Sì alla sessualità in carcere: sentenza storica della Consulta di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 gennaio 2024 Accolta la questione di legittimità costituzionale sull’articolo 18 dell’ordinamento penitenziario, che vieta ai detenuti di svolgere colloqui intimi con il coniuge o il convivente senza sorveglianza. Il magistrato di Sorveglianza di Spoleto Fabio Gianfilippi aveva sollevato una questione di legittimità costituzionale riguardo all’articolo 18 dell’ordinamento penitenziario, che non consentiva alle persone detenute di svolgere colloqui intimi, compresi quelli a carattere sessuale, con la persona convivente non detenuta, senza la presenza di un controllo a vista da parte del personale di custodia. Tale disposizione è stata contestata in quanto contrastante con diversi articoli della Costituzione italiana e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La Corte Costituzionale ha accolto la questione, ritenendola fondata, e ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di tale disposizione. La sentenza riconosce il diritto della persona detenuta di svolgere colloqui intimi, incluso quelli a carattere sessuale, con il coniuge, dell’unione civile o la persona con cui è stabilmente convivente. La Corte ha basato la sua decisione sulla violazione degli articoli 2, 3, 13 (commi 1 e 4), 27 (comma 3), 29, 30, 31, 32 e 117 (comma 1) della Costituzione Italiana, facendo particolare riferimento agli articoli 3 e 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Questa sentenza rappresenta un passo significativo verso una maggiore tutela dei diritti umani dei detenuti, riconoscendo il loro diritto a una vita privata anche dietro le sbarre. La decisione della Corte Costituzionale pone l’accento sull’importanza di bilanciare la sicurezza carceraria con il rispetto dei diritti fondamentali delle persone detenute. È da notare che la sentenza non solo ha un impatto diretto sulla vita dei detenuti, ma potrebbe anche aprire la strada a una revisione più ampia delle disposizioni normative che regolano la detenzione, mirando a garantire un trattamento più umano e rispettoso della dignità delle persone ristrette. La decisione della Corte riflette l’evoluzione della giurisprudenza nel riconoscere e proteggere i diritti fondamentali, anche in contesti di restrizione della libertà personale. Il magistrato di Sorveglianza ha giocato un ruolo chiave sulla legittimità costituzionale del divieto imposto a un detenuto di svolgere colloqui intimi. La decisione del magistrato è basata sulla considerazione che il controllo a vista su tali colloqui implica un’autentica restrizione all’esercizio dell’affettività, specialmente in ambito sessuale, per il detenuto. Il ricorso del magistrato di Sorveglianza ha sollevato diverse questioni di legittimità costituzionale, mettendo in evidenza il presunto conflitto con vari articoli della Costituzione Italiana e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Tra le questioni sollevate, l’articolo 2 della Costituzione, che garantisce il diritto alla libera espressione dell’affettività, e l’articolo 13, primo comma, che tratta della libertà personale, sono stati particolarmente sottolineati. Il magistrato ha argomentato che la norma contestata costituisce una limitazione non giustificata dei diritti fondamentali del detenuto. La restrizione, secondo Gianfilippi, violerebbe anche l’articolo 27, terzo comma, della Costituzione, in quanto andrebbe in contrasto con la finalità rieducativa della pena, mettendo a rischio la stabilità familiare e la salute psicofisica del detenuto. È interessante notare che Gianfilippi ha fatto riferimento a un precedente giudizio di legittimità costituzionale riguardante la stessa norma, conclusosi con la dichiarazione di inammissibilità delle questioni sollevate. Tuttavia, il magistrato ha sottolineato le circostanze uniche del caso in esame, poiché il detenuto non può beneficiare di permessi premio e non ha accesso a un programma di trattamento. Inoltre, il magistrato di sorveglianza ha evidenziato la contrarietà della norma all’indirizzo generale della riforma dell’ordinamento penitenziario, la quale promuove incontri tra detenuti e familiari in un contesto riservato. Questa discrepanza con gli obiettivi della riforma ha portato il magistrato a concludere che la norma è incostituzionale, in quanto viola principi fondamentali di libertà, dignità e tutela della famiglia. Per questo ha sollevato la questione alla Consulta. Secondo quanto riportato dalla sentenza, la Consulta ha quindi censurato la parte della normativa che imponeva in modo inderogabile il controllo a vista durante i colloqui dei detenuti con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con cui sono stabilmente conviventi. La Corte ha sottolineato che l’ordinamento giuridico deve tutelare le relazioni affettive delle persone detenute, riconoscendo loro la libertà di vivere appieno i sentimenti di affetto che costituiscono l’essenza stessa delle relazioni umane. La decisione si basa sulla constatazione che la norma contestata limita irragionevolmente la dignità della persona detenuta, impedendogli di esprimere affettività con persone a lui strettamente legate, anche quando non ci sono ragioni di sicurezza che lo giustifichino. La Corte ha evidenziato come questa restrizione costituisca un ostacolo alla finalità rieducativa della pena. Inoltre, la Corte ha rilevato la violazione degli articoli 3 e 27 (terzo comma) della Costituzione sottolineando l’irragionevole compressione della dignità umana causata dalla normativa e l’ostacolo alla rieducazione del detenuto. I giudici delle leggi hanno anche fatto riferimento all’articolo 117, primo comma, in relazione all’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu), sottolineando il difetto di proporzionalità di un divieto radicale di manifestazione dell’affettività entro le mura. La decisione ha sottolineato che la maggior parte degli ordinamenti europei concede ai detenuti spazi di espressione dell’affettività, compresa la sessualità, evidenziando la necessità di adottare un approccio più equilibrato e umano nel trattamento delle persone detenute. Nel delineare alcuni profili organizzativi che emergono dalla pronuncia, la Consulta ha auspicato un’azione combinata del legislatore, della magistratura di sorveglianza e dell’amministrazione penitenziaria. La Corte ha indicato la necessità di affrontare questi cambiamenti con gradualità, tenendo conto delle competenze specifiche di ciascuna entità coinvolta. Infine, la Corte ha chiarito che la sentenza non riguarda il regime del 41 bis, né i detenuti sottoposti a sorveglianza particolare di cui all’art. 14-bis. Ora è la svolta. Gianfilippi: “Il divieto di affettività configura una violenza fisica e morale al detenuto” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 gennaio 2024 Il magistrato di sorveglianza di Spoleto, Fabio Gianfilippi, ha sollevato la questione di legittimità. Il coordinatore dei garanti territoriali, Stefano Anastasìa ricorda: “In altri Paesi è permesso”. Il tema del divieto della sessualità in carcere sarà nuovamente sollevato davanti alla Corte Costituzionale. Ma questa volta con argomentazioni diverse che prima non erano state prese in considerazione. A sottoporre la questione di legittimità innanzi alla Consulta sul divieto ai detenuti, derivante dall’applicazione dell’articolo 18 dell’Ordinamento penitenziario, di fare sesso con i loro partner, in quanto tale divieto potrebbe colpire i diritti costituzionali, è il magistrato di sorveglianza di Spoleto Fabio Gianfilippi. Nel sollevare la questione, il magistrato ha ritenuto precisare, in ordine alla rilevanza della stessa nel procedimento, che il detenuto si duole del divieto, derivante dall’attuale normativa, di poter disporre di spazi di adeguata intimità, anche per esercitare la sessualità con la compagna, nel momento in cui gli è consentito di svolgere con la stessa i colloqui visivi che prevedono la costante sottoposizione al controllo visivo della polizia penitenziaria. L’ordinamento penitenziario tutela in modo peculiare, in particolare mediante i colloqui visivi e la corrispondenza telefonica, i rapporti dei detenuti con i congiunti, e tra questi certamente figura la persona convivente, con ricostruzione pacifica per l’amministrazione penitenziaria (art. 37 co. 1 reg. es. ord. penit.), di recente trasfusa nella disposizione di cui all’art. 1 comma 38 della legge 76/ 2016, secondo la quale “I conviventi di fatto hanno gli stessi diritti spettanti al coniuge nei casi previsti dall’ordinamento penitenziario”. Anche la legge in materia di colloqui telefonici, individua come categoria di soggetti il coniuge, la componente dell’unione civile, la persona stabilmente convivente o legata all’interessato “da relazione stabilmente affettiva”. Quindi è ben evidenziato chi è il soggetto riconosciuto nell’affettività. Ma nella stessa è vietata una relazione intima. E il detenuto reclamante, attualmente, non può godere nemmeno dei “permessi premio” che possono raggirare fittiziamente il divieto. Ovvero mantenere la sessualità all’esterno del carcere. Come sottolinea il magistrato di sorveglianza, a ogni modo, tale soluzione, non sembra esente da critiche (la Corte Costituzionale, non a caso, nella questione sollevata nel passato, aveva fatto cenno al fatto che il permesso premio costituisse una soluzione del problema solo parziale), “poiché determina la conseguenza di spostare il piano dell’esercizio di un diritto che, come si proverà a dire, appare da annoverare tra quelli fondamentali della persona, verso l’orizzonte della premialità precludendolo a chi si trovi nella condizione del condannato, e per diverse ragioni ai detenuti in custodia cautelare o a chi non abbia ancora maturate le quote di pena previste dagli art. 30- ter e quater ord. penit. per l’ammissibilità della richiesta”. Il magistrato di sorveglianza, ribadiamolo, ha le mani legati. Non può concedere la sessualità in carcere. E infatti nella questione sollevata alla Consulta, sottolinea che ha potuto già verificare la rispondenza dell’agire dell’amministrazione a disposizioni normative che, in particolare nell’art. 18 comma dell’ordinamento penitenziario, impongono di interdire momenti di intimità, specialmente di tipo sessuale, durante il colloquio visivo. Il divieto della sessualità in carcere ha le sue conseguenze. Lo stesso magistrato Gianfilippi, scrive nero su bianco che è lesivo anche sotto il profilo dell’umanità della pena, “poiché si impone una limitazione cosi pregnante di una componente essenziale della vita di ogni persona, che va ad aggiungersi alla privazione della libertà un sicuro surplus di afflittività, non sempre necessitata da ragioni di sicurezza, ma anche dal punto di vista della finalità rieducativa della pena”. E che quindi ne derivano conseguenze desocializzanti che, piuttosto che fare del tempo vissuto in carcere una occasione per costruire e irrobustire relazioni socio-familiari esterne in grado di far da rete efficace alle fragilità personali che inevitabilmente conseguiranno alla restituzione di un detenuta alla società, “corrono il rischio - scrive il magistrato - di prepararne una maggior solitudine e una insicurezza personale più spiccata, connessa al mancato esercizio del proprio ruolo naturale all’interno di una relazione di coppia che, viceversa, ove vissuta o ritrovata nella sua pienezza, potrebbe far da volano alla risocializzazione della persona”. Il magistrato di sorveglianza è chiarissimo nell’esposizione e scrive senza mezzi termini che una “imputazione così radicale di un elemento costitutivo della personalità quale la dimensione sessuale dell’affettività, finisce per configurare una forma di violenza fisica e morale sulla persona detenuta”. Stefano Anastasìa, coordinatore dei garanti territoriali, accoglie con entusiasmo la questione sollevata alla Corte Costituzionale. E ricorda che “quel che è permesso ai detenuti di Francia, Svizzera, Austria, Slovenia o Spagna, e complessivamente in 31 Paesi europei (ma anche in India, Messico, Israele, Canada) agli italiani è negato”. Anastasia conclude sottolineando che “alla suprema corte, il giudice di Spoleto rivolge un quesito che è insieme giuridico e morale: a vietare i rapporti sessuali, poi, non si contravviene allo spirito della Costituzione sulla protezione della famiglia, anche quella di un condannato?”. Ricordiamo che due proposte di legge, avanzate dai Consigli regionali di Toscana e Lazio, in discussione in Senato nella passata legislatura, non hanno concluso l’iter. La proposta di legge approvata con una mozione del Consiglio regionale del Lazio, in particolare, è partita dalla ricerca dell’Università di Cassino e del Lazio meridionale, realizzata con la condivisione e il supporto del Garante dei detenuti e della Presidenza del Consiglio regionale, “Affettività e carcere. Un progetto di riforma tra esigenze di tutela contrapposte”, i cui risultati sono stati raccolti nel libro di Sarah Grieco, la ricercatrice che ha coordinato lo studio, “Il diritto all’affettività delle persone recluse”. È intervenuto anche il garante dei detenuti della regione Umbria Giuseppe Caforio, sottolineando che sarebbero tante, in Italia, le persone pronte a chiedere di avere rapporti con il proprio compagno o la propria compagna: una questione annosa e già affrontata parecchie volte in passato. Poiché l’Italia risulta essere tra i pochi paesi europei ad applicare il divieto, secondo il garante regionale sarebbe arrivato il momento di impugnare la normativa. Un dato fa riflettere: tra le province di Perugia e di Terni la popolazione carceraria avrebbe un’età media abbastanza bassa, essendo composta da diversi giovani con età compresa tra i venti e i quarant’anni. In tanti avrebbero delle aspettative sessuali che, quando non soddisfatte, possono generare episodi di violenza. La Consulta apre all’affettività in carcere, è una bella giornata per lo stato di diritto di Maria Brucale* Il Domani, 27 gennaio 2024 La sentenza della Corte costituzionale ha ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della legge sull’ordinamento penitenziario, nella parte in cui non permette di avere colloqui con la persona con cui ha una stabile relazione affettiva “senza il controllo a vista”. C’è ancora strada da fare per rendere questo operativo, ma è un passo fondamentale. Già nel 1987, con sentenza n. 561, la Corte Costituzionale affermava: “Essendo la sessualità uno degli essenziali modi di espressione della persona umana, il diritto di disporne liberamente è senza dubbio un diritto soggettivo assoluto, che va ricompreso tra le posizioni soggettive direttamente tutelate dalla Costituzione ed inquadrato tra i diritti inviolabili della persona umana che l’art. 2 Cost. impone di garantire”. Era, invece, il 2012 quando il tribunale di sorveglianza di Firenze, con l’avallo della procura generale competente, interpellava la Corte Costituzionale chiedendo che fosse dichiarato illegittimo l’art. 18 dell’ordinamento penitenziario laddove prevede la costante presenza vigile del personale penitenziario agli incontri del recluso con i propri congiunti e, di fatto, esclude l’espressione di qualsivoglia sessualità. La prescrizione, per il tribunale, costituiva con evidenza una lesione del diritto ad una carcerazione umana e non degradante rientrando il diritto della persona ristretta ad avere rapporti sessuali con il coniuge o con il partner, tra i diritti inviolabili dell’uomo, secondo anche le raccomandazioni del Consiglio d’Europa: diritti limitati, ma non annullati, dalla condizione di restrizione della libertà personale. “La Raccomandazione n. 1340(1997) del Consiglio d’Europa, sugli effetti sociali e familiari della detenzione, adottata dall’Assemblea generale il 22 settembre 1997, all’art. 6 invita, infatti, gli Stati membri a “migliorare le condizioni previste per le visite da parte delle famiglie, in particolare mettendo a disposizione luoghi in cui i detenuti possano incontrare le famiglie da soli”. In modo ancora più puntuale, la successiva Raccomandazione R. (2006) sulle regole penitenziarie europee, adottata dal Comitato dei ministri l’11 gennaio 2006, prevede, con la regola n. 24.4, che “le modalità delle visite devono permettere ai detenuti di mantenere e sviluppare relazioni familiari il più possibile normali”: concetto - quello di “normalità” - che evoca anche i profili affettivi e sessuali, come emerge dal commento a detta regola, ove si precisa che, “ove possibile, devono essere autorizzate visite familiari prolungate”, le quali “consentono ai detenuti di avere rapporti intimi con il proprio partner”, posto che “le “visite coniugali” più brevi autorizzate a questo fine possono avere un effetto umiliante per entrambi i partner”. Anche la Raccomandazione del Parlamento europeo del 9 marzo 2004, n. 2003/2188(INI), sui diritti dei detenuti nell’Unione europea, nell’invitare il Consiglio a promuovere, sulla base di un contributo comune agli Stati membri dell’Unione europea, l’elaborazione di una Carta penitenziaria europea comune ai Paesi membri del Consiglio d’Europa, menziona specificamente, all’art. 1, lettera c), tra i diritti da riconoscere ai detenuti, “il diritto ad una vita affettiva e sessuale prevedendo misure e luoghi appositi”. Sebbene non immediatamente vincolanti per lo Stato italiano e tali, comunque, da lasciare “una certa flessibilità” nella loro attuazione, le regole ora ricordate indicherebbero, peraltro, chiaramente quale sia la tendenza del “regime penitenziario europeo”. La pronuncia della Consulta, n. 301, intervenuta nel dicembre del 2012, rassegnava, nella sostanza, la propria incompetenza a definire, senza l’intervento del legislatore, un ambito tanto complesso e delicato che involge il tema dell’ordine e della sicurezza e richiede l’estrinsecazione chiara di termini e di modalità di accesso al diritto a vivere, pur reclusi, la propria sessualità, l’individuazione dei relativi destinatari, interni ed esterni, la definizione dei presupposti comportamentali per la concessione delle “visite intime”, la specificazione del loro numero e della loro durata, la predisposizione dei locali, la determinazione delle misure organizzative. Nulla di fatto, dunque. Nel 2016, con un’imponente operazione di raccordo di esperti nel settore della Giustizia, si è dato il via agli Stati Generali dell’esecuzione penale. Tra i 18 tavoli tematici, vi era quello denominato “Mondo degli affetti e territorializzazione della pena”: riconoscimento del valore assoluto della vita affettiva del detenuto come anello fondante il percorso di reinserimento sociale. Tra gli obiettivi enunciati: tenendo anche in considerazione le esperienze straniere, “il problema del se ed eventualmente del come assicurare all’interno del carcere uno spazio e un tempo in cui la persona detenuta possa vivere la propria sessualità”. Le proposte del Tavolo 6 - Per i colloqui intimi, il Tavolo 6 aveva proposto modifiche normative volte ad introdurre il nuovo istituto giuridico della “visita”, che si distingue dal “colloquio”, già previsto dalla normativa, poiché garantisce al detenuto incontri privi del controllo visivo e/o auditivo da parte del personale di sorveglianza. Si legge nella relazione: “Il gruppo ha ipotizzato la creazione di un nuovo istituto giuridico costituito dalla “visita” che può essere effettuata all’interno del carcere tra il detenuto e le persone con cui è autorizzato a fare colloquio. La visita si distingue dal “colloquio”, già previsto dalla normativa, poiché garantisce l’esercizio del diritto all’affettività del