento radicale di paradigma, solo la scelta dei mezzi opportuni, nonviolenti, può giungere davvero ad eliminarne la radice del male. Ci vuole qualcosa di diverso e di meglio del procedere giuridico delle pene. L’isolamento concentrazionario, l’esercizio della forza, l’ammonimento agli altri attraverso l’uso e l’abuso di potere produce senz’altro un freno temporaneo al peccato ma non muta la realtà. Solo la persuasione muta la realtà: la Speranza che agisce negli uomini convinti del fatto che anche il reo sia capace di produrre valori, la coscienza del reo che muta nel riconoscersi capace lui stesso di liberazione e novità. Tutte dinamiche, pratiche, che fondano il piano religioso perché non si consegnano alle chiusure, ai limiti, ma tentano la strada diversa, difficile, del non arrendersi alle imperfezioni. La persuasione religiosa è intimamente connessa al sentimento di fraternità e uguaglianza. Aprirsi al tutti è essenzialmente questo: abbattere le distanze, spianare i falsi troni, contestare le false ragioni di una virtù considerata appannaggio esclusivo di casta, di classe, di provenienza, tradizione, identità. Apertura e libera aggiunta, in un contesto politico-religioso non autoritario, significano imparare a sentire il malfatto degli altri come responsabilità propria, come intimamente legato al proprio vissuto ed esercitarsi in un costante supplemento di bene che nasce dall’intimo dolore per una correità ammessa, confessata. Dice Capitini: “quello che tu hai fatto ora l’avrei potuto fare mille volte io, e forse più sporcamente”. Questa consapevolezza ci aiuta a strutturare - anche nelle lotte politiche contro l’affermazione terribile della ragion di Stato - un centro religioso che non leghi per sempre le persone ai fatti, che non le condanni per sempre tra i nemici, tra i criminali. I viventi, ci dice Capitini, non sono schemi, e i morti realizzano il loro contributo di salvezza corale ben oltre la morte. *Articolo tratto da un saggio di prossima pubblicazione per l’editore “Città del Sole” sulla filosofia politica di Aldo Capitini Servizio Civile Universale presso l’associazione Granello di Senape Padova odv Ristretti Orizzonti, 29 gennaio 2024 Anche quest’anno 3 giovani tra i 18 e i 28 anni potranno svolgere un anno di Servizio Civile Universale presso l’associazione Granello di Senape Padova odv, partner del CSV di Padova e Rovigo per il programma “Il Servizio civile per città inclusive, creative e solidali” che coinvolge 8 Enti del terzo settore mettendo a disposizione 24 posti in totale. Maggiori informazioni sul progetto “InclusivaMente per la Solidarietà, la Cultura e l’Uguaglianza“ in cui è coinvolto Granello di Senape Padova odv e il bando per la partecipazione alla selezione sono disponibili qui https://www.csvpadovarovigo.org/servizio-civile-universale-nuovo-bando/ . Le domande vanno presentate esclusivamente online entro le ore 14 del 15 febbraio 2024. Servizio civile universale: progetti per 80mila ragazzi. Ma non ci sono le risorse di Paola D’Amico Corriere della Sera, 29 gennaio 2024 Progetti per accogliere i giovani, i fondi però coprono 52mila posizioni. E nel 2025 si prevede un nuovo calo. La preoccupazione di enti e associazioni. Fiaschi: “Strumento utile che va difeso”. Servizio civile universale, ultima chiamata. Calano i posti a disposizione dei futuri Operatori volontari (Ov). Da 71.741 - cifra record raggiunta con il bando del 2022 grazie ai fondi del Pnrr - a 52.236 del nuovo bando che si chiude il 15 febbraio. E il futuro non si prospetta roseo. L’ultima legge di stabilità, infatti, ha messo a bilancio appena 143 milioni e ciò significa che nel 2025 in teoria potrebbero partire solo 22mila giovani. E allora di “universale” (come lo ha ridisegnato la Riforma del Terzo settore nel 2017) resterebbe ben poco. Questo è stato uno dei temi più caldi all’ordine del giorno dell’ultima Consulta nazionale del Scu. Una buona notizia, oltre a quelle dell’aumento della indennità mensile per gli Ov da 444,30 a 507,30 euro e dei numeri delle domande già presentate online (20mila contro le 11mila dello stesso periodo dello scorso anno), arriva dalla Cabina di regia del Pnrr che si sarebbe impegnata a trovare ulteriori risorse. I numeri, al momento, dicono però che per l’anno in corso molti dei progetti presentati dagli enti, pubblici e privati, Comuni, ospedali, Ong, Coop, associazioni