Affettività in carcere, la Consulta boccia il divieto: cade il tabù della sessualità di Angela Stella L’Unità, 28 gennaio 2024 La Corte costituzionale dichiara illegittima la norma dell’ordinamento penitenziario che nega incontri senza controllo visivo tra i detenuti e i partner. Anastasia: “Finalmente cade il tabù della sessualità”. Delmastro: “Le sentenze non si commentano, si eseguono”. Il divieto resta per 41bis e sorvegliati speciali. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 10 del 2024, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 della legge sull’ordinamento penitenziario, nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del suo comportamento in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né, riguardo all’imputato, ragioni giudiziarie. Dunque ieri la Consulta con questa decisione (Presidente Barbera, relatore Petitti) va a garantire il diritto all’affettività in carcere. La questione era stata sollevata dal magistrato di sorveglianza di Spoleto, Fabio Gianfilippi. Il caso riguardava un detenuto, recluso dall’11 luglio 2019, attualmente con posizione giuridica di definitivo, con fine pena al 10 aprile 2026, nella cui prospettiva non c’è la concessione dei permessi premio. Inoltre i locali del carcere di Terni destinati ai colloqui con i familiari appaiono comunque inidonei ad assicurare l’esercizio della affettività, ivi compresa la sessualità, in condizioni di privacy. “L’ordinamento giuridico” - ha affermato la Corte in una nota - “tutela le relazioni affettive della persona nelle formazioni sociali in cui esse si esprimono, riconoscendo ai soggetti legati dalle relazioni medesime la libertà di vivere pienamente il sentimento di affetto che ne costituisce l’essenza. Lo stato di detenzione può incidere sui termini e sulle modalità di esercizio di questa libertà, ma non può annullarla in radice, con una previsione astratta e generalizzata, insensibile alle condizioni individuali della persona detenuta e alle specifiche prospettive del suo rientro in società”. La norma censurata, nel prescrivere in modo inderogabile il controllo a vista sui colloqui del detenuto, gli impedisce di fatto di esprimere l’affettività con le persone a lui stabilmente legate, anche quando ciò non sia giustificato da ragioni di sicurezza. La Corte ha pertanto riscontrato la violazione degli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. per la irragionevole compressione della dignità della persona e per l’ostacolo che ne deriva alla finalità rieducativa della pena. I giudici costituzionali rilevano “un ulteriore profilo di irragionevolezza” dei limiti della norma censurata ossia “il loro riverberarsi sulle persone che, legate al detenuto da stabile relazione affettiva, vengono limitate nella possibilità di coltivare il rapporto, anche per anni. Si tratta di persone estranee al reato e alla condanna, che subiscono dalla descritta situazione normativa un pregiudizio indiretto”. La Corte ha poi rammentato che una larga maggioranza degli ordinamenti europei riconosce ormai ai detenuti spazi di espressione dell’affettività intramuraria: “si ricordano i parlatori familiari (parloirs familiaux) e le unità di vita familiare (unités de vie familiale), locali appositamente concepiti nei quali il codice penitenziario francese prevede possano svolgersi visite di familiari adulti, di durata più o meno estesa, “sans surveillance continue et directe”; con funzione analoga si segnalano le comunicaciones íntimas, disciplinate dal regolamento penitenziario spagnolo, e le visite di lunga durata (Langzeitbesuche), ammesse dalla legislazione penitenziaria di molti Länder tedeschi”. La Consulta dà delle indicazioni rispetto a come dovrebbe applicarsi ora il nuovo diritto: “La durata dei colloqui intimi deve essere adeguata all’obiettivo di consentire al detenuto e al suo partner un’espressione piena dell’affettività, che non necessariamente implica una declinazione sessuale, ma neppure la esclude. In quanto finalizzate alla conservazione di relazioni affettive stabili, le visite in questione devono potersi svolgere in modo non sporadico (ovviamente qualora ne permangano i presupposti), e tale da non impedire che gli incontri possano raggiungere lo scopo complessivo di preservazione della stabilità della relazione affettiva”. Ad esempio “può ipotizzarsi che le visite a tutela dell’affettività si svolgano in unità abitative appositamente attrezzate all’interno degli istituti, organizzate per consentire la preparazione e la consumazione di pasti e riprodurre, per quanto possibile, un ambiente di tipo domestico”. Tuttavia la Corte “è consapevole dell’impatto che l’odierna sentenza è destinata a produrre sulla gestione degli istituti penitenziari, come anche dello sforzo organizzativo che sarà necessario per adeguare ad una nuova esigenza relazionale strutture già gravate da persistenti problemi di sovraffollamento” pertanto “nell’indicare alcuni profili organizzativi implicati dalla propria pronuncia, la Corte ha auspicato un’”azione combinata del legislatore, della magistratura di sorveglianza e dell’amministrazione penitenziaria, ciascuno per le rispettive competenze”, con la gradualità eventualmente necessaria”. Infine, la Corte ha precisato che la sentenza non riguarda i detenuti al 41 bis né quelli sottoposti alla sorveglianza particolare. Proprio il Sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro delle Vedove ci rassicura: “le sentenze non si commentano ma si eseguono. Prendiamo innanzitutto atto che sono stati esclusi i detenuti al 41bis e quelli sottoposti a sorveglianza speciale. Per il resto risponderemo a quanto la Corte chiede al legislatore e garantiremo questo diritto in una cornice di legalità, di sicurezza e di mantenimento dell’ordine e della disciplina”. “Finalmente, grazie alla Corte costituzionale, le relazioni affettive dei detenuti e delle detenute si arricchiscono della possibilità di incontri riservati e cade il tabù della sessualità in carcere. Ora tocca all’Amministrazione penitenziaria garantire l’effettiva possibilità dell’esercizio di questo diritto che non potrà che migliorare le condizioni di vita in carcere”: così Stefano Anastasia, Garante dei detenuti del Lazio. “Ora il Parlamento discuta la nostra proposta di legge - ha dichiarato il Parlamentare di +Europa Riccardo Magi - in modo da adeguare la realtà delle carceri italiane alle indicazioni della Corte. Il legislatore non può più esimersi da una riforma dell’ordinamento penitenziario che includa una tutela delle relazioni affettive intime. Di recente, peraltro, in occasione delle Comunicazioni del Ministro Nordio, alla Camera abbiamo presentato una risoluzione, approvata in Aula, che, tra le altre cose, impegna il Governo ad elaborare uno studio di fattibilità proprio per valutare le migliori modalità per garantire questo diritto ai detenuti”. “È un buon inizio della Presidenza di Augusto Barbera alla Corte costituzionale - per i dirigenti di Nessuno tocchi Caino Rita Bernardini, Sergio D’Elia ed Elisabetta Zamparutti. La sentenza sul diritto all’affettività e alla sessualità in carcere è all’insegna della tutela dei diritti umani fondamentali anche delle persone private della libertà. Siamo sempre stati convinti che bisogna riporre fiducia e infondere speranza nelle alte giurisdizioni, dalla Corte europea dei diritti dell’uomo alla Corte costituzionale, per porre un limite al potere totalitario dello Stato sui corpi in carcere”. Per il costituzionalista Andrea Pugiotto, ideatore dell’appello rivolto ai giudici costituzionali affinché dichiarassero l’incostituzionalità della norma “La lunga gestazione della sentenza (quasi due mesi dall’udienza del 5 dicembre scorso) lasciava presagire una decisione articolata, attenta agli interessi costituzionali in gioco. La lettura della sua motivazione e del relativo dispositivo conferma tali aspettative. È di assoluto rilievo che la Corte - diversamente da quanto accaduto dodici anni fa - abbia dichiarato l’incostituzionalità” della norma “in ragione dell’inderogabilità del controllo visivo sui colloqui penitenziari. Anche riconoscendo che un simile divieto si ripercuote negativamente e dolorosamente sul detenuto, sul suo partner, sull’intero nucleo familiare. Così come è coerente con il principio di eguaglianza che ai colloqui intimi ora riconosciuti siano ammessi - senza distinzione - il coniuge, la parte di unione civile (anche dello stesso sesso), il convivente. All’attuazione progressiva del diritto ora riconosciuto è dedicata la parte in cui la sentenza traccia le linee guida cui potrà ispirarsi in futuro il legislatore, finora latitante. Si tratta di principi cui - nel frattempo - dovranno attenersi l’amministrazione penitenziaria e la magistratura di sorveglianza. È soprattutto qui che la Corte condiziona la titolarità o l’esercizio del diritto all’intimità in carcere, facendosi così carico delle esigenze di sicurezza penitenziaria collettiva e di ragioni giudiziarie individuali”. Infine per il professore “andrà letta e riletta la sentenza dopo questa prima impressione, certamente positiva. Soprattutto, andrà monitorato con grande attenzione il suo seguito. A cominciare dalle reazioni scomposte e indignate che - c’è da scommettere - non mancheranno, tra i tanti che al volto costituzionale della pena preferiscono quello truce di una pena corporale”. Infine per l’associazione Antigone, che era nel procedimento davanti alla Corte con un proprio atto di intervento, si tratta di una “sentenza storica”. Speriamo dia speranza ai detenuti nel giorno in cui nel carcere di Rossano è avvenuto l’undicesimo suicidio dall’inizio dell’anno. La Corte Costituzionale ribadisce che l’affettività è un diritto anche in carcere di Roberta Covelli fanpage.it, 28 gennaio 2024 La norma dell’ordinamento penitenziario che impone il controllo a vista dei detenuti durante i colloqui con i familiari è irragionevole, e quindi incostituzionale, perché slegata da ogni valutazione sulle effettive esigenze di sicurezza, oltre che contraria alla funzione rieducativa della pena. Con la sentenza 10 del 2024, la Consulta ha dichiarato incostituzionale la previsione penitenziaria che impone, in maniera assoluta e indiscriminata, il controllo a vista dei colloqui dei detenuti. Nella sua decisione, la Corte Costituzionale richiama i diritti della persona, la cui dignità deve essere conservata anche in carcere, ricostruisce il contesto giuridico italiano e sovranazionale e richiama, per l’ennesima volta, il legislatore alle sue responsabilità. Il contrasto con i diritti dell’obbligo di controllo a vista nei colloqui dei detenuti - La norma contestata dinanzi alla Consulta è l’articolo 18 della legge 354/1975, sull’ordinamento penitenziario, che prevede che “i colloqui si svolgono in appositi locali sotto il controllo a vista e non auditivo del personale di custodia”. Secondo il magistrato di sorveglianza di Spoleto, che ha sollevato la questione di costituzionalità su reclamo di un detenuto, la regola in questione sarebbe in contrasto con diverse norme costituzionali, dal momento che il controllo visivo costante e assoluto, anche nei colloqui con il coniuge, impongono al detenuto “un vero e proprio divieto di esercitare l’affettività in una dimensione riservata, e segnatamente la sessualità”. La libera espressione di affettività rientra infatti tra i diritti fondamentali della persona, che l’art. 2 Cost. riconosce all’individuo “sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”. Privare i detenuti dell’esercizio di questo diritto si tradurrebbe anche, secondo il magistrato di sorveglianza, in un’eccessiva compressione della libertà personale, tutelata dall’art. 13 Cost., oltre che in una lesione dei rapporti familiari, tutelati dalle norme costituzionali sulla famiglia (artt. 29-30-31). Soprattutto, e sono proprio queste ultime le censure accolte dalla Corte Costituzionale, la norma penitenziaria appare in contrasto sia con il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.), sia con i diritti sovranazionali riconosciuti dalla CEDU, la Convenzione europea dei diritti umani, dal momento che la coattiva privazione di affettività si tradurrebbe in un trattamento inumano e degradante, in ogni caso inadeguato alla funzione di rieducazione e risocializzazione dei detenuti. Il precedente del 2012 e il monito al legislatore - La Corte Costituzionale si era già espressa sull’art. 18 ord. pen. con la sentenza 301 del 2012. Il risultato, in quel caso, era stata la dichiarazione di inammissibilità della questione sollevata, e non solo perché il caso concreto non era illustrato adeguatamente. Secondo la Consulta, infatti, sarebbe stato necessario che il legislatore risolvesse, con norme chiare e misure operative, l’incostituzionalità segnalata, bilanciando il diritto all’affettività dei detenuti e dei loro partner con le esigenze di sicurezza. Proprio per questo, anche in quel caso, nonostante l’inammissibilità della questione, la Corte aveva sottolineato il problema dell’affettività e della sessualità dei detenuti come meritevole di “particolare attenzione nelle competenti sedi politiche”. In più di dieci anni, sul punto, il legislatore italiano ha fatto qualcosa, ma non abbastanza da risolvere la questione che ha condotto la Corte Costituzionale a quest’ultima decisione. Le evoluzioni di norme e sensibilità: gli esempi italiani ed europei - Tra il 2017 e il 2018 ci sono state delle modifiche alla legge sull’ordinamento penitenziario, tra cui la previsione secondo cui “i locali destinati ai colloqui con i familiari favoriscono, ove possibile, una dimensione riservata del colloquio e sono collocati preferibilmente in prossimità dell’ingresso dell’istituto”. A questo si aggiungono le previsioni in materia di istituti minorili, con il riconoscimento del diritto a visite con i familiari medio-lunghe (più di quattro ore e meno di sei). Queste nuove norme lasciano intravedere una maggiore consapevolezza sulla necessità di spazio e tempo di risocializzazione del detenuto con le persone con cui ha stabili relazioni affettive. La Corte costituzionale, nel dichiarare fondata la questione sollevata dal magistrato di sorveglianza di Spoleto, sottolinea anche che “una larga maggioranza di ordinamenti europei riconosce ai detenuti spazi più o meno ampi di espressione dell’affettività intramuraria, inclusa la sessualità”. Tra gli esempi cita il sistema francese, con i parlatori familiari (parloirs familiaux) e le unità di vita familiare (unités de vie familiale) che cercano di preservare la dimensione domestica di visite e colloqui, nonché le comunicaciones íntimas del regolamento penitenziario spagnolo e le visite di lunga durata (Langzeitbesuche) previste nei regolamenti penitenziari di diversi Länder tedeschi. La pena dei partner e il paradosso dei permessi premio - La Consulta, nel dichiarare incostituzionale la norma sui colloqui, sottolinea soprattutto la sua irragionevolezza: l’imposizione al personale di custodia nelle carceri di assistere ai colloqui, attraverso un controllo visivo costante, rappresenta infatti una misura assoluta, sproporzionata rispetto alle esigenze di ordine e sicurezza, oltre che lesiva non solo della libertà affettiva dei detenuti, ma anche di quella dei loro partner. I familiari di un detenuto infatti, sottolinea la Corte, sono “persone estranee al reato e alla condanna”, che pure subiscono un pregiudizio indiretto. Se pure è inevitabile che l’impatto della pena si riverberi in una certa misura sulle persone legate al condannato, è irragionevole privare del tutto detenuto e partner dell’intimità affettiva “quando il colloquio possa essere svolto in condizioni di intimità senza che abbiano a patirne le esigenze di sicurezza”. L’unica maniera attraverso cui un detenuto possa vivere le relazioni affettive con il partner è infatti al di fuori delle mura del carcere, durante l’eventuale fruizione dei permessi premio. Tanto il ricorrente, quanto l’associazione Antigone (intervenuta nel giudizio in qualità di amicus curiae) segnalano tuttavia due criticità, una di principio e una di fatto. Da un lato, infatti, bisogna ricordare che l’esercizio dei diritti fondamentali non può rispondere a logiche premiali: se esiste una libertà legata all’individuo il suo esercizio deve essere garantito sempre, non come ricompensa. Dall’altro, la fruizione dei permessi premio “resta in fatto preclusa a larga parte della popolazione carceraria”. Questi benefici infatti sono parte del trattamento penitenziario da cui quindi sono esclusi sia i detenuti in attesa di giudizio (che, è il caso di ricordarlo, sono presunti non colpevoli), sia i condannati a pene brevi, dal momento che i permessi premio sono concessi in caso di condanna superiore a quattro anni qualora sia già stato scontato più di un quarto della pena. Si arriva quindi al paradosso di privare del diritto all’espressione di affettività i detenuti con pene minori o perfino presunti non colpevoli. L’irragionevolezza di una norma penitenziaria assoluta e inderogabile - La censura della Corte costituzionale tiene ovviamente conto delle esigenze di ordine e sicurezza. Restano infatti ferme le misure speciali di detenzione e di sorveglianza, ma si riconosce l’irragionevolezza di una norma che rischia di essere eccessivamente afflittiva in assenza di esigenze di sicurezza. La Consulta si limita quindi a rendere più flessibile la regola sul controllo a vista, considerandola derogabile in assenza di ragioni di sicurezza, giudiziarie o di mantenimento dell’ordine e della disciplina carceraria, e ricordando, di nuovo, che “la complessità dei problemi