Carceri italiane, il dramma del sovraffollamento e il tema telefoni di Paolo Pandolfini Il Riformista, 25 gennaio 2024 Dall’inizio dell’anno sono infatti già 10 i detenuti che si sono tolti la vita. Un numero elevatissimo considerando che nel 2023 i suicidi erano stati complessivamente 68. Il 2024 è iniziato nel modo peggiore nelle carceri italiane. Dall’inizio dell’anno sono infatti già 10 i detenuti che si sono tolti la vita. Un numero elevatissimo, considerando che nel 2023 i suicidi erano stati complessivamente 68, che non può non obbligare ad una seria riflessione da parte di tutti gli operatori del settore. Per il presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi, David Lazzari, “la complessità del suicidio rende necessario un lavoro di staff che male si fa con chi è presente poco in termini di ore e di visibilità e, inoltre, per provare a incidere sulle molteplici cause di fatti così gravi è necessario saper leggere il contesto per agire anche con e sull’organizzazione”. Il primo problema che affligge le carceri italiane è certamente il sovraffollamento. Al 31 dicembre 2023 nei 189 istituti penitenziari, stando ai dati forniti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), a fronte di una capienza da 51.179 detenuti ne risultavano 60.166, fra cui 2.541 donne, alcune di loro in cella anche con proprio il figlio. Secondo il Garante nazionale l’indice di sovraffollamento sarebbe del 127,54 per cento, con punte del 232,1 per cento a San Vittore a Milano. In 15mila sono poi in carcere senza scontare una condanna definitiva, e circa 10mila addirittura in attesa del primo grado di giudizio. Secondo numerosi studi, l’aumento delle opportunità di comunicazione e dei legami con l’esterno non solo renderebbe più sopportabile la vita all’interno delle carceri, ma contribuirebbe anche a prevenire almeno alcuni dei numerosi suicidi che avvengono nelle strutture detentive. L’articolo 15 dell’ordinamento penitenziario prevede che il trattamento del condannato e dell’internato debba agevolare opportuni contatti con il mondo esterno e i rapporti con la famiglia. Oggi il limite è di una telefonata settimanale della durata di dieci minuti e sei ore di colloquio al mese. Durante il periodo dell’emergenza sanitaria, per mantenere i detenuti più sereni e per favorire i loro legami affettivi, erano state autorizzate videochiamate e telefonate quotidiane. Tale positiva iniziativa aveva permesso alle persone detenute di chiamare casa più spesso e di ‘rivedere’ così le famiglie. Come da più parti sottolineato, il mantenimento della possibilità di effettuare videochiamate e telefonate quotidiane sarebbe anche adesso di grande sollievo. È di tutta evidenza che queste forme di comunicazione consentono ai detenuti di mantenere i legami con i propri affetti, di sentirsi meno isolati, e di ricevere sostegno emotivo dall’esterno. Indispensabile per chi si trova ristretto in una cella. Tesi accolta anche dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, il quale nelle scorse settimane ha invitato a cercare un bilanciamento fra le esigenze di sicurezza e l’abbondante numero di detenuti, fornendo regole chiare per le telefonate. In questo scenario si inserisce poi il diritto del detenuto di conferire con il proprio difensore, un diritto inviolabile e che non può essere compresso dalla detenzione, a meno che non siano coinvolte altre questioni come le limitazioni temporanee stabilite dalla legge. Anche le telefonate con i difensori sono comunque strettamente regolate in base alle specifiche esigenze dei detenuti. Ad esempio, i detenuti con posizione giuridica di imputati possono intrattenere colloqui senza restrizioni, mentre per gli appellanti l’autorizzazione è subordinata a determinati motivi, come udienze in corso o imminenti. Per i detenuti definitivi l’autorizzazione è concessa solo in presenza di specifiche motivazioni, quali l’imminenza di una attività processuale. Sebbene le telefonate siano regolate, l’obiettivo principale è garantire l’accesso al difensore in modo equo e non discriminatorio. Le restrizioni sono applicate in modo differenziato, considerando le situazioni individuali e le esigenze processuali dei detenuti. Ogni istituto ha poi disposizioni interne che tengono conto della tipologia e del numero dei detenuti, delle tecnologie disponibili e dei mezzi a disposizione. Dal 2020 è comunque prevista una pena da 1 a 4 anni per chi introduce o detiene telefoni cellulari o dispositivi mobili di comunicazione all’interno di un istituto penitenziario. La disponibilità di telefoni cellulari in carcere è in costante aumento e consente ai detenuti di ‘aggirare’ il limite dei dieci minuti per le telefonate, creando, come si è appurato, una sorta di attività commerciale: una telefonata in cambio di sigarette, alimenti o vantaggi di vario tipo. Far telefonare di più tutti ed in modo regolare, come durante la pandemia, porterebbe quindi solo dei benefici. E con la tecnologia attualmente a disposizione non sarebbe certo un problema raggiungere lo scopo. È solo questione di volontà. Riformine e tante manette, ma sulla strage nelle carceri solo silenzio di Angela Stella L’Unità, 25 gennaio 2024 Il cantiere della giustizia è aperto, il ddl Nordio è pronto per l’Aula, ma l’anno che si è chiuso è soprattutto quello dei decreti sicurezza, all’insegna del panpenalismo. Si terrà stamattina presso la Corte di Cassazione l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2024. Sabato toccherà alle cerimonie nei singoli distretti di Corte di Appello e venerdì 9 e sabato 10 febbraio ci sarà la contro inaugurazione dell’Unione delle Camere Penali al Teatro Eliseo di Roma. Ma intanto che anno è stato questo sulla giustizia e cosa aspettarsi? Nel frattempo partiamo da un secco dato di cronaca. Entro il 28 di questo mese le commissioni giustizia di Camera e Senato avrebbero dovuto esprimere i pareri non vincolanti sui decreti attuativi della riforma dei magistrati fuori-ruolo e su quella dell’ordinamento giudiziario. Già si era in ritardo perché le norme sarebbero dovute essere approvate, a seguito già di un rinvio, il 31 dicembre ma ieri si viene a scoprire che, con il placet del Governo, è stato tutto posticipato alla prossima settimana. Il motivo? Si starebbe ancora ragionando e trattando se ridurre di più il taglio dei fuori-ruolo, già di per sé risibile, e se inserire i test psico-attitudinali per le toghe. Mentre Enrico Costa di Azione ha annunciato un proprio parere motivato almeno per non affossare le modifiche al fascicolo di valutazione del magistrato. “Il risultato era scritto in partenza: le correnti restano protagoniste, l’Anm non protesta più, i fuori ruolo restano tranquilli al loro posto, i magistrati amministrativi continuano ad avere incarichi e docenze mentre stanno in Tribunale”, ha detto il parlamentare calendiano. Insomma la partita sembra ancora aperta e però non facile da giocare. Sempre la Camera la scorsa settimana ha dato il via libera al ritorno della prescrizione sostanziale, cancellando dunque l’improcedibilità voluta come compromesso dall’ex Ministra Cartabia e la stagione pentastellata in materia. Ignorata la richiesta di una norma transitoria da parte delle 26 Corti d’appello d’Italia. Ora la palla passa al Senato dove, due giorni fa, è stato dato mandato alla relatrice Giulia Bongiorno della Lega di illustrare in Aula il ddl Nordio, un provvedimento che, come ha detto il vice ministro alla giustizia Francesco Paolo Sisto, “cambia il corso del processo penale che era diventato a baricentro accusa”. Innanzitutto è stato abrogato il reato di abuso di ufficio, e con esso ‘la paura della firma’ degli amministratori, poi si interverrà su traffico di influenze, contraddittorio, collegialità e misure cautelari, inappellabilità di alcune sentenze di assoluzione e grazie agli emendamenti di Forza Italia sarà vietato intercettare i colloqui tra avvocato e indagato, ove non costituiscano autonomo reato, e si impedirà di includere, nei verbali di trascrizione delle intercettazioni, dati che permettano di individuare terzi estranei al fatto reato. A Palazzo Madama si sta ancora però ragionando, tramite diverse audizioni, sui criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale. Li avrebbe dovuti definire il Parlamento come da riforma Cartabia, se ne è fatto carico il forzista Zanettin con un apposito disegno di legge. Non dimentichiamo però che quello passato è stato l’anno dei decreti sicurezza: solo a novembre il Cdm ne ha varati due con un lavoro interministeriale tra Difesa e Via Arenula. Il diritto penale è stato usato per sopperire alle inefficienze della prevenzione: questo il senso dei provvedimenti. Il filo rosso che li lega è stato quello dell’inasprimento delle pene e dell’introduzione di nuovi reati. Una vera epifania di panpenalismo al servizio delle forze dell’ordine. Ma non c’è da meravigliarsi, considerato lo spirito affatto garantista delle principali forze di maggioranza. Ricordiamo qualche passaggio: “si aggrava la pena per le ipotesi in cui la violenza, minaccia o resistenza a un pubblico ufficiale siano poste in essere nei confronti di un ufficiale o di agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria”. Inoltre “si inseriscono, tra i reati ‘ostativi’, le fattispecie già esistenti di “istigazione a disobbedire alle leggi” e di “rivolta in istituto penitenziario”. In questi casi, per concedere benefici penitenziari, il magistrato di sorveglianza dovrà valutare la positiva partecipazione al programma di riabilitazione specifica previsto per il detenuto. Come nei Cpr, anche negli istituti di pena ci sarà un inasprimento della pena con reclusione fino a 6 anni per le rivolte. Resta critica la situazione carceraria: due giorni fa un detenuto si è suicidato nel carcere di Verona e ieri uno a Teramo. È il quarto suicidio avvenuto in due mesi nel carcere veronese di Montorio. “Siamo a 10 persone detenute suicide in 23 giorni” ha scritto su Facebook la presidente di Nessuno Tocchi Caino Rita Bernardini che da due giorni, insieme al deputato di Italia Viva Roberto Giachetti, ha iniziato uno sciopero della fame: “152 suicidi in 24 mesi impongono a tutti una riflessione e un’azione”, anche se per il Guardasigilli sono inevitabili come la morte e le guerre. Questo dato, insieme al sovraffollamento, preoccupa il (vecchio) Garante dei detenuti - visto che la nuova terna tarda ad insediarsi - che ha commissionato uno studio a cura di Emanuele Cappelli e Giovanni Suriano. Secondo i dati fermi al 17 gennaio “si registra una popolazione pari a 60.382 persone detenute su una capienza effettiva di 47.300 posti disponibili”. In tutto ciò alcuni ordini dei giornalisti continuano a protestare contro la presunta legge bavaglio di Costa. Ma per una analisi corretta occorrerà attendere il passaggio in Senato e poi la modifica del 114 cpp da parte del Governo. Ultimo capitolo guardando al futuro è quello sulla separazione delle carriere: come dichiarato da Carlo Nordio al Parlamento qualche giorno fa, “se vogliamo farla seriamente, occorre una riforma costituzionale. La riforma costituzionale - lo sapete meglio di me - ha dei tempi; se, prima di quella, bisogna fare un’altra riforma costituzionale, questi tempi slittano, però vi posso dire che la riforma è nel programma di Governo e non andremo alle calende greche”. L’Italia è incapace di contrastare il sovraffollamento delle carceri di David Allegranti linkiesta.it, 25 gennaio 2024 L’ultima rilevazione conferma la tendenza crescente dei detenuti. Conseguenza inevitabile in un Paese le cui politiche penali, specialmente quelle dell’attuale governo, tendono a riempire il più possibile le celle (anche quando se ne potrebbe fare a meno). Sono passati oltre dieci anni dalla sentenza Torreggiani, adottata l’8 gennaio 2013, con la quale la Corte Europea dei diritti dell’uomo condannò l’Italia per violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani (Cedu). Un caso che riguardava trattamenti inumani o degradanti subiti da sette persone detenute per molti mesi nelle carceri di Busto Arsizio e Piacenza, in celle triple e con meno di quattro metri quadrati a testa disponibili. Nel 2012/2013, prima della sentenza, nelle carceri italiane c’erano tra i sessantaduemila e i sessantacinquemila detenuti. Alla fine del 2012 il tasso di sovraffollamento era del 139,67 per cento. Dopo la condanna, il governo riuscì a far scendere la popolazione detenuta a 62.536, con un indice di affollamento del centotrentuno per cento. Stando all’ultima rilevazione del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale - datata 11 gennaio 2024 - attualmente i detenuti sono 60.304. Il dato purtroppo è in crescita dal 2020 a oggi. Uno studio del Garante, appena pubblicato, a cura di Emanuele Cappelli e Giovanni Suriano, analizza il sovraffollamento carcerario nei centonovanta istituti penitenziari e certifica che l’incremento, fra il dicembre del 2020 e l’ultima rilevazione, è di 8.031 persone. A fine 2020 i detenuti erano 52.273, a fine 2021 erano 54.157, a fine 2022 erano 56.167, a fine 2023 erano 60.152 “Se si si escludono i soli due casi dei Provveditorati del Piemonte, Liguria e Valle D’Aosta e del Lazio, Abruzzo e Molise relativi alla rilevazione nel periodo 2021, il dato è sempre stato in progressivo aumento. Ciò malgrado i diversi provvedimenti normativi varati nello stesso periodo pandemico al fine di ridurre la popolazione carceraria con l’obiettivo del contenimento dei contagi”, scrivono i due ricercatori nel loro studio, che rileva “come il maggiore aumento del numero delle presenze di persone detenute negli Istituti penitenziari si sia registrato nel 2023, un dato quantitativo (3.985) che risulta quasi raddoppiato rispetto alle differenze tra i periodi precedenti (1.884 nel 2021 e 2.010 nel 2022)”. Entrando nel merito dei singoli Provveditorati regionali, si nota che l’aumento maggiore di detenuti è avvenuto in Lombardia (+1.184), seguito dai provveditorati di Lazio, Abruzzo e Molise (+1.175), Campania (+1.158), Sicilia (+1.106), Puglia e Basilicata (+1.028 persone). Attualmente, l’indice di sovraffollamento carcerario è del 127,48 per cento, contro il 113,18 per cento del 2020. Tra i Provveditorati che registrano il maggior divario tra la capienza e i posti disponibili si evidenziato quelli della Sicilia, del Lazio, Abruzzo e Molise e della Lombardia. Su centonovanta istituti ben centoquarantasei sono interessati dal sovraffollamento della popolazione carceraria; tra gli istituti maggiormente interessati dal fenomeno, dicono ancora i ricercatori, ben dieci appartengono al Provveditorato della Lombardia, cinque a quello della Puglia e Basilicata, quattro ricadono nel territorio di competenza del Provveditorato del Lazio, Abruzzo e Molise, tre in quello della Toscana e Umbria e due in quelli del Triveneto e dell’Emilia-Romagna e Marche. C’è poi il caso dell’istituto maschile di “San Vittore”, che evidenzia il più alto indice di sovraffollamento. Ma “è anche quello in cui si registra la presenza di persone detenute allocate in camere di pernottamento che risultano essere al di sotto dei tre metri quadri consentiti per ciascun individuo, secondo il parametro stabilito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo”. Una nuova condanna per l’Italia insomma non sembra essere una possibilità remota. Il governo non ha grandi soluzioni, come spiegato da Linkiesta la settimana scorsa e come poi è emerso nel corso delle comunicazioni sulla giustizia del ministro Carlo Nordio: “Per quanto riguarda la riforma dell’amministrazione penitenziaria anche qui il tema centrale è stato e sarà la sicurezza nelle carceri, tanto nell’interesse degli operatori, quanto dei detenuti. In quest’ottica, l’azione è rivolta costantemente ad ampliare gli spazi delle carceri”, ha detto Nordio, ex magistrato per quarant’anni. “Voi sapete che nelle carceri tanto minore è lo spazio a disposizione, tanto è maggiore la tensione che si crea all’interno e che spesso si traduce in atti di violenza contro se stessi e contro gli altri. Mi pare di averlo già accennato a suo tempo, è un po’ una mia idea fissa. Costruire nuove carceri è difficilissimo, per tutta una serie di ragioni: per i vincoli idrogeologici, per i vincoli urbanistici, per i vincoli ambientali, per il principio del not in my back yard, che nessuno vuole un carcere vicino. L’unica possibilità che abbiamo è quella di valersi di strutture che già siano esistenti e siano compatibili con la struttura di un carcere e io ho pensato subito alle tantissime caserme dismesse che abbiamo, che sono perfettamente compatibili con ristrutturazioni relativamente diverse, soprattutto per la detenzione di imputati di reati minori”. Come ha però replicato Roberto Giachetti, deputato di Italia Viva, durante il dibattito parlamentare, l’obiettivo non dovrebbe essere ampliare gli spazi: “Le caserme sono una cosa ridicola. Come