grandi e piccole, non decolleranno. Ciò che chiede con forza la Consulta dunque è un impegno a stabilizzare il Servizio civile, a uscire dall’era dell’incertezza e delle “sperimentazioni”. Al Dipartimento delle politiche giovanili sono arrivati da tutta Italia progetti in grado di accogliere 80mila volontari, ragazze e ragazzi dai 18 ai 28 anni. Ivan Nissoli è il rappresentante dei Centri servizi per il volontariato nella Consulta. Dice che ora, nell’immediato della scadenza del bando, sia per la scarsità dei posti ma soprattutto per limitare il numero di chi abbandona il progetto lungo il percorso (fino al 13% dei volontari ogni anno), “vanno aiutati i giovani a presentare correttamente la domanda. Molti non conoscono bene il servizio, c’è chi cerca il posto “col compasso”, il più vicino a casa. Altri sono superficiali, i progetti non li leggono per bene e rischiano di finire come un ragazzo che voleva lavorare con gli adolescenti ma si è trovato in un asilo nido. E ha rinunciato ma il sistema non permette di ripescarlo”. La società tutta deve fare quadrato attorno al Servizio civile, perché è una palestra importante, “sviluppa il senso di appartenenza alla comunità, è una esperienza di cittadinanza attiva”, spiega Nissoli. Ma è anche uno strumento utile a orientare o “ri-orientarsi - conclude - e penso a una ragazza iscritta a Matematica che dopo i 12 mesi di servizio civile in una comunità per donne uscite dalla tratta, si è iscritta a Scienze dell’educazione”. Ed è strumento di crescita per la comunità, forma i giovani ma nello stesso tempo sostiene i territori: “Un volontario presente 25 ore alla settimana per un anno è un sostegno importante per molti enti pubblici e non, Comuni, ospedali, ong, associazioni grandi e piccole”. Il servizio civile non va visto come una parentesi nella vita dei giovani, “ma come un’esperienza in cui mettere le basi per il proprio futuro” aggiunge Claudia Fiaschi, presidente di Confcooperative Toscana che ha verificato come il 15% di chi ha l’ha svolto in una delle Coop della rete ha poi trovato subito lavoro e il 40% ha ripreso il percorso di studi interrotto. Tornando sui fondi, Laura Milani, presidente della Conferenza Nazionale Enti per il Servizio Civile (Cnesc), associazione che raggruppa 28 enti a dimensione nazionale, dice: “È apprezzabile lo sforzo del Dipartimento per le politiche giovanili di integrare il bando. Ha usato parte dei risparmi dello scorso anno per portarlo a 52mila posizioni. Il Mef ha poi dato altri 10 milioni. Ma ne rimangono più di 30mila che non verranno finanziate, pari al 37% dei posti richiesti dagli enti in progettazione”. E ci sono territori scoperti. In Veneto, per esempio, dove su 13 enti accreditati nella sezione regionale che hanno presentato progetti, ben 10 sono fuori dal finanziamento e stanno pensando di fare un ricorso al Tar. E sono rimaste sguarnite interamente alcune province, come Belluno. Ma con una interrogazione parlamentare anche alcuni enti dell’Irpinia hanno lamentato che il loro territorio è scoperto. Netto il giudizio del presidente della Consulta Enrico Maria Borrelli che chiede “prospettive certe”: “Confidiamo non solo che si trovino le risorse per permettere anche nel 2025 a un contingente di almeno 50mila giovani di partire, ma soprattutto che si trovi il modo di stabilizzare il Servizio civile su questi numeri”. Insomma, bisogna uscire dalla precarietà, “non si può scoprire di anno in anno - conclude Borrelli - quante sono le risorse. Il Servizio civile ha più di 50 anni, ormai ha rilevato i bisogni, ha tutte le caratteristiche per uscire dalla fase della sperimentazione”. E se non si conoscono le risorse a disposizione, i 14mila enti accreditati “fanno un enorme lavoro di programmazione che viene sprecato”. Il potere, la critica e la social-dittatura di Massimo Cacciari La Stampa, 29 gennaio 2024 La tendenza del potere politico a esercitare un’influenza diretta sui media dell’informazione esprime una legge di natura più che un esplicito atto della volontà. Occorre un po’ di disincanto nell’affrontare il problema: chi esercita il potere, proprio perché lo esercita erga omnes, è inevitabilmente propenso a rappresentarsi come espressione della “volontà generale”. E la “volontà generale”, come è noto, tollera a fatica l’esercizio della critica. Questa, come dice il suo nome, è tale