operativi che ne scaturiscono sollecita ancora una volta la responsabilità del legislatore”. L’irragionevolezza denunciata riguarda insomma l’assolutezza della norma, che impedisce in ogni caso la libertà affettiva e sessuale, senza valutare le effettive esigenze di custodia. Lo stato di detenzione può incidere sui termini e sulle modalità di esercizio di questa libertà, ma non può annullarla in radice, con una previsione astratta e generalizzata, insensibile alle condizioni individuali della persona detenuta e alle specifiche prospettive del suo rientro in società. La “desertificazione affettiva” è contraria alla funzione rieducativa della pena - Il rientro in società del detenuto resta infatti un elemento centrale nella concezione (almeno teorica) della pena in uno stato di diritto. Proprio per questo, richiamando tanto l’art. 8 CEDU, quanto l’art. 27 Cost., la sentenza della Consulta sottolinea la funzione rieducativa alla base del trattamento carcerario, che non deve essere una misura solamente afflittiva, ma deve puntare al miglioramento umano e alla risocializzazione del condannato, che risulta già di per sé difficile in carceri sovraffollate, con carenza di risorse e investimenti. Sul punto, sottolinea la Corte, il costante controllo a vista durante i colloqui con i familiari si pone in senso opposto alla funzione rieducativa. Il perseguimento di questo obiettivo risulta anzi gravemente ostacolato dall’indebolimento delle relazioni affettive, che può arrivare finanche alla dissoluzione delle stesse, giacché frustrate dalla protratta impossibilità di coltivarle nell’intimità di incontri riservati, con quell’esito di “desertificazione affettiva” che è l’esatto opposto della risocializzazione. Al di là delle considerazioni etiche sui princìpi di dignità e civiltà, la funzione rieducativa della pena, così come la tutela dei diritti e delle libertà dei detenuti, non è buonismo, ma un investimento sociale necessario. La delinquenza è infatti l’uscita dal contesto legale: il modo migliore per costruire una società più sicura è far sì che anche chi ha commesso reati abbia l’occasione di migliorare sé stesso, attraverso relazioni sociali di qualità e spazi di espressione. La sentenza 10/2024 della Corte Costituzionale punta proprio a quest’obiettivo, riaffermando il diritto all’intimità e all’affettività dei detenuti e dei loro familiari, attraverso la dichiarazione di incostituzionalità di una norma rigida e irragionevole, e con la speranza che il monito al legislatore sia finalmente raccolto. La rimozione del sesso dal carcere di Giulia Siviero ilpost.it, 28 gennaio 2024 È un diritto fondamentale, ma trascurato per ragioni sia pratiche che ideologiche: se ne riparla dopo una recente sentenza della Corte Costituzionale. L’Italia non ammette che le persone detenute possano avere incontri intimi consensuali con chi desiderano. L’ultimo tentativo per modificare la situazione risale al 2020, quando alla Commissione giustizia del Senato venne sottoposto il disegno di legge numero 1876 per introdurre e regolare le relazioni affettive e sessuali dentro gli istituti penitenziari: prevede il diritto all’affettività e una visita prolungata al mese, in apposite unità abitative, senza controlli audio o video. Il testo era stato scritto nel 2019 dalla Conferenza dei garanti territoriali delle persone private della libertà ed era stato poi sottoposto ai consigli regionali perché lo portassero in Parlamento, cosa che decise di fare la Toscana. Il disegno di legge si trova ancora in Commissione e il diritto alla sessualità nelle carceri non è stato ancora garantito: è una questione molto seria, aperta ormai da vent’anni, che rimanda a principi costituzionali e su cui ci sono pronunce autorevoli sia a livello nazionale che europeo. La prima iniziativa per il riconoscimento dell’affettività e della sessualità dentro le carceri italiane risale al 1999, quando Alessandro Margara, a quel tempo direttore del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, propose di introdurre per le persone detenute la possibilità di trascorrere con i propri familiari fino a ventiquattro ore consecutive in apposite unità abitative realizzate all’interno degli istituti. Il Consiglio di Stato stabilì che sulla questione avrebbe dovuto decidere il Parlamento la soluzione venne rimossa dal testo definitivo del nuovo regolamento di attuazione dell’ordinamento penitenziario. “Vogliamo tenere insieme cose che possono apparire impossibili, ma non devono esserlo, cioè un carcere vivibile in cui la pena non abbia nulla di afflittivo oltre la perdita della libertà” aveva detto Margara durante l’audizione alla Commissione giustizia. Il principio che difendeva è stato poi ribadito da varie commissioni ministeriali, ed è sancito da almeno vent’anni da diverse istituzioni nazionali e internazionali. La Corte costituzionale italiana ha scritto nel 2012 di “una esigenza reale e fortemente avvertita” che “merita ogni attenzione da parte del legislatore”: la questione, ha scritto, trova nel nostro ordinamento una risposta soltanto parziale ed è invece riconosciuta da un numero sempre crescente di stati. La conclusione della Corte fu, però, che “la previsione dei cosiddetti “permessi d’amore” in carcere” dovesse derivare da “una scelta parlamentare”. Negli anni sono stati quindi presentati vari progetti di legge in merito sia alla Camera sia al Senato, ma nessuno ha mai avuto seguito. Anche per questa radicata resistenza, numerosi esperti parlano di una “silente, ma indiscutibilmente consapevole, volontà del legislatore tesa a impedire l’emersione del diritto” o di un “dispositivo proibizionista” efficace e operante da sempre. La legge numero 354 del 1975 sull’ordinamento penitenziario (riformata in alcuni passaggi nel 2018) dice che il diritto delle persone detenute alla relazione affettiva si esercita attraverso la corrispondenza epistolare, le telefonate, la preferenza per la detenzione in un istituto di pena territorialmente vicino alla residenza, i colloqui e i permessi. La sessualità - pur essendo una manifestazione dell’affettività - non viene nominata nella legge. Il principale strumento per mantenere i rapporti affettivi in presenza sono i colloqui: hanno però un tempo ridotto, di regola un’ora, e si svolgono spesso in sale affollate e rumorose, dove non è garantita la riservatezza e dove è vietato qualsiasi gesto affettuoso. La riforma dell’ordinamento penitenziario del 2018 ha specificato che i locali destinati ai colloqui dovrebbero favorire “ove possibile, una dimensione riservata” ma la legge prevede ancora che sia obbligatorio e inderogabile il controllo a vista da parte degli agenti di custodia, per ragioni di sicurezza, e la gran parte delle strutture è completamente inadeguata in questo senso. La legge del 1975 prevede che per “coltivare interessi affettivi” siano concessi dei permessi premio in cui le persone detenute possono trascorrere un breve periodo a casa (non vengono però dati con facilità e riguardano una quota minoritaria di persone). La soluzione al problema della sessualità verrebbe quindi trovata in eventuali parentesi fuori dal carcere. In uno studio spesso citato sul tema, il giurista Andrea Pugiotto scrive che la sessualità è l’unico aspetto della vita dentro il carcere che non è oggetto di una esplicita disciplina, legislativa o regolamentare: non esiste insomma una norma che tratti l’argomento. Pugiotto sostiene che questo produca “diversi e profondi strappi al tessuto costituzionale”: ai diritti inviolabili della persona umana (articolo 2), al diritto al mantenimento dei rapporti affettivi e familiari (articoli 29, 30, 31), alla tutela della salute psicofisica (articolo 32) e al principio della finalità rieducativa della pena e ai suoi principi di umanità (articolo 27). La riforma penitenziaria del 1975 fu molto importante: sostituì definitivamente il regolamento carcerario fascista del 1931 e i principi che lo ispiravano. Il carcere passò dall’essere un sistema basato esclusivamente su punizioni, privazioni e sofferenze all’avere - sulla carta - finalità rieducative e risocializzanti, ovvero dedicate a produrre un risultato favorevole al bene dei singoli e della comunità, come era già scritto nella costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Il nuovo ordinamento penitenziario stabilì che la pena dovesse avere tra i propri obiettivi il reinserimento sociale, pose alla base l’umanità e la dignità e riconobbe alla persona detenuta (chiamata da lì in poi per nome e cognome e non più con un numero di matricola) una propria soggettività, con diritti e aspettative che corrispondevano ai valori tutelati dalla costituzione. Stabilì, insomma, che la perdita della libertà conseguente alla detenzione non debba compromettere alcun diritto fondamentale dell’essere umano. E la sfera affettiva, anche nella sua espressione fisica, è tra i diritti inviolabili della persona, come affermano anche la costituzione, la giurisprudenza europea e quella di altri paesi. Nel 2012, alcuni detenuti dal carcere di Carinola, in provincia di Caserta, spiegarono in un documento che solo dopo una riflessione sulle finalità della pena si poteva esprimere un giudizio obiettivo sulla questione dell’affettività e della sessualità dentro il carcere: “Se la pena ha solo una funzione punitiva e retributiva, allora ci sta tutto: privazioni, sofferenze, tortura, castigo e supplizio. Se invece, le finalità che la costituzione assegna alla pena sono da un lato quella di prevenzione generale e di difesa sociale […] e dall’altro quella di prevenzione speciale e di risocializzazione sociale del reo, allora l’affettività in carcere è uno degli elementi fondamentali del trattamento rieducativo”. Nonostante sulla carta siano stati fissati dei principi e l’istituzione carceraria si sia evoluta, il carattere corporale della pena non è stato espulso dalle galere: il sovraffollamento (parola che è già il rafforzativo di un eccesso), le condizioni igieniche precarie e l’assistenza sanitaria insufficiente sono esperienze sofferte quotidianamente dai corpi di detenuti e detenute. E poi c’è la forzata privazione sessuale, che può essere a vita nel caso dell’ergastolo, che è un altro elemento della condanna inflitta anche ai familiari e che viene praticata sistematicamente nonostante nessuna pena la preveda. L’astinenza sessuale coatta è una vera e propria pena accessoria e si trasforma in una punizione corporale di ritorno. Alla base di tutto, ci sarebbe la nostalgica convinzione che il carcere debba essere castigo o afflizione, e che la perdita della libertà sia solo la premessa della pena. La relazione sessuale sarebbe dunque un lusso, un premio, un privilegio, non un diritto fondamentale. Adriano Sofri, giornalista e scrittore, ha scritto e detto molto sul diritto all’affettività e alla sessualità dentro le carceri, fin da quando la questione lo riguardava direttamente, da detenuto. Ma preferisce non chiamarlo un diritto, “un po’ perché la parola è abusata nel nostro tempo”, ma soprattutto perché “impedisce di vedere che voler inibire la sessualità ai carcerati è esattamente paragonabile al volergli impedire di sgranchirsi le membra, di dormire, perfino di mangiare. La partita sul sesso in carcere mostra la concezione che una società ha del sesso, dichiarata o no, e si gioca su una contrapposizione: tra chi ritiene la sessualità una dimensione naturale e necessaria della persona, e chi la ritiene una concessione, un di più, un vizio, un peccato”. La reazione più diffusa al diritto alla sessualità tra gli addetti penitenziari è figlia di questa stessa lettura “viziosa” del sesso. Donato Capece, segretario generale del Sappe, il sindacato autonomo della polizia penitenziaria, spiega: “Io ritengo che il paese non sia pronto ad avere questo tipo di approccio. Poi è da distinguere l’affettività dalla sessualità: sul primo siamo d’accordo, sul curare i rapporti familiari per non disperdere i legami, ma a fare i postriboli in carcere non ci sto.” Capece rafforza la sua argomentazione citando la posizione di alcuni detenuti di Rebibbia: “Ad alcuni detenuti all’antica sembrava un disonore portare in carcere “le loro donne”, esporle allo sguardo degli altri.” Ma resta il fatto che quella di una relazione sessuale sarebbe una possibilità, di cui liberamente avvalersi oppure no. Capece ha anche altre argomentazioni: “Le carceri sono sovraffollate, dovremmo costruire i monoblocchi dove consegnare la chiave al detenuto per ricevere la visita senza nessun controllo? E se succede qualsiasi fattaccio?” Chi pensa che il diritto alla sessualità non debba entrare in carcere usa molto spesso le obiezioni che hanno a che fare con l’inadeguatezza delle strutture e con i rischi per la sicurezza. Il primo argomento, per continuare a negare un diritto sfrutta un problema strutturale che già da decenni dovrebbe essere risolto (anche secondo Capece); i potenziali problemi di sicurezza sembrano poi essere stati superati - o comunque non costituire un motivo sufficiente - nei moltissimi paesi in cui questa opportunità è prevista. Capece suggerisce però di “preoccuparsi degli “altri” cittadini, i poliziotti penitenziari che non avendo commesso alcun reato scontano comunque una pena. Guarderei insomma ad altre problematiche” dice “non ai capricci di qualche politico che non conosce il carcere e che lo vede con un occhio solo. Mi preoccuperei di creare strutture detentive dignitose, la sessualità non è un problema. La proposta del sindacato è che vengano dati più permessi in modo che le persone vadano dalle loro famiglie, sul territorio, piuttosto che predisporre il carcere per dar vita a questo tipo di sentimento”. E aggiunge che “la sessualità va data ai soggetti meritevoli”. Le conseguenze negative che derivano dalla deprivazione affettiva e sessuale sono note almeno da quando, all’inizio degli anni Novanta, il medico francese Daniel Gonin studiò gli effetti patogeni della detenzione nella prigione di Lione. Moltissimi studi, ricerche e testimonianze successive parlano di profondi cambiamenti nell’identità della persona, mancanza di risorse, sostegno, difficoltà nel reinserimento sociale e una specie di desertificazione affettiva, relazionale e umana. “Alla pena della reclusione a cui si è condannati si applicano pene accessorie che non vengono scritte nella sentenza, ma di fatto fanno parte della condanna […] La persona ristretta viene fermata a livello emotivo al momento in cui entra in carcere e, venendole a mancare la possibilità di fare qualsiasi esperienza a questo livello, è abbastanza naturale che regredisca a uno stadio infantile. Quando per anni questo vuoto che si viene a creare non può essere alimentato da momenti vissuti, ma solo da fantasie, il vuoto diventa un buco nero, […] rende insicuri, indifesi, incapaci di gestire la parte pulsionale ed emotiva di se stessi”. Anche nelle carceri la negazione di una sessualità liberamente vissuta convive con la tolleranza e il silenzio verso forme di sessualità compensative o violente che spesso determinano sopraffazioni e coazioni. Il contesto unisessuato del carcere può portare a forme di adattamento della propria sessualità, all’”omosessualità indotta”, come viene chiamata, e che non è il risultato di una libera e consapevole espressione del proprio orientamento sessuale, ma è legata a un processo di spersonalizzazione e rassegnazione. L’annientamento della dimensione sessuale imposto in carcere contribuisce al processo di regressione e di infantilizzazione delle persone detenute. Come bambine e bambini, hanno una libertà d’azione limitata, sono sorvegliate a vista, perdono la capacità di autodeterminazione e sono portate a vivere l’autoerotismo in modo non libero e secondo modalità adolescenziali: “Devi pianificare tutto, l’orario è importante, devi calcolare il tempo che la guardia passa a controllare se ci sei o se ti sei impiccato, e se è passata l’infermiera con la terapia; poi con passo leggero, oserei dire astuto, ti guardi intorno ed entri in bagno, ti chiudi la porta per modo di dire, perché lo spioncino del bagno deve rimanere aperto per i controlli, ti sbottoni i pantaloni ed inizia la delicata operazione ma sempre con un orecchio nel corridoio e così inizia la lotta titanica fra la voglia di concentrarsi e la paura che la guardia ti becca in flagranza”. (Carmelo Musumeci, nella tesi di laurea dal titolo “Vivere l’ergastolo”, 2005). Il mio senso di colpa quando ero il capo delle carceri di Bernardo Petralia* L’Unità, 28 gennaio 2024 Visitare le carceri da parte di un comune cittadino provoca un solo pensiero: spero di non finirci dentro! Visitare il carcere per un avvocato ha una funzione diversa, di sostegno e di assistenza. Ha ancora un significato diverso per le associazioni che lo frequentano. Per un capo Dap, invece, visitare le carceri ha un valore del tutto diverso, che si condensa in poche parole: senso di colpa. Ho visitato circa 50 istituti nel periodo più duro, più cupo, quello del Covid. E non c’è stata volta in cui, andando per le sezioni e incontrando carcerati di tutti i tipi, che a volte mi chiamavano anche per nome, non mi abbiano detto “scusi, vuole accomodarsi un attimo nella mia cella, prego…”. Ne ricordo uno, una persona anche istruita, con un certo piglio culturale, in una camera tutto sommato accettabile, che mi dice: “guardi, io come vede ho il bidet. So che è un lusso, toglietemelo, non mi serve, me la vedo io, datemi un bagno alla turca, va benissimo”. Aveva anche un letto sufficientemente, non voglio dire comodo, ma gradevole. E così soggiunge: “Levatemelo, datemi una stuoia, io dormo per terra, non ho problemi… Ma una cosa vi chiedo: datemi un lavoro, un lavoro che io la mattina possa svegliarmi e non pensare solo alle sigarette, a cosa fare o non fare. Datemi un lavoro, qualunque esso sia!”