detenuto e quindi la possibilità di incontrarsi con chi è autorizzato ad effettuare i colloqui, senza però che durante lo svolgimento della visita vi sia un controllo visivo e/o auditivo da parte del personale di sorveglianza. I caratteri connotanti della visita sono: può essere effettuata con tutte le persone che vengono autorizzate ad effettuare colloqui. In tal senso si è scelto di non fare distinzioni tra familiari, conviventi e le cc. dd. “terze persone”, poiché si tratta di garantire il diritto della persona detenuta alla cura dei rapporti affettivi, senza limitarli alla sfera familiare o coniugale; le visite si svolgono in apposite “unità abitative” collocate all’interno dell’istituto, adeguatamente separate dalla zona detentiva; la loro manutenzione e pulizia è affidata ai detenuti lavoranti individuati dalla direzione; la durata di una visita può andare da un minimo di quattro ore ad un massimo di sei “laddove vi sia la disponibilità di spazi sufficienti a garantirla” (v. proposta allegata di modifica art. 18 O.P.); si prevede il diritto di ogni detenuto ad almeno una visita ogni due mesi, con un avvio sperimentale, entro sei mesi dall’entrata in vigore della modifica di legge, in cinquanta istituti penitenziari. Seguirà la messa a regime entro due anni in tutti gli istituti. Su questo tema insisteva l’ultima domanda del questionario indirizzato agli istituti a riguardo della disponibilità di spazi interni per garantire il diritto all’affettività. Quasi tutte le direzioni che hanno risposto al questionario comunicano che non vi è attualmente alcuna disponibilità, ma ad un’analisi più contestualizzata si può sostenere che almeno nel 50% dei casi vi sono le aree utili per andare a collocare ex novo le cc. dd. “unità abitative”, con l’insediamento di prefabbricati negli istituti di più recente definizione (costruiti dagli anni ‘80 in poi) e con le ridefinizioni di alcuni spazi esistenti negli istituti più vecchi che spesso non dispongono di aree aperte da recuperare. Si è discusso del rapporto tra spazi ricavabili, numero di detenuti ipoteticamente presenti in una struttura e organizzazione dei servizi per garantire il diritto all’affettività. In proposito le autorizzazioni all’accesso per le visite si sovrappongono a quelle per i colloqui; pertanto, su questo aspetto non vi sono elementi di criticità. È invece il rapporto tra spazi e numero di detenuti che ha spinto il gruppo, almeno in una prima fase di applicazione della legge, a fissare il diritto minimo a una visita ogni due mesi. Infatti soprattutto negli istituti più grandi appare estremamente problematico abbreviare il sopracitato range; si pensi ad un istituto con una media di mille detenuti, che disponga di dieci unità abitative e che con un servizio di ricezione di otto ore per cinque giorni a settimana potrebbe teoricamente garantire venti visite al giorno, 100 a settimana e circa 400 al mese”. Particolare attenzione veniva rivolta all’esperienza spagnola: “sia nei due Istituti della Catalogna, che nell’istituto penitenziario di Madrid, i detenuti godono di 4 colloqui ordinari più due o tre colloqui familiari o intimi. Per i colloqui familiari, di non più di 4 persone, sono allestite salette con poltroncine e un tavolino. La sorveglianza visiva è prevista. Le stanze per gli incontri intimi, della durata varia da un’ora e mezza a tre ore, contengono un letto matrimoniale e una sedia. Sono fornite di bagno e di un campanello di allarme. Non è prevista alcuna sorveglianza. I partner possono essere anche conviventi, se non dichiarati occorre una preventiva frequenza di due mesi. Sono ammessi i rapporti omosessuali”. Numerosi i paesi in cui è concesso ai detenuti che hanno avuto una condanna lunga di beneficiare di qualche ora d’amore per poi ritornare nelle proprie celle. In Belgio e in Francia sono in fase di sperimentazione delle abitazioni nelle quali il condannato può trascorrere 48 ore con la propria famiglia. In Germania e in Svezia sono stati pensati e realizzati dei miniappartamenti dove il detenuto è autorizzato a vivere per alcuni giorni con la propria famiglia. In Olanda le visite avvengono in locali appositi o anche in cella. La Danimarca autorizza visite settimanali di un’ora e mezza. In Canada le visite fino a 72 ore avvengono dal 1980 in apposite roulotte esterne al carcere. In Finlandia e Norvegia c’ è un sistema di congedi coniugali. In Croazia e Albania, invece, gli istituti di pena concedono incontri non controllati della durata di quattro ore. In America, fin dagli anni ‘90, in un campo di lavoro nel Mississippi ogni domenica i ristretti hanno la possibilità di ricevere in visita una sex worker (lavoratrice del sesso). Le visite intime sono ammesse anche in India, Israele e Messico. Nel ddl n. 4368, approvato dalla Camera dei deputati il 29 luglio 2015, di modifica del codice penale, di procedura penale, dell’ordinamento penitenziario, veniva previsto, tra gli obiettivi della delega: “il riconoscimento del diritto all’affettività delle persone detenute e internate e disciplina delle condizioni generali per il suo esercizio”. Un segnale di attenzione ancora timido che doveva tradursi in disposizioni normative che riconoscessero l’esistenza di un diritto e garantissero la piena dignità delle persone detenute nella fruizione di esso, nella sola direzione possibile, quella voluta dal ministro Orlando nell’avventura degli Stati Generali sull’Esecuzione Penale: l’attuazione (finalmente!) dell’art. 27 della Costituzione. La Commissione di esperti nominata per tradurre in norme gli impeti di garanzia della promessa riforma, aveva proposto una modifica dell’art. 18 O.P. introducendo i commi 3 bis, ter e quater: “Ai detenuti e agli internati, ad eccezione di quelli sottoposti al regime previsto dall’art. 41 bis, co. II O.P., sono consentiti incontri periodici di durata non inferiore alle tre ore consecutive con il coniuge, con la parte dell’unione civile, con il convivente e con persone legate da continuativi rapporti affettivi desumibili anche dai colloqui e dalla corrispondenza, senza controllo visivo e auditivo, in locali idonei a consentire relazioni intime”; “ l’autorizzazione agli incontri è concessa dal direttore, su richiesta dell’interessato, acquisite le necessarie informazioni e, per gli imputati, il nulla osta del giudice individuato ai sensi dell’art. 11 c. II. È data la precedenza a coloro che non possono coltivare la relazione affettiva in ambiente esterno. Possono autorizzarsi incontri con frequenza ravvicinata per coloro che, a causa della distanza o delle condizioni soggettive della persona a loro affettivamente legata, non possano fruirne con cadenza regolare”; “l’autorizzazione è negata quando l’interessato ha tenuto una condotta tale da far temere comportamenti prevaricatori o violenti ovvero quando sussistono elementi concreti per ritenere che la richiesta abbia finalità diverse dal coltivare le relazioni affettive”. Le persone escluse - Numerose le difficoltà affrontate (a chi riconoscere il diritto? Alle coppie di fatto, alle persone sposate, a chi può dimostrare, anche con scambi epistolari, una frequentazione stabile, ai legami omosessuali? Associarlo a un buon comportamento intramurario? Come contenere il rischio che si consumino abusi?) e le resistenze riscontrate (l’opposizione strenua dei sindacati di polizia penitenziaria che tuonavano “carceri come postriboli”, un sentire comune che relega il sesso alla dimensione ludica e peccaminosa inconciliabile con l’istanza punitiva della reclusione). Dolorosa l’esclusione delle persone ristrette nel regime derogatorio di cui all’art. 41 bis O.P., tanto da rafforzare il convincimento che tale norma sia incostituzionale perché, coerentemente ai suoi scopi annunciati, si traduce nella pacifica negazione di un diritto primario della persona. È sconcertante l’affermazione che esista un diritto assoluto e costituzionalmente garantito e, al contempo, che ci sia una tipologia di detenuti che non possono fruirne. Che un diritto possa essere contratto o compresso, d’altronde, non implica affatto che lo stesso non esista o che lo stesso debba essere degradato a mero interesse legittimo, ma soltanto che in un contemperamento di valori di rango costituzionale, l’interesse sociale abbia imposto il prevalere di uno a dispetto dell’altro. E, del resto, la carcerazione è gravissima limitazione della libertà personale ma certo nessuno porrebbe in dubbio che la libertà personale sia il più alto, il più protetto dei diritti fondamentali. L’importante modifica - che si scontrava con la formula di “invariabilità finanziaria” che costituiva, in vero, un ostacolo insormontabile stante l’ovvia esigenza di costruire in tutte le carceri locali adeguati - si è spenta, tuttavia, contro un muro giustizialista che ha portato lo stesso governo che la aveva voluta ad arretrare e ad arrestarsi. Nonostante le ragioni di inammissibilità delle questioni, la sentenza n. 301 del 2012 non mancò di sottolineare come esse evocassero “una esigenza reale e fortemente avvertita, quale quella di permettere alle persone sottoposte a restrizione della libertà personale di continuare ad avere relazioni affettive intime, anche a carattere sessuale”, esigenza che - si precisò - non trova una risposta adeguata nell’istituto dei permessi premio, “la cui fruizione - stanti i relativi presupposti, soggettivi ed oggettivi - resta in fatto preclusa a larga parte della popolazione carceraria”. La sentenza della Consulta del 2024 - Oggi, dopo dodici anni di sostanziale silenzio normativo, con sentenza n. 10 del 2024, la Consulta torna sul tema, ribadisce che si tratta di materia di diritti fondamentali perché connessi all’essenza della persona nel suo dispiegarsi nelle relazioni sociali ove si sviluppa la sua personalità e dichiara l’incostituzionalità dell’art. 18 dell’ordinamento penitenziario “nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa, nei termini di cui in motivazione, a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del comportamento della persona detenuta in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né, riguardo all’imputato, ragioni giudiziarie”. Le ragioni di inammissibilità prospettate nella precedente e ormai datata pronuncia non sussistono più in un panorama normativo mutato che dà più valore all’esigenza della persona ristretta di vivere i rapporti affettivi in un alveo di intimità, pur preservando le ragioni di sicurezza interna degli istituti di pena. L’ordinanza di rimessione alla Consulta del magistrato di sorveglianza di Spoleto aveva chiarito che il diritto alla sessualità o, comunque a incontri privati con i propri cari, non può essere relegato alla fruizione del permesso premio che è inaccessibile per tanti detenuti; coloro che sono ancora in custodia cautelare; coloro che non hanno ancora maturato i tempi per fruire dei benefici penitenziari o non hanno ancora raggiunto il livello di trattamento che dà accesso a tale prospettiva. È improprio, dice coerentemente la Consulta, subordinare ad una logica premiale l’esercizio di un diritto fondamentale. Occorre ricercare, prosegue, un punto di equilibrio, che, pur senza compromettere la sicurezza e l’ordine ineludibili negli istituti penitenziari, consenta l’apertura di spazi di manifestazione di quella basilare libertà. “Nel presidiare la regolarità dell’incontro, il controllo a vista sullo svolgimento del colloquio obiettivamente restringe lo spazio di espressione dell’affettività, per la naturale intimità che questa presuppone, in ogni sua manifestazione, non necessariamente sessuale”. Principi che corrispondono a quelli enunciati dalla giurisprudenza della Corte sul “volto costituzionale” della pena, che è una sofferenza in tanto legittima in quanto inflitta “nella misura minima necessaria”. La prescrizione del controllo a vista sullo svolgimento del colloquio del detenuto con le persone a lui legate da stabile relazione affettiva, in quanto disposta in termini assoluti e inderogabili, si risolve in una compressione sproporzionata e in un sacrificio irragionevole della dignità della persona, quindi in una violazione dell’art. 3 Cost., sempre che, tenuto conto del comportamento del detenuto in carcere, non ricorrano in concreto ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né sussistano, rispetto all’imputato, specifiche finalità giudiziarie”. Ancora, pone attenzione la Consulta alla inevitabile lesione della dignità del terzo incolpevole prodotta dalla negazione di spazi intimi di affettività che si riverbera sulle persone che, legate al detenuto da stabile relazione affettiva, vengono limitate nella possibilità di coltivare il rapporto, anche per anni, persone estranee al reato e alla condanna, che subiscono dalla descritta situazione normativa un pregiudizio indiretto. Evidenzia la violazione dell’art. 27, terzo comma, Cost. nella norma oggetto di censura che nega colloqui sottratti alla vigilanza, “in quanto una pena che impedisce al condannato di esercitare l’affettività nei colloqui con i familiari rischia di rivelarsi inidonea alla finalità rieducativa e di produrre la dissoluzione delle relazioni affettive frustrate dalla protratta impossibilità di coltivarle nell’intimità di incontri riservati, con quell’esito di “desertificazione affettiva” che è l’esatto opposto della risocializzazione. Consapevole delle difficoltà applicative della nuova disciplina che comporterà la creazione di spazi adeguati agli incontri riservati, la Consulta chiarisce che la durata di essi dovrà essere adeguata all’obiettivo di consentire al detenuto e al suo partner un’espressione piena dell’affettività, che non necessariamente implica una declinazione sessuale, ma neppure la esclude. “In quanto finalizzate alla conservazione di relazioni affettive stabili, le visite in questione devono potersi svolgere in modo non sporadico (ovviamente qualora ne permangano i presupposti), e tale da non impedire che gli incontri possano raggiungere lo scopo complessivo di preservazione della stabilità della relazione affettiva”. Condizione per l’esercizio del diritto all’intimità è l’assenza di profili di pericolosità soggettiva afferenti non al titolo di reato, ma alla tenuta dell’orine e della sicurezza degli istituti. “Quanto ai detenuti per reati cosiddetti ostativi - chiarisce la Corte -in linea di principio non sussistono impedimenti normativi che precludano l’esercizio dell’affettività intra moenia, posto che l’ostatività del titolo di reato inerisce alla concessione dei benefici penitenziari e non riguarda le modalità dei colloqui”. Restano esclusi i ristretti in 41 bis e coloro che sono soggetti a sorveglianza particolare per il tempo di vigenza di tale misura. Resta la ferita di tale regime all’individualità delle persone ristrette. Ma oggi è una bella giornata per lo Stato di Diritto. *Avvocato Sì alla sessualità dietro le sbarre. “Illegittimo impedirla ai detenuti” secondo la Consulta di Eleonora Camilli La Stampa, 27 gennaio 2024 Antigone: “Verdetto storico, ma adesso diventi un diritto effettivo”. Vietare una vita affettiva e sessuale in carcere lede la dignità delle persone detenute. Lo ha stabilito la Corte costituzionale con una sentenza da più parti definita storica. Nello specifico, la Consulta chiamata a pronunciarsi sul caso sollevato da un detenuto nel carcere di Terni, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 18 dell’ordinamento penitenziario, che prevede il controllo a vista sui detenuti durante i colloqui con il coniuge o con la persona con cui si ha una relazione stabile. Una norma, che vieta, nei fatti alle persone private della libertà di avere rapporti intimi con il proprio partner all’interno degli istituti di pena durante le visite. Eppure, spiegano i giudici “l’ordinamento giuridico tutela le relazioni affettive” e riconosce “ai soggetti legati dalle relazioni medesime la libertà di vivere pienamente il sentimento di affetto che ne costituisce l’essenza”. Lo stato di detenzione può quindi incidere sul modo in cui si esercita questa libertà “ma non può annullarla”. In caso contrario, si riscontra una violazione degli articoli 3 e 27 della Costituzione e “una irragionevole compressione della dignità della persona”. Nella sentenza, la Corte fa riferimento a quanto accade in altri Stati europei, dove sono previsti spazi appositi per rendere possibili gli incontri intimi tra i detenuti e i loro compagni o compagne. È il caso dei “parloirs familiaux” e delle “unités de vie familiale” in Francia, vere e proprie stanze dell’amore, locali cioè appositamente concepiti per le visite di familiari adulti, di durata più o meno estesa, senza sorveglianza continua e diretta. Lo stesso è previsto in Spagna e in molti istituti penitenziari tedeschi, dove sono ammesse visite di lunga durata. “Ora sarà compito dell’amministrazione penitenziaria e della magistratura di sorveglianza trasformare questa sentenza di portata storica in un diritto esigibile. È necessario, cioè, riorganizzare le carceri italiane e attivare spazi idonei per assicurare a pieno l’affettività e la sessualità delle persone detenute. Altrimenti il rischio è che questo diritto rimanga solo sulla carta”, sottolinea Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone. Anche per Franco Corleone del comitato scientifico dell’associazione Società della Ragione, si tratta di “una sentenza rivoluzionaria, perché fa cadere un tabù che durava da troppo tempo”. Il sindacato di polizia penitenziaria Uilpa, si dice invece preoccupato per “le problematiche logistiche” che i colloqui affettivi intimi in carcere potrebbero portare, aumentando “il già insostenibile carico di lavoro per gli operatori”. Gli fa eco il Sappe, per cui le carceri potrebbero diventare dei “postriboli” e gli agenti dei “guardoni di Stato”. Eppure per la maggior parte degli esperti questa decisione potrebbe portare un piccolo miglioramento nelle condizioni di vita dei detenuti nelle carceri italiane, che appaiono sempre più allarmanti. Lo dicono i dati: nei primi 25 giorni dell’anno ci sono stati 29 morti, di cui 11 per suicidio, con una media più o meno di uno ogni due giorni. “Siamo di fronte a una vera e propria ecatombe - aggiunge Gonnella - la sentenza della Corte è uno spiraglio di luce, ma nel sistema di detenzione italiano stiamo vivendo un periodo di buio. I motivi per cui ci si toglie la vita sono tanti e diversi, ma ci sono in questi casi dei tratti comuni: uno è il sovraffollamento. Tre suicidi si sono verificati solo nel carcere di Poggioreale, uno dei più grandi istituti di pena nazionali. È impressionante”. Nel 2023 sono stati 66 in totale i suicidi in carcere, per questo l’impennata di inizio anno preoccupa, “se gli eventi tragici dovessero susseguirsi allo questo ritmo alla fine dell’anno avremo un numero impressionante di morti e suicidi - sottolinea Antigone - una situazione che va assolutamente arginata al più presto”. Affetto e sesso in carcere, illegittimo il divieto perché contro il “senso di umanità” di Giovanna Trinchella Il Fatto Quotidiano, 27 gennaio 2024 La Consulta ipotizza l’utilizzo di “casette”. L’affettività - compreso il sesso - è un diritto in carcere e deve essere esercitato in un ambiente lontano dagli sguardi di tutti. È la Consulta, che chiamata a decidere sul caso sollevato da un detenuto del carcere di Terni, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 18 della legge sull’ordinamento penitenziario, nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa a svolgere i colloqui con il coniuge - la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente - senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del