soltanto se giudica, analizza e divide. E deve farlo anche nei confronti di quelle posizioni con le quali magari si trova a concordare, poiché la sua funzione consiste appunto nello smascherare ogni pretesa o presunzione di totalità. Presunzione o illusione che il potere alimenta per forza. Chi vuole svolgere una funzione di critica dell’ordine di cose esistente e di coloro che lo governano pensi a farlo per bene e lasci perdere gli alti lai sulle pulsioni censorie di questi ultimi. Farlo bene significa formare e non semplicemente informare. Formare significa far conoscere, mostrare le cause di un fenomeno, indagarne le ragioni, interrogarne tutti i fattori. Formare è educare alla complessità del reale. Il potere si schiera - e sempre a favore di sé stesso. Chi informando forma, invece, giudica e prende parte, certo, ma non si schiera mai come fosse dogmaticamente certo della propria verità e mai prima di avere compiuto ogni sforzo per conoscere le ragioni anche delle posizioni che critica. C’è stata grande stampa, da noi e altrove, che ha così cercato di operare, attraverso indagini, inchieste, libera da pregiudizi, una stampa che con onestà intellettuale dichiara la propria parzialità senza mai cadere in caricaturali demonizzazioni dell’avversario. E ora? Cambia il contesto politico e cambia quello dell’informazione. Più un ceto politico è autorevole, più esso è stato formato, più sarà in grado di correggere quella sua naturale propensione a tollerare malamente l’esercizio della critica. E magari, alla fine, riuscirà anche a comprendere che democrazia è conflitto, arcipelago di culture e visioni del mondo, irriducibile a qualsiasi organicistica unità. Avviene l’opposto quando esso si affida a ritmo quotidiano a impressioni e sondaggi, quando il consenso di cui gode è l’immagine stessa dell’effimero. Esso sarà allora fisiologicamente costretto a cercare l’appoggio dei media e perciò a controllarne il lavoro per quanto possibile. Ma non sta qui il fattore che rende sempre più ardua la funzione di un’informazione davvero libera. Alle pretese del potere si può sempre rispondere “preferirei di no”. Ma come opporsi al sistema generale che oggi regola il mercato delle forme di comunicazione? È questo che travolge l’informazione tradizionale e dunque quelle isole di libertà critica che essa al proprio interno permetteva. Il sistema attuale o fornisce semplici raccolte di dati o accumula e diffonde nelle sue reti affetti, impulsi, pulsioni, una piena confusa di frustrazioni, rivendicazioni e desideri. Il sistema è organicamente strutturato per rendere impossibile la costruzione di un discorso critico e di un dialogo sulla sua base. Ed è esso che forma oggi l’opinione pubblica e la società civile. I grandi teorici della democrazia contemporanea avevano profetizzato un tale sviluppo già nel corso del XIX° secolo. Allora i giornali, che qualcuno chiamava “la preghiera laica del mattino”, espressione di tendenze politiche chiaramente definite, dovevano cercare di motivare razionalmente la propria posizione. Questa esigenza si è fatta via via più debole già col mercato televisivo, dove il discorso ha assunto sempre più le caratteristiche del lancio pubblicitario, fino a sparire programmaticamente nel multiverso di social e influencer. E in tale tempestoso oceano affonda anche la comunicazione e la propaganda politica. Il politico cerca il proprio consenso nella polverizzazione di opinioni che la rete presenta e riproduce, non si rivolge a soggetti sociali in qualche modo già formati, a sfere di interessi definite, ma a miriadi di puri individui attraverso miriadi di spot. Se questa situazione rende sempre più debole l’azione politica e di governo, sempre più fragile il consenso di cui può godere, essa, d’altra parte, contraddice per sua natura quell’istanza critico-razionale che dovrebbe contraddistinguere un’informazione libera. Quest’ultima, infatti, non può non fare i conti con la concorrenza poderosa della rete attraverso cui in grandissima misura si formano gli orientamenti della società civile. Da qui nascono le infelici quanto inefficaci imitazioni giornalistico-televisive delle forme di comunicazione social. Se politica e mondo dell’informazione riconoscessero che le loro difficoltà vengono essenzialmente dalla situazione storica e non da carenze soggettive (che ci sono, ma puro contorno), forse