. Questo è uno dei grandi crucci che compongono la scacchiera del senso di colpa di un capo Dap. E col lavoro quel che serve è anche tutto ciò che gli sta attorno: la cultura, il teatro, la possibilità di creare, tutto quello che può servire a riempire non la giornata ma l’anima delle persone che abitano lì dentro. Un secondo aspetto che accresce il senso di colpa è la non uniformità del trattamento. Per quanto non si faccia in generale quel trattamento che la Costituzione vuole, mi sono sempre interrogato sul perché, se io visito un istituto del Sud e di un certo sud, il trattamento è totalmente diverso da un istituto del Nord? Perché una persona che dalla libertà passa alla detenzione deve soffrire di più se per fattori più o meno casuali, per collegamenti territoriali con il reato commesso, quindi, per vicinanza con l’autorità giudiziaria, deve andare a finire in istituti che non assicurano quel minimo che serve solo a immaginare cosa potere fare ai fini di un trattamento? Questo senso di colpa ha rappresentato per me, giorno per giorno, uno degli scrupoli più feroci nel periodo terrificante del Covid. E inoltre, con un’organizzazione sanitaria regionalizzata che non garantisce uniformità del trattamento in tutto il Paese, con istituti in cui la sanità è brillante e altri dove invece è carente. C’è dunque una disparità di trattamento che crea nel macrocosmo penitenziario una situazione inaccettabile. E la sanità è uno dei più gravi problemi quotidiani, dal momento che, per l’assenza del lavoro e di occupazione, l’ozio forzato fa ammalare di più. Infatti, uno dei grandi crucci di un capo Dap che gira per gli istituti è quello della presenza, eccessiva, dei detenuti “psichiatrici”, che in carcere non dovrebbero stare, bensì nei luoghi a essi deputati dove avere le cure dedicate che non siano solo una distribuzione pillolare. Questi luoghi si chiamano Rems. Ma come la sanità anche le Rems sono regionalizzate e tuttavia il loro numero è insufficiente e poco o nulla si fa per incrementarne la presenza. È facile immaginarne le conseguenze: una quantità intollerabile di detenuti psichiatrici ristretti in istituto. Dico sempre che pur avendo fatto due anni il capo Dap è come se ne avessi fatti quattro, perché non dormivo e ancora oggi risento di quell’incostanza notturna. Un altro problema che aumenta il senso di colpa trasformandolo in angoscia, è quello dei tossicodipendenti in carcere. Un numero spropositato che comporta conseguenze inaccettabili. Intanto, la brevità della pena non dà luogo ad alcun serio trattamento; poi, non c’è la giusta attenzione sanitaria nei loro confronti. Nel Nord Europa, in Paesi in cui la civiltà ha prodotto risultati importanti nel panorama penitenziario, in alcuni istituti ai tossicodipendenti, negli ultimi anni di pena, si dà la libertà sulla parola e c’è la distribuzione periodica delle siringhe. Se è vero come è vero che la droga in carcere c’è sempre, perché non ne prendiamo atto e fuori da ogni inganno e da ogni ipocrisia cominciamo a pensare a una distribuzione delle siringhe per una tutela sanitaria collettiva? Senza contare che mantenere in carcere questo tipo di popolazione crea altri problemi di contagio anche epidemico, di induzione all’uso di sostanze. Allora, un povero - meschino diremmo dalle mie parti - capo Dap che si trova a girare gli istituti nel periodo di una pandemia terrificante come quella che abbiamo vissuto, non può che aumentare il senso d’angoscia e pensare seriamente che quel mondo carcerario che in quarant’anni di magistratura si credeva d’avere conosciuto invece non lo si conosceva affatto. La verità è che il carcere bisogna viverlo, conoscerlo, bisogna capire che - e non voglio spingermi oltre - il carcere così com’è serve a poco. Ogni sforzo deve essere fatto non solo per chi è dentro, ma anche per quando si esce, perché la liberazione porta con sé e a lungo tempo una vibrazione di detenzione ancora. Nel dopo c’è qualcosa di ugualmente afflittivo dato che gli ex carcerati hanno, nella stragrande maggioranza dei casi, enormi difficoltà di reinserimento lavorativo. Occorre in definitiva rifondare il senso di rispetto e di dignità di chi viene alla fine liberato. *Già capo del Dap, sintesi dell’intervento al X Congresso di Nessuno tocchi Caino Da Milano a Palermo, l’allarme delle toghe: “Riforme inutili senza fondi e magistrati” di Liana Milella La Repubblica, 28 gennaio 2024 Anno giudiziario, le toghe contro Nordio. L’allarme del sovraffollamento nelle carceri e dei suicidi. Nuovo no a cancellare l’abuso d’ufficio e a punire i magistrati che interpretano la legge. Il procuratore Nicola Gratteri da Napoli: “Non servono riforme spot”. Il presidente della Corte d’Appello di Milano Giuseppe Ondei: “Non si possono punire i giudici che interpretano la legge”. E quindi quelli che hanno dato i domiciliari al russo Uss messi invece sotto inchiesta disciplinare dal Guardasigilli Carlo Nordio. E ancora Ondei: “Nonostante tutto, i giudici respingano le pressioni e rendano giustizia”. E da Roma il suo omologo Giuseppe Meliadò: “Il nodo della giustizia? A Roma molti reati e pochi giudici”. E ancora da Milano ecco la denuncia di “carceri indecorose”. No a cancellare l’abuso d’ufficio - Drammatico il richiamo sulla mancanza di personale, a Firenze lo dice il presidente Alessandro Nencini: “Siamo sull’orlo della paralisi, e non uso parole avventate. Siamo alla chiusura di alcuni servizi. Faremo di tutto per coprire con il volontariato ciò che le istituzioni non mettono a disposizione. Ma si tratta di una resistenza che non so fino a che punto possa andare avanti”. E da Palermo il presidente della Corte d’Appello Matteo Frasca, sulle riforme del governo e sulla soppressione dell’abuso d’ufficio ribadisce che “la paura della firma è un falso problema. la verità è che si temono i controlli, mentre il buon andamento della pubblica amministrazione si raggiunge non con l’impunità, ma con la trasparenza e la professionalità”. L’allarme femminicidi - La fotografia che arriva dalle tradizionali cerimonie d’apertura dell’anno giudiziario nei 26 distretti rispetta i fatti della giustizia del 2023, il primo anno del governo Meloni e di Carlo Nordio come Guardasigilli. Reati in aumento, come quelli di strada, con rapine aggressive, e naturalmente contro le donne, nonostante la versione aggiornata del Codice rosso. Endemica la mancanza del personale negli uffici giudiziari, non solo sottostimati i magistrati ma anche il personale amministrativo. E poi il disastro delle carceri, per “il loro indecoroso degrado”, come dice Ondei da Milano, nonostante il 43% sconti la pena all’esterno, mentre in cella, solo in quel distretto, c’è un sovraffollamento del 131,8%, rispetto all’indice nazionale del 119%. E poi “la situazione critica” dell’immigrazione che accomuna tutt’Italia. Nordio, adeguare il Pnrr - E mentre, dalla periferia, e ancora da Milano arriva l’allarme per il rischio di mancare le previsioni e gli impieghi del Pnrr, dalla Corte d’appello di Brescia che Nordio ha scelto come sede dove intervenire direttamente - l’anno scorso era a Venezia - viene la notizia che proprio il ministro sta lavorando ancora per rivedere le “promesse” fatte a Bruxelles per il rispetto delle stime sull’arretrato, con un meno 25% sui processi penali e meno 40% su quelli civili. La ferita del carcere - Dice Nordio - ricordando di provenire da una famiglia di avvocati e di essere stato avvocato anche lui prima di vestire la toga - che “un processo lento è iniquo”, e per questo bisogna “rendere la giustizia efficiente per poi passare alla giustizia giusta”. Nordio vede “segnali positivi”, e per questo è a Brescia, “un buon distretto rispetto agli indicatori del Pnrr”, su cui il Guardasigilli rivendica di aver già “rimodulato gli accordi” con la Ue per renderli “effettivi”, e ipotizzando anche un ulteriore “revisione dei vincoli assunti”. A ciò segue la promessa di aumentare il numero dei magistrati attraverso i tre concorsi in atto e di dare una “sistemazione decorosa” alle toghe onorarie che sono state trattate finora come “figlie di un Dio minore”. Nordio parla anche del Codice rosso, su cui si è spesa in Cassazione la prima presidente Margherita Cassano, e dell’osservatorio aperto al ministero sui femminicidi e l’applicazione delle norme esistenti. “Serve un cambio di sensibilità che s’impara attraverso l’esempio - dice Nordio - ma la giustizia deve fare la sua parte, come il legislatore e il magistrato, per capire i segnali di allarme che sono profondamente cambianti, quello che ieri era un gesto di galanteria magari gradito, oggi è un gesto aggressivo che può portare alla morte”. Quanto al carcere, Nordio lo definisce “una ferita che bisogna aver visto, come diceva Piero Calamandrei per capire di che si tratterà”, ma dice che “il governo si sta impegnando per affrontarla”. Gli scontri dentro il Csm - Per il Csm, davanti al Guardasigilli, c’è il consigliere togato indipendente del Csm Roberto Fontana che ricorda - in evidente polemica con le affermazioni fatte dal vice presidente Fabio Pinelli - che “il Consiglio sta lavorando per accelerare le nomine, ma anche per dare pareri sulle norme, perché questo è un suo compito fondamentale”. Mentre a Firenze lo stesso Pinelli torna a insistere sul concetto di un Csm inteso come “organo di alta amministrazione” che, a suo dire, “non svilisce” il Consiglio stesso. Tutte le leggi “bavaglio” in Europa: le prese di posizione frutto di ignoranza o malafede di Vincenzo Zeno Zencovich Il Riformista, 28 gennaio 2024 Contro il disegno di legge n. 969 (legge attuativa della direttiva UE 2016/343) si sono scagliati gli Ordini dei Giornalisti qualificando il testo come ‘legge bavaglio’ che lede il diritto dei cittadini ad essere informati, in particolare nel campo dell’attività giudiziaria”. La Federazione Nazionale della Stampa Italiana (FNSI) addirittura ha promosso un appello al Presidente della Repubblica perché non firmi la legge di delega in quanto si tratta di “un provvedimento autoritario gravissimo che non solo colpisce e limita il lavoro dei giornalisti, ma soprattutto il diritto dei cittadini di essere informati e rende più indifese le stesse persone private della libertà. Di conseguenza dal momento dell’arresto fino al processo, all’opinione pubblica per mesi sarà negato il diritto di essere informata su temi importanti come la lotta alla corruzione e la lotta alla mafia. A questo si aggiunge anche il recente provvedimento che limita l’utilizzo e rende incomprensibili le intercettazioni in quanto verranno oscurati con omissis i nomi delle persone non indagate.” Dunque “un provvedimento liberticida”. Difficile dire se tali prese di posizione siano frutto di malafede o di ignoranza. In ogni caso, denotano il provincialismo di chi non ha mai preso in mano un giornale straniero e cercato di comprendere se in altri paesi i provvedimenti di arresto (e le eventuali intercettazioni) possono essere pubblicate. Nel Regno Unito - vista in Europa come la culla della libertà di stampa - la regola è che, tranne in casi eccezionali quando vi è un immediato rischio per la generalità, i nomi o i dati identificativi di una persona arrestata o sospettata di un reato non devono essere forniti alla stampa o al pubblico. E queste istruzioni sono date anche alle forze di polizia. In Svizzera l’art 73 del c.p.p. impone un divieto generale di segreto sugli atti giudiziari che viene rigorosamente imposto fino al processo. In Germania sia la Corte di Cassazione che la Corte Costituzionale hanno ripetutamente affermato (si veda di quest’ultimo consesso la sentenza 5.6.1973) che “l’interesse a ricevere l’informazione non è assoluto. L’importanza centrale del diritto della personalità richiede non solo rispetto della sfera intima e inviolabile [della persona accusata], ma anche una stretta osservanza del principio di proporzionalità. L’invasione della sfera personale è limitata al bisogno di soddisfare adeguatamente l’interesse [del pubblico] a ricevere l’informazione, mentre il danno arrecato alla persona accusata deve essere proporzionato alla gravità del reato o alla sua importanza per il pubblico. Di conseguenza, non è sempre consentito diffondere il nome o l’immagine o usare altri mezzi per identificare la persona”. E la Corte di Cassazione, in questa operazione di bilanciamento ha ritenuto che la diffusione sia lecita quando, esemplificativamente, l’accusa riguardi un reato grave e non uno di minore entità; quando la persona accusata sia una “figura pubblica”; quando il nome della persona accusata è già nel dominio pubblico. A seguito di tale orientamento giurisprudenziale l’art. 8.1. delle Linee-guida contenute nel PresseKodex emanato dal Consiglio della Stampa tedesca stabilisce che, come regola generale, gli organi di stampa “non devono pubblicare alcuna informazione a carattere verbale o figurativo che permetta l’identificazione della vittima o degli autori di un reato”. In Austria l’art. 7a del Mediengesetz prevede che il nome e l’immagine di una persona vittima o sospettata di un reato non possano essere pubblicati “ogni qualvolta ciò determini la lesione di interessi meritevoli di tutela del soggetto e non sussiste un interesse pubblico predominante, in considerazione dello status dell’individuo o di altre circostanze”. In Lussemburgo la legge 8.6.2004 sulla libertà di espressione nei media pone limiti stringenti a tutela della presunzione di innocenza. Se ci si muove al livello Cedu, poi, non si può ignorare la sentenza Sciacca c. Italia resa l’11.1.2005 dalla Corte di Strasburgo che ha ritenuto che violasse l’art. 8 della Convenzione la diffusione da parte della Procura di Siracusa della fotografia di una persona arrestata. Nonché la Raccomandazione 13 (2003) del Consiglio d’Europa sui “Principi relativi alle informazioni fornite attraverso i mezzi di comunicazione in rapporto a procedimenti penali”. L’art. 2 (“Presunzione di innocenza”) di tale Raccomandazione stabilisce che “Il rispetto del principio della presunzione di innocenza costituisce parte integrante del diritto ad un giusto processo. Ne consegue che pareri e informazioni relativi a procedimenti penali in corso dovrebbero essere comunicati o diffusi dai mezzi di comunicazione soltanto se ciò non pregiudica la presunzione di innocenza della persona sospettata o imputata di un reato”. E l’art. 8 (“Tutela della privacy in rapporto a procedimenti penali in corso”) precisa che “Nel fornire informazioni relative a persone sospettate, imputate o condannate oppure ad altri soggetti coinvolti in procedimenti penali si dovrebbe rispettare il diritto di tali persone alla tutela della privacy, conformemente all’Articolo 8 della Convenzione. Particolare tutela dovrebbe essere fornita ai soggetti coinvolti che siano minori di età e ad altri soggetti vulnerabili, nonché alle vittime, ai testimoni ed ai familiari di persone sospettate, imputate o condannate. In ogni caso, si dovrebbero tenere particolarmente presenti le conseguenze nocive che possono investire le persone di cui al presente Principio a seguito della rivelazione di informazioni tali da consentirne l’identificazione”. Come si vede, a seguire i giornalisti, “leggi-bavaglio”, “autoritarie”, addirittura “liberticide” sarebbero in vigore in gran parte dell’Europa. Il pastore e il fine pena mai dei più fragili: quando la giustizia diventa arbitrio di Daniela Padoan La Stampa, 28 gennaio 2024 Non ci assolve parlare ora della sua liberazione, tutti lo abbiamo dimenticato. Il suo caso è un errore che si perpetua, eppure sarebbe bastato ascoltarlo. Non è facile guardare in viso un uomo che ha conservato un sorriso dolce, timido, dopo trentatré anni di carcere per un reato mai commesso. Era un pastore, Beniamino Zuncheddu, non aveva ancora compiuto ventisette anni quando le porte della Casa circondariale di Badu’e Carros si sono chiuse dietro di lui con la terribile eco delle parole “fine pena mai”. Per più della metà della sua vita ha vissuto spostato di cella in cella, in differenti carceri sardi, senza poter usufruire degli istituti premiali previsti dalla legge, avendo sempre rifiutato di dichiararsi colpevole di un reato che non aveva commesso. “Desideravo avere una famiglia, costruire qualcosa, essere un libero cittadino come tutti. Trent’anni fa ero giovane, oggi sono vecchio. Mi hanno rubato tutto”. In libertà da due mesi grazie a un’ordinanza di scarcerazione emessa dalla Corte d’appello penale di Roma, il 26 gennaio è stato assolto per non aver commesso il fatto: per non essere stato lui a spezzare la vita di tre pastori e a lasciarne un altro gravemente ferito, l’8 gennaio 1991, in quella che venne chiamata la strage del Sinnai. Non ci assolve, parlare ora della liberazione di Beniamino Zuncheddu. La sua vita è stata dimenticata anche da noi. Liquidato dalle cronache giudiziarie, abbandonato all’arbitrarietà della ricostruzione dei fatti e alla soggettività delle sentenze, il suo caso è diventato un errore che si riperpetua, come accade in genetica nella cieca riscrittura di codice delle sequenze del Dna, lasciando a poche persone - alla sua comunità di origine, a un giovane e ostinato avvocato, ad alcune provvidenziali espressioni della società civile - il compito di porre rimedio là dove le istituzioni hanno scavato un baratro. L’accusatore di Zuncheddu, unico superstite della strage che per decenni lo aveva inchiodato