Il sistema penitenziario resta l’anello debole di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 gennaio 2024 Il sovraffollamento, il caso dei “liberi sospesi”, le misure alternative negate: il quadro è immobile. Due sono i problemi fondamentali che riguardano la situazione carceraria, evidenziati dalla presidente della Corte di Cassazione Margherita Cassano durante la sua relazione annuale sull’amministrazione della giustizia. Uno è il sovraffollamento carcerario, che continua a rappresentare una grave emergenza. L’altro sono le lunghe pendenze nelle procedure per le misure alternative alla detenzione. Parliamo dei cosiddetti “liberi sospesi”, i quali, come ha evidenziato la presidente della Corte Suprema, al 31 dicembre 2023, sono pendenti presso gli Uffici per l’esecuzione penale esterna (Uepe) ben 90.120. A tale pendenza, già considerevole, si deve aggiungere quella, altrettanto significativa, relativa alle numerose attribuzioni ai funzionari dell’Uepe che però rischiano di non garantire a causa dello scarso numero dell’organico. Le considerazioni della Prima Presidente, Margherita Cassano, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2024, offrono un particolare riferimento alla situazione carceraria. Come detto, uno dei nodi critici che emerge è rappresentato dal persistente sovraffollamento carcerario, con 62.707 detenuti (di cui 2.541 donne) rispetto a soli 51.179 posti disponibili. La presidente della Corte Suprema evidenzia un aumento dei detenuti condannati con sentenza irrevocabile, che raggiungono la cifra di 44.174, mentre diminuisce il numero di persone sottoposte a custodia cautelare, in attesa di primo giudizio, appellanti o ricorrenti a dimostrazione, sottolineando il rispetto del principio di gradualità e proporzionalità nell’applicazione delle misure limitative della libertà personale. Particolarmente preoccupante è la vasta casistica di procedure relative ai “liberi sospesi”, ovvero persone condannate a pene fino a quattro anni di reclusione, nei confronti delle quali il pubblico ministero, contestualmente all’ordine di esecuzione della pena, deve emettere un provvedimento di sospensione della stessa per consentire la presentazione di istanze di misure alternative alla detenzione. Pertanto, in attesa della presentazione delle stesse e della relativa decisione da parte del Tribunale di sorveglianza, l’esecuzione non può avere luogo. In questo contesto, emerge un notevole numero di 90.120 procedure pendenti. L’analisi della presidente Cassano si focalizza sull’ulteriore complicazione dovuta alla pendenza delle pratiche presso gli Uffici per l’esecuzione penale esterna, incaricati dell’istruttoria delle procedure. Gli Uffici per l’esecuzione penale esterna svolgono compiti cruciali in cinque diverse aree, quali l’indagine sulla situazione individuale, l’elaborazione dei programmi di trattamento, l’esecuzione delle misure alternative alla detenzione, l’applicazione delle misure di sicurezza e l’attività di consulenza agli istituti penitenziari per favorire il buon esito del trattamento penitenziario. Le attribuzioni si ampliano ulteriormente con le recenti circolari del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, che delineano le funzioni di probation affidate agli Uepe nel seguire il percorso trattamentale e specifiche funzioni connesse alla legge del 24 novembre 2023, n. 168, volta al contrasto della violenza sulle donne e della violenza domestica. Sulla scorta di questi dati, l’elemento critico evidenziato nelle considerazioni della Prima presidente della Cassazione riguarda le notevoli scoperture di personale presso gli Uffici Uepe. Su un totale di 2716 unità previste in pianta organica, risultano coperti soltanto 1635 con conseguente scopertura di 1070 posti. Le scoperture più significative sono rappresentate da quelle dei funzionari della professionalità di servizio sociale (su un totale di 1603 unità, sono presenti in servizio 1091 persone in servizio con conseguente scopertura di 512 posti) e dei funzionari della professionalità pedagogiche (su un organico di 322 unità si registrano scoperture pari a 309 unità, con un totale di personale presente pari a 13 unità). La presidente Cassano sottolinea il rischio obiettivo che, a causa delle numerose procedure pendenti e delle carenze di personale, l’espiazione della condanna per le persone condannate a pene detentive brevi possa avvenire a distanza di molti anni, vanificando il significato costituzionale della pena e negando il diritto alla speranza per chi ha cambiato vita dopo aver commesso il reato. Sotto un diverso profilo, ritardi e lentezze nella definizione delle procedure potrebbero portare alla prescrizione della pena, vanificando la funzione “specialpreventiva” secondo l’articolo 172 del codice penale. In conclusione, la relazione della presidente della Corte di Cassazione evidenzia criticità e sfide che riguardano la situazione carceraria con il rischio che si vanifichi lo scopo principale dell’esecuzione della pena. E parliamo della pena che può essere espiata anche attraverso le misure alternative. Nel frattempo, nel solo primo mese dell’anno, siamo giunti già a 10 suicidi dietro le sbarre. Un allarme che ha scosso anche i sindacati di polizia penitenziaria. 29 detenuti morti dall’inizio dell’anno, di cui 11 per suicidio. “Serve una scossa umanitaria” redattoresociale.it, 26 gennaio 2024 Patrizio Gonnella, presidente di Antigone: “Una ecatombe drammatica rispetto alla quale deve esservi l’obbligo morale e politico di intervenire”. E aggiunge: “Ogni suicidio è certamente un atto individuale che non va generalizzato. Quando però i numeri sono così impressionanti, allora bisogna andare alla ricerca di cause di sistema. Oggi nelle carceri si respira un’aria di chiusura. Il carcere va riempito di vita”. “Nei primi 25 giorni dell’anno ci sono stati 29 morti nelle carceri italiane di cui ben 11 per suicidio. Le ultime due morti per suicidio risalgono a ieri (Rossano e Teramo, ndr). Ciò significa che se questo ritmo tragico e mortale dovesse mai proseguire, alla fine dell’anno avremmo un numero impressionante di morti e suicidi. Si tratta di numeri che proiettati nella società libera farebbero accapponare la pelle e urlare all’allarme. E come se in una cittadina di 60 mila abitanti si togliessero la vita 11 persone, una dopo l’altra, in sequenza. Probabilmente sarebbe istituita una commissione parlamentare di inchiesta”. Ad affermarlo è l’Associazione Antigone, che ricorda anche gli ultimi avvenimenti che hanno portato due persone a togliersi la vita. “Una ecatombe drammatica rispetto alla quale - afferma Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - deve esservi l’obbligo morale e politico di intervenire, dare una scossa umanitaria al sistema penitenziario italiano. Chiediamo ai giornali, ai media, a tutta la stampa di occuparsi del carcere, dei suoi problemi, della vita dentro. Di favorire una narrazione che metta al centro i diritti umani. Nella solitudine e nel silenzio è più probabile che si consumino tragedie. Ogni suicidio è certamente un atto individuale che non va generalizzato. Quando però i numeri sono così impressionanti allora bisogna andare alla ricerca di cause di sistema”. Continua Gonnella: “Oggi nelle carceri si respira un’aria di chiusura. È capitato, ad esempio nel Lazio, che durante le vacanze di Natale si siano frapposti ostacoli al tradizionale pranzo di Natale per i detenuti più bisognosi. Vanno creati ponti con l’esterno, non eretti altri muri. Il carcere va riempito di vita. Vanno moltiplicate le telefonate, le videochiamate, oggi invece concesse in modo minimo. Una telefonata a una persona cara, in un momento di disperazione, può salvare la vita. Va gratificato lo staff, avamposto democratico e di umanità. Vanno decuplicate le attività culturali, di scuola, sportive, teatrali che invece oggi si stanno ridimensionando. Chiediamo anche al Parlamento - conclude - di dedicare ai morti suicidi in carcere uno spazio pubblico di riflessione pacata e critica, a partire da quanto è accaduto in questi primi tragici 25 giorni del 2024”. È il momento di “arrestare il carcere”, una struttura antiumana e anticristiana di Don Franco Esposito* Il Riformista, 26 gennaio 2024 È inutile, genera il male per chi sta dentro e fuori: i carcerati sono vite di serie B Per il colpevole bisogna prevedere un serio percorso di reinserimento sociale. È proprio lui, lo stesso Gesù, che nel vangelo di Matteo ci chiede - tra le tante miserie umane - di andare a visitarlo in carcere che oggi ci dice, mi avete trovato morto. Proprio lui, nel volto di coloro che vengono arrestati, condannati, inchiodati su una croce fatta di muri, sbarre e cancelli, anche loro uccisi e lasciati morire dalla violenza di una istituzione “di potere”, che troppo spesso pensando alla pena da fare espiare dimentica l’umano da salvare. In realtà il carcere è una struttura antiumana e per questo è anticristiana. Non credo che esistano i problemi del carcere perché il carcere è il problema. Non è solo inutile, vista l’enorme recidiva che produce, ma genera il male per chi sta dentro e ci muore sia fisicamente (suicidi, morti sospette, autolesionismo) sia mentalmente. Il 30 per cento delle persone detenute ha problemi psichici, mentre un altro 32 per cento è tossicodipendente. Genera male anche per chi sta fuori, la società che si vede ingannata dal carcere, risposta fallimentare alla sua giusta domanda di sicurezza. Ogni volta che nelle carceri accadono tragedie come “morti sospette”, omicidi, suicidi si va alla ricerca delle motivazioni e sembra che questi drammi, dopo che hanno fatto notizia per un paio di giorni, svaniscano in attesa del prossimo annuncio di morte per carcere. Ci siamo abituati a fare statistiche delle morti e dei suicidi nelle carceri. Purtroppo i carcerati sono vite di serie B come i migranti, i senza fissa dimora e anche questi fanno notizia quando muoiono in mare, o per il freddo, o come i carcerati per “morti sospette” o per suicidio. Ogni morte che accade in carcere avrebbe bisogno di un processo e di condanne esemplari, bisogna che qualcuno si decida ad “arrestare il carcere” perché è socialmente pericoloso. Non mi va di entrare nei meandri dei problemi del carcere perché ormai sono sempre più convinto che il carcere è il problema. E non sono certo le passerelle dei ministri o le caserme dismesse da usare come carceri la soluzione al problema. La propaganda politica serve solo a perpetuare un sistema che è contro l’uomo unica risposta che sa dare una giustizia malata, farisaica, e vendicativa, che produce recidive spaventose e inganna la giusta domanda di sicurezza della società. Subito dopo i morti di carcere vengono deposti dalle loro croci e posti sul freddo marmo di un obitorio in attesa dell’autopsia. Non ci saranno donne che andranno “al sepolcro” per ungere il loro corpo, come ultimo atto di compassione e di dignità umana, ma qualcuno sicuramente piangerà, qualcuno che li ha conosciuti e voluti bene, per loro erano uomini, fratelli, figli, amici. Per gli altri notizie da dare, per la giustizia umana prima reati da espiare, poi casi da chiarire. Ma per me e per te che ti dici cristiano non possono che essere quel Gesù che ci dice ancora, io ero lì e tu dove eri? A questa domanda non si può rispondere solo con un servizio da svolgere all’interno della struttura carcere. Io amo dire ai volontari che si recano nel carcere che noi non andiamo lì per i detenuti ma con i detenuti, è questo quello che ci qualifica nel nostro compito, è questo essere “con” che ci fa guardare con occhio critico questa istituzione, e con occhi di misericordia coloro che vivono il tempo del carcere subendo una pena che non è solo la mancanza della libertà ma diventa mancanza di dignità, dove i diritti fondamentali vengono quotidianamente calpestati. Rispondere alla richiesta di Gesù “ero in carcere e sei venuto a visitarmi” significa quindi lottare affinché il carcere diventi l’extrema ratio. Cioè serva a fermare un atto di violenza, a rendere innocuo per un breve tempo colui che commette un reato, ma poi subito dopo inserire il colpevole in un percorso serio di rieducazione e reinserimento sociale, come richiede la costituzione, e come il carcere non fa e non può fare. *Direttore Ufficio diocesano della pastorale carceraria di Napoli “Calcio libero” negli Ipm: protocollo Nordio-Abodi-Calcagno gnewsonline.it, 26 gennaio 2024 Un percorso formativo-sportivo con il coinvolgimento di calciatori, ex calciatori e staff tecnici messi a disposizione dall’Associazione italiana calciatori per favorire la socializzazione dei giovani detenuti negli Istituti penali per minorenni. È quanto prevede il protocollo d’intesa sottoscritto oggi in via Arenula dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio, da quello per lo Sport e i giovani, Andrea Abodi, e dal presidente dell’Aic, Umberto Calcagno. L’intesa si inserisce nell’ambito del progetto “Sport per tutti - carceri”, avviato nel maggio 2023 dagli stessi Ministeri in collaborazione con Sport e Salute Spa con l’intento di potenziare lo svolgimento di attività fisico/sportive e di formazione destinate ai detenuti adulti e minori e agli operatori dell’amministrazione Penitenziaria e di quella Minorile e di comunità. L’accordo, che avrà efficacia fino alla fine del 2024 e sarà rinnovabile, prevede che nelle strutture individuate dal ministero della Giustizia si svolgano preliminarmente incontri con ex calciatori che racconteranno la loro esperienza professionale; questi incontri saranno seguiti da una preparazione di sei settimane di allenamenti, tenuti da staff tecnici selezionati dall’AIC per due ore settimanali, e da una partita di calcio conclusiva. Il protocollo d’intesa prevede un programma di azioni sportivo-educative che pone il calcio come opportunità di confronto per la socializzazione e il reinserimento. L’attività sportiva può rivelarsi un efficace strumento per favorire una cultura del rispetto di sé, degli altri e delle regole. E lo svolgimento della sua pratica all’interno degli Istituti minorili può efficacemente contribuire al recupero psicologico e sociale dei giovani detenuti, nonché alla prevenzione della recidiva. Percorsi formativo-sportivi da realizzare attraverso il coinvolgimento di calciatori, calciatrici ed ex-calciatori. Un programma in grado di lasciare un’eredità positiva ai partecipanti e di incidere sulla socializzazione interna. Le attività sportive coinvolgeranno infatti sia i ragazzi che il personale di sorveglianza. Tre gli Istituti penali per minori individuati per questa prima fase, prima di uno sviluppo nazionale del progetto: Casal del Marmo (Roma), Beccaria (Milano) e Fornelli (Bari). Il programma prevede in ciascuna struttura incontri con un ex-calciatore professionista; allenamenti settimanali tenuti da uno staff di ex-calciatori professionisti coinvolti dal Dipartimento Junior AIC; partita finale, tra i minori partecipanti al progetto, agenti penitenziari, ex-calciatori e autorità locali. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio: “Lo sport, come il lavoro, soprattutto per i più giovani, è una straordinaria occasione per trasformare il tempo della pena in autentico percorso di recupero, secondo i dettami della Costituzione. Grazie a questo protocollo, i nostri ragazzi saranno accompagnati da campioni del calcio, disposti a fare la loro parte nel fondamentale compito di restituire alla società dei liberi persone più consapevoli, che non torneranno più a delinquere”. “Calcio libero è un titolo emblematico di questo protocollo - dichiara il Ministro per lo Sport e i Giovani Andrea Abodi -. Si tratta di un progetto che ha inequivocabili caratteristiche costituzionali. Mi auguro siano storici gli effetti di questa giornata cioè l’Ingresso più organizzato e sistematico del calcio nelle sue componenti perché esprima la sua funzione non solo nella sua forma educativa, ma rieducativa dello sport in tutte le sue forme. Il concetto di riportare la normalità in una condizione nella quale si deve recuperare il diritto alla normalità, perché evidentemente non soltanto si è mancato a una norma, ma spesso si è offesa una persona nel senso più ampio del termine”. Il Presidente Aic Umberto Calcagno: “Per l’Associazione Calciatori è un onore far parte di questo progetto ed esserne il braccio operativo. Un’iniziativa importante che valorizza il percorso che abbiamo intrapreso da più di dieci anni, da quando abbiamo incluso gli ex calciatori coinvolgendoli in iniziative sociali per avvicinare i giovani allo sport. Questo progetto ci permetterà di entrare in contatto con ragazzi che hanno commesso qualche sbaglio e ci auguriamo di riuscire a trasferire loro il nostro ‘saper fare squadra’ attraverso l’aspetto rieducativo proprio del calcio”. Nordio e la lectio che prepara la conciliazione di Errico Novi Il Dubbio, 26 gennaio 2024 Inaugurazione dell’anno giudiziario, dal ministro un raffinato intervento che affronta con diplomazia i nodi della presunzione d’innocenza e del fine rieducativo della pena. Carlo Nordio ha un tono che sarebbe difficile descrivere in modo più sincero di quanto faccia lui stesso con l’espressione-chiave del suo intervento: “Cultura della conciliazione”. Ne parla a proposito della mediazione, e delle altre soluzioni alternative in ambito civile, e della “giustizia riparativa” nel penale. Il ministro indica una strada che finalmente è tracciata, un percorso dal quale non si può più deragliare: quello che porta alla riduzione dell’arretrato e dei tempi di definizione dei processi. Definisce le vecchie pendenze una “veste di Nesso”, che nella mitologia classica è la tunica malefica fatale ad Ercole. Ma nel volersela scrollare di dosso, Nordio guarda ai “cittadini disorientati” e allo scoramento che allontana gli investitori. Ed è con loro, che in realtà va compiuta la più impegnativa delle “conciliazioni”. È a loro, che si deve “l’impegno per consolidare un’inversione di tendenza, grazie anzitutto alla puntuale attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza: un’opportunità unica, che il nostro Paese ha finora colto puntualmente, non solo per onorare gli accordi con l’Europa, ma ancor di più per assolvere”, appunto, “alle nostre responsabilità verso i cittadini”. Il tono è aperto, l’ottimismo dichiarato ma con misura: “Quello che si apre può essere considerato l’anno giudiziario delle conferme: dei buoni risultati che cominciamo a registrare, degli sforzi che non smettiamo di assicurare, soprattutto delle opportunità che abbiamo di entrare in una nuova fase in cui la giustizia è forza motrice di una rinnovata crescita del Paese”. Sforzi necessari, perché “in tutti deve essere la consapevolezza della responsabilità che abbiamo verso le future generazioni: un obiettivo superiore, che muove ciascuno di noi, per i diritti dei singoli e nell’interesse dell’intero Paese”. Nell’idea pacificatoria di Nordio c’è innanzitutto il riconoscimento di un’indispensabile cooperazione. Che si traduce anche nel riscontro assicurato dal ministro al contributo di “ciascun operatore della giustizia”: dei “risultati positivi”, Nordio vuole ringraziare “magistrati, cancellieri, personale amministrativo tutto: conosco i vostri sforzi, conosco le vostre condizioni di lavoro e per questo vi sono ancor di più grato”. E poi forse il passaggio più significativo, nell’ottica di una “coesione di sistema”: il “ringraziamento sincero all’avvocatura, consustanziale al concetto di