lei sa perfettamente, poi il personale per trasformare le caserme dove lo prendete? Le caserme sono tutte da rimettere in uso, perché non sono a norma. Di che cosa parliamo? Che tempi sarebbero necessari? Il problema - e lei lo sa, perché ce l’ha spiegato per mesi e per anni - è che in carcere vi è una marea di gente che non ci dovrebbe essere. Le do un suggerimento: se il problema sono gli stranieri, fate un emendamento al decreto Albania che state facendo e mandate in Albania gli stranieri, così liberiamo le carceri. È questo il livello sul quale devo risponderle per come lei ha affrontato il tema delle carceri”. C’è insomma anzitutto un problema culturale. “Il carcere non può essere il surrogato dei servizi sociali”, ha detto a RomaSette il Garante dei diritti dei detenuti per la Regione Lazio, Stefano Anastasìa, tra i fondatori dell’Associazione Antigone: “Se la cultura diffusa è una cultura che pensa che le devianze sociali debbano stare in carcere, più carceri abbiamo e più ne riempiamo”. Aggiunge, a Linkiesta, il filosofo del diritto Emilio Santoro: “Che il problema siano le politiche penali lo rende chiaro un dato: all’epoca della Torreggiani c’erano in esecuzione pena esterna circa la metà delle persone detenute. Oggi sono 84.610, cioè quasi una volta e mezzo i detenuti. Vuol dire che in Italia abbiamo tra le quarantamila e le cinquantamila persone in più in misura penale. Questo a fronte del fatto che secondo una ricerca del Censis del dicembre 2022, il numero di reati denunciati sono circa settecentomila in meno di quelli denunciati nel 2012”. Giustizia, frenata del governo alla vigilia dell’avvio dell’anno giudiziario di Liana Milella La Repubblica, 25 gennaio 2024 Slittano i test psicoattitudinali per i magistrati e il bavaglio di Costa. L’esecutivo evita lo scontro con le toghe proprio quando si apre in Cassazione l’anno giudiziario per la prima volta nella sua storia con la relazione di una presidente donna, Margherita Cassano. Un passo indietro, uno stop decisamente strategico, in una giornata particolare come quella di oggi, quando in Cassazione si inaugura l’anno giudiziario. Al Senato e alla Camera il governo si ferma, mentre potrebbe dare il via libera nelle due commissioni Giustizia, a due provvedimenti assai “sensibili” per le toghe. A palazzo Madama si bloccano per un giro i test psico attitudinali per selezionare i giudici, sollecitati e riproposti come inderogabili dalla presidente della commissione Giustizia, la leghista Giulia Bongiorno. E parimenti alla Camera ecco il rinvio della norma che stringe i cordoni della borsa per i magistrati fuori ruolo, che dovrebbero passare da 200 a 180. Anche questa una modifica su cui c’è una fortissima pressione del responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa. Anche se, a quanto pare, le commissioni parlamentari non fanno che chiedere giudici in grado di affrontare soprattutto la gestione delle commissioni d’inchiesta. E si blocca anche - ma stavolta il merito va dato al Pd - il voto della legge di Delegazione europea che contiene la norma Costa sul divieto di pubblicare le ordinanze di custodia cautelare per esteso. Ammesso “solo” il riassunto, quindi niente citazioni di verbali di interrogatorio o frammenti di intercettazioni. Cioè - diciamocelo - il nulla. E a chi sostiene che era così prima del 2017, va replicato che non è affatto così, visto che fiumi di verbali e di registrazioni sono sempre stati pubblicati. Mani pulite e inchieste su Berlusconi insegnano. Ma tant’è. Stiamo a oggi. Con due fatti in rilievo. La premier Meloni fissa alle 10 e trenta il consiglio dei ministri. Quindi non è in Cassazione, né ci sono il sottosegretario alla Presidenza, l’ex toga Alfredo Mantovano. C’è solo il ministro della Giustizia a rappresentare il governo. Mentre davanti a lui c’è il presidente Sergio Mattarella che, come sempre, assiste, ma non parla. Un segno di ostilità quello della premier? Un fatto è certo. Lei non c’era neppure l’anno scorso, e non c’è quest’anno. Tutto è affidato all’ex pm Carlo Nordio. E mentre per la prima volta nella storia centenaria della Cassazione è una magistrata, Margherita Cassano, a tenere la relazione sullo stato della giustizia - è stata nominata il 14 febbraio dell’anno scorso e resterà in carica per altri due anni - imperversano le riforme anti giudici. A cominciare dai test psico attitudinali che la Bongiorno ha rimesso sul tavolo anche se Nordio è contrario. Anche per questo ieri il voto si è bloccato con un rinvio strategico. Anche per evitare che un’imposizione considerata davvero “odiosa”, nonché inutile, dalle toghe, venisse votata giusto nella tre giorni della giustizia, oggi in Cassazione, e sabato nei 26 distretti giudiziari. Certo pesa il no di Nordio, già espresso in consiglio dei ministri a inizio d’anno, che confligge però con la richiesta esplicita della Lega e con il pieno assenso del sottosegretario Mantovano che ha storto palesemente il naso allo stop di Nordio. Per ora si va in souplesse fino alla settimana prossima, ma chi ha parlato con Bongiorno sa che lei non è disposta a cedere. Ritiene i test necessari e si batterà per averli. Del resto per Nordio è difficile dirle di no, visto che Bongiorno, in ottimi rapporti con Forza Italia, può orientare la commissione Giustizia. Che ieri ha dato il via libera con un parere positivo alla norma Costa sul bavaglio. Mentre il Dem Filippo Sensi lo ha definito “famigerato” e ne ha bloccato il voto nella commissione per le Politiche Ue con un litigio - che peraltro non è il primo - con il presidente Giulio Terzi di Sant’Agata, l’ex diplomatico ed ex ministro degli Esteri del governo Monti oggi senatore di FdI. Ieri Sensi ha letto uno stralcio di un articolo in cui si parla delle intercettazioni dell’eurodeputato di FdI Carlo Fidanza. E qui Terzi l’ha bruscamente invitato a concludere l’intervento. Ne è nato un acceso botta risposta e poi la seduta è stata sospesa. Oggi il Pd ha un’assemblea di gruppo, ha chiesto un rinvio e il bavaglio slitta alla prossima settimana. Ma resta lì a incombere sulla libertà di stampa. Come incombe il taglio delle toghe fuori ruolo, cioè i magistrati “in prestito” alla politica, ma anche alle Authority. Costa è contrarissimo, da anni ne fa una battaglia di principio, come quella sulla presunzione d’innocenza e sul bavaglio. Aveva ottenuto dalla ex ministra Marta Cartabia la riduzione a un massimo di 180 toghe. Adesso accusa Nordio di aver affidato la commissione che ha rivisitato la legge sull’organizzazione giudiziaria a un magistrato come Claudio Galoppi, ex Csm per Magistratura indipendente, ex consigliere giuridico della presidente del Senato Elisabetta Casellati, e adesso appena eletto segretario di Mi. L’ipotesi è che le toghe fuori ruolo tornino a 200. Costa è furibondo. E anche qui il governo rinvia alla prossima settimana. Meglio non provocare conflitti quando si apre l’anno giudiziario. Tensione via Arenula-partiti: riforma del Csm congelata di Valentina Stella Il Dubbio, 25 gennaio 2024 Ancora da sciogliere i nodi su fuori ruolo, “pagelle” e test psicoattitudinali per i magistrati. Costa boccia le norme, anche il Pd all’attacco del governo. Le commissioni Giustizia di Senato e Camera avrebbero dovuto votare ieri i pareri non vincolanti sui decreti attuativi in materia di magistrati fuori ruolo e ordinamento giudiziario. In particolare i senatori avevano tempo fino al 19 gennaio per esprimere il parere sul primo testo (relatore Rastrelli), e fino al 28 gennaio per l’altro provvedimento (relatore Zanettin). I deputati avevano il termine fissato sempre al giorno 28 per entrambi gli schemi di decreto legislativo (relatori Matone e Maschio). Ebbene, è stato tutto rimandato alla prossima settimana, con il placet del governo, che sta ancora mediando, su alcuni punti, con i parlamentari. Sembrerà quasi paradossale che la maggioranza parlamentare si metta a contrattare con proprio su provvedimenti dell’Esecutivo sui quali dovrebbe esprimere delle valutazioni. Ma la filosofia predominante è quella dell’unità: governo e maggioranza non vogliono mostrarsi divisi ma convergere su un parere condiviso. Ricordiamo, sul piano metodologico, che però ormai siamo oltre ogni limite temporale. La delega, inizialmente, avrebbe dovuto essere esercitata entro il 21 giugno 2023, come previsto quando al ministero della Giustizia c’era Marta Cartabia, ma poi con un emendamento al decreto legge sul Pnrr, via Arenula si è presa altri sei mesi di tempo per la redazione dei decreti delegati. Però ora non solo si è sforato il limite del 31 dicembre ma si è andati anche oltre quello assegnato alle commissioni. Il problema ovviamente non è di agenda ma politico, e ruoterebbe su tre direttrici: numero dei fuori ruolo da tagliare, valutazioni di professionalità, test psicoattitudinali per i magistrati. Abbiamo potuto visionare il parere stilato dall’onorevole del Carroccio Simonetta Matone sui fuori ruolo: in pratica prende atto con un breve elenco di quanto previsto dal provvedimento e termina: “Ad oggi non appaiono necessarie modifiche e/ o integrazioni rispetto a quanto indicato nel presente schema di decreto legislativo, salvo deroghe”, dunque si esprime un parere favorevole secco. Tuttavia, da quanto appreso da fonti parlamentari, Forza Italia si starebbe battendo affinché non avvenga quello che a via Arenula si ipotizza: ossia rivedere la riduzione dei fuori ruolo - già oggi limitatissima, da 200 a 180 unità - in modo da renderla anche meno ampia. Su quest’ultimo tema ha preparato un parere alternativo l’onorevole di Azione Enrico Costa, che prevede tra l’altro di “limitare la presenza di magistrati fuori ruolo al 30% dei componenti dell’ufficio legislativo del ministero della Giustizia” e di “prevedere che i magistrati fuori ruolo non possano ricoprire ruoli meramente amministrativi nelle strutture ministeriali, specificando, con riferimento al ministero della Giustizia, quali specifici servizi richiedono inderogabilmente l’apporto di magistrati, prevedendo per gli altri il ricorso a personale burocratico amministrativo”. Il responsabile Giustizia del partito di Carlo Calenda ha proposto anche una modifica in merito alle performance dei magistrati, in quanto “il fascicolo per la valutazione del magistrato è stato demolito (è stato cancellato l’inserimento nel fascicolo dell’obbligo di inserire l’esito dell’attività del magistrato) prevedendo l’analisi dell’attività del magistrato su atti a campione, autorelazioni e relazioni del capo dell’ufficio. Le valutazioni positive oggi sono al 99.6% e non cambierà nulla”. A meno che qualcosa non muti in commissione la prossima settimana, appunto. Per quanto concerne i test psicoattitudinali per i magistrati, si stanno attendendo le riflessioni di Fratelli d’Italia. In sintesi l’asse Forza Italia- Azione sta lavorando affinché il testo finale dei pareri non finisca per avere un contenuto conservativo, soprattutto in tema di fuori ruolo. In questi giorni si capirà dunque se i magistrati, tra le pressioni di via Arenula e quando condiviso nelle audizioni dell’Anm rese in commissione, riusciranno ad addolcire le riforme. Ricordiamo che già la Commissione di studio ministeriale per l’esercizio delle deleghe, presieduta dal neosegretario generale di Magistratura Indipendente Claudio Galoppi, era formata per la maggior parte da magistrati: tre avvocati, cinque professori universitari; il resto, quindi diciotto membri, proveniva tutto dalla magistratura, inclusi dieci fuori ruolo, coinvolti nella decisione sul loro taglio. Sul rinvio alla prossima settimana si sono espressi con una nota Debora Serracchiani, responsabile Giustizia del Partito democratico, e i capogruppo democratici in commissione alla Camera e al Senato Federico Gianassi e Alfredo Bazoli, che hanno presentato un parere negativo al provvedimento sui fuori ruolo per “stigmatizzare l’atteggiamento della maggioranza che non vuole tenere conto delle evidenti criticità evidenziate durante la discussione parlamentare e il ciclo di audizioni”. In particolare, i democratici sottolineano il modesto impatto del provvedimento in termine di riduzione del numero di magistrati fuori ruolo, la genericità e l’assenza di chiarezza circa le tipologie di incarico che possono essere svolte. Il parere critica anche le regole in materia di incarichi internazionali, la presunzione assoluta di sussistenza dell’interesse dell’Amministrazione rispetto ad alcuni incarichi fuori ruolo, la norma transitoria che travolge i termini massimi previsti dalla legge. “Noi abbiamo sempre contestato alla destra l’attacco ideologico contro i magistrati che in alcuni ruoli dell’Amministrazione pubblica offrono un contributo prezioso e non rinunciabile. Ma un eccesso di tale figura determina ricadute negative sugli organici dei giudici e sul rapporto tra governo e magistratura che è e deve restare autonoma. La legge Cartabia aveva trovato su questo un punto di equilibrio efficace. Ma governo e maggioranza hanno rinunciato ad intervenire. Questo intervento non avrà alcun effetto concreto e non aiuterà a superare la criticità esistenti che - concludono gli esponenti del Pd - sono sotto gli occhi di tutti e producono consistenti danni a imprese e cittadini”. Alessia Pifferi, le psicologhe del carcere “hanno attestato il falso con l’intento di aiutare la difesa” di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 25 gennaio 2024 L’indagine e il processo parallelo. Iniziativa giudiziaria molto ardita del pm Francesco De Tommasi, un “processo parallelo”. L’Ordine degli avvocati e la Camera Penale: “Non possiamo non stigmatizzare queste modalità di azione”. Il pm del processo ad Alessia Pifferi indaga per l’ipotesi di falso ideologico il difensore e due psicologhe che nel carcere di San Vittore ebbero colloqui con l’imputata di aver lasciato morire di fame e sete la figlia Diana di 18 mesi: è una iniziativa giudiziaria molto ardita il decreto di perquisizione - a carico delle psicologhe Paola Guerzoni e Letizia Marazzi, in concorso con l’avvocato Alessia Pontenani - che il pm Francesco De Tommasi ha firmato mercoledì da solo. Senza che dei due precedenti mesi di intercettazioni telefoniche e ambientali in carcere siano state al corrente la pm contitolare del processo, Rosaria Stagnaro, e i due procuratori aggiunti Alessandra Dolci (pool antimafia di cui fa parte De Tommasi) e Letizia Mannella (pool famiglia dove lavora Stagnaro), ma solo il procuratore Marcello Viola. Un segmento di “processo parallelo” al processo in corso. Che piomba proprio nel mezzo della perizia d’ufficio in corso, affidata il 10 ottobre 2023 dalla Corte d’Assise del presidente Ilio Mannucci Pacini al consulente Elvezio Pirfo per verificare entro fine febbraio la “sussistenza al momento del fatto della capacità di intendere e di volere, nonché l’eventuale pericolosità sociale” della donna. Il punto di partenza è il già notorio “non ci sto ad essere preso in giro” col quale il pm De Tommasi in udienza nell’autunno 2023 aveva contestato la friabilità dei test psicologici e delle pregresse relazioni delle due psicologhe di San Vittore sul basso quoziente intellettivo di Pifferi che non le consentirebbe di accorgersi della sofferenza altrui né di collocare nel tempo le conseguenze dei propri atti. Materiale poi utilizzato come spunto dal subentrato difensore Alessia Pontenani per prospettare in Pifferi un “deficit di sviluppo intellettivo di grado moderato” che non la farebbe accorgere della sofferenza altrui, né collocare nel tempo le conseguenze dei propri atti. E ora il pm traduce questa sua contrarietà nella contestazione di un atteggiamento nelle psicologhe non di “descrizione clinica”, ma di “estrapolazione deduttiva di una vera e propria tesi difensiva”. A cominciare dai colloqui di assistenza psicologica che per il pm nemmeno avrebbero dovuto esserci perché Pifferi “non è a rischio di atti anti conservativi e si presentava lucida”. Quei colloqui avrebbero invece integrato “una vera e propria attività di consulenza difensiva non rientrante nelle competenze delle psicologhe”, finalizzata a “creare, con false attestazioni sullo stato mentale della detenuta, le condizioni per tentare di giustificare la somministrazione del test psicodiagnostico Wais” fuori da “buone prassi di riferimento” e con “esiti incompatibili con le effettive caratteristiche psichiche della detenuta”. Tutto per fornirle una base documentale che le permettesse di chiedere e ottenere l’”agognata perizia psichiatrica”. Sulla base di intercettazioni autorizzate dal gip Fabrizio Filice sino allo stop dopo un paio di mesi, il pm prospetta ad esempio che il 2 gennaio una delle psicologhe abbia fatto un colloquio di “monitoraggio” con la detenuta risoltosi in realtà in “un vero e proprio “interrogatorio” per acquisire informazioni sui contenuti e la tipologia dei test psicodiagnostici somministrati alla Pifferi” dalla