la prima capirebbe che un giornalismo critico potrebbe aiutarla a liberarsi dall’estenuante inseguimento dell’opinione, e il secondo si sforzerebbe con più decisione a definire la propria natura rispetto alle forme di comunicazione dominanti, senza fingere che la propria crisi derivi da prepotenti tensioni autoritarie di qualche Esecutivo. Utopistica questa intesa? Allora realistico è solo che politica e informazione subiscano il dominio dei nuovi Sovrani: i padroni delle reti. È stato detto, con assoluta ragione, che nessun regime del passato disponeva delle possibilità attuali per realizzare un controllo così totalitario dei comportamenti del pubblico. Un controllo che si trasforma in produzione di tendenze e prospettive. Ogni individuo è oggi un addetto di questo sistema, tutti siamo suoi lavoratori dipendenti. Non dovrebbe essere questo l’epocale problema su cui politica e giornalismo discutono, e discutono insieme, invece di smarrirsi in impotenti duelli? Non dovrebbe essere la loro reciproca libertà, e se e come essa possa non risolversi in nostalgie e lamenti, la questione all’ordine del giorno per entrambi? O è destino che la “nuova politica” finisca con l’identificarsi con la Sovranità della rete e l’informazione critica nel museo della democrazia? Le periferie delle città sono bombe sociali pronte a esplodere di Enzo Risso Il Domani, 29 gennaio 2024 I maggiori problemi avvertiti sono: scarsa manutenzione di proprietà pubbliche, disoccupazione, carenza di mezzi pubblici di trasporto, crescita della povertà, mancanza di spazi per i giovani, mancanza di servizi sanitari di base. Sono milioni gli italiani che vivono in periferia. Secondo un’analisi di alcuni anni fa ammontano a quasi 15 milioni le persone che risiedono nelle molteplici periferie urbane. L’Istat ha calcolato, sei anni fa, che nei capoluoghi metropolitani abitano più di 9,5 milioni di persone, di cui oltre un terzo (tre milioni e 200mila persone) alloggia in quartieri in cui il disagio economico è più evidente e marcato. Osservatorio di macrodinamiche - Le periferie urbane, inoltre, sono i luoghi nei quali si concentrano i tre processi connotanti le dinamiche demografiche italiane: l’invecchiamento della popolazione, la presenza di popolazione immigrata (regolare e non), la disarticolazione delle famiglie. I maggiori problemi avvertiti da parte di chi vive nelle periferie urbane sono la scarsa manutenzione di proprietà pubbliche (55 per cento), la disoccupazione o mancanza di opportunità di lavoro (53), la carenza di mezzi pubblici di trasporto (47), la crescita della povertà (46), la mancanza di spazi per i giovani (46), nonché la mancanza di servizi sanitari di base (44 per cento). L’elenco dei fattori di disagio, però, non si ferma qui. Vivere nelle periferie urbane porta con sé molteplici elementi di avversità. Al primo posto abbiamo il pentagono della violenza: spaccio di sostanze stupefacenti (35 per cento), presenza della criminalità (34), imperversare delle bande giovanili (33), dinamiche violente nella relazione tra persone (31), tensioni tra gruppi etnici differenti (25). A seguire abbiamo il quadrilatero dei fattori di decadenza, di disattenzione delle politiche, di abbandono sociale: scuole pubbliche che non forniscono istruzione di qualità (37 per cento), sporcizia e scarsa raccolta dei rifiuti (35), mancanza di parchi pubblici o spazi ricreativi (28), case fatiscenti (25). Infine, immancabile, il tema della congestione del traffico che viene rappresentato dal 37 per cento dei residenti nelle periferie italiche. Ma anche tra le periferie ci sono quelle di serie A e quelle di serie B, più abbandonate, più dimenticate. E questa linea di demarcazione incrocia quella tra nord e sud. Il tema della scarsa manutenzione di proprietà pubbliche è al 46 per cento al nord, mentre al sud vola al 61 per cento. La disoccupazione è un aspetto che attanaglia il 71 per cento dei residenti nel Mezzogiorno, contro il 41 per cento del nord. Di pari passo si muove il tema della povertà, segnalato dal 60 per cento nel sud e dal 38 al nord. Stessa distanza sulla mancanza di spazi per i giovani (64 per cento al sud e 38 al nord), sulla carenza di mezzi pubblici di trasporto (59 per cento nel Mezzogiorno e 44 nel settentrione). Il quadro delle periferie del Mezzogiorno d’Italia porta con sé altre emergenze, come quella della sporcizia