al crimine, non è stato considerato credibile. “Ho sbagliato a dare ascolto alla persona sbagliata”, ha detto in una drammatica testimonianza, riandando con la memoria a quando l’agente di polizia incaricato delle indagini gli mostrò una foto di Zuncheddu indicandolo come il colpevole della strage. Un errore giudiziario, il più lungo della storia della Repubblica, costellato di ritrattazioni, depistaggi, false testimonianze, ostinazione a mantenere un impianto accusatorio segnato dal pregiudizio. “Non provo rabbia”, ha detto Zuncheddu con sintesi esemplare di mitezza e severità, “perché sono vittime anche le persone che mi hanno accusato. Non è colpa loro, ma del poliziotto, che fa parte della giustizia”. Che fa parte della giustizia: un concetto espresso con tale nitore da impedirci di distoglierne lo sguardo. Potrebbe essere così per tutti, appesi a un filo che separa l’innocenza dalla colpevolezza. Appesi a un possibile arbitrio. È per questo che tanta importanza ha la giustizia, e chi “fa parte della giustizia”, nella nostra vita civile: la sua amministrazione, la sua indipendenza, i suoi organi di controllo, la garanzia dei tre gradi di giudizio dove la decisione non è presa solo una volta, dove ogni storia di vita, ogni inciampo o precipizio che si condensa in un crimine può essere interrogato da diverse angolazioni, ogni prova può essere sottoposta a vaglio, e ogni verità riconsiderata e sottoposta a verifica. Abbiamo visto, negli anni, progetti di delegittimazione della magistratura che avrebbero come esito quello di lasciare lo spazio alla giustizia al più forte, al più ricco, al più influente, fino alla garanzia dell’impunità, quando la giustizia, per essere tale, deve essere soprattutto quella del più povero, del più marginale, del più abbandonato. Accade invece che proprio le vite più fragili possano diventare vittima di indifferenza, stereotipi, pregiudizio che si fa giudizio. Pierre Boulle, nel romanzo La faccia o Il procuratore di Bergerane, del 1953, ricostruisce tutte le fasi che portano all’edificazione dell’errore giudiziario, dove l’integerrimo procuratore vuole consegnare un colpevole agli abitanti della cittadina, dando forma a un impianto accusatorio che finisce con l’autoalimentarsi. La macchina giudiziaria può allora così trasformarsi in una disumana fabbrica di errori, per cortocircuiti di ordine psicologico, politico e sociale, per il ruolo dell’opinione pubblica e della stampa, per proteggere lo Stato e i suoi informatori, ma anche per mancanza di tempo, per cecità delle procedure in assenza di confronto con la realtà, quando chi deve decidere è oberato, sommerso dalle carte, privato del tempo necessario all’incontro con la realtà. Eppure sarebbe bastato prenderci un caffè, ha detto il suo avvocato. “Sì, mi hanno liberato, ma oggi sono poco più di un cadavere”, sono le parole di Beniamino Zunchedda. Da lui, dal suo sguardo, dalle sue miti parole può venire un profondo ripensamento. In “Il bene sia con voi!, note di un viaggio in Armenia alla ricerca di risposte sui genocidi del Novecento”, sulla sopraffazione e sulla “bontà illogica” dell’uomo, il grande scrittore ebreo ucraino di lingua russa Vassilij Grossman prese i pastori armeni e le loro greggi come figurazioni di tutte le vittime di secoli di abbandono e pregiudizio. “Le pecore hanno gli occhi chiari - acini d’uva e di vetro. Le pecore hanno un profilo umano - ebreo armeno, misterioso, indifferente, muto. Sono millenni che i pastori guardano le pecore. Le pecore guardano i pastori, e ormai hanno preso a somigliarsi. È come se gli occhi delle pecore guardassero gli uomini in un modo particolare”. Zuncheddu: “Mi hanno rubato tutto… prima ero giovane, ora sono vecchio” di Corrado Zunino La Repubblica, 28 gennaio 2024 “Vorrei tornare a lavorare con le bestie, ma il carcere mi ha fatto ammalare”. L’uomo in una conferenza stampa convocata dai radicali il giorno dopo la sua assoluzione in corte d’Appello: “Neppure oggi ho capito perché lo hanno fatto. Sono libero, ma devo pensare alla salute e a riposare la mente”. C’è la grande foto a muro con Marco Pannella che abbraccia il Dalai Lama e, sotto, seduto, Beniamino Zuncheddu, gli occhiali tenuti in punta sul naso adunco. Sussurra: “In questi 33 anni mi è mancato tutto, il mondo è andato avanti per conto suo, senza di me. Non riesco a spiegare, adesso, che cosa è stata questa prigionia a cui mi hanno costretto senza che avessi fatto nulla. Ho bisogno di riposo, riposo mentale, per capire. Lo troverò a casa di mia sorella Augusta”. L’errore giudiziario più lungo d’Italia - Il giorno dopo la liberazione dell’uomo vittima dell’errore giudiziario più lungo d’Italia - 33 anni di carcere, una condanna all’ergastolo -, il servo pastore accusato di aver ucciso l’8 gennaio del 1991 tre persone rissose e vicine al mondo dell’Anonima sequestri, accusato contro ogni verità, ha lo sguardo perplesso, il sorriso che a tratti si fa dolore. Dice: “Sono stato un uccellino in gabbia, non potevo fare attività fisica, a volte non potevo neppure muovermi. Mi dicevano continuamente: ravvediti, confessa, ed esci, ma io non mi dovevo ravvedere di nulla, non avevo fatto nulla. Sì, vorrei salutare tutti gli altri uccellini, i miei amici detenuti, vorrei andare a trovarli, ma rivedere il carcere di Uta, quegli spazi senza luce, oggi è troppo duro per me”. Una vita spezzata - Gli ha lasciato problemi fisici, la prigione di massima sicurezza venticinque chilometri a nord di Cagliari. L’ultimo rientro in cella, dopo la lunga licenza Covid, ha aggiunto un dramma al calvario: un’ischemia, che ha causato una paresi della parte destra del corpo, visibile nell’occhio senza mobilità. “Avevo perso la speranza, quel rientro è stato un lutto”. La sua vita era entrata nel buio a 27 anni: “L’arresto è stato un colpo in testa. Anno dopo anno, sentenza dopo sentenza, mi hanno ogni cosa”, dice ora, che ne ha 59. “Non ho avuto la possibilità di farmi una famiglia, di lavorare. Non so nulla di possibili risarcimenti nel futuro, ormai quello che mi potevano rubare me l’hanno rubato”. Il castello di menzogne - Venerdì sera, le nove e un quarto, la Corte d’Assise d’Appello ha sancito - definitivamente - che il filone investigativo che lo aveva portato in carcere, prima al Bad ‘e Carros di Nuoro e poi al Buon Cammino di Cagliari, era un castello di menzogne. Più che un errore giudiziario reiterato da diversi giudici, quell’arresto e quella detenzione erano stati un complotto per proteggere lo Stato e i suoi informatori, quando negli Anni ‘90 l’Anonima sarda viveva dei riscatti delle ricche persone sequestrate: Fabrizio De Andrè e Dori Ghezzi, il piccolo Farouk Kassam, l’imprenditrice Silvia Melis. “Abbiamo ricostruito la scena del delitto con le fotografie dai droni”, spiega adesso il comandante Mario Matteucci, ex carabiniere, consulente della difesa: “Tutto era incompatibile con la presenza di Zuncheddu quella sera all’ovile Cuili is Coccus”. “Un estraneo dentro una strage” - “Beniamino non è stato un innocente coinvolto in un delitto, è stato un estraneo prelevato da casa e messo dentro una vicenda che non conosceva”, dice Maurizio Turco, segretario del Partito radicale che ospita la conferenza. Quella sera il servo pastore stava andando a trovare, come spesso gli accadeva, un amico invalido: gli hanno attribuito un agguato da commando paramilitare realizzato in tempi non umani. In 75 minuti il servo pastore avrebbe dovuto lasciare il domicilio di Burcei, lontano dall’ovile dei Fadda, ammazzare e tornare a casa. “Non reggeva nulla in quella ricostruzione, eppure è durata trentatré anni”, ora parla l’avvocato Mauro Trogu. Si indaga, adesso, nei confronti del poliziotto Mario Uda, collaboratore stretto del procuratore Luigi Lombardini, il supermagistrato dei sequestri a cui si sono consegnati trentasette latitanti sardi nella lunga stagione dei rapimenti e che nell’agosto del 1998, indagato per estorsione nell’ambito del sequestro di Silvia Melis, si tolse la vita. L’investigatore Uda, fino a quella stagione nell’Interpol, andò in pensione dopo la morte di Lombardini, scrisse quindi libri autobiografici senza far cenno alle strategie di Stato e oggi esercita il mestiere di investigatore privato a Cagliari. Gli ultimi giudici hanno riconosciuto che è stato lui a mostrare al sopravvissuto della strage dell’ovile, Luigi Pinna, la foto di Beniamino Zuncheddu alla vigilia del riconoscimento tra sedici sospettati. Il poliziotto suggerì l’assassino mostrando un volto: “E’ stato lui”. Dopo settimane di dubbi e falsi riconoscimenti, il testimone chiave avrebbe confermato: “Sì, è stato Zuncheddu a sparare, l’ho visto”. “Sto male, non so che farò” - Ora, sotto Pannella e il Dalai Lama, Beniamino Zuncheddu dice che non ha odio per nessuno, che anche Pinna è stato vittima di un sistema più grande di tutti. In quei giorni, esattamente tre dopo il triplice omicidio, nell’area venne liberato l’imprenditore Gianni Murgia, dopo che la famiglia aveva pagato un riscatto di 600 milioni di lire. I Fadda - Gesuino e Giuseppe, padre e figlio, proprietari dell’ovile tra le montagne di Sinnai e Burcei, e il loro dipendente Ignazio Pusceddu - conoscevano i rapitori e i custodi di Murgia. Uno dei sequestratori dell’imprenditore, confidente del pm Lombardini, aveva preso possesso dell’ovile di Cuili is Coccus subito dopo gli omicidi. Beniamino Zuncheddu saluta la conferenza e chiede pazienza: “Ora voglio andare a casa, so che nella mia Burcei, ieri sera, hanno suonato le campane a festa. Voglio abbracciare tutti, ringraziare tutti e vedere se esiste una vita anche per me. Non riesco a immaginarla. Ero giovane, e sono vecchio. Ogni licenza concessa dal carcere, salivo in montagna e raggiungevo le bestie. Sto bene con loro. Avrei potuto lavorare nell’azienda zootecnica di mio genero e di mia figlia, ma adesso sto male. Non so se potrò farlo più. Sì, mi hanno liberato, ma oggi sono poco più di un cadavere. In carcere non ho mai fatto progetti, non volevo illudermi e adesso, uomo libero, potrei non essere più in condizioni di progettare”. La procuratrice che riaprì il caso Zuncheddu: “Così ho capito che era innocente” di Giusi Fasano Corriere della Sera, 28 gennaio 2024 “Le mie frasi hanno smosso la coscienza di chi lo accusava. Dopo la sentenza ho pianto”. Il pastore sardo, dopo 33 anni di carcere, è stato assolto per non aver commesso il fatto. Francesca Nanni era Pg a Cagliari, oggi è a Milano. “Non le nascondo che ho pianto. Quando si fa un lavoro come il mio si finisce per costruirsi addosso una specie di corazza di fronte alla sofferenza altrui. Però non sempre funziona”. In questi due giorni non ha funzionato. Francesca Nanni si è commossa ogni volta che ha sentito parlare di lui, di quel pastore sardo che nemmeno conosce. Oggi è la procuratrice generale della Corte d’appello di Milano, ma nel 2019 aveva lo stesso incarico a Cagliari e fu lei a firmare la richiesta di revisione per Beniamino Zuncheddu . Fu lei a credere, studiare, collegare fatti, indagare. Insomma: fu lei a trovare la chiave che poi avrebbe aperto la cella di quell’uomo in carcere da innocente. Nella sua vita professionale ha avviato soltanto due istanze di revisione: questa e l’altra per Daniele Barillà, pure lui alla fine assolto e scarcerato. Non l’ha invece convinta la richiesta - l’unica delle tre presentate che toccava a lei valutare - per la revisione del processo sulla strage di Erba: ha mandato tutto ai colleghi di Brescia ma con un parere negativo. E quando loro hanno deciso comunque di riaprire il caso lei ha commentato con poche parole, istituzionali. Mai una frase sul merito: “Aspettiamo serenamente l’esito del nuovo dibattimento. I processi - ripete - si fanno nelle aule di giustizia e guai alla pressione mediatica che, come ho detto anche all’inaugurazione dell’anno giudiziario, non fa bene ai magistrati”. Il caso Zuncheddu, per dire. La dottoressa Nanni ricorda di aver “lavorato in silenzio per mesi prima di arrivare alla revisione”. La prima volta che quel pastore catturò la sua attenzione fu quando - dopo 27 anni di cella - ripeté una volta di più di essere innocente. Eppure sarebbe stato facile uscire, a quel punto: bastava ammettere di essere l’assassino di cui parlavano le sentenze, cioè l’uomo che aveva ucciso tre persone e aveva ferito Luigi Pinna, poi diventato testimone oculare. “Fu una circostanza alla quale feci caso” ricorda la procuratrice. “Più avanti il suo avvocato venne a parlare prima con un mio sostituto e poi con me. Era preciso, capace, mi fece un’ottima impressione. E allora feci una cosa che avevo imparato nei processi di mafia: andai a vedere se e quali episodi criminali si erano verificati in quella zona prima del triplice omicidio. È così che arrivammo al sequestro Murgia e intuimmo che poteva avere a che fare con il nostro caso”. Ma la dottoressa Nanni è una donna pratica. Chiamò l’avvocato e gli disse: “Mi ha convinto, quest’uomo è innocente ma con le prove che abbiamo non andiamo da nessuna parte”. Oggi dice che “ci voleva qualcosa di più. E allora convinsi la Procura ordinaria ad aprire un’inchiesta per cercare eventuali altri complici e mettemmo sotto controllo alcune persone. Fra gli altri anche Luigi Pinna”. Un giorno Pinna fu convocato al palazzo di giustizia. “Io stavo preparando la richiesta di revisione, quindi lo chiamai per chiarimenti. Ricordo che gli dissi più volte questa frase: “Vede, Pinna. Io la capisco, vedo il suo tormento. So che in tutto questo tempo lei ha vissuto male e io e lei sappiamo perché: lei ha il dubbio che quella persona che dice di aver visto non sia il vero responsabile”. Quando uscì andò dalla moglie che lo aspettava in macchina e disse le famose frasi: quelli hanno capito, sanno la verità”. È da quelle frasi che è ripartito il processo, poi il colpo di scena: Pinna che in aula ritratta la sua vecchia testimonianza e racconta che fu un poliziotto a mostrargli la foto di Zuncheddu e indicarlo come colpevole. Francesca Nanni dice: “Mi piace pensare che quella mia frase ripetuta più volte abbia mosso la coscienza del teste, anche se non credo che lui abbia mai pensato di accusare un innocente”. Zuncheddu le ha fatto arrivare un milione di “grazie” ma per lei resta uno sconosciuto (“lo conosco dalle carte”). Incontrarlo? “Se e quando ci sarà l’occasione lo incontrerò volentieri”. Vite distrutte, in carcere da innocenti: “Ogni volta rivivo il mio incubo” di Elena Marmugi La Nazione, 28 gennaio 2024 Giuseppe Gulotta, di Certaldo, condannato all’ergastolo ha scontato 22 anni di carcere senza colpe. Un caso che si avvicina molto a quello di Zuncheddu. “Che ho pensato? Sa, in questi casi non c’è neanche bisogno di allacciare il cervello, i pensieri viaggiano da soli e portano a ricordi che riaffiorano di giorno in giorno. Più spesso sono incubi”. Giuseppe Gulotta, ex muratore di Certaldo, ventidue anni passati in carcere da innocente, ha tirato un lungo, profondo sospiro di sollievo per Beniamino Zuncheddu. Due vite un simile, tragico, destino: l’ex pastore sardo ha scontato ingiustamente 33 anni di carcere con l’accusa di essere l’autore della strage del Sinnai. Ieri, al termine del processo di revisione, è stato assolto per non aver commesso il fatto. Gulotta venne ingiustamente condannato per l’omicidio di due carabinieri nella caserma di Alcamo Marina (Trapani) e, dopo 22 anni, venne assolto dalla Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria. Si è rivisto nel signor Zuncheddu? “Ho seguito la vicenda e posso solo dire che è un altro caso come il mio, con le dovute differenze a partire dalla condanna, che è arrivato alla soluzione giusta” A quale prezzo però... “Quello di una vita: anche solo un giorno di carcere ingiusto ti cambia, figuriamoci tutti questi anni”. Cosa l’ha spinta a sopravvivere? “La consapevolezza della mia innocenza. L’appoggio costante della mia famiglia e la fede. Si può pensare che sia facile che venga a mancare la fede in questi casi, ma non è così. In me non ha mai vacillato”. Tra poco ricorrerà l’anniversario del giorno in cui l’hanno assolta, il 13 febbraio 2012... “Ed è “curiosamente” lo stesso giorno in cui tutto ha avuto inizio. Il 13 febbraio del 1976 è partita la mia vicenda giudiziaria. Poi dal 1978 fino al 1990 sono stato un uomo libero, in attesa di giudizio. Nel 1990 la sentenza: ergastolo. Ho passato 22 anni nel carcere di San Gimignano, con i benefici di legge concessi. Ma ancor prima del giorno in cui finalmente ho avuto giustizia vorrei ricordare che oggi ricorrono 48 anni dalla morte dei due carabinieri (il diciannovenne Carmine Apuzzo e l’appuntato Salvatore Falcetta ndr) per le quali sono stato ingiustamente accusato. Ci tengo a dire che ancora loro non hanno avuto giustizia perché il colpevole non è stato trovato”. Ma cos’è per lei la giustizia? “Io, nonostante tutto, credo nella legge e nelle istituzioni. Credo però che manchi credibilità in chi gestisce la giustizia”. A cosa si riferisce? “Intendo dire che chi si occupa delle indagini debba farlo accuratamente. In Italia si tende a condannare, sempre di più. Questo non è giusto. Mi hanno torturato per farmi confessare ed è solo grazie alla testimonianza del brigadiere in congedo Renato Olino, che ha raccontato il mio drammatico interrogatorio, che ho avuto diritto alla revisione del processo. Ma non è un percorso facile e accessibile a tutti”. Lei si è impegnato in prima persona per far sì che la sua storia non si ripeta... “La fondazione Giuseppe Gulotta onlus si occupa proprio di questo. E’ formata da un’equipe di professionisti, avvocati, psichiatri, psicologi e altre figure”. Di