Carceri strapiene: l’allarmante documento del Garante nazionale di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 gennaio 2024 Negli Istituti penitenziari italiani, partendo dal dato del 17 gennaio scorso, la popolazione detenuta ha raggiunto la cifra preoccupante di 60.382 persone, superando la capienza effettiva di 47.300 posti disponibili. L’uscente Garante nazionale delle persone private della libertà, a partire da questo allarmante contesto di sovraffollamento, ha condotto un’analisi diacronica per comprendere l’evoluzione del fenomeno carcerario nel nostro Paese. Dallo studio curato da Emanuele Cappelli e Giovanni Suriano dell’unità organizzativa “Privazione della libertà in ambito penale” dell’ufficio del Garante, è emerso un aumento costante della popolazione carceraria negli ultimi tre anni, con un incremento totale di oltre 8.000 persone (8.031), corrispondente al 13,31%. Questa crescita, degna di nota, è stata costante anche durante l’emergenza pandemica da Covid-19. Tuttavia, l’aumento più significativo si è verificato nell’ultimo anno, con un incremento quasi doppio rispetto agli anni precedenti: + 3.985 detenuti nel 2023, +2.010 nel 2022 e +1.884 nel 2021. Contemporaneamente all’aumento della popolazione detenuta, si è registrata una diminuzione dei posti effettivamente disponibili, scesi da 3.371 nel 2020 a 3.905 nel 2024. Il risultato di questa combinazione è un drammatico aumento dell’indice di affollamento, passato dal 113,18% nel 2020 al 127,48% attuale. L’Italia è testimone di una situazione critica in diverse carceri, con particolare allarme per la Lombardia, dove ben 10 istituti mostrano tassi di sovraffollamento preoccupanti. La Casa circondariale “San Vittore” di Milano, in particolare, si trova in una situazione estrema: con 458 posti disponibili e 1068 detenuti, l’affollamento supera il 233%. In questa struttura, alcune persone condividono uno spazio vitale inferiore ai 3 metri quadri, una condizione che la Corte europea dei diritti dell’uomo considera una forte presunzione di trattamento inumano e degradante. Lombardia, Lazio, Abruzzo e Molise con il maggiore aumento di detenuti Entriamo nel merito dello studio. L’analisi ha preso in considerazione i dati statistici relativi a cinque diverse rilevazioni corrispondenti al periodo 2020- 2024, attinti dagli applicativi informatici messi a disposizione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Lo studio, che ha come oggetto di analisi il sovraffollamento della popolazione detenuta negli istituti penitenziari, è stato condotto secondo un approccio diacronico che pone a confronto i dati statistici. La popolazione detenuta è stata esaminata su base regionale, evidenziando un aumento significativo del numero di detenuti in tutto il paese. La Tabella n° 1 evidenzia il significativo aumento del numero di presenze di persone detenute presso i 190 Istituti penitenziari dal dicembre 2020 all’ultima rilevazione dell’11 gennaio 2024, il cui incremento è di 8.031 persone pari al 13,31%. Dal Grafico n° 2 si può rilevare come il maggiore aumento del numero delle presenze di persone detenute negli istituti penitenziari si sia registrato nel 2023, un dato quantitativo (3.985) che risulta quasi raddoppiato rispetto alle differenze tra i periodi precedenti (1.884 nel 2021 e 2.010 nel 2022). La Tabella n° 2 evidenzia i Provveditorati regionali con l’aumento più significativo tra il 2020 e il 2024. La Lombardia, seguita dal Lazio, Abruzzo e Molise, ha registrato il maggiore aumento numerico di detenuti. L’analisi dell’indice di affollamento, presentato nella Tabella n° 3, rivela che diverse regioni hanno mantenuto indici elevati. La Puglia e Basilicata hanno registrato il dato più alto, passando dal 139,45% nel 2020 al 163,5% nel 2024. Anche la Lombardia, il Lazio, Abruzzo e Molise, il Triveneto e la Campania mostrano indici significativi. Il Grafico n° 3 conferma l’aumento dell’indice di affollamento, che ha raggiunto il picco nel 2023 e sembra destinato a crescere ulteriormente. La Tabella n° 4 e il Grafico n° 5 evidenziano il divario tra la capienza e i posti disponibili. In tutto il Paese, si è registrato un progressivo aumento del divario nel periodo preso in esame, con una diminuzione dei posti disponibili a fronte di un aumento del numero di detenuti. La Tabella n° 5, che conclude lo studio, riprende