e scarsa raccolta dei rifiuti (47 per cento al sud e 25 al nord), della carenza di parchi pubblici o spazi ricreativi (42 per cento al sud e 20 al nord), della mancanza di servizi sanitari di base (58 contro 35). Le periferie da nord a sud vivono e subiscono le medesime intensità rispetto a problematiche come l’imperversare delle bande giovanili (38 per cento al sud e 36 al nord), la congestione del traffico (sempre 38 a 36), la presenza della criminalità (38 per cento al sud e 33 al nord), lo spaccio di droga (41 per cento al sud e 31 al nord), la violenza (33 per cento al sud e 31 al nord). Unico tema in cui nelle periferie del nord va peggio è quello legato alle tensioni sociali tra diversi gruppi etnici (28 per cento al nord e 25 al sud). Narrazione che stigmatizza - Sulle periferie si concentra una dimensione narrativa e simbolica determinata dalla stigmatizzazione e auto stigmatizzazione di chi vi risiede, che mette al centro la relazione tra questi luoghi e la concentrazione di diseguaglianze. Le periferie sono luoghi in cui i residenti stessi si percepiscono come avvolti in un destino ineluttabile, come espressione di una profonda alterità sociale e culturale. Abitare in periferia diviene un destino, sinonimo di trappola insidiosa, in un coacervo di flussi legati alla povertà monetaria e abitativa. In esse si sviluppa quello che i sociologi dei sistemi urbani chiamano “effetto del vicinato”: vivere, andare a scuola, frequentare solo persone in condizioni di svantaggio. La segregazione urbana, lo stato di abbandono in cui versano molti quartieri periferici italiani sono al centro della crisi contemporanea delle città. La mancanza di coesione sociale nella relazione tra centro e periferia è uno degli ostacoli primari allo sviluppo e all’integrazione urbana. L’immobilismo sul tema periferie ha portato a una crescita delle forme di disagio e dei portati rabbiosi. Sarebbe utile non attendere la prossima esplosione sociale per affrontare questa frattura sociale e cercare di ricucirla con una strategia lungimirante e di lungo periodo. Quel piano Mattei che non arriva mai di Alessandro De Angelis La Stampa, 29 gennaio 2024 Più volte annunciato (sin dal discorso di insediamento) e dato come imminente, il famoso “piano Mattei” è stato il vero “Godot” del governo. Lost in “cabina”: perso nell’ennesima cabina di regia, pletorica quanto basta, piuttosto generica negli obiettivi, con pochi denari da spendere. Di concreto, al momento, ci sono solo gli accordi siglati dall’Eni, l’anno scorso di questi tempi, in Algeria e Libia, entrambi utili all’Italia soprattutto sul gas. E proprio il fantasioso e costosissimo accordo con l’Albania di questo ritardo ha rappresentato l’icastica conferma: invece di mettere le basi, in Italia e soprattutto in Europa con un certo vigore, per un approccio “strutturale” al tema Africa, Giorgia Meloni, con un occhio al numero degli arrivi e uno alle elezioni, ha puntato sulla logica squisitamente emergenziale con il ricorso a un paese terzo modello Rwanda. Che, come noto, non funziona neppure in termini di deterrenza. Al di là del fatto che Godot non si appaleserà, in termini di progetti concreti, nemmeno oggi nel corso dell’imponente Conferenza Italia-Africa che si svolgerà a palazzo Madama, l’appuntamento tuttavia è cruciale per capire se siamo davvero di fronte a un vero cambio di paradigma politico. Giorgia Meloni che riunisce a Roma i capi di Stato e di governo dell’Unione Africana, i vertici europei e i rappresentanti di svariate sigle internazionali (dalla Banca Mondiale all’Onu) è la stessa che, alla guida di un partito euro-scettico, proponeva, nel suo programma elettorale, una “separazione” dall’Africa. Separazione, da realizzare attraverso il “blocco navale”, rispetto a un continente percepito come una minaccia, con annesso pregiudizio verso i musulmani. Per quanto sia tutto in fieri, la Conferenza di Roma rivela, quantomeno nei presupposti, un affrancamento dall’impostazione pregressa. L’idea cioè che il futuro dell’Europa, inteso come opportunità, si gioca in Africa su molti dossier: energia, squilibrio demografico e immigrazione, sicurezza e terrorismo. È vera in sé, ancor di più dopo che Putin ne ha fatto il secondo fronte della sua guerra asimmetrica e dopo l’esplosione della crisi Medio Orientale. E ci sono le condizioni di contesto, che la premier