cosa si occupa in concreto? “Se un detenuto grida la sua innocenza, assistito dal suo avvocato, gli esperti della fondazione visionano il caso. Dopo un’accurata valutazione, se ci sono margini per fare istanza di revisione e questa viene accolta, per spiegarlo in modo semplice, sosteniamo anche economicamente la persona detenuta. È un percorso complesso e oneroso, la fondazione l’ho creata anche per questo. Vive di donazioni, ma l’impegno per tenerla attiva è importante, soprattutto per tenere viva l’attenzione su questi casi. Può capitare a chiunque, in questi ingranaggi infernali ci si cade senza neanche accorgersene”. I delitti della magistratura di Piero Sansonetti L’Unità, 28 gennaio 2024 Mario Ciancio Sanfilippo, anni 91, non è mafioso e non ho concorso, neanche dall’esterno, con l’attività delle cosche di Catania. Lo ha deciso il tribunale. L’altro ieri sera. Mario Ciancio Sanfilippo, ex direttore della Sicilia, editore, stampatore, per cinque anni capo dell’associazione nazionale degli editori, ha trascorso però sette anni sotto la mannaia della magistratura. Il Pubblico ministero pochi giorni fa ha chiesto che fosse messo in cella e tenuto dietro le sbarre per 12 anni (cioè fino a 103 anni), la sua attività economica è stata pesantemente danneggiata dall’iniziativa della magistratura, la sua vecchiaia è stata distrutta ed è stata rovinata anche la vita e l’attività economica dei suoi figli. E tutto questo benché si sapesse benissimo che Mario Ciancio Sanfilippo era innocente. La procura di Catania, una decina di anni fa, dopo avere indagato chiese l’archiviazione. Poteva finire tutto lì, ma il Gup si intestardì e dispose che le indagini proseguissero. Allora la Procura propose il rinvio a giudizio, ma un Gip, molto saggio, respinse la richiesta perché giudicò incongruente il reato: Ciancio non era accusato di nessun delitto preciso, solo di “concorso esterno in associazione mafiosa”, e la Gip spiegò che nel codice penale quel reato non l’aveva trovato (perché non c’è) e che la lingua italiana è molto chiara: o concorri o non concorri, il concorso già di per se è esterno alla associazione, ma non può essere a sua volta ancora più esterno. Ci fu ricorso in Cassazione contro la Gip, e la Cassazione cancellò la decisione della Gip, considerandola, credo, troppo ragionevole per appartenere a un magistrato serio. Così nel 2017, mese di giugno, Ciancio fu rinviato a giudizio e gli furono sequestrati tutti i beni. Ieri sera gli hanno detto che era assolto. È tornato innocente dopo un processo che nessuno può negare sia stato persecutorio. Ma non è il caso più clamoroso di ingiustizia accertato ieri. In serata la Corte d’Appello di Roma ha mandato assolto per non aver commesso il fatto Beniamino Zuncheddu, anni 58. Beniamino ha trascorso 33 anni in prigione accusato di avere ucciso un pastore in Sardegna. Anche Beniamino era un pastore, viveva in provincia di Cagliari. Era un uomo pacifico, gentile. È stato condannato in primo grado, in appello e in Cassazione. Decine di giudici avevano avallato la decisione di considerarlo colpevole (spesso Travaglio si chiede: possibile che 9, 10, 12 giudici si siano sbagliati tutti? Sì è possibile. Temo che sia anche abbastanza frequente). Beniamino ieri ha tenuto una conferenza stampa nella sede del partito radicale e ha raccontato che gli avevano chiesto di pentirsi, in modo da poter usufruire dei benefici previsti dalla legge. Ma lui non voleva pentirsi di una cosa che non aveva mai fatto. Dopo trent’anni in cella i suoi avvocati erano riusciti a portare prove della sua innocenza e ottenere la revisione del processo. Tre anni fa. Per fortuna il testimone che lo accusava - unica prova esaminata nei processi - ha ammesso che era stato costretto ad accusarlo dal poliziotto che dirigeva le indagini. Tutto inventato. La magistratura solo lo scorso novembre aveva concesso la sospensione della pena. Sequestrare una persona per 33 anni e chiuderla in una cella non è un delitto? Accanirsi contro un ultraottantenne innocente non è un delitto? È lecito parlare dei delitti della magistratura? È saggio dire, come dicono tutti: “ho piena fiducia nella magistratura”? Ma quale fiducia? Solo un pazzo può avere fiducia. E solo dei politici impauriti e giustizialisti possono restare a vedere, imbelli, un potere medievale sempre più potente e incontrollato, in grado di poter sopraffare e annientare i cittadini senza che nessuno possa fermarlo. Signori giudici e carcere più umano di Tommaso Marvasi La Discussione, 28 gennaio 2024 Una serie di eventi concomitanti mi fa tornare all’emergenza carceri, uno dei principali problemi del nostro vivere civile, che - si tratta di una mia dichiarata convinta - per il modo, ma sotto alcuni profili anche per il suo stesso essere, ci farà considerare barbari da generazioni future (ardisco: futuro prossimo, non futuro remoto). Il primo di questi fatti è estremamente positivo. Si tratta della Sentenza 26 gennaio 2024, n. 10 della Corte Costituzionale che segna un grande passo avanti dell’adeguamento del sistema carcerario alla Costituzione che, per i più (per fortuna non per qualche più sensibile ed illuminato magistrato, come Fabio Gianfilippi, magistrati di sorveglianza di Spoleto), sembra non riguardare chi sia stato riconosciuto reo. Una sentenza da far leggere a scuola perché ribadisce che il carcerato, qualsiasi crimine abbia commesso, è un uomo e deve essere rispettata la sua dignità umana, compreso il rispetto della sua affettività (rientrati tra i diritti inviolabili di cui all’art. 2 Cost.), che deve essere libero di esprimersi anche attraverso il sesso; e che afferma con effetti pratici come la finalità della pena sia la rieducazione del reo. Per inciso sentenza non si applica al 41-bis: che anche per questo mi pare ancora di più incostituzionale. Non mi dilungo oltre sulla decisione, sperando di invocarne la lettura. Rilevo solamente come si sia discusso anche intorno all’art. 13 Costo. sull’inviolabilità della libertà personale. Richiamo normativo che, per un’associazione di idee che vi sarà chiara tra poche righe, ci porta al secondo fatto di cronaca che ha sollecitato l’argomento odierno. Un fatto lontano accaduto, addirittura in America, nello Stato di Alabama (USA). L’uccisione da parte dello Stato - non riesco a dire era “giustiziato”, la Giustizia, per me è altro - di un killer, Kenneth Smith, condannato alla pena di morte. Col macabro particolare che l’esecuzione era stata tentata già due anni fa e non era riuscita e che questa volta si è ricorso ad un metodo che, dicono le cronache, è vietato persino per macellare gli animali: l’assassinio per mezzo dell’azoto. Un fatto che ha fatto inorridire la quasi totalità della nostra cultura occidentale, dove la pena di morte non è prevista e che ritiene una barbarie la sua permanenza in alcuni Stati degli USA. Così che - mi chiedo di tanto in tanto, ma non so darmi e non trovare risposte - se si nega allo Stato il diritto di vita e di morte su un proprio cittadino, perché non si può negare allo Stato anche il diritto di privare il cittadino del suo inviolabile diritto alla libertà? È il tema dell’art. 13 della Costituzione, discusso e dibattuto, che come accade spesso alle norme, affermando un diritto (la libertà inviolabile) esprimere come, quando e chi possa violarla. Ci fossimo inventati un sistema alternativo al carcere (la tecnologia odierna forse potrebbe consentirlo) avremmo evitato ad un uomo innocente Beniamino Zuncheddu, trentatré anni di carcere (l’intera vita di Gesù Cristo). Scarcerato recentemente in seguito ad un processo di revisione voluto dal Procuratore Generale della Corte d’Appello di Roma. Due giudici protagonisti di due fatti positivi. Mi sembra giusto evidenziarlo: perché in uno Stato di Diritto la Giustizia si attua soltanto di fronte ad un giudice terzo - quindi equidistante ed imparziale anche in un conflitto tra cittadino e Stato - e che non si ritenga portatore di missioni, ma unicamente un soggetto che Deve applicare la legge, condannando soltanto quando non esista alcun dubbio per evitare altri Cristo-Zuccheddu e chiedendo le opportune verifiche costituzionali ogni volta dubiti che la legge viola il diritto. Più di novecento persone innocenti finiscono in cella ogni anno di Adriano Bonanni Il Tempo, 28 gennaio 2024 Il fenomeno della malagiustizia è una delle piaghe peggiori del nostro sistema giudiziario. Il sito errorigiudiziari.it che si occupa di questo problema fornisce le cifre con un lavoro fatto sui dati del 2022, gli ultimi a disposizione, spiegando che con il termine malagiustizia si intendono sia sia le vittime di ingiusta custodia sia quelle di errori giudiziari. Le prime sono coloro che subiscono una custodia cautelare in carcere o agli arresti domiciliari, salvo poi venire assolte) le seconde sono coloro che, dopo essere stati condannati con sentenza definitiva, vengono assolti in seguito a un processo di revisione. Unendo le due fattispecie spiegano i due autori della ricerca Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone - dal 1991 al 31 dicembre 2022 i casi sono stati 30.778: in media, poco più di 961 l’anno. Il tutto per una spesa complessiva dello Stato gigantesca, tra indennizzi e risarcimenti veri e propri: 932 milioni 937 mila euro e spiccioli, per una media di poco inferiore ai 29 milioni e 200 mila euro l’anno. Nel solo 2022 ci sono stati ben 547 casi tra ingiuste detenzioni ed errori giudiziari (-25 rispetto all’anno precedente). In notevole crescita, invece, la spesa complessiva per indennizzi e risarcimenti: poco meno di 37 milioni e 330 mila euro, oltre 11 milioni e mezzo in più rispetto al 2021. Ma è il numero dei casi di ingiusta detenzione che consente di capire meglio le dimensioni dell’emergenza del fenomeno e cogliere con precisione quanti sono gli errori giudiziari in Italia. Sono proprio coloro che sono finiti in custodia cautelare da innocenti, infatti, a rappresentare la stragrande maggioranza. Dal 1992 al 31 dicembre 2022, si sono registrati 30.556 casi: vuol dire che, in media, si sono registrati oltre 985 innocenti in custodia cautelare ogni anno. Il tutto per una spesa che supera gli 846 milioni e 655 mila euro in indennizzi, per una media di circa 27 milioni e 311 mila euro l’anno. Nel 2022 i casi di ingiusta detenzione sono stati 539, per una spesa complessiva in indennizzi di cui è stata disposta la liquidazione pari a 27 milioni 378 mila euro. Rispetto all’anno precedente, si assiste a un leggero calo dei casi di innocenti finiti in manette (-26), a fronte di una spesa che è aumentata invece di quasi 3 milioni di euro. Continua dunque la flessione già notata negli ultimi due anni. Ma è oggettivamente difficile immaginare che si tratti esclusivamente di un processo virtuoso del sistema. Assai più probabile, anzitutto, che la pandemia continui a far sentire i suoi effetti sull’attività giudiziaria a tutti i livelli, dunque anche sul lavoro delle Corti d’appello incaricate di smaltire le istanze di riparazione per ingiusta custodia. Ma un discreto peso su questa tendenza al calo dei casi lo ha soprattutto quella tendenza restrittiva secondo cui lo Stato respinge la stragrande maggioranza delle domande presentate o tende comunque a liquidare importi sempre molto vicini ai minimi di legge. Per quanto riguarda le statistiche sugli errori giudiziari veri e propri, il presupposto di partenza dev’essere che la contabilità degli errori giudiziari parte in Italia dal 1991, per arrivare anch’essa fino al 31 dicembre 2022: il totale è di 222, con una media che sfiora i 7 l’anno. La spesa in risarcimenti è salita a 86.206.214 euro (pari a una media appena inferiore ai 2 milioni e 694 mila euro l’anno). Se consideriamo soltanto il 2022, da gennaio a dicembre gli errori giudiziari sono stati in tutto 8: uno in più rispetto all’anno precedente. Un occhio infine alla spesa totale in risarcimenti per errori giudiziari. Il 2022 ha visto schizzare clamorosamente questa voce di spesa: 9 milioni e 951 mila euro, oltre 7 volte in più rispetto allo scorso anno. Ma a questo proposito è corretto ricordare che i criteri di elaborazione dei risarcimenti sono molto più discrezionali e variabili rispetto a quelli fissati invece dalla legge per l’ingiusta detenzione. Lazio. Carceri sovraffollate, mille detenuti in più della capienza. E manca un terzo dei magistrati di Fulvio Fiano Corriere della Sera, 28 gennaio 2024 Il presidente della corte d’Appello, Meliadò: “Lazio capitale del crimine organizzato. A Regina Coeli affollamento al 160%”. “Per quantità e qualità dei fenomeni radicati nel territorio di Roma e nei circondari di Latina, Velletri, Cassino e Frosinone, la realtà criminale del Lazio è ormai comparabile a quella delle “capitali storiche” della criminalità organizzata del Paese”, dice il presidente della Corte d’Appello di Roma, Giuseppe Meliadò. Nell’anno trascorso erano 267 i procedimenti avviati contro la criminalità organizzata. Ma gli strumenti per contrastare questo dilagare di organizzazioni criminali, autoctone o “importate” come succursali delle grandi associazioni mafiose, sono insufficienti. Organici scoperti - La prima criticità è quella della mancanza di magistrati: “Nella Capitale il vero nodo della riforma del processo penale si può sinteticamente descrivere nella considerazione che nella Capitale d’Italia molti sono i reati, ma pochi i giudici destinati a farvi fronte”, sintetizza Meliadò, indicando il 37 percento di personale mancante nella corte d’Appello. “Sebbene l’arretrato nel corso del 2023 sia sceso nettamente, nel settore penale, sotto la quota dei 50.000 fascicoli, resta tuttavia imponente e con 46.903 processi pendenti segna un divario incolmabile con le altre corti italiane”. Si tratta per Meliadò di un problema giudiziario nazionale che può essere rimosso solo attraverso interventi straordinari di aumento dell’organico. Un allarme che poche settimane fa aveva lanciato anche il procuratore capo Francesco Lo Voi, citando i 20 pm mancanti su una pianta organica di 94 e i 211 posti mancanti nel personale amministrativo sui 63o previsti. “Suicidi in aumento” - Ma ad essere in sovraccarico non sono solo gli uffici giudiziari, quanto anche le carceri del Lazio. Nei 14 istituti penitenziari della regione sono detenuti 6.304 uomini e donne rispetto ai 5.287 posti previsti. In totale si registra un tasso di affollamento pari al 119,2% , e un aumento del 6,4% rispetto al 2022 (+10% dei detenuti con pene da scontare inferiori ai 5 anni, +7,6% tra quelli con condanne maggiori). Nove istituti superano la capienza massima (Regina Coeli è pieno al 160,7%). Un aspetto sul quale si è soffermato il procuratore generale Salvatore Vitello, parlando di “condizione di criticità” in cui “vanno anche considerati i dati drammatici su suicidi ed episodi di autolesionismo che registrano un aumento”. L’appello dei penalisti - Rispetto alla situazione degli istituti penitenziari il presidente della Camera penale, l’avvocato Gaetano Scalise ricorda invece come non si sia “messo mano ad un intervento organico e strutturale per trasformare i luoghi di degrado che, con poche e rimarchevoli eccezioni, sono le nostre carceri in quei luoghi di recupero che la Costituzione aveva disegnato”. Per affrontare il problema Scalise auspica la formazione di un tavolo distrettuale permanente in corte d’Appello “che veda la presenza dei magistrati di sorveglianza, della procura generale e dell’avvocatura”. Verona. Suicidi in carcere, 4 casi in 2 mesi: oggi sit-in davanti al penitenziario di Giuseppe Pietrobelli Il Fatto Quotidiano, 28 gennaio 2024 Uccidersi in carcere. Nel giro di un paio di mesi nella casa circondariale di Montorio, alle porte di Verona, si sono suicidati quattro detenuti. Un numero agghiacciante, che è stato rimarcato anche nella relazione del presidente della Corte d’Appello di Venezia all’inaugurazione dell’anno giudiziario, pur riferite al periodo giugno 2022-giugno 2023. Carlo Citterio ha detto: “Nelle carceri del Veneto i posti previsti sono 1947, i detenuti invece sono 2481, di cui 1250 stranieri e 131 donne. È cresciuto il numero dei suicidi, da 4 a 6, dei tentati suicidi da 95 a 99 e di episodi di autolesionismo, da 768 a 787. Ricordiamoci che i detenuti sono affidati allo Stato e il suicidio è un’anomalia difficilmente accettabile”. Se dal palazzo della giustizia arrivano queste parole, i familiari dei detenuti hanno deciso di mobilitarsi. L’appuntamento è per domenica 28 gennaio alle 14.30 davanti a Montorio, con un “presidio contro il suicidio in galera”. L’iniziativa è promossa da due associazioni, Sbarre di zucchero-Mai più una/uno di meno e Ristretti Orizzonti, che dichiarano: “Noi non ci stiamo, non possiamo e non vogliamo né accettare né considerare i suicidi in carcere come un male incurabile ed inevitabile. Un carcere migliore equivale ad una maggiore sicurezza per la collettività, all’abbattimento della recidiva, a condizioni lavorative migliori per tutti gli operatori penitenziari. Ma soprattutto equivale a meno suicidi, che in questo primo scorcio del 2024 sono già 10”. Il dato riguarda tutta l’Italia, l’ultimo suicidio dietro le sbarre a Verona è avvenuto il 23 gennaio scorso, gli altri tre risalivano all’autunno. Monica Bizaj, Micaela Tosato e Marco Costantini denunciano anche “l’ennesimo governo sordo e cieco di fronte a una situazione carceraria drammaticamente abbandonata a sé stessa - Per quanto voi vi crediate assolti, siete per sempre coinvolti”. E aggiungono: “È un attimo perdere ogni speranza e farla finita con una corda attorno al collo in un carcere dove non ci sono attività