in esame l’indice di affollamento ottenuto dal rapporto tra il numero delle presenze di detenuti e quello dei posti disponibili, riferito a tutti singoli Istituti penitenziari e rilevato all’ 11 gennaio 2024, secondo un ordine decrescente. partito il “Grande Satyagraha 2024” promosso da Nessuno Tocchi Caino. Il contesto del sistema penitenziario italiano ha continuato a essere oggetto di valutazione attraverso l’indicatore cruciale dell’indice di affollamento. Questo parametro, che riflette la densità di detenuti rispetto alla capacità delle strutture carcerarie, emerge come un barometro significativo delle criticità ricorrenti che affliggono il sistema nel suo complesso. Come ampiamente noto, la questione dell’affollamento carcerario è stata sottolineata in modo inequivocabile dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, in particolare con la sentenza Torreggiani e altri c. Italia datata 8 gennaio 2013. In quel contesto, l’Italia fu condannata per la situazione carceraria critica che presentava un numero di detenuti pari a 65.701, distribuiti tra i 206 istituti penitenziari, con un indice di affollamento del 139,67%. Il periodo successivo a questa condanna vide l’implementazione di interventi normativi e soluzioni da parte del governo e del Parlamento, il che portò, entro la fine dell’anno successivo, a una riduzione del numero di detenuti a 62.536, abbassando l’indice di affollamento al 131%. Tuttavia, a distanza di oltre un decennio da quella fase critica, l’ultima rilevazione dell’11 gennaio 2024 rivela una situazione preoccupante. Il numero di detenuti è nuovamente risalito a 60.304, con un indice di affollamento del 127,48%. Questo dato indica chiaramente la persistenza delle sfide nel sistema penitenziario italiano, nonostante gli sforzi passati per affrontare la questione dell’affollamento. Alla luce dei dati emersi dallo studio, il Governo è invitato a intraprendere azioni urgenti per ridurre il sovraffollamento nelle carceri italiane, attraverso misure volte a ridurre la popolazione carceraria, a migliorare la gestione dei processi penali e a potenziare le misure alternative alla detenzione. Nel contempo, dalla mezzanotte di lunedì, è partito il “Grande Satyagraha 2024” promosso da Nessuno Tocchi Caino. “Sosteniamo - annuncia l’associazione radicale - la proposta di legge sulla liberazione anticipata speciale (che contiene modifiche anche di quella ordinamentale) presentata da Roberto Giachetti il quale, insieme a Rita Bernardini, partecipa al Satyagraha nella forma dello sciopero della fame”. E aggiunge: “Facciamo nostre anche tutte le altre proposte normative che raggiungano lo stesso obiettivo di diminuire la popolazione reclusa e migliorare le condizioni di vita e di lavoro di tutta la comunità penitenziaria”. “Situazione catastrofica nelle carceri”. Bernardini e Giachetti in sciopero della fame di Maurizio Ermisino retisolidali.it, 24 gennaio 2024 Rita Bernardini e Roberto Giachetti hanno iniziato ieri lo sciopero della fame promosso da Nessuno Tocchi Caino. “152 suicidi in 24 mesi impongono a tutti una riflessione e un’azione. Dignità è un Paese dove le carceri non siano sovraffollate e assicurino il reinserimento sociale dei detenuti”. Queste sono le parole pronunciate dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella al momento del suo insediamento. Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino e Roberto Giachetti, deputato di Italia Viva, insieme ad altre persone, hanno deciso di fare proprie queste parole e hanno iniziato ieri lo sciopero della fame promosso da Nessuno Tocchi Caino, perché si possa risolvere la situazione nelle carceri del nostro Paese. Ed è bastato annunciarlo perché altri cittadini decidessero di unirsi nel cammino di questa iniziativa nonviolenta. Un’iniziativa promossa da chi è convinto che uno Stato che voglia definirsi “democratico” e “di diritto” non possa permettersi la catastrofica situazione attuale. Sono infatti oltre 60.166 i detenuti costretti a vivere in 47.540 posti con un sovraffollamento medio del 127%. In particolare, 103 istituti penitenziari su 189 hanno un sovraffollamento del 150%, il che vuol dire che lo Stato italiano in 100 posti disponibili accalca 150 esseri umani. Mancano 18mila agenti, e poi direttori, educatori, assistenti sociali, magistrati di sorveglianza. “La nostra non