sembra voler cogliere, affinché l’Italia, per vocazione e collocazione, possa fare da apripista, proprio nel momento in cui in Europa la Francia ha perso influenza nelle sue ex colonie (Sael, Mali e Centrafrica) e la Germania non ha un rapporto coi paesi africani. Insomma, per Giorgia Meloni si apre una sfida vera, il cui carattere strategico per l’interesse nazionale si misurerà proprio nella capacità di coinvolgere concretamente l’Europa, superando la chiacchiera domestica sul “piano Mattei” (difficile che possa chiamarsi così un piano europeo), sventolato per nascondere il default degli sbarchi. Proprio perché è una sfida vera l’appuntamento odierno fissa comunque un punto di non ritorno. Se venisse declinato solo con la leggerezza di una vetrina elettorale non sarebbe a costo zero, ma una specie di “caso Saied” su larga scala, caso emblematico di un accordo mal gestito e diventato un boomerang. Più impegnativo, nelle sue conseguenze da gestire, di un duello tv prima delle Europee. Quadro raggelante su Gaza: 16 Ong chiedono lo stop immediato all’invio di armi di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 29 gennaio 2024 Sedici organizzazioni umanitarie e per i diritti umani hanno chiesto a tutti gli stati di porre immediatamente fine ai trasferimenti di armi, componenti e munizioni a Israele e ai gruppi armati palestinesi, in quanto vi è il rischio che questi materiali siano usati per commettere o facilitare gravi violazioni del diritto internazionale dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario. I bombardamenti e l’assedio di Israele stanno privando la popolazione civile della Striscia di Gaza delle risorse indispensabili per sopravvivere e stanno rendendo inabitabile quel territorio. Attualmente, la popolazione civile di Gaza sta affrontando una crisi umanitaria di gravità e dimensione senza precedenti. Dalla Striscia di Gaza, i gruppi armati palestinesi continuano a lanciare indiscriminatamente razzi contro i centri abitati israeliani, interrompendo la frequenza scolastica, costringendo persone a lasciare le loro abitazioni e minacciando la vita e il benessere dei civili. La presa di ostaggi - oltre 130 ancora trattenuti a Gaza - e gli attacchi indiscriminati sono chiare violazioni del diritto internazionale umanitario. Agenzie umanitarie, gruppi per i diritti umani, funzionari delle Nazioni Unite e oltre 153 stati membri chiedono un immediato cessate il fuoco: consentirebbe una risposta umanitaria efficace, oggi impedita dall’intensità dei combattimenti. Il quadro fatto dalle 16 ong è raggelante: secondo il ministero della Salute di Gaza, in meno di quattro mesi sono stati uccisi oltre 25.000 palestinesi, almeno 10.000 dei quali minorenni. Altre migliaia di persone sono sotto le macerie e dunque presumibilmente morte; oltre 62.000 persone sono rimaste ferite, molte con danni o disabilità permanenti: tra queste, oltre 1000 minorenni che hanno perso uno o più arti superiori o inferiori; secondo le Nazioni Unite, un numero imprecisato di civili palestinesi, minorenni compresi, è sottoposto a detenzione illegale e dev’essere rimesso in libertà; ogni giorno, i palestinesi continuano a essere uccisi nelle zone dove il governo israeliano aveva detto loro di evacuare. Nella prima settimana del 2024, un attacco aereo ha ucciso 14 persone, per lo più bambini, nei pressi di un’area che le forze israeliane avevano indicato come “zona umanitaria”; oltre l’85 per cento della popolazione di Gaza, ossia 1.900.000 persone, è vittima di sfollamento. Queste persone hanno eseguito gli ordini israeliani di evacuare a sud e ora sono strette in un fazzoletto di terra inadeguato alla vita umana, diventato terreno di coltura per la diffusione di epidemie; oltre mezzo milione di palestinesi della Striscia di Gaza è alla fame e oltre il 90 per cento della popolazione è in una fase di acuta incertezza alimentare: si tratta della più alta percentuale mai registrata dalle agenzie umanitarie; oltre il 70 per cento delle abitazioni di Gaza, buona parte delle sue scuole e delle sue infrastrutture idriche e sanitarie sono state distrutte o danneggiate, lasciando la popolazione quasi senza alcun accesso all’acqua potabile; non una sola struttura sanitaria è pienamente operativa e quelle che lo sono parzialmente sono sopraffatte dal numero di persone con traumi e dalla mancanza di forniture