perizia d’ufficio in corso; e nel contesto di una “chiacchierata tra amiche”, con “scambio di baci” e “risate”, sarebbero state fatte domande “attinenti alle contestazioni sollevate dal pm” davanti alla Corte d’Assise. In più il pm, ritenendo una delle psicologhe mossa da un movente “antisociale” di voler scardinare il sistema “goccia dopo goccia” per salvare le ritenute vittime della giustizia, ha sequestrato anche le cartelle cliniche di altre quattro detenute in contatto con le psicologhe, tra cui una condannata all’ergastolo per aver ucciso con 14 coltellate il marito, e una condannata a 12 anni per aver soffocato con un cuscino la figlia di due anni. “Proprio nella Giornata internazionale dedicata all’avvocato in pericolo”, l’Ordine degli Avvocati e la Camera Penale di Milano in una posizione comune additano “la peculiarità che un pm, oppostosi nel processo all’ammissione di una perizia sulla capacità dell’imputata richiesta anche sulla base del diario clinico, abbia ritenuto di indagare anche il difensore che ha utilizzato un documento ufficiale del carcere per formulare le proprie richieste di prova”. Senza voler entrare nel merito, “non possiamo non stigmatizzare queste modalità di azione: è difficile, mettendosi nei panni della collega, non avere la sensazione di un implicito invito a fare un passo indietro”. “Hanno manipolato Pifferi”: i pm indagano avvocata e psicologhe. La legale: “Non mollo” di Simona Musco Il Dubbio, 25 gennaio 2024 L’ira degli avvocati milanesi a difesa della collega: “È un invito a fare un passo indietro. L’avvocato in pericolo siamo tutti noi”. “Vogliono farmi abbandonare la difesa? Non ci penso proprio, ma per che cosa? Io non farò alcun passo indietro, salvo che il giudice non stabilisca la mia incompatibilità. Ma questo lo vedremo il 4 marzo”. La voce di Alessia Pontenani, difensore di Alessia Pifferi, in carcere per aver lasciato morire in casa la figlia Diana di 18 mesi, è combattiva. Anche se da poche ore ha appreso, rigorosamente a mezzo stampa, di essere indagata insieme a due psicologhe del carcere di San Vittore, P.G. e L.M., per falso ideologico e favoreggiamento. Il tempismo sembra quasi da film. Non solo perché la notizia arriva nel giorno dedicato agli avvocati in pericolo, ma anche perché deflagra all’indomani dell’ultimo incontro tra Pifferi e il perito incaricato dal Tribunale di Milano di accertare le sue condizioni mentali. La notizia diventa pubblica per via del decreto di perquisizione e sequestro a carico delle due psicologhe, firmato dagli stessi pm che in aula sostengono l’accusa contro Pifferi, Francesco De Tommasi e Rosaria Stagnaro. Che già in Tribunale avevano urlato la loro indignazione, nella convinzione di essere stati presi in giro. Tra le accuse mosse alle due psicologhe c’è quella di aver attestato il falso nella relazione in cui viene certificato che il Qi di Pifferi è pari a 40. Un “deficit grave” che sarebbe stato diagnosticato, secondo i pm, attraverso un test “non fruibile né utilizzabile a fini diagnostici e valutativi”. Per attestare le condizioni della donna, il giudice Ilio Mannucci Pacini ha disposto una perizia (chiusa, appunto, martedì), la stessa alla quale i pm si erano opposti proprio puntando il dito contro le psicologhe del carcere. “Pifferi entra in carcere a San Vittore in una condizione nella quale non sussistono pregressi psichiatrici - avevano sottolineato in aula -. È una persona che sta benissimo, è lucida”. Ma a seguito di un test “Wais” somministrato in carcere dalle psicologhe la situazione cambia: Pifferi diventa una persona che difficilmente potrebbe essere giudicata presente a se stessa. Per quelle verifiche, aveva tuonato l’accusa, “non è stata richiesta alcuna autorizzazione” e tutto “fuoriesce da quelle che sono le competenze di una casa di reclusione”. Il test - secondo l’accusa - non corrisponde “alle metodiche di somministrazione e documentazione previste”, dal momento che l’imputata “non era un soggetto a rischio di atti anticonservativi e si presentava lucida, nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali”. Da qui la convinzione che “ci sia stata una voluta o non voluta manipolazione nella testa di Alessia Pifferi”. Secondo De Tommasi e Stagnaro, l’avvocata e le psicologhe, “in concorso morale e materiale tra loro”, avrebbero attestato “falsamente” che la donna sia dotata di “scarsa comprensione delle relazioni di causa ed effetto e delle conseguenze delle proprie azioni”. E quella offerta a Pifferi da parte delle psicologhe non sarebbe stata, dunque, assistenza psicologica, ma un’attività qualificabile come “consulenza difensiva”, con lo scopo di creare, “mediante false attestazioni circa lo stato mentale della detenuta (...) le condizioni per tentare di giustificare la somministrazione del test psicodiagnostico e fornire così alla Pifferi una base documentale” per ottenere la perizia psichiatrica poi ottenuta. La perizia verrà comunque redatta prescindendo dai due pareri discordanti di accusa e psicologhe penitenziarie. Ree anche di aver discusso con Pifferi della sua vicenda processuale e di aver condotto “un vero e proprio interrogatorio” sui test somministrati nell’ambito della perizia disposta dal tribunale, conclusosi con una “tranquilla chiacchierata tra amiche” e “con uno scambio di baci”, “risate e temi del tutto avulsi da qualsivoglia problematica di natura mentale”. Tra gli elementi sospetti, per la procura, anche la telefonata tra P. G. e Pontenani, nella quale le due donne, secondo gli inquirenti, “si complimentano di avercela fatta”. I pm hanno disposto accertamenti anche su altri casi seguiti dalle due psicologhe. Perché secondo i pm, P. G. sarebbe stata mossa da un “atteggiamento ideologico”, pulsioni “antisociali” e di lotta ad un sistema dal suo interno, “goccia a goccia, un caso alla volta”. Sistema di cui le detenute sarebbero “vittime” da salvare. Parole che hanno lasciato basito il legale delle donne, Mirko Mazzali. “Sorge il fondato sospetto che la perquisizione nasconda finalità estranee alla condotta commessa dalla mia assistita e voglia indagare sulla sua attività lavorativa complessiva, accusandola più per il merito dei pareri espressi che per il metodo con il quale si è pervenuti a tali pareri”, ha commentato. Il provvedimento, secondo il legale, sarebbe “finalizzato alla ricerca di documenti in possesso dell’istituto penitenziario e quindi facilmente rintracciabili, che pone sotto sequestro cellulari e computer per cercare fantomatici rapporti con una detenuta, nonché documentazione concernente altre detenute non oggetto dei capi di imputazione”. Le domande sono tante. Perché accusare l’avvocata di favoreggiamento? “Quale sarebbe stato il fine - ci dice Pontenani -, ottenere una pena più bassa? Io faccio l’avvocato. Loro fanno le psicologhe. Non abbiamo alcun tornaconto”. Ma l’altra domanda è perché i pm non hanno deciso di chiedere la trasmissione degli atti in aula, come si chiedono Antonino La Lumia, presidente del Coa di Milano, e Valentina Alberta, presidente della Camera penale meneghina, in un documento dal titolo “l’avvocato in pericolo siamo tutti noi”. Partendo, appunto, dall’avviso di garanzia “a mezzo stampa”, un fatto “grave (rectius: inaccettabile)” e contrario al “principio di presunzione di innocenza, soprattutto in termini di lesione reputazionale indelebile”, si legge nella nota. Che si interroga anche sulla ragione “del mancato rispetto delle scansioni fisiologiche del processo, che - sul modello previsto per i testimoni dall’art. 207 c.p.p. - dovrebbero semmai prevedere una richiesta di trasmissione atti fatta dal pm a conclusione del processo stesso. Non si comprende, in verità, la necessità di ipotizzare un reato di falso in capo al difensore che ha utilizzato un documento ufficiale del carcere per formulare le proprie richieste di prova”. Pur senza entrare nel merito, gli avvocati stigmatizzano i metodi della procura. “È difficile, mettendosi nei panni della collega, non avere la sensazione di un implicito invito a fare un passo indietro. E non vogliamo consentire che - proprio nella giornata internazionale per l’avvocato minacciato - una situazione del genere passi inosservata. La funzione difensiva non deve essere mai in pericolo”. C’è da chiedersi, poi, chi e come definisca il limite dell’apporto psicologico in carcere. E a parlarne, col Dubbio, è lo psicoterapeuta Claudio Foti. Che si chiede: “Come si fa a criminalizzare la scelta di uno psicologo del carcere di parlare dei procedimenti con un detenuto? È un impegno dialogico ineludibile, dal momento che le energie mentali dei detenuti, per lo meno al 70- 90%, si rivolgono inevitabilmente alle preoccupazioni concernenti la difesa penale - sottolinea -. Se non lo facesse, lo psicologo verrebbe meno all’empatia e perderebbe un aggancio fondamentale per riuscire ad affrontare altre tematiche. Come si può stabilire, dal di fuori, che un test è stato usato inappropriatamente? Gli psicologi del carcere fanno del loro meglio per aiutare i detenuti a sopravvivere, anche nel procedimento penale. È un crimine? Preferiamo lo psicologo forcaiolo che dica: “Cara signora, hai commesso un crimine imperdonabile, dovrai patire nel fuoco della “Geenna” carceraria”?”. “Caso Pifferi, ormai trattano gli avvocati come complici” di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 25 gennaio 2024 Intervista a Francesco Petrelli, leader dei penalisti: “Andrà tenuta alta l’attenzione. Non ci possono essere compressioni del diritto di difesa”. “La vicenda mi sembra alquanto complessa e merita certamente di essere approfondita con grande attenzione. Nessuna sottovalutazione”, afferma l’avvocato romano Francesco Petrelli, dallo scorso ottobre presidente dell’Unione delle Camere penali, commentando la decisione della procura di Milano di indagare ieri per le ipotesi di reato di favoreggiamento e falso ideologico le due psicologhe del carcere di San Vittore e l’avvocata Alessia Pontenani, difensore di Alessia Pifferi. Quest’ultima è attualmente a processo in Corte d’assise per avere nel 2022 lasciato morire di stenti la figlia Diana di 18 mesi, abbandonandola in casa da sola per 6 giorni. L’ipotesi accusatoria della Procura nei confronti delle psicologhe e dell’avvocata sarebbe quella di aver discusso del processo in corso nei confronti di Pifferi senza che questo rientrasse nelle rispettive competenze. Inoltre, alle due psicologhe viene contestato di aver redatto una relazione non corrispondente al vero circa una minore capacità intellettiva della donna. A tal proposito la procura milanese ne ha ordinato il sequestro, insieme anche a documenti su altre quattro detenute. Ciò che ha però destato grande sconcerto è da un lato l’urgenza di compiere tali atti di indagine, in quanto i documenti ricercati era custoditi in carcere e ben difficilmente potevano essere fatti sparire, e dall’altro la necessità di ipotizzare un reato di falso nei confronti del difensore che ha utilizzato un documento ufficiale del carcere per formulare le proprie richieste di prova. Presidente Petrelli, in questa vicenda vede una concreta minaccia al diritto di difesa? L’episodio, ironia della sorte, cade proprio nella giornata internazionale dell’avvocato minacciato... Da tempo assistiamo ad una deriva in tal senso. Il ruolo dell’avvocato difensore è molto spesso messo in discussione. Non credo sia, purtroppo, una novità di questi giorni. L’avvocato è considerato un “intralcio” nelle indagini prima e nel processo dopo? Diciamo che si identifica il difensore con il suo assistito. E questa “sovrapposizione” di ruoli non va certamente bene nella corretta dinamica difensiva. Il difensore in qualche modo è ritenuto il responsabile degli eventuali reati commessi dal proprio assistito? Io userei un termine diverso: non è responsabile ma colui che pone in essere una condotta, come in questo caso ha scritto la procura, di “favoreggiamento”. L’avvocato, in altri termini, è considerato un “complice” del proprio assistito. In tale ottica le legittime strategie difensive vengono valutate in maniera assolutamente negativa. E come se in qualche modo si volesse mettere in discussione quanto invece è dato per assodato dal punto di vista probatorio. Capirà che è molto grave. Torniamo al caso di Alessia Pifferi e dei reati contestati alle psicologhe e al suo difensore... Da quanto ho letto tutto ha inizio con la contestazione della condotta delle due psicologhe del carcere di San Vittore a Milano dove la donna è detenuta. Come valuta tale impostazione accusatoria? Difficile creare uno spartiacque fra attività propria dell’ufficio e quella di un consulente di parte. Può fare un esempio? Se un sanitario accerta l’esistenza di obiettive condizioni patologiche non compatibili con la detenzione a che titolo parla? Molto chiaro... In questa vicenda, poi, entrano in anche gioco altri fattori. Tipo? Certamente si intrecciano la drammaticità della condotta tenuta dalla donna, che ha lasciato morire la figlia come sappiamo, con tutte le difficoltà di una scienza problematica con la psichiatria forense. Cosa accadrà ora? Fonti della procura di Milano affermano che il quadro indiziario sarebbe molto solido e che ci sarebbero molti elementi a suo riscontro.... Non conoscendo gli atti ovviamente non posso fare previsioni. Certamente sul caso andrà tenuta alta l’attenzione. Non ci possono essere compressioni del diritto di difesa, costituzionalmente previsto. Raffaele Della Valle: “Il caso Tortora? Oggi potrebbe succedere di nuovo” di Rosella Redaelli Corriere della Sera, 25 gennaio 2024 Capì che sarebbe diventato avvocato nel 1946. Raffaele Della Valle aveva 7 anni e viveva in un appartamento all’interno del Tribunale di Monza dove il padre era magistrato. “Giocavo sulla terrazza e mi fermavo ad ascoltare le arringhe”. L’avvocato che difese Enzo Tortora festeggia sessant’anni di professione e ripercorre quel processo nel libro “Quando l’Italia perse la faccia. L’orrore giudiziario che travolse Enzo Tortora”. Lo presenta a Monza giovedì sera alle 19 in un aperitivo letterario al Centro di Spalto Isolino a favore della onlus Associazione Sissi. Perché un libro, oltre 40 anni dopo? “Per me ha una valenza sentimentale. Shakespeare diceva che il ricordo di uno che se ne va dura il rintocco della campana che lo accompagna. Questo non vale per tutti. Per Enzo Tortora io sento ancora quel rintocco, lo sento per la nostalgia di un amico, ho nelle orecchie la sua voce al telefono, alle 4,40 del mattino di quel 17 giugno 1983. Era la voce di un uomo che sta sprofondando: “Mi devi salvare, mi stanno arrestando”. Ho capito che era arrivato il momento di tirare fuori tutta la documentazione del processo, ho scritto a mano come faccio da sempre, rispondendo alle domande del giornalista Francesco Kostner. In tutte le presentazioni di questo libro sento il calore e l’affetto che gli italiani hanno ancora per Enzo Tortora”. Come vi eravate conosciuti? “Eravamo amici da tempo, eravamo stati eletti entrambi nel consiglio nazionale del Partito Liberale. Era un uomo di una cultura enorme, malvisto da molti colleghi. E condividevamo la passione per i problemi giuridici…”. Un caso Tortora potrebbe succedere ancora? “Sì perché è un problema di uomini, non di leggi. Se manca la cultura giuridica della presunzione di non colpevolezza, se non sai che un indizio per essere tale deve essere concreto e riscontrabile, se non hai la dote più grande per un magistrato che è l’umiltà, puoi creare i presupposti per un nuovo caso Tortora”. Il momento più buio? “L’estate del 1983 era torrida, il 2 agosto Milano era deserta. Mi sentivo solo, inviso ai colleghi. Insomma, avevo le gomme a terra. Non so cosa mi spinse, dopo un impegno a Milano, ad andare nello studio di Enzo Biagi. Non lo conoscevo. Fu lui ad aprirmi la porta, parlammo a lungo e il 4 agosto pubblicò una lettera aperta al Presidente della Repubblica. Leggere le sue parole fu un efficace propellente. Non ero più solo”. Una fotografia la ritrae in lacrime dopo la sentenza di assoluzione... “Sono un passionale, sposo completamente la causa. In quel momento hanno assolto anche me. Ho provato la stessa cosa in tempi più recenti dopo l’assoluzione di Vitalij Markiv, il soldato ucraino condannato in primo grado per la morte del giornalista Andrea Rocchelli. Per lui ho vissuto due anni di angoscia per una sentenza di condanna profondamente ingiusta. Per trovare le prove della sua innocenza sono partito per il Donbass. Abbiamo provato che era impossibile che avesse potuto sparare da quella distanza verso il gruppo di giornalisti”. Lei è stato protagonista di un altro processo mediatico, quello alla modella Terry Broome che aveva ucciso il playboy Francesco D’Alessio. Era il 26 giugno 1984. “In quel caso c’era una confessione, ma anche un contesto e bisognava lavorare perché la pena fosse adeguata alle circostanze. Ricordo che feci un’arringa