suo comportamento in carcere, non ci siano ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né, riguardo all’imputato, ragioni giudiziarie. Ma i giudici sono andati oltre considerando anche quello che è il trattamento dei detenuti in altri paesi europei proponendo al legislatore di intervenire per garantire quell’intimità alle persone ristrette per motivi di giustizia con “unità abitative”, piccole case all’interno degli istituti dove poter esercitare il diritto all’affettività in “un ambiente di tipo domestico domestico”. Il caso da cui è partita l’eccezione - L’uomo, detenuto dal 2019 per tentato omicidio, furto aggravato, evasione, lamentava di non poter avere colloqui intimi con la compagna e con la figlia piccola. Un ostacolo alla sua relazione e al suo ruolo di genitore. A rimettere la questione alla Corte costituzionale il magistrato di Sorveglianza di Spoleto che “ritiene che il controllo a vista sui colloqui con il partner implichi per il detenuto “un vero e proprio divieto di esercitare l’affettività in una dimensione riservata, e segnatamente la sessualità”. Per i giudici sarebbe “innanzitutto leso un diritto fondamentale della persona… alla libera espressione dell’affettività, anche nella componente sessuale”, l’articolo 3 (quello sull’uguaglianza)”sotto un duplice profilo, quello della ragionevolezza, per avere il divieto di intimità negli incontri familiari carattere assoluto, e quello della parità di trattamento rispetto agli istituti penitenziari minorili, all’interno dei quali” è ammesso “lo svolgimento di visite prolungate a tutela dell’affettività”. Inoltre la “forzata astinenza dai rapporti sessuali con i congiunti in libertà determinerebbe poi una compressione aggiuntiva della libertà personale del detenuto, ingiustificata qualora non ricorrano particolari esigenze di custodia, oltre che una violenza fisica e morale sulla persona del ristretto” che comporterebbe la violazione dell’articolo 13 sull’inviolabilità della persona. “La pena non può essere contraria al senso di umanità” - “Una pena caratterizzata dalla sottrazione di una porzione significativa di libera disponibilità del proprio corpo e del proprio esprimere affetto sarebbe altresì contraria al senso di umanità e incapace di assolvere alla funzione rieducativa, con conseguente violazione dell’articolo 27 della Costituzione” che prevede che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Secondo la Consulta “l’impossibilità di coltivare in modo pieno le relazioni affettive potrebbe anche negativamente incidere sulla continuità e sulla saldezza dei legami familiari del detenuto… Ne scaturirebbe la distorsione della pena in un trattamento inumano e degradante, lesivo del diritto del detenuto al rispetto della propria vita privata e familiare”. I giudici, Augusto Antonio Barbera (presidente) e Stefano Petitti (redattore), ricordano come una larga maggioranza degli ordinamenti europei riconosce ormai ai detenuti spazi di espressione dell’affettività intramuraria, inclusa la sessualità. In particolare, “l’ordinamento giuridico tutela le relazioni affettive della persona nelle formazioni sociali in cui esse si esprimono, riconoscendo ai soggetti legati dalle relazioni medesime la libertà di vivere pienamente il sentimento di affetto che ne costituisce l’essenza. Lo stato di detenzione può incidere sui termini e sulle modalità di esercizio di questa libertà, ma non può annullarla in radice, con una previsione astratta e generalizzata, insensibile alle condizioni individuali della persona detenuta e alle specifiche prospettive del suo rientro in società”. Piccole case in carcere? - La norma dichiarata illegittima, nel prescrivere in modo inderogabile il controllo a vista sui colloqui del detenuto, gli impedisce di fatto di esprimere l’affettività con le persone a lui stabilmente legate, anche quando ciò non sia giustificato da ragioni di sicurezza. La Corte ha pertanto riscontrato la violazione degli articoli 3 e 27, terzo comma, della Costituzione “per la irragionevole compressione della dignità della persona causata dalla norma in scrutinio e per l’ostacolo che ne deriva alla finalità rieducativa della pena”. Una sentenza questa che avrà anche ripercussioni sull’organizzazione dei penitenziari. Secondo la Corte “può ipotizzarsi che le visite a tutela dell’affettività si svolgano in unità abitative appositamente attrezzate all’interno degli istituti, organizzate per consentire la preparazione e la consumazione di pasti e riprodurre, per quanto possibile, un ambiente di tipo domestico. È comunque necessario che sia assicurata la riservatezza del locale di svolgimento dell’incontro, il quale, per consentire una piena manifestazione dell’affettività, deve essere sottratto non solo all’osservazione interna da parte del personale di custodia (che dunque vigilerà solo all’esterno), ma anche allo sguardo degli altri detenuti e di chi con loro colloquia”. “Questa Corte è consapevole dell’impatto che l’odierna sentenza è destinata a produrre sulla gestione degli istituti penitenziari, come anche dello sforzo organizzativo che sarà necessario per adeguare ad una nuova esigenza relazionale strutture già gravate da persistenti problemi di sovraffollamento. Il lungo tempo trascorso dalla sentenza n. 301 del 2012 (che prevede il diritto di visita e di luoghi idonei, ndr), e dalla segnalazione che essa rivolgeva all’attenzione del legislatore, impone tuttavia di ricondurre a legittimità costituzionale una norma irragionevole nella sua assolutezza e lesiva della dignità delle persone. La complessità dei problemi operativi che ne scaturiscono sollecita ancora una volta la responsabilità del legislatore, ove esso intenda approntare in materia un quadro normativo di livello primario”. Sì alla sessualità in carcere: la Consulta fa un primo passo verso una detenzione più umana di Simone Alliva L’Espresso, 27 gennaio 2024 La Corte boccia l’articolo 18 della legge sull’ordinamento penitenziario che prevedeva il controllo a vista dei colloqui tra partner. Corleone: “È una rivincita dopo 24 anni e la caduta di un tabù. Adesso non ci sono scuse”. Amore e sesso entrano nelle carceri. Da sempre esclusi dalla rigida logica carceraria, la Corte costituzionale ha stabilito, con la sentenza n. 10 del 2024, illegittimo il divieto assoluto per un detenuto di essere ammesso a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia “quando, tenuto conto del suo comportamento in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né, riguardo all’imputato, ragioni giudiziarie”. La Corte ha precisato che, in coerenza con l’oggetto del giudizio principale, la sentenza non concerne il regime detentivo speciale di cui all’art. 41-bis della legge sull’ordinamento penitenziario, né i detenuti sottoposti alla sorveglianza particolare di cui all’art. 14-bis della stessa legge. “L’ordinamento giuridico - ha affermato la Corte - tutela le relazioni affettive della persona nelle formazioni sociali in cui esse si esprimono, riconoscendo ai soggetti legati dalle relazioni medesime la libertà di vivere pienamente il sentimento di affetto che ne costituisce l’essenza. Lo stato di detenzione può incidere sui termini e sulle modalità di esercizio di questa libertà, ma non può annullarla in radice, con una previsione astratta e generalizzata, insensibile alle condizioni individuali della persona detenuta e alle specifiche prospettive del suo rientro in società”. La norma censurata, nel prescrivere in modo inderogabile il controllo a vista sui colloqui del detenuto, gli impedisce di fatto di esprimere l’affettività con le persone a lui stabilmente legate, anche quando ciò non sia giustificato da ragioni di sicurezza. La Corte ha pertanto riscontrato la violazione degli articoli 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, per la irragionevole compressione della dignità della persona causata dalla norma in scrutinio e per l’ostacolo che ne deriva alla finalità rieducativa della pena. Rammentato che una larga maggioranza degli ordinamenti europei riconosce ormai ai detenuti spazi di espressione dell’affettività intramuraria, inclusa la sessualità, la Corte ha ritenuto violato anche l’articolo 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 Cedu, per il difetto di proporzionalità di un divieto radicale di manifestazione dell’affettività ‘‘entro le mura’’. Nell’indicare alcuni profili organizzativi implicati dalla propria pronuncia, la Corte ha auspicato un’“azione combinata del legislatore, della magistratura di sorveglianza e dell’amministrazione penitenziaria, ciascuno per le rispettive competenze”, “con la gradualità eventualmente necessaria”. “Finalmente in Italia si afferma quello che è già realizzato in moltissimi stati europei e la stessa Corte mette in rilievo”, commenta Franco Corleone, ex sottosegretario alla Giustizia dal 1996 al 2001, componente del Comitato Scientifico de La Società della Ragione e opinionista de L’Espresso: “È una rivincita rispetto a 24 anni fa, quando ero sottosegretario insieme a Alessandro Margara, giudice riformatore, scrivemmo il Regolamento dell’Ordinamento penitenziario del 2000. Avevamo fatto questa previsione: la possibilità di incontri prolungati senza controllo visivo in apposite strutture, ma il Consiglio di Stato la bocciò. Serviva una legge. Non saprei dire se questa è una sentenza rivoluzionaria ma certamente rompe un tabù molto forte dovuto a ragioni di moralismo peloso”. La Corte, sottolinea Corleone, non ha scelto una via simile a quella della vicenda Dj Fabo-Cappato: dando un tempo al Parlamento per promulgare una legge “Ha stabilito che c’è una norma incostituzionale e quindi si afferma un diritto immediatamente esigibile. Ovviamente per realizzare questo occorrerà un impegno da parte dell’amministrazione penitenziaria perché devono essere individuati i locali adatti per quelle che si chiamavano unità abitative, luoghi dove si possono passare ore (almeno una mezza giornata) con la famiglia e per quello ovviamente qualcuno può dire che c’è bisogno di una legge. Ma la legge è depositata: c’è un testo dell’onorevole Magi che fu elaborato dalla società della Ragione e presentata nella scorsa legislatura. Le proposte c’erano e sono sempre state tenute nel cassetto: adesso è necessario che ci siano delle norme chiare perché questo diritto sia realmente praticato. Ci sarà certo una fase di sperimentazione: si può immaginare di cominciare da uno o due carceri. Ma non si può far finta di niente perché altrimenti ci sarebbero dei ricorsi che porterebbero a una sanzione anche a livello europeo per l’Italia”. Ma c’è qualcosa di più, a voler leggere meglio la sentenza: “Il diritto all’affettività non è solo per il detenuto ma anche del compagno o della compagna, del marito o della moglie che sono liberi. Negare questa possibilità equivale a negare una dimensione che mette a rischio i rapporti familiari. Questo bisogna dirlo. Si apre oggi a una dimensione di civiltà, umanità veramente nuova. Soprattutto in questi giorni di gennaio che conta già undici suicidi, prova di un carcere malsano”. Carcere, sì a “colloqui” riservati con il partner di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 27 gennaio 2024 La Corte costituzionale, con la sentenza n. 10 del 2024, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 della legge sull’ordinamento penitenziario, nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del suo comportamento in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né, riguardo all’imputato, ragioni giudiziarie. “L’ordinamento giuridico” - ha affermato la Corte - “tutela le relazioni affettive della persona nelle formazioni sociali in cui esse si esprimono, riconoscendo ai soggetti legati dalle relazioni medesime la libertà di vivere pienamente il sentimento di affetto che ne costituisce l’essenza. Lo stato di detenzione può incidere sui termini e sulle modalità di esercizio di questa libertà, ma non può annullarla in radice, con una previsione astratta e generalizzata, insensibile alle condizioni individuali della persona detenuta e alle specifiche prospettive del suo rientro in società”. La norma censurata, nel prescrivere in modo inderogabile il controllo a vista sui colloqui del detenuto, gli impedisce di fatto di esprimere l’affettività con le persone a lui stabilmente legate, anche quando ciò non sia giustificato da ragioni di sicurezza. La Corte ha pertanto riscontrato la violazione degli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. per la irragionevole compressione della dignità della persona causata dalla norma in scrutinio e per l’ostacolo che ne deriva alla finalità rieducativa della pena. Rammentato che una larga maggioranza degli ordinamenti europei riconosce ormai ai detenuti spazi di espressione dell’affettività intramuraria, inclusa la sessualità, la Corte ha ritenuto altresì violato l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 CEDU, per il difetto di proporzionalità di un divieto radicale di manifestazione dell’affettività “entro le mura”. Nell’indicare alcuni profili organizzativi implicati dalla propria pronuncia, la Corte ha auspicato un’”azione combinata del legislatore, della magistratura di sorveglianza e dell’amministrazione penitenziaria, ciascuno per le rispettive competenze”, “con la gradualità eventualmente necessaria”. Infine, la Corte ha precisato che, in coerenza con l’oggetto del giudizio principale, la sentenza non concerne il regime detentivo speciale di cui all’art. 41-bis della legge sull’ordinamento penitenziario, né i detenuti sottoposti alla sorveglianza particolare di cui all’art. 14-bis della stessa legge. Sesso e affettività in carcere, via libera dalla Consulta di Giansandro Merli Il Manifesto, 27 gennaio 2024 Corte costituzionale. Una sentenza “storica” rompe il tabù e stabilisce nuovi diritti, che ora vanno resi effettivi. Il giudice dichiara illegittimo l’obbligo del controllo a vista dei colloqui. “I colloqui si svolgono in appositi locali sotto il controllo a vista e non auditivo del personale di custodia”, diceva l’articolo 18 della legge sull’ordinamento penitenziario. Ieri, però, la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo quel “controllo a vista” che era inderogabile e impediva la libera espressione dell’affettività, sesso incluso. I giudici hanno stabilito che il detenuto ha diritto a incontrare in maniera riservata non solo il coniuge, ma anche la parte dell’unione civile oppure la persona stabilmente convivente. La sentenza, quindi, apre anche alle coppie di fatto, incluse quelle omosessuali. Restano esclusi invece i regimi detentivi speciali, come 41 bis e sorveglianza speciale, e i casi in cui ci siano ragioni ostative di sicurezza, giudiziarie o relative al “mantenimento di ordine e disciplina”. La decisione della Consulta arriva in risposta a un giudizio di legittimità costituzionale promosso dal magistrato di sorveglianza di Spoleto. Alla base il caso di una persona detenuta nella casa circondariale di Terni che aveva impugnato i divieti dell’amministrazione penitenziaria a svolgere colloqui “intimi e riservati” con la compagna e la figlia di tenera età. L’uomo è in cella da luglio 2019, è stato condannato per vari reati, e ha un fine pena stabilito ad aprile 2026. Non potendo godere di permessi premio, come la maggior parte della popolazione carceraria, per il detenuto sarebbe di fatto impossibile coltivare qualsiasi forma di affettività familiare o rapporti sessuali con la coniuge. E questo per i giudici “si risolverebbe in una violenza fisica e morale sulla persona sottoposta a restrizione di libertà, peraltro con negativa incidenza su qualunque progetto di nuova genitorialità”. Fatto che violerebbe diversi articoli della Costituzione e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e andrebbe a colpire anche i diritti fondamentali di parenti e partner, persone estranee al reato ma che subiscono indirettamente la situazione. Già nel dicembre 2012, con la sentenza numero 301, la Corte costituzionale aveva affrontato lo stesso tema sollecitando un intervento del legislatore, che però da allora non ha fatto nulla. Anche per questo i giudici ribadiscono una serie di punti da realizzare per garantire l’effettività del provvedimento. La durata dei colloqui deve essere adeguata a consentire “un’espressione piena dell’affettività, che non necessariamente implica una declinazione sessuale, ma neppure la esclude”. Gli incontri devono potersi tenere in modo non sporadico, perché l’obiettivo è la conservazione di relazioni stabili. Servono luoghi appropriati, nella migliore delle ipotesi unità abitative attrezzate dove sia possibile anche cucinare e consumare del cibo, riproducendo ambienti di vita domestica. In questo senso alcune prassi sperimentali sono realizzate nel carcere milanese di Opera. Guardando in giro per l’Europa sono tantissimi i paesi che, in diverse forme, garantiscono il diritto all’affettività dietro le sbarre: Austria, Belgio, Croazia, Danimarca, Francia, Finlandia, Germania, Norvegia, Olanda, Spagna, Svezia e Svizzera. Il segretario e deputato di +Europa Riccardo Magi ha presentato lo scorso dicembre una proposta di legge “a tutela delle relazioni affettive intime delle persone detenute”, che tra le altre cose prevede l’istituzione di unità abitative idonee all’interno dei penitenziari e stabilisce il diritto a una visita mensile che duri tra le sei e le 24 ore. Magi giudica “straordinaria” la sentenza della Consulta e invita tutti i gruppi parlamentari a sottoscrivere la sua proposta. L’Associazione Antigone, che si batte per la promozione di diritti e garanzie nel sistema penale ed è intervenuta davanti alla Corte con un’opinione scritta, definisce “storica” la decisione. “Finalmente l’affettività e la sessualità non sono più un tabù - dichiara il presidente Patrizio Gonnella - Adesso bisogna trasformare un diritto di carta in diritto effettivo”. Morire in carcere per protesta. I suicidi non si fermano di Luigi Mastrodonato Il Domani, 27 gennaio 2024 Stefano Bonomi, 65 anni, è morto il 6 gennaio dopo settimane di sciopero della fame. Soltanto in queste prime settimane del 2024 undici detenuti si sono tolti la vita. Quando a fine ottobre scorso è stato riportato in carcere, Stefano Bonomi, 65 anni, si è visto crollare il mondo addosso. Dopo aver passato 11 anni in cella, nel marzo 2023 era stato liberato. Aveva provato a ricostruirsi una vita con i pochi mezzi a disposizione, ma poi è ritornato punto e da capo. A settembre è stato fermato dopo un tentato furto. Visti i suoi precedenti penali, Bonomi è finito agli arresti domiciliari. Qualche settimana dopo è evaso da casa ma due giorni dopo è stato ricatturato. Lo hanno portato nel carcere di Rieti in misura cautelare, nel frattempo è arrivata anche una querela per stalking da una sua ex compagna. A gennaio Bonomi doveva comparire davanti al giudice, ma all’udienza non ci è mai arrivato. È morto dopo un lungo sciopero della fame il 6 gennaio. La sua morte è solo una delle tante che già hanno segnato questo inizio 2024 nelle carceri. Strage continua - Come sottolinea l’associazione Ristretti Orizzonti sono già 29 i morti in carcere, di cui 11 suicidi, nel 2024. Tra questi ultimi ha fatto molto rumore la storia di Matteo Concetti, 23enne rinchiuso nel carcere di Montacuto ad Ancona per reati legati alla droga e contro il patrimonio e che in carcere non ci doveva nemmeno stare. Per i suoi disturbi psichiatrici, infatti, avrebbe dovuto essere ospitato in una struttura sanitaria. Altre storie tragiche a inaugurare questo nuovo anno sono arrivate dal carcere napoletano di