mediche e di medici. Sono stati uccisi oltre 300 operatori sanitari; a Gaza sono stati uccisi almeno 167 operatori umanitari, il più alto numero registrato nei conflitti di questo secolo. Le 16 ong chiedono al Consiglio di sicurezza di adempiere alla sua responsabilità di mantenere la pace e la sicurezza a livello globale adottando misure che fermino i trasferimenti di armi al governo israeliano e ai gruppi armati palestinesi. Le organizzazioni firmatarie sono: Federation Handicap International - Humanity & Inclusion, War Child Alliance, Christian Aid, Norwegian Peoplès Aid, Médecins du Monde International Network, Mennonite Central Committee, Medico International, Oxfam, Center for Civilians in Conflict (CIVIC), Danish Refugee Council, Save the Children, Plan International, Norwegian Refugee Council, Diakonia, Amnesty International e American Friends Service Committee (AFSC). *Portavoce di Amnesty International Italia Dove c’era il Triangolo d’oro ora c’è un buco nero dell’illegalità di Stefano Vecchia Avvenire, 29 gennaio 2024 La mafia cinese tra Laos, Cambogia, Thailandia e Myanmar, ha allestito un “hub” dell’azzardo online, di traffici di ogni genere e reati informatici che miete milioni di vittime a partire dalla Cina. Dove una volta c’era il Triangolo d’Oro, c’è oggi un buco nero che ingoia risorse, diritti, vite e dignità di migliaia e migliaia di individui e che in cambio produce veleni, inquinamento, sopraffazione e paura per molti, benessere e potere per pochi. Strategica oggi come un tempo, quella che era considerata un’area nel cuore dell’Asia esotica per ambiente, etnie e mescolanza di culture, strategica per il confronto tra i nazionalisti cinesi che qui impiantarono una guerriglia alimentata da eroina e armi di contrabbando e i comunisti di Pechino, oggi è hub internazionale di gioco d’azzardo, traffici di ogni genere e reati informatici che mietono milioni di vittime a partire dalla Repubblica popolare cinese da cui provengono i maggiori investitori e gestori di attività criminali verso le quali Pechino misura attentamente ritorsioni e distrazione in funzione dei suoi interessi e strategie che coinvolgono Laos, Cambogia, Tailandia, e soprattutto, Myanmar. Quest’ultima in particolare ha da tempo attirato l’attenzione di reti transnazionali dedite ad attività illecite, inclusa la tratta di esseri umani. A partire da quella responsabile della sorte di migliaia di Rohingya in fuga dalla violenza dei militari in buona parte rifugiati senza prospettive in Bangladesh ma non rassegnati alla vita nei campi. Per l’Alto commissariato Onu per i rifugiati su 4.500 che lo scorso anno hanno lasciato il Bangladesh o il Myanmar rischiando la traversata via mare del Golfo del Bengala sarebbero 569 i morti accertati. Il numero più alto in un solo anno dopo il 2014. Le storie dei sopravvissuti raccontano non soltanto delle tempeste e della sete ma anche dei trafficanti e delle violenze subite, soprattutto da donne e bambini che sono i due terzi dei partenti. Come per lo sfruttamento dei Rohingya, l’estensione dei profitti connessi con la produzione e il commercio di sostanze stupefacenti, ma sempre più anche di casinò illegali e frodi di ogni genere e livello sembra inarrestabile. Se le stime più attuali indicano in 60-70 miliardi all’anno il valore delle sole metanfetamine usate localmente o esportate e se qui l’oppio ha recuperato lo scorso il primato mondiale, si teme che quello dell’utilizzo fraudolento di Internet possa presto superarlo, con una serie di altre attività - a partire dagli scambi clandestini di criptovalute e sistemi finanziari paralleli - che vanno a loro volta imponendosi anche come strumenti per il riciclaggio di denaro e garantiscono enormi profitti a gruppi armati e organizzazioni criminali. In Myanmar, 55 milioni di abitanti, che dall’indipendenza è vissuto nello sbando della legalità, perlopiù sottoposto a dittature brutali e con un costante confronto tra gruppi di potere, etnie e interessi internazionali sul suo territorio, tutto questo si è evoluto in un sistema parallelo a quello statale, a sua volta minato da corruzione, repressione e violazioni dei diritti umani. Non è un caso se il valore delle sole truffe informatiche gestite alla frontiera settentrionale dello Stato Shan prossima al confine cinese è oggi calcolato in 14 miliardi di dollari. Il fatto che attività