emotivamente coinvolgente, l’aula era gremita di gente e scoppiò un applauso scrosciante”. Ha affiancato all’attività di avvocato la passione politica. Tredici anni in consiglio comunale a Monza nelle file del Partito liberale, poi nel 1994, fu tra i fondatori di Forza Italia. Come andò? “Mi chiamò Silvio Berlusconi. Era l’8 dicembre 1993, mi recai a Villa San Martino. Con me c’erano Biondi, Confalonieri, Dell’Utri, Urbani. Aveva molta deferenza nei miei confronti, mi propose di candidarmi a Monza. Nel 1994 venni eletto all’unanimità capogruppo alla Camera, poi vicepresidente con 596 voti. Mi votò anche la sinistra”. Che ricordo ha di Berlusconi? “Ho avuto grandi conflitti con lui. Era abituato a guidare le aziende, molto accentratore, abituato a dirigere, più recalcitrante ad ascoltare. Io non ero nel cerchio magico. Era un uomo cortese, mi propose di candidarmi di nuovo, ma rifiutai”. Anche lei è molto appassionato di calcio... “Io non sono tifoso, sono malato del Monza. Seguivo la squadra quando eravamo in C2, ancora adesso se gioca il venerdì sera, e perde, mi rovino il fine settimana. Per me dovrebbe giocare solo la domenica sera”. È mai stato tentato di lasciare Monza per trasferirsi a Milano? “Io amo questa dimensione provinciale, Monza è una città in cui si vive bene, amo passeggiare in centro lungo il Lambro. Vorrei solo più decoro urbano, i fiori alle finestre nell’isola pedonale dovrebbero essere obbligatori”. Veneto. Condizioni detentive: i Radicali sulle orme di Pannella rilanciano lo sciopero della fame di Ivan Grozny Compasso padovaoggi.it, 25 gennaio 2024 Le associazioni radicali di Padova, Verona e Venezia hanno aderito allo sciopero della fame promosso da Nessuno Tocchi Caino, come atto nonviolento di protesta. L’ultimo risale all’agosto 2015 quando il leader Marco Pannella digiunò per gli stessi motivi. I Radicali tornano a pratiche e proteste che ne hanno contraddistinto la storia politica. Le associazioni radicali di Padova, Verona e Venezia hanno infatti aderito allo sciopero della fame promosso da Nessuno Tocchi Caino, come atto nonviolento. I tre segretari, Vincenzo Vozza, Marco Vincenzi e Samuele Vianello, dopo aver promosso con iscritti e simpatizzanti le visite agli istituti carcerari di Padova, Vicenza e Venezia aderendo all’iniziativa nazionale dei radicali “Devi vedere!”, e organizzato un dibattito sul tema con Nessuno Tocchi Caino, hanno deciso di aderire allo sciopero della fame indetto dall’associazione: “Vogliamo denunciare l’indifferenza dimostrata dalla società, a cominciare dalle istituzioni fino alla politica e ai mezzi di comunicazione, sullo stato delle carceri italiane, sul sistema penitenziario italiano e sulle condizioni psico-fisiche dei detenuti”. Il primo sciopero della fame di Marco Pannella, storico fondatore e leader del Partito Radicale, risale al lontano 8 novembre del 1969 in occasione della battaglia per il divorzio. L’ultimo risale all’agosto 2015, una protesta riguardo le condizioni dei detenuti nelle carceri. Quasi cinquant’anni in cui il leader radicale ha alternato digiuni e scioperi della sete per portare avanti le battaglie che contraddistinguevano il partito Radicale. Il digiuno più lungo è quello risalente al 2011, quando Marceo Pannella, al tempo ottantunenne, digiunò per 3 mesi quasi completamente, ingerendo solo liquidi. Lottava per un’amnistia per i detenuti. Dal 2011 le battaglie su giustizia, condizioni dei detenuti nelle carceri e amnistia erano diventata una questione centrale per Pannella e i Radicali. Così se da una parte l’iniziativa ci riporta al passato dall’altra segna una continuità nelle vicende politiche dei Radicali. La notizia che associazioni territoriali dei Radicali hanno scelto di riprendere questa pratica non violenta per protestare contro la condizione dei detenuti arriva lo stesso giorno in cui a far notizia è l’ennesimo suicidio in carcere. “La difesa dei diritti dei detenuti e della loro dignità è fondamentale per uno Stato di diritto, anche se l’Italia ha già subito diverse sanzioni dalla Corte Europea. Tramite lo sciopero della fame, noto come Satyagraha, vogliamo attirare l’attenzione sulle drammatiche condizioni di vita negli istituti di pena in Italia, per cercare un dialogo con i rappresentanti istituzionali che possono intervenire rispetto alla piaga del sovraffollamento e all’indifferibile problema delle carenze di personale di ogni professionalità: agenti, educatori, direttori, assistenti sociali, mediatori culturali, medici e operatori sanitari, magistrati di sorveglianza”, fanno sapere attraverso una nota i radicali di Padova, Verona e Venezia. “Ci rivolgiamo al Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, al Ministro della Giustizia Carlo Nordio, ad ogni membro del Parlamento e del Governo, affinché il numero totale dei detenuti sia rapidamente ricondotto alla capienza legale, per regolarizzare così un’esecuzione penale oggi totalmente al di fuori dei parametri costituzionali italiani e convenzionali europei, mortiferi e in violazione della dignità umana. In particolare, sosteniamo la proposta di legge sulla liberazione anticipata speciale (che contiene modifiche anche di quella ordinamentale) presentata da Roberto Giachetti il quale, insieme a Rita Bernardini, partecipa al Satyagraha iniziato oggi, 23 gennaio 2024. Facciamo nostre anche tutte le altre proposte normative che raggiungano lo stesso obiettivo di diminuire la popolazione reclusa e migliorare le condizioni di vita e di lavoro di tutta la comunità penitenziaria”. Toscana. Psichiatria e carcere, secondo la ricerca serve “Uno sforzo maggiore” ilcuoioindiretta.it, 25 gennaio 2024 Il convegno su “Diritto alla salute mentale e misure penali”: tutti i risultati. “Dopo la ricerca sull’affettività in carcere, abbiamo promosso quest’anno un lavoro di approfondimento sulla psichiatria in carcere e negli altri luoghi di detenzione o di limitazione della libertà personale. Si tratta di un lavoro particolarmente approfondito, svolto a livello scientifico, con la collaborazione dell’università di Firenze, che prende in esame la situazione della componente psichiatrica e della gravità delle conseguenze che questa comporta all’interno delle strutture del sistema carcerario, nelle Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, ndr) con l’intenzione di evidenziare quanto sia necessario promuovere politiche di tutela delle persone che soffrono di queste patologie, le più fragili”. Il garante dei diritti dei detenuti della Toscana, Giuseppe Fanfani, introduce così il convegno su Diritto alla salute mentale e misure penali, che si è svolto questa mattina (24 gennaio) a Palazzo del Pegaso. Il tema è la tutela della salute mentale delle persone private della libertà personale. Nel corso del convegno è stata presentata la ricerca Psichiatria, carcere, misure di sicurezza. Il progetto di ricerca è stato realizzato in convenzione tra il garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale in consiglio regionale della Toscana, il dipartimento di scienze giuridiche dell’università di Firenze ed il Centro di ricerca interuniversitario su carcere, devianza, marginalità e governo delle migrazioni L’altro diritto. “C’è una relazione stretta tra la premessa sociale e le conseguenze della malattia - spiega Fanfani: vi è una strettissima correlazione tra le condizioni sociali dalle quali si parte e le conseguenze psichiatriche. I peccati del sistema carcerario nazionale sono infiniti, quelli della Toscana, sarebbe sciocco negarlo, sono molto simili. C’è un sovraffollamento limitato, ma non è questa la pecca maggiore, che è invece la generale mancanza di reinserimento sociale. È inutile avere un sistema detentivo nel quale le persone escono peggiori di come vi erano entrate e la finalità costituzionale della rieducazione è malamente interpretata e ancor peggio effettuata”. “Vogliamo essere dalla parte di chi soffre, cercare di dare risposte”, dice il presidente del consiglio regionale, Antonio Mazzeo, che ha portato i saluti istituzionali. “Dico sempre che lo stato con cui si misura la qualità di un paese è in funzione del livello delle proprie carceri. Questo vale ancora di più per le persone che soffrono di malattie mentali. Dobbiamo fare in modo che tutti possano scontare la pena nella maniera più giusta, che permetta di educare, riabilitare e tornare a una vita il più possibile normale. Si tratta di uno sforzo importante - aggiunge Mazzeo - ringrazio il garante dei detenuti della Toscana per il lavoro che sta facendo. Oggi, qui, ci sono tutte le Asl, gli psichiatri, gli psicologi, le nostre strutture tecniche. È un momento importante di riflessione per tutta la comunità Toscana”. Secondo il presidente del consiglio regionale, “lavori come questo dovrebbero essere di stimolo e riferimento a tutte le altre Regioni del nostro Paese. La situazione di chi soffre di disturbi psichiatrici è molto complessa. Passi in avanti negli anni ne sono stati fatti, la relazione ci dice con estrema chiarezza il tanto lavoro che c’è ancora da fare. Le istituzioni regionali possono fare la propria parte, ma serve - conclude Mazzeo - uno sforzo maggiore e diverso a livello nazionale: parlo di legislazione e della possibilità di mettere a disposizioni strumenti efficaci. Ho avuto modo di visitare più volte la Rems di Volterra, ne ho apprezzato le capacità, le competenze, la professionalità degli operatori. Dobbiamo mettere in campo azioni, concentrandoci sulla qualità dell’assistenza, sulla necessità di mettere all’opera più personale nelle strutture. Considero questa ricerca un punto d’inizio”. Giulia Melani, del dipartimento di scienze giuridiche dell’università di Firenze, e Katia Poneti, dell’ufficio del garante dei diritti dei detenuti della Toscana, hanno curato la presentazione della ricerca. Tre gli ambiti oggetto dell’indagine: il carcere e il trattamento dei detenuti con patologia mentale; le misure di sicurezza per prosciolti di mente (Rems per le misure detentive e libertà vigilata per le misure non detentive); le strutture psichiatriche territoriali, per pazienti con patologia psichiatrica, siano essi autori di reato o no. Nelle strutte penitenziarie, le patologie psichiatriche “raggiungono la metà delle patologie diagnosticate, il consumo di psicofarmaci è intenso e i suicidi e gli atti di autolesionismo sono in crescita”. Nel carcere di Sollicciano, “funziona l’articolazione per la tutela della salute mentale (Atsm) con 9 posti, a cui vengono inviati detenuti da tutta la regione: si tratta in sostanza di una sezione psichiatrica interna al carcere”. Le misure alternative per pazienti psichiatrici, che sarebbero la soluzione indicata dalla Corte Costituzionale, “di fatto non vengono utilizzate”. L’elevato grado di sofferenza rilevato “deve mettere in discussione le modalità di vita presenti in carcere e cercare di offrire alternative, sia di reinserimento sociale, sia strettamente terapeutiche; tra cui: individuare modalità di applicazione delle misure alternative alla detenzione per persone detenute con malattia psichiatrica, in base alla sentenza 99/2019”. Misure di sicurezza - Le due Rems, a Volterra ed Empoli, “hanno visto aumentare la lista d’attesa, che al 31 dicembre 2022 contava 70 persone, mentre erano 46 al 31 dicembre 2021 e 33 al 31 dicembre 2020”. I posti in Rems sono attualmente 39, e ne saranno realizzati altri 9 nella struttura di Empoli; la Rems definitiva di Volterra, prevede 40 posti (30 quelli attuali). Intorno alle due Rems “ruota il sistema delle strutture psichiatriche territoriali, che accolgono persone in libertà vigilata con prescrizioni terapeutiche. Sono stati analizzati, in forma anonima, il piano terapeutico riabilitativo individuale dei pazienti presenti nella Rems di Volterra: ne è emerso il profondo lavoro di cura operato dallo staff della Rems e il monitoraggio costante delle condizioni e dei progressi”. È però evidente la difficoltà in uscita, “per problematiche che sono più spesso di natura sociale più che sanitaria (documenti, residenza, alloggio)”. Per quanto riguarda le libertà vigilate, “le libertà vigilate terapeutiche erano pari a 161 misure definitive. Le libertà vigilate terapeutiche costituiscono la gran parte delle libertà vigilate (il 76 per cento). La maggioranza delle misure (64 per cento) è svolta in struttura, la restante (36 per cento) al domicilio”. Strutture psichiatriche territoriali - Le strutture che hanno costituito la base dati sono in totale 142 (61 nell’Asl Centro, 46 nell’Asl Nord-Ovest, 35 nell’Asl Sud-Est), comprendendo anche le Rsd, le strutture per minori e quelle a doppia-diagnosi. “Le persone ospitate erano in totale mille 173 al 30 giugno 2022, di cui in misura di sicurezza 111 (il numero è incompleto a causa della mancanza di alcune risposte)”. Le conclusioni - La ricerca individua la necessità di “diffusione di un modello del Piano terapeutico riabilitativo individuale, che contenga anche gli aspetti sociali, come casa e lavoro, da trasmettere a tutti gli operatori coinvolti nel caso, come strumento di comunicazione e di valutazione del percorso terapeutico della persona sottoposta a misura di sicurezza”. Suggerisce di “dare seguito alla normativa in materia di residenza delle persone recluse, in modo che tutte quelle senza fissa dimora possano avere residenza nel Comune sede del carcere o della Rems in cui si trovano”. L’istituzione e l’attivazione del Punto unico regionale (Pur) potrà fare la differenza rispetto al presente”. Si indica come necessario “applicare le misure alternative alla detenzione per persone detenute con malattia psichiatrica, come prevede la sentenza della Corte costituzionale n. 99/2019”. Con l’obiettivo di rendere tutte le strutture accessibili “come luoghi di destinazione delle misure di sicurezza e delle misure alternative, si indica di rendere pubblici i dati quantitativi (riferimenti della struttura, posti letto, posti occupati). Questi dovrebbero essere liberamente accessibili in rete, con aggiornamento possibilmente mensile”. Al convegno hanno preso parte l’assessore al diritto alla salute e alla sanità, Simone Bezzini, e l’assessora alle politiche sociali Serena Spinelli. “La tutela della salute mentale nelle persone soggette a misure restrittive della libertà è un tema delicatissimo - dice Simone Bezzini -, che richiede massima attenzione e grandissimo impegno. Siamo in un momento difficile: passare dalle parole ai fatti significa investire sulle strutture e sul personale e per dare risposte adeguate a questi bisogni servono risorse. A livello nazionale dovrebbero essere trasferite maggiori risorse alle Regioni per migliorare la qualità della presa in cura, dei servizi e delle prestazioni”. La Toscana, dice l’assessore, “non è ferma, i professionisti delle aziende sanitarie svolgono il loro lavoro ogni giorno con grandissima dedizione e professionalità; ci sono anche programmi di investimenti, alcuni andranno a regime a breve, mi riferisco all’ampliamento dei posti nella Rems di Empoli. Per le nuove strutture della Rems di Volterra, potremo entrare nella fase progettuale in primavera e a medio termine arrivare all’apertura dei cantieri. Il Pur insediato nei giorni scorsi - conclude Bezzini - è un nuovo strumento per la gestione dei percorsi delle persone con problematiche di salute mentale e con limitazioni della libertà personale. È un organismo multidisciplinare estremamente importante”. “Intendo ringraziare il garante Fanfani, le strutture, i ricercatori che si sono messi a disposizione di questa indagine, che ha un valore scientifico importante, un criterio di organizzazione di rilievo - dichiara l’assessora Spinelli -. Sappiamo che la detenzione di per sé è una condizione che altera l’equilibrio psicologico, ma sappiamo anche che molti di coloro che finiscono in carcere vengono spesso da vissuti anche molto complessi. La salute psicologica e psichiatrica in carcere è un elemento che vede alterata la qualità della vita delle persone detenute. Il diritto alla salute non deve essere negato a chi entra in carcere. Si tratta di una questione che interroga anche le politiche sociali: uno dei valori che dovrebbe avere il carcere è il reinserimento nella società”. Nel corso del convegno si sono susseguiti gli interventi di Marcello Bortolato, presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze; Luigi Moschiera, dirigente penitenziario Uiepe Firenze; Stefano Anastasia, garante dei diritti dei detenuti della Regione Lazio. Giuseppe Fanfani ha tenuto con Emilio Santoro, professore del dipartimento di scienze giuridiche Unifi e direttore Centro Adir, le conclusioni di una tavola rotonda che ha visto a confronto Franco Corleone, garante dei diritti dei detenuti del Comune di Udine, già garante dei detenuti della Toscana dal 2013 al 2020; Pierpaolo D’Andria, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria; rappresentanti del dipartimento