Poggioreale, dove nel giro di 48 ore si sono tolti la vita il 40enne Andrea Napolitano e il 38enne Mohmoud Ghoulam. Nella conta dei morti c’è, appunto, anche quella di Stefano Bonomi, il 65enne detenuto nel carcere di Rieti e morto all’ospedale Belcolle di Viterbo il 6 gennaio. Bonomi era uscito dal carcere dopo undici lunghi anni nel marzo 2023, per una serie di condanne per reati contro il patrimonio. E come spesso accade in Italia per chi espia la propria pena, in carcere ci è tornato. Il tasso di recidiva, infatti, è pari 68 per cento. Un dato impressionante che è la migliore fotografia di un sistema fallimentare capace di incattivire più che di rieducare. Bonomi è stato fermato dopo il ritrovamento dei suoi documenti nell’abitazione di un poliziotto, in provincia di Terni. Visti i suoi precedenti penali gli è stata disposta una misura cautelare, gli arresti domiciliari. Non aveva rubato niente, ma la fedina penale sporca è già una condanna. A fine settembre Bonomi è evaso dai domiciliari e dopo una fuga di un paio di giorni è stato fermato in Abruzzo. È a quel punto che per lui si sono riaperte le porte del carcere. Qualche giorno a L’Aquila, poi il trasferimento a Rieti. Lo sciopero della fame - Quello di Rieti non è un carcere facile. È qui che si è consumato uno dei capitoli più tragici delle rivolte carcerarie del marzo 2020, con la morte in circostanze mai del tutto chiarite dei tre detenuti Marco Boattini, Ante Culic e Carlos Samir Perez Alvarez. Sempre Rieti è poi un istituto dove convivono diversi elementi critici: il tasso di sovraffollamento è molto alto, con 420 detenuti presenti per soli 295 posti. Il 57 per cento dei detenuti poi sono stranieri e questo aumenta la conflittualità. “La vita in carcere è pesante e il sovraffollamento rende la quotidianità ancora più difficile”, racconta il cappellano del carcere di Rieti, che si ricorda della presenza costante di Bonomi alle sue messe. “Voleva farsi liberare, questa è la ragione del suo sciopero della fame”. Bonomi ha intrapreso lo sciopero a ottobre, poco dopo il suo ingresso in carcere. Non mangiare è l’unica forma di protesta non violenta a disposizione dei detenuti e in un contesto di diritti e libertà soppresse, a volte è l’estremo tentativo per far sentire la propria voce. Sono decine i detenuti in sciopero della fame in Italia e a volte i casi assumono rilevanza nazionale, come successo nel 2023 per Alfredo Cospito. Ma il più delle volte restano silenti e hanno un esito drammatico. È successo nel maggio scorso nel carcere di Augusta, in provincia di Siracusa, dove in poche ore sono morti i detenuti Liborio Davide Zerba e Victor Pereshchako. È successo ad agosto nel carcere di Torino, quando a perdere la vita è stata la detenuta Susan John. È successo il 6 gennaio all’ospedale Belcolle di Viterbo, dove è morto a seguito di ricovero Stefano Bonomi. Storie ignorate dal Parlamento e dall’opinione pubblica. “La nuova detenzione è stata un colpo pesante per lui visti i suoi trascorsi e quando una volta in carcere gli è arrivata anche una querela per stalking da parte della sua ex compagna si è lasciato andare”, racconta l’avvocata di Bonomi. Ogni tanto l’uomo tornava a mangiare, soprattutto dopo i colloqui. È frequente che i detenuti lo facciano quando riescono a far sentire la propria voce, anche se a questo non segue la soddisfazione delle proprie richieste. Ma spesso poi lo sciopero riprende. “Ricadeva nella depressione, faceva fatica a capire come fosse arrivato a trovarsi di nuovo in questa situazione”, continua la sua avvocata. “Era molto dimagrito nel corso delle settimane. Era debilitato”. La morte - L’ultima volta che l’avvocata ha visto Bonomi era il 2 gennaio. C’è stato un lungo colloquio, a cui ha partecipato anche il comandante del carcere di Rieti. Si è parlato del fatto che mancassero pochi giorni al suo ordine di comparsa davanti al giudice, doveva rimettersi in sesto in vista dell’appuntamento. “Come successo dopo altri incontri, si è convinto a tornare a mangiare”, racconta l’avvocata. Il giudice aveva già firmato da tempo un provvedimento di ricovero, che però era stato respinto da Bonomi: lo stato non può imporre un trattamento forzato al detenuto in sciopero della fame. L’uomo recluso nel carcere di Rieti però stava male e il 3 gennaio ha accettato di farsi ricoverare all’ospedale Belcolle di Viterbo, uno dei due del Lazio che ha un reparto di medicina protetta per i detenuti. Il 6 gennaio è morto e non è stata disposta l’autopsia. “Il mio assistito in passato aveva avuto una malattia di tipo tumorale. Era una persona fragile”, spiega l’avvocata. L’Asl Viterbo e la direzione del carcere di Rieti, contattati per avere informazioni, non hanno risposto. Quello che rimane è l’ennesimo decesso disperato in un mondo penitenziario altrettanto disperato. “Di fronte a queste tragedie e all’infausta prospettiva che esse disegnano di un altro annus horribilis, veramente a nulla servono le solite litanie sui fasti futuri dell’edilizia penitenziaria finanziata dal Pnrr o la minaccia di nuove pene e sanzioni a chi è già in carcere”, chiosa Stefano Anastasia, garante dei detenuti del Lazio. “La verità è che, inseguendo demagogicamente la carcerazione della qualunque, il sistema penitenziario si avvita in una crisi senza prospettive”. Carcere, il grande freddo di Andrea Oleandri* lavialibera.it, 27 gennaio 2024 Su 73 istituti visitati dall’Osservatorio di Antigone, 36 non hanno acqua calda e 6 sono sprovvisti di riscaldamento. Detenuti e operatori, senza questi servizi essenziali, si ammalano di frequente e lamentano condizioni di vita al limite. “Buongiorno, volevo segnalare un grave problema nel carcere che ospita mio figlio, in custodia cautelare da diversi mesi. I caloriferi sono spenti e potete solo immaginare il gelo di questi giorni! Nel caso possiate aiutarmi a denunciare questa pena, che si aggiunge a quella di una detenzione preventiva prolungata, ve ne sarei grato”. È uno dei messaggi inviati sui canali sociali di Antigone, che ogni anno riceve centinaia di richieste d’aiuto dai parenti delle persone detenute. I temi hanno a che fare con le condizioni di salute di chi si trova in carcere, altre volte si tratta di richieste disattese di trasferimento per avvicinarsi alla famiglia, in molti casi la denuncia riguarda servizi essenziali che non funzionano. Carcere, il destino parallelo di detenuti e agenti penitenziari - Un altro messaggio recita: “Buongiorno, sono la moglie di un detenuto che mi ha riferito che nel suo reparto sono senza riscaldamento perché l’impianto non è funzionante. Per riscaldarsi ha dovuto comprare con i suoi soldi una stufa di quelle scaldabagno. Mi chiedo se un detenuto, oltre alla pena da scontare e le continue sofferenze, deve subire anche condizioni di vita di questo tipo”. Nelle carceri italiane oltre 6 suicidi al mese - Dalle richieste inviate ad Antigone si capisce come il sovraffollamento non sia l’unico problema delle carceri italiane. Se è vero che questo tema, da oltre 15 anni, è al centro dell’attenzione quando si parla di sistema penitenziario, diverse sono le questioni che quotidianamente influiscono sulla vita delle persone recluse e degli operatori, peggiorandola. Alcune sono quotidiane, altre invece si potrebbero definire “stagionali”. Ad esempio il grande caldo e il grande freddo che, in alcune carceri, a volte diventano insopportabili e rendono atroci le giornate, fino a comprimere la dignità dei detenuti. Le stagioni del carcere - Su lavialibera abbiamo raccontato del grande caldo che si vive in carcere durante i mesi estivi e di come trovare sollievo non sia semplice. In molti casi manca l’aria condizionata, i ventilatori (o sono troppo piccoli per la grandezza degli ambienti), le finestre sono schermate e non consentono il passaggio dell’aria. In inverno si vive un disagio simile: manca il riscaldamento e l’acqua calda a fronte di temperature gelide, con ripercussioni sia sulla salute che sulle condizioni di vita di chi si trova in un istituto penitenziario, siano esse persone recluse o operatori. Nessuno si prende cura della sofferenza psichica nelle carceri - Nei primi giorni dell’anno alcuni detenuti nel carcere di Agrigento hanno protestato per la mancanza del riscaldamento in un periodo estremamente rigido dell’inverno. A inizio dicembre alcuni sindacati di polizia penitenziaria avevano denunciato una situazione simile nel carcere di Bologna, dove non c’è il riscaldamento e manca l’acqua calda, con temperature esterne che di notte scendono sotto lo zero. Che la situazione sia al limite lo ha confermato anche una visita dell’Osservatorio di Antigone, che ha trovato reparti freddi e molte persone che lamentavano influenze e febbre a causa proprio delle temperature basse a cui erano costretti per tutta la giornata, seppure al momento della visita i termosifoni fossero accesi. Anche nel carcere di Teramo, in Abruzzo, con le temperature che in inverno oscillano tra gli 0 e i 15 gradi, l’Osservatorio ha accertato che acqua calda e riscaldamento non sempre sono funzionanti. Su 73 carceri visitate, a partire dal gennaio 2023, ben 6 istituti risultano completamente senza riscaldamento. E peggio va con l’acqua calda: inesistente in 37 strutture. Riscaldarsi è un diritto inalienabile - All’indomani della condanna della Corte europea dei Diritti dell’uomo, a seguito della sentenza Torreggiani del 2013, l’Italia aveva introdotto una serie di misure per assicurare condizioni di detenzione che evitassero trattamenti inumani e degradanti. A garanzia venne anche istituita una norma che stabiliva un ristoro, in denaro o in giorni di sconto di pena, per chi un trattamento inumano o degradante lo avrebbe eventualmente subito. La sentenza rispose a ricorsi che lamentavano la mancanza di spazio vitale a fronte di tassi di sovraffollamento drammatici. Per reinserire i detenuti serve un accesso a Internet - L’effetto indesiderato fu attirare l’attenzione di molti solo sul numero eccessivo di persone concentrate in spazi pensati per molti meno individui, oscurando le indicazioni di Strasburgo, secondo cui il l sovraffollamento è solo una delle possibili violazioni alla dignità delle persone detenute. A settembre scorso una persona reclusa ha denunciato di aver subito trattamenti inumani e degradanti, tra cui proprio l’assenza di riscaldamento nei mesi invernali. Il suo ricorso è stato respinto dal tribunale di sorveglianza ma poi accolto dalla Corte di Cassazione, che ha osservato come il risiedere in ambienti salubri, anche per chi vive in carcere, sia un diritto inalienabile. *Responsabile comunicazione Associazione Antigone Felice Maurizio D’Ettore è il nuovo presidente del Garante nazionale dei detenuti garantedetenutilazio.it, 27 gennaio 2024 Succede a Mauro Palma e resterà in carica per cinque anni. Gli avvocati Irma Conti e Mario Serio sono gli altri due componenti del collegio. Felice Maurizio D’Ettore è il nuovo presidente del collegio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Il decreto del Presidente della Repubblica che conclude l’iter di nomina è stato pubblicato nella Gazzetta ufficiale del 25 gennaio 2024. Venerdì 26 gennaio è il primo giorno di insediamento. Avvocato e professore di diritto privato, D’Ettore succede a Mauro Palma e resterà in carica per cinque anni, non prorogabili. Gli avvocati Irma Conti e Mario Serio sono gli altri due componenti del collegio del Garante, cui la Legge attribuisce il compito di vigilare sul rispetto dei diritti delle persone private della libertà. Succedono a Emilia Rossi e Daniela De Robert. Autorità di garanzia indipendente, istituita presso il ministero della Giustizia nel 2013, il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale ebbe effettiva operatività solo nel 2016. L’articolo 7 del decreto legge istitutivo, il decreto legge 23 dicembre 2013, n. 146, convertito con modificazioni dalla legge 21 febbraio 2014, n. 10, gli ha attribuito il compito di vigilare, affinché la custodia delle persone sottoposte alla limitazione della libertà personale sia attuata in conformità alle norme nazionali e alle convenzioni internazionali sui diritti umani ratificate dall’Italia, “oltre a promuovere e favorire rapporti di collaborazione con i garanti territoriali, ovvero con altre figure istituzionali comunque denominate, che hanno competenza nelle stesse materie”. Per esercitare le sue funzioni, Il Garante nazionale visita, senza restrizioni e senza necessità di autorizzazione, qualunque locale adibito o comunque funzionale alle esigenze restrittive dei luoghi detentivi destinati all’espiazione della pena o della custodia cautelare per adulti o per minori, le residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza (Rems) e le strutture sanitarie destinate ad accogliere le persone sottoposte a misure di sicurezza detentive, le comunità terapeutiche e di accoglienza o comunque le strutture pubbliche e private dove si trovano persone sottoposte a misure alternative o alla misura cautelare degli arresti domiciliari. Inoltre, il Garante nazionale visita le camere di sicurezza delle forze di polizia. “Il Garante nazionale - si legge al comma 5 dell’articolo 7 del decreto legge istitutivo - può delegare i garanti territoriali per l’esercizio delle proprie funzioni relativamente alle strutture sanitarie, sociosanitarie e assistenziali, alle comunità terapeutiche e di accoglienza, per adulti e per minori, nonché alle strutture di cui alla lettera e) del comma 5, quando particolari circostanze lo richiedano. La delega ha una durata massima di sei mesi)”. Ma da Nordio mi aspetto una vera rivoluzione della giustizia di Giuseppe Gargani Il Dubbio, 27 gennaio 2024 L’inaugurazione dell’anno giudiziario presso la Corte di Cassazione è un evento istituzionali interno alla magistratura, e dà modo di valutare le vicende interne della sua struttura e del suo rapporto con il CSM, il suo funzionamento e la sua efficienza nel rendere giustizia. Questo anno la inaugurazione ha avuto uno stile e un contenuto diverso sul quale ci soffermeremo nei prossimi giorni Il discorso di inaugurazione dell’anno giudiziario del Ministro di giustizia al Parlamento invece era atteso come ultimo appuntamento di verifica della volontà del governo di attuare il programma indicato al Parlamento, ma soprattutto di una proposta strategica per la giustizia. La legge negli ultimi anni ha previsto questo appuntamento con il Parlamento per rendere noto lo stato dell’amministrazione, ma soprattutto per attribuire al Parlamento un ruolo da protagonista nell’indicare prospettive e soluzioni per l’organizzazione giudiziaria e per la individuazione del ruolo della magistratura nel rapporto con le istituzioni. Non per niente dopo quella legge è stata presentata in Parlamento una proposta per stabilire le priorità nel perseguire i reati che finora sono nella discrezionalità dei singoli inquirenti, priorità dei reati da indicare ai pubblici ministeri che il ministro Cartabia ha cercato di portare avanti con scarso successo. Il Ministro ha fatto una meticolosa esposizione di cose fatte, del ruolo chiave avuto dal Ministero in questo anno e con abilità ha sorvolato sulle iniziative legislative che a mio parere non potevano avere il suo consenso personale culturale e giuridico per come tutti conoscono il suo scrupolo e la sua concezione penalistica. Il Ministro ha riportato le valutazioni del suo Ministero, dei suoi direttori generali, dei magistrati che hanno ancora un ruolo di indirizzo. Quindi il rapporto è risultato manchevole di una strategia per la giustizia nel suo rapporto con le istituzioni per il consolidamento della democrazia. Devo dire che la sua vera e propria relazione doveva cominciare dagli ultimi periodi del suo discorso, perché incomincia da lì il suo vero discorso sulla giustizia con poche battute, troncate improvvisamente. Se la giustizia poggia su i pilastri indicati: la civiltà giudaico- cristiana e la civiltà greco- romana e se la tradizione del diritto romano, alla quale non possiamo non essere affezionati, sancisce la “legalità”, la “tassatività”, e la “specificità”, vuol dire che la giustizia in Italia è fuori controllo perché non corrisponde a canoni specifici e a regole consolidate. Il confronto in Parlamento doveva servire a individuare, dopo una diagnosi accurata, una terapia adeguata. L’assenza o certamente l’indifferenza a quelle preziose radici culturali ricordate, ha determinato nel nostro Paese uno squilibrio istituzionale e la prevalenza del giudiziario sul legislativo e sulla politica e ha alterato l’assetto democratico e istituzionale del paese. Il compito di un Ministro del livello dell’attuale guardasigilli non era quello di fermarsi all’ordinaria amministrazione ma era quello di indicare una riforma vera, strategica, costituzionale perché la magistratura oggi è cosa diversa da quella del 48 e ha bisogno urgentemente di una nuova regolamentazione, di una disciplina diversa da quella indicata dai costituenti. È questa parte della Costituzione, e non altre, che va modificata e adeguata al ruolo nuovo che deve esercita la magistratura L’indipendenza, non l’autonomia che è tipica dell’ancien regime, deve essere esaltata e deve coniugarsi con una responsabilità istituzionale: questo il problema della magistratura e della giustizia oggi, questo è il tema arduo che si rinunzia da anni ad approfondire. Il pan penalismo che ha guidato le iniziative del governo è in contraddizione con tutte le culture da lui indicate, con i principi del diritto romano e per questo purtroppo il bilancio del primo anno di governo non può essere positivo. Il dibattito parlamentare, ahimè! è stato lontano dal “volo alto” che pure il ministro ha intrapreso per pochi minuti alla fine del discorso! Per essere ancora più chiaro debbo dire che considero ordinaria amministrazione anche le piccole riforme avviate, tardive e sofferte come l’abrogazione del reato contro la pubblica amministrazione, del traffico di influenze che non hanno né “tipicità” né “specificità” e che pure continuano a destare tanta contrarietà da parte della magistratura. La quale da “ordine” come era stata classificata nella Costituzione ha conquistato un eccezionale potere giudiziario, e il “potere” senza controllo distrugge la “legalità” e la “tassatività” come ben sanno i giuristi. Questo potere i magistrati lo esercitano anche formalmente sul piano politico nell’ambito del ministero di giustizia e in altre istituzioni che il ministro, non è riuscito a scalfire se non in minima parte! La presenza di magistrati al Ministero di Giustizia poteva essere giustificata all’inizio degli anni 50 quando la magistratura era, riteneva di essere e appariva “bocca della legge” con una certezza della norma consolidata, ma non oggi, nell’epoca nella quale essa ritiene di porsi “di fronte alla legge” con l’unico intento di interpretarla. Naturalmente bisogna dire che il legislatore fa di tutto per rendere ancora più incerta la norma, per inventare nuovi reati in maniera irrazionale e con pene non proporzionali. Si è addirittura introdotta una norma che, non credo abbia precedenti, prevista dall’art. 18 del disegno di legge in materia di sicurezza, che punisce gli atti di “resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti”, commessi da detenuti. Sono queste le grandi questioni della giustizia e della sua necessaria disciplina costituzionale e istituzionale che il governo e il Parlamento sono chiamati a risolvere. I penalisti scioperano contro il governo. Intervista a Francesco Petrelli (Ucpi) di Ermes Antonucci Il Foglio, 27 gennaio 2024 L’Unione delle camere penali ha proclamato tre