giurisdizione”. E ci sono i numeri, relativi innanzitutto alla statistica più delicata, cioè all’organico di magistrati e personale amministrativo: “L’elemento che più ci induce ad essere fiduciosi è l’immissione di nuove risorse, massiccia e da tempo in corso: nel 2023 sono entrati in servizio, a vario titolo, oltre 4.000 unità di personale amministrativo, pari a circa il 10% della intera dotazione organica. Si tratta di preziosa energia vitale che stiamo cercando di valorizzare, con strategie delineate anche sulle specificità territoriali”. E qui pare chiara l’allusione al piano del Gabinetto di via Arenula, che confida in intese con le Regioni per iniettare risorse nella macchina giudiziaria. Il guardasigilli ricorda che “sono in definizione tre concorsi per 1300 posti di magistrato ordinario, nuove leve che, a fronte di croniche scoperture di organico, rappresenteranno un concreto sostegno allo sforzo degli uffici giudiziari per il raggiungimento degli obiettivi attesi. Ricordo anche, con particolare gratitudine, l’essenziale apporto della magistratura onoraria che a breve sarà oggetto di una doverosa riforma. E poi c’è tutta una seconda parte del discorso pronunciato ieri da Nordio alla cerimonia inaugurale che è nello stesso tempo di grande profondità, forte nei richiami culturali e un po’ sibillino nelle allusioni: si tratta di “presunzione d’innocenza” e “funzione rieducativa della pena”. Nodi attorno ai quali a volte la maggioranza di centrodestra della quale Nordio è espressione si tormenta, fino all’inerzia, in particolare sulla indecente condizione dei cittadini detenuti. Qui, in termini concreti, il ministro non ha un mandato politico che autorizzi soluzioni diverse dal “lavoro per le persone private della libertà”. Nessun accenno a misure deflattive, a un recupero, che pure sarebbe doveroso, della riforma penitenziaria del predecessore Andrea Orlando, prima scritta con impeccabile calligrafia e poi lasciata sulla carta. Niente di tutto questo. Però c’è la non insignificante citazione di “Giuliano Vassalli”, del quale, ricorda il guardasigilli, “proprio ieri ho avuto l’onore di celebrare la straordinaria impresa di pianificare e realizzare la fuga dal carcere di Regina Coeli di Giuseppe Saragat e Sandro Pertini, futuri presidenti della Repubblica”. In generale, tutti i padri costituenti “conoscevano molto bene il dolore del carcere: anche per questo hanno sancito, nell’atto fondativo della Repubblica, la funzione rieducativa della pena, principio che intendiamo attuare”. E qui arriva una “declinazione” un po’ incompiuta. Perché l’articolo 27, per ora, potrà essere attuato “favorendo anzitutto il lavoro” di chi appunto è dietro le sbarre. Nordio sa di non potersi spingere oltre, con le “intenzioni programmatiche”. Ma sfoggia però un “assolo” di impareggiabile ricchezza filosofica, intonato sul “paradosso singolare” per cui “la nostra religione, la nostra filosofia e la nostra scienza si fondano su tre processi sostanzialmente iniqui: la crocifissione di Gesù, le condanne di Galileo e di Socrate suscitano in noi un sentimento di ripudio, malgrado siano state irrogate ed eseguite secondo procedure legali”. Ma se vogliamo trovare un senso alla giustizia, dobbiamo guardare a quella sintesi straordinaria, che, col sostegno del “razionalismo illuminista”, dalla classicità greca e latina, ritroviamo nella “nostra Costituzione, dove la presunzione di innocenza si affianca alla funzione rieducativa della pena e l’etica si coniuga con l’utilità del recupero sociale del reo”. Ecco: Nordio è conciliativo anche nel proprio sottinteso auspicio di un migliore equilibrio, in campo penale e penitenziario, fra le visioni securitarie di FdI e Lega e la cultura liberale con la quale è certamente più in sintonia. Nel suo discorso tanto ipnotico per la bellezza quanto in apparenza elusivo, il ministro della Giustizia nasconde in realtà un impegno a sforzarsi di smorzare le resistenze dello stesso partito che lo ha voluto in Parlamento e poi a via Arenula, Fratelli d’Italia appunto. Si potrebbe insinuare che è un’elegantissima melina dietro cui non si nasconde alcuna voglia di risolvere la partita. Ma si può rispondere pure che la stessa apparente inerzia è stata rimproverata a Nordio per mesi rispetto alle riforme penali. Che poi, nonostante alla cerimonia di ieri lo stesso guardasigilli non abbia ritenuto di vantarsene, sono arrivate a dama, col voto di tre giorni fa in Senato, quasi tutte contemporaneamente. Pace temporanea con le toghe, ma intorno a Nordio è guerra di Giulia Merlo Il Domani, 26 gennaio 2024 Nel dicastero di via Arenula si moltiplicano le voci sull’addio del capo di gabinetto Rizzo. Sarebbe entrato in rotta di collisione con l’eminenza grigia del ministero, Giusi Bartolozzi. Dopo le scintille della settimana scorsa, con il quasi incidente diplomatico con il Quirinale del vicepresidente del Csm Fabio Pinelli e la relazione sullo stato della giustizia del ministro Carlo Nordio, l’inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione si è svolto secondo formalità. Il momento più solenne, che vede riunite alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella le più alte cariche politiche e istituzionali nel settore giustizia, è stato all’insegna del cauto ottimismo. Sarà un “2024 decisivo”, ha detto Nordio, che per l’occasione si è limitato a sottolineare i buoni risultati dei dati sullo smaltimento dell’arretrato e dei tempi delle decisioni senza accennare alle riforme in cantiere, quantomeno divisive dentro la magistratura. Di questo si è incaricato il presidente del Cnf, Francesco Greco, che ha definito “non più differibile” la separazione delle carriere delle toghe. È stata anche la prima inaugurazione della Corte sotto la guida della sua prima presidente donna, Margherita Cassano, che nella sua relazione ha espresso ottimismo sui risultati di efficienza, ma ha anche fatto presente che le riforme in rapida successione rischiano di produrre “pesanti ricadute sul funzionamento della giustizia, attesa la stretta interdipendenza esistente tra regole sostanziali e processuali e modelli organizzativi” e “incertezze interpretative”. Un riferimento - ritornato in modo simile anche nella relazione del procuratore generale di Cassazione, Luigi Salvato - tagliato sulla riforma della prescrizione, quinta in sette anni e approvata al Senato senza norme transitorie, con il rischio di mandare nel caos il lavoro delle corti d’appello. Cassano ha concluso il suo applauditissimo intervento con un passaggio sul sovraffollamento carcerario, gli ancora troppi infortuni sul lavoro e i femminicidi: “Bisogna promuovere l’indipendenza economica delle donne, per favorire la libertà di denuncia”. Pinelli, atteso nel suo primo intervento pubblico post conferenza stampa, si è limitato a delineare il nuovo “modello” di magistrato, “i cui comportamenti sono decisivi, dentro e fuori l’esercizio della funzione”. Spenti i grandi lampadari dell’aula magna e riposte le toghe bordate d’ermellino, però, la giustizia continua a ribollire. Il clima, secondo fonti ministeriali, è teso soprattutto a via Arenula. A capo del suo Gabinetto, il ministro veneto aveva voluto il presidente del tribunale di Vicenza Alberto Rizzo, stimato tra i colleghi e ben conosciuto dal guardasigilli, ma il suo nome è dato da mesi in uscita. La causa: dissapori al limite dello scontro non con Nordio ma con la sua vice capo di Gabinetto vicario, l’ex deputata di Forza Italia ed ex magistrata Giusi Bartolozzi, che nei mesi si è ritagliata il ruolo di eminenza grigia, ascoltatissima dal ministro. Rizzo, esasperato, vorrebbe rientrare al più presto in magistratura e lasciarsi alle spalle gli intrighi politici. Se decidesse per lo strappo, potrà sfruttare un emendamento al decreto Asset approvato in ottobre, che ha modificato la riforma Cartabia. La riforma, infatti, ha previsto che i magistrati fuori ruolo, una volta terminato il servizio, non possano assumere funzioni direttive e semidirettive per i successivi quattro anni, a meno che l’incarico non sia durato meno di un anno. L’emendamento ha allungato la finestra a due anni, col risultato che Rizzo - entrato in servizio il 27 ottobre 2022 - potrà scampare il periodo di cooling off se lascerà a breve l’incarico. Cosa probabile, vista la sua candidatura per la presidenza del tribunale di Firenze, per quello di Modena e la Corte d’appello di Brescia, i cui vertici sono scaduti rispettivamente lo scorso dicembre, ottobre e novembre. Non è raro che i magistrati nei ministeri presentino domande, peculiare è che non le ritirino: secondo fonti del Csm, Rizzo è stato chiamato direttamente dai vertici del Consiglio per capire cosa avrebbe fatto e lui ha confermato che non intende ritirare nessuna candidatura. Secondo le toghe locali, starebbe puntando soprattutto sull’incarico a Brescia. Il suo addio aprirebbe un vuoto importante al ministero, ma su quello spazio si stanno già allungando le mire di Bartolozzi, che già nei mesi scorsi aveva tentato di cancellare quel “vice” dal suo titolo. Contro di lei e le sue intemperanze - dentro al governo c’è chi è convinto che sia stata lei a far inciampare Nordio sia sul caso della fuga di Artem Uss che sul caso Cospito - sarebbe arrivato il veto del potente sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, deciso a suggerire al ministro un profilo più affidabile per stabilizzare l’ufficio. Nella rosa anche il nome di Claudio Galoppi, fresco di nomina a segretario di Magistratura indipendente (lo stesso gruppo di cui faceva parte Mantovano) e consigliere giuridico dell’ex presidente del Senato, Elisabetta Casellati. Bartolozzi, però, prepara contromosse. Il ministero, infatti, sta lavorando alla riorganizzazione degli uffici e dei cinque dipartimenti che ad oggi hanno una struttura orizzontale. Il nuovo regolamento punta ad accentrare guarda caso nel Gabinetto ministeriale le funzioni di controllo dei dipartimenti - mentre ora ha solo quelle di coordinamento - e di prevedere che il vice capo di gabinetto vicario abbia una attribuzione diretta delle deleghe da parte del ministro, in modo da blindarsi anche rispetto ad influenze esterne. La guerra è aperta e si inasprirà appena Rizzo lascerà l’ufficio. Altro posto che rischia di aprirsi e per ragioni simili a quelle di Rizzo è quello del capo del Dipartimento per gli affari di giustizia: Luigi Birritteri, nominato lo scorso febbraio, si è candidato all’incarico di segretario generale del Csm oltre un mese fa, ma la nomina è ancora in discussione. Se a via Arenula non si sorride, anche a palazzo Chigi il lavoro procede con fatica. Giovedì, in un cdm fiume di due ore e mezza, sono stati approvati il decreto legge che fissa le elezioni europee all’8 e 9 giugno con possibilità di accorpare amministrative e regionali, il provvedimento voluto dalla Lega che permette il terzo mandato ai sindaci di comuni tra i 5 e i 15mila abitanti (sotto i 5mila viene eliminato il limite); il ddl sugli influencer, con pene fino a 50mila euro per violazione delle regole sulla trasparenza nella beneficienza e il ddl sulla cybersicurezza. Infine, arriva in via sperimentale dal 1 gennaio 2025 e per un anno la prestazione universale per gli ultraottantenni non autosufficienti, con un Isee sotto i 6mila euro. Lezioni di democrazia e assenze ingiustificate di Donatella Stasio La Stampa, 26 gennaio 2024 Neanche quest’anno Giorgia Meloni ha preso parte alla cerimonia della Cassazione evitando di ascoltare parole che smontano la narrazione del centrodestra. È un vero peccato che Giorgia Meloni non fosse presente neanche quest’anno all’apertura del nuovo anno giudiziario in Cassazione. Per la prima volta nella storia italiana, infatti, ieri questa tradizionale cerimonia ha avuto il volto e la voce di una donna, Margherita Cassano, prima presidente della suprema Corte da marzo 2023. Ma non è (solo) questo il punto. Al di là dell’inedita e storica conduzione femminile, essere seduta sulla poltrona in prima fila riservata alla Presidente del Consiglio sarebbe stato doveroso per chi si accinge, lancia in resta, a cambiare connotati ai magistrati e alla giustizia. Ma chissà, forse l’assenza - motivata con una convocazione del Consiglio dei ministri - è stata strategica perché Cassano, con parole e toni pacati, né trionfalistici né rancorosi, piuttosto empatici seppure istituzionali, ha fatto cadere tutti i luoghi comuni della narrazione del centrodestra sulla giustizia, lanciando un “messaggio di speranza” che non si sentiva da decenni. Ha dimostrato, dati alla mano, che grazie, non a riforme di questo governo, ma “all’organico intervento riformatore del 2022” e agli sforzi dei magistrati, la giustizia ha nettamente migliorato le sue performance e quasi raggiunto gli obiettivi del PNRR: processi civili e penali più veloci, riduzione dell’arretrato, aumento delle garanzie, superamento dell’ottica carcerocentrica con le pene sostitutive del carcere e con la giustizia riparativa, riduzione del ricorso alla custodia cautelare con relativa diminuzione dei detenuti in attesa di giudizio… Insomma, per la prima volta, un anno giudiziario viene aperto con parole di “speranza” per una giustizia che sia non solo efficiente ma soprattutto effettiva. Cassano è una magistrata di notevole esperienza e una donna di grande valore. Fiorentina, 69 anni a settembre, figlia d’arte, minuta, volto gentile e sorridente, amante della musica classica, si è impegnata a lungo, in passato, nell’associazionismo giudiziario nella stessa corrente, Magistratura indipendente, di Alfredo Mantovano, ora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio (anche lui assente alla cerimonia di ieri). Uno stile, un’apertura culturale, un respiro giuridico e un linguaggio molto diversi da quelli degli inquilini di palazzo Chigi. Se ieri Meloni si fosse seduta sulla poltrona a lei riservata nell’Aula magna del Palazzaccio, avrebbe ascoltato parole non usuali nella sua narrazione: dialogo, confronto, leale collaborazione, fiducia, cultura condivisa, empatia, ascolto, parità di genere. Sono le parole con cui Cassano ha descritto il riscatto della giustizia, suffragate dai numeri arrivati dagli uffici giudiziari d’Italia, che testimoniano un oggettivo salto di qualità, persino in Cassazione, dove la durata dei processi civili (1003 giorni) è a un passo dal disposition time del 30 giugno 2026 (977) mentre nel penale ha già raggiunto e superato l’obiettivo dei 166 giorni (la durata è oggi di 110). E ciò sebbene la nostra Cassazione sia, in Europa, la più oberata di lavoro fra tutte le Corti supreme. Se Meloni fosse stata presente al Palazzaccio avrebbero forse maldigerito quelle parole, poco funzionali alle politiche del governo ma non aggirabili da chi ha la responsabilità di organizzare un servizio, la giustizia, essenziale per tutelare i diritti dei cittadini. Tanto più se il guardasigilli Carlo Nordio (presente alla cerimonia) non ha piena autonomia nelle scelte di politica giudiziaria, come ha dimostrato il primo anno di vita del governo. Avrebbe capito, Meloni, che, per consolidare il trend positivo in atto, bisogna evitare il sovrapporsi di leggi e leggine, spesso dettate da logiche settoriali, destinate a creare incoerenze di sistema e a produrre pesanti ricadute sul funzionamento della giustizia. Cassano non fa alcun riferimento esplicito alle “riforme” in cantiere su prescrizione, intercettazioni, abuso d’ufficio, processo penale e altro ancora, ma il riferimento ad esse è evidente, così come è evidente che, se approvate, potrebbero cancellare ogni “speranza”. Semmai, il governo dovrebbe impegnarsi di più sul fronte strettamente amministrativo, con risorse umane e finanziarie. Oppure con politiche sociali ed economiche, diverse da quelle penali. Sono tre i focus che, anche a questo proposito, Margherita Cassano decide di accendere: carcere, infortuni sul lavoro, femminicidi. Il carcere è in debito di ossigeno sul personale, anche per l’esecuzione delle misure alternative, e il sovraffollamento (62.707 le presenze, su una capienza ufficiale, ma non effettiva, di 51.179 posti) resta un problema gravissimo nonostante i primi effetti deflattivi delle riforme, sempre quelle del 2022 (è bene precisarlo onde evitare che, come in altri settori, il governo ascriva a se stesso i piccoli progressi che si registrano). La sicurezza sul lavoro rappresenta un’emergenza reale perché, anche se si registra una lieve flessione delle denunce di infortuni con esito mortale (968 nel 2023), i dati ci parlano di una patologia sociale gravissima che impone “una forte azione preventiva incentrata sul recupero di effettività di controlli seri, efficaci, moderni, capillari”. In uno stato di diritto non è tollerabile che si continui a morire di lavoro, dice Cassano rivolta anche a quella sedia vuota. E non è tollerabile neppure morire a causa di una “plurisecolare cultura maschilista e patriarcale”. Parole impronunciabili dalle parti di palazzo Chigi, eppure proprio questo si legge nel vocabolario Treccani alla voce “femminicidio”, citata da Cassano, sempre senza alcuna punta polemica e sciorinando la contabilità macabra delle donne uccise da mariti, amanti, padri padroni, fidanzati o partner: 97 nel 2023 e già 3 in questo inizio di 2024. Certo, polizia e magistratura possono e devono fare di più e meglio, ma è sulla sensibilizzazione e sulla prevenzione che bisogna investire, e non solo nelle scuole e in famiglia. È l’intera collettività che deve cambiare mentalità, frenando questa micidiale involuzione delle relazioni interpersonali in cui, ricorda Cassano, sulla dimensione affettiva prevalgono l’idea del possesso e del predominio sulla donna nonché il disconoscimento dell’uguaglianza di genere. È questione di “mentalità costituzionale”, direbbe un altro splendido fiorentino, purtroppo scomparso, Paolo Grossi, presidente emerito della Corte costituzionale. Qualcosa di più della cultura, del sentimento, dell’educazione: una forma mentis, un modo di vivere. “Non può esserci libertà di denuncia senza libertà dai bisogni primari” chiosa la prima presidente, riportando di nuovo l’attenzione su politiche sociali, culturali ed economiche più che su quelle repressive. Ancora una volta, le sue sono parole lievi, come quelle di Simone De Beauvoir citata in conclusione (“La vita di ogni donna sia pura e trasparente libertà”) ma sono parole pesanti come pietre per chi, forse proprio culturalmente, non riesce a trasformarle in azioni concrete perché non capisce che “la parità di genere è strategica per la realizzazione dello stato di diritto - per dirla con il Procuratore generale Luigi Salvato - e la sua lesione, anche se non di rilievo penale, lo indebolisce e mette a rischio la democrazia”. Ecco, quella di ieri è stata proprio una lezione di democrazia. Di quelle che non ammettono assenze. Anno giudiziario, Cassano: “Efficienza giustizia obiettivo comune” di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 26 gennaio 2024 “La Cassazione è impegnata in un fecondo confronto con uno dei protagonisti ineliminabili della giurisdizione, l’Avvocatura cui spetta promuovere l’equilibrio tecnico dell’esercizio del potere giudiziario”. “Nel 2023, su 330 omicidi, le donne risultano vittime in 120 casi, 97 dei quali sono maturati in ambito familiare o nel contesto di relazioni affettive. Il femminicidio è un crimine odioso sovente anticipato da “reati spia” (violenza, maltrattamenti, stalking) che richiedono particolare attenzione e tempestività