della Salute mentale delle tre Asl toscane; Samuele Ciambriello, presidente della conferenza nazionale dei Garanti. Teramo. Detenuto si toglie la vita in cella: Jeton aveva 34 anni L’Unità, 25 gennaio 2024 Il giovane si è impiccato: è il decimo suicidio dall’inizio dell’anno, nel 2024 sono morte nelle carceri italiane 21 persone. Domenica scorsa, un agente della Polizia penitenziaria di Bollate, si è suicidato lanciandosi da un piano alto di un centro commerciale. Ancora un suicidio di un detenuto nelle carceri. L’uomo si è impiccato verso le 13 nella sezione “protetti” ed ha lasciato un biglietto per la famiglia. A denunciarlo è Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria. “Ancora un suicidio di un detenuto nelle carceri, ancora per impiccagione e ancora nella sezione destinata ai detenuti per reati a grande riprovazione sociale. Oggi è successo a Teramo, proprio come ieri a Verona, ed è il decimo detenuto che si toglie la vita in questo anno 2024 che sembra essere iniziato peggio dei precedenti, nei quali si erano raggiunte cifre record di 84 suicidi nel 2022 e 69 nel 2023. Pure un appartenente al Corpo di polizia penitenziaria domenica scorsa ha posto fine alla sua esistenza (la vittima, di Bollate, si è lanciato nel vuoto dopo essere salito su un piano alto di un supermercato, ndr). La campana ormai suona quasi ogni giorno nelle carceri e suona davvero per tutti noi, salvo per quanti sembra si ostinino a non volerla udire”. Suicidio in carcere a Teramo: chi è il detenuto che si è tolto la vita - La vittima di chiamava Jeton Bislimi, aveva 34 anni ed era di nazionalità macedone. Si trovava in cella per aver cercato di uccidere la moglie. Lo scorso 14 novembre, il giovane aveva sferrato dieci coltellate alla donna, poi tentò di farla finita, ingenerando un quantitativo imprecisato di farmaci. Arrestato e trasferito in carcere dal giorno successivo, ha provato di nuovo a togliersi la vita. Sulle circostanze sono in corso gli accertamenti della Procura della Repubblica di Teramo e della polizia penitenziaria che ha fatto la scoperta. Al 34 enne, lo scorso dicembre, il Tribunale per i minorenni dell’Aquila aveva sospeso la potestà genitoriale. Suicidio in carcere a Teramo: quanti sono i detenuti che si sono tolti la vita nel 2024 - “I suicidi in carcere saranno anche simili a una ‘malattia’, come sostiene il Guardasigilli, Carlo Nordio - ha continuato De Fazio - ma in questo caso il Ministro della Giustizia deve essere il medico e non l’addetto alle pompe funebri. Da Nordio ci aspettiamo la terapia capace, quanto meno, di lenire la patologia. Del resto, basta osservare i sintomi per fare la diagnosi. Ci riferiamo al sovraffollamento detentivo, che sfiora il 130 per cento, alle carenze organiche, 18mila operatori in meno solo per la Polizia penitenziaria, alle deficienze strutturali, infrastrutturali, logistiche e negli equipaggiamenti, alla disorganizzazione e a molto altro ancora”. Agente della polizia penitenziaria si è tolto la vita - Il Segretario della Uil-Pa Polizia Penitenziaria ha precisato: “Il Ministro Nordio e il Governo Meloni prendano compiutamente atto della grave emergenza e varino un decreto carceri per consentire cospicue assunzioni straordinarie, con procedure accelerate, e il deflazionamento della densità detentiva pure attraverso una gestione esclusivamente sanitaria dei detenuti malati di mente e percorsi alternativi per i tossicodipendenti. Parallelamente, il Parlamento approvi una legge delega per la riforma complessiva del sistema d’esecuzione penale, la reingegnerizzazione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e del Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità e la riorganizzazione del Corpo di polizia penitenziaria. Lo ripetiamo, non c’è più tempo”. Agente della Penitenziaria suicida: le reazioni dei sindacati - Ha invece affermato Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (Sappe): “Siamo costernati ed affranti: un detenuto che si toglie la vita in carcere è una sconfitta per lo Stato e per tutti noi che lavoriamo in prima linea. Si tenga conto che in quel momento c’era in servizio un solo agente per 100 detenuti. Certo è che decidere di uccidersi è una scelta che ha sconvolto tutti, operatori ed altri ristretti. Chiunque, ma soprattutto chi ha ruoli di responsabilità politica ed istituzionale, dovrebbe andare in carcere a Teramo a vedere come lavorano i poliziotti penitenziari, orgoglio non solo del Sappe e di tutto il Corpo, ma dell’intera nazione. L’ennesimo suicidio di un detenuto in carcere dimostra come i problemi sociali e umani permangono: è il suicidio di un detenuto rappresenta un forte agente ‘stressogeno’ per il personale di polizia e per gli altri detenuti”. “È fondamentale dare corso a riforme davvero strutturali nel sistema penitenziario e dell’esecuzione della pena nazionale, a cominciare dall’espulsione dei detenuti stranieri, specie quelli, e sono sempre di più, che ristretti in carceri italiani, si rendono protagonisti di eventi critici e di violenza durante la detenzione - ha concluso Capece - A tutto questo si aggiunga la gravissima carenza di poliziotti penitenziari. Come si fa a lavorare così?”. Lodi. Autopsia per un detenuto morto in ospedale a Codogno rainews.it, 25 gennaio 2024 Si tratta di un 42enne di Lodi che aveva accusato forti dolori durante la permanenza in carcere. A disporre l’esame autoptico la Procura. Sarà l’autopsia a stabilire le cause del decesso di un uomo di 42 anni, lodigiano, morto nell’ospedale di Codogno. A disporlo la Procura di Lodi. L’uomo, non estraneo a problemi di tossicodipendenza era stato portato a Codogno dall’ospedale Maggiore di Lodi, dove era stato ricoverato in terapia intensiva, in seguito a un malore accusato in carcere. Nelle sue ultime ore di vita, nel reparto di psichiatria di Codogno, aveva lamentato forti dolori in più parti del corpo, attribuiti dai sanitari ai postumi di una crisi isterica. Poi il decesso, in seguito all’arresto cardiaco. Piacenza. Carceri, il Garante: “Celle pollaio e violenza” di Lavinia Sdoga incronaca.unibo.it, 25 gennaio 2024 Sovraffollamento, suicidi, autolesionismo. L’impietosa radiografia di Cavalieri. Due suicidi, 166 atti di autolesionismo, 88 scioperi della fame, 149 episodi di violenza e resistenza a pubblico ufficiale. È quanto accaduto, in un solo anno, nell’istituto penitenziario di Piacenza che, insieme a Ravenna, è “oggi tra le realtà detentive più critiche della nostra regione”, dice il garante dei detenuti Emilia-Romagna Roberto Cavalieri. Ma la situazione è grave anche in altre carceri. L’allarme degli ultimi giorni riguarda la Dozza. La struttura, pensata per ospitare 498 detenuti, oggi ne conta addirittura 823. “Se il trend di crescita dovesse continuare - dice Antonio Iannello, garante dei detenuti del Comune di Bologna - la pena detentiva, in futuro, finirà per assumere i tratti perversi di un trattamento disumano e degradante”. A rendere la situazione ancor più complicata, l’attuale inagibilità di due sezioni per motivi di ristrutturazione. “Serve un’accelerazione dei lavori - sollecita il garante - per evitare che gli animi si esasperino ulteriormente”. Tale contesto, infatti, influisce pesantemente sulla vita degli ospiti, riversandosi conseguentemente anche sul personale di polizia penitenziaria. “Le loro condizioni di lavoro risultano gravosissime - spiega il garante - per non parlare dei detenuti. Rinchiusi in cella per venti ore, senza possibilità di fruire di alcuna attività rieducativa”. Al suo appello si unisce anche Domenico Maldarizzi della Uil che chiede il “blocco degli ingressi” mentre la Camera penale di Bologna lancia l’allarme: “Il carcere è al +164% della sua capienza” e la grave limitazione degli spazi e la mancanza di lavoro e formazione producono tensione. Tensione che sta crescendo in tutte le carceri italiane dove ha fatto scalpore la notizia della morte di Matteo Concetti, il ragazzo di 23 anni che si è suicidato ad Ancona dopo aver annunciato il suo gesto perché non voleva di nuovo finire in isolamento. Purtroppo, non si tratta di un caso isolato, come dimostra il rapporto del garante con il bilancio dell’intero 2022, l’ultimo disponibile poiché i dati del 2023 devono ancora essere raccolti ed elaborati. I numeri sono ovunque sbalorditivi e preoccupanti. Trecento novantuno episodi di autolesionismo a Bologna, 249 a Reggio nell’Emilia, 196 a Modena: il totale nella regione è 1.460, più di quattro casi al giorno. “Le condizioni all’interno delle carceri sono drammatiche - ammette Cavalieri - a Ravenna, per esempio, i detenuti vivono in celle di soli otto metri quadrati. Sono anche queste criticità che spingono ad atti simili”. Atti che, purtroppo non poche volte, sono anche sfociati nel peggio. Centottantuno sono i tentativi di suicidio, uno ogni due giorni: 53 a Bologna, 40 a Reggio Emilia, 27 a Parma. “I suicidi veri e propri sono stati sette - sottolinea Cavalieri - due di questi nell’istituto di Piacenza, gli altri a Bologna, Rimini, Ravenna e Forlì”. Ma il suicidio, secondo il garante, non è l’unico “parametro sincero del disagio”, in quanto “dipendente da molte più variabili”. “Non possiamo ricondurlo esclusivamente alle difficoltà del contesto carcerario - afferma - la sofferenza del detenuto, spesso, parte anche da prima del suo ingresso in struttura e non sempre è facile da contenere”. Infatti, laddove mal gestita e poco controllata, questa può spesso sfociare nella violenza: 22 le aggressioni dei carcerati agli agenti di Reggio, 15 a Ferrara, 10 a Modena nel 2022. Ancor di più sono state le denunce per resistenza a pubblico ufficiale: 319 a Parma, 149 a Piacenza, 102 a Bologna. “Le probabilità che accadano eventi del genere sono legate a due fattori - spiega Cavalieri - la dotazione dell’organico e le caratteristiche dell’utenza”. Infatti, nelle carceri in cui il numero di detenuti in ‘condizioni critiche’ - poveri, tossicodipendenti o malati psichiatrici - è alto mentre quello di agenti è basso, scontri violenti si verificano con maggiore frequenza. E la convivenza dietro le sbarre diventa davvero difficile, fino a sfociare in violenza tra gli stessi detenuti: nel 2022 sono state 54 le aggressioni e gli scontri tra carcerati a Bologna, 79 a Parma, 77 a Modena. “In cella s’incontrano abitudini, usanze e culture spesso distanti e incompatibili tra loro - dice il garante - ma di questi casi si potrebbe ridurre il numero se ci fosse personale a sufficienza”. I dati, però, sono tutt’altro che rassicuranti: a fronte di una popolazione carceraria in costante aumento, il personale penitenziario è più che carente, “quantitativamente inadatto nel rispondere alle esigenze dei detenuti”. Nel 2022, il divario tra l’organico previsto e quello effettivamente presente negli istituiti della regione è stato, in media, di oltre il 16%, con picchi maggiori nelle carceri di Forlì (-24%), Rimini (-21%) e Ravenna (-19%). Invece dei 2.390 agenti previsti in regione, quelli realmente in servizio erano solo 2004, con una differenza di quasi cento a Bologna (da 541 a 445), novanta a Parma (da 462 a 373), cinquanta a Reggio Emilia (da 240 a 194). Ma la situazione non è migliore per quanto riguarda i funzionari giuridici pedagogici, il cui numero è pure sott’organico. A fronte dei 58 previsti, infatti, quelli in servizio effettivo sono stati solo 50: nove anziché dodici a Parma, quattro anziché sei a Piacenza, tre anziché uno a Ravenna. Insomma, domanda crescente e risposta insufficiente. E i guai, purtroppo, non finiscono qui. “I nostri istituti sono in perenne sovraffollamento - dice Cavalieri - delle vere e proprie celle pollaio”. Sebbene la capienza regolamentare sia di 3.020 detenuti, a dicembre 2022, il loro numero complessivo era di 3.407 (+ 13%). Di questi, 1.660 gli stranieri (48%), 153 le donne (4%). A Bologna, 233 detenuti uomini in più rispetto a quelli previsti (676 anziché 443, ma come abbiamo visto le cose sono peggiorate negli ultimi mesi), a Ferrara 117 (361 anziché 244), a Reggio nell’Emilia 59 (339 anziché 280). Discorso simile, se non più grave, vale anche per le donne. Mentre a Bologna e Modena il numero delle detenute ha superato la soglia ordinaria (77 su 59 posti alla Dozza, 30 su 18 al Sant’Anna), ci sono strutture - Castelfranco Emilia, Parma, Rimini Ravenna e Ferrara - al cui interno, di carcerate donne, non ce n’è neppure una. La causa principale di questo fenomeno “ormai radicato”, secondo il garante, è l’”inefficiente lavoro delle direzioni amministrative”. “A essere sovraffollate, nelle carceri emiliano-romagnole, sono solo le sezioni degli imputati definitivi - spiega Cavalieri - mentre quelle dei semi-liberi o dei detenuti articolo 21 sono praticamente vuote”. La semi-libertà consente al detenuto di trascorrere la giornata all’esterno della struttura, per ragioni lavorative o anche familiari, con il solo vincolo di rientrarvi per la notte; stessa cosa per chi in virtù dell’articolo 21 può uscire dal carcere unicamente per motivi di studio o lavoro. Inizialmente concepite per facilitare il reinserimento sociale dei detenuti, la funzione di queste misure è andata sempre più ampliandosi. “A causa della crescita esponenziale della popolazione carceraria, queste misure alternative vengono oggi utilizzate come strumento di contrasto al sovraffollamento - afferma il garante - anche se non tutte le direzioni amministrative si sentono ancora a proprio agio nell’applicarle”. Concedere la semi-libertà o la possibilità di lavorare all’esterno presuppone, infatti, una forte assunzione di responsabilità, “ma non tutti sono disposti a prendersela”. Nelle strutture di Piacenza e Ravenna, ad esempio, le sezioni dei semiliberi sono praticamente deserte, mentre quelle dei definitivi più che affollate. “É statisticamente impossibile che tutti i detenuti siano in una condizione di incompatibilità con le misure alternative - spiega il garante - quindi, avere questi ambienti vuoti, significa che le direzioni hanno scelto volontariamente di non concederle, tenendo in cella anche coloro per cui, invece, sarebbe stato possibile farlo”. Ed è soprattutto questo che genera sovraffollamento. “Le direzioni dovrebbero essere più propense a utilizzare tali strumenti, così da ridurre il numero dei detenuti definitivi e smaltire le loro sezioni”, sostiene Cavalieri. Ma c’è dell’altro. A rendere le carceri dei luoghi “sempre più gremiti e stracolmi”, come li definisce il garante, sono anche aspetti più meramente strutturali, legati all’assetto e all’organizzazione architettonica degli edifici. Nell’istituto di Parma, per esempio, ad aggiungersi a un quadro già assai problematico, è la presenza di un Sai (servizio di assistenza intensificata) e di una sezione ‘minorati fisici’. “Questo, date le carenze dei servizi della sanità penitenziaria in alcune regioni, determina qui il trasferimento di detenuti anche da altre strutture - spiega il garante - ciò, inevitabilmente, causa un problema: abbiamo già poco spazio per la nostra utenza, non possiamo permetterci di accoglierne dell’altra”. Situazione critica è anche Ravenna, istituto antico, risalente ai primi del Novecento. Come spiega Cavalieri: “La vetustà della struttura la rende ormai inadeguata a soddisfare le esigenze dell’utenza. Con camere di pernottamento di soli otto metri quadrati, è costantemente gravato da situazioni di protesta, risse violente e affollamento”. Dunque, aggressioni, suicidi, sovraffollamento e carenza di personale in strutture vecchie e inadeguate. Un quadro critico e sfaccettato che richiede investimenti e interventi da parte delle autorità affinché il carcere possa realmente diventare un luogo di “rinnovamento, trasformazione e reinserimento sociale”. Chieti. Progetto per la qualificazione professionale di detenuti ed ex detenuti chietitoday.it, 25 gennaio 2024 Si tratta di percorsi formativi e di empowerment per migliorare l’occupabilità delle donne e degli uomini durante e dopo l’esecuzione della pena. Un progetto realizzato nella casa circondariale di Chieti e destinato a 16 persone detenute -10 uomini e 6 donne - per la qualificazione professionale in pizzaiolo e operatrice di confezione: si chiama “In &out the jail, dentro e fuori la prigione” e ha visto l’attivazione di percorsi formativi e di empowerment per migliorare l’occupabilità delle donne e degli uomini durante e dopo l’esecuzione della pena. Il progetto è stato raccontato ieri al museo Barbella dai protagonisti con il direttore della casa circondariale di Chieti, Franco Pettinelli, una rappresentanza della magistratura di sorveglianza, la comandante e la capo area giuridico - pedagogica. “In &out the jail” è stato realizzato con la scuola di formazione Nxs srl, la Regione Abruzzo e il patrocinio del Comune di Chieti. Presenti ed emozionati all’incontro anche il sindaco Diego Ferrara, l’assessora alle Politiche sociali Alberta Giannini, una rappresentanza delle