giorni di astensione dal 7 al 9 febbraio. Il presidente Petrelli: “Protestiamo contro l’aumento spropositato di nuovi reati, l’inerzia di fronte al sovraffollamento carcerario e la limitazione del diritto di difesa”. Introduzione a getto continuo di nuovi reati, inerzia di fronte al dramma del sovraffollamento carcerario, limitazione del diritto di difesa. Sono i principali motivi che hanno spinto l’Unione delle camere penali italiane (Ucpi) a proclamare tre giorni di sciopero, cioè di astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria, dal 7 al 9 febbraio. “Stiamo assistendo a uno spropositato incremento di nuove fattispecie penali e a un aggravamento delle pene in senso contrario al principio di uguaglianza e di proporzionalità. La normazione si è trasformata in una slot machine di nuovi reati”, dichiara al Foglio Francesco Petrelli, presidente dell’Ucpi. “Questa pretesa di affidare al sistema penale e alla carcerazione la soluzione di ogni situazione di conflitto sociale ha come conseguenza quella di avere il carcere come unico destino dell’intero sistema penale”, aggiunge Petrelli, che sottolinea “la situazione drammatica e inaccettabile delle condizioni dei detenuti”. “Il numero dei suicidi è impressionante. L’atroce contabilità è arrivata al numero di undici soltanto nel mese di gennaio del 2024. Peraltro il fenomeno riguarda spesso giovani con problematiche di natura psichiatrica note prima del loro ingresso in carcere. Le carenze strutturali del sistema penitenziario, tuttavia, non permettono né di intercettare né di evitare questi tragici gesti”. “Il sovraffollamento sta raggiungendo ormai numeri vicini a quelli che portarono alla nota sentenza Torreggiani con cui nel 2013 la Corte europea dei diritti dell’uomo condannò l’Italia per la sottoposizione dei detenuti a trattamenti inumani e degradanti”, evidenzia il presidente dei penalisti. “Ciò che denunciamo è la totale inerzia da parte del governo e del Parlamento di fronte a una situazione che pone l’Italia al di fuori del novero dei paesi civili per quanto riguarda il trattamento dei detenuti”, spiega Petrelli. “C’è una vera e propria truffa delle etichette, nascosta dietro alle formule che vanno di moda da qualche anno: ‘Marcire in galera’, ‘buttare via le chiavi’, ‘certezza della pena’. Si immagina che più carcere possa significare maggiore sicurezza per i cittadini, mentre statisticamente è il contrario: più detenuti fruiscono di misure alternative alla detenzione e minore è il fenomeno della recidiva, che subisce flessioni fino al 70 per cento. Occorrerebbe una vera e propria campagna di controinformazione per far capire ai cittadini che quella che viene indicata loro come una soluzione è, al contrario, una formula che va nella direzione opposta”, prosegue Petrelli. Uno dei motivi che ha spinto l’Ucpi a proclamare l’astensione è la mancata abrogazione di una norma contenuta nella riforma Cartabia che limita l’appello in favore degli imputati assenti, disposizione che, afferma Petrelli, “nuoce gravemente ai soggetti più deboli che usufruiscono dell’istituto della difesa d’ufficio”: “Il ministro Nordio si era detto favorevole all’abrogazione tuttavia nel corso dell’interlocuzione è emerso che tale norma era ricompresa nell’elenco delle riforme concordate con l’Unione europea per il raggiungimento degli obiettivi del Pnrr, per la sua funzione deflattiva. L’esercizio del diritto di difesa è stato così subordinato a una pura finalità deflattiva”. Anche se, specifica Petrelli, “il ministero della Giustizia non è stato neanche in grado di fornirci dei dati sulla dimensione del fenomeno in questione”. Nel comunicato con cui annunciano l’astensione, i penalisti riconoscono comunque al Guardasigilli Nordio l’importanza di alcune riforme ora in via di approvazione, come il ripristino della prescrizione sostanziale, l’abrogazione dell’abuso d’ufficio e la ridefinizione del traffico di influenze, l’introduzione di una norma a tutela della riservatezza delle comunicazioni fra difensore e il proprio assistito. Presidente Petrelli, vi aspettavate di più da un ministro come Nordio, da sempre portatore di idee liberali in materia di giustizia? “Francamente no - risponde il presidente dell’Ucpi - Per disilludersi bisogna prima essersi illusi e noi siamo sufficientemente esperti delle vicende che riguardano la politica giudiziaria nel nostro Paese. Sappiamo benissimo che, al di là delle buone intenzioni, vi sono una serie di viscosità che caratterizzano i rapporti fra giustizia e politica, prima fra tutte quella costituita dall’egemonia culturale delle procure e dall’influenza della magistratura in generale sui processi legislativi. Ne sono un esempio la riforma sui magistrati fuori ruolo, che in realtà non fa altro che fotografare lo status quo, e il continuo slittamento della riforma della separazione delle carriere”, conclude Petrelli. Beniamino Zuncheddu è innocente: assolto dopo 33 anni di carcere di Simona Musco Il Dubbio, 27 gennaio 2024 L’ex allevatore di Burcei, che si è sempre proclamato innocente, era stato condannato all’ergastolo con l’accusa di essere l’autore della strage di Sinnai (Cagliari) dell’8 gennaio del 1991 in cui furono uccisi tre pastori. “È la fine di un incubo”. Dopo 10mila giorni di carcere, la Corte d’Appello di Roma ha riconosciuto uno dei più clamorosi errori giudiziari di questo Paese. Beniamino Zuncheddu è innocente. Ma prima che un giudice affermasse la verità che lui ha sempre urlato, sono dovuti passati 33 anni. La conferma è arrivata ieri sera, quando i giudici hanno chiuso il processo di revisione con l’assoluzione per non aver commesso il fatto. Zuncheddu era accusato di strage per la morte di tre pastori tra le montagne del Sinnai, l’8 gennaio del 1991. Per quel delitto era stato condannato all’ergastolo e scarcerato a fine 2023 dai giudici della Capitale, che hanno accolto la richiesta di sospensione della pena avanzata dal suo avvocato Mauro Trogu. Tutto ruota attorno al super teste Luigi Pinna, che quel giorno sopravvisse all’agguato. La sua versione, però, non ha retto alla prova del tempo. Nel corso della requisitoria il sostituto procuratore generale, che ne ha chiesto l’assoluzione, ha infatti ricordato che si è andati avanti per “30 anni con le menzogne”. Il 12 dicembre scorso l’atto decisivo del procedimento: il confronto, in aula, tra Pinna, e il poliziotto Mario Uda. Pinna, inizialmente interrogato, aveva sostenuto di non aver riconosciuto l’aggressore, ma, qualche settimana dopo, ha cambiato versione e ha accusato Zuncheddu che è stato prima arrestato e poi condannato. Quella testimonianza, determinante per la condanna del pastore sardo, sarebbe stata frutto delle pressioni di Uda. “È lui che mi ha mostrato la foto di Zuncheddu”, ha detto in aula l’uomo. “L’agente di polizia che conduceva le indagini, prima di effettuare il riconoscimento dei sospettati - aveva ricostruito -, mi mostrò la foto di Zuncheddu e mi disse che il colpevole della strage era lui”. Dura era stata la replica di Uda che ha negato. “Non ho fatto vedere nessuna foto”, aveva affermato l’agente di polizia. “Sono veramente arrabbiato per tutto quello che mi sta piovendo addosso”, aveva concluso. “Mia sorella Maria recentemente aveva iniziato a dire “poveretto, pensa se è innocente e si è fatto tutti questi anni di carcere. I nostri dubbi sono cresciuti quando c’è stata la revisione del processo, allora abbiamo iniziato a chiederci “e se fosse innocente”?”, aveva detto Maria Caterina Fadda, figlia e sorella di due delle vittime e cognata del superstite della strage. “Dubbi che sono aumentati - aveva aggiunto la donna - quando sono emerse le intercettazioni fra Pinna e la moglie. Allora abbiamo iniziato a chiederci se Pinna avesse davvero riconosciuto Zuncheddu, anche perché sapevamo che chi sparò quel giorno aveva una calza sul viso. Sin dall’inizio, parlando con i nostri familiari e per come sono andate le indagini, ci avevano sempre fatto capire che era lui il colpevole. Io ho seguito tutte le udienze del processo - ha concluso Fadda - e ricordo Zuncheddu sempre seduto fra gli avvocati, e mi chiedevo, ma se è innocente perché non parla mai?”. I giudici della Corte di Appello di Roma hanno anche disposto la trasmissione degli atti alla procura capitolina in relazione a tre testimonianze rese in aula, tra cui quella dell’ex poliziotto che si occupò delle indagini all’epoca. Le motivazioni della sentenza saranno depositate entro 90 giorni. “Beniamino è una persona incredibile che non meritava quello che ha subìto - ha commentato all’AdnKronos l’avvocato Mauro Trogu -. Abbiamo studiato tanto con i consulenti che mi hanno supportato, ci siamo convinti nell’intimo dell’innocenza di Beniamino: le carte parlavano di prove a carico assolutamente contraddittorie - ha spiegato il penalista - le indagini difensive hanno dimostrato la falsità di quelle prove a carico e rimanevano solo quelle a discarico. E poi perché abbiamo conosciuto Beniamino. Io auguro a chi abbia anche solo un minimo dubbio di berci un caffè insieme e questo dubbio verrà cancellato”. Il professore “linciato” perché osa difendere Turetta è il segno della barbarie populista di Oliviero Mazza Il Dubbio, 27 gennaio 2024 In un Paese saldamente democratico i media avrebbero dovuto stigmatizzare, se non censuare, la notizia della ignobile petizione in cui si sostiene la presunta incompatibilità fra il ruolo di professore universitario e quella di avvocato difensore di Filippo Turetta, indagato per l’omicidio di Giulia Cecchettin. In Italia, invece, la notizia ha avuto ampio risalto, certamente maggiore rispetto alla netta e condivisibile risposta della Rettrice dell’Università di Padova che ha semplicemente richiamato elementari principi giuridici (la difesa è un diritto di tutti) nel respingere sdegnatamente la delirante richiesta di destituzione del prof. Caruso. Già questo disallineamento delle notizie meriterebbe una riflessione sul pericoloso scivolamento dell’informazione, comprese le maggiori testate nazionali, verso il modello scandalistico dei tabloid inglesi. Al netto delle distorsioni indotte dal processo mediatico, o peggio ancora social- mediatico, la vicenda si presta ad almeno due distinti piani di lettura. Il primo concerne la plastica rappresentazione del degrado morale e culturale del dibattito pubblico sui temi della giustizia penale. Dopo anni di retorica giustizialista e populista elevata a programma politico dall’allora partito di maggioranza relativa, dopo le sgrammaticature di un diritto penale rafforzato dall’anafora del reato penale propinata da un Ministro della Giustizia che non era nemmeno in grado di distinguere fra dolo e colpa, dopo imputati ritenuti indifendibili in ragione del reato loro ascritto, di leggi destinate a spazzare, il minimo che potesse capitare era l’assimilazione del difensore con il suo assistito. In questo pensiero distorto si annidano, a ben vedere, una serie di passaggi impliciti: l’indagato, per ciò solo, è colpevole, indipendentemente da una sentenza di condanna, come tale non ha diritto alla difesa, ma deve solo sottoporsi all’esecuzione di una pena possibilmente esemplare, mentre il difensore è un complice processuale che si frappone indebitamente fra il crimine e la giusta punizione. Un cortocircuito che mette in discussione tutti i valori costituzionali. È certamente straniante sentire il bisogno di ribadire, nell’anno 2024, che l’avvocato difensore svolge una funzione pubblica riconosciuta dalla stessa Corte costituzionale, che la difesa è essenziale per integrare il modello del giusto processo, che ogni accusato, anche il reo confesso, ha diritto a un accertamento di responsabilità che si svolga nel rispetto dei principi fondamentali, a partire dalla presunzione d’innocenza, che il diritto di difesa è un diritto tiranno, non bilanciabile con nessun’altro valore, essendo inviolabile in ogni stato e grado del procedimento. La barbarie che trasuda dal populismo giudiziario si può arrestare solo facendo comprendere chiaramente all’opinione pubblica che l’avvocato è il valoroso difensore di questi diritti fondamentali, difende i diritti del suo assistito che sono i diritti di tutti i cittadini dinanzi alla pretesa punitiva dello Stato, in definitiva è il presidio insostituibile della civiltà giuridica scolpita nella nostra Costituzione. A onor del vero, la confusione concettuale fra diritto punitivo e processo non è solo il frutto avvelenato della retorica giustizialista, ma è anche il portato di un approccio culturale che si va diffondendo persino nel mondo accademico, come testimonia il comunicato di solidarietà dell’Associazione italiana dei professori di diritto penale, secondo cui ‘ la difesa che sta esercitando Caruso, legittimamente, non può far dubitare della condivisione civica ed etica del contrasto alla violenza di genere che noi, come docenti di diritto penale, sviluppiamo nella didattica’. Può essere fuorviante associare la difesa di un presunto innocente, la tutela dei suoi diritti processuali con l’esigenza punitiva di reati esecrabili, peraltro indipendentemente dalla questione di genere. In quella frase, animata certamente dalle migliori intenzioni, c’è l’eco della confusione concettuale fra difesa dei diritti dell’accusato e difesa del crimine, fra diritto penale e processo, senza dimenticare che la violenza andrebbe contrastata a prescindere dal genere dell’autore o della vittima, come insegna, ancora una volta, l’art. 3 Cost. Il secondo piano di lettura, certamente meno interessante, riguarda il ruolo dei professori universitari impegnati nell’esercizio della professione forense. Ai tempi di Carrara, Carnelutti, De Marsico o Pisapia nessuno avrebbe contestato la “teoria utile” di Maestri impegnati tanto in cattedra quanto nel foro. Oggi, al contrario, questa figura di studioso anche pratico viene vista con sospetto, in ragione del bieco pregiudizio per cui il difensore sarebbe una figura malfamata, non solo complice processuale nel delitto, ma anche prezzolato sostenitore di tesi giuridiche addomesticate. Il compianto prof. Marcello Gallo, qualche anno fa, invitò gli accademici a sporcarsi le mani, esortandoli a darsi da fare in difesa del processo accusatorio. Temo che oggi buona parte degli studiosi delle scienze penalistiche non intenda più sporcarsi le mani. La legale di Pifferi: “Lasciata sola da tutti, ma io non mollo: resterò al suo fianco” di Simona Musco Il Dubbio, 27 gennaio 2024 L’avvocata Alessia Pontenani è indagata per falso insieme a due psicologhe del carcere per il test che ha certificato un deficit cognitivo. “La mia nomina? È arrivata dopo. Le porto vestiti e cibi in cella, anche i carcerati hanno bisogno di affetto”. “Non faccio alcun passo indietro: io non ho fatto niente, se non il mio lavoro, l’avvocato”. Alessia Pontenani, difensore di Alessia Pifferi, accusata di aver fatto morire di stenti la figlia di soli 18 mesi, è una tipa combattiva. E non la spaventa l’indagine che, da qualche ora, le è piombata tra capo e collo. Assieme a due psicologhe del carcere di San Vittore, dove Pifferi si trova reclusa, è infatti accusata di falso per una relazione che certifica un deficit mentale a carico della sua assistita. Deficit che, secondo l’accusa, non esisterebbe. Sarebbe bastato, forse, aspettare l’esito della perizia disposta dal Tribunale per risolvere la questione. Invece la procura ha iscritto le tre professioniste sul registro degli indagati (le psicologhe sono accusate anche di favoreggiamento), di fatto rischiando di estromettere Pontenani dal processo. “Così Alessia, ancora una volta, si ritroverebbe completamente da sola. Ma io ne sono sicura: ha un deficit cognitivo importante”. Avvocato, com’è stato scoprire di essere indagata per falso? Intanto l’ho saputo dai giornali. Ho riso, perché mi sembra assurdo. Poi ho ricevuto molte telefonate. Soprattutto di insulti: mi sono sentita dire che Alessia Pifferi sicuramente mi ricopre d’oro, mentre sono io a portarle da mangiare e dei vestiti, a volte anche 50 euro, perché non ha nessuno. Ci sono quelli che mi dicono che sono un mostro. E ho ricevuto anche una lettera minatoria. Ma anche Alessia, in carcere, ne riceve. Quindi non è vero che il processo mediatico non esiste e non fa danni… Ma va. Sa qual è stato, forse, il mio unico errore? Essere andata in televisione. Se in questo processo non ci fossero state le telecamere non sarebbe successo nulla. E mi dispiace aver letto alcune dichiarazioni degli ex difensori di Pifferi, che sostengono di non aver mai chiesto una perizia: a meno che io non abbia problemi di memoria, credo fosse su tutti i giornali. Perché contestarle il reato di falso? Intanto la relazione, che accerta un Qi pari a 40, è stata redatta prima della mia nomina, che è arrivata il 23 marzo dello scorso anno. E non conoscevo le psicologhe, le ho conosciute solo successivamente. In ogni caso, non esiste alcuna legge che vieta ad un avvocato di sentire parti che non sono nel processo, di parlare con una psicologa che assiste la mia assistita. Avrei chiesto io stessa una perizia: con quel reato è difficile ipotizzare che non ci sia un problema. Ci sono delle telefonate in cui le psicologhe si complimentano per la sua bravura, stando a quanto apparso sui giornali... Ed io che posso farci? Magari dicono questo, magari ci sono degli altri estratti in cui dicono che sono una cretina, non ne ho idea. Per quanto riguarda me, c’è un’unica telefonata, risalente a due sabati fa. Io ero davanti a San Vittore perché, tra l’altro, dovevo portare del cibo a Pifferi, e una delle psicologhe mi ha chiamata, a seguito di una mia mail. Non avevo neanche il numero di telefono, tra l’altro a novembre mi hanno scippata quindi ho perso tutti i contatti. Cosa scrisse in quella mail? Le tranquillizzavo, perché dopo l’udienza in cui il pm si scagliò contro la loro relazione, dicendo che doveva sentirle in modalità diversa, si erano spaventate e questo me lo disse Pifferi. Dissi loro: guardate che i test effettuati dalla mia consulente confermano i problemi di Alessia. Ma adesso anche loro potrebbero temere di essere indagati e decidere di mollare tutto. Ed io potrei rimanere senza consulenti. Si rende conto del danno? A questo punto non so, tutti sono autorizzati a spaventarsi. Ma poi quale sarebbe lo scopo ultimo di questo reato? Vincere il processo? Nel caso delle psicologhe sarebbe stato quello di “scardinare il sistema”, stando a quanto scrive il pm. Si parla addirittura di discorsi di natura “eversiva”... Ma per favore! Si può esprimere un parere o un’opinione senza per questo mettere in pratica una qualche azione. Oppure dobbiamo dire che esiste il reato d’opinione? Se io, parlando con lei, dicessi che voglio salvare ogni vittima della malagiustizia commetterei un reato? Se parlassi di salvare innocenti ingiustamente in carcere, sarebbe una cosa sbagliata? Mi sembra che nel caso della psicologa si parlasse di scardinare il sistema per salvare delle vittime della giustizia: cosa c’è di scandaloso? Cosa vi siete dette in quella telefonata? Non ci complimentiamo per il test, come è stato scritto sui giornali. La psicologa mi ha detto che sono stata bravissima ad ottenere la perizia, ed io ho risposto che non è questione di bravura, ma che il merito era della Corte che me l’ha concessa. E quindi cosa c’è di male? E poi abbiamo anche parlato del fatto che un giorno si porrà il problema di dove far stare Pifferi. Lei mi ha risposto che è vero, perché siamo tutti consapevoli che una persona così non può stare in carcere, ma nemmeno in una Rems. Ed ho fatto una battuta: va a finire che me la