e non c’è lavoro, se non alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, dove regna la povertà, dove i ristretti vengono da ambienti di marginalità sociale, dove moltissimi sono stranieri senza l’appoggio economico ed affettivo delle famiglie”. La denuncia si estende al mancato rinnovo dell’accordo con una cooperativa di lavoro che occupava 150 detenuti. “In questo modo il carcere diventa un non-posto e la pena un deleterio non-tempo”. Attualmente a Verona lavorano 35 detenuti su 540. A dicembre un gruppo di detenuti aveva inviato un esposto in Procura dopo il suicidio di un marocchino, con problemi psichici e già reduce da un tentato suicidio, che era stato messo in isolamento. Gli avvocati della Camera penale di Verona avevano dichiarato lo stato di agitazione. Paradossalmente il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari (Lega) in visita a Montorio a metà gennaio, ha detto: “La cura contro i suicidi in carcere è il lavoro”. Qualche giorno fa il consiglio regionale del Veneto ha approvato a maggioranza una risoluzione presentata da Erika Baldin, capogruppo del Movimento 5 Stelle, che impegna la giunta regionale a trovare soluzioni concrete ai problemi di sovraffollamento, suicidi, sommosse, carenza di personale e condizione delle madri detenute. “Mi fa piacere che il Consiglio regionale, con l’eccezione di Fratelli d’Italia, abbia convenuto di auspicare l’impegno dell’esecutivo regionale con il governo. - ha detto Baldin - Il sovraffollamento delle carceri venete si attesta in media al 128 per cento, con picchi che raggiungono il 156 per cento nelle case circondariali di Treviso e Verona, del 144 per cento nella casa di reclusione di Padova”. “In media dove dovrebbero esserci al massimo dieci detenuti se ne trovano almeno tredici, con picchi di 16, gestiti da un numero sempre inferiore di guardie carcerarie” conclude Baldin. Torino. Allarme carceri, strapiene e violente. E la giustizia minorile rischia il tilt di Sarah Martinenghi La Repubblica, 28 gennaio 2024 Carceri sovraffollate, carenti di educatori e di assistenza sanitaria, dove si registra il “triste primato” dei suicidi (a Torino), dove le inchieste di quattro procure mettono in luce botte e presunte torture sui detenuti, dove c’è spaccio di droga e uso impavido dei telefonini. Non c’è discorso all’inaugurazione giudiziaria del 2024 che si esima dall’affrontare di petto la fragilità degli istituti penitenziari piemontesi. Criticità che allarmano così come la crescita dei reati che coinvolgono gli adolescenti, il dramma degli infortuni sul lavoro, l’aumento dei reati da codice rosso e dei femminicidi e la piaga dell’evasione fiscale. Parte dalla constatazione che il tema del carcere “non porta consensi elettorali” la procuratrice reggente Sabrina Noce “per cui la classe politica tende a occuparsene solo quando non può farne a meno e senza un coerente disegno di riforma, mentre la società libera, spesso, opera nei confronti dell’argomento una vera e propria corda citando il poeta polacco Stanislaw Lec sopravvissuto alla Shoah (che diceva “nei paesi nei quali gli uomini non si sentono al sicuro in carcere, non si sentono sicuri nenache in libertà”), nei nostri istituti “non si sente al sicuro né chi è ristretto, né chi vi lavora”. Non c’è solo il dramma di chi si toglie la vita. Ma anche “altri nodi” come “l’accentuata fragilità personale, familiare e sociale dei detenuti, la diffusione di disturbi psichici, la marginalità accompagnata dalla debolezza delle reti di sostegno, la dubbia ragionevolezza, nell’ottica di una detenzione utile alla risocializzazione, delle pene detentive brevi” ricorda la pg. E poi “l’edilizia” visto che gli ambienti richiederebbero interventi non solo per renderli “vivibili, ma anche idonei allo svolgimento di attività di formazione, studio e lavoro”. Anche perché il sovraffollamento (7 istituti su 14) significa “non solo minor spazio a disposizione ma anche minore assistenza sanitaria e meno rieducazione”. Eppure rimarca la presidente dell’ordine degli avvocati Simona Grabbi ci sono “16 educatori per 1480 detenuti al carcere Lorusso e Cutugno”. E non si può che “protestare” di fronte al fatto che “dei 166 milioni di fondi straordinari messi dal governo per la manutenzione degli istituti di pena nulla è stato assegnato per il Piemonte”. Si aspetta un ruolo più incisivo da parte della magistratura di sorveglianza il garante dei detenuti Bruno Mellano. E occorrono “scelte drastiche e decisive” per far scendere il numero dei detenuti a Torino, come chiudere o spostare le sezioni dei collaboratori di giustizia o dell’Alta sicurezza. “Non dobbiamo arrenderci a un legislatore disattento e alla penuria di risorse perché anche chi decide la pena e la sua qualità si assume la responsabilità dello stato attuale delle nostre carceri” ammonisce l’avvocato Roberto Capra, presidente della camera penale Vittorio Chiusano. Soffre anche il carcere minorile, anche per l’aumento di arresti dopo le modifiche del decreto Caivano. E l’allarme è alto: aumentano “i delitti di sangue, la pedopornografia, le violenze sessuali, stalking e rapine”. Servono “più strutture giudiziarie minorili” dice la pg Noce. E fa notare il prossimo baratro: “Se si confermerà a ottobre l’entrata in funzione del Tribunale per le famiglie la procura dei minori si troverà investita del ruolo civile di tutte le procure del circondario per separazioni, divorzi, affidamenti, interdizioni, amministrazioni di sostegno che riguardano anche maggiorenni”. Una riforma “a costo zero”, senza incrementi di organico, Ancona. “Detenuti psichiatrici, strutture inadeguate” Il Resto del Carlino, 28 gennaio 2024 Il monito lanciato durante la cerimonia dal procuratore generale presso la Corte d’Appello, Roberto Rossi. “Assoluta inadeguatezza delle strutture per il trattamento dei detenuti affetti da patologie psichiche: lo scarsissimo numero posti delle poche Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, ndr) in Italia pone i magistrati nella drammatica alternativa di mantenere tali soggetti nell’ordinario circuito carcerario (del tutto inidoneo al loro trattamento) ovvero di lasciarli liberi ponendo a rischio la incolumità dei cittadini”. Il monito è stato lanciato durante l’inaugurazione dell’Anno giudiziario delle Marche dal procuratore generale presso la Corte d’Appello Roberto Rossi. Nelle Marche solo il carcere di Ascoli ha un Reparto di osservazione psichiatrica. Il tema dell’assistenza ai detenuti con problemi psichiatrici si è riproposto con forza dopo il suicidio in cella lo scorso 5 gennaio ad Ancona del 25enne Matteo Concetti nato a Fermo ma con famiglia di Rieti. Il Pg ha denunciato anche la “carenza del 34% di personale di polizia penitenziaria, ben oltre i livelli di tollerabilità”. Per il rapporto detenuti-posti, invece, Rossi ritiene la situazione marchigiana “non afflitta dai problemi di grave sovraffollamento che caratterizzano la situazione carceraria italiana: con l’eccezione di Montacuto, gli altri istituti penitenziari del Distretto non registrano, sotto questo specifico profilo, condizioni allarmanti”. Nel 2023 nelle Marche le carceri sono tornate sovraffollate (877 detenuti, 835 posti; circa 5%): ad Ancona Montacuto (309 presente contro 256 posti, +17%) a Pesaro (220 per 153 posti, +30,5%) e Fermo (55 per 41, +25%); mentre ad Ascoli Piceno, Ancona Barcaglione e Fossombrone presenze inferiori ai posti. Dati contenuti nella relazione del presidente della Corte d’appello di Ancona Luigi Catelli. Nelle Marche ci sono 299 detenuti stranieri (34%), 119 tossicodipendenti, 159 con problemi di natura psichiatrica ((18%). Ci sono 24 detenute, 27 devono scontare l’ergastolo e non c’è alcun detenuto in regime di 41-bis. Durante lo scorso anno (dati fino al 30 giugno 2023) si sono verificati un suicidio (3 in precedenza), e 182 atti di autolesionismo (211); 81 le aggressioni. In tutto sono state concesse 1.236 misure alternative rispetto alle 1.366 dell’anno prima. Trento. Carcere, de Bertolini: “Un Provveditorato a livello regionale” Corriere del Trentino, 28 gennaio 2024 Rinchiuso 24 ore su 24, o quasi, scorporando l’ora d’aria e quelle per le altre attività, il numero di ore che doveva trascorrere all’interno della cella era minore. Ma poco cambia, uno spazio vitale inferiore ai 3 metri quadri è insostenibile. D’altronde è il minimo sancito per legge sotto il quale non si può andare, o meglio non si potrebbe. Un detenuto la scorsa estate aveva infatti presentato reclamo perché, come ha poi accertato il magistrato di sorveglianza, lo spazio individuale nella cella era inferiore ai 3 metri quadrati. Il reclamo era stato accolto, ha ricordato la presidente della Corte d’appello Anna Maria Creazzo. Una situazione che sarebbe creata dal sovraffollamento del carcere di Trento che conta un numero di detenuti decisamente superiore a quello stabilito nell’accordo tra il ministero e la Provincia, ossia 240 detenuti. In media ce ne sono 336. È critica anche la situazione del carcere di Bolzano, struttura vecchia che ospita 108 detenuti (il dato è riferito ad agosto). “Un’offesa” al governo dell’Autonomia l’ha definita l’avvocato Andrea de Bertolini, consigliere provinciale e capogruppo regionale del Pd, intervenuto ieri nel corso della cerimonia. E “l’amministrazione penitenziaria, per tutelarsi formalmente dalle condanne della struttura di Spini sull’incivile violazione dello spazio minino di tre metri quadrati imposto dalla Cedua presidio della dignità umana per ogni detenuto all’ interno della cella-ha spiegato - non ha scelto di ripristinare l’accordo iniziale che calmierava la capienza, piuttosto ha scelto di smantellare pezzi di celle (l’antibagno, un piano di acciaio ancorato al pavimento a uso di cucinino) rimuovendoli come rifiuti per recuperare spazio”. De Bertolini rilancia l’idea di creare un Provveditorato regionale. “È il momento di riprendere il dialogo politico. L’esperienza dei Provveditorati strutturati su macroregioni sono una risposta inadeguata a garantire i diritti fondamentali dei detenuti e ad assicurare condizioni lavorative dignitose a chi opera nelle carceri. Noi tutti abbiamo un obbligo morale, prima ancora che giuridico e politico, di rendere le nostre prigioni luogo di rinascita individuale”. Intanto prende forma il Polo giudiziario che dovrebbe essere pronto per il 2026. Il presidente Maurizio Fugatti ha annunciato che entro febbraio sarà avviata la procedura d’appalto per l’affidamento dei lavori, previsti per la fine dell’estate 2024”. Per l’opera sono stati stanziati 60 milioni. “Il progetto esecutivo è completato ed è in corso di approvazione”, ha ricordato. La terza fase del progetto prevede la realizzazione dell’edificio della Procura e del Tribunale di Sorveglianza. L’idea è avviare l’appalto nel 2025. Per quanto riguarda il Polo di Bolzano Fugatti ha spiegato che è stato individuato un immobile ritenuto idoneo vicino al Palazzo di giustizia. Padova. “Portiamo il lavoro nella Casa circondariale”: l’appello del sottosegretario Ostellari padovaoggi.it, 28 gennaio 2024 L’invito del rappresentante del Governo raccolto e rilanciato dal Presidente della Camera di Commercio Santocono: “Faremo la nostra parte per sensibilizzare il tessuto economico del territorio”. Transizione digitale della giustizia, smaltimento dell’arretrato, processi più veloci, garanzie per il cittadino e carceri. Di questo si è discusso nell’ambito di un incontro fra il sottosegretario di Stato alla Giustizia, il senatore Andrea Ostellari, e i rappresentanti delle categorie economiche padovane: l’appuntamento, organizzato dalla Camera di Commercio di Padova, si è svolto nella sede dell’ente in piazza Insurrezione. L’occasione ha consentito al senatore di fare il punto sull’attività del Governo nei diversi settori della Giustizia e confrontarsi con le domande dei partecipanti. “La recente costituzione di un dipartimento per la Transizione digitale - ha spiegato Ostellari - consentirà di rispondere alle esigenze di privati e aziende, soprattutto nel settore del processo civile. Affrontiamo il cambiamento con fiducia, consapevoli che alcune iniziali difficoltà saranno superate. Un primo obiettivo è già stato raggiunto nel 2023: il processo civile telematico è stato esteso ai giudici di pace”. Nel corso dell’incontro il Sottosegretario ha inoltre lanciato un appello al mondo imprenditoriale: “In Italia il processo è pubblico e le sentenze sono emesse in nome del popolo. Non si comprende perché l’esecuzione della pena, dal momento della condanna fino alla piena espiazione, venga trattata come una questione privata tra condannato e Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Come se il penitenziario fosse un luogo fuori dal mondo dei normali e detenuti, personale e volontari vivessero in una dimensione parallela. Le carceri e chi le abita possono essere una risorsa per tutta la comunità, a partire dalle aziende. A Padova abbiamo due istituti, la Casa di reclusione Due Palazzi e la Casa circondariale. Presso il primo sono attive esperienze di successo, mentre la casa circondariale non offre le stesse opportunità di lavoro, per mancanza di spazi adeguati. Ora quegli spazi sono in via di ristrutturazione e saranno presto disponibili: parliamo di almeno 300 metri quadri di superficie: invito le aziende interessate a visitarli e a scoprire i vantaggi che potrebbero ottenere, trasferendo alcune lavorazioni in carcere”, ha concluso Ostellari, elencando gli sgravi contributivi previsti dalla legge Smuraglia e ricordando come il lavoro in carcere non sia “un premio ma il migliore strumento per fare vera rieducazione, combattere la recidiva, ridurre aggressioni e comportamenti autolesivi da parte dei detenuti, oltre che consentire a chi ha sbagliato di mantenersi, senza gravare sulla comunità”. Camera di Commercio di Padova - Un appello subito raccolto e rilanciato da Antonio Santocono, presidente della Camera di Commercio di Padova: “Faremo la nostra parte per sensibilizzare le imprese del territorio. Le esperienze sviluppate all’interno della Casa di reclusione sono da tempo indicate come un modello nazionale, la possibilità di aprire nuovi percorsi in questo senso anche all’interno del circondariale rappresenta una bella notizia, una sfida che chiede coraggio e capacità di visione e che auspico alcune imprese del territorio sappiano raccogliere”. Firenze. “Un carcere poco umano”. Il grido d’allarme dei magistrati di Pietro Mecarozzi La Nazione, 28 gennaio 2024 Caldo, insetti, lavori a metà: tutti i mali di Sollicciano. Sei detenuti su 10 sono stranieri: record in Italia. Le cimici che morsicano la pelle dei detenuti, i topi, le infiltrazioni, il caldo che rende l’aria irrespirabile d’estate, dentro Sollicciano. Condizioni che, constata il presidente del tribunale di sorveglianza, Marcello Bortolato, nella sua relazione 2024, rendono “la detenzione nel carcere cittadino particolarmente gravosa se non, in casi sempre più frequenti, contraria ai principi di umanità della pena per i condannati e dell’esecuzione delle misure cautelari per gli imputati”. Anno (giudiziario e non) che passa, ma le soluzioni per Sollicciano restano sempre un miraggio. Nonostante lavori appaltati per undici milioni di euro, restano da fare forse i principali interventi che consentirebbero al penitenziario di assumere sembianze più accoglienti: le facciate ventilate, necessarie per abbattere l’afa insopportabile, e i lavori all’impianto della acqua calda che permetterebbe l’installazione di una doccia in ogni stanza del maschile. Sollicciano, il più grande carcere della regione, resta così afflitto dai suoi problemi congeniti, che inevitabilmente si riflettono sulla vita carceraria. Dei sei detenuti che si sono tolti la vita nel periodo osservato dalle relazioni (1 luglio 2022 - 30 giugno 2023), quattro erano ospiti della casa circondariale fiorentina. “Luci e molte ombre”, ha sintetizzato il procuratore generale Ettore Squillace Greco dedicando una buona parte del suo intervento alla situazione carceraria. E le luci stanno sul dato delle presenze: Sollicciano non è più affollato come un tempo e ora la popolazione reclusa è calata sensibilmente: erano 585 l’anno scorso, ora sono 450. Di questi, 302 detenuti, pari al 63,8%, sono stranieri: è il dato più alto in tutta Italia. Il gruppo più rappresentato è il Marocco e a seguire Romania, Tunisia e Albania. Le donne sono invece 46. Un alleggerimento che è forse figlio della crescita delle misure alternative e che potrebbe trovare ulteriore respiro nelle “case per la semilibertà”, che, sottolinea Bortolato, “pur previste dalla normativa vigente, non sono mai state realizzate in Italia, e di cui la Toscana potrebbe rappresentare il primo esperimento”. Brescia. Il nodo carcere. Il ministro Nordio: “È tutto pronto, i fondi ci sono” di Lilina Golia Corriere della Sera, 28 gennaio 2024 Il sindaco Alfredo Bazoli: “Il progetto è per pochi posti”. Cita Pietro Calamandrei e ricorda che “il carcere è una ferita che bisogna aver visto”. L’annosa questione del carcere di Canton Mombello è stato uno degli argomenti del Ministro della Giustizia, Carlo Nordio. “I fondi ci sono. Non posso entrare nei particolari, ma si sta lavorando”, si è limitato a dire il Guardasigilli che ha annunciato, in riferimento alla carenza di personale, l’assunzione, nei prossimi mesi, di circa 2 mila agenti di Polizia Penitenziaria e 236 nuovi educatori, sul territorio nazionale. Su Canton Mombello in molti si aspettavano qualche rivelazione in più. Ma, per ora, pare che le uniche certezze siano il sovraffollamento della struttura che, come hanno