associazioni del terzo settore, i rappresentanti della Regione Abruzzo che hanno fatto parte della cordata. “È stato bello il racconto, ma bellissimo è restituire dignità e un futuro nuovo a persone che stanno scontando una pena - così sindaco e assessora. Il Comune plaude al buon fine di questo progetto ed è un convinto compagno di viaggio della casa circondariale anche in nuovi percorsi lavorativi a servizio della comunità. Un obiettivo doveroso per tutti, nessuno escluso”. “L’evento contribuisce a creare l’occasione per dare spazio e stimolare la creazione di percorsi che offrano, attraverso la formazione professionale, una concreta opportunità di reinserimento sociale al termine della pena, all’insegna dell’inclusione sociale e della solidarietà civile - ha spiegato il direttore della casa circondariale di Madonna de Freddo, Pettinelli - . Un progetto che vuole essere una risposta concreta, in linea con le finalità rieducative della pena. I nostri detenuti e detenute hanno imparato a fare pizze gustose e abiti e accessori che sono importanti non solo per il loro valore funzionale, ma per quello simbolico e sociale che hanno”. Durante la presentazione dei risultati sono stati esposti anche i prototipi di abiti realizzati dalle detenute che hanno preso parte al corso di formazione professionale in operatrice di confezione. Torino. Allarme dall’Ipm Ferrante Aporti: “Siamo in sovraffollamento” di Roberto Tartara comune.torino.it, 25 gennaio 2024 Lo snodo del sovraffollamento carcerario permane anche se i detenuti sono minorenni; l’istituto penale Ferrante Aporti, dalla voce del neo direttore Giuseppe Carro, conferma una presenza al limite della capienza massima: quarantotto ragazzi ospitati nel centro - novanta per cento stranieri, molti in arrivo dalla Liguria - con quarantasei posti disponibili ma nel 2023 sono stati ben 161 i ragazzi transitati. Carro pone l’accento sulla natura del servizio: “siamo un pronto soccorso educativo: i ragazzi stanno da noi in media cento-centodieci giorni e se sono in soprannumero andiamo in stress perchè sono al centro di percorsi di recupero individuali”. La seconda grande criticità è il ‘dopo’ che tende a diventare un’ipotesi; i ragazzi detenuti al Ferrante Aporti sono costretti a prolungare la detenzione in attesa del reperimento di una comunità disponibile ad accoglierli. Il covid ha ampliato le problematiche sanitarie visto l’aumento del disagio psicologico e degli atti violenti: “servono strutture mediche specifiche che l’istituto non può garantire così come occorrono visite e interventi più rapidi”. Lo scopo è cambiare le prospettive dei ragazzi e lavorare al loro reinserimento sociale. Da questo presupposto le innumerevoli attività: frequentano percorsi di alfabetizzazione di base, di formazione professionale nei corsi di cucina, ceramica, grafica multimediale, operatori pulizie come non mancano attività ricreative e sportive in collaborazione con associazioni di volontariato. L’istituto è interessato da un grande progetto di ristrutturazione e ampliamento finanziato dal Pnnr che prevede nuovi settori e aree oltre a una nuova portineria. L’incontro con il direttore del Ferrante Aporti è avvenuto a Palazzo civico durante i lavori delle Commissioni Legalità, IV^ e V^ coordinate da Luca Pidello (Pd); al dibattito sono intervenuti Crema - Ciampolini - Greco - Camarda - Garione - Diena - Viale - Tuttolomondo - Patriarca - Borasi e Carro ha proposto una seduta del Consiglio comunale o di Commissione all’istituto minorile: “sarebbe un atto simbolico che rientra nella logica del dentro-fuori: i nostri ragazzi hanno necessità di comprendere il mondo fuori le mura così come il mondo esterno è opportuno possa abitare anche se solo per qualche ora i nostri spazi”. Roma. Il carcere al centro della terza “Lectio Petri”: un’altra possibilità per chi ha sbagliato di Marina Tomarro vaticannews.va, 25 gennaio 2024 Nella Basilica vaticana, ieri sera, un nuovo appuntamento del ciclo d’incontri Lectio Petri promosso dal “Cortile dei Gentili” e dalla Fondazione Fratelli tutti. Titolo dell’incontro: “Il re Erode fece catturare Pietro e lo gettò in carcere”. Ospiti le giornaliste Gaia Tortora e Francesca Fagnani. “Il carcere dovrebbe essere il luogo dove si riedifica la giustizia, ma spesso è un posto dove la persona viene ulteriormente umiliata, tanto che alla fine si compie un’ulteriore ingiustizia. Ecco perché diventa necessaria una riflessione sul carcere, non come luogo di desolazione infernale ma come possibile e faticosa resurrezione della persona”. Così il cardinale Gianfranco Ravasi, fondatore del “Cortile dei Gentili”, ieri sera nella Basilica di San Pietro, ha spiegato il tema del terzo incontro delle Lectio Petri promosse dal “Cortile dei Gentili” e dalla Fondazione Fratelli tutti: “Il re Erode fece catturare Pietro e lo gettò in carcere” La serata è stata aperta dal saluto del cardinale Mauro Gambetti, arciprete della Basilica Papale di San Pietro. Mentre a dar voce ad alcune pagine degli Atti degli Apostoli è stata l’attrice Beatrice Fazi. Giustizia umana e giustizia divina - “La persona nella società è sottoposta ad una giustizia umana - ha spiegato il cardinale Ravasi - con regole che a volte dovrebbero essere meglio corrette, tanto che oggi si parla anche di una giustizia riparativa, cioè che non percorre solo il cammino burocratico dei tribunali, ma favorisce anche un dialogo tra la vittima e il colpevole, quando possibile, in modo che ci sia un incontro tra due volti. E poi c’è la giustizia divina, in cui il torto subito viene affidato allo sguardo di Dio, colui che vede “il cuore” e “i reni” , cioè la profondità interiore della coscienza. In questa luce la fede introduce qualcosa di oltre alla pura e semplice giustizia umana” La giustizia che sbaglia: il caso Tortora - A parlare di giustizia era presente anche la giornalista Gaia Tortora, che ha ripercorso le vicende giudiziarie del padre Enzo, famoso presentatore televisivo della trasmissione “Portobello”, ingiustamente arrestato la notte del 17 giugno 1983, con l’accusa di traffico di stupefacenti e associazione di stampo camorristico. Tortora, rimase in carcere sette lunghi mesi, alla fine dei quali ottenne gli arresti domiciliari. Il 15 settembre 1986 fu finalmente assolto con formula piena dalla Corte d’appello di Napoli, e i camorristi che lo avevano accusato furono processati per calunnia. Una pagina nera della giustizia. “Mio padre era un uomo molto amato - ha raccontato la giornalista - era un uomo perbene, amava il suo lavoro, aveva come unico vizio, se di vizio si può parlare, quello di leggere continuamente, credeva profondamente nelle istituzioni, ed è finito in un terribile errore di macelleria giudiziaria, con persone che hanno visto bene di peggiorare la situazione piuttosto che aiutarlo ad uscirne. Ne è uscito stritolato e distrutto tanto da dirci spesso: io sono fuori dal carcere, ma lui non uscirà mai da me”. Durante quei terribili mesi, Tortora si fece forza pensando alla famiglia che lo attendeva fuori, e per non perdere il contatto con la quotidianità della sua vita abituale, scriveva alle figlie Silvia e Gaia molte lettere. “Il mio papà ci ha lasciato tantissime lettere - ha ricordato Gaia Tortora - lui era molto noto e questo ha comportato che tante sue cose da private diventassero pubbliche, però ci sono alcuni ricordi che custodisco solo per me, ho bisogno di questo. Infatti più cresco e sempre maggiormente apprezzo mio padre. Si trovò in una situazione allucinante, dove devi avere una grandissima forza di resistenza, e io so che per lui noi abbiamo rappresentato un’ancora di salvezza. Attraverso le lunghissime lettere che ci spediva, oltre che della sua vicenda giudiziaria, ci parlava della vita quotidiana. Ci chiedeva come andava la scuola, se litigavamo con mia sorella, voleva sapere dei nostri fidanzati. Lui cercava di conservare quella normalità, pur nella tragedia, per far si che in qualche modo mantenessimo anche noi una strada dritta, evitando di sbandare nella situazione complicata che tutti ci ritrovavamo a vivere”. Reinserire i detenuti per non farli cadere di nuovo - Insieme a Gaia Tortora era presente anche la giornalista e conduttrice televisiva Francesca Fagnani, che ha affrontato lo spinoso tema del reinserimento dei detenuti nella società civile una volta scontata la pena. “Il carcere deve rieducare chi ha sbagliato - ha sottolineato - affinché sia in grado di reinserirsi nella società. Trascorrere la giornata in branda senza fare nulla non aiuta a diventare persone migliori. Oggi il reinserimento di queste persone o è affidato a privati, ma non sempre le cose vanno per il verso giusto, oppure alla buona volontà di imprenditori generosi che aprono le porte delle loro aziende al sociale. Ma dovrebbero essere le istituzioni a trasformarsi in welfare, e a occuparsi di loro in maniera sistematica, perché solo così chi esce ha possibilità di condurre una vita differente e non ricadere negli stessi errori”. Cuore nero di Luigi Manconi La Repubblica, 25 gennaio 2024 Secondo il più recente rapporto di Antigone, fino al 31 dicembre del 2023 erano 380 i detenuti nei cosiddetti Ipm, gli Istituti penali per minorenni. La gran parte dei reclusi sono maschi e circa nella metà dei casi sono italiani. Negli Ipm sono ristretti i minori e i giovani adulti tra i 18 e i 25 anni che abbiano commesso reato prima del compimento della maggiore età. Emilia Innocenti, la protagonista del nuovo romanzo di Silvia Avallone, “Cuore nero” (Rizzoli, 2024), ha trent’anni e si porta dietro una lunga storia di detenzione. Ha espiato quindici anni di carcere per un reato assai grave e, ora, è tornata libera: ma come si ricomincia a vivere dopo 5.264 giorni di assenza dal mondo reale? E dopo che la foto dell’arresto è stata diffusa da tutti i media? È forse più facile cedere alla tentazione di restare nell’anonimato e nell’oscurità del Minorile, nonostante “la sveglia alle sette, le colazioni da distribuire, le chiavi di ottone che girano nelle toppe e fanno quel casino”. Anche il più gravoso disagio può diventare una rassicurante consuetudine. Alla quale, pure, non tutti si possono abbandonare: “Le italiane non ci vanno mai, in galera. Le italiane minorenni: impossibile. A meno che. Come Giada e Myriam, non avessero problemi di tossicodipendenza e fuggissero di continuo dalle comunità di recupero. Oppure. Come nel caso di Emilia e Marta non l’avessero combinata enorme. Così enorme che non c’era comunità, messa alla prova, lavoro socialmente utile che tenesse”. Eppure anche quando sembra non esistere un rimedio all’irrimediabile e una via per riemergere dall’abisso si può riscoprire quello che comunemente intendiamo per “bene”, insieme al “male” che pure resta, ma che tende a ridursi, rimpicciolire, sfumare. In altre parole, pur nel fondo della desolazione, non è escluso che una opportunità di scampo si palesi; e che si manifestino i tratti di una possibile, ancorché assai faticosa, nuova identità. Ciò richiede, evidentemente, l’intervento di istituzioni e politiche adeguate, di strumenti razionali e di strategie intelligenti, e non solo di misure alternative e operatori sociali. Serve che si faccia tutto il possibile e l’impossibile prima che si varchi la soglia di un luogo nero. Come il cuore disegnato da Emilia. Un cuore vero, con il ventricolo destro e quello sinistro, le arterie e i muscoli, ma con al centro un grande buco scuro. Nero. Il libro di Silvia Avallone merita una lettura più attenta e partecipe di quanto queste poche righe possano suggerire, anche per la sua qualità letteraria: una fusione particolarmente felice tra stile narrativo e analisi sociale. Le violenze sugli ultimi? Zamagni: “È la stagione dell’odio sociale” di Diego Motta Avvenire, 25 gennaio 2024 Zamagni e la violenza contro gli “invisibili”: oggi il povero non è visto solo con sentimenti di indifferenza e ostilità. È percepito come altro da sé e ciò porta a compiere azioni contro i fragili. Non è più paura, non è nemmeno disprezzo del povero. “Sta accadendo molto peggio: siamo ormai in presenza di odio sociale”. Nel 2019, Stefano Zamagni non aveva esitato a parlare con Avvenire di “aporofobia”: erano i tempi dell’offensiva contro il Terzo settore, della criminalizzazione della solidarietà voluta anche a livello istituzionale. Cinque anni dopo, l’intellettuale bolognese che ha guidato la Pontificia accademia delle scienze sociali, ricostruisce lo scenario attuale in modo ancora più diretto, guardando all’Italia e all’Europa. “Oggi il povero non è visto semplicemente con sentimenti di indifferenza e ostilità. È percepito come altro da sé da una parte dell’opinione pubblica e questo porta a compiere azioni contro la persona fragile”. Sullo sfondo c’è la violenza gratuita contro gli ultimi, siano essi migranti, disabili, senza dimora, detenuti: la cronaca è piena, quotidianamente, di fatti che rimandano al desiderio di supremazia di pochi prepotenti verso i più deboli, di persone escluse o nascoste, di dimenticati che rivendicano il diritto ad esistere, mentre il dibattito pubblico tende a relegare tutto questo nelle periferie, esistenziali e mediatiche. Così, nei bassifondi della nostra scala sociale, si avverte avanzare un senso di disumanità che preoccupa per le conseguenze possibili. Professor Zamagni, si moltiplicano gli “invisibili”. Eppure si fa finta di non vedere o, peggio, si cerca di negare qualsiasi emergenza sociale per non creare allarme nell’opinione pubblica. Perché questa ostilità verso il povero? Siamo abituati a parlare di povertà come di un fenomeno legato al reddito, ma la povertà è anche emarginazione, indifferenza. Con l’aporofobia eravamo al disprezzo degli indigenti, adesso siamo all’odio sociale, un fenomeno mai visto prima a queste latitudini. Odio e violenza hanno un’origine comune e questo spiega ciò che sta succedendo in questa epoca storica. L’odio sociale ha un inizio, 30 anni fa, quando in America nasce anche nel mondo universitario una corrente di pensiero che poi approderà in Europa e nel nostro Paese: si tratta del singolarismo. L’altra faccia dell’individualismo... Il singolarismo è l’estremizzazione dell’individualismo, che nasce invece molto tempo prima, all’epoca dell’Illuminismo. In quella fase storica, l’individuo almeno era parte della comunità, aveva un’appartenenza. Il singolarismo recide proprio questo tipo di legame: adesso ognuno si pensa come un unicuum e, in quanto tale, deve differenziarsi. L’atteggiamento aporofobico è stata una prima conseguenza della diffusione del singolarismo, che prevede l’espulsione e l’annullamento dell’altro. Se l’individualismo è stato superato, allora adesso diventa a rischio anche la comunità... Esatto. Di questo passo dovremo fare i conti con la scomparsa della comunità, che è già in atto. È la seconda secolarizzazione: nella prima, la società e il mondo andavano avanti come se Dio non esistesse. In questa seconda secolarizzazione, che stiamo vivendo, la vita pubblica procede come se a essere assente fosse l’idea stessa di comunità. Così si spiega ad esempio il calo di partecipazione alla democrazia e ai suoi riti, a partire dalle elezioni: chi va a votare oggi, se non gli anziani, che si sono formati nella stagione in cui il singolarismo non c’era? Ma una società che tende a escludere fino ad annullare la dimensione comunitaria, non è condannata a incattivirsi? Certo. Oggi, non a caso, c’è molta meno felicità pubblica: una volta si mangiava meno ma si era più felici. Se si taglia il cordone ombelicale con la comunità, l’essere umano sarà sempre più solo. Negli Stati Uniti, il 52% della popolazione soffre di solitudine. Ma è una solitudine esistenziale, che si accompagna all’aumento delle disuguaglianze sociali. Detto questo, io resto ostinatamente ottimista. Perché? Perché la persona umana nasce per la felicità. Bisogna tornare a rileggersi il capitolo 5 della “Fratelli tutti”, per immaginare la miglior politica. Papa Francesco ha intuito prima e meglio di tutti che bisogna tornare a pensare. Noi tutti, anche il Terzo settore, nella dimensione sociale abbiamo posto più enfasi sull’azione che sul pensiero. La prospettiva va capovolta e tanti non credenti l’hanno capito, paradossalmente. Sono proprio loro a riconoscere che la Chiesa cattolica è l’unico soggetto in grado di indicare una di via d’uscita, a patto che si aumenti però il tasso di produzione del pensiero. La Parola viene dal pensiero ed è necessario, anche nel mondo cattolico, investire di più nelle occasioni capaci di generare “pensiero pensante” e non “pensiero calcolante”. È ancora convinto che la società civile sia più avanti della politica? Sì, a patto che si esca una volta per tutte dal dibattito fuorviante incentrato sul bipolarismo Stato-mercato e si riconosca il ruolo del Terzo settore. Attenzione, la mancanza di una dimensione comunitaria fa male anche al mondo del