porto a casa mia, in Toscana. Tra le contestazioni mosse c’è anche l’affetto dimostrato a Pifferi dalle psicologhe. È una cosa penalmente rilevante? La psicologa l’abbraccia e la bacia. E allora? Si chiama calore umano, anche le persone in carcere ne hanno diritto. Anche io lo faccio, le porto pure i cioccolatini, in udienza le tengo anche la mano, a volte. Anche i carcerati hanno bisogno di affetto. O vogliamo fare i processi senza avvocati e senza psicologi? Non funziona così. Mi stupisco, perché finché una cosa del genere la dice mia madre, che non è mai stata in carcere e non sa cosa significa, allora è normale. Ma chi fa certi lavori dovrebbe sapere cosa significa stare lì dentro. È normale, per un difensore, creare un rapporto con il proprio assistito. Dimostriamo sempre affetto e vicinanza e a maggior ragione lo faranno le psicologhe con una come Pifferi. Ma è possibile per un pm entrare nel merito del metodo scientifico? È una domanda corretta. Esiste un metodo per fare delle domande, ci sono dei manuali per interrogare le persone con deficit, io li ho trovati su internet, quindi sono facilmente reperibili. Magari il pm non ha capito che Pifferi ha dei problemi, ma non si può pensare davvero che questa donna sia una lucida criminale. A meno che non abbia ingannato tutti. Ma perché ammazzare così quella bimba, lasciandola morire? Avrebbe potuto farlo in mille altri modi. Crede che anche in questo caso ci sia un’assimilazione del difensore con il proprio assistito? Sì. Che poi voglio dire, non è che mi danno un premio, se vinco. Pifferi è stata ammessa al patrocinio a spese dello Stato, tra tre o quattro anni prenderò dei soldi. Se devo rovinarmi la vita e la carriera pensa che lo farei per questo? La giustizia non è una gara, non è una battaglia per vedere chi vince o chi perde. Forse il problema è che da quando è iniziato il processo l’opinione pubblica ha cambiato idea su Pifferi. Prima veniva considerata un mostro, una pazza, una criminale. Poi però la gente ha iniziato a dire: forse questa poverina non sta bene. E magari questo ha dato fastidio. Lei ha sottolineato che non ha intenzione di fare alcun passo indietro. Pensa che ci sia la volontà di estrometterla dal processo? Magari il pm non ha nemmeno pensato a questo tipo di conseguenze, ma sembra quasi un tentativo di togliermi la difesa di Pifferi. Io mi sono rivolta subito alla Camera penale e al Consiglio dell’Ordine, ma anche noi abbiamo dovuto guardare le carte, perché una cosa così non era mai successa. In teoria rischio di diventare incompatibile e in quel caso dovrei fare un passo indietro. Ma deve essere il giudice a stabilirlo. Ne ha parlato con Pifferi? Ieri (giovedì, ndr) l’ho vista ed era spaventatissima. Era convinta che non la potessi più difendere: aveva provato a chiamarmi tutto il giorno ma non avevo potuto risponderle. Pensava mi avessero arrestato e le ho detto: guarda, se mi arrestano mi faccio mettere in cella con te. Ha riso. L’ho tranquillizzata, ma se ci pensa il punto è che si ritroverebbe di nuovo da sola. Si ritroverebbe, di nuovo, con un uomo che le fa terra bruciata intorno. Senza psicologhe, che ovviamente non lavorano più lì, e senza me non avrebbe più nessuno. Perché non aspettare la fine del processo e trasmettere gli atti? Ah, non lo so. Ma adesso qualcuno sta seguendo la sua assistita? Teoricamente no. Lei già non vedeva più le psicologhe, dopo che il pm, in aula, ha messo in dubbio la loro relazione le avevo consigliato di non incontrarle, proprio per evitare che si pensasse che fosse stata influenzata. Erano le uniche persone con cui parlava. Ma adesso chi avrebbe voglia di mettersi lì e parlare con lei? Tra l’altro, dopo quell’udienza le hanno bloccato la pensione di invalidità. Percepiva una pensione? No, ne aveva fatto richiesta dopo i risultati di quel test che accertavano un deficit cognitivo. Ma da allora tutto si è interrotto. Le sembra una cosa corretta? Ma Pifferi come sopravvive? La aiuta qualcuno? Io. Sopravvive con quello che le mando e devo dire che una volta una signora anziana mi ha mandato 50 euro, che le ho bonificato. Altre persone le hanno mandato delle scarpe, vestiti… in aula usa le mie scarpe, perché le piacciono tanto, le ho dato la giacca bianca che indossa in udienza, le ho comprato un maglione… Ecco il favoreggiamento. Pensi, mi sono fatta fare un’autorizzazione permanente, che ho qui di fronte, per portare cibo e vestiario alla signora. Che rapporto ha con con le altre detenute? Nessuno. Quando mi ha nominato era in cella con una mia ex assistita, la cosiddetta “mantide della Brianza”. Per questo mi ha scelto, non mi conosceva nessuno. Tantomeno le psicologhe: ero solo uno dei tanti. Patrocinio a spese dello Stato, va remunerata anche l’attività preparatoria di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 27 gennaio 2024 Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con l’ordinanza n. 2502 deposita oggi, affermando che nonostante la prescrizione il legale aveva depositato la lista testimoniale e citato due testi. Nel patrocinio a spese dello Stato, al legale va liquidato il compenso per la fase istruttoria anche in caso di estinzione per prescrizione del procedimento se ha depositato la lista testimoniale e citato i testi. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con l’ordinanza n. 2502 di oggi, accogliendo con rinvio il ricorso dell’avvocato. Il Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, invece, aveva negato il compenso ritenendo che la fase istruttoria non si fosse mai svolta in quanto il processo, che aveva tratto origine dall’opposizione a decreto penale di condanna, dopo una serie di rinvii, era stato definito con la dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione. Nell’unico motivo di ricorso il legale ha sostenuto che il Tribunale non aveva liquidato la fase istruttoria “sull’erroneo presupposto che essa non si fosse svolta, sebbene il difensore avesse depositato una lista testimoniale ed avesse citato i testi”. Una censura accolta dalla Seconda sezione. Per la Suprema corte, infatti, il Tribunale “non ha considerato che l’art.12, comma 3 del D.M. 55/2014 prevede che la fase istruttoria non consiste solo nell’escussione dei testi, acquisizione di documentazione etc., ma comprende anche l’attività preparatoria”, vale a dire: “le richieste, gli scritti, le partecipazioni o assistenze relative ad atti ed attività istruttorie procedimentali o processuali anche preliminari, rese anche in udienze pubbliche o in camera di consiglio, che sono funzionali alla ricerca di mezzi di prova, alla formazione della prova, comprese liste, citazioni e le relative notificazioni, l’esame dei consulenti, testimoni, indagati o imputati di reato connesso o collegato”. Il Tribunale ha dunque sbagliato a non liquidare la fase istruttoria, “benché il ricorrente avesse depositato la lista testimoniale e citato due testi, attività inequivocabilmente compresa nella fase istruttoria”. Veneto. J’accuse sui troppi suicidi in carcere: “I detenuti sono affidati allo Stato” di Laura Tedesco Corriere del Veneto, 27 gennaio 2024 Solo nel carcere di Montorio ce ne sono stati 4 negli ultimi tre mesi. A inizio gennaio un detenuto si è ucciso a Vicenza e un altro a Padova. La piaga dei suicidi in carcere continua a essere pesante: nell’anno che va dall’1 luglio 2022 al 30 giugno 2023 in Veneto ci sono stati 6 suicidi (rispetto ai 4 dell’anno precedente), 99 tentati suicidi (rispetto a 95) e 787 atti di autolesionismo (erano stati 768). E ieri il presidente della Corte d’appello Carlo Citterio e il procuratore generale Federico Prato hanno lanciato l’allarme. “Il sovraffollamento è preoccupante - ha sottolineato Prato - A fronte di una capienza di 1947 posti, erano presenti 2481 detenuti, di cui 1250 stranieri e 131 donne”. Ovvio che in una situazione del genere, il malessere sia molto diffuso. “E colpisce non tanto i veri delinquenti, che il carcere lo sopportano meglio, ma le persone più fragili - prosegue - un’alta percentuale di detenuti ha disagi psichici e le strutture non bastano”. In Veneto c’è una Rems sola, a Nogara, che ha aumentato i posti da 30 a 40. “Non sono sufficienti, ma la nostra situazione è migliore di altre regioni - afferma Citterio - Però la questione va affrontata non a parole, ma operando fattivamente”. Il presidente della Corte fa un discorso molto deciso nei confronti dell’intero sistema. “Va fatta una riflessione seria, che parta dall’assunto che si tratta di persone che hanno sicuramente commesso dei reati, ma che sono in custodia dello Stato, perché è stato quest’ultimo che l’ha deciso”, osserva. Purtroppo però lo stesso Stato non ha le risorse (o non le mette) per creare quel sistema di assistenza di tipo psichiatrico o psicologico, gli educatori, che potrebbero cambiare la situazione. “Piuttosto che ipotizzare nuovi reati per condotte tenute negli istituti - aggiunge Citterio, facendo riferimento alla nuova fattispecie di “rivolta in carcere” - che pur certamente sono da reprimere, sarebbe utile anche operare sulla presenza di professionalità adeguate”. L’altro punto è quello delle misure alternative alla detenzione in cella: “Vanno valorizzate, tutto si tiene - conclude - se non ho risorse, un lavoro, e sono fragile, non potrò mai avere gli arresti domiciliari”. Foggia. Tragedia nel carcere, muore suicida un detenuto di 35 anni ansa.it, 27 gennaio 2024 Si è tolto la vita un giovane originario dei Monti Dauni. L’Osapp: “Urge una riorganizzazione del sistema”. Un detenuto di 35 anni, originario di Biccari sui Monti Dauni, si è suicidato nel carcere di Foggia. A darne notizia Ruggiero D’Amato, segretario regionale dell’Osapp. L’uomo - stando a quanto si è appreso - si è impiccato all’interno della cella utilizzando un rudimentale cappio ricavato probabilmente dalle lenzuola. Nonostante - “l’immediato intervento degli agenti - spiega l’Osapp - e ogni utile iniziativa per rianimare l’uomo non è stato possibile strapparlo alla morte”. Per D’Amato “urge una riorganizzazione dell’attuale sistema penitenziario che col passare del tempo dimostra i suoi fallimenti: poco personale di polizia penitenziaria, poche figure sanitarie specialistiche, pochi educatori, pochi psichiatrici e poco personale amministrativo”. “Ogni suicidio è certamente un atto individuale che non va generalizzato - ribatte Pasquale Montesano, segretario generale aggiunto Osapp. Quando però i numeri sono così impressionanti bisogna andare alla ricerca di cause di sistema”. Napoli. “Carceri o cimiteri?”. Manifesti funebri affissi in città dopo i tre suicidi a Poggioreale di Francesco Parrella Corriere del Mezzogiorno, 27 gennaio 2024 La protesta degli attivisti: è un’emergenza. Il sindacato: “Il governo intervenga subito”. “Carceri o cimiteri?”, si legge su alcuni manifesti funebri apparsi stamane a Napoli, per denunciare la situazione nel carcere di Poggioreale, dove in poco meno di un mese ci sono stati già 3 suicidi tra i detenuti. E si indaga anche per un quarto caso, un giovane 33enne di Secondigliano che soffriva di patologie psichiche, trovato senza vita il 5 gennaio, nel reparto Napoli, sul cui corpo sono stati trovate delle ferite che hanno fatto pensare a un’aggressione. La denuncia degli attivisti - Dall’inizio dell’anno sono già 11 i suicidi nelle carceri italiani. Nel 2022 erano stati 84. Poggioreale, denunciano gli attivisti del centro sociale “ex Opg-Je so’ pazzo”, “è il simbolo di tutte le disfunzioni del sistema carcerario: sovraffollamento, mancanza di personale e privazione di ogni diritto e tutela per i detenuti che risultano essere trattati quotidianamente come bestie, piuttosto che come esseri umani. Altro elemento che rende palese la grave inefficienza del carcere di Poggioreale è la presenza di solo due psichiatri a fronte dei 2100 detenuti. Gli esperti hanno inoltre visto le proprie ore di lavoro dimezzate nello scorso anno, tutto questo a fronte di un aumento costante della popolazione detenuta con gravi problemi psichici”. Il sindacato - “È evidente, tranne forse che al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e al governo che non c’è più tempo, bisogna intervenire subito per affrontare l’emergenza penitenziaria fatta di sovraffollamento detentivo, che sfiora il 130 per cento, di carenze organiche, 18mila operatori in meno nella sola Polizia penitenziaria, di carenze strutturali, infrastrutturali, logistiche e negli equipaggiamenti, di disorganizzazione e di molto altro ancora”, denuncia il segretario generale della Uilpa Polizia penitenziaria, Gennarino De Fazio. “L’esecutivo - aggiunge - vari immediatamente un decreto carceri per consentire cospicue assunzioni straordinarie, con procedura accelerata, nella Polizia penitenziaria e negli altri profili professionali e il deflazionamento della densità detentiva pura attraverso una gestione esclusivamente sanitaria dei malati di mente e percorsi alternativi per i tossicodipendenti. Parallelamente, il Parlamento approva una legge delega per la riforma complessiva del sistema d’esecuzione penale, la reingegnerizzazione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e del Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità e la riorganizzazione del Corpo di polizia penitenziaria”. Il Garante - Il Garante nazionale dei diritti dei detenuti ha segnalato “che lo stato di sovraffollamento degli Istituti penitenziari italiani non può attendere i tempi di progetti edilizi di diverso genere e non è colmato dalla realizzazione dei nuovi 8 padiglioni inseriti dal precedente Governo nel Pnrr, poiché essi potranno ospitare non più di 640 persone: una goccia rispetto all’eccedenza attuale di 13.000 detenuti rispetto ai posti disponibili. Si assumano - è la stata la raccomandazione - provvedimenti urgenti di deflazione della popolazione detenuta” e “si avvii in tempi rapidi la previsione normativa per consentire una modalità diversa di esecuzione penale per le persone condannate a pene brevi, inferiori ai due anni di reclusione, che oggi contano più di 4.000 unità; una modalità di forte rapporto territoriale, da attuare anche recuperando strutture demaniali già esistenti. Tali misure - conclude la nota - potrebbero ricondurre il sistema al rispetto della dignità della vita delle persone detenute e della finalità risocializzante della pena, anche nella prospettiva di prevenire quel disagio che è molto spesso dietro gli atti di suicidio in carcere”. Ancona. Detenuto trovato morto in cella. È il terzo decesso in venti giorni di Giuseppe Poli Il Resto del Carlino, 27 gennaio 2024 Si tratta di un 36enne tunisino che era in carcere per spaccio da meno di un anno: era seguito dal Sert. Lo hanno trovato che era ancora sul letto, quasi seduto, già rigido, e hanno chiamato le guardie dando subito l’allarme. Per lui, un tunisino di 36 anni, non c’era più nulla da fare. Era morto. Il carcere di Montacuto registra un altro detenuto deceduto in cella in meno di un mese. Lo straniero, che era in carcere da meno di un anno, per spaccio di droga, è stato trovato ieri mattina presto. Era in cura al Sert perché era dipendente da sostanze stupefacenti. Si trovava ristretto nella sezione chiamata “trattamento intensificato”, quella dove durante le ore del giorno le porte delle celle vengono tenute aperte e le persone in carcere posso entrare e uscire pur restando limitati a quel blocco. Di notte poi le porte delle celle sono di nuovo chiuse. Una sezione aperta, per detenuti meno pericolosi e che hanno sempre tenuto un atteggiamento collaborativo. Ieri mattina, attorno alle 6, i compagni di cella lo hanno visto semi seduto sul letto, la testa in avanti, non rispondeva. Così hanno chiesto aiuto ipotizzando un malore. In carcere sono arrivati il 118 e una ambulanza della Croce Rossa. Non c’è stato nulla da fare per l’uomo. Sul corpo non c’erano segni evidenti di una aggressione o segni di violenza. Non sarebbe stata trovata nemmeno droga. Si tratterebbe di una morte naturale ma andrà accertata. La magistratura ha trattenuto la salma. Il pm di turno, Andrea Laurino, potrebbe richiedere una autopsia sul corpo o un esame esterno. Il 36enne era in carcere a Montacuto da meno di un anno, ed era finito dentro per spaccio. La sua famiglia risiederebbe in provincia. Non aveva problemi di salute. La sua è la terza morte in 20 giorni. Il 5 gennaio è stato trovato impiccato, in una cella di isolamento, Matteo Concetti, 25 anni, fermano. Sul caso c’è un fascicolo aperto in Procura per istigazione al suicidio. Il 12 gennaio è toccato ad un 41enne, algerino, arrestato pochi giorni prima per spaccio all’uscita del casello autostradale di Loreto. Era in una sezione ordinaria, diversa da quella del tunisino, dove anche durante il giorno le porte delle celle sono chiuse. Modena. Detenuti, tirocini e laboratori in carcere. Filo diretto con le aziende di Emanuela Zanasi Il Resto del Carlino, 27 gennaio 2024 Un progetto di Coopattiva e dell’Associazione per la Responsabilità Sociale di Impresa di Modena offre ai detenuti del carcere di Sant’Anna la possibilità di formarsi e lavorare, favorendo la loro riabilitazione. L’iniziativa, finanziata anche dal vescovo di Modena, mira a collegare il carcere con il tessuto produttivo esterno, offrendo opportunità agli imprenditori e agevolazioni fiscali. Attualmente, 16 detenuti seguono un percorso di lavoro esterno e altri 6 sono impegnati nel laboratorio di Coopattiva. Sono in programma ulteriori progetti, come un laboratorio di sartoria per le donne e uno gastronomico. Trovare una nuova vita dopo il carcere, una riabilitazione personale attraverso il lavoro. Va in questa direzione il progetto di Coopattiva e dell’Associazione per la Responsabilità Sociale di Impresa di Modena che hanno realizzato un laboratorio all’interno del carcere di Sant’Anna. Qui i detenuti, selezionati dalla direzione dell’istituto, vengono formati per svolgere un’attività in conto terzi. “I detenuti vengono inseriti in un percorso di tirocinio formativo, seguito da un percorso per una possibile assunzione - ha spiegato Giorgio Sgarbi, direttore Coopattiva - il progetto è nato grazie anche al finanziamento del vescovo di Modena don Erio Castellucci che ha contribuito con la copertura dei costi di avvio”. Ieri oltre alla stampa all’interno del Sant’Anna c’erano alcuni imprenditori, perché è questo il cuore del progetto; collegare il carcere con il tessuto produttivo esterno dando un’opportunità anche agli imprenditori che possono godere di agevolazioni fiscali. “Il fatto di potere contare su un’azienda come Coopattiva è anche una garanzia per poter superare timori e perplessità di fronte all’assunzione di detenuti”, ha aggiunto Elena Salda (nella foto con Sgarbi), presidente dell’Associazione per la RSI. Nel carcere ci sono ora 520 detenuti, solo 31 le donne. La formazione è una priorità al Sant’Anna. 16 le persone che stanno già seguendo un percorso di lavoro esterno, altre sei sono impegnate nel laboratorio di Coopattiva. In cantiere tanti progetti: un laboratorio di sartoria per le donne e uno gastronomico. “Vedo nelle persone coinvolte nel progetto la voglia di ricostruirsi tramite il lavoro” ha detto Simona Vacondio che segue i detenuti per Coopattiva. Viterbo. I detenuti al lavoro per Santa Rosa di Roberta Barbi vaticannews.va, 27 gennaio 2024 In occasione dell’udienza concessa da Francesco ai Facchini della macchina di Santa Rosa di Viterbo, i ristretti della casa circondariale della città hanno regalato al Papa un modellino della macchina “Volo d’angeli” realizzata con il Centro studi Santa Rosa. La professoressa Rava: con loro progetti di crescita comune all’insegna