ricordato i rappresentati dell’ordine degli Avvocati e delle Camere Penali della Lombardia Orientale, sfiora il 200% (330 detenuti per 185 posti), con conseguenti problemi di autolesionismo, tentati suicidi, suicidi e aggressioni, e i 38 milioni e 800 mila euro stanziati a novembre scorso per l’ampliamento di Verziano. La somma, aggiunta ai 15 milioni già erogati nel 2015, sarebbe sufficiente per una nuova struttura. Per il resto non trapelano particolari, o quasi. Voci non ufficiali parlano della valutazione di un ridimensionamento del padiglione, pensato per la dismissione di Canton Mombello e l’ampliamento di Verziano. “Si parla di 250 posti, rispetto ai 400 inizialmente previsti. Il che - spiega il senatore Pd, Alfredo Bazoli, membro della Seconda Commissione Giustizia -, non risolverebbe il problema. Canton Mombello va chiuso e sostituito con un padiglione studiato con il coinvolgimento di chi vive il carcere, dalla direttrice alla polizia penitenziaria, al Garante dei detenuti, fino a educatori e penalisti, e sufficientemente grande per ospitare tutti i detenuti tra Verziano e Canton Mombello, con attrezzature e spazi, anche per le attività di inserimento lavorativo, ricreative e sportive. Ben venga anche la proposta del Comune di un commissario facilitatore, individuato nell’ex presidente della Corte d’Appello, Claudio Castelli, che sia collegamento tra gli enti interessati”. Resta il problema delle aree, escludendo il sacrificio degli spazi verdi a disposizione dei detenuti a Verziano. “Il sovraffollamento, comunque non si risolve con l’edilizia penitenziaria che ha tempi lunghi. L’emergenza è ora e va gestita, ma, come ha sottolineato anche la rappresentante delle Camere Penali, non con il “panpenalismo”, con più pene per tutti. Serve un’inversione di tendenza”. Reggio Calabria. Focus su carcere e rieducazione, confronto a palazzo San Giorgio reggiotoday.it, 28 gennaio 2024 L’aula consiliare ha ospitato l’evento organizzato in occasione della cerimonia dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. Carcere e rieducazione sono stati i temi al centro dell’incontro aperto alla società civile, alle scuole, alle associazioni, ospitato ieri pomeriggio nella sala consiliare di palazzo San Giorgio a Reggio Calabria. Un evento che, come ogni anno, precede la cerimonia dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, finalizzato ad approfondire problematiche rilevanti aventi a oggetto la tutela dei diritti e le garanzie costituzionali. Il presidente facente funzioni della Corte d’appello, Olga Tarzia ha aperto l’incontro evidenziando che “sulle carceri è necessario investire poiché la struttura carceraria deve diventare qualcosa di differente, sia sotto il profilo dell’accoglienza, consentendo delle condizioni minime ai detenuti, sia sotto il profilo della capacità di restituire la dignità a chi ha commesso un reato”. “Come Amministrazione comunale abbiamo già dato un piccolo segnale - ha affermato il vicesindaco Paolo Brunetti - e stiamo continuando a operare in modo da consentire alle persone private della libertà di interagire col mondo all’esterno delle carceri. Ricordo l’esperienza fatta coi detenuti che hanno svolto attività di pulizia di alcune aree del nostro Comune. Questi interventi di inserimento nella vita sociale contribuiscono a una loro rieducazione. Grazie al nostro Garante stiamo attivando altre procedure che possono metterci in condizione di riattivare un processo messo già in moto qualche anno fa”. “La politica - ha aggiunto il vicesindaco - può fare tantissimo, partendo dalle infrastrutture per rendere le carceri più vivibili e garantire i servizi minimi anche all’interno delle strutture: è un segnale importante per chi si ritrova lì, pur avendo commesso degli errori ma con la coscienza che nel 2024 serve garantire gli standard minimi e la dignità delle persone”. “Prima dell’inaugurazione dell’anno giudiziario facciamo un focus dedicato al mondo delle carceri e alla rieducazione - ha chiarito Giovanna Russo, garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Reggio Calabria - Due tematiche importanti soprattutto per quanto concerne la crisi emergenziale che stanno vivendo gli istituti penitenziari. Oggi discutiamo della necessità di una nuova sensibilità, di un nuovo umanesimo giuridico che deve tendere verso una rieducazione che diventa necessaria, si impone alle nostre coscienze”. Toccante la testimonianza di Pasquale Morrone, detenuto del carcere di Palmi, accompagnato dal suo educatore Domenico Ciccone. Un percorso positivo e approfondito rispetto alle prospettive di reinserimento quello di Morrone che ha ringraziato i giudici che gli hanno restituito la speranza e gli hanno fatto comprendere quanto sia importante non tradire la fiducia. Collegata online anche la giornalista Katia Maugeri che nel suo lavoro ha posto particolare attenzione alle storie di vita vissute dai detenuti, e si è interrogata indagando le fragilità legate, sovente, a un sistema sociale complesso. Bologna. “Porto ai detenuti la lezione di Lucrezio” di Massimo Marino Corriere di Bologna, 28 gennaio 2024 Dionigi: “I classici insegnano a uscire dal male”. Lucrezio dietro le sbarre. La religione della libertà del grande scrittore epicureo, autore del De rerum natura, poema che rivela le mistificazioni della superstizione, varca i confini della Dozza. Lo porta domani alle 11 l’ex rettore Ivano Dionigi, da sempre studioso del poeta e del suo messaggio rivoluzionario. Partecipa a un incontro con i detenuti organizzato dal Circolo lettori del carcere, animato dalla professoressa Paola Italia e da alcuni volontari che impegnano un gruppo di detenuti nella discussione di un libro al mese, con un successivo incontro aperto al pubblico (martedì 30 alle 17.30 in Salaborsa Lab di vicolo Bolognetti). Dionigi parlerà della traduzione di Milo De Angelis di Lucrezio e porterà in omaggio ai detenuti la sua ultima fatica, L’apocalisse di Lucrezio (Raffaello Cortina editore). L’illustre classicista ha da poco tenuto una lectio magistralis alla Camera dei deputati. “C’erano - ci racconta - insegnanti, politici, sindaci e ex sindaci. E c’era il presidente Mattarella, che alla fine è venuto a salutarmi. Il titolo del mio discorso era “Perché bisogna tornare a scuola”. Ho trattato di come sia necessario superare la cultura dell’eterno presente e ricomporre le due culture, quella tecnico-scientifica e quella umanistica. Il vero nocciolo duro del sapere, senza il quale serve a poco anche l’intelligenza artificiale, è il sapere umanistico, capace di parlare al cuore e al cervello”. Alla Dozza era già entrato come rettore e dopo la pandemia: “Sono stati sempre momenti intensi. Ascolterò i detenuti e parlerò del mio Lucrezio, dicendo le stesse cose che dico in altre sedi. Sarebbero impropri e avvilenti un Lucrezio “per carcerati” o una letteratura per carcerati. Ricorderò come la lettura ampli gli orizzonti, renda liberi. Un libro ti fa evadere dalle angustie della vita normale, e a maggior ragione apre le mura del carcere”. E Lucrezio aggiunge qualcosa: “Egli abbatte i luoghi comuni: la religione olimpica, falsa, macchiata del sangue delle vittime; la smania per il negotium, per la politica, fonte di ogni male. Per Lucrezio l’uomo deve coltivare l’otium; l’unica ars è la sapienza, fare i conti con sé stessi. Il suo poema vuole educare a un mondo nuovo”. Quale può essere la lezione di queste idee in carcere? “La forza dei classici è la capacità di porre le domande ultime e penultime, senza fornire risposte. Essi sanno entrare nel male e insegnano a uscirne. Un’altra volta che fui alla Dozza vidi una ragazzina dal volto dolcissimo e seppi che aveva ucciso la figlia piccola. Se avesse conosciuto la storia di Medea… I precedenti letterari possono curare la depressione, la follia, scampare dall’abisso che travolge”. Il professore ha fiducia nella rieducazione: “Dobbiamo ostinatamente e disperatamente credere nella persona. Queste azioni culturali in luoghi di pena hanno un grande senso e fanno bene anche a chi arriva dall’esterno, lo ridimensionano. Dobbiamo recuperare il logos, in questi tempi di superficialità e di ferocia: altrimenti, pur se in giacca e cravatta, torneremo a camminare a quattro zampe, come le belve”. Il carcere di Pistoia cambia volto e “anima” con i murales dei detenuti di Giuseppe Picciano lospecialegiornale.it, 28 gennaio 2024 È possibile trasformare un doloroso luogo di espiazione, come il carcere, in uno spazio più accogliente che acquisisca una certa vitalità? A quanto pare sì, grazie all’arte. È quanto si è proposta la direzione della Casa circondariale di Pistoia, che ha lanciato un progetto per la realizzazione di alcuni murales ad opera dei detenuti nelle aree comuni della struttura. L’iniziativa, ideata con il supporto della Fondazione Caript e in collaborazione gli artisti Nico “Lopez” Bruchi” e Marco “Sera” Milaneschi dell’Associazione Elektro Domestik Force, ha coinvolto circa 25 detenuti, che hanno partecipato agli incontri di coprogettazione con i due artisti, maestri nella street art. “Nell’ambito delle iniziative a favore della popolazione detenuta - afferma la direttrice della casa circondariale Loredana Stefanelli - abbiamo voluto trasformare gli spazi fisici in spazi vitali nei quali i detenuti possano affrontare le loro paure e alimentare la speranza che il carcere da isola di disperati divenga, per quanto possibile, territorio di vita”. La realizzazione dei murales è stata preceduta da quattro incontri di coprogettazione, guidati da Bruchi e Milaneschi. Il video-maker Carlo Settembrini ha documentato ogni fase del progetto, contribuendo a immortalare il processo creativo e la partecipazione dei detenuti. Bruchi, direttore artistico della Crew, ha enfatizzato l’importanza dei momenti di scambio con i detenuti per definire il filo conduttore dell’operazione artistica. L’obiettivo era creare murales che comunicassero in modo semplice ed efficace, rappresentando le idee e le aspirazioni dei detenuti. “Guidati dalle loro idee - spiega Bruchi - abbiamo progettato i murales cercando di trovare canali comunicativi semplici ed efficaci. Creare bellezza insieme è una cosa che non capita tutti i giorni all’interno di un carcere. Il sostegno da parte di tutti i detenuti è stato emozionante, il loro profondo coinvolgimento ha fatto sì che, anche nella fase di realizzazione, si respirasse uno spirito di collaborazione per migliorare gli spazi comuni”. I murales, collocati su di un arco del piano superiore, sulla parete della sala polivalente e sul muro del campo da calcio, narrano storie differenti: un “albero della speranza” nel quale le foglie diventano lettere, esiti di un percorso introspettivo, forse una corrispondenza con l’esterno, forse pagine di libri. Al centro, inciso nella corteccia, è un cervello, simbolo dello sviluppo intellettuale e, frontalmente, sono dipinte sbarre divelte a significare che è la saggezza a rendere liberi. Sullo sfondo un paesaggio italiano e in alto sono tre parole chiave scelte dai detenuti: sacrificio, speranza, libertà. Il mare è il tema centrale del murale nella sala polivalente. Il dipinto è visibile attraverso la parete di una stanza detentiva che è stata abbattuta. All’interno della stanza, in primo piano, sono raffigurate le mani di un detenuto che spezzano delle catene e, all’esterno, alcune bandiere di diverse nazioni e parole, anche queste indicate dai detenuti. Nel campo di calcio, lo scenario è l’interno di un’astronave, a rappresentare un viaggio nelle infinite possibilità dell’universo. Nel vetro dell’astronave sono dipinte diverse immagini: propri cari, personaggi celebri, ricordi del proprio vissuto. Un pianeta con una donna che aiuta un uomo a rialzarsi è tributo alle compagne di vita dei detenuti. Altre immagini: due mani che si tengono strette e si sostengono l’una con l’altra. Un pianeta ricorda un pallone in un vortice di luce intergalattico, simbolo che, attraverso lo sport, si superano un po’ i confini della detenzione. Voci dietro le sbarre. Arriva la poesia e libera i sentimenti di Daniele Piccini Corriere della Sera, 28 gennaio 2024 “Silvana Ceruti. Oltre le mura”, il documentario di Marco Manzoni rievoca i trent’anni del laboratorio di scrittura in versi che Silvana Ceruti tiene nel carcere milanese di Opera. “Tutti possono diventare autori, per un detenuto è necessario dare uno sfogo alle emozioni”. Sul finire della sua breve vita, nel 1995, in uno scritto che introduce l’antologia Scrittori dal carcere (edita in Italia da Feltrinelli nel 1998), Iosif Brodskij osserva che la carcerazione è quasi levatrice della letteratura. Certo, Brodskij pensa ai poeti e agli scrittori reclusi per ragioni di dissidenza. Ma forse quella “limitazione di spazio compensata da eccesso di tempo”, di cui il poeta parla a proposito della reclusione, può diventare incubatrice di un’espressione letteraria anche in chi prima di entrare in carcere scrittore non era. Ne è sicura, da trent’anni, Silvana Ceruti, toscana di origine ma milanese da una vita, che appunto dal 1994 tiene un laboratorio di lettura e scrittura creativa nella casa di reclusione di Milano-Opera. “Sono fermamente convinta - ci dice - che ogni persona possa imparare a scrivere poesia”. E a proposito dei detenuti che frequentano il suo corso osserva: “Per le persone detenute c’è una vera urgenza di essere ascoltate, di sentire accettati i propri sentimenti. Riuscire a dare una forma, con le parole, al proprio sentire, cioè a dargli dei contorni, dei limiti che rendono oggettivabile ciò che si prova, aiuta la persona detenuta a non “esplodere” per la forza di sentimenti che non trovano altrimenti via di uscita”. La lunga militanza di educazione alla poesia nella casa di reclusione di Opera è diventata oggetto di un documentario di Marco Manzoni, intitolato “Silvana Ceruti. Oltre le mura”, che verrà presentato a Milano, a Palazzo Marino, il 21 febbraio, con un’anteprima sabato 3 febbraio nel carcere, appunto, di Opera. Manzoni si è costruito negli anni un percorso di riflessione sul tema della ricerca di senso con una serie di film-intervista a grandi personaggi della società e della cultura, tra cui Ermanno Olmi e Franco Loi (sono tutti visionabili sul sito nuovoumanesimo.it). A proposito della poesia, Manzoni, fondatore di Studio Oikos e animatore di progetti culturali interdisciplinari, osserva: “Penso che i poeti parlino sempre all’uomo, anche a quello contemporaneo. E penso che la sparizione progressiva di uno spazio poetico nella società contemporanea non sia solo una perdita culturale, ma una perdita di senso dell’esistenza poiché, come diceva Loi, la parola poetica è quella che si avvicina di più al territorio dell’indicibile, quindi al silenzio, quindi all’essenza, quasi impronunciabile, della vita”. Leggendo gli autori che Silvana Ceruti propone loro, con l’aiuto di altri volontari, ma anche interrogando il proprio vissuto, i detenuti di Opera imparano ad avvicinarsi a una zona incandescente dell’interiorità, dove la parola zampilla da una sorta di pulizia dell’anima. Passano attraverso un’opera di rimozione del male fatto e ricevuto, per aprirsi di nuovo. Sono ormai diverse le antologie poetiche nate dal laboratorio di lettura e scrittura creativa tenuto all’interno della casa di reclusione e curate da Silvana Ceruti (da un certo punto in poi con Alberto Figliolia) per la casa editrice milanese La Vita Felice. Si va da In un mignolo d’aria (1999) fino alle più recenti: Attraversando muri di silenzio (2016), Nacqui ortica selvatica (2017), Gridi e preghiere (2019). Ceruti, che è poetessa in prima persona, è persuasa anche della dignità dei testi scritti dai detenuti, oltre che della loro funzione liberatoria: “Il contatto di così tanti anni con persone detenute ha rafforzato la mia convinzione che ogni persona, di qualunque età, provenienza sociale e culturale, abbia bisogno di dirsi in poesia, per riconoscersi, per scoprire e avere fiducia nella propria ricerca di verità e bellezza”. Alcuni degli allievi del laboratorio hanno poi pubblicato sillogi personali, tutte loro. Ma già nelle antologie a più voci i detenuti - i cui nomi si ripetono di libro in libro, perché si affezionano a quell’esperienza di condivisione che è il laboratorio del sabato mattina e la rifanno anno dopo anno - si esprimono con una loro originalità. È il caso di Domenico Branca, che vede fiorire dalla solitudine che si sperimenta in carcere la possibilità di spalancarsi alla “pienezza/ del mistero”. O ancora di Carmine Alvaro, che azzarda un “mi ansierò”, per dire del passaggio lento e logorante del tempo nella reclusione, che non esclude però la speranza di ritrovare chi si è amato: “Rivivrò con chi ho vissuto./ Ritroverò chi ho perso”. Antonino Di Mauro scrive invece in siciliano e sogna di cancellare il lungo tratto della vita segnato dagli sbagli: “Lassassi sulu tannicchia/ da me vita./ Quali? / Quannu era picciriddu,/ u restu ‘u scancillassi” (“lascerei solo un poco/ della mia vita./ Quale?