volontariato e della cooperazione, però i segnali positivi non mancano: penso all’Economy of Francesco, al recente elogio del modello di economia civile arrivato da parte di Sergio Mattarella. Serve fiducia e il mondo cattolico in questo senso ha molte carte da giocare. L’odio dei poveri concentrato in una frase di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 25 gennaio 2024 “Se non sei disponibile a lavorare - ha detto la presidente del Consiglio Giorgia Meloni - non puoi pretendere di essere mantenuto con i soldi di chi lavora ogni giorno”. Un pensiero ricorrente quando si vuole governare i poveri e non liberare la società dalla povertà. L’odio dei poveri ha un motore: il lavoro. Quello che c’è ed è precario, brutale, pagato sempre peggio, talvolta persino gratuito. E, soprattutto, il lavoro che non c’è. Quello che i poveri definiti “occupabili” - cioè considerati “abili al lavoro” - devono inseguire, iscrivendosi alla cabala di corsi di formazione, sperando che portino a un lavoro, qualsiasi esso sia. E anche a 350 euro, sperando che arrivino. Perché nemmeno l’iscrizione a un corso potrebbe garantirlo, dicono le cronache di queste settimane. Chi, tra gli “occupabili”, si trova in questo girone infernale, ieri ha ricevuto un supplemento di pena da Giorgia Meloni nel “premier time”. “Se non sei disponibile a lavorare - ha detto - non puoi pretendere di essere mantenuto con i soldi di chi lavora ogni giorno”. La frase è emblematica . Vuole dire che la povertà è colpa di chi non vuole lavorare. Perché è noto che oggi, chi tra i poveri lavora, sta bene. Si riscatta dalla colpa della povertà. Si emancipa dal bisogno. È assunto nel paradiso delle merci e ne gode beato. Di bestialità simili è disseminatala storia del capitalismo. Le dicevano già tra il 1597 e il 1601, quando Elisabetta I varò le prime “leggi sui poveri” in Inghilterra. Oggi, è cambiata l’epoca, ma siamo ancora allo stesso punto. I poveri, anche quando lavorano, non escono dalla povertà. Li chiamano working poors. L’anglismo serve a infiocchettare l’odiosità di una vita bisognosa, ma non serve a evitare gli insulti quando qualcuno perde il lavoro e non ne trova un altro. La frase è anche lacunosa. Meloni, infatti, non ha detto che il suo governo è intervenuto sui criteri che regolano la “disponibilità a lavorare” del povero. Criteri che non riguardano la volontà di un individuo, ma che sono usati per condannarlo moralmente contrapponendolo a chi “lavora ogni giorno” e, magari, arriva a considerare “scroccone” o “lazzarone” chi riceve un sussidio. Di preciso, parliamo dell’abbassamento della soglia dell’indicatore della situazione economica equivalente (Isee): da 9.360 a 6 mila euro annui. Non è una questione tecnica, ma politica. È questa norma ad avere escluso gli “occupabili” dall’accesso al “supporto per la formazione e per il lavoro”, la misura a loro destinata, parallela all’”assegno di inclusione” destinato ai poveri ritenuti “inabili al lavoro”. I dati sono stati forniti da Meloni: su 249 mila potenziali “occupabili” che percepivano il reddito di cittadinanza, solo 55 mila hanno presentato domanda, poco più del 22% della platea. “È possibile che alcune di queste persone abbiano trovato lavoro privatamente - ha detto la presidente del Consiglio - ma è possibile anche che alcune di loro non cercassero un’occupazione o preferissero lavorare in nero: questa è la ragione per la quale sono molto fiera del lavoro che abbiamo fatto”. Quale lavoro possa trovare chi ha un reddito Isee superiore ai 6 mila euro ma inferiore a 9.350 euro, è immaginabile. E non sorprenderebbe il fatto che sia “in nero”. Meloni, anche qui, non ha detto l’essenziale: il problema non si porrebbe, se ci fosse un datore di lavoro disposto ad assumere con un contratto e non a sfruttare “in nero”; se ci fosse un governo disposto a disboscare la giungla dei contratti precari; se ci fosse un Welfare con un reddito di base, un sistema fiscale giusto, sanità e scuola pubbliche non stritolate nella morsa dell’aziendalizzazione. E un’”autonomia differenziata” all’orizzonte che farebbe un macello. Attribuire le responsabilità di un sistema alle sue vittime è lo scopo di chi vuole governare i poveri e non liberare la società dalla povertà. C’è chi è “fiera” di averlo fatto, come Meloni. A chi, invece, oggi la critica basterebbe ricordare che una soglia più alta non serve ad “abolire la povertà” come pure è stato detto da un balcone di palazzo Chigi. Si calpesta il diritto alla scuola di Chiara Saraceno La Stampa, 25 gennaio 2024 Il diritto all’istruzione è un diritto costituzionale, sancito non solo all’art. 34, dove si parla di universalità, gratuità e obbligatorietà della scuola di base, e di sostegno ai “capaci e meritevoli” privi di mezzi. È sancito, indirettamente ma potentemente, dall’articolo 3, secondo comma, ove si parla di rimozione degli ostacoli a pieno sviluppo della personalità, quindi del diritto ad accedere a risorse, anche, se non soprattutto, educative nei primi anni di vita in cui si gettano le basi, appunto, dello sviluppo della personalità e delle capacità. Compito della Repubblica, quindi, è assicurare pari opportunità nell’accesso alle risorse educative e di istruzione di qualità indipendentemente dalla famiglia in cui si nasce e dal luogo in cui si vive. Purtroppo questo diritto costituzionale è ancora lontano dall’essere garantito. Come documentano, tra gli altri, i dati Istat e quelli raccolti dal Gruppo di lavoro per la convenzione sui diritti dell’infanzia e l’adolescenza (Crc), esistono grandi disparità nelle risorse educative pubbliche offerte sul territorio nazionale, non solo tra regioni, ma anche all’interno delle stesse regioni e città: nidi, scuole per l’infanzia, tempo pieno nella scuola dell’obbligo, disponibilità di palestre e laboratori, effettiva disponibilità di scelta tra più indirizzi di scuola secondaria di secondo grado, differiscono a seconda di dove si vive e cresce. E spesso queste differenze si sovrappongono alle diseguaglianze sociali e di contesto, invece di compensarle. Il rischio dell’autonomia differenziata, non a caso richiesta dalle regioni più ricche, è che queste diseguaglianze aumenteranno a livello inter-regionale, in primo luogo perché si ridurranno le risorse complessive da redistribuire verso le regioni più povere, in secondo luogo perché, in grado più o meno estensivo, tutte e tre le regioni che hanno fatto richiesta di autonomia differenziata hanno incluso la scuola tra gli ambiti su cui vogliono piena governance, puntando di fatto verso una regionalizzazione dell’istruzione, differenziata per risorse, curricula, stipendi dei docenti e del personale amministrativo. Ciò forse potrà portare qualche beneficio a singole scuole e studenti nelle regioni più ricche, in termini di risorse aggiuntive, anche se forse a prezzo di un restringimento dell’autonomia scolastica che formalmente esiste e non è sufficientemente attuata e sostenuta e potrebbe essere scavalcata dal nuovo potere regionale. Ma sicuramente cristallizzerà la diversificazione e diseguaglianza dei diritti di bambine/i e adolescenti a vedersi sostenuti nello sviluppo delle proprie capacità a seconda di dove vivono. Si dirà che a contrastare questa deriva basterà la definizione dei Lep nell’istruzione. Purtroppo non è così, a meno di individuare come Lep le situazioni di maggior svantaggio, rischio molto concreto, visto che l’autonomia differenziata dovrebbe realizzarsi a costo zero. Stante che le regioni che diventeranno differenziatamente autonome tratterranno per sé più risorse, c’è anzi il rischio che non vengano neppure più garantiti quei livelli indecorosi. La cosa è particolarmente evidente in un settore dove pure la legge di stabilità per il 2022 aveva introdotto dei, pur minimi Lep: quello dei servizi educativi per la prima infanzia. Accanto all’obiettivo definito nel Pnrr di raggiungere entro il 2026 almeno il vecchio obiettivo europeo del 33% di copertura nei nidi su tutto il territorio nazionale, erano state stanziate risorse per garantirne il funzionamento. Ma l’obiettivo è stato fortemente ridimensionato nella riformulazione del Pnrr decisa dal governo Meloni e la sua attuazione rimandata ad altri fondi ancora da individuare, benché nel frattempo l’Unione Europea abbia alzato l’asticella al 45% di copertura. Le regioni e i comuni più sguarniti, per lo più tutti nel Mezzogiorno, rischiano di rimanere tali ancora per molto tempo , nonostante uno degli obiettivi del Pnrr fosse la riduzione delle diseguaglianze territoriali. Questo è successo senza che sia stata ancora approvata l’autonomia differenziata. È un tema che viene affrontato oggi in un seminario organizzato a Roma da Alleanza per l’infanzia con il patrocinio di Anci, dal titolo “Politiche educative e servizi integrati per la prima infanzia e i genitori: una sfida che parte dai territori”. L’obiettivo è di evidenziare le criticità che si presentano in un settore così cruciale per i diritti educativi dei bambini e per l’uguaglianza delle opportunità, ma anche di mettere in comunicazione le molte buone pratiche che sono realizzate in Italia, per lo più in collaborazione con il Terzo settore, non solo nell’organizzazione dei servizi e nel contrasto alla povertà educativa, ma anche nel sostegno alle capacità genitoriali fin dai primi mesi di vita dei bambini. Perché non si può pensare di incentivare le scelte positive di fecondità senza offrire ai bambini e ai loro genitori contesti di vita, di crescita, di apprendimento soddisfacenti e non dipendenti esclusivamente dalle risorse personali e/o dal luogo dove si vive. Migranti. Protocollo Roma-Tirana, la Camera dà il via libera di Giansandro Merli Il Manifesto, 25 gennaio 2024 Approvato il ddl di ratifica, che adesso andrà in Senato. La Corte costituzionale albanese rinvia l’esame del ricorso al 29 gennaio. La Camera dei deputati ha approvato il disegno di legge di ratifica del protocollo Roma-Tirana per la costruzione di centri di trattenimento per migranti in territorio albanese. 155 i voti favorevoli, 115 i contrari, due gli astenuti. Adesso il provvedimento governativo dovrà passare anche in Senato, dove l’iter di approvazione si annuncia ancora più rapido. La maggioranza è stata compatta nel sostenere il progetto fortemente voluto dalla premier Giorgia Meloni. Tutti gli emendamenti, ordini del giorno e pregiudiziali di costituzionalità e merito presentati dalle opposizioni sono stati respinti. “Con l’approvazione del ddl si traccia la rotta per nuove politiche migratorie e difesa dei confini”, ha affermato il capogruppo di Fratelli d’Italia Tommaso Foti. Secondo i partiti del centro-sinistra l’intesa è uno spot elettorale di Meloni in vista delle europee anche perché rimangono problemi logistici, incongruenze giuridiche e costi spropositati. Per ora sono calcolati complessivamente in quasi 700 milioni di euro in cinque anni, ma lieviteranno ancora quando saranno chiarite tutte le voci di spesa. A pieno regime nei centri in Albania saranno “delocalizzati” fino a 3mila migranti contemporaneamente. Nell’ipotesi del governo dovrebbero alternarsi mensilmente, ottenendo la protezione e il trasferimento in Italia oppure il rigetto della domanda d’asilo e il rimpatrio, al termine delle procedure accelerate di frontiera. Ipotesi di ritmo che difficilmente potrà avere riscontro nella realtà. Il governo ha manifestato l’intenzione di trasferire solo uomini soccorsi in acque internazionali - sbarcando in Italia minori, donne e gli altri soggetti vulnerabili - ma sulle procedure di screening, presumibilmente a bordo delle navi, restano grandi punti interrogativi legali e operativi. Intanto la Corte costituzionale di Tirana, che sta esaminando il ricorso delle opposizioni parlamentari albanesi, ha rinviato al 29 gennaio l’esame del protocollo. Nell’udienza di ieri i ricorrenti hanno chiesto di presentare nuove prove, citando anche le obiezioni sollevate da Amnesty. La sentenza deve arrivare entro il 6 marzo. Migranti in Albania, bufera sul primo sì. “Negati tutti i diritti e no ai controlli” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 25 gennaio 2024 No all’ingresso delle organizzazioni internazionali nei Centri, no a una relazione semestrale in Parlamento e soprattutto no alla dichiarazione esplicita che nessun migrante vulnerabile sarà portato in Albania, quindi nessun minore, donna, anziano o vittima di tortura, violenza e abuso sessuale. Con una nuova inaudita stretta alle garanzie dei diritti dei migranti e in spregio a ogni trasparenza nei confronti del Parlamento, la Camera - dopo aver bocciato tutti gli emendamenti delle opposizioni - ha approvato (con una maggioranza non larga) il disegno di legge di ratifica dell’accordo Italia-Albania che ora passerà in Senato. Un iter rapidissimo quello parlamentare in Italia per spingere sull’acceleratore di un accordo che non ha ancora il semaforo verde a Tirana dove la Corte costituzionale è tornata a riunirsi ieri per esaminare il ricorso delle opposizioni che sono riuscite a bloccare l’approvazione in parlamento paventando la negazione di diritti costituzionali. La decisione potrebbe arrivare la prossima settimana. In Italia invece si corre, approvando un testo che - se non verrà modificato - non garantisce neanche la presenza delle organizzazioni internazionali e umanitarie nei centri e non mette nero su bianco quello che, peraltro, la legge italiana prevede: e cioè che le procedure accelerate di frontiera (perché sono queste che verranno applicate a chi viene soccorso in mare in acque internazionali da navi militari italiane e portato in Albania) sono riservate soltanto a migranti non vulnerabili che arrivano da Paesi sicuri. Una categoria, quella dei vulnerabili, prevista dalla normativa italiana che include minori, donne e vittime di qualsiasi tipo di tortura e violenza, di fatto tutti i migranti che arrivano dalla Libia. Un dettaglio non da poco, peraltro garantito dal sottosegretario ai rapporti con il Parlamento Cirielli che solo pochi giorni fa aveva risposto per iscritto ai quesiti delle opposizioni assicurando che solo i non vulnerabili sarebbero stati portati nei centri. Per le opposizioni l’accordo produrrà una pioggia di ricorsi se non di conseguenze penali per il governo per la conclamata violazione delle leggi italiane. “Nei prossimi mesi, mentre vi starete scattando la photo opportunity prima delle elezioni europee per rivendicare qualcosa che ancora non esiste, le responsabilità penali per le ingiuste detenzioni ricadranno tutte su di voi”, prevede Riccardo Magi, segretario di +Europa. Molto critico anche il Pd che con Laura Boldrini dice: “Questo accordo viola i diritti e costa una fortuna. Si spendono 670 milioni di euro e in più le persone che saranno portate nei centri in Albania nella quasi totalità dei casi torneranno in Italia sia che ottengano la protezione internazionale, sia che non la ottengano”. Pesanti critiche anche da Italia Viva: “Il governo fa campagna elettorale a spese degli italiani. Se ci fosse l’attuazione ci sarebbero i ricorsi”, dice Maria Elena Boschi. E anche le organizzazioni umanitarie rispondono con durezza: “Accordo inaccettabile, un fallimento di umanità per l’Europa”, sostiene Emergency. Stati Uniti. Sopravvive all’esecuzione ma il boia ci riproverà soffocandolo con l’azoto di Sergio D’Elia* L’Unità, 25 gennaio 2024 Kenneth Smith aveva 20 anni quando ha commesso l’omicidio. Ora ne ha 58. È stato in carcere per 35 anni, come si fa a dire che non è stato punito? È stato nella camera della morte già una volta, come si fa a dire che non è stato già giustiziato? “Dov’è la pietà?”, chiede dal carcere al telefono con un giornalista. Nella storia infinita - arcaica, moderna, contemporanea - della pena di morte in America le hanno provate tutte per mandare all’altro mondo chi in questo mondo è stato cattivo. Occhio per occhio, chi ha ucciso dev’essere ucciso. Nessuno pietà per chi ha violato la legge e squilibrato l’ordine: pubblico, sociale, morale. La lotta millenaria tra il bene e il male ha generato la realtà maligna della “striscia della Bibbia” che in America coincide con quella della pena di morte. In Texas, in Alabama e in altri Stati del sud, la regola terribile dell’Antico Testamento raramente ha conosciuto eccezioni. Nella cosiddetta “fascia della morte”, la giustizia è stata cieca alla vista dell’uomo della pena che, pur non estraneo, può cambiare e diventare diverso da quello del delitto. La giustizia ha usato solo la spada, non ha conosciuto la grazia, non ha raggiunto l’equilibrio della bilancia, non ha posto un limite alla pena. Il Libro sacro non ha voltato pagina, si è fermato al principio dell’antico messaggio. Il lieto fine della seconda parte della storia non è stato raccontato, la sua buona novella- “non giudicare” e, soprattutto “non uccidere” - raramente è stata ascoltata e accolta. È “crudele e inusuale”, ha