della disponibilità e del rispetto delle regole. Una macchina che si ferma a metà, prima di piazza del Comune, e non riesce a finire il suo percorso in onore della Santa più importante, quella in cui tutta la città si riconosce e in cui la comunità si identifica. È il 3 settembre 1967 a Viterbo e la macchina in questione si chiama “Volo d’angeli”, costruita dalla famiglia Zucchi. La macchina di Santa Rosa è un’enorme torre fatta di luci e fiaccole che ogni anno i facchini dell’omonima associazione portano in processione il giorno della festa, perciò se una di queste si ferma è un problema: “Volo d’angeli è stata poi revisionata a livello strutturale e l’anno successivo ha terminato regolarmente il percorso attraverso la città, anzi, è rimasta nella memoria dei viterbesi come una delle macchine più amate, utilizzata fino al 1978”, racconta a Vatican News la professoressa Eleonora Rava, direttrice dell’Archivio generale della Federazione delle Clarisse Urbaniste d’Italia. Con il Centro studi Santa Rosa, Rava cura diversi progetti che coinvolgono i detenuti della casa circondariale Mammagialla di Viterbo, come “Incastri per ricostruire”, un laboratorio da cui è uscito il modellino in legno proprio di “Volo d’angeli”, donato poi a Papa Francesco dalla madre superiora del Monastero di Santa Rosa. “Non è un caso che i detenuti abbiano scelto, tra le tante, proprio questa macchina - prosegue la prof.ssa Rava - la sua storia, infatti, è metafora della loro: una vita che si interrompe, con il carcere, ma poi ha la possibilità di riscattarsi e riprendere. ‘Volo d’angeli’ è il loro simbolo di ripartenza e di speranza”. I progetti con i detenuti messi in campo dal Centro Studi in collaborazione con l’Università della Tuscia e finanziati con il contributo della Regione Lazio, non si fermano qui: all’attivo c’è anche “Rose che sprigionano”, un’attività di recupero delle tecniche artigianali presenti nel monastero fin dal 600: “Insegniamo tecniche di risocializzazione - racconta ancora Rava - attraverso la metodologia del learning by doing i detenuti producono manufatti artigianali che poi vengono venduti”. Grazie all’apprendimento di queste lavorazioni tessili, dunque, i ristretti guadagnano nuove chance per proporsi nel mondo del lavoro una volta fuori; nel frattempo le rose vengono donate al monastero di Santa Rosa come oggetti devozionali che sono particolarmente richiesti nel periodo della festa a settembre in cui si arriva anche a 60 mila visite. Attualmente sono impiegati in questo progetto 16 detenuti dell’alta sicurezza che lavorano in squadra. Cimentarsi con tecniche plurisecolari ha consentito ai detenuti anche di avvicinarsi allo studio della documentazione conservata presso l’Archivio della Federazione: trascrivendo questi manoscritti è stato, infatti, insegnato loro a leggere e scrivere correttamente e a fare edizione di fonti. Studi illustri, tra l’altro, hanno recentemente accostato la vita detentiva e quella claustrale con l’obiettivo di evidenziarne differenze e analogie: “Uno degli studi più accreditati è quello dell’università di Reims che per prima ha messo in relazione le due istituzioni totali - riferisce la prof.ssa Rava - la nostra esperienza conferisce, però, un valore aggiunto: il coinvolgimento diretto delle suore e dei detenuti sulle fonti. In particolare abbiamo studiato un registro di dispensa, mettendo in luce come l’alimentazione in un carcere e in un convento siano vicine nel riuso del cibo, nella povertà dell’alimentazione e nella presenza di piatti multietnici o multiregionali. Poi, ovviamente, ci sono anche altre analogie, specie per quel che riguarda le dinamiche di gruppo e la pressione che il gruppo esercita sul singol Tante le attività all’attivo, dunque, ma che perseguono un unico obiettivo: costruire un rapporto di fiducia: “Quando si lavora con i detenuti non è importante tanto quello che si fa, ma come lo si fa - conclude Rava - riuscire a cogliere il volto di Gesù nell’altro, separare l’errante dall’errore, non giudicare, far cadere il pregiudizio, capire come in gruppo si possano fare cose che da soli non si possono fare. Questa esperienza è stata ed è una crescita comune sulla base di amore, amicizia, disponibilità, fiducia, assunzione di un impegno e rispetto delle regole”. Migranti. I detenuti e le disumanità del Cpr di Milo nel silenzio delle autorità tp24.it, 27 gennaio 2024 Inferriate a barriera, moduli più simili a delle celle che a ricoveri dove poter abitare, e poi niente mensa ma solo cibo in vaschette di alluminio da catering, freddi ed insufficienti, una sola doccia calda, molto spesso guasta, e tutto questo per 145 persone, con letti in cemento dove vengono appoggiati materassi sporchi, quando si trovano. Sono queste le condizioni disumane che si vivono al CPR di contrada Milo a Trapani, dove, mercoledì è scoppiata una protesta dopo giorni di tensione e segnali di insofferenza verso anche provvedimento di rimpatrio per 29 tunisini che dovevano lasciare il Centro per far rientro nel loro Paese. A quel punto gruppo di persone di nazionalità tunisina, hanno accatastato scatole di cartone e materassi e hanno appiccato il fuoco che ha invaso l’immobile. Quello che è accaduto all’interno del Cpr di Milo, è servito ed ha aperto uno squarcio su cosa sono i centri di detenzione per il rimpatrio in Italia. Strutture realizzate come un carcere duro da deportati, ma chi vi sta dentro, e in questo caso sono quasi tutti giovani, “colpevoli”, solo di non essere stati ritenuti regolari sul territorio italiano e rinchiusi in una struttura che è pensata per 10 persone, anche se solitamente ve ne stanno 13. Da giorni passano le giornate esposti a pioggia, freddo, intemperie, senza un tetto a coprirli o un materasso su cui dormire, costretti in più di cento a dividersi servizi e docce per dieci. Non trapela nulla dalle autorità - La cosa agghiacciante è che le autorità non fanno sapere nulla di ciò che accade dentro questi luoghi di detenzione. Dall’interno nei giorni scorsi era filtrata voce che i richiedenti asilo sarebbero stati trasferiti in un Cas, tutti gli altri rimessi in libertà. In realtà, pare che i migranti saranno spostati in altre strutture, forse il Cpr di Pian del Lago, ma la decisione arriverà nelle prossime ore”. “La prefettura non dovrebbe aver bisogno di sollecitazioni per fare chiarezza - le parole di Fausto Melluso, responsabile Migrazioni di Arci - è doveroso informare su quale sia la condizione attuale del centro, quanti ospiti ancora ci siano dentro, in quali condizioni siano trattenuti, chi e quanti siano stati trasferiti. I Cpr si confermano luoghi in cui troppo spesso il diritto e i diritti non valgono, neanche di quelli di chi sta in carcere e da cui pochissime informazioni riescono a filtrare”. E Milo, la frazione dove questo centro è stato realizzato, si presta perché è un luogo lontano da tutto, perfetto per l’isolamento, dove possono attuarsi i propositi dei carcerieri, cioè i governi che decidono in Italia e nell’Unione Europea di combattere i profughi e i migranti attraverso i dispositivi di respingimento. Interrogazioni parlamentari - Su quanto accade a Milo sono state presentate due interrogazioni parlamentari, al Senato da Antonio Nicita, Annamaria Furlan ed Enza Rando del Pd, alla Camera dal segretario di Sinistra italiana e parlamentare dell’Alleanza Verdi-Sinistra, Nicola Fratoianni. A Bruxelles è intervenuto l’eurodeputato dem Pietro Bartolo: “L’Europa - dice - non può far finta di non vedere cosa accade in Italia”. Delle condizioni in cui vivono a Milo queste persone, che dovrebbero attendere il rimpatrio e invece vivono da deportati ne abbiamo parlato con la giornalista di Repubblica, Alessia Candito, che ci dice: “le autorità competenti non si preoccupano minimamente di fare sapere che cosa sta accadendo, come se queste persone fossero dei fantasmi e questo rispecchia un sentiment che a che fare, in generale, con la questione delle migrazioni, per cui i morti dei naufragi non sono persone ma sono numeri, gli arrivi non sono sbarchi, ma accompagnamenti a terra di naufraghi, non stranieri, non migranti e persone in difficoltà in mare a prescindere dal colore della pelle e della nazionalità, e questa spersonalizzazione è funzionale alla costruzione di una narrativa per cui queste non sono persone, sono problemi, sono esuberi, sono numeri, tutte definizioni che nel tempo sono servite ad allontanare questi esseri umani dalla percezione collettiva”. La Cgil interviene sul Cpr di Milo a seguito delle proteste dei migranti - “I Cpr, da luoghi di trattenimento temporaneo per i cittadini stranieri irregolari in attesa di rimpatrio, non posso diventare luoghi in cui la dignità umana e le condizioni di vita vengono violate”. Lo afferma Enzo Palmeri, segretario organizzativo della Cgil con delega all’immigrazione, a seguito delle proteste che si susseguono al Centro di permanenza per i rimpatri di contrada Milo a Trapani. “La situazione al Cpr di Milo - dice il segretario Palmeri - non è sostenibile e mette in seria difficoltà sia i migranti che raccontano di essere privati dei diritti fondamentali, vivendo in una struttura che sembra non rispettare gli standard minimi, sia per i lavoratori, il personale e le forze dell’ordine, che devono gestire situazioni di tensione tutelando la loro incolumità e quella degli ospiti della struttura. Auspichiamo - conclude - che venga fatta chiarezza sulla situazione complessiva in cui versa il Cpr di Milo e che si adottino provvedimenti che mirino ad alzare il livello degli standard qualitativi della struttura, garantendo il rispetto e la tutela della dignità dei migranti”. Valentina Villabuona (PD) replica con una lunga nota all’intervento di Miceli e Fratelli d’Italia - “Se da Fratelli d’Italia, attraverso il suo coordinatore provinciale Miceli, si dichiara di essere basiti per le dichiarazioni del Partito Democratico sul Cpr di Trapani, la sottoscritta trasecola per la manipolazione della realtà e per l’infondatezza di quanto dichiarato dal partito della presidente del Consiglio. Nell’attesa di conoscere ciò che è avvenuto nella struttura di contrada Milo, visto che le Autorità competenti continuano a mantenere un irrituale silenzio, occorre replicare a chi vuole attribuire la situazione attuale ai governi precedenti. Affermazione, quest’ultima, in parte veritiera dal momento che proprio i decreti sicurezza del 2018 voluti da Salvini, loro alleato a livello nazionale, hanno smantellato un sistema efficiente, moltiplicando i clandestini a cui fa riferimento Miceli.Tale situazione era stata superata, proprio grazie all’impegno dei parlamentari del Pd che, successivamente, avevano smantellato quei decreti disumani, riportando il sistema di accoglienza ad una condizione di efficienza. Stupisce infine, il tono trionfalistico utilizzato sull’accordo con l’Albania che avrà costi enormi che graveranno sulle tasche degli Italiani e che, oltre ad essere di difficile realizzazione, e già stato tacciato di profili di incostituzionalità da molti giuristi perché comporta respingimenti collettivi e riguarda, peraltro, una minima parte dei migranti che arrivano nel nostro Paese. Forse Miceli dimentica che la presidente Ursula von der Leyen si è recata a Lampedusa nel momento di massima pressione sull’hotspot dell’isola, creato ad arte da chi - ostacolando i soccorsi in mare - ha creato un imbuto impossibile da gestire.Il tema della sicurezza delle cittadine e dei cittadini e dei migranti è un tema caro al PD, ma non si risolve con norme spot e dichiarazioni sull’aumento di personale nelle Questure che non corrisponde alla realtà che vivono i territori. Pensare di risolvere il problema dell’immigrazione respingendo le persone significa non avere contezza del fenomeno o, peggio, rappresenta la volontà di fare propaganda sulla pelle di persone che non potranno essere rimpatriate e si preferisce lasciarle clandestine per motivi ideologici, in un Paese a crescita zero che avrebbe bisogno di forza lavoro. Stia sereno Miceli: ad essere basiti sono gli Italiani che assistono ai continui annunci di un Governo in confusione ed incapace di affrontare i reali problemi del Paese”. Migranti deportati in Albania? “Accordi che evadono questioni importanti e non funzionano” di Franz Baraggino Il Fatto Quotidiano, 27 gennaio 2024 Lo aveva detto al Parlamento europeo a fine novembre ed è venuto a ribadirlo di fronte all’Italia. Ascoltato dalla commissione straordinaria per la tutela e promozione dei diritti umani del Senato, l’alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite (Ohchr), Volker Türk, ha espresso la sua preoccupazione per la costruzione in Albania dei Centri per migranti al centro dell’accordo siglato ai primi di novembre da Giorgia Meloni col premier albanese Edi Rama, appena ratificato dalla Camere e ora all’esame proprio a Palazzo Madama. Oltre che alla Corte costituzionale di Tirana, che potrebbe esprimersi già il 29 gennaio sulla sua legittimità. “Questi trasferimenti verso l’Albania per assolvere le procedure di asilo e rimpatrio, evadono questioni importanti legate ai diritti umani, soprattutto la libertà dalla detenzione arbitraria e la necessità di assicurare procedure di richiesta d’asilo adeguate, incluso lo screening e l’identificazione”, ha detto Türk alla commissione, impegnata nell’indagine conoscitiva sui livelli e i meccanismi di tutela dei diritti umani in Italia e nella realtà internazionale. “Dobbiamo garantire che gli obblighi dell’Italia verso il diritto internazionale vengano rispettati. Posso dire che la gestione extra territoriale dei migranti, che vedo da molti anni in altri Paesi, non ha mai funzionato, anzi ha procurato sofferenza e dolore”. “Voglio essere molto onesto con voi - ha proseguito il commissario - la creazione di questi hotspot all’estero senza base giuridica mi preoccupa, lo dico chiaramente. Riconosco l’importanza della prevenzione e della repressione del traffico di esseri umani. Ci sono persone la cui vita è messa a rischio in mare ed è un imperativo quello di combattere il traffico. Ma la migrazione non deve essere considerata un reato. Accettare le differenze è una delle glorie dell’Italia, perché voi avete battuto la strada per sconfiggere l’odio e l’intolleranza verso qualsiasi gruppo, dai migranti ai Lgbtqi+. Spesso queste persone vengono usate come capri espiatori, vengono disumanizzate, un problema che va affrontato e combattuto”. “L’alto commissario per i diritti umani, audito al Senato, sta demolendo l’accordo con l’Albania, esprimendo preoccupazione per le condizioni nelle carceri, condanna dei discorsi d’odio e della criminalizzazione dei migranti. Con la calma di un chirurgo”, ha twittato il senatore del Pd, Filippo Sensi. Di tutt’altro avviso il senatore di Fratelli d’Italia, Giulio Terzi, che è intervenuto alla fine dell’audizione del commissario. “Il protocollo firmato con l’Albania è in linea anche con quelli con la Tunisia ed altri Paesi. Accordi in cui la coerenza con il diritto europeo è stata sempre il punto di riferimento centrale per il governo italiano per almeno contribuire ad una soluzione all’enorme tragedia del traffico clandestino di essere umani”. Stati Uniti. Giustiziato con l’azoto Kenneth Eugene Smith, cavia della pena capitale di Luca Celada Il Manifesto, 27 gennaio 2024 Nella notte fra giovedì e venerdì, agenti del Holman Correctional Facility hanno prelevato Kenneth Eugene Smith dalla cella dove aveva ricevuto le ultime visite della moglie, del figlio e dei parenti e consumato il suo ultimo pasto. Fissati i ferri regolamentari sopra l’uniforme arancione da detenuto, lo hanno accompagnato lungo i corridoi alla camera della morte dove, una volta immobilizzato, gli è stata apposta una maschera sigillante nella quale, tramite un tubo, è stato gradualmente pompato gas di azoto. Il gas inerte è presente naturalmente nell’aria (al 78%) ma allo stato puro, senza ossigeno, provoca la morte per ipossia. Così alle 20:25, come riportato dagli atti, è morto asfissiato Kenneth Eugene Smith, 58 anni, condannato per omicidio: il primo detenuto ad essere giustiziato due volte. GIÀ NEL 2022, infatti, Smith era stato legato ad una lettiga davanti ai testimoni seduti oltre il vetro. Alle esecuzioni non partecipa personale medico per il divieto degli ordini professionali e le operazioni sono in mano a personale carcerario. Per quattro ore, gli aguzzini del penitenziario avevano invano tentato di trovare una vena in cui iniettare i veleni previsti per l’esecuzione. Al termine di quattro ore di sofferenze, allo scoccare della mezzanotte era scaduto il mandato legale per l’esecuzione e gli agenti avevano dovuto porre fine alla lugubre procedura e ricondurre l’uomo in cella. All’epoca si trattò della terza esecuzione fallita in quello stato. In un’intervista Smith aveva affermato di aver tremato per settimane prima di riuscire a rimettersi dall’esperienza. I suoi legali avevano fatto ricorso per sofferenze incostituzionali e avevano chiesto che la pena venisse sospesa alla luce del trauma subito. Ma l’Alabama non ha desistito e ha lavorato diligentemente per trovare un modo per eseguire nuovamente la sentenza ricorrendo, alla fine, ad un metodo letale mai prima utilizzato: il soffocamento con l’azoto. Negli Usa la pena di morte è attualmente prevista dagli ordinamenti di 27 stati (e sostenuta dalla maggioranza della popolazione). Dal 1976 sono state eseguite 1582 sentenze (24 lo scorso anno) e vi sono ancora complessivamente circa 2300 detenuti in attesa nel braccio della morte. Dal 1982, il metodo prevalentemente usato è stata l’iniezione letale, fin quando sono divenuti sempre più scarsi i farmaci usati per questo scopo, come il pentothal, dato che molte aziende produttrici hanno ritenuto che fornirli fosse dannoso alla propria immagine. In alcuni casi come quello della Hospira (ora assorbita dalla Pfizer) che produceva tiopenthal nello stabilimento di Liscate, fuori Milano, l’interruzione è stata determinata anche dalle regole del governo italiano. Nella macabra ricerca di modalità alternative per ammazzare efficientemente un essere umano, la scelta in alcuni stati è infine ricaduta sull’azoto, un metodo che perfino l’ordine dei veterinari americani ha escluso, salvo eccezioni per uccelli e, in certi casi, suini. Nel manuale deontologico si legge che il sistema non è idoneo “all’impiego per l’eutanasia dei mammiferi”. L’”azoto letale” è stato tuttavia autorizzato anche in Mississippi e in Oklahoma - altri stati come l’Idaho e lo Utah hanno riportato in vigore la fucilazione, mentre in altri ancora è tuttora utilizzata la sedia elettrica. La “procedura” di Smith è durata 22 minuti. I testimoni, compresi alcuni giornalisti e familiari del condannato e della vittima che aveva ucciso, hanno dichiarato che l’uomo ha avuto convulsioni per circa due minuti prima di perdere conoscenza e infine smettere di respirare. I legali di Smith avevano espresso preoccupazione per la possibilità di eccessiva sofferenza e crudeltà pari alla tortura. “Tutto come previsto”, si è invece limitato a commentare il direttore carcerario John Hamm. “Non abbiamo trovato nulla fuori dall’ordinario”. Ovviamente non è stato possibile sperimentare preventivamente la procedura in cui Smith è invece servito da cavia, parole usate anche da Sonia Sotomayor, giudice della Corte Suprema americana, che ha espresso parere contrario a procedere. La maggioranza di togati conservatori sul tribunale costituzionale ha invece respinto il ricorso in extremis di Smith pochi minuti prima dell’esecuzione. Medio Oriente. La Corte dell’Aia riconosce il rischio di genocidio