d’intervento. Ma il forte impegno della Polizia e della Magistratura non è sufficiente se manca una forte azione di sensibilizzazione in grado di incidere sulla drammatica involuzione delle relazioni interpersonali, in cui sulla dimensione affettiva prevalgono tragicamente l’idea del possesso e del predominio sulla donna”. Lo ha detto la Presidente della Corte di cassazione Margherita Cassano leggendo la prima Relazione sull’amministrazione della giustizia tenuta da un magistrato donna, nel corso dell’Inaugurazione dell’anno giudiziario alla presenza del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e delle più alte cariche dello Stato. “Occorre - ha aggiunto Cassano - promuovere l’indipendenza economica delle donne, in quanto non può esservi libertà di denuncia senza la libertà dai bisogni primari”. “Rendere la giustizia efficace attraverso un reale recupero di efficienza dei suoi apparati deve costituire un obiettivo di lunga durata per le Istituzioni di uno Stato moderno, anche in funzione della programmata politica di crescita e di sviluppo”. Ha detto la Presidente Cassano che ha poi ricordato lo “sforzo corale” della magistratura per l’attuazione delle riforme del processo civile e penale varate nel 2022. Incoraggianti i dati: “Nel settore civile le pendenze sono diminuite dell’8,2% nei Tribunali e del 9,8% nelle Corti d’appello. La durata media dei procedimenti si è ridotta in primo grado del 6,6% e in appello del 7%. Il disposition time è sceso del 6,4% nei Tribunali e del 6,4% nelle Corti d’appello. In Cassazione, su un totale di 94.759 procedimenti civili (il 54,6% è in carico alle Quattro Sezioni civili e il 44,2% alla Sezione Tributaria) le definizioni ammontano a 34.793. L’indice di ricambio è salito al 141% rispetto al 121,3% del 2022. Il disposition time è pari a 1.003 giorni e registra una diminuzione di 60 giorni rispetto al 2022 e di 299 giorni se raffrontato con i dati di partenza del 2019, assunti come parametro di comparazione ai fini del PNRR”. Dunque “per conseguire l’obiettivo di 977 giorni fissato al 30 giugno 2026 è necessaria la diminuzione di ulteriori 26 giorni”. Anche nel penale, ha proseguito Cassano, gli obbiettivi del Pnrr sono a portata di mano. “Nonostante l’aumento del 4% delle iscrizioni (passate da 45.363 a 47.157), i procedimenti definiti sono stati pari a 50.350 con un indice di ricambio pari al 106,8%. Le pendenze sono diminuite del 17,4% (15.125 rispetto alle 18.318 dell’anno precedente). La durata media è scesa dai 184 giorni del 2022 agli attuali 134 giorni. Il disposition time è pari a 110 giorni rispetto ai 132 dell’anno precedente e, quindi, è già inferiore all’obiettivo dei 166 giorni il cui conseguimento è fissato al 30 giugno 2026. I risultati raggiunti in entrambi gli ambiti sono tanto più significativi, ove si considerino la percentuale delle vacanze dell’organico dei magistrati pari al 23% (destinata a crescere per effetto dei pensionamenti) e la scarsità delle risorse del personale amministrativo (oscillanti tra il 32% e il 34%)”. Cassano ha poi ricordato che questi “risultati confortanti” nel civile sono dovuti anche al successo della “mediazione”. Mentre nel penale la regolamentazione compiuto della “giustizia riparativa” ha permessi di superare la cultura “carcero centrica”. Allarme invece sul sovfraffollamento delle carceri: 62.7070 detenuti a fronte di una capienza di 51.179. “Preoccupa” anche il numero delle procedure (90.120) relative ai c.d. “liberi sospesi”, ossia a persone condannate in via definitiva a pene fino a quattro anni di reclusione nei cui confronti il pubblico ministero contestualmente all’ordine di esecuzione della pena, deve emettere un provvedimento di sospensione della stessa per consentire la presentazione di istanze di misure alternative alla detenzione. Preoccupazione anche per gli Uffici per l’esecuzione penale. “L’elevato numero delle procedure pendenti e le vacanze dell’organico degli Uffici UEPE - ha detto Cassano - inducono, quindi, a ritenere che sussista il rischio obiettivo che, per una larga parte delle persone condannate a pene detentive brevi, l’espiazione della condanna, sia pure in forme alternative a quelle tradizionali, possa intervenire a distanza di molti anni dal fatto così vanificando il significato costituzionale della pena e negando il diritto alla speranza nei confronti di persone che, dopo la commissione del reato, hanno cambiato vita. Sotto diverso profilo, arretrato e lentezze nella definizione di tali tipologie di procedure dovuti alla scarsità delle risorse umane possono comportare la prescrizione della pena che, ai sensi dell’art. 172 cod. pen., ha inizio il giorno in cui la condanna è divenuta irrevocabile con conseguente vanificazione della funzione specialpreventiva della pena”. “La Cassazione - ha aggiunto - è impegnata in un fecondo confronto con uno dei protagonisti ineliminabili della giurisdizione, l’Avvocatura cui spetta promuovere l’equilibrio tecnico dell’esercizio del potere giudiziario, l’osservanza delle garanzie del processo, il rispetto della regola del ragionevole dubbio nella ricerca della verità”. A tale attestato è poi seguito un richiamo ai rapporti con la stampa. “L’avvocato - ha detto -, al pari del giudice, è, inoltre, il garante dell’attuazione dei valori fondamentali enunciati dalla Costituzione, a partire dalla promozione e dalla tutela effettiva della dignità e della libertà della persona che debbono essere assicurate anche da rapporti con i mezzi di informazione e i media improntati a rigorosa deontologia professionale”. Nordio, riforma permetterà di recuperare 2% di Pil - “Quest’anno siamo chiamati a consolidare un’inversione di tendenza grazie alla puntuale attuazione del piano nazionale di ripresa resilienza, un’opportunità unica”. Lo ha detto il Ministro della Giustizia Carlo Nordio intervenendo all’Inaugurazione dell’Anno giudiziario in corso in Cassazione. “L’arretrato - ha proseguito - rallenta le procedure, disorienta i cittadini e allontana gli investimenti. La riforma che contiamo di attuare ci consentirà di recuperare buona parte di quell’ 2% del Pil la cui perdita è intollerabilmente gravosa per la nostra economia”. “L’elemento più significativo di questa fase di rinnovamento è la nuova cultura che chiamerei della conciliazione, per questo puntiamo sulle varie forme di mediazione in ambito civile e sulla giustizia riparativa in ambito penale. In questo settore daremo piena attuazione allo spirito del codice di procedura penale formato del mio illustre predecessore giuliano Vassalli”. Salvato (Pg Cassazione) con “Ai” rischio lesione diritti fondamentali - “Pressante è una nuova questione posta dalla tecnologia. Il processo telematico, nella sua versione basica, ha solo sostituito il supporto cartaceo con quello digitale, eppure sta riconfigurando i ruoli di magistrati e avvocati. In nome della prevedibilità e della velocità si invocano ulteriori sviluppi, la giustizia predittiva, affidata all’intelligenza artificiale. Questa non va aprioristicamente rifiutata, occorre sfruttarne le potenzialità, ma dobbiamo essere consapevoli che è qualcosa di radicalmente diverso da ogni precedente scoperta dell’uomo”. Lo ha detto Luigi Salvato, Procuratore generale della Corte di cassazione leggendo l’intervento sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2023 in corso in Cassazione. “È una tecnologia - ha aggiunto - che plasma e diffonde forme non umane di logica; gli algoritmi di machine learning non sempre sono trasparenti, spiegabili o interpretabili, soprattutto se utilizzano tecniche di deep learning. Alto è il rischio della lesione dei diritti fondamentali e dell’alterazione dell’essenza del processo; alta deve essere attenzione e prudenza nell’applicarla”. “Cercate la verità nel processo, non sui social”. Il monito di Salvato di Valentina Stella Il Dubbio, 26 gennaio 2024 Inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione, la lezione del Pg. Che si è soffermato anche sull’intelligenza artificiale, criptofonini, misure di prevenzione e ruolo del pm. In un momento storico in cui i pm vengono attaccati pubblicamente se chiedono pene più basse rispetto alle aspettative delle vittime di reato, in cui i giudici sono vilipesi se derubricano un reato o assolvono gli imputati, a fare un richiamo importante ci ha pensato ieri il Procuratore Generale di Cassazione, Luigi Salvato, che nel suo intervento durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario ha specificato: “La valutazione dell’attività del pubblico ministero, ma anche della magistratura giudicante, non deve tuttavia essere alterata dal mediatico addebito di responsabilità che non li riguardano. Nell’ambito del diritto punitivo compito della magistratura è applicare la legge, accertare e giudicare i fatti-reato e gli illeciti disciplinari configurati come tali dal legislatore. La torsione verso un diritto punitivo etico ed un’ingenua concezione della sufficienza pedagogica della legge alimentano invece insoddisfazione per un’azione ritenuta talora blanda talora rigorosa sulla base di convincimenti personali, sganciati dal diritto positivo, che spesso sfociano in verdetti resi dalla “smisurata giuria pubblica” dei social media, che giudica in tempo reale, attraverso grotteschi simulacri di processi e plebisciti governati dalla sola logica dell’emotività, a rischio di manipolazione, accresciuto dall’intelligenza artificiale”. Per l’alto magistrato “va ribadito che “verità giudiziaria” è solo quella raggiunta nell’osservanza del giusto processo di legge celebrato da magistrati e avvocati; pretendere di sostituirla con improbabili indagini, abnormi plebisciti, significa distruggere le basi dello Stato di diritto e delle nostre libertà”. Si è poi soffermato sull’intelligenza artificiale, il cui uso in ambito giudiziario ha aperto ampie riflessioni: “Il processo telematico, nella sua versione basica, ha solo sostituito il supporto cartaceo con quello digitale, eppure sta riconfigurando i ruoli di magistrati e avvocati. In nome della prevedibilità e della velocità si invocano ulteriori sviluppi, la giustizia predittiva, affidata all’intelligenza artificiale. Questa non va aprioristicamente rifiutata, occorre sfruttarne le potenzialità, ma dobbiamo essere consapevoli che è qualcosa di radicalmente diverso da ogni precedente scoperta dell’uomo. È una tecnologia che plasma e diffonde forme non umane di logica; gli algoritmi di machine learning non sempre sono trasparenti, spiegabili o interpretabili, soprattutto se utilizzano tecniche di deep learning. Alto è il rischio della lesione dei diritti fondamentali e dell’alterazione dell’essenza del processo; alta deve essere attenzione e prudenza nell’applicarla”. Salvato poi dedica un capitolo ad un argomento che abbiamo trattato già diverse volte su questo giornale - forse gli unici a farlo - ed è quello dei criptofonini. La questione è quella dei dati decriptati dalla autorità francesi, belghe e dei Paesi Bassi e inviati alle autorità italiane per indagini e arresti sul narcotraffico internazionale; circa la “ legittimità dell’autonoma attività di indagine estera nata, sviluppatasi e conclusasi prima e indipendentemente della richiesta di assistenza giudiziaria italiana, volta alla trasmissione dei dati di contenuto decriptati sulle utenze criptofoniche individuate nei diversi procedimenti italiani, è emerso un contrasto nella giurisprudenza di legittimità, rimesso alle Sezioni Unite” di cui si discuterà il 29 febbraio. Un altro tema di interesse del giornale, commentato da Salvato nella relazione più ampia di oltre 300 pagine è quello delle misure di prevenzione. Ha ribadito nel contesto europeo una “precisa tendenza verso l’unificazione delle legislazioni nella disciplina della confisca non basata sulla condanna (non-conviction based confiscation)”, “destinata a operare nei casi in cui non sia possibile giungere a un giudizio di responsabilità penale a causa dell’estinzione del reato per prescrizione”. Ha condiviso poi, contrariamente da quanto espresso da diversi giuristi su queste pagine, che “in tema di misure di prevenzione, il giudice, attesa l’indipendenza del procedimento di prevenzione da quello penale, può valutare autonomamente i fatti accertati in sede penale, al fine di giungere ad un’affermazione di pericolosità generica del proposto ex art. 1, comma 1, lettera b), del d.lgs. del 6 settembre 2011, n. 159, non solo in caso di intervenuta declaratoria di estinzione del reato o di pronuncia di non doversi procedere, ma anche a seguito di sentenza di assoluzione ai sensi dell’art. 530, comma 2, c.p.p., ove risultino delineati, con sufficiente chiarezza e nella loro oggettività, quei fatti che, pur ritenuti insufficienti - nel merito o per preclusioni processuali - per una condanna penale, possono, comunque, essere posti alla base di un giudizio di pericolosità”. Infine una riflessione sul ruolo del pm. “Sussistono ragioni di criticità dovute al pubblico ministero ed essenzialmente alla transizione che stanno vivendo tale figura e le funzioni alla stessa assegnate. La trasformazione dell’obbligatorietà dell’azione penale da regola a principio”, ad esempio. Ricordiamo che il ministro Nordio nelle sue linee programmatiche al Parlamento disse che l’obbligatorietà dell’azione penale “si è convertita in un intollerabile arbitrio”. È questo che intende Salvato? Penalisti in sciopero dal 7 al 9 febbraio: “Pacchetto sicurezza illiberale” di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 26 gennaio 2024 Tra le richieste più urgenti la soppressione dei limiti all’appello posti dall’art. 581 c.p.p., oggetto di reiterate richieste al Ministro Nordio. Questa mattina, nel corso dell’Inaugurazione dell’anno giudiziario, mentre la Presidente della Corte di cassazione Margherita Cassano e il Ministro della Giustizia Carlo Nordio celebravamo insieme la “cultura della conciliazione” e il superamento di una visione “carcerocentrica” grazie all’affermarsi della “giustizia riparativa”, i penalisti, per ragioni opposte, annunciavano 3 giorni di sciopero: 7, 8 e 9 febbraio. Sulla stessa lunghezza d’onda anche il presidente del Cnf Francesco Greco, il quale intervenendo in Cassazione, davanti al Capo dello Stato Sergio Mattarella, ha detto: “Alcune riforme hanno gravemente leso il principio della difesa come … diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento.” Il riferimento è al Dlgs n. 150 del 10 ottobre 2022 che ha introdotto il comma 1-quater dell’art. 581 cpp, dove si afferma: “Nel caso di imputato rispetto al quale si è proceduto in assenza, con l’atto d’impugnazione del difensore è depositato, a pena d’inammissibilità, specifico mandato ad impugnare, rilasciato dopo la pronuncia della sentenza e contenente la dichiarazione o l’elezione di domicilio dell’imputato …”. Un tema su cui nei mesi scorsi l’Ucpi aveva sollecitato il Guardasigilli. “Più volte - scrive la Giunta delle camere penali nella delibera che proclama l’astensione firmata dal Segretario Rinaldo Romanelli e dal Presidente Francesco Petrelli - abbiamo richiesto l’abrogazione dei commi 1-ter e 1-quater dell’art. 581 c.p.p. che prevedono l’allegazione di una elezione o dichiarazione di domicilio e per gli imputati assenti l’allegazione di uno specifico mandato ad impugnare”. Tale previsione, spiegano, “oltre a ledere la dignità del difensore e a restringerne le facoltà proprie, nuoce gravemente ai soggetti più deboli che usufruiscono dell’istituto della difesa d’ufficio, a vantaggio di un efficientismo indifferente alla qualità della giustizia”. L’alleggerimento dei ruoli delle Corti d’Appello e della Corte di cassazione infatti “non può essere considerato in alcun modo un obiettivo da perseguire legittimamente attraverso la compressione del diritto di impugnare, anche a scapito della riforma di sentenze ingiuste e di irrogazione di pene illegali”. Eppure, proseguono, si è preferito privilegiate la “funzione deflattiva che questa norma avrebbe nel sistema delle impugnazioni, con conseguente flessione degli indici di riduzione delle pendenze imposte dal P.N.R.R.”. Così, seppure qualche passo positivo può essere registrato come: il ripristino della prescrizione sostanziale, o l’abrogazione dell’abuso di ufficio e la ridefinizione della fattispecie di traffico di influenze, “resta evidentemente contraddittorio il percorso sin da subito intrapreso della iperproduzione di nuove fattispecie di reato, in direzione opposta alla realizzazione di un diritto penale minimo”. Per esempio in materia di intercettazioni: per un verso, è “apprezzabile” la tutela della riservatezza delle comunicazioni fra difensore e assistito; per l’atro, però non può non registrarsi l’”abnorme ed irragionevole allargamento dell’utilizzo a tutti i reati laddove siano aggravati dall’art. 416-bis.1. c.p. e dunque al di fuori del ricorrere di fenomeni di “criminalità organizzata”. Per non parlare della condizione delle carceri, ormai vicine ai limiti della sentenza Torreggiani, e dove si è addirittura proceduto a introdurre nuove fattispecie di reato. È il caso della “Rivolta in istituto penitenziario”, integrata anche da condotte tipicamente inoffensive, quali la resistenza passiva, inserendo tali nuove fattispecie nel catalogo dei reati ostativi di cui all’art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenzia. Insomma, è il contenuto complessivo del “pacchetto sicurezza” a deludere i legali: “Lungi dal porsi in sintonia con un programma di riforma della giustizia in senso liberale, rivela una matrice securitaria sostanzialmente populista e profondamente illiberale caratterizzata da un irragionevole rigore punitivo nei confronti dei fenomeni devianti meno gravi e ai danni dei soggetti più deboli”. Per tutte queste ragioni, conclude la delibera, l’Unione delle Camere Penali Italiane “non può non assumere legittime iniziative volte ad impedire l’attestazione di irrevocabilità su sentenze ingiuste e la susseguente esecuzione di condanne a pene detentive di persone a cui non è stato consentito accedere ad un successivo grado di giudizio”. Sciopero di tre giorni dunque con l’auspicio che le Camere Penali territoriali organizzino “iniziative di informazione e di discussione sulle ragioni della protesta”. La destra minaccia l’autonomia della Consulta di Franco Corleone L’Espresso, 26 gennaio 2024 Verso il regime, si potrebbe commentare così la conferenza stampa di Giorgia Meloni durante la quale ha affermato che l’autonomia della Corte Costituzionale non costituisce un problema, la novità essenziale è che la destra ha il diritto di eleggere i quattro giudici che scadranno alla fine del 2024. In realtà Silvana Sciarra è scaduta l’11 novembre dell’anno scorso assieme ai colleghi De Petris e Zanon di nomina presidenziale e Sergio Mattarella ha prontamente provveduto alla sostituzione; l’ex presidente della Corte era di nomina parlamentare e le prime due votazioni del Parlamento in seduta comune si sono svolte in novembre senza esito e si attende la terza votazione che richiede ancora un quorum alto, dei due terzi dei componenti. Dal quarto scrutinio il quorum si abbassa ai 3/5 dei componenti, ma è ancora irraggiungibile per la maggioranza di destra anche se premiata da una legge truffaldina. Il Rosatellum, grazie all’azione di Felice Besostri, autentico bardo della democrazia recentemente scomparso, è ora sotto il giudizio della Cedu, la Corte europea dei diritti umani. Michele Ainis ha manifestato sconcerto per l’arroganza ancora non