è una protesta” ci spiega Rita Bernardini, già Deputata radicale nella XVI legislatura (2008-2013), Presidente di Nessuno Tocchi Caino e collaboratrice di Radio Radicale. “È una proposta per la quale ci impegniamo a dialogare con i referenti istituzionali, a partire dal Presidente del Consiglio e dal Ministro della Giustizia Carlo Nordio. Il concetto è questo: noi non possiamo dare per scontato che loro siano contrari al fatto che la pena nel nostro Paese sia scontata secondo Costituzione. Dobbiamo lavorare e chiedere che accettino il dialogo su questo principio. Loro hanno giurato sulla Costituzione. Spesso oggi la pena è fuori dai parametri costituzionali perché non assicura quella dignità di cui parlava nel momento del suo insediamento Sergio Mattarella. Poiché hanno giurato sulla Costituzione chiediamo che questi parametri costituzionali, quelli secondo cui la pena non può essere contro il senso di umanità e deve tendere alla socializzazione dei detenuti, vengano rispettati. Perché oggi, con i numeri del sovraffollamento e la carenza di personale, sono impossibili da assicurare”. È la ricerca di un dialogo costruttivo, da iniziare senza pregiudizi. “Ci troviamo a un anno dall’insediamento del nuovo governo e del nuovo parlamento” spiega Rita Bernardini. “Fino a questo momento quello che è stato detto sulle carceri è contraddittorio e anche negativo. Se si afferma, come ha detto spesso il ministro Nordio, di essere per le misure alternative al carcere e poi, da un lato, si introducono nuove fattispecie di reato e, dall’altro, con la presunta necessità di costruire nuove carceri utilizzando le caserme si crea una contraddizione. Su questo vorremmo ragionare con il governo”. La riforma mancata dei governi Renzi e Gentiloni - Rita BernardiniIl dialogo con l’attuale governo è necessario, dopo che i precedenti governi non sembrano essere riusciti a risolvere la questione, nonostante degli spiragli di luce che erano stati aperti, ma che non hanno portato a molto. “A parte l’indulto del 2006, quando il Ministro della Giustizia era Mastella, indulto e amnistia si sono rivelate misure impossibili da praticare” ci spiega la Presidente di Nessuno Tocchi Caino. “Secondo la ratio dei costituenti venivano usate per riequilibrare il sistema: quando le carceri erano affollate si faceva l’indulto, quando i processi erano affollati si faceva l’amnistia. Adesso, con la modifica fatta nel 1992 è impossibile: è stata cambiata la Costituzione per cui ci vuole una maggioranza qualificata dei 2/3. Maggioranza che in Parlamento è impossibile raggiungere, se non, come nel 2006, quando c’è stata una volontà convergente”. Quelle misure, però, servono poi per fare le riforme. “È chiaro che se tu poi non fai niente per evitare le cause dell’affollamento penitenziario e dei processi, dopo qualche anno si ripresenta la stessa situazione. È chiaro che servono riforme strutturali. Il carcere così com’è ora è criminogeno, lo dicono le statistiche: chi esce dal carcere è recidivo al 70-80%. Chi invece accede a misure alternative ha una recidiva molto più bassa. Lo Stato dovrebbe puntare più su queste misure”. Ci si era quasi riusciti, qualche anno fa, ma tutto si era fermato a pochi metri dal traguardo. “Abbiamo avuto un momento di grande dialogo quando il Ministro della Giustizia era Andrea Orlando, durante i governi Renzi e Gentiloni. Erano stati indetti gli Stati Generali dell’esecuzione penale, ricordo che coordinavo il tavolo sull’affettività in carcere. Tutte queste proposte vennero rimodulate in una vera e propria riforma dell’ordinamento penitenziario. La riforma era stata approvata ma all’ultimo momento saltarono i decreti delegati. Era la vigilia delle elezioni e avevano paura di prendere voti. Parliamoci chiaro: il carcere viene usato per dire “sbattiamo tutti in galera e buttiamo via la chiave”, a fini elettorali”. Rita Bernardini: affrontare la situazione nelle carceri con la nonviolenza - Il Grande Satyagraha (è questo il nome del digiuno, che nasce in India dall’esperienza di Gandhi, e in Italia è stato uno dei simboli delle lotte politiche di Marco Pannella e del Partito Radicale) è stato deciso a dicembre scorso dal X congresso di Nessuno Tocchi Caino e intende affrontare la drammatica condizione delle nostre carceri con il metodo della nonviolenza affinché il “potere” prenda le decisioni