a Gaza. Ma non chiede la tregua di Youssef Hassan Holgado Il Domani, 27 gennaio 2024 Il tribunale dell’Onu impone a Israele di disporre misure per evitare la pulizia etnica. Il caso presentato dal Sudafrica accolto nella sostanza. Ma nella Striscia si combatte. Ieri gli occhi del mondo erano puntati sull’Aia. Nella città olandese, la Corte internazionale di giustizia era chiamata a rispondere sulla causa intentata dal Sudafrica contro Israele, accusato di commettere un genocidio a danno dei palestinesi a Gaza con la sua operazione militare iniziata lo scorso 7 ottobre. Da una prima analisi, la decisione, pronunciata dalla presidente statunitense della Corte Joan Donoghue, ha seguito il percorso della diplomazia. Se da una parte la Corte ha asserito che ha giurisdizione sul caso e ha chiesto a Israele di “prendere tutte le misure in suo potere” per prevenire atti che violino la convenzione sul genocidio del 1948, dall’altra, invece, non ha chiesto il cessate il fuoco immediato, come invece auspicato dal Sudafrica. Cosa ha deciso la Corte - A distanza di due settimane dalle udienze dell’11 e del 12 gennaio la Corte si è espressa con grande rapidità sul caso, vista la pesante accusa arrivata sul suo tavolo e il conflitto ancora in corso. Esprimendo preoccupazione per le vittime civili, Donoghue ha detto che “il 93 per cento della popolazione nella Striscia di Gaza rischia la fame e centinaia di migliaia di bambini non hanno accesso all’istruzione”. Il rischio che la situazione diventi “catastrofica” è molto alto. Inoltre, secondo i giudici “ci vorranno anni per risollevare un’intera generazione di bambini traumatizzati”. Da qui la necessità di far entrare aiuti umanitari per la popolazione il prima possibile e garantire la fornitura dei servizi essenziali. Aiuti che erano entrati nella Striscia attraverso il valico di Rafah dall’Egitto con le brevi pause umanitarie di dicembre. Ma da settimane la fila di camion in attesa di entrare a Gaza è sempre più lunga. Leggendo il dispositivo la giudice americana ha chiesto anche alle autorità israeliane di adottare misure “per prevenire e punire l’incitamento pubblico e diretto a commettere un genocidio nei confronti dei membri dei gruppi palestinesi nella Striscia di Gaza”. Un chiaro riferimento ai leader politici di estrema destra del governo di Benjamin Netanyahu, che più volte secondo le accuse del Sudafrica hanno utilizzato un linguaggio disumanizzante nei confronti del popolo palestinese. La Corte ha citato come esempio le dichiarazioni del ministro della Difesa Yoav Gallant che il 9 ottobre scorso “ha ordinato un “assedio completo” a Gaza” affermando: “Stiamo combattendo animali umani e ci comporteremo di conseguenza”. Donoghue ha anche detto che la corte è “gravemente preoccupata” per la sorte degli ostaggi rapiti in Israele il 7 ottobre e ha chiesto “il loro rilascio immediato e incondizionato”. Le reazioni - Esultano il Sudafrica e l’Autorità nazionale palestinese. La decisione è “una vittoria del diritto internazionale”, dicono da Pretoria. “Una sentenza a favore dell’umanità”, dicono gli uomini di Abu Mazen. Il dispositivo “isola Israele” è la lettura di Hamas. L’Unione europea, invece, ha chiesto a Israele di attenersi alle decisioni dell’Aia. Silenzio da parte di Stati Uniti, Russia e i più importanti paesi arabi. La prima reazione avversa è del ministro della Sicurezza nazionale israeliano, l’estremista Itamar Ben Gvir. “La decisione del tribunale antisemita dell’Aia dimostra ciò che si sapeva in anticipo: questo tribunale non cerca giustizia, ma la persecuzione del popolo ebraico”, ha detto. Sulla stessa onda anche il ministro Yitzhak Wasserlauf. Per evitare tensioni con l’organo giudiziario, il premier Benjamin Netanyahu avrebbe chiesto ai suoi ministri di astenersi da dichiarazioni pubbliche, visti i precedenti. Per Netanyahu: “La stessa affermazione che Israele sta commettendo un genocidio contro i palestinesi non è solo falsa, è oltraggiosa, e la volontà della Corte di discuterne è un segno di vergogna che non sarà cancellato per generazioni”. Resta da capire se il prossimo giudizio della Corte, che ha dato a Israele un mese di tempo per dimostrare che non stia compiendo un genocidio con i suoi bombardamenti e l’isolamento di Gaza, prendi una direzione diversa dato che cambierà la composizione di 5 dei 15 giudici che la compongono. Infatti, il 6 febbraio scadrà anche il mandato della stessa presidente Donoghue. Forse anche per questo la decisione più importante, quella su il cessate il fuoco, è stata procrastinata. Intanto, i bombardamenti su Gaza da parte dell’esercito israeliano continuano. Per Udine Rony Brauman, medico francese e direttore della ricerca della fondazione Medici senza frontiere, la situazione è “catastrofica”. “Gaza sta diventando un cimitero dei bambini. Il quadro è destinato ad aggravarsi: ci sono state altre situazioni terribili, come in Yemen, Cecenia, Afghanistan, ma mai si era verificata una tale intensità di bombardamenti su una popolazione concentrata in un territorio dal quale non può scappare”. Medio Oriente. Dopo l’Aja gli alibi e le conseguenze di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 27 gennaio 2024 La sentenza di ieri dichiara plausibile la violazione della Convenzione sul genocidio da parte dello Stato d’Israele, non ordina il cessate il fuoco. Dalle macerie del diritto internazionale, dopo tante guerre che l’hanno devastato, e dell’Onu le cui sedi il governo israeliano ha bombardato, fa capolino la voce di una sentenza insieme storica e sibilante, quasi di svolta, ma che allo stesso tempo, per gli attuali rapporti di forza nel mondo peggiori della Guerra fredda, rischia di apparire come alta posizione di principio ma lontana dalla necessità di fermare subito la mattanza in corso a Gaza. Perché la guerra continuerà. La Corte internazionale di giustizia dell’Aja, la principale organo giudiziario dell’Onu nelle controversie tra Stati, era chiamato ieri in questa prima sentenza non a decidere se quel che commette Israele è genocidio o meno. Ma “solamente” se aveva giurisdizione sul caso e se era accettabile l’imputazione per genocidio richiesta dal Sudafrica; se insomma in quello che è accaduto in questi tre mesi e mezzo nella Striscia di Gaza, dopo l’attacco criminale di Hamas del 7 ottobre, si può raffigurare una violazione della Convenzione contro il genocidio della quale è firmataria Israele stessa. Bene, la Corte, respingendo la richiesta di Israele di archiviare l’accusa sudafricana, dichiara che atti riguardanti l’offensiva militare israeliana “plausibilmente” raffigurano il genocidio, quindi accetta - e ci vorranno anni per sentenziarlo però - che lo Stato d’Israele sia imputato di genocidio all’Aja. Non era scontato. Del resto era assai difficile nascondere i più di 25mila morti (finora) per gran parte civili, le migliaia di bambini uccisi, le decine di migliaia di feriti e mutilati, il 70% delle abitazioni rase al suolo, il sistema umanitario della Striscia fatto a pezzi, gli aiuti alimentari e sanitari negati per un milione e 700mila persone in fuga sotto le bombe e alla fame, mentre il personale sanitario e i giornalisti finisce nelle fosse comuni. Il fatto non è da poco. Basta vedere la reazione del premier Netanyahu che accusa la Corte di “oltraggio” e di molti ministri israeliani, quello della sicurezza, il fascista Ben Gvir, che bolla la Corte dell’Aja come “antisemita”, e quello della Difesa Yoav Gallant per il quale “la Corte è andata oltre accogliendo la richiesta antisemita del Sudafrica”. E sì che a decidere per la risoluzione votata dai 17 giudici - con maggioranze da 15 a 2, o da 16 a 1 - ci sono ostati membri “indipendenti” ma di Paesi dichiaratamente filoisraeliani come Usa, Gran Bretagna Germania, Australia. E basta ascoltare le reazioni, quelle palestinesi: l’esponente di Hamas Sami Abu Zuhri dichiara che la decisione della Corte “isola Israele”; l’Anp con il ministro degli esteri Riyad al Maliki “plaude alla sentenza a favore dell’umanità e alle misure provvisorie necesse arie, e vincolanti, ordinate dalla Corte contro Israele per evitare il genocidio”; e quelle della Commisione europea, Josep Borrell, Alto rappresentante per gli esteri, insiste quasi sullo stesso tema: “Le ordinanze della Corte di giustizia sono vincolanti per le parti e queste devono rispettarle: l’Ue si aspetta la loro piena, immediata ed effettiva attuazione”. Ecco il punto, la sentenza di ieri che dichiara plausibile la violazione della Convenzione sul genocidio da parte dello Stato d’Israele, non ordina il cessate il fuoco. La giudice americana Joan E. Donoghue, presidente della Cig ha altresì chiesto con chiarezza alle autorità israeliane di adottare “misure per prevenire atti di genocidio nella Striscia di Gaza”, di “prevenire e punire l’incitamento diretto e pubblico a commettere un genocidio dei palestinesi”, inoltra dà un mese di tempo a Tel Aviv per riferire alla Corte sulle misure prese, senza “alterare prove”, e Israele deve consentire subito e in modo efficace l’ingresso degli aiuti umanitari. La Corte, che ha chiesto anche la liberazione degli ostaggi, obbliga dunque Israele ad adottare misure per proteggere i palestinesi. Ma, fatto dirimente, non gli ordina di porre fine alle operazioni militari nella Striscia di Gaza. Chi può farlo allora? Né serve ricordare che la stessa Corte invece nel 2022 impose il cessate il fuoco alla Russia per la guerra all’Ucraina, perché l’imposizione fu tutt’altro che ascoltata. È abbastanza evidente che questa sentenza indirettamente, richiami il ruolo del Consiglio di sicurezza dell’Onu, già bloccato su questa crisi però dal veto Usa e ostaggio di Usa, Gran Bretagna, Russia e Cina. Così accade che ieri sera l’Algeria, membro permanente dal 1 gennaio del Consiglio di sicurezza, ringraziando il Sudafrica, abbia chiesto la convocazione del massimo organismo Onu “per dare effetto vincolante alla decisione della Corte internazionale di giustizia sulle misure temporanee imposte all’occupazione israeliana”. Ecco che torna quel protagonismo e quella solidarietà post-coloniale di una parte del Sud del mondo che non dimentica i massacri coloniali nel nord-Africa, né Mandela che paragonava la liberazione dall’apartheid del Sudafrica a quella della Palestina, né il sostegno dei governi israeliani ai misfatti bianchi del regime razzista di Pretoria, né il genocidio tedesco degli Herero in Namibia; e che sa bene che la litania “due popoli e due stati” è una chiacchiera offensiva se non si riconosce che c’è un solo Stato, quello d’Israele, e che quello palestinese impedito con le guerre in questi decenni dai governi israeliani a cominciare dallo stesso Netanyahu - che ha sempre intrattenuto buoni rapporti con Hamas in chiave anti-Fatah -, ora è letteralmente cancellato dalla miriade di insediamenti coloniali che ne impediscono la continuità territoriale. È un protagonismo che sfida sulla tragedia di Gaza apertamente gli Stati uniti - tra l’altro Biden, Blinken e Austin sono accusati da ieri in casa, da un tribunale della California, di concorso in genocidio con Israele. Perché da oggi in poi, se è “plausibile” che atti militari di Israele a Gaza siano genocidio, vuol dire che può altrettanto essere imputato di “plausibile genocidio”. ogni nuovo veto, invio di armi e sostegno militare, ogni reticenza politica che riconosce la vita e i diritti dei palestinesi solo a belle parole. Medio Oriente. Mattarella: “Israele non neghi il diritto a uno Stato a un altro popolo” di Adriana Pollice Il Manifesto, 27 gennaio 2024 Il discorso del presidente della Repubblica per il Giorno della memoria: “L’antisemitismo non è tollerato. La strage del 7 ottobre non ha risparmiato nemmeno ragazzi e neonati”. Ma ha poi sottolineato: “L’angoscia sorge per le numerose vittime tra la popolazione civile palestinese nella striscia di Gaza”. La Shoah un orrore assoluto, le deportazioni e i lager frutto delle tirannidi fasciste, il ritorno dell’antisemitismo non tollerato dalla nostra Repubblica: sono le parole del presidente Sergio Mattarella per il Giorno della Memoria. Ma, in modo altrettanto netto, ha poi aggiunto che, dopo l’orrore terrorista di Hamas, la risposta di Israele rischia di ostacolare la pace: “Coloro che hanno sofferto il turpe tentativo di cancellare il proprio popolo dalla terra sanno che non si può negare a un altro popolo il diritto a uno Stato”. Al Quirinale ieri i vertici delle comunità ebraiche, gli studenti e i sopravvissuti all’Olocausto. “Non mi fermerò, continuerò ancora fin quando potrò farlo” ha spiegato Sami Modiano, sopravvissuto al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, raccontando i suoi viaggi della memoria con i giovani studenti. A Mattarella il compito di mettere in fila i punti, cominciando dal citare Primo Levi: “La storia della deportazione e dei campi di concentramento non può essere separata dalla storia delle tirannidi fasciste in Europa: ne rappresenta il fondamento condotto all’estremo, oltre ogni limite della legge morale che è incisa nella coscienza umana”. Per proseguire: “Auschwitz spalancava, e spalanca tuttora, i suoi cancelli su un abisso oltre ogni immaginazione. Un orrore assoluto, senza precedenti, cui null’altro può essere parificato, ideato e realizzato in nome di ideologie fondate sul mito della razza, dell’odio, del fanatismo, della prevaricazione. Le ideologie di superiorità razziale, la religione della morte e della guerra, il nazionalismo predatorio, la supremazia dello Stato, del partito, sul diritto inviolabile di ogni persona, il culto della personalità e del capo sono stati virus micidiali”. Quindi il ricordo per i Giusti che “di fronte alla barbarie, di fronte all’ingiustizia, non hanno volto lo sguardo altrove”. Senza però dimenticare “i tanti, troppi ingiusti. Anche l’Italia adottò durante il fascismo, in un clima di complessiva indifferenza, le ignobili leggi razziste. Gli appartenenti alla Repubblica di Salò collaborarono attivamente alla cattura, alla deportazione e persino alle stragi degli ebrei. E oggi, purtroppo, assistiamo a un ritorno, nel mondo, di pericolose fattispecie di antisemitismo. La Repubblica non tollererà minacce, intimidazioni e prepotenze nei loro confronti”. Inevitabile affrontare il Medio Oriente: “Assistiamo a un ritorno di antisemitismo che ha assunto, recentemente, la forma della indicibile, feroce strage antisemita di innocenti, nell’aggressione terrorista che, in quella pagina di vergogna per l’umanità, avvenuta il 7 ottobre, non ha risparmiato nemmeno ragazzi, bambini, persino neonati. L’Italia guarda a Israele come Paese a noi vicino e pienamente amico”. Prosegue però Mattarella: “L’angoscia sorge anche per le numerose vittime tra la popolazione civile palestinese nella striscia di Gaza. La reazione di Israele rischia di far sorgere nuove leve di risentimenti e di odio. Può accrescere gli ostacoli per il raggiungimento di una soluzione capace di assicurare pace e prosperità in quella regione, così martoriata”. Quindi l’appello: “Coloro che hanno sofferto il turpe tentativo di cancellare il proprio popolo dalla terra sanno che non si può negare a un altro popolo il diritto a uno Stato. I Giusti, con il loro coraggio, con la loro speranza e il loro sacrificio, ci indicano la direzione e ci esortano ad agire, con determinazione e a tutti i livelli, contro i predicatori di odio e contro i portatori di morte”. Romania. Filippo da nove mesi in carcere, la denuncia della madre: “È in condizioni disumane” di Sandra La Fico Corriere del Mezzogiorno, 27 gennaio 2024 Il 29enne di Caltanissetta condannato a 8 anni e 3 mesi per droga. Secondo la donna il figlio sarebbe in cella con altre 24 persone e rischierebbe la vita. Del caso si sta occupando Nessuno tocchi Caino, Giachetti (Iv) ha annunciato un’interrogazione. “Dal 3 maggio 2023 mio figlio, Filippo, che ha compiuto 29 anni il 20 gennaio scorso, è detenuto, in attesa di giudizio, nel carcere di Porta Alba, a Costanza in Romania”. Inizia così il racconto di Ornella Matraxia, madre di Filippo Mosca, il giovane di Caltanissetta rinchiuso in carcere in Romania con l’accusa di traffico internazionale e nazionale di stupefacenti, per cui rischia dai 10 ai 20 anni di carcere. Del caso si stanno occupando il deputato di Italia Viva Roberto Giachetti che ha annunciato un’interrogazione parlamentare sul tema, e Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino che metterà a disposizione un legale per intervenire con la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo. “Mio figlio si era recato in Romania, assieme alla sua ragazza e a numerosi altri amici, per prendere parte al Sunwave Festival. Il giorno prima del suo volo di ritorno da Bucarest a Costanza, mentre era in albergo, con la sua ragazza, un amico e una ragazza che faceva parte di un gruppo diverso da quello di mio figlio, quest’ultima ha detto di dover ricevere un pacchetto da Barcellona. Filippo non aveva idea di cosa contenesse il pacco. E nonostante la ragazza, intestataria del pacchetto, abbia dichiarato di essere l’unica responsabile, la polizia rumena ha portato tutti in caserma”. Il pacchetto con la droga - Il pacchetto conteneva 150 gr, tra marjuana, ketamina e mdma. “In caserma li hanno praticamente sequestrati per 48 ore - racconta -, impedendo loro di chiamare un avvocato o un interprete italiano, e proceduto a intercettazioni ambiental, senza avere le autorizzazioni necessarie. Poi hanno emesso un’ordinanza di custodia cautelare”. Da quel giorno Filippo si trova rinchiuso in una cella di 30 metri quadri, che condivide con altre 24 persone. Ha un buco nel pavimento come wc. Nessuna attività fisica o intellettuale, le giornate trascorrono nella totale disperazione e sconforto. “Da quel giorno è iniziato il nostro inferno. Durante le udienze del processo di primo grado, gli avvocati difensori hanno richiesto al giudice di escludere dalle prove le registrazioni ambientali. Dal controllo informatico del suo telefonino non hanno trovato un solo messaggio o chiamata che possa ricollegarlo all’illecito o a qualsivoglia attività di spaccio. Le traduzioni/trascrizioni delle intercettazioni non sono state accurate, con omissioni di intere pagine della conversazione, sostituzione di termini. Gli avvocati hanno ripetutamente chiesto gli arresti domiciliari per restituirgli almeno condizioni umanamente accettabili, ma il giudice li ha respinti perché potrebbe ricommettere il reato”. La condanna - Il 12 dicembre si è chiuso il processo di primo grado ed il giudice ha condannato Filippo, sebbene coinvolto in forma minore, a 8 anni e 3 mesi di reclusione. L’appello è fissato per l’11 aprile. “Ho il cuore spezzato ed un senso di impotenza che non avevo mai sperimentato prima. Il dolore di mio figlio è il mio, le condizioni disumane di quel posto e la preoccupazione che possa accadergli qualcosa, un rischio tangibile, non mi permettono di dormire. Ma devo provare a mantenere lucidità per cercare di aiutarlo e per dargli forza e coraggio, ma non è semplice”. La Farnesina - Per gli accordi vigenti tra Stati membri, la Farnesina, dove la signora Ornella si è recata nei giorni scorsi, nonostante si renda conto della gravità del caso, non può intervenire sul piano giudiziario. Per questo del caso si sta occupando l’associazione Nessuno tocchi Caino. “Mi è stato consigliato di chiedere l’estradizione in Italia, ma Filippo si è sempre rifiutato di riconoscere un fatto non commesso. Chiediamo solo di avere un giudizio imparziale e condizioni che rispettino la dignità umana”. In carcere sono anche la ragazza che ha confessato e l’amico di Filippo.