supportata dalla elezione del popolo e ha ricordato possibili antidoti all’inerzia del Parlamento e al silenzio di chi dovrebbe agire e parlare, dai presidenti delle Camere, che potrebbero istituire un conclave laico, al presidente della Repubblica che potrebbe richiamare a un dovere inderogabile. Il costituzionalista iconoclasta ha lanciato un invito disperato alla società civile perché dia un segno di vita e ha ricordato la denuncia estrema nonviolenta di Marco Pannella per impedire lo scempio delle istituzioni. Questo andazzo non è una novità e risale a vecchi vizi della partitocrazia (oggi non ci sono i partiti e la deriva è più preoccupante) e ha coinvolto tante volte le elezioni del Consiglio superiore della magistratura e della Corte Costituzionale. La logica spartitoria fece vittime illustri, ricordo i casi di Federico Mancini e di Marcello Gallo e come deputati radicali contestammo in più occasioni la discriminazione verso le formazioni politiche estranee all’arco costituzionale. Chiedevamo candidature forti di esperienza, professionalità e indipendenza. Finalmente nel 2022 con la legge 71 è stata approvata una timida riforma per garantire trasparenza nell’elezione del Csm, ma con logica gattopardesca è stata vanificata non prevedendo la pubblicazione di curriculum e non effettuando la verifica dei requisiti. La Corte Costituzionale pone un problema ancora più delicato per il giudizio sulla legittimità delle leggi, specialmente se approvate da un Parlamento che grazie al premio di maggioranza non rappresenta fedelmente la volontà popolare, e sull’ammissibilità dei referendum. È evidente che il potere non sopporta un organo di garanzia autonomo e gli esempi di intolleranza sono tanti, dalla Polonia all’Ungheria, dagli Stati Uniti di Donald Trump a Israele di Benjamin Netanyahu. Presentai una proposta di legge con l’aiuto del costituzionalista Ernesto Bettinelli (n. 167 nella XIII legislatura) per vincolare l’elezione dei giudici costituzionali con un efficace deterrente. Ora si pone un allarme per la democrazia e va respinto lo spoils system. La preoccupazione è stata espressa dal presidente Augusto Barbera e il silenzio dell’opposizione è inquietante. Ad armi dispari. Fulgido esempio della intollerabile disparità processuale tra accusa e difesa di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 26 gennaio 2024 Dunque siamo arrivati a questo. In un noto processo per omicidio (a carico di una madre che ha lasciato morire di fame e di sete la sua sventurata figlia, per andarsene in giro per un comodo week end), la difesa si impegna sulla strada della infermità mentale. Una scelta perfino scontata, che PM e parte civile legittimamente contrasteranno con i propri consulenti tecnici. La Corte di Assise nomina un proprio perito, in modo che la decisione possa essere la più approfondita ed equanime possibile. Apprendiamo dalle cronache che la difesa muove le sue mosse dai test psicologici e conseguenti valutazioni tecniche svolti da due psico-terapeute del carcere, che giudicano il quoziente intellettivo della detenuta molto basso, al punto da renderla incapace di rendersi conto della sofferenza altrui. Ed ecco il colpo di scena. Il PM reputa indebita la somministrazione di quel test (di Wais) da parte delle psicologhe del carcere: non ve ne sarebbero stati presupposti e ragioni per farlo, e dunque sospetta una sorta di improprio favoritismo nei confronti della difesa. Chiede ed ottiene di intercettare -da quanto leggiamo in cronaca- le due terapeute (anche negli incontri in carcere con la detenuta), indagandole di favoreggiamento e di falso ideologico in concorso -udite, udite- con l’avvocatessa che difende l’imputata! La falsità ideologica consisterebbe nel fatto che le due psicologhe non avrebbero svolto una obiettiva “descrizione clinica”, quanto piuttosto “una estrapolazione deduttiva di una vera e propria tesi difensiva”. E questo, dobbiamo necessariamente dedurre, su istigazione o comunque concorso morale, del difensore. In tutta onestà, si tratta -se confermato nei termini che ho riassunto, e che desumiamo da cronache dettagliate con citazioni testuali dei provvedimenti- di un fatto di gravità inaudita, destinato a costituire un precedente inconcepibile in uno Stato di diritto. Insomma il PM, invece di formulare le sue legittime obiezioni nell’ambito del confronto processuale e peritale, come se niente fosse apre un fascicolo, perquisisce ed intercetta (indirettamente così anche il difensore) ed iscrive la parte avversa nel registro degli indagati. E ciò sulla premessa di una valutazione tecnica (delle due psicologhe) che egli semplicemente non condivide, sia nelle premesse che nelle conclusioni. La cosa ancor più stupefacente -se questa ulteriore notizia fosse confermata, perché si stenta a crederlo è che l’iniziativa di questo PM sarebbe stata assunta nella inconsapevolezza dell’altro PM titolare della indagine, e del Procuratore aggiunto che la segue con loro. Ecco, dunque, un fulgido esempio della intollerabile disparità processuale tra accusa e difesa, sancita come legittima dal GIP che autorizza intercettazioni e perquisizioni e -a quanto paredal Procuratore Capo che la avalla. In attesa che qualcuno intervenga per rimediare a questa assurda vicenda, propongo alla Associazione nazionale Magistrati un bel dibattito sulla tanto decantata “cultura della giurisdizione” del Pubblico Ministero. Quanto accaduto ne rappresenta il più fulgido esempio. Quella ignoranza del diritto che confonde i legali con i propri clienti alimentata dai media di Francesco Verri* Il Dubbio, 26 gennaio 2024 Filippo Turetta, reo confesso dell’omicidio di Giulia Cecchettin, è difeso dall’avvocato Giovanni Caruso, professore ordinario di Diritto penale nell’Università di Padova. In un Paese normale non sarebbe, di per sé, una notizia tale da giustificare un articolo di giornale; al massimo la cronaca giudiziaria dedicherebbe a questa informazione il giusto spazio quando riferisce le posizioni o le iniziative delle parti. Invece, in Italia se ne parla. Eccome. Infatti, sono state raccolte un paio di centinaia di firme per invitare l’avvocato Caruso a lasciare la difesa dell’indagato e soprattutto per sollecitare l’Università a dissuaderlo dal portare a termine il suo mandato. L’Università ha risposto sollecitamente nell’unico modo possibile: il professor Caruso è del tutto libero di scegliere i suoi clienti e autonomo nello svolgimento della sua attività professionale. Una presa di posizione scontata ma importante perché, a volte, può essere necessario ribadire concetti ovvi. Che tanto ovvi, in effetti, non devono essere o che, comunque, non lo sono per tutti se un gruppo di cittadini ha sentito il bisogno di riunirsi virtualmente con lo scopo di privare Turetta dell’avvocato che si è scelto nonostante l’articolo 24 della Costituzione definisca la difesa come un “diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”. Condivido fino in fondo, allora, la presa di posizione di Francesco Petrelli, presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane, che su questo stesso giornale ha definito la petizione diffusa nel caso Turetta “uno schiaffo allo Stato di diritto”. E vorrei aggiungere ancora qualcosa a proposito del ruolo di un professore di Diritto penale nell’Università e rispetto ai suoi studenti. Sono certo che non ci abbia pensato neppure un momento. Ma se, per ipotesi, subendo le pressioni di una frangia dell’opinione pubblica, il professor Caruso avesse rinunciato all’incarico, che insegnamento avrebbe dato ai suoi alunni? Con quale idea della giustizia e dei diritti fondamentali sarebbero usciti dalla sua aula i futuri giuristi iscritti all’Università di Padova? Mia figlia studia Giurisprudenza nell’Università Statale di Milano. Cosa vorrei per lei? Vorrei che ricevesse - e so che riceve dai suoi professori e dall’Università italiana - lo stesso insegnamento che Alan Dershowitz, uno dei più grandi professori di diritto e avvocati contemporanei, indirizzava ai suoi alunni. “Dico ai miei studenti - ha dichiarato Dershowitz - che se mai si sentissero a loro agio con il ruolo di avvocato difensore penale, sarebbe ora di smettere. Dovrebbe essere una fonte costante di disagio perché hai a che fare con un’incredibile ambiguità morale e ti è stato assegnato un ruolo che non è invidiabile”. E del resto il professore americano preparava processi come quello a O. J Simpson o quello a Claus von Bulow (casi di omicidio e di tentato omicidio sui quali sono stati pubblicati saggi e romanzi e girati film) con l’aiuto dei suoi alunni proprio perché imparassero “sul campo” il significato più profondo dei diritti dell’uomo con cui deve fare i conti il sistema punitivo di uno Stato democratico. Per Harvard l’insegnamento di Dershowitz e il suo metodo sono stati un fiore all’occhiello. Per l’Università di Padova lo è il professor Caruso. *Avvocato penalista Rossano (Cs). Tragedia nel carcere, detenuto egiziano di 34 anni si suicida di Matteo Lauria lacnews24.it, 26 gennaio 2024 Un detenuto si è suicidato nel carcere di Rossano. L’uomo si sarebbe impiccato in cella utilizzando un cappio rudimentale ricavato dalle lenzuola. Il 35enne, di origine egiziana, avrebbe finito di scontare la pena l’anno prossimo. “Ricordiamo che ogni anno - affermano Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe e Francesco Ciccone, segretario regionale - la polizia penitenziaria salva la vita a circa 1700 detenuti che tentano di suicidarsi. Questa volta, purtroppo, nonostante l’immediato intervento e ogni utile iniziativa per rianimare l’uomo non è stato possibile strapparlo alla morte”. “Siamo solo al 26 di gennaio e sono già 11 i detenuti suicidatisi dall’inizio dell’anno. Ieri è successo a Rossano, l’altro ieri a Teramo e il giorno prima a Verona”. Lo dichiara Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria. “Ormai non passa giorno che non sia funesto nelle carceri, in quella che è una vera e propria carneficina, mentre si aspetta solo di sapere dove sarà la prossima morte autoinflitta nella sostanziale indifferenza della politica maggioritaria”. Ancona. Un altro morto in carcere: è il terzo dall’inizio dell’anno di Nicolò Moricci Il Resto del Carlino, 26 gennaio 2024 Ad accorgersi del corpo senza vita del 37enne sono stati i compagni di stanza. L’esame autoptico stabilirà le cause del decesso. Terzo decesso da inizio anno: tunisino di 37 anni trovato morto in cella. Ad accorgersi del corpo privo di vita dell’uomo - detenuto da circa un anno nella casa circondariale di Montacuto con l’accusa di spaccio - sarebbero stati i compagni di stanza. Immediato l’allarme al 112, il numero unico di emergenza. Sul posto, i sanitari del 118 e l’ambulanza del Comitato di Ancona della Croce Rossa. I militi, però, non hanno potuto fare altro che constatarne il decesso. Un decesso probabilmente avvenuto per cause naturali, ma sarà l’esame autoptico (che quasi certamente verrà disposto in queste ore) a fare luce sulla vicenda. Il 12 gennaio, ad essere trovato privo di vita, era stato un algerino di 41 anni, anche lui dietro le sbarre per spaccio. Una settimana prima, invece, il suicidio di Matteo Concetti, il 25enne fermato che si è impiccato proprio nello stesso istituto penitenziario, a Montacuto. Roma. Morto in carcere a 21 anni, il Gip fa riaprire le indagini di Angela Nicoletti agi.it, 26 gennaio 2024 La procura di Roma aveva chiesto l’archiviazione ma la madre della vittima ha chiesto e ottenuto un approfondimento degli accertamenti. Morto in carcere a soli 21 anni, dopo un giorno di agonia: il pm chiede l’archiviazione ma la tenacia della madre riesce a far riaprire le indagini. La vicenda risale al 13 dicembre 2021, quando il giovane I. C., entrato nel carcere di Regina Coeli in custodia cautelare da appena tre mesi, viene ritrovato morto nella sua cella, nonostante si trovasse in uno stato di torpore e di semi incoscienza già dalla mattina del giorno prima, destando preoccupazione anche tra i suoi compagni. L’autopsia ha accertato che il ragazzo è morto dopo una agonia respiratoria, causata dalla compromissione della funzione respiratoria, determinata dalla combinazione sinergica tra i farmaci prescritti dai medici del carcere e la sostanza stupefacente del tipo metadone illecitamente pervenuta fin dentro all’istituto di pena e poi ceduta al giovane. La procura di Roma ha avviato delle indagini a carico di ignoti per far luce sulla morte del ragazzo. Indagini che si sono concluse con la richiesta di archiviazione da parte del pm. La madre del giovane, una donna residente a Veroli, determinata a combattere per cercare di arrivare alla verità sulla morte del figlio, si è opposta alla richiesta di archiviazione, attraverso l’avvocato Marilena Colagiacomo che ha evidenziato gli obblighi del personale medico, paramedico e della polizia penitenziaria che avrebbero dovuto sorvegliare sullo stato di salute del detenuto e intervenire per impedire o porre tempestivo riparo alle circostanze che hanno portato alla morte il ventenne. Il gip ha respinto la richiesta di archiviazione della procura, ordinando la prosecuzione delle indagini, al fine di verificare le eventuali responsabilità penali per omessa sorveglianza e vigilanza del personale della polizia penitenziaria, medico e paramedico del carcere. Parma. Trattamenti disumani nel carcere: la Cedu condanna l’Italia Gazzetta del Sud, 26 gennaio 2024 L’ergastolano Antonio Libri sarebbe stato trattato in modo inumano dalla giustizia italiana. Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) che, nel merito, accusa il nostro Paese di avere violato l’articolo 3 della Convezione dei diritti dell’uomo (divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti). Antonio Libri, difeso dagli avvocati Luca Cianferoni e Mara Campagnolo, è ristretto da anni nel carcere di Parma dove sta scontando una condanna definitiva per associazione mafiosa e una serie di altri reati, è affetto da gravi problemi di salute, tra cui osteoporosi grave con collassi vertebrali multipli e fibromialgia. Per questo motivo è stato riconosciuto disabile al 100% e ha soffre di mobilita limitata agli arti inferiori. I problemi di salute di Libri sono iniziati all’inizio del 2017 quando, mentre era detenuto nel carcere romani di Rebibbia, ha iniziato ad avere difficoltà motorie e aveva presentato una richiesta di sostituzione della detenzione in carcere con quella domiciliare da scontare in una struttura sanitaria. In quello stesso anno, Antonio Libri era stato trasferito al carcere di Milano su decisione del Tribunale di sorveglianza di Roma. Quest’ultimo, per valutare la richiesta del detenuto, aveva nominato un perito per valutare il suo stato di salute. Dalla perizia era emerso che, nonostante Libri fosse compatibile con il regime carcerario, aveva bisogno di effettuare fisioterapia consigliando il suo trasferimento a Milano. Cosa che avvenne alla fine di ottobre 2017. Il quel periodo, i medici gli consigliarono fisioterapia, un deambulatore e una sedia a rotelle. Cassino (Fr). Morto in carcere a Cassino, scagionati medico e infermiera di Roberta Pugliesi Il Messaggero, 26 gennaio 2024 Il caso di Mimmo D’Innocenzo. Il farmaco letale ceduto da un altro detenuto, ora rinviato a giudizio. Morto in carcere per intossicazione dopo aver ingerito alcune pasticche di un farmaco simile al metadone, si chiude dopo quasi otto anni l’incubo giudiziario per un medico e un’infermiera che era stati accusati di aver iniettato il medicinale. In realtà, come emerse da subito, il farmaco era stato ceduto da un altro detenuto, ora rinviato a giudizio. I due operatori sanitari erano completamente estranei alla vicenda. Tutto ha inizio il 27 aprile del 2017 quando nel carcere di Cassino muore Domenico d’Innocenzo, per tutti Mimmo, che al tempo si trovava ristretto in regime precauzionale per autolesionismo, in stato di isolamento. Vennero avviate immediatamente le indagini interne ed emerse che il romano aveva assunto alcuni giorni prima il farmaco consegnatogli da un altro detenuto, Paolo Ciardiello, in cambio di alcuni pacchetti di sigarette. Ciardiello aveva ceduto il farmaco calandola con una corda dalla cella sovrastante. Il fatto era stato accertato perché pochi giorni prima che morisse D’Innocenzo, venne redatto un rapporto disciplinare a carico suo e di un altro detenuto, responsabili di passaggio di materiale attraverso l’uso di una corda rudimentale fatta di strisce di vari tessuti. Corda che venne trovata nella cella della vittima dopo la sua morte. Nel registro degli indagati però finirono anche il medico Raffaele Lezoche di Roma e l’infermiera Elena Colafrancesco di Cassino, all’epoca dei fatti in servizio presso l’infermeria della casa circondariale. Secondo l’ipotesi dell’accusa i due operatori sanitari erano responsabili di aver iniettato il farmaco al detenuto. Accusa che, si legge nelle carte del procedimento, si basava su una “parziale” lettura della relazione di consulenza medico-legale e sulla scorta di una “controversa” deposizione testimoniale resa da un agente di polizia penitenziaria. Ma sul registro dell’infermiera non vi era traccia alcuna di quanto riferito dall’agente. E dalla successiva relazione medico-legale non emersero altri riscontri. L’agente di polizia penitenziaria inoltre era stato indicato come “una fonte di prova inattendibile”, si legge è la sua deposizione è rimasta priva di riscontro nonché isolata. Sulla base di questi elementi il gip del tribunale di Cassino, Massimo Lo Mastro, ha disposto l’archiviazione per medico e infermiera per non aver commesso il fatto, e il rinvio a giudizio per il detenuto Paolo Ciardiello, campano, che consegnò il medico alla vittima. “Mi sento provata da quasi otto di indagini a mio carico, lesa nella mia immagine e professionalità”, dichiara l’infermiera di Cassino. “In questi anni - prosegue - mi sono sentita in difficoltà nei confronti di chi mi guardava e giudicava perché ero indagata per un reato gravissimo, pur non essendo responsabile di alcunché. Mi auguro che nessun altro debba più sopportare quanto ho dovuto subire io”. L’infermiera di Cassino è stata difesa dagli avvocati Federica Lancia e Francesco Germani, i quali dichiarano: “Pur trattandosi di una vicenda molto dolorosa e pur comprendendo il dolore di una madre, a cui esprimiamo vicinanza, riteniamo che per la nostra assistita sia stata fatta giustizia riconoscendone l’estraneità ai fatti. Siamo quindi soddisfatti del provvedimento di archiviazione emesso dal gip. La nostra assistita ha sempre avuto fiducia nella giustizia, con la consapevolezza di aver agito secondo la propria deontologia professionale. Ma sono stati comunque anni faticosi e di sofferenza”. Bolzano. “Il carcere così non dovrebbe esistere” di Elena Mancini salto.bz, 26 gennaio 2024 Gherardo Colombo visita il carcere di Bolzano, all’incontro con le mediatrici dice della giustizia riparativa: “Permettere a chi ha sbagliato di rioccuparsi di umanità”. L’incontro di ieri (24 gennaio) alla Sala di rappresentanza del Comune di Bolzano sulla giustizia riparativa si è aperto con un’immagine diversa della giustizia, che solitamente viene rappresentata bendata, con in mano spada e bilancia. La mediatrice Antonella Valer ha invece voluto mostrare alle persone presenti all’incontro un’immagine alternativa, una giustizia che cede la spada e la benda, per sedersi in un cerchio e dialogare, mediare. Questa è l’evoluzione che la giustizia riparativa può portare all’interno del sistema