le cui dimensioni vanno svelandosi anche grazie all’avanzata sul terreno delle milizie etniche che si confrontano con i militari del regime sia gestito da quattro clan di origine cinese sotto la tutela finora delle forze armate birmane fa capire la posta in gioco, sia nel tentativo dei militari di soggiogare il Paese, sia in quello dei gruppi etnici di liberarsi da questo giogo e gestire autonomamente le risorse locali sia, infine, il ruolo della Repubblica popolare cinese nel controllare possibilità e collocamento internazionale di questo sfortunato Paese. Lo scorso anno le autorità di un regime non riconosciuto se non da alleati storici della dittatura, Cina, Russia e Corea del Nord anzitutto, hanno rimpatriato 41mila individui coinvolti spesso con coercizione nelle varie forme di criminalità informatica a cui oltreconfine ha corrisposto una repressione che ha portato all’arresto di oltre 70mila persone come parte di una campagna per liberare la Cina da questa nuova piaga. Le voci della resistenza danno però per certo il salvataggio con elicotteri militari dei capi delle gang cinesi alla caduta di Laukkai, finora l’abitato principale conquistato dai miliziani dell’Esercito dell’Alleanza democratica nazionale e “capitale” delle frodi informatiche e dell’azzardo via Internet del Sud-Est asiatico. Uno degli obiettivi dichiarati dell’Offensiva 1027, così chiamata perché avviata il 27 ottobre, era proprio di chiudere la partita con attività che la giunta guidata dal generale Min Aung Hlain ha favorito tra le molte illegali di cui beneficia e con cui alimenta la repressione finendo però per collidere con Pechino riguardo le iniziative criminali che prendono di mira cittadini e interessi cinesi e per il timore che le attività belliche aprano a un flusso di profughi verso il territorio cinese. Una situazione che chiarisce, attualizzandola, come in Myanmar abbiano giocato finora pesi e contrappesi che hanno perpetuato instabilità e illegalità da cui molti traggono vantaggio. A sollecitare la nuova presa di potere delle forze armate il primo febbraio 2021 dopo un decennio di precaria democrazia guidata dalla Premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi è stata la paura che il Parlamento uscito dalle elezioni del novembre precedente potesse avviare un processo di revisione della Costituzione che avrebbe tolto ai militari il diritto di veto su ogni iniziativa politica. Una possibilità che li avrebbe privati di ampi benefici economici nella gestione di frontiere, energia e miniere, ma che avrebbe anche aperto le porte dei tribunali e del carcere per i gestori di mezzo secolo di dittatura vissuta nella sostanziale impunità internazionale. Il golpe di tre anni fa non ha avuto alcuna condanna dai governi tradizionalmente vicini ai militari che in sede Onu hanno continuato a opporre veti a condanne e sanzioni riattivando il flusso di armi per la repressione e quello contrario di narcodollari e risorse naturali, mentre altri sono rimasti neutrali nel confitto che dal golpe è derivato. I due attori principali, militari e movimento democratico con il ruolo centrale della Lega nazionale per la democrazia di Aung San Suu Kyi, sono tuttavia solo due di quelli in scena nel Paese. Soprattutto nelle aree frontaliere che hanno subito la ridefinizione dei confini internazionali alla fine del controllo britannico nel 1948 il contrasto storico tra maggioranza birmana (di etnia bamar) e le consistenti minoranze che costituiscono nel complesso un terzo della popolazione del Myanmar è sempre stata vissuta sui piani dell’identità e del controllo di ingenti risorse: dalle acque per la produzione idroelettrica alle foreste, dalle pietre preziose all’oppio e alle droghe sintetiche. Le divisioni interne alle etnie che spesso si sono dotate di proprie milizie in funzione di autonomia dai birmani ma anche di potere tra fazioni e leader propri, sono state una costante. Così, in uno dei Paesi dell’Asia con il maggiore potenziale di crescita e progresso, coinvolto in una guerra civile al momento senza sbocchi, le previsioni segnalano per quest’anno un Pil di 65 miliardi di dollari e quasi tutti gli indicatori economici e sociali in calo. Oppio, pietre preziose e lo sfruttamento delle aree oscure di Internet continueranno a garantire enormi profitti; il controllo delle risorse ad alimentare divisione e sofferenza.