sentenziato a un certo punto della storia la Corte Suprema degli Stati Uniti. Trent’anni fa. In base all’Ottavo Emendamento della Costituzione americana. Ma “crudele e inusuale” che cosa? Non la pena di morte, in quanto castigo fuori dal tempo e fuori dal mondo, ma la maniera di passare dalle parole ai fatti, dal dire giustizia al fare giustizia. E così, nella storia arcaica della pena di morte in America, la modernità e civiltà della pena ha riguardato solo il come, il modo di eseguirla. Una volta si praticava il linciaggio. L’esecuzione sommaria di individui ritenuti pericolosi dall’opinione comune non ebbe termine con la fine della persecuzione di attivisti, bianchi e neri, impegnati contro la schiavitù e a favore dell’integrazione razziale. La “legge di Linch” durò fino agli anni Sessanta del secolo scorso e colpì anche attivisti appartenenti al movimento dei diritti civili. Dalla giustizia extragiudiziaria si passò poi a una teoria di mezzi di esecuzione considerati “legali” e civili ma non meno terribili di quelli della giustizia fai-da-te: dall’impiccagione alla fucilazione, dalla sedia elettrica alla camera a gas. Quando la Corte Suprema li ha dichiarati mezzi “crudeli e inusuali” seppur giustificati da nobili fini di giustizia, l’America scoprì una nuova frontiera, quella della iniezione letale, la dolce morte, un metodo “più civile e umano” di fare giustizia. Pensate un po’ come avviene: il condannato è legato con le braccia aperte a una barella, viene prima addormentato, poi anestetizzato e infine avvelenato. Il condannato muore su un lettino a forma di croce che, in tal modo, da simbolo universale di amore e fratellanza, ritorna al suo scopo originario, cioè lo strumento dell’estremo supplizio. Kenneth Smith arrivò all’ultima stazione di un calvario simile la sera del 17 novembre 2022, in Alabama. Era la sua prima volta faccia a faccia con la morte. I carnefici del carcere di Holman avevano diverse ore a disposizione per ucciderlo. Lo hanno legato al lettino a forma di croce nella “camera della morte” e hanno cercato di iniettargli una miscela letale di sostanze chimiche. Ma hanno fallito. Come quello di Cristo, il corpo di Kenneth fu trafitto più volte in oltre un’ora di tentativi di inserire i due aghi dell’iniezione letale. Incapaci di trovare la vena giusta, i carnefici hanno abbandonato il proposito quando l’orologio ha raggiunto la mezzanotte e la condanna a morte dello Stato è scaduta. In un paese civile, accade anche in Iran che civile non lo è, chi sopravvive a un primo tentativo di esecuzione ha salva la vita. È umano, è giusto. La esecuzione capitale che è anche, se non del tutto, un rito simbolico ha già compiuto la sua opera mortifera e teatrale di giustizia esemplare. L’esecuzione è stata fatta già nel novembre del 2022. Ora l’Alabama vuole ucciderlo di nuovo. Questa volta, lo Stato della “striscia della morte” ha escogitato un piano infallibile. Vuole soffocare Smith legandogli una maschera ermetica sul viso e costringendolo a inalare solo azoto puro, un gas inerte che priverebbe il suo corpo di ossigeno. In Alabama sono vietati gli incontri in presenza tra giornalisti e prigionieri nel braccio della morte. Ma puoi parlare per telefono col condannato o porre domande scritte e ricevere risposte scritte tramite un intermediario. Se penso che in Italia, nelle sezioni di isolamento del 41 bis i detenuti sono “oscurati” da una specie di segreto di stato e i loro sensi e sentimenti umani fondamentali totalmente negati! “Non sono pronto, sogno che mi vengono a prendere. Dov’è la pietà?”, ha detto il condannato a morire asfissiato in una telefonata dal braccio della morte. Smith oggi ha 58 anni, ne aveva 20 quando ha commesso l’omicidio che lo ha portato nel braccio della morte. È stato in carcere già per 35 anni, come si fa a dire che non è stato punito? È stato nella camera della morte già una volta, come si fa a dire che non è stato già giustiziato? Ha sofferto lui, ha sofferto la sua famiglia. Nausea, attacchi di panico, emicrania, insonnia, ansia e depressione, lo accompagnano da quando è uscito “vivo” quella prima volta dalla stanza della morte. “Questa è solo una piccola parte di ciò con cui ho a che fare quotidianamente. Tortura, fondamentalmente”, ha detto. Dalla iniezione letale alla “ipossia da azoto”, questo è il termine scientifico e ipocrita del nuovo protocollo di morte dello Stato dell’Alabama, ma come nella vecchia, crudele e inusuale camera a gas, di fatto i condannati verranno uccisi privandoli completamente dell’ossigeno. Morti asfissiati, come si usava fino al 1999, quando nella camera della morte a tenuta stagna scioglievano la pasticca di cianuro, un veleno che impediva all’ossigeno di arrivare al cervello e subito dopo nel cuore. Lo Stato sostiene che l’esecuzione con gas di azoto causerà rapidamente uno stato di incoscienza e la morte giungerà dolce e beata, come dolce e beata doveva essere l’iniezione di veleno con cui Kenneth è già stato torturato una volta. Non esiste alcuna prova plausibile di questo. Esperti medici e attivisti hanno messo in guardia dal rischio di incidenti catastrofici, che vanno dalle convulsioni violente alla sopravvivenza in uno stato vegetativo, e persino dalla possibilità che il gas fuoriesca dalla maschera e uccida altre persone nella stanza. La storia americana è fondata sulla Bibbia e il fucile. Dall’una origina l’idea di giustizia, dall’altro l’idea di sicurezza. Ma pene di morte e pene fino alla morte non hanno fatto diminuire i reati. La libera circolazione delle armi ha minato l’ordine e la sicurezza negli Stati Uniti. La società “legge e ordine”, la potestà punitiva dello Stato e il potere politico nato dalla canna del fucile, invece di impedire i delitti di sangue, per tragico paradosso, ha prodotto la realtà degli omicidi che in America avvengono con frequenza maggiore rispetto al resto del mondo. È la solita storia. È la maledizione dei mezzi che prefigurano i fini. Sul viatico manicheo della lotta tra il bene e il male, a furia di pena capitale e di “legge e ordine”, anche uno Stato democratico può generare Caini o diventare esso stesso Caino! Se vogliamo dirci uno stato democratico, un paese civile, occorre cambiare paradigma, adottare un modo di pensare, di sentire e di agire radicalmente nonviolento. Perché il paradigma meccanicistico secondo il quale “al male, si risponde con il male”, genera mostri e fatti terribili, crudeli e inusuali come quelli dell’Alabama. Uno Stato che evidentemente considera Kenneth Smith l’uomo peggiore d’America, se è così fortemente intenzionato a ucciderlo. A ucciderlo due volte. *Associazione Nessuno tocchi Caino Medio Oriente. Il Sudafrica trascina il continente nella causa contro Israele di Luca Attanasio Il Domani, 25 gennaio 2024 Il Sudafrica non è solo nella sua causa contro Israele. Il primo paese che gli si affiancato è la Namibia, in un tentativo di colpire così la Germania. Non c’è solo il Sudafrica a schierarsi contro Israele. La causa intentata presso la Corte internazionale di giustizia (Cig) alla fine dello scorso anno contro lo stato ebraico accusato di genocidio sta producendo un effetto domino tra gli stati e le opinioni pubbliche del continente e innescando posizionamenti sempre più netti. Il primo paese ad affiancare Pretoria è stato la Namibia. Il presidente Hage Geingob si è subito pronunciato a sostegno della causa per poi si scagliarsi ferocemente contro la Germania accorsa in difesa di Israele. “La Germania”, ha detto, “non può esprimere moralmente l’impegno verso la Convenzione dell’Onu contro il genocidio e sostenere allo stesso tempo l’equivalente di un Olocausto a Gaza”. Dietro tale affermazione non c’è solo l’irritazione per un mancato allineamento, ma anche la rabbia per un passato coloniale incancellabile. La Germania, infatti, ex colonizzatrice della Namibia, ha commesso lì il primo genocidio del XX secolo (1904-1908), Circa l’80 per cento del popolo Herero e il 50 per cento dei Nama dell’allora Africa sud-occidentale tedesca sono morti dopo essere stati spinti nel deserto dai soldati tedeschi che avevano precedentemente sigillato le pozze d’acqua. Decine di migliaia di namibiani sono stati massacrati o sottoposti a esperimenti raccapriccianti per dimostrarne l’inferiorità razziale. In quelle che gli storici descrivono come le drammatiche prove generali per lo sterminio degli ebrei di alcuni decenni dopo, trovarono la morte circa 75mila persone. Secondo il presidente Geingob la posizione della Germania dimostra “l’incapacità di trarre lezioni dalla sua orribile storia”. Gli altri - “Come individui, organizzazioni e movimenti sociali della società civile”, recita un appello di qualche giorno fa che porta firme pesantissime del mondo politico, culturale e sociale del Mozambico, “esprimiamo il nostro pieno e incondizionato sostegno a questa iniziativa del Sudafrica e chiediamo al governo del Mozambico di prendere una posizione pubblica e inequivocabile a sostegno di questo causa alla Corte internazionale di giustizia. Chiediamo inoltre al nostro governo di interrompere qualsiasi rapporto con lo Stato di Israele e al Sadc (Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale) e all’Unione Africana di prendere le misure necessarie affinché un maggior numero di Stati africani si attivi per condannare gli atti perpetrati da Israele”. La Tunisia annuncia di non voler appoggiare alcuna azione legale contro Israele non perché non la condivida, ma perché il suo presidente Saied vuole evitare “ogni azione che riconosca, anche indirettamente, l’esistenza legale dello stato ebraico”. Fa parte, però, assieme a Egitto, Libia, Marocco dell’Organizzazione della cooperazione islamica, il secondo blocco multinazionale più grande al mondo, subito scesa in campo a fianco del Sudafrica. C’è una lunga tradizione che lega il Sudafrica alla Palestina e, allo stesso tempo, caratterizza il paese dell’Africa australe per le sue posizioni anti Israele. Dopo il suo rilascio dal carcere, Nelson Mandela strinse una relazione con l’Organizzazione per la liberazione della Palestina di Yasser Arafat, che aveva sostenuto la lotta dell’Anc contro l’apartheid mentre Israele sosteneva il regime della minoranza bianca. A febbraio scorso, poi, in occasione dell’apertura del vertice dell’Unione africana, una delegazione di osservatori israeliani guidata dall’ambasciatrice Sharon Bar-Li è stata platealmente espulsa dalla plenaria. In quell’occasione il ministero degli Esteri di Tel Aviv aveva dichiarato: “È triste vedere che l’Unione africana sia in ostaggio di un piccolo numero di paesi estremisti come l’Algeria e il Sudafrica”. Il continente - Nel complesso, l’Africa, per il suo passato di soggiogamento al potere coloniale e per una sofferta storia di liberazione dall’oppressione di potenze occupanti e colonizzatrici, continua in massa a identificarsi con i palestinesi e la loro lotta per una patria indipendente e libera. Quando, a dicembre, l’Assemblea generale delle Nazioni unite ha approvato una risoluzione che chiedeva un cessate il fuoco umanitario a Gaza, la maggior parte dei paesi africani si è espressa a favore della mozione. La netta maggioranza dei paesi africani(52 su 55, ndr), poi, ha riconosciuto la Palestina come Stato sovrano. Ma non è solo Israele, come scrive Nesrine Malik sul Guardian, a essere sotto processo. Il Sudafrica, si pone alla testa del Global South e mette alla prova la pretesa di superiorità morale dell’occidente. Le fa eco sul New York Times David Monyae, direttore del Centro di studi Africa-Cina dell’Università di Johannesburg, per il quale “intentando una causa per genocidio contro Israele, il Sudafrica non si è limitato a chiamare a giudizio il governo israeliano, ma ha anche sfidato l’ordine globale del secondo Dopoguerra guidato dal principale alleato di Israele, gli Stati Uniti. Il caso ha dimostrato che una nazione africana può farsi avanti per denunciare quello che alcuni considerano il doppio standard dei paesi occidentali in materia di diritti umani”. Repubblica Democratica del Congo. Processo Attanasio, nuovo rinvio di Giusy Baioni e Gianni Rosini Il Fatto Quotidiano, 25 gennaio 2024 La Farnesina a favore dell’immunità ai funzionari Pam: “Viene riconosciuta per consuetudine”. Prossima udienza il 13 febbraio: si dovrà ancora attendere per sapere se Rocco Leone, il funzionario del Programma Alimentare Mondiale imputato nel procedimento per l’uccisione dell’ambasciatore Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e dell’autista Mustapha Milambo, potrà godere o meno dell’immunità funzionale ed evitare il processo. Quella che si è appena conclusa a piazzale Clodio era la quinta udienza preliminare del procedimento che vede Leone accusato di omesse cautele, falso e omicidio colposo. La posizione dell’altro funzionario Mansour Rwagaza, inizialmente coimputato, era già stata stralciata perché ritenuto irreperibile. Dall’udienza si attendeva un pronunciamento in merito all’immunità funzionale dell’imputato: secondo il Pam, infatti, Leone non sarebbe processabile perché protetto da immunità; secondo la procura, invece, tali condizioni non sussisterebbero. Per dirimere la questione, la gup Marisa Mosetti aveva dunque convocato la Farnesina che ha inviato il ministro plenipotenziario Stefano Zanini, dal 2019 a capo del servizio per gli Affari Giuridici, il contenzioso diplomatico e i trattati del Ministero, accompagnato da Valentina Savastano, attualmente capo Ufficio II del Cerimoniale diplomatico della Repubblica e che risulta aver ricoperto nel recente passato incarichi nella Rappresentanza Permanente dell’Italia presso la Fao (sotto il cui ombrello opera anche il Pam) e di essere stata per due anni Vice Chair del Committee on World Food Security (CFS), un altro organismo legato alla Fao. I due funzionari incaricati dalla Farnesina hanno presentato una memoria in merito alle normative e alla prassi che regolano i rapporti dello Stato con le agenzie Onu (ricordiamo che il comparto “food” delle Nazioni Unite - Fao, WFP e Ifad - ha sede a Roma) e risposto alle domande del giudice. La questione può sembrare tecnica ma sarà dirimente: in base ai Trattati, ogni anno le agenzie Onu devono depositare l’elenco aggiornato dei propri funzionari in attività che dunque sono coperti da immunità. Una norma che però non viene rispettata poiché “per consuetudine”, si legge, si ritiene che i funzionari in servizio godano ipso facto dell’immunità, per cui gli elenchi non sono aggiornati e il nome di Rocco Leone non vi compare: la prassi internazionale farebbe prevalere l’immunità, secondo loro. I due funzionari hanno rimarcato la sussistenza dell’immunità richiamando gli accordi di programma fra la Repubblica Democratica del Congo e l’Italia che “dovrebbe riconoscere immunità per via dell’accordo di programma fra Onu e Rd Congo”. La Farnesina ha spiegato che la comunicazione dei nominativi avviene con nota verbale e ha aggiunto che queste comunicazioni “hanno natura dichiarativa e non costitutiva dell’immunità funzionale”. Va sottolineato che per la prima volta dal 21 febbraio 2021 la Farnesina ha preso posizione ufficialmente: fino a oggi si era limitata a giustificare la mancata costituzione di parte civile con gli “interessi nazionali”, mentre oggi, con i suoi funzionari, ha espresso chiaramente il suo parere positivo sulla richiesta di immunità da parte degli imputati e del Pam. Secondo Zanini, l’Onu ha contestato ufficialmente al governo italiano il fatto che sia stata messa in dubbio l’immunità dei due funzionari e ha segnalato che in caso di persistenza del processo penale si andrebbe incontro a una controversia da sollevare davanti alla Corte Internazionale di Giustizia. Rispondendo a una domanda del giudice, il funzionario ha aggiunto che secondo il Ministero “un parere sfavorevole all’Italia della Corte Internazionale di Giustizia avrebbe un impatto significativo in termini di credibilità internazionale del nostro Paese e sulla nostra politica estera”. Secondo il Maeci, in sintesi, la prassi vorrebbe che l’immunità sia considerata valida anche in mancanza di elenchi aggiornati. Un approccio che la Procura contesta. La Gup ha rinviato le conclusioni a febbraio, decidendo per ora di acquisire solo parzialmente la documentazione prodotta dai due funzionari della Farnesina, nella parte documentale e non in quella di valutazione. Nonostante le dichiarazioni altisonanti che ancora lo scorso dicembre la premier Giorgia Meloni aveva riservato alla memoria di Luca Attanasio durante la Conferenza degli ambasciatori, ricordando “l’estremo sacrificio” del diplomatico “ucciso nel compimento dei suoi doveri insieme al carabiniere Vittorio Iacovacci”, il governo italiano non solo non si è costituito parte civile nel procedimento per l’omicidio dei suoi “servitori”, ma di fatto punta a privilegiare i rapporti diplomatici con l’Onu a scapito della ricerca di verità.