penale, per renderlo meno cieco e violento. All’intervento era presente Gherardo Colombo, l’ex magistrato attualmente ritiratosi dal servizio, giurista, saggista e scrittore italiano, celebre per le sue inchieste sulla Loggia P2 e Manipulite. Gherardo Colombo ha dialogato con le mediatrici del Centro regionale per la Giustizia Riparativa e i partecipanti dei gruppi di riflessione “Riparare Relazioni”. L’ex magistrato ha da subito affrontato il tema del sistema carcerario, che Colombo ritiene inefficace: “La giustizia riparativa consente di smettere di rispondere al male (il reato) con altro male (la pena), è uno degli strumenti necessari per adeguare il carcere così com’è al carcere come dovrebbe essere”. Colombo ha infatti avuto nella giornata di ieri un incontro con alcuni detenuti della casa circondariale di Bolzano “Si sono sentiti, in modo figurato, mie vittime, avendo io fatto il magistrato per 33 anni”. Nella struttura di via Dante su 88 posti regolamentati sono presenti 123 detenuti, secondo i dati aggiornati allo scorso giugno. Sulle condizioni delle carceri italiane Colombo è duro, ricorda che esistono paesi come la Norvegia con strutture nuove, pulite, all’avanguardia, da 157 mila metri quadrati per 400 detenuti. In Italia invece si fa fatica a garantire i famosi 3 metri quadri a persona dentro le strutture penitenziarie, questo, oltre che un trattamento disumano, è costato allo stato italiano una sentenza di condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo. Sulla privazione della libertà continua il giurista: “In Belgio nell’estate del 2022 un gruppo di 55 magistrati ha vissuto per 24 ore in un carcere, facendo la vita dei reclusi, per comprendere cosa vuol dire essere privati della libertà, trovo che sarebbe una misura da adottare anche in Italia”, continua il giurista, “le persone pericolose devono essere allontanate dalla comunità, ma la pena, dice la Costituzione, non può essere contraria al senso di umanità”. Sul concetto di giustizia, Colombo rimanda a quello che, secondo lui, è il concetto cardine della carta costituente e del nostro ordinamento l’articolo 3, che prescrive tutti i cittadini hanno pari dignità sociale. “Ciò comporta che la pena deve essere umana, per esserlo deve aiutare le persone a mettersi in relazione con l’altro, deve permettere a chi ha sbagliato di rioccuparsi di umanità. Questo è ciò che fa la giustizia riparativa, mette in relazione l’autore del reato con la persona che il reato lo ha subito allo scopo di riparare”. Con la riforma Cartabia del 2022 è stata introdotta in Italia la giustizia riparativa in maniera organica, in ogni stato e grado di giudizio e per qualsiasi reato. Questo comporta la possibilità di intraprendere un percorso di mediazione tra autore e vittima fuori dalle aule di tribunale, cercando una riparazione sia economica che emotiva, se possibile, al danno che il reato ha causato. Il percorso è su base volontaria e può portare a riduzioni di pena o misure alternative alla detenzione. Questa possibilità, sperimentata da anni in diversi ordinamenti di tutto il mondo, ha dei vantaggi rispetto al sistema penale tradizionale: rimettere la vittima al centro e darle la possibilità di essere ascoltata, oltre a permettere al reo di comprendere a livello profondo il male commesso. Su questo interviene la testimonianza di un ex detenuto, che fa parte del gruppo Riparare Relazioni “partecipare agli incontri del gruppo mi ha permesso di confrontarmi con alcune vittime, così ho imparato ad ascoltare il vissuto e le emozioni del prossimo. Per me qualcosa è cambiato, ora so approcciarmi alle persone”. Rispetto agli altri Paesi nei quali la giustizia riparativa è praticata da anni, in Italia c’è ancora molta strada da fare, soprattutto sul piano culturale. Sull’uso della giustizia riparativa Colombo afferma: “Vedo una resistenza diffusa da parte di avvocatura e magistratura, che conoscono la giustizia riparativa ma fanno fatica ad utilizzarla”. La giustizia riparativa, fondata sul dialogo e l’incontro, aiuta a combattere la recidiva ed è il modo più efficace di ripensare la pena, soprattutto in un paese come il nostro, in cui i detenuti sono tanti, vivono in strutture fatiscenti (quella di Bolzano è uno dei tanti esempi) e non hanno la dignità che, in quanto persone, meritano. Sulla paura di alcuni che la giustizia riparativa possa essere usata dai detenuti per essere impuniti Colombo conclude “passiamo la vita a giudicare gli altri, ma la testimonianza di chi, da ex detenuto, ha partecipato ad un incontro di mediazione, ci dimostra che si può cambiare. I casi di benefici derivanti dalla giustizia riparativa sono moltissimi, quelli di chi l’ha usata in maniera distorsiva ed è tornato a delinquere sono tutti noti perché rare eccezioni”. Torino. Ora d’aria o studio, il dilemma che annienta il diritto all’istruzione di chi è in carcere di Chiara Comai La Stampa, 26 gennaio 2024 “Al carcere Lorusso e Cutugno mancano i diritti fondamentali all’istruzione”. Ennio Avanzi, ex consigliere comunale di Torino, ha insegnato per quarant’anni in città nel mondo dell’educazione per gli adulti. Conosce bene le situazioni nei Cpia, i Centri provinciali per l’istruzione degli adulti. Adesso che è in pensione si sta dedicando a monitorare e denunciare tutte le incongruenze e le difficoltà di questo sistema. Temi complessi che Avanzi ha presentato ieri mattina nella sede dell’Associazione radicale Adelaide Aglietta, in compagnia degli esponenti dei Radicali Giovanni Oteri, Igor Boni e Silvia Manzi, del consiglio direttivo di Nessuno Tocchi Caino. Se nei Cpia ci sono difficoltà, la situazione della casa circondariale è particolarmente critica. “Lì, le ore di lezione sono molto inferiori rispetto alla norma. Per prima cosa, da sempre coincidono con l’ora d’aria o con il momento dei pasti - spiega Igor Boni, che ogni tanto organizza visite nel carcere aperte al pubblico -. Questo significa non valorizzare la possibilità di studiare, che invece è un servizio di cui i detenuti hanno diritto”. Poi, in molti casi “se un insegnante ha 3 ore di lezione, due di queste si perdono in questioni burocratiche o tempo di arrivo dei detenuti. Su tre, si fa lezione solo un’ora”. Milano. “Lavori sociali alternativi al carcere”, l’idea per salvare i ragazzi dell’Ipm Beccaria di Zita Dazzi La Repubblica, 26 gennaio 2024 La presidente del Tribunale dei minorenni Gatto: “Una formula di responsabilizzazione come misura sostitutiva della pena”. “Pensiamo a convenzioni col Comune per utilizzare la formula dei lavori di pubblica utilità per una nuova misura di responsabilizzazione del minore autore di reati, italiano o straniero che sia”. È un’idea che Maria Carla Gatto, presidente del Tribunale per i minorenni di Milano, lancia durante il primo panel del Forum Welfare 2024, iniziato ieri mattina a Base, in via Bergognone. Gatto ha in mente il penitenziario minorile Beccaria, pieno di giovani che hanno avuto condanne, più o meno brevi, per i reati di cui sono stati riconosciuti colpevoli. “Penso ad azioni di supporto utili alla comunità, prestazioni lavorative non retribuite che valgano come percorso di “messa alla prova” o come misura sostitutiva della pena”, dice la presidente evidenziando come la permanenza in carcere alla lunga non faccia bene a nessuno, tanto meno a un adolescente. Il sindaco Beppe Sala ha già fatto il suo intervento nel quale ha sottolineato l’emergenza dei minorenni migranti che arrivano a Milano e ai quali Palazzo Marino deve garantire accoglienza e istruzione, perché così prevede la legge fino alla maggiore età. Mercoledì, in un incontro a Roma, ne ha parlato col ministro degli Interni Matteo Piantedosi: “Dobbiamo fronteggiare fenomeni a cui non eravamo preparati: su 22 mila arrivati in Italia, circa 1.400 sono a Milano. Gli ho chiesto di lavorare insieme sul tema, ma senza un hub di prima accoglienza è difficile. Se noi mettiamo questi ragazzi nelle nostre strutture per i senza fissa dimora, rischiano di stare con adulti che fanno vita solitaria da tanti anni, e non possono trarre un esempio positivo. Sono ragazzi che possono ancora essere recuperati”. Sono tanti i temi da affrontare nella due giorni degli operatori del terzo settore convocati dal Comune per progettare il futuro di una Milano più inclusiva, che cerchi di livellare le crescenti diseguaglianze sociali. “Nel 2023 avevamo denunciato l’aggravarsi della situazione dei minori stranieri soli, chiedendo al governo di assumersi le sue responsabilità. Ci ritroviamo qui, su questo stesso palco, un anno e mezzo dopo, senza che nulla sia stato fatto e con una situazione che è molto più grave - dice l’assessore Lamberto Bertolé. Abbiamo in carico 1.300 minori a fronte di una disponibilità di accoglienza nelle strutture specifiche autorizzate dallo Stato di 400 posti”. Solo nel 2023 il Comune di Milano ha coperto con quattro milioni di euro i mancati rimborsi del governo, quasi tutti dovuti ai costi per i neomaggiorenni. “Metterli per strada a 18 anni e un giorno, senza che il loro percorso sia concluso - conclude l’assessore - significa consegnarli nelle mani dell’illegalità. Il nostro obiettivo, invece, è quello di aiutarli a diventare cittadini autonomi e integrati”. Le risposte arrivano dalle fondazioni pronte a finanziare un progetto da tre milioni che servirà ad aumentare i posti di tre hub (viale Ortles, viale Sarca e via Aldini): “Nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile - si impegna Marco Rossi Doria, presidente di Con i Bambini - insieme al Comune e a Fondazione Cariplo, vogliamo investire tre milioni di euro per migliorare e potenziare l’accoglienza in luoghi oggi presenti in città, rafforzare le equipe multidisciplinari, lavorare per intercettare tutti quei ragazzi che non vogliono farsi agganciare, scappano dalla comunità e vivono in strada. Infine vogliamo sperimentare un centro educativo diurno diffuso”. Un tema che si inserisce in un contesto cittadino comunque difficile, dove a fronte di duemila persone che ancora dormono in strada, ce ne sono altre settemila ospiti dei dormitori o in strutture di emergenza. Il Comune, rivendica Bertolé, è quello che spende di più in Italia per il contrasto alla povertà, quello che ha messo più risorse a bilancio per il welfare: 30 milioni in più nel 2024, come ha spiegato il sindaco Sala, rispetto all’anno precedente, “per intercettare nuovi bisogni perché il disagio aumenta: ho chiesto ai miei assessori di tagliare tutto il tagliabile per trovare i soldi”. Nel 2023 Palazzo Marino ha erogato aiuti economici per oltre 23 mila persone “senza che il governo accompagnasse gli sforzi locali: da Roma solo card e interventi spot”, chiude polemicamente l’assessore. Oggi il forum fino a sera prosegue affrontando il disagio psicologico dei ragazzi e i temi della disabilità. Roma. Rebibbia, al via i laboratori di cucina nel carcere femminile e nella Casa di reclusione garantedetenutilazio.it, 26 gennaio 2024 Il Garante Anastasìa: “La finalità costituzionale della pena è una responsabilità repubblicana che coinvolge tutti gli attori pubblici e privati che possono contribuire al suo perseguimento, ciascuno per la propria parte e con le proprie risorse”. “Grazie alla disponibilità di Coop-Unicoop Tirreno, si completa a Rebibbia una importante partnership pubblico-privato nel perseguimento della finalità costituzionale della pena”. Così il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, tra i soggetti istituzionali che sostengono il progetto dei laboratori di cucina promossi dall’Istituto professionale statale alberghiero “Amerigo Vespucci” e Coop-Unicoop Tirreno, destinati a circa trenta persone detenute nella Casa circondariale femminile e nella Casa di reclusione di Rebibbia. “L’impegno istituzionale dell’Amministrazione penitenziaria- prosegue Anastasìa -, infatti, ha dapprima incontrato quello dell’Istituto alberghiero ‘Amerigo Vespucci’, da tempo attivo con i propri corsi di istruzione nella Casa circondariale femminile e nella Casa di reclusione di Rebibbia; poi la Regione Lazio ha contribuito all’attrezzatura dei locali destinati al laboratorio dell’Istituto alberghiero nel carcere femminile, infine Coop-Unicoop Tirreno interviene generosamente mettendo a disposizione i prodotti alimentari necessari alle attività laboratoriali. Quando ricordiamo che la finalità costituzionale della pena è una responsabilità repubblicana - conclude Anastasìa -, intendiamo esattamente questo: che coinvolge tutti gli attori pubblici e privati che possono contribuire al suo perseguimento, ciascuno per la propria parte e con le proprie risorse”. Con un finanziamento di 23 mila euro, derivante dall’applicazione della legge regionale 8 giugno 2007, n. 7 “Interventi a sostegno della popolazione detenuta della Regione Lazio”, la Regione Lazio ha contribuito all’adeguamento di una parte degli attuali locali dell’area polivalente reparto Camelotti - ex Sert: per la realizzazione di una cucina e di una sala ristorante/reception da destinare proprio all’Istituto alberghiero, per svolgere quella parte di programma didattico che prevede oltre alle attività teoriche anche quelle pratiche, specifiche per questo indirizzo di studi. I docenti provengono dall’Istituto alberghiero, mentre Unicoop Tirreno fornirà i prodotti alimentari necessari allo svolgimento delle lezioni: frutta e verdura, pasta, farina, carne, pesce, uova, e tutto il necessario per mettersi ai fornelli e imparare la preparazione di sughi, pane, pasta, ricette tipiche, dolci, confetture. I laboratori di cucina saranno presentati martedì 30 gennaio, alle ore 11, nella biblioteca comunale di Roma Capitale “Vaccheria Nardi”. Dopo i saluti istituzionali di Massimiliano Umberti, presidente del IV Municipio di Roma Capitale, presenterà il progetto Alessandro Reale, Referente dell’Istituto professionale statale alberghiero per i servizi dell’enogastronomia e dell’ospitalità alberghiera “Amerigo Vespucci” e docente nei laboratori di cucina di Rebibbia. Oltre al Garante Anastasìa sono previsti gli interventi della direttrice della Casa di reclusione di Rebibbia, Maria Donata Iannantuono, e del Coordinatore soci Coop Roma e Lazio di Unicoop Tirreno, Fabio Brai. L’incontro è aperto a tutti. Saranno presenti anche studenti e docenti dell’Istituto alberghiero “A. Vespucci”. Al termine della presentazione dei laboratori di cucina seguirà un brindisi e la degustazione delle frappe preparate dalle detenute della Casa circondariale femminile di Rebibbia. Siracusa. “Dopo il carcere pronta a ripartire grazia al lavoro” Corriere della Sera - Buone Notizie, 26 gennaio 2024 L’evento Jail Career Day a Siracusa per il progetto “Svolta all’Albergheria!” sostenuto da Fondazione Con il Sud e rivolto a persone in esecuzione di pena. “Sono una ragazza che ha avuto problemi con la legge, mi ritrovo a fare questa esperienza grazie alle cooperative coinvolte”. Così Valentina racconta la speranza di una vita nuova. Ripartire da capo, cominciando dal lavoro per reinserirsi nella società dopo un passato difficile. È quello che lei si augura: Valentina è una delle partecipanti al Jail Career Day a Siracusa, un evento realizzato nell’ambito del progetto “Svolta all’Albergheria!” con il sostegno di Fondazione Con il Sud per favorire l’inserimento lavorativo delle persone in esecuzione di pena. “Abbiamo fatto un piccolo tirocinio - dice Valentina - per immetterci nuovamente nel mondo del lavoro, per capire chi abbiamo davanti ma soprattutto mostrare chi siamo davvero. È stata un’esperienza importante perché oggi è molto difficile per noi persone in esecuzione di pena lavorare nelle aziende, far vedere quanto valiamo e rimetterci in gioco”. Il Jail Career Day è l’esito di un percorso che ha lo scopo di creare un’occasione di networking e supportare l’inserimento lavorativo delle persone in esecuzione di pena e sensibilizzare la comunità e le imprese sull’importanza di dare valore a processi significativi per la costruzione di una vera giustizia di comunità. Quindici le persone in esecuzione di pena coinvolte nei percorsi che, dopo un’intensa attività di profilazione da parte delle cooperative Rigenerazioni e L’Arcolaio, partner dell’iniziativa, e sessioni formative tenute da Next - Nuove Energie X il Territorio Ets, si sono sedute lo scorso ottobre ai tavoli dei colloqui con le venti imprese del territorio che hanno risposto all’invito di partecipazione. Aziende di diverse categorie, tra cui commercio, edilizia, ospitalità, ristorazione, artigianato, che hanno scelto di aderire all’evento, condividendo l’importanza di un dialogo proficuo tra sistema penitenziario, imprenditoriale e comunitario. Le aziende hanno condiviso l’importanza di creare una rete che si muove nell’agevolare i percorsi di inserimento lavorativo, comprendendo i vantaggi fiscali e sociali che derivano dall’assunzione di persone in esecuzione di pena Torino. Fare scuola in carcere, dibattito a Palazzo Barolo di Marina Lomunno vocetempo.it, 26 gennaio 2024 In occasione del 160esimo anniversario dalla morte della Marchesa Giulia di Barolo, venerdì 19 gennaio a Palazzo Barolo si è tenuto il primo appuntamento di un ciclo di sei incontri sulle tematiche delle carceri. Il primo incontro è stato dedicato al tema della “scuola in carcere”, con la presentazione del libro “E-mail a una professoressa. Come la scuola può battere le mafie”, scritto da Marina Lomunno, giornalista de La Voce e Il Tempo, e dal frate francescano Giuseppe Giunti. È intervenuto l’Arcivescovo Repole. “Perché loro e non io?”; “Perché loro sono dentro e io fuori?”; “Ero carcerato e siete venuti a trovarmi”; “Bisogna vedere, bisogna starci in carcere, per rendersene conto”. Quattro citazioni (Papa Francesco, la marchesa Giulia di Barolo, Gesù - Matteo 25,36, Pietro Calamandrei, giurista e parlamentare che nel 1948 visitando le galere della Penisola ne denunciò la situazione drammatica) hanno fatto da filo conduttore, venerdì scorso, all’incontro inaugurale del ciclo di sei incontri sul Sistema carcerario promossi, nel 160° della morte della Marchesa Giulia, dall’Opera Barolo, nel Palazzo di via delle Orfane a Torino, in collaborazione con “La Voce e il Tempo”. La grande affluenza di pubblico - oltre 200 persone, numerosi i rappresentanti istituzionali tra cui Edoardo Barelli, presidente della Corte d’Appello di Torino e Maria Grazia Grippo, presidente del Consiglio comunale - come ha evidenziato l’Arcivescovo Repole, presidente dell’Opera Barolo, “è un bel segno di attenzione della città e della comunità cristiana all’umanità sofferente e spesso dimenticata che sconta la propria pena nei penitenziari cittadini”. Torino ha una tradizione di attenzione alle persone fragili che cadono nelle maglie dell’illegalità perché spesso “nati nella culla sbagliata”, è la città dei santi sociali che si sono spesi per il riscatto dei reclusi. Don Bosco inventò il suo sistema preventivo visitando i ragazzi “discoli e pericolanti” alla “Generala” (oggi il carcere minorile “Ferrante Aporti”); san Giuseppe Cafasso, confessore dei condannati a morte, è patrono dei carcerati; la marchesa di Barolo nel 1821 presentò al Governo una relazione sulla disumana situazione delle carceri cittadine contribuendo con proposte concrete alla realizzazione della prima vera riforma carceraria e fondò una “casa di accoglienza” per le donne uscite dal carcere in una società che ha molte similitudini con la nostra dove i pregiudizi nei confronti dei carcerati, considerati “scarti”, sono