/ Quando ero bambino,/ il resto lo cancellerei”). Molti degli allievi del laboratorio sono stranieri: dà loro voce Gentian Ndoja, che in versicoli di sapore ungarettiano paragona a un albero solitario esposto alle raffiche del tempo atmosferico “la vita/ dura, anonima/ di uno straniero/ imprigionato”. Sembrano chiedere la nostra attenzione queste voci, chiamarci, indovinare il punto in cui siamo non loro giudici, ma piuttosto fratelli. Viene alla mente un passaggio della Ballata del carcere di Reading di Oscar Wilde (1898), dove il poeta a proposito di sé e del recluso condannato a morte che è al centro dell’opera scrive (la traduzione è di Masolino d’Amico): “Circondava entrambi un muro di prigione./ Due reietti eravamo:/ Il mondo ci aveva espulsi dal suo cuore,/ E Dio dalla Sua Grazia:/ E la ferrea tagliola che aspetta il Peccato/ Ci aveva presi nella sua insidia”. Proprio di un’esperienza di comunione parla Silvana Ceruti a proposito del laboratorio, di uno scambio profondo di sentimenti, che spesso è all’origine di rapporti che si mantengono negli anni tra i volontari e i detenuti, anche quando questi tornano liberi. E paragona i carcerati ai bambini di cui è stata in passato maestra nella scuola elementare: “Ho sempre chiesto ai miei piccoli alunni di scrivere poesie con risultati straordinari e copiosi”. Il punto, secondo lei, è che la poesia non sia “un privilegio solo di alcune menti straordinarie”. Per cui non basta imparare a memoria i testi ormai classici, occorre anche sentirsi adeguati alla poesia e immergersi nel suo linguaggio. Perciò se spesso il laboratorio fa spazio alla presenza di poeti riconosciuti, come Franco Loi o Milo De Angelis, che ne sono stati ospiti nel corso degli anni, il segreto della longevità di questa esperienza poetica fatta con gli ultimi sta nella tenacia di credere che la poesia si possa insegnare. I detenuti amici del laboratorio la leggono e la scrivono e si trasformano in alunni. E noi? La pena di morte sul banco degli imputati. 55 Paesi ancora la hanno di Enrico Franceschini La Repubblica, 28 gennaio 2024 Dopo l’esecuzione negli Stati Uniti del primo condannato ucciso con l’azoto puro, una tecnica di soffocamento descritta dai suoi avvocati come “una tortura”, la pena capitale torna a far discutere. Dopo l’esecuzione negli Stati Uniti del primo condannato ucciso con l’azoto puro, una tecnica di soffocamento descritta dai suoi avvocati come “una tortura”, la pena di morte torna sul banco degli imputati. Un cittadino giapponese è stato condannato in questi giorni all’impiccagione per un incendio doloso in cui hanno perso la vita 36 persone e il numero di esecuzioni è in aumento, sebbene molti Paesi abbiano abolito la pena capitale. Ecco una scheda per capire come si è schierata la comunità internazionale sulla questione. Secondo cifre di Amnesty International citate dalla Bbc, 55 nazioni (su 195 Paesi membri dell’Onu, ovvero poco più di un quarto) hanno tuttora in vigore la pena di morte. Tra i 55 che l’hanno ancora in vigore, tuttavia, quasi metà, per la precisione 23, non eseguono condanne a morte da almeno dieci anni, e 9 la prevedono soltanto per reati come i crimini di guerra o le stragi di massa. Tra questi, lo stato di Israele, che ha eseguito una sola condanna a morte nei 76 anni della sua esistenza: nel 1962, nei confronti di Adolf Eichmann, l’ex gerarca nazista soprannominato “l’architetto dell’Olocausto”. Migliaia all’anno - Un rapporto di Amnesty International afferma che la Cina è il Paese che esegue più condanne a morte, uccidendo così migliaia di detenuti ogni anno: ma Pechino non rende note cifre ufficiali in materia, per cui si tratta di una stima. A parte la Cina, nel 2022 sono state eseguite 883 condanne a morte nel resto del mondo, il numero più alto dal 2017, ma meno dei 1500 giustiziati nel 2015. 28 mila in attesa - A livello mondiale, Amnesty International calcola che 28282 persone siano detenute nel “braccio della morte” di una prigione in attesa della pena capitale. Tra appelli e richieste di grazia, molti di essi aspettano per anni o perfino decenni il giorno dell’esecuzione. Cina e Iran - Dopo la Cina, di cui non si conoscono le cifre ufficiali ma si ritiene che siano più di 1000 l’anno, il Paese che nel 2022 ha eseguito più condanne a morte è l’Iran con 576, seguito da Arabia Saudita con 196, Egitto (24), Stati Uniti (18), Singapore e Iraq (11), Kuwait (7), Somalia (6), Sud Sudan (5). Negli Usa il numero di esecuzioni capitali declina da due decenni, da un massimo di 98 eseguite nel 1999, a testimonianza di una crescente opposizione alla pena di morte fra l’opinione pubblica americana. Paesi abolizionisti - Nel 1991 soltanto 48 Paesi non prevedevano in alcun caso la pena di morte: oggi sono 112 a non contemplarla in nessuna circostanza. Tra gli ultimi che l’hanno abolita, nel 2022, figurano Kazakhstan, Papua Nuova Guinea, Sierra Leone e Repubblica Centroafricana. I metodi - L’Arabia Saudita è l’unico Paese del mondo che esegue la pena di morte tagliando la testa ai condannati (in passato la Francia usava la ghigliottina). Altri metodi attualmente in vigore includono l’impiccagione, la fucilazione e l’iniezione letale. Kenneth Smith, l’uomo ucciso con il gas di azoto stamani in Alabama per l’omicidio di una donna, è spa prima persona al mondo giustiziata con questo metodo. Stati Uniti. L’esecuzione di Eugene Smith arriva all’Onu: “Un atto di tortura” di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 28 gennaio 2024 Il detenuto è stato giustiziato in Alabama con l’azoto, il primo nella storia degli Usa. Durissima condanna dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani. A niente sono valsi gli appelli per sospendere l’esecuzione presentati in extremis dagli avvocati di Kenneth Eugene Smith. Così, giovedì sera intorno alle ore venti, l’uomo è diventato il primo condannato a morte nella storia Usa a venire giustiziato con l’immissione di azoto attraverso una maschera. Una “cavia” come ha denunciato l’alto commissario dell’Onu per i diritti umani. La cronaca degli ultimi istanti di vita di Smith è drammatica. A cominciare dalle sue ultime parole: “l’Alabama ha fatto fare un passo indietro all’umanità”. Dopo che il gas ha iniziato a fluire nella sua maschera, il detenuto è sembrato sorridere, e fatto un cenno verso la sua famiglia avrebbe sussurrato: “Grazie per avermi sostenuto. Vi ho amato tutti” Un testimone ha riferito che subito dopo Smith ha sussultato violentemente sulla barella, l’esecuzione è durata in tutto circa 25 minuti. Uno dei cinque membri dei media trasportati all’Holman Correctional Facility di Atmore per assistere all’esecuzione ha ammesso che si è trattato di una scena diversa da qualsiasi altra a cui avesse assistito in Alabama. Respirare azoto senza ossigeno provoca la rottura delle cellule del corpo e porta alla morte. Il governatore dell’Alabama, Kay Ivey, che non ha voluto essere presente, ha confermato la morte di Smith solo in una dichiarazione: “Dopo più di 30 anni e un tentativo dopo l’altro di ingannare il sistema, il signor Smith ha risposto per i suoi orrendi crimini. Prego che la famiglia di Elizabeth Sennett possa avere una fine al dolore dopo tutti questi anni passati a gestire quella grande perdita”. Smith fu uno dei due uomini condannati per l’omicidio della donna, un assassinio su commissione per 1000 dollari nel marzo 1988. La 45enne venne picchiata con un attizzatoio e pugnalata al petto e al collo, poi fu inscenato un tentativo di furto con scasso. In realtà suo marito Charles Sennett, un predicatore oberato dai debiti, aveva orchestrato il piano per ricevere i soldi dell’assicurazione. Si è ucciso mentre gli investigatori si avvicinavano alla verità. Eugene Kenneth Smith ha trascorso decenni nel braccio della morte dell’Holman Correctional Facility mentre l’altro sicario John Forrest Parker, è stato giustiziato nel 2010. Al processo Smith ha ammesso di essere stato presente quando la vittima è stata uccisa, ma ha detto di non aver preso parte all’aggressione. La giuria che lo condannò aveva votato a favore dell’ergastolo, ma il giudice annullò la decisione infliggendo la pena capitale. Il team legale di Smith ha detto di essere profondamente rattristato dalla sua esecuzione, osservando proprio che la giuria nel suo caso aveva votato per risparmiargli la vita. Gli avvocati della difesa avevano presentato appelli anche sulla base di un articolo di legge che impedisce esecuzioni con metodi crudeli, una tesi ovviamente respinta dalla Corte Suprema e dalle autorità dell’Alabama. Giovedì sera, i giudici hanno negato una sospensione. Solo i tre liberali hanno dissentito dalla sentenza voluta della maggioranza a guida conservatrice. Ora il caso è approdato anche alle Nazioni Unite. La scorsa settimana, l’Alto Commissario ONU per i diritti umani ha sollecitato un ripensamento, affermando che la gassazione di Smith poteva equivalere a tortura o altri trattamenti crudeli, inumani o degradanti secondo il diritto internazionale. Non la pensano così in Alabama. Il procuratore generale Steve Marshall ha affermato che la psicosi da azoto si è dimostrata “un metodo di esecuzione efficace e umano, confutando le terribili previsioni degli attivisti e dei media. Giustizia è stata fatta”. Secondo il commissario dell’Alabama Corrections, John Hamm, lo scuotimento di Smith sulla barella sembrava essere un movimento involontario. “Era tutto previsto ed era negli effetti collaterali che abbiamo visto o studiato sull’ipossia da azoto”, ha detto Hamm. “Niente fuori dall’ordinario rispetto a quello che ci aspettavamo”. Medio Oriente. A bordo della nave italiana Vulcano che soccorre i feriti di Gaza di Chiara Bidoli Corriere della Sera, 28 gennaio 2024 “I bimbi arrivano come zombie. Curarli significa anche farli tornare al sorriso”. Sulla Vulcano da dicembre ci sono operatori sanitari della Marina, dell’Esercito, dell’Aeronautica e medici volontari della Fondazione Francesca Rava con l’obiettivo di stabilizzare i pazienti più gravi per poi trasferirli in ospedali di livello più avanzato. C’è un ospedale “galleggiante” che offre cura e protezione a chi ha visto e provato sulla pelle le conseguenze di un conflitto che non risparmia bambini e donne. Si tratta della nave italiana Vulcano ormeggiata nel porto egiziano di Al Arish, a 20 km da Rafah, che grazie ai medici della Marina Militare, dell’Esercito Italiano e dell’Aeronautica Militare, della Fondazione Francesca Rava e alcune figure sanitarie del Qatar, sta prestando soccorso ai feriti civili provenienti da Gaza. La missione della Vulcano fa parte di una serie di aiuti che il Governo italiano, in accordo con i principali partner della regione e d’intesa con Israele, ha attivato a supporto della popolazione. Tra le altre iniziative in programma c’è anche l’accoglienza in Italia di circa cento bambini palestinesi affetti da gravi complicazioni che, accompagnati dalle loro famiglie, riceveranno assistenza sanitaria presso alcune strutture ospedaliere d’eccellenza del nostro Paese. La testimonianza - “Vedere arrivare sulla nave bambini terrorizzati, sia per le ferite che per la paura, fortemente denutriti, che hanno vissuto sotto il rumore incessante delle bombe è un’esperienza che ti segna, anche se sei un medico di emergenza”, racconta Enrico Ferrazzi ex primario della Clinica Mangiagalli - Policlinico di Milano tra i primi medici della Fondazione Francesca Rava a prestare soccorso sulla Vulcano. “I bambini arrivano sulla nave come zombie, impietriti dalle ferite e dalla paura, soprattutto perché si vedono circondati di nuovo da militari ma poi, appena si sentono al sicuro, nonostante la sofferenza fisica, tornano a sorridere - continua Ferrazzi -. Con loro, più che con gli adulti, la comunicazione non verbale è importantissima: capiscono il senso dei nostri gesti, sono confortati da piccole attenzioni e ci danno lezioni di resilienza. Ho ancora negli occhi l’immagine di una bimba di 12 anni arrivata sulla nave gravissima, con lacerazioni sull’addome causate dalle schegge di una bomba. Quando è uscita dalla sua condizione critica e ha potuto rialzarsi e riprendere a camminare l’abbiamo portata sul ponte della nave e alla sola vista del mare, quello stesso mare che aveva visto chissà quante volte, il suo sguardo vuoto si è riempito nuovamente di vita e speranza. Dopo 23 anni di direttore di clinica ho incontrato tanti pazienti ma quegli occhi, ne sono certo, non li scorderò mai”. La nave “ospedale da campo” - La nave Vulcano non è una nave ospedale, ha delle capacità ospedaliere che sono state potenziate e ricondizionate, in 24 ore, anche per curare donne e minori. “Grazie all’assetto “Role 2” (ndr degli standard assistenziali Nato) abbiamo creato un vero e proprio “ospedale da campo” sulla nave con funzioni di chirurgia, terapia intensiva e sub intensiva, sale operatorie, laboratorio di analisi, farmacia, unità diagnostica, radiologia e telemedicina, posti di degenza ordinaria e intensiva avvalendoci di personale medico reclutato dalle tre forze armate (Marina, Esercito e Aeronautica) a cui si sono aggiunti i volontari della Fondazione Francesca Rava (per l’area ostetrico-ginecologica, pediatrica e di chirurgia plastica) e le infermiere della Croce Rossa - spiega il Ten. Col. Valerio Stroppa, ortopedico dell’Esercito in forza al Celio (ndr il Policlinico Militare dell’Esercito a Roma) -. Quello che offriamo è sia un supporto basico con l’erogazione di medicinali alla popolazione, sia attività specialistiche e ultra specialistiche grazie alla presenza di diverse competenze: chirurghi, ortopedici, anestesisti, ginecologi, pediatri, infermieri”. I pazienti che arrivano sulla nave vengono selezionati dal personale medico di terra secondo criteri di urgenza e, se necessario, una volta stabilizzati, dalla Vulcano vengono poi trasferiti in strutture ospedaliere di livello avanzato. Curare su una nave - “A bordo arrivano i casi più disparati: dalla donna incinta, a quella crivellata, a quella paralizzata e che abbiamo operato riportandole in funzione gli arti superiori, e poi bambini lacerati e mutilati - continua Stroppa -. Alla base di ogni trattamento, come diceva Ippocrate, c’è la fiducia che anche in un contesto così complesso è il primo step di cura e significa prima di tutto mediazione linguistica e culturale”. Professionalità, capacità di risolvere le criticità e una motivazione forte ad aiutare chiunque ne abbia bisogno hanno reso in poco tempo il gruppo coeso ed efficace. “A bordo ci siamo ritrovati con personale che, in gran parte, non si conosceva, in una struttura che non era mai stata testata ma, grazie agli assetti militari collaudati e a un lavoro di équipe, non solo del personale sanitario ma di tutto l’equipaggio a bordo (ca. 200 persone), siamo in grado di supplire a qualsiasi tipo di necessità e effettuare anche interventi chirurgici ultra-specialistici, come il trapianto chirurgico di un nervo”, dice Stroppa. “Tra leggere le cose e vederle, viverle, la differenza è terribilmente diversa. Dietro i numeri ci sono le persone, con le loro storie. L’impatto sul piano umano è fortissimo. In un mondo, come quello sanitario pieno di regole e protocolli a volte dimentichiamo cosa significa fare il medico. In questo contesto l’ho apprezzato fino in fondo. Mi sono reso conto del valore che semplici gesti umani, all’interno di un percorso di cura, fanno la differenza. Per me è stata la riconferma di aver fatto la scelta di vita giusta”, conclude Ferrazzi. Gli interpreti - Abbattere le barriere linguistiche e culturali tra la popolazione e il team sanitario è il primo passo per iniziare le cure. “I pazienti hanno bisogno di tirare fuori l’enorme dolore che si portano dentro e anche questo ha una funzione terapeutica. Senza il supporto dei nostri mediatori culturali il lavoro dei medici non sarebbe possibile”, dice Vincenzo Attanasio, Ten. di Vascello della Portaerei Cavour. “Il mio compito è quello di mediare le sofferenze di ogni singolo individuo e renderle più accessibili possibile ai medici, partendo da quel rapporto di empatia e fiducia che creo con il paziente - racconta Nadia Trabelsi, interprete di arabo della Marina Militare -. A volte bastano piccoli gesti, come offrire il tè o un dattero che, per le donne palestinesi, non è un semplice frutto ma qualcosa legato alla fede, alle tradizioni, ai ricordi, utile a far scattare la fiducia”. I livelli assistenziali militari - Si dividono in Role 1, Role 2, Role 3, Role 4, che rappresentano quattro diversi livelli di assistenza secondo gli standard definiti dalla Nato. “Il Role 1 è il livello di base, con dispositivi che si schierano a ridosso della linea di operazione e offrono punti di medicazione avanzata con la presenza di 1 medico e di 1 infermiere, con l’obiettivo di una stabilizzazione diretta del paziente - spiega Stroppa -. Il Role 2 è un livello superiore, con assetti da ospedale da campo ed è formato da un assetto medico che comprende: 2 anestesisti, 1 ortopedico, 2 chirurghi, 1 medico d’emergenza e una serie di infermieri e figure professionali che permettono di utilizzare i laboratori, l’assetto di radiologia, le 2 sale operatorie. Il Role 2 permette di erogare prestazioni sia di degenza ordinaria che di chirurgia, con l’obiettivo di stabilizzare il paziente e poterlo trasferire presso livelli assistenziali superiori. Il Role 3 è, di fatto, un Role 2 con capacità maggiori, ultra specialistiche come neurochirurgia o oculistica, che non sono presenti nel Role 2 che è più emergenziale. E poi c’è il Role 4, che in Italia è il Celio, il Policlinico militare di Roma, che accoglie i feriti per le cure definitive, con livelli di assistenza avanzata. La nave Vulcano, in questo caso, ha offerto la logistica per poter lavorare a cui è stato applicato l’assetto Role 2, un assetto a supporto della popolazione civile già rodato (per esempio in Libia e Afghanistan) e stabilito, e per questo estremamente efficace. A questo assetto di base se ne possono aggiungere altri che possono coadiuvare a seconda delle situazioni. In questa missione la Fondazione Francesca Rava ha fornito competenze in campo ginecologico, ostetrico e pediatrico, mentre il Qatar ha fornito tre medici specialisti”.