ancora molto forti. A partire dalla presentazione del libro “E-mail ad una professoressa - Come la scuola può combattere le mafie” (ed. Effatà) che, richiamando l’opera di don Lorenzo Milani, mette al centro l’importanza dello studio per contrastare l’illegalità, gli interventi dei relatori moderati da Marco Bonatti hanno rimarcato come le “parole, la cultura nei percorsi di rieducazione dei ristretti siano centrali per abbassare la recidiva e per dare un ‘futuro pulito’ dopo la pena”. Secondo Margherita Oggero, scrittrice, a lungo insegnante negli istituti torinesi, anche se la scuola è fondamento per crescere buoni cittadini “da sola non ce la può fare senza una classe politica che metta al centro comportamenti che contrastino tutte le forme di illegalità”. Emma Avezzù, procuratore dei Minorenni del Piemonte e della Valle d’Aosta, Elena Lombardi Vallauri, direttore del carcere delle Vallette “Lorusso e Cutugno” e Monica Cristina Gallo, garante dei detenuti del Comune di Torino, hanno fotografato luci e molte ombre della condizione carceraria torinese tra sovraffollamento, strutture fatiscenti, emergenza sanitaria, carenza di personale e mancanza di opportunità di lavoro per chi torna in libertà. Arturo Soprano, presidente emerito della Corte d’Appello di Torino e membro del Consiglio di amministrazione dell’Opera Barolo, ha concluso con una puntuale analisi sui “mali” della situazione dei penitenziari italiani richiamando la necessità di educare le nuove generazioni alla legalità con le parole di Paolo Borsellino: “La lotta alla mafia deve essere innanzitutto un movimento culturale che abitui tutti a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità”. Il ciclo di incontri a Palazzo Barolo si concluderà a dicembre: prossimo appuntamento venerdì 15 marzo alle 17 su: “Art. 27 della Costituzione: le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”. Torino. “Ero carcerato, la scuola avrebbe potuto salvarmi” di Marina Lomunno vocetempo.it, 26 gennaio 2024 Perché loro e non io?”; “Perché loro sono dentro e io fuori?”; “Ero carcerato e siete venuti a trovarmi”; “Bisogna vedere, bisogna starci in carcere, per rendersene conto”. Quattro citazioni (Papa Francesco, la marchesa Giulia di Barolo, Gesù - Matteo 25,36, Pietro Calamandrei, giurista e parlamentare che nel 1948 visitando le galere della Penisola ne denunciò la situazione drammatica) hanno fatto da filo conduttore, venerdì scorso, all’incontro inaugurale del ciclo di sei incontri sul Sistema carcerario promossi, nel 160° della morte della Marchesa Giulia, dall’Opera Barolo, nel Palazzo di via delle Orfane a Torino, in collaborazione con “La Voce e Il Tempo”. La grande affluenza di pubblico - oltre 200 persone, numerosi i rappresentanti istituzionali tra cui Edoardo Barelli, presidente della Corte d’Appello di Torino e Maria Grazia Grippo, presidente del Consiglio comunale - come ha evidenziato l’Arcivescovo Repole, presidente dell’Opera Barolo, “è un bel segno di attenzione della città e della comunità cristiana all’umanità sofferente e spesso dimenticata che sconta la propria pena nei penitenziari cittadini”. Torino ha una tradizione di attenzione alle persone fragili che cadono nelle maglie dell’illegalità perché spesso “nati nella culla sbagliata”, è la città dei santi sociali che si sono spesi per il riscatto dei reclusi. Don Bosco inventò il suo sistema preventivo visitando i ragazzi “discoli e pericolanti” alla “Generala “ (oggi il carcere minorile “Ferrante Aporti”); san Giuseppe Cafasso, confessore dei condannati a morte, è patrono dei carcerati; la marchesa di Barolo nel 1821 presentò al Governo una relazione sulla disumana situazione delle carceri cittadine contribuendo con proposte concrete alla realizzazione della prima vera riforma carceraria e fondò una “casa di accoglienza” per le donne uscite dal carcere in una società che ha molte similitudini con la nostra dove i pregiudizi nei confronti dei carcerati, considerati “scarti”, sono ancora molto forti. A partire dalla presentazione del libro “E-mail ad una professoressa - Come la scuola può combattere le mafie” (ed. Effatà) che, richiamando l’opera di don Lorenzo Milani, mette al centro l’importanza dello studio per contrastare l’illegalità, gli interventi dei relatori moderati da Marco Bonatti hanno rimarcato come le “parole, la cultura nei percorsi di rieducazione dei ristretti siano centrali per abbassare la recidiva e per dare un ‘futuro pulito’ dopo la pena”. Secondo Margherita Oggero, scrittrice, a lungo insegnante negli istituti torinesi, anche se la scuola è fondamento per crescere buoni cittadini “da sola non ce la può fare senza una classe politica che metta al centro comportamenti che contrastino tutte le forme di illegalità”. Emma Avezzù, procuratore dei Minorenni del Piemonte e della Valle d’Aosta, Elena Lombardi Vallauri, direttore del carcere delle Vallette “Lorusso e Cutugno” e Monica Cristina Gallo, garante dei detenuti del Comune di Torino, hanno fotografato luci e molte ombre della condizione carceraria torinese tra sovraffollamento, strutture fatiscenti, emergenza sanitaria, carenza di personale e mancanza di opportunità di lavoro per chi torna in libertà. Arturo Soprano, presidente emerito della Corte d’Appello di Torino e membro del Consiglio di amministrazione dell’Opera Barolo, ha concluso con una puntuale analisi sui “mali” della situazione dei penitenziari italiani richiamando la necessità di educare le nuove generazioni alla legalità con le parole di Paolo Borsellino: “La lotta alla mafia deve essere innanzitutto un movimento culturale che abitui tutti a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità”. Il ciclo di incontri a Palazzo Barolo si concluderà a dicembre: prossimo appuntamento venerdì 15 marzo alle 17 su: “Art. 27 della Costituzione: le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”. Ancona. La “Musicultura” entra nel carcere, così i detenuti diventano giurati radionuova.com, 26 gennaio 2024 Al via “La casa in riva al mare” il nuovo progetto del Garante regionale Giancarlo Giulianelli che va a inserirsi nell’ambito di Musicultura, il festival della canzone popolare e d’autore. L’iniziativa offre ad un gruppo di detenuti dell’istituto penitenziario di Ancona l’opportunità di partecipare a laboratori musicali, curati dall’associazione Musicultura. Nel corso della conferenza stampa di presentazione, Giulianelli ha evidenziato come questi eventi rappresentino “un momento importante sul versante della rieducazione del detenuto, un confronto aperto, uno spazio dove trasformare il tempo perso in opportunità, in partecipazione. È una filosofia che ci accompagna nella scelta d’iniziative di qualità, chiamate a fornire ulteriore spessore alle attività trattamentali”. Ne è convinto anche il Direttore artistico di Musicultura Ezio Nannipieri che ha voluto ricordare come il progetto abbia preso forma l’estate scorsa dopo aver conosciuto Giulianelli. “Sono seguiti - ha specificato - alcuni interessanti incontri che mi hanno consentito di mettere a fuoco la delicatezza e l’importanza della funzione che svolge. È proprio su suo impulso che il progetto nasce, con l’intento di contribuire a tessere connessioni, nel nostro caso umane e culturali, fra persone che si ritrovano a vivere detenute e la realtà esterna al carcere”. Tutto questo chiedendo in primis aiuto alle canzoni, che per Nannipieri sanno essere “passe-partout formidabili d’accesso al nostro sentire profondo e proiettare l’immaginazione al di là di ogni muro. I brani in concorso porteranno nel perimetro del Barcaglione uno spaccato di vita, idee, sentimenti che mi auguro sia di nutrimento mentale ed emotivo per persone private della libertà per i reati commessi, ma non della loro umanità. E credo sia da rimarcare come dal carcere, attraverso il verdetto della giuria dei detenuti, uscirà un messaggio che inciderà concretamente sulle vicende del concorso stesso”. Nel panorama di interscambio delle diverse esperienze rientra il coinvolgimento dell’azienda agricola della Casa di reclusione di Barcaglione, che durante le iniziative di Musicultura proporrà in vendita al pubblico l’olio, il miele e i formaggi prodotti all’interno dell’istituto penitenziario. Le finalità del progetto hanno infatti trovato da subito un’interlocutrice nella Direttrice degli istituti penitenziari di Ancona (Montacuto e Barcaglione), Manuela Ceresani. “Il nostro obiettivo - ha detto - è quello di mettere in piedi attività che inneschino il processo di reinserimento sociale. Possono essere realizzate soprattutto quando c’è qualcuno che dall’esterno è disposto a spendersi e sperimentarsi, a creare l’aggancio tra il dentro e il fuori. In questo caso parliamo di musica che è un elemento importante per il benessere sia sul versante della responsabilizzazione, sia su quello della gestione delle emozioni”. Il percorso dei laboratori - Nel complesso i percorsi laboratoriali saranno improntati a favorire lo sviluppo di competenze di analisi musicale utili a entrare consapevolmente nel vivo degli ascolti delle canzoni in concorso al festival. Al tutor di Musicultura Edoardo Bartolini e ai professionisti del settore che interverranno ai laboratori si affiancherà la Presidente dell’Associazione “Art’O” Francesca Marchetti, da anni impegnata con iniziative culturali nella realtà carceraria. Previste la formazione di un’apposita giuria di detenuti e l’istituzione del Premio “La Casa in riva al mare”, che sarà conferito a uno degli otto artisti finalisti della trentacinquesima edizione del festival nell’ambito delle serate finali del festival, in programma allo Sferisterio di Macerata il 21 e 22 giugno. I laboratori musicali si protrarranno fino allo stesso mese di giugno e si prevede, tra l’altro, di raccogliere e portare all’attenzione del pubblico alcune testimonianze dei membri della giuria dei detenuti. Quest’ultima, oltre a designare il vincitore del Premio “La casa in riva al mare”, svolgerà una funzione consultiva nei confronti della commissione di ascolto di Musicultura. “La casa in riva al mare” sarà anche al centro de “La Controra 2024”, la sezione che nella settimana conclusiva del festival anima con un ricco e variegato programma di concerti, recital, dibattiti, incontri il centro storico di Macerata. Con la collaborazione del Garante sarà, infatti, creato un apposito evento dedicato a tracciare un primo bilancio del progetto e a proporre una più generale riflessione sugli effetti positivi che adeguati percorsi possono avere sulle prospettive future delle persone detenute. Il progetto si concluderà a luglio, quando l’Artista vincitore del “Premio La casa in riva al mare” andrà a fare visita e conoscere, presso la Casa di reclusione di Barcaglione, i detenuti che lo avranno scelto e sarà protagonista di un happening musicale live. Busto Arsizio. “Non esistono ragazzi cattivi”, storie di cadute e risurrezione attraverso canzoni rap di Letizia Vanzini Il Riformista, 26 gennaio 2024 L’iniziativa organizzata da Don David Maria Riboldi. Ragazzi cattivi. Due parole che, accoppiate, ci fanno rabbrividire a causa della mentalità collettiva tradizionale che ci ha cresciuti. La nostra tendenza - quella delle persone “brave” e “pulite” - è quella di scappare e cancellare questa immagine dalla nostra testa per non avere nessun rapporto con questo termine e con queste persone che non hanno nulla a che fare con noi. Ma pensiamoci seriamente. Esistono veramente ragazzi cattivi? Una provocazione che mi è letteralmente arrivata addosso qualche sera fa. Al posto di andare a bere il solito drink con gli amici al tavolo di un bar, mi ritrovo seduta per terra in una sala stracolma di gente nella Parrocchia di S. Anna a Busto Arsizio. Sono lì per un incontro intitolato “Non esistono ragazzi cattivi. Storie di cadute e risurrezione”. A organizzarlo è Don David Maria Riboldi, cappellano del carcere di Busto Arsizio e fondatore della cooperativa sociale La valle di Ezechiele, che opera a servizio delle persone recluse e dei loro familiari. Intervengono Don Claudio Burgio, cappellano dell’Istituto Penale per Minorenni Cesare Beccaria di Milano, e sette ragazzi della comunità Kayros, una realtà fondata nel 2000 dal sacerdote per accogliere giovani con provvedimenti penali, amministrativi e civili in atto. Andy (19 anni), Morgan (19 anni) e Samuel (17 anni) davanti ad un pubblico si raccontano tramite le parole delle loro canzoni rap. L’incontro inizia con la classica domanda. Perché compiere un reato da giovani? Sono sbagliati questi ragazzi? O, come molti direbbero, cattivi. La risposta si trova nel primo brano “Papà”, dove i tre ragazzi raccontano di una mancanza della figura del “pa” che si è trasformata in un “taf taf - tu mi dai, io ti do”. Vendere droga e rubare per il mantenimento della famiglia, compiere azioni per farsi valere nel quartiere e dimostrare agli altri di essere qualcuno, il figlio che il “pa” avrebbe dovuto veder diventare grande. Allora non sono ragazzi veramente cattivi?! È il momento del secondo brano, “Gommapiuma” di Samuel. Il ragazzo in queste parole tira fuori il suo carattere. Contro chi? Contro lo stato che si è posto in modo violento di fronte al suo atto violento. Uno stato che non ha saputo prenderlo per mano. Questi ragazzi si sentono etichettati nel profondo della loro persona. Non è una giustificazione al reato, ma sono anche queste ferite a determinare i percorsi. La risposta al marchio che questi ragazzi si sentono addosso, entra in gioco nel rap “Gang Paradise” (di nome e di fatto) di Morgan. Un paradiso fatto di cosa? “Di una valanga di soldi” che, con l’andare avanti della testimonianza, si svela essere in realtà un guadagnare per aiutare la madre. “Non volevo dimostrarmi dolce…Si il successo per te, ma per le persone che ami fai di più”, dice Morgan. E il futuro? È una parola bella o complicata? Andy risponde: “Spero che il futuro sia meglio del passato perché se è così siamo tutti fregati qua. Ho paura, non voglio vivere di sopravvivenza. Purtroppo, io non so vivere, so solo sopravvivere”. Tuttavia, il futuro arriva se semini qualcosa oggi, quindi non è vero che sei finito adesso. L’incontro prosegue con la canzone “Giambellino” di Andy. Si arriva così al tema del fallimento, argomento che colpisce chiunque. Anche chi, come me, in cella non ci è finito. In una società che ti premia solo se sei bravo ed eccelli in qualcosa, non puoi fare altro che sentirti difettoso e “non giusto”. E qui entra in gioco il senso di inadeguatezza che riempie la nostra società. Quando si fallisce, cosa si fa? lo condivido le mie fragilità con le persone di cui mi fido. Ma, sinceramente, vi sembra facile far emergere una tua debolezza?! No, non lo è, ma riconosco che la fiducia in se stessi e negli altri è l’unica soluzione. Se ti fidi, non sei da solo. E, se non sei solo, è quasi impossibile sentirsi un fallito perché se inciampi c’è sempre qualcuno pronto a prenderti per la maglietta o, se cadi, a tirarti su e ripulirti dallo sporco e dalle ferite. “L’affetto è qualcosa che riempie la vita”, conclude così l’incontro Don Claudio Burgio. Questo è ciò in cui mi sono imbattuta in un casuale venerdì del mese di gennaio. Una riflessione non solo su “quei ragazzi cattivi”, ma piuttosto sul mondo in cui viviamo e del valore che noi stessi abbiamo come persone. La vita attorno al nostro piccolo cerchio della quotidianità, ha un valore. Esattamente un mese prima mi ritrovavo a riflettere su queste tematiche per un progetto scolastico incentrato “sull’io” in quanto uomo, e sulle sue domande profonde ed enigmatiche: in un mondo di valori, io, chi sono? Perché valgo? E ora, da questa provocazione che ha avuto un certo impatto sulla mia ricerca, non posso far altro che ammettere di pormi spesso questa domanda in tutte le sue forme disparate. Ma sono valida? Posso farcela? Nella vita mi è capitato di fallire mancandomi di rispetto; che ne sarà di me e della mia ferita? Ad oggi non sono in grado di rispondere in modo certo a queste domande. Tuttavia, sono sicura che da un progetto scolastico e da una semplice serata ho ricavato un insegnamento per la vita. “Bene - ti chiederai - cosa c’entra tutto questo con me? Non sono mica un delinquente in prigione!”. Qui sta l’errore. Non sarai mai finito dietro le sbarre, ma, come dice Don Claudio Burgio, “dalla cella puoi rinascere, nella cella non muori”. Quest’immagine non appartiene solo al mondo dell’IPM e della giustizia. Non è altro che uno schiaffo che ricorda a tutti noi, nessuno escluso, la cella che ogni giorno ti crei entrando nel loop dei castelli dell’inadeguatezza senza renderti conto delle doti che hai e dei valori che ti circondano. Questo è quanto ci insegnano quei ragazzi “cattivi” che vengono giudicati spacciati, ma che con le loro canzoni urlano al mondo il loro valore. Quindi che fai?! Alzati e riparti perché vali. Livore, odio, vergogna. Le relazioni social ci stanno divorando di Barbara Stefanelli Corriere della Sera, 26 gennaio 2024 La promessa degli esordi di internet (il riconoscimento reciproco) travolta dai meccanismi della polarizzazione. Consigli di lunga vita, una piccola lista. I primi sono sull’alimentazione, il movimento, i controlli medici. Il penultimo propone di “ridurre lo stress”. L’ultimo di “aumentare le relazioni sociali”. L’articolo rilancia fiducioso una ricerca sull’ aging, che non dovremmo tradurre con “invecchiamento”. È semplicemente “l’età”, e a quanto pare non stare soli ci salverà. Un utente, che legge la sintesi postata su Instagram, commenta: “Ma se devo aumentare le relazioni, non potrò mai ridurre lo stress!”. Saluta con l’emoji che si sbellica. E un po’ fa ridere, sì, ma l’intuizione è amara, disperante. Siamo sopraffatti dal livore che fluisce/rifluisce sui social network e spesso, come fosse un’attitudine nervosa ormai irriflessa, si fa strada fuori dalla bolla e allaga il mondo che un tempo definivamo “il mondo reale” e oggi pare ridotto a perimetro di giornate tutte digitali. Le nostre “relazioni sociali”, che secondo gli studiosi dovrebbero proteggerci dalla decadenza, sono diventate in gran parte “connessioni”, membrane di bytes e non di pelle. Spesso ambigue e pericolose come i Gremlins della commedia di Joe Dante del 1984: graziosi animaletti che - se li esponi a una luce forte o li nutri dopo mezzanotte - si duplicano diventando una banda di malvagi fuori controllo. Nel film, le regole per evitarne la mutazione, consegnate dal venditore alla famiglia, si rivelano incerte, incomplete e comunque impossibili da rispettare. Sin dal flash della foto di benvenuto a casa. Quando discutiamo di hate speech, di discorsi di odio e del male che provocano, approdiamo spesso alla conclusione che il problema siamo noi. E non il mezzo. Non i cellulari, la tecnologia, gli algoritmi. Non gli strumenti, bensì l’uso che ne facciamo. Forse anche noi non abbiamo saputo rispettare le regole del venditore? Nessuno ha avuto il tempo di pensarle, quelle norme e tutele, o anche solo di leggerle quando qualche “comitato etico” - emanazione di modelli di business planetari - si è affannato a buttarle giù, a posteriori, incalzato dai pochi regolatori rimasti in piedi. La verità è che questa volta il mezzo ci sta sovrastando. Perché, dalle guerre alle cose della vita, la polarizzazione è il meccanismo vincente. Ha travolto il riconoscimento reciproco, che era la grande promessa democratica di Internet agli esordi: la possibilità di raggiungerci e rispecchiarci, di mettere insieme informazioni e identità, ovunque, oltre i confini, oltre ogni previsione e immaginazione, navigatori e nomadi. Il cielo finalmente in una stanza. La rivoluzione dei social, esponenziale, ha creato invece un baratro: tra i competenti, capaci di far combaciare ogni frammento di innovazione, e i disarmati, destinati ad essere trascinati, sacrificati, esposti a nuove forme di vergogna pubblica davanti a folle invisibili. Ora una terza stagione, quella dell’Intelligenza artificiale, già preme e sovverte. Abbiamo bisogno più che mai di “aprire” il mezzo, riflettere sulle regole comuni e i comportamenti individuali, magari chiudere “la prima Repubblica social” - come è stata chiamata - per tentarne una nuova. La soluzione non può essere ricominciare come se non fosse successo nulla. Ma neppure vorremmo battere in ritirata, abbandonando la piazza al rimbombo della Schadenfreude, cioè il piacere per la malasorte degli altri. Intervista a Edith Bruck: “Voglio insegnarvi a non odiare” di Luca Monticelli La Stampa, 26 gennaio 2024 La scrittrice: “I ragazzi che incontro nelle scuole si dicono antifascisti.Dopo il 7 ottobre, ho visto una colpevolizzazione collettiva degli ebrei”. Finché avrò la forza di parlare racconterò ai giovani la mia storia. Io vado avanti perché la memoria è fondamentale, vitale. Anche solo salvare la coscienza di dieci ragazzi significa che la mia esistenza non è stata inutile”. Edith Bruck, scrittrice, sopravvissuta ai lager nazisti, continua a portare nelle scuole la sua testimonianza per non dimenticare l’orrore della Shoah. Nata in un piccolo villaggio di contadini in Ungheria, a 13 anni, nel maggio del ‘44, con il padre, la madre e altri familiari, Edith Bruck viene strappata dalla sua casa e deportata in un ghetto al confine con la Slovacchia. Da lì ad Auschwitz e poi a Kaufering, Dachau e infine a Bergen Belsen fino al 15 aprile del ‘45, quando il campo di sterminio è liberato dall’esercito britannico. Finita la guerra raggiunge la sorella a Budapest e comincia il suo lungo viaggio: prima nell’allora Palestina, poi di nuovo in Europa, ad Atene, a Zurigo, a Napoli e a Roma, dove vive dal 1954. Oggi assiste incredula e attonita a un mondo costantemente in guerra, il suo incrollabile spirito da intellettuale impegnata la spinge a denunciare le ingiustizie, e a mettere in guardia l’Italia e l’Europa perché “l’unicità della Shoah venga preservata”, sottolinea. La strumentalizzazione di chi pensa di “paragonare la Shoah al dramma di Gaza mi fa soffrire. L’antisemitismo è ancora molto presente nella nostra società: gli ebrei sono accusati di una colpa collettiva. Ci dicono “voi” e ci accusano delle politiche del governo israeliano, mi chiedo cosa c’entri un ebreo italiano o francese con quel che decide Netanyahu”. Il suo ultimo libro, edito da La nave di Teseo, è uscito in questi giorni, si intitola I frutti della memoria e raccoglie le lettere e i disegni degli studenti incontrati da Bruck negli ultimi anni. Quali sono i frutti della memoria? “La speranza è il frutto più dolce. Questi ragazzi che ho incontrato nelle scuole hanno capito quel che è accaduto e hanno giurato che non diventeranno fascisti. I giovani ascoltano anche con gli occhi, hanno bisogno di sapere perché oggi purtroppo non hanno molti rapporti con i genitori e con i nonni, sanno qualcosa degli orrori della Shoah grazie al cinema, però la fiction non assomiglia mai alla verità. A scuola la storia si studia poco e male, quindi la consapevolezza che riescono ad acquisire è la mia consolazione”. Com’è nata l’idea di fare questo libro? “Ho sempre ricevuto lettere e disegni, non volevo perderli. Mi dispiace aver dovuto fare una selezione e averne lasciati fuori molti, però non si poteva pubblicarli tutti”. Dalle lettere emerge che i giovani si sentono cambiati dopo averla incontrata e ascoltata... “La loro voglia di sapere è per me un dovere morale, il loro ascolto mi riempie di speranza, che saranno migliori dei loro predecessori, che vivranno in pace. La mia vita testimonia che c’è sempre una luce nel buio a cui aggrapparsi. Non è mai tutto violenza e odio, mai tutto è perso. A ogni essere umano dobbiamo rispetto, mai rivalsa, vendetta, odio”. Come fa a toccare le corde degli studenti così nel profondo? “È importante trasmettere le emozioni. Ci emozioniamo insieme, loro piangono e anche io piango. Vogliono sedersi accanto a me e baciarmi, e anche io li bacio. Ogni volta è una cosa bellissima. A loro racconto le luci nelle tenebre, perché non si può descrivere solo la sofferenza e il disastro, molte volte sono io imbarazzata a dire quel che hanno fatto e fanno gli uomini. Non parlo delle cose atroci, che ho visto nazisti giocare a calcio con la testa di un bambino. Alcune cose sono indicibili”. La luce nel buio e la fiducia negli esseri umani sono temi ricorrenti nei suoi libri... “Papa Francesco mi ha detto: “Edith, basta una goccia di bene per migliorare questo mare nero”. E io gli ho risposto che ho fatto una pozzanghera”. Al Pontefice ha raccontato anche del soldato tedesco che ad Auschwitz le ha dato un guanto bucato... “Quando è venuto a trovarmi a casa il Papa mi ha chiesto: “In quel buco nel guanto cosa c’era?”. “La vita”, gli ho risposto”. Non prova mai rancore o vendetta? “Mai, sono totalmente libera, non c’è spazio in me per sentimenti di vendetta e odio. È la mia salvezza, io non ho odiato neanche i nazisti, mi facevano pena per la loro disumanità. Ricordo i quattro ragazzini della gioventù hitleriana che nel campo, mentre eravamo alla disinfestazione, ci sputavano nelle parti intime raccogliendo più saliva possibile. Io li guardavo non con odio ma con pena, loro sono stati disumanizzati dalla scuola nazista. Testimonio dal 1959, da quando è uscito il mio primo libro. Non dobbiamo essere pessimisti, io credo che quando noi sopravvissuti non ci saremo più qualcosa rimarrà, i giovani faranno testimonianza per noi”. Quest’anno il Giorno della memoria si celebra in un clima diverso, c’è il tentativo di sovrapporre la Shoah ad altre tragedie. Gli studenti palestinesi hanno annunciato una manifestazione a Roma il 27 gennaio citando Primo Levi. Che cosa ne pensa? “Nulla è paragonabile alla Shoah, allo sterminio di sei milioni di ebrei, bisogna preservare la sua unicità. È stata una fabbrica di morte programmata a tavolino. I nazisti hanno usato persino i capelli e i denti dei morti ammazzati. Mi fa soffrire sentire certi discorsi, così si attenua la gravità della Shoah”. L’Europa vive una recrudescenza dell’antisemitismo, perché? “L’antisemitismo è ancora molto presente nella nostra società, dopo l’inizio della guerra a Gaza ho visto subito una colpevolizzazione collettiva degli ebrei, è una cosa tremenda. Ci dicono “voi” e ci accusano delle politiche del governo israeliano, mi chiedo cosa c’entri un ebreo italiano o francese con quel che decide Netanyahu, possiamo essere d’accordo o in disaccordo con la politica israeliana ma perché disegnano le svastiche, le stelle di David e deturpano le pietre d’inciampo? È Hamas che ha detto che vuole uccidere gli ebrei in tutto il mondo. Il guaio è che gli ebrei vengono giudicati nel loro insieme, sempre. Le voglio raccontare un episodio rivelatore, mi capitò con il mio amico Calvino”. Cosa successe? “Un giorno venne qui a casa e mi disse: “Voi dovete andare in America perché il vostro pubblico di lettori è là”. Io gli risposi: “Cosa vuol dire voi? Voi ebrei?”. Io sono sempre cresciuta con questo “voi”. Se c’è un colpevole tutti gli ebrei sono colpevoli, se c’è un ricco, sono tutti ricchi. Gli ebrei vengono giudicati ovunque, nel bene e nel male, insieme”. Dopo questo libro come proseguirà la sua opera sulla memoria? Continuerà ad andare nelle scuole? “Vado avanti finché ho la salute e la voce, è importante, dà un senso alla mia sopravvivenza. Queste lettere e questi disegni ripagano di tutta la mia fatica e mi confermano che è utile quello che sto facendo”. Migranti. Inferno Cpr, a Trapani rivolte e trasferimenti di Giansandro Merli Il Manifesto, 26 gennaio 2024 La protesta contro i rimpatri e le condizioni di detenzione distrugge buona parte del centro di trattenimento per migranti. La struttura ha un’ambiguità giuridica: hotspot e detenzione. Il modello ha già fallito, ma il governo vuole esportarlo anche in Albania. La prefettura di Trapani sembrerebbe orientata a trasferire tutti i migranti presenti nel Cpr alla periferia della città siciliana. La struttura è stata resa in buona parte inagibile dalle fiamme di una rivolta esplosa lunedì dopo il rimpatrio di 29 cittadini tunisini. Nel centro erano presenti poco meno di 150 persone. Un tetto sulla testa è rimasto solo per una quindicina di migranti, sudamericani e subsahariani. Gli altri, principalmente nordafricani, sono rimasti per due notti all’addiaccio, al freddo e con i vestiti bagnati: le forze dell’ordine avevano reagito con idranti e lacrimogeni. Una quarantina di trattenuti sono stati trasferiti ieri, non è chiaro se per un volo di rimpatrio o in direzione del Cpr di Caltanissetta. Nonostante ripetute sollecitazioni le autorità non rilasciano dichiarazioni. Le uniche informazioni disponibili restano quelle trapelate dalle persone detenute che sono riuscite a comunicare con l’esterno. La rivolta contro le espulsioni è stata covata dalle pessime condizioni del centro e dalle difficoltà ad accedere alle procedure ordinarie per la richiesta d’asilo. I Cpr sono tornati di recente al centro dell’attenzione pubblica. Due inchieste, a Milano e Potenza, hanno confermato le denunce che migranti, associazioni e inchieste giornalistiche fanno da anni: abusi di psicofarmaci, violenze, mancanza di assistenza sanitaria, limitazioni delle possibilità di difesa sono la realtà quotidiana di questi buchi neri del diritto consegnati a enti gestori privati che hanno il solo scopo di fare profitti. “Anche da Trapani riceviamo continuamente segnalazioni dall’interno che denunciano violazioni dei diritti fondamentali. I cittadini tunisini, visto che il loro paese è ritenuto “sicuro” dal governo italiano, spesso non hanno la possibilità di accedere alle pratiche ordinarie per la protezione internazionale”, afferma Yasmine Accardo, della rete Lasciatecientrare. “Nei mesi scorsi abbiamo notato che alcuni di loro non sono riusciti a nominare avvocati di fiducia. A questo si sommano le condizioni della struttura: bagni non funzionanti, cibo scadente, locali freddi. I Cpr vanno chiusi, sono un modello fallimentare. Invece il governo ha alzato a 18 mesi il massimo di detenzione”, continua. Le informazioni sono confermate dal report dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) che a novembre scorso aveva visitato la struttura rilevando la carenza di vestiti, prodotti per l’igiene personale e acqua calda, oltre a difficoltà nell’accesso all’assistenza sanitaria e legale. Il garante dei detenuti siciliano, Santi Consolo, in una visita del settembre 2023 aveva addirittura riscontrato la presenza di “immigrati con disabilità mentali evidenti, alcune dovute a segni di gravi traumi al capo”, descrivendo una struttura in cui letti, tavoli, sanitari, bagni e docce sono tutti realizzati in cemento armato. Il Centro di Trapani ha un’ambiguità giuridica perché in parte è destinato alle funzioni di hotspot - per l’identificazione dopo lo sbarco dei tunisini che arrivano a Pantelleria - in parte alla detenzione in attesa del rimpatrio. “Le condizioni del Cpr non sono degne di un paese civile”, attacca il segretario confederale della Cgil Sicilia Francesco Lucchesi che chiede l’intervento delle autorità regionali per la chiusura del centro. Il Pd chiede al governo di chiarire cosa è accaduto nella struttura. Il segretario di Sinistra italiana Nicola Fratoianni e i senatori dem Antonio Nicita, Annamaria Furlan e Vincenza Rando hanno presentato interrogazioni parlamentari. “Il livello di servizi e assistenza nel Cpr di Trapani, come degli altri sul territorio nazionale, è ai minimi storici. L’Ue non può far finta di non vedere cosa accade in Italia”, afferma l’eurodeputato Pd Pietro Bartolo. Dal governo non sono arrivate spiegazioni o commenti. Del resto cosa potrebbe dire chi, nonostante tutte le evidenze, ha deciso di puntare sulla detenzione amministrativa: annunciando un Cpr per regione e addirittura esportandoli in Albania. Dove, è facile immaginare, le tensioni potranno solo moltiplicarsi. Migranti. Cpr di Trapani, vicina a Guantanamo di Luca Casarini L’Unità, 26 gennaio 2024 Ciò che in queste ultime 48 ore è accaduto all’interno del Cpr di Trapani, ha illuminato per un attimo ciò che sono i centri di detenzione per il rimpatrio, costruiti con l’impostazione del carcere duro da deportati, tipo quelli che ormai pullulano lungo le frontiere europee. Grandi inferriate a barriera successiva, moduli più simili a celle che a ricoveri abitativi, niente mensa ma solo pasti forniti in vaschette di alluminio da catering, freddi ed insufficienti, una sola doccia calda, molto spesso guasta, per oltre cento persone, letti in cemento dove si appoggiano materassi lerci, quando ci sono. Milo, la frazione di Trapani dove l’hanno costruito, è un luogo fuori dal mondo, perché è in questo isolamento che possono attuarsi fino in fondo i propositi dei carcerieri, e cioè i governi che decidono in tutta l’Unione di combattere i profughi e i migranti attraverso i dispositivi di respingimento. La detenzione amministrativa, - perché l’unica colpa delle persone detenute è quella di avere chiesto asilo o di essere state definite non idonee ad ottenerlo - è dall’introduzione degli accordi di Schengen sulla libera circolazione interna in Europa uno di quelli principali. I nomi cambiano, Cpt prima, Cpr oggi, ma la sostanza è innanzitutto questa: si prendono esseri umani, finanche minori, e si chiudono dentro campi di detenzione perché si vuole respingerli. Dove si vogliano respingere ormai non è nemmeno così importante: il patto con l’Albania dimostra quale sia l’approccio di tutta l’Europa politica, non solo del governo Meloni. Dall’esternalizzazione delle frontiere, cioè il lavoro sporco di cattura e detenzione dei migranti fatto fare ai paesi africani o alla Turchia del dittatore Erdogan, si è ormai passati all’esternalizzazione in paesi esterni all’Unione delle carceri per migranti e profughi. Questo dispositivo, la carcerazione per innocenti, ha innanzitutto lo scopo di lanciare un messaggio: riuscite ad arrivare? Vi mettiamo in galera. Proprio lo status ibrido di questi luoghi, che non hanno lo statuto di un carcere, e allo stesso tempo non sono luoghi di accoglienza da dove si possa liberamente uscire, garantisce quella impunità nella gestione davvero terrificante delle vite delle persone che ci finiscono dentro. Recenti inchieste di magistrati non distratti, hanno portato alla chiusura di alcuni lager, da Milano a Potenza. È più simile alla realtà definire deportati e non detenuti, coloro che sono imprigionati in questi luoghi. È una deportazione non solo verso luoghi fisicamente di difficile accesso perfino per parlamentari e avvocati, ma anche da uno stato di diritto a uno di eccezione. Come in guerra, la natura ibrida di questo inferno per chi ci capita dentro, afferma l’esistenza di una deroga alla Costituzione, alle Convenzioni internazionali, alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Se volessimo aprire una riflessione seria, sarebbe da segnalare quanto comincino a convergere le condizioni dei reclusi delle nostre carceri, con quelle dei deportati dei Cpr. Il numero dei suicidi che sono il vero biglietto da visita delle patrie galere, nonché l’epigrafe da morto per tutto quello che la Costituzione dichiara in termini di diritto al reinserimento, di trattamenti umani, è un segnale di quanto si sia sulla strada della barbarie, e soprattutto di una logica concentrazionaria, che fa a pezzi ogni teoria sulla funzione sociale della pena. Se entri nel girone infernale, sono solo affari tuoi come ne potrai uscire, se vivo o morto. È vero che la differenza fondamentale fra detenuti e deportati, continua ad essere il fatto che i primi sono in mano ad un percorso di giudizio, e i secondi invece sono deportati in quanto esistono, e sono nati in altri paesi. Ma a guardar bene, tutto si uniforma pericolosamente, verso l’idea dei campi di concentramento per categorie di persone, che in qualche modo sono sgradite. Basta dare un’occhiata alla composizione sociale del carcere. Ogni inasprimento della vita dei reclusi, e ogni deroga alle normali prescrizioni di trattamento umano, a partire dalle celle in sovraffollamento, è fatto in nome della legalità. Nemmeno il fatto che la gente preferisca uccidersi piuttosto che continuare a vivere sotto tortura, fa scomporre i membri del governo. “Succede” ha dichiarato il Ministro Nordio, uno che a leggere i suoi libri era il paladino dello stato di diritto. Di queste persone, detenuti e deportati, è sgradito il fatto che esistano. O meglio, è sgradito il doversene occupare come se dovessero continuare ad esistere. Sui migranti è una linea europea e mondiale. Non è un caso che uno dei cavalli di battaglia di Trump per vincere le presidenziali sia la promessa di attuare una volta reinsediato alla Casa Bianca, “la più grande deportazione di clandestini mai vista dagli Usa”. A Milo, provincia di Guantanamo, secondo le autorità in queste 48 ore non è accaduto nulla. Dall’interno sono riusciti a fare sapere di cariche, feriti lasciati a terra, lacrimogeni, idranti. In questo momento 140 deportati sono stati rinchiusi nell’unica area rimasta agibile dopo le proteste. Ci sono letti e spazio coperto per dieci, ne hanno ammassato più di cento. Un’interrogazione urgente al Ministro dell’interno è stata depositata su tutto ciò dai senatori senatori del Pd Nicita, Furlan e Rando. Ma non deve stupire la reticenza dei controllori: questo sono luoghi della sofferenza, della violenza esercitata su vite che non possono più avere il controllo su sé stesse, su scarti che vanno in qualche modo eliminati. Come si è potuto arrivare a tanto? È già successo, anzi forse è meglio dire che non ha mai smesso di succedere. Norme diverse, contesti storici anche, ma alla fine, resta la sostanza. Resta la volontà umana, che la direzione la indica da subito, anche a tragitto appena imboccato. E dunque, il nuovo “patto per la migrazione e l’asilo” , sottoscritto e approvato da tutti in Europa, “buoni” e cattivi, prevede la moltiplicazione di questi campi di detenzione per chi arriva e chiede asilo. Siamo sull’ibrido, né nazisti né democratici. Siamo sulla “terra di nessuno”, come lo è sempre stata la barriera con le lame tra Ceuta e Melilla, come lo erano gli interventi degli antisommossa nella Jungle francese, come lo sono le omissioni di soccorso che hanno causato centinaia di vittime a Cutro o Pylos. Quella terra di nessuno che è compresa tra Polonia e Bielorussia, dove i bambini vengono lasciati morire di freddo e di fame sotto gli occhi delle guardie di una parte e dell’altra. Terra di nessuno, come luoghi di nessuno sono i Cpr. È un modo per dire che quelli che sono chiusi lì dentro, sono nessuno. Non hanno nomi né storie. Forse, per i cattolicissimi al governo, non hanno nemmeno un’anima che li possa rendere in qualche modo degni di rispetto umano. “Inserite l’apartheid di genere nei crimini contro l’umanità” di Narges Mohammadi Corriere della Sera, 26 gennaio 2024 Questa è una lettera che l’attivista e premio Nobel per la pace, Narges Mohammadi, 51 anni, ha scritto dal carcere di Evin, a Teheran, per chiedere alle Nazioni Unite di inserire l’apartheid di genere nella lista dei crimini contro l’umanità “perché in tutto e per tutto simile all’apartheid razziale”. Fare uscire dalla prigione le sue parole non è mai semplice e comporta per l’attivista altre punizioni e mesi dietro le sbarre. Pubblichiamo per intero la sua lunga missiva mandata in esclusiva per l’Italia al Corriere della Sera. Ad António Guterres, segretario generale dell’Onu, e agli onorevoli rappresentanti degli Stati membri delle Nazioni Unite, è venuto il momento di condannare ufficialmente l’apartheid di genere come crimine contro l’umanità. Per decenni, le donne iraniane si sono scontrate con varie forme di discriminazione in base al sesso e al genere, istigate dal governo della Repubblica islamica. Sistematicamente e deliberatamente, l’Iran ha imposto la sottomissione delle donne con tutti gli strumenti e i poteri dello Stato, in particolare tramite le leggi, al fine di perpetuare la negazione dei diritti umani delle donne. Sotto tali circostanze, non sono solo le donne, bensì l’intera società iraniana porta il fardello delle conseguenze strazianti e irreparabili di discriminazioni diffuse e profondamente radicate. In una società dove metà della popolazione vede negati i suoi diritti naturali, ogni dibattito sulla democrazia, sui diritti umani, sulla libertà e uguaglianza appare irrilevante. In Iran e in Afghanistan, entrambi i governi della Repubblica islamica e dei talebani hanno sfruttato con cinismo la sottomissione delle donne come mezzo per instaurare i loro programmi oppressivi ed esercitare controllo e repressione sull’intera società civile. Costoro si servono della religione per camuffare le mire dittatoriali e il loro governo totalitario. E tutto ciò accade mentre si compiono atrocità inenarrabili contro la popolazione femminile, sotto gli occhi di un mondo incredulo. Le discriminazioni di genere, economiche e sociali contro i singoli individui, a causa del loro sesso o genere, vengono compiute direttamente attraverso mezzi fisici o legali allo scopo di relegare costoro a posizioni di inferiorità: questo si chiama apartheid di genere, che sfocia non soltanto in fragilità sociali ed economiche, ma porta anche a danni fisici, talvolta irreversibili e mortali. Pertanto, siamo convinti che l’apartheid di genere debba essere riconosciuto come vero e proprio crimine contro l’umanità, in tutto e per tutto simile all’apartheid fondato sull’appartenenza razziale. Ci appelliamo con urgenza alla comunità internazionale, affinché si affronti tale questione e si intraprendano interventi decisivi per metter fine a questa discriminazione in Iran e Afghanistan. È indispensabile intraprendere misure per assicurare la vittoria della giustizia e dell’uguaglianza. Quindi, ci aspettiamo che le Nazioni Unite dichiarino l’apartheid di sesso e genere un crimine contro l’umanità in tutti i documenti legali internazionali. Noi affermiamo che questi governi - tra i quali la Repubblica islamica - hanno perpetrato questi crimini contro le donne a causa del loro sesso o genere, e i nostri argomenti poggiano sulla comprovata esistenza di politiche a scapito della popolazione femminile in ogni settore, politico, economico, sociale, culturale e scolastico, così come nelle loro leggi discriminatorie. Le leggi del governo: Questa è una panoramica delle leggi emanate a scapito delle donne per illustrare gli elementi della segregazione e sottomissione delle donne nella società iraniana. 1. Per ottenere un passaporto e viaggiare all’estero, la donna necessita del permesso del suo tutore legale, che corrisponde al padre per le figlie e al marito per le mogli. 2. Alle donne iraniane viene categoricamente vietato il diritto allo studio in certe facoltà universitarie, come l’ingegneria aerospaziale. 3. Deposizioni e testimonianze degli uomini nei tribunali iraniani vengono considerate pari a quelle di due donne. 4. Il prezzo di sangue (diyah) e l’eredità spettante alle donne corrisponde alla metà di quanto garantito agli uomini. 5. Da oltre quarant’anni vige il divieto di ingresso per le donne allo stadio, mentre le scarse deroghe elargite ultimamente non sono assolutamente allo stesso livello degli spettatori maschi. Inoltre, tali cambiamenti non sono validi in tutte le città. 6. In Iran, gli uomini possono contrarre matrimonio con quattro donne contemporaneamente. Il numero è notevolmente più elevato per i matrimoni provvisori, conosciuti con il termine di “Sigheh”. Al contempo, la punizione per una donna sposata che intrattenga una relazione adulterina con un altro uomo consiste nell’esecuzione capitale. In questo momento, mentre scrivo queste righe, una donna di nome Mitra in Iran è stata condannata a morte perché il marito l’ha denunciata per una relazione extraconiugale. Vale la pena sottolineare come l’uomo che ha intrattenuto questa relazione con Mitra è stato condannato alla fustigazione. 7. Gli uomini in Iran, grazie alla legge, possono divorziare agevolmente dalle consorti se queste diventano cieche in entrambi gli occhi. Dal canto loro, le donne non godono di pari diritto. 8. Varie forme di violenza di genere in Iran, abbinate all’inadeguatezza e all’inefficienza del sistema legale, costringono le donne in situazioni assai precarie. Ciò comprende le molestie in strada, la violenza coniugale, come pure violenza di genere sul posto di lavoro e nelle università. 9. Lo stupro coniugale non solo non è considerato un reato in Iran, ma gli uomini iraniani possono denunciare le mogli per “inadempienza” se rifiutano il rapporto sessuale. La legge in questione è a favore degli uomini e definisce le donne come “inadempienti”. 10. La cittadinanza in Iran viene riconosciuta esclusivamente attraverso i legami di sangue e la legge iraniana garantisce al padre ogni diritto come tutore legale. Una legge precedente sull’argomento è stata respinta, di fatto negando al bambino nato dal matrimonio di una donna iraniana con un uomo straniero il diritto ad ottenere documenti di identità come il certificato di nascita. 11. Negli ultimi 45 anni, il tasso di femminicidi, specie i cosiddetti delitti d’onore, è in crescita in tutto l’Iran. Secondo le organizzazioni dei diritti umani, dal marzo 2023 a oggi sono stati registrati in Iran oltre 52 casi di femminicidi, venti dei quali delitti d’onore. Di queste 52 donne, 11, ovvero il 21 percento, non avevano ancora compiuto i diciotto anni. La legge e i tribunali sotto questo aspetto si sono macchiati di inefficienza e di comportamento irresponsabile. 12. L’iscrizione a vari tipi di specializzazione medica e di assistente di odontoiatria per le donne in Iran è possibile solo con il consenso del marito. 13. Il mancato rispetto delle leggi sull’hijab per le donne è punito in Iran con 74 frustate, punizione che sarà inasprita con l’approvazione della legge sulla castità e sul velo. 14. Non è necessario ottenere l’autorizzazione al matrimonio per le ragazze minorenni in Iran se l’unione è stata approvata dal padre o dal nonno paterno. Le statistiche rivelano una preoccupante tendenza al rialzo nel numero delle spose bambine in Iran. Secondo il Centro statistico iraniano, durante i primi tre trimestri del 2022, oltre 20.000 matrimoni hanno coinvolto spose sotto i 15 anni di età, e 1085 sono state le nascite da madri di età inferiore ai 15 anni. Nella primavera del 2021, il numero di matrimoni di ragazze tra i 10 e i 14 anni ha fatto registrare un balzo del 32 percento, rispetto all’anno precedente. E queste cifre rappresentano esclusivamente le statistiche ufficiali. 15. La legge sulla giovinezza della popolazione, con il divieto esplicito di aborto su richiesta e criminalizzazione della pratica, oltre a un aumento delle sanzioni contro dottori, operatori e facilitatori dell’aborto, ha portato a un incremento negli aborti clandestini. Una situazione che mette in pericolo la vita delle donne per i metodi poco sicuri utilizzati e il timore di rivolgersi agli ospedali e alle cliniche. I metodi contraccettivi liberamente in vendita in passato sono stati limitati ed è stato avviato negli ospedali un sistema di registrazione delle gravidanze e di monitoraggio delle donne incinte. 16. Se un uomo causa la morte di una donna in Iran e la famiglia (gli eredi legali) chiedono un risarcimento secondo i principi della “qesas”, il responsabile è obbligato a pagare la metà del prezzo di sangue (diyah) di un uomo. Nel sistema legale iraniano, non esiste parità tra i cittadini, e il valore della vita di un uomo è considerato equivalente a quello di due donne. 17. La pena per la donna sposata che intrattiene relazioni adulterine con un altro uomo è la lapidazione, e benché la condanna non venga eseguita attualmente in Iran, le donne subiscono tuttora la minaccia della lapidazione. Secondo una nuova direttiva, i tribunali oggi hanno il potere di eseguire la condanna alla lapidazione. 18. L’età legale dell’obbligo religioso in Iran per le ragazze parte dai 9 anni, imponendo loro l’osservanza di pratiche come la preghiera, il digiuno e l’uso dell’hijab. Malgrado l’età legale per l’obbligo religioso sia fissato a 9 anni per le bambine, il ministero dell’istruzione ha imposto alle bambine l’utilizzo dell’hijab sin dai 6 anni, vale a dire, dal primo anno di scuola elementare. 19. Il parlamento iraniano in questo momento sta studiando una proposta di legge per suddividere i libri scolastici in maschili e femminili. I testi scolastici si propongono di rafforzare i ruoli di genere tradizionali e confinare le donne ai compiti di future mogli e madri. Struttura governativa: Negli ultimi 45 anni, malgrado un numero rilevante di donne in grado di proporre la propria candidatura alla presidenza, il Consiglio dei Guardiani ha ostacolato il loro ingresso in questa arena attraverso l’interpretazione delle leggi contro le donne. Il Consiglio dei Guardiani è da sempre una delle entità più potenti del governo nella sua posizione contro le donne, arrivando persino a respingere l’approvazione di una legge che consentirebbe al sesto parlamento di accedere al Convegno sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne (CEDAW), mandando in fumo ogni speranza per le donne iraniane. Per di più, il Consiglio dei Guardiani ha sempre appoggiato e promosso leggi e comportamenti contro le donne. Comportamento del governo: 1. Il comportamento del governo nei confronti delle donne è un chiaro esempio di discriminazione, che abbraccia tutti i settori dell’economia e della società. Imponendo le sue misure sull’abbigliamento e l’obbligo del velo, il governo compromette i diritti umani fondamentali e i diritti di cittadinanza delle donne. Alle donne è vietato l’accesso ai servizi sociali, didattici e sanitari se non rispettano l’obbligo dell’hijab. Alle studentesse universitarie non è consentito proseguire gli studi, e le commissioni disciplinari universitarie e i tribunali ostacolano le donne con il pretesto che non portano il velo. Le donne vengono espulse da incarichi di lavoro non governativi se rifiutano di portare il velo. Negozi e uffici, ristoranti e caffè subiscono le pressioni del governo per impedire l’ingresso alle donne non velate. In caso di infrazione, locali, uffici e aziende vengono chiusi. Un tale comportamento conduce all’emarginazione e a un crescente isolamento sociale delle donne. L’ingerenza del governo nella vita pubblica e privata delle donne raggiunge ormai livelli tali da impedire persino l’utilizzo di foto di donne sulle lapidi nei cimiteri, con la minaccia di distruggere quelle tombe che esibiscono immagini “indecenti”. 2. Questo comportamento discriminatorio ricorre spesso al maltrattamento fisico. La violenza fisica, che produce gravi danni a livello fisico, sessuale e psicologico, e che talvolta è causa addirittura di morte, viene sistematicamente impiegata contro le donne, come le punizioni crudeli e disumane quali le 74 frustate per non indossare l’hijab, secondo le leggi restrittive introdotte ultimamente. D’altro canto, le aggressioni sessuali, le molestie e i maltrattamenti inflitti alle donne incarcerate, le percosse e le violenze - spesso fatali - nei centri di detenzione, il confinamento delle donne che protestano negli ospedali psichiatrici, e l’utilizzo di droghe psicotropiche nelle celle di isolamento, sono tutti mezzi di tortura sistematica che il governo utilizza contro le donne. 3. Nell’oppressione e nella discriminazione istituzionalizzata contro le donne, il governo agisce nel pieno della legalità. Per 45 anni, il parlamento ha approvato tutta una serie di leggi contro le donne, poi confermate dal Consiglio dei Guardiani, e introdotte nel sistema giudiziario ed esecutivo. Varie organizzazioni e istituzioni, dotate di cospicui finanziamenti, sono state create per diffondere la propaganda del governo, dalla scuola primaria fino all’università. In un simile contesto, qualunque richiesta, protesta, o forma di resistenza contro leggi e comportamenti discriminatori, persino sottoforma di disobbedienza civile nella sfera sociale, risultano in violenza, incarcerazione e morte, aggiungendo un ulteriore giro di vite alla società, e soprattutto alle donne iraniane. Le passate azioni del regime della Repubblica islamica, in questi 45 anni di governo religioso e autoritario, fondato sull’apartheid di sesso e genere, si traducono nei molteplici aspetti della legge, delle strutture governative e dei comportamenti, che dimostrano chiaramente la volontà di segregazione e sottomissione delle donne. In questo momento, è auspicabile che le Nazioni Unite, riconoscendo e prendendo atto delle discriminazioni sistematiche presenti nelle leggi, nelle politiche e nei comportamenti dei governi di Iran e Afghanistan contro le donne, agiscano immediatamente per contrastarle. È essenziale che l’Onu dichiari tali pratiche come criminali. La mancata criminalizzazione di queste azioni assicura l’impunità dei responsabili, abbandonando le vittime al loro destino, senza nessuna forma di indennizzo. Ciò significa che oppressione e discriminazione saranno ancora praticate contro decine di milioni di donne iraniane e afghane, e non solo. Abbiamo urgentemente bisogno di interventi per metter fine a questa repressione crudele e disumana. Dichiarando reato l’apartheid di sesso e genere, introducendo definizioni legali più precise nelle leggi internazionali, emanando dichiarazioni di condanna dei sistemi di apartheid in Iran e Afghanistan, diffondendo le esperienze e i resoconti delle donne che vengono sempre di più sottoposte a questa tirannide distruttiva, sostenendo le istituzioni civili delle donne nella società iraniana e afghana, e appoggiando e proteggendo i difensori dei diritti umani perseguitati e imbavagliati dai regimi repressivi. È sufficiente modificare la bozza dei crimini contro l’umanità delle Nazioni Unite per includervi l’apartheid sessuale e di genere. Non è un percorso difficile ed è realizzabile. Le donne in Iran e Afghanistan aspettano l’attenzione immediata e l’azione dell’Onu per compiere questo passo irrinunciabile. È venuto il momento di criminalizzare l’apartheid di sesso e genere. È venuto il momento di far sentire la nostra voce e far valere le nostre ragioni. Stati Uniti. Primo condannato asfissiato con l’azoto, eseguita la pena di morte in Alabama di Antonio Lamorte L’Unità, 26 gennaio 2024 Si erano mobilitate Amnesty International, le Nazioni Unite, Nessuno Tocchi Caino, la Comunità di Sant’Egidio. Niente da fare: il boia ha colpito. Una tecnica considerata tortura anche dai veterinari. Kenneth Smith è morto: è stato giustiziato in Alabama, Stati Uniti, il detenuto 59enne condannato per omicidio. È stato il primo a essere condannato con l’azoto, per asfissia. Un’agonia durata 22 minuti. La vicenda aveva fatto il giro del mondo per la sua particolare crudeltà, disumanità. L’esecuzione era stata rinviata di alcune ore per attendere l’esito dell’ultimo appello alla Corte Suprema americana. La condanna a morte tramite il metodo dell’ipossia da azoto è considerata contraria ai diritti umani da diverse organizzazioni non governative e anche dalle Nazioni Unite, secondo cui si tratta di tortura. La condanna è stata eseguita nel carcere di Altmore. Smith era stato condannato nel 1989 per l’omicidio a coltellate di una donna, Elizabeth Sennet. Delitto commissionato dal marito della vittima, un predicatore, che voleva intascare i soldi dell’assicurazione e che aveva promesso 1000 dollari a Smith e a un altro sicario, già giustiziato nel 2010. Smith in tribunale disse di essere stato presente all’omicidio ma di non avervi partecipato. La giuria popolare chiese l’ergastolo, il giudice decise per la pena di morte. La condanna fallita di Kenneth Smith - La condanna fallì due anni fa, quando non si riuscì a trovare una vena del condannato, per proseguire con l’iniezione letale entro il termine stabilito dal mandato di morte dello Stato. Smith allora aveva denunciato una grave sindrome post traumatica da stress e i suoi avvocati avevano cercato di rinviare o annullare l’esecuzione invocando l’Ottavo Emendamento della Costituzione che vieta punizioni “crudeli e inusuali”. La vicenda aveva superato i confini nazionali. Se ne erano interessate anche Amnesty International, Nessuno Tocchi Caino e la Comunità di San’Egidio. Niente da fare: lo Stato - che ha uno dei più alti tassi di esecuzioni capitali pro capite negli Stati Uniti e 165 persone al momento nel braccio della morte - ha deciso di sperimentare una tecnica mai usata finora su un essere umano. Una pratica legale in Alabama ma finora mai utilizzata negli Stati Uniti. Tramite una maschera come quelle per somministrare ossigeno, una macchina pompa azoto gassoso per almeno 15 minuti o 5 minuti dopo che l’elettroencefalogramma risulti piatto. Si muore soffocati. Una tecnica considerata inadatta anche dai veterinari per l’uccisione di animali. L’esecuzione di Kenneth Smith - “Stasera l’Alabama fa fare un passo indietro all’umanità. Me ne vado con amore, pace e luce”, aveva dichiarato Smith prima di morire. Aveva fatto con le mani il segno del “ti amo” verso i familiari e infine aveva ringraziato: “Grazie per avermi supportato. Vi voglio bene, tutti”. Kenneth Eugene Smith è stato legato, sul volto la maschera che gli ha coperto naso e bocca. L’azoto puro a pressione è stato sparato dalla maschera, i polmoni incapaci di assorbire l’ossigeno. Per almeno due minuti il condannato è rimasto cosciente, i giornalisti ammessi all’esecuzione lo hanno visto tremare e contorcersi sulla barella alla quale era legato con delle cinture. Un funzionario ha infine descritto i movimenti del condannato come “involontari e imprevisti”. Il decesso è stato dichiarato alle 20:25. La governatrice dello Stato, Kay Ivey, dopo l’esecuzione ha diffuso una nota: “Dopo più di 30 anni e di tentativi per ingannare il sistema, il signor Smith ha pagato per i suoi crimini orrendi”. È stata la prima volta che una condanna a morte è stata eseguita con l’azoto da quando è stata introdotta l’iniezione letale nel 1982. I testimoni sono stati condotti nella sala accanto a quella dell’esecuzione. Una nota dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani ha osservato come “questo metodo non testato potrebbe essere estremamente doloroso, comportare un’esecuzione fallita e potrebbe equivalere a tortura o altri trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti, violando così i trattati internazionali sui diritti umani che gli Stati Uniti hanno ratificato”.