adeguate ad una situazione che va via via aggravandosi come dimostra la realtà dei dati ripetutamente richiamati da associazioni come Nessuno Tocchi Caino, dal Garante nazionale e dai garanti locali, da accademici del diritto penale, dagli avvocati dell’UCPI e del Movimento Forense, dai volontari che quotidianamente fanno il loro ingresso in carcere. Negli istituti 18mila agenti in meno - I fattori che contribuiscono a questa situazione sono molti. Ad esempio, la quotidianità penitenziaria è stravolta anche perché gli agenti di polizia penitenziaria che fanno i turni negli istituti sono 18.000 in meno. Con pochi agenti non si possono organizzare le attività per i detenuti come corsi professionali, scuole, lavorazioni serie; persino andare all’area verde per fare il colloquio con i figli minori diventa impossibile se non c’è il personale. “Sulla polizia penitenziaria c’è una notizia di ieri: un altro agente si è suicidato” ci racconta Rita Bernardini. “Non si suicidano solo i detenuti ma anche gli agenti che vivono una situazione decisamente stressante perché sono obbligati a fare gli straordinari. Già le piante organiche sono carenti, ma in carcere sono pochi a fare i turni, i motivi delle assenze sono tantissimi. Quelli che rimangono sono sottoposti a uno stress massacrante”. Gli agenti, di fatto, vivono a loro volta un’esperienza di reclusione. “Quella dell’agente di polizia penitenziaria è l’unica figura che sta a contatto con i detenuti 24 ore su 24. Tutti i problemi - di tipo psicologico o psichiatrico, di dipendenza, familiari - si riversano sugli agenti di polizia penitenziaria. Vivono la realtà penitenziaria in modo frustrante. Nelle realtà, poche, dove i detenuti stanno meglio, stanno meglio anche gli agenti. Siamo andati a visitare il carcere di Santa Maria Capua Vetere, che ha un problema di sicurezza e di salute dei detenuti. Capita che di notte di agenti ce ne sia uno per tre piani. Se succede un incidente, un infarto, o qualsiasi cosa, prima che si attivi tutta la macchina con un solo agente passano minuti che possono essere fondamentali”. Una sanità penitenziaria carente - A questo si lega un altro discorso, quello di una sanità penitenziaria, da tempo gestita dal SSN, che è carente sotto ogni punto di vista, non in grado di fornire l’assistenza medica indispensabile ad una popolazione di per sé fragile. “Il sistema sanitario sicuramente non è in grado di affrontare non solo le emergenze ma anche le cure” riflette Rita Bernardini. “Ci sono persone che aspettano mesi e anni per poter fare un controllo e quando arriva quel controllo è troppo tardi. I dirigenti sanitari dicono, e la cosa è vera, che è difficilissimo reperire medici che vogliano lavorare in carcere. Una merce rara - anche all’esterno - è lo psichiatra. Questa carenza di medici, oss e infermieri rende le strutture molto deboli, per cui è facile morire in carcere per mancanza di prevenzione e di soccorso”. Mancano i direttori e gli educatori - E poi mancano i direttori e gli educatori: con gli ultimi “rinforzi” si coprono a malapena i pensionamenti. Che rieducazione o risocializzazione si può fare? “Gli educatori, o funzionari giuridico-pedagogici, dipendono dal Ministero della Giustizia. Abbiamo piante organiche di per sé carenti, per cui un educatore dovrebbe seguire 200-300 persone, il che è impossibile: l’ordinamento penitenziario prevede un percorso individualizzato di trattamento, La pianta organica, che è stata tagliata dalla legge Madia, era stata ridotta a 1000 educatori per tutte le carceri. Già 1000 significa che, essendo 60mila i detenuti, dovrebbero seguire 60 detenuti a testa. In realtà gli educatori non sono 1000, sono molti di meno. Dalla pianta organica prevista, non1000 ma 850, bisogna togliere quelli assegnati alle carceri. Non ci sono i concorsi, ne è stato fatto solo uno, ma per coprire i pensionamenti. Per cui ci aggiriamo su una pianta organica effettiva che è di 750 educatori, a cui va tolto chi è in maternità, chi ha la 104 e il tutto si riduce ancora”. Quanto ai magistrati di sorveglianza, la pianta organica ne prevede in tutta Italia 246 ai quali si aggiungono 29 presidenti di tribunale: nella realtà i magistrati degli uffici di sorveglianza sono 210 e i presidenti sono 25. Le proposte - 152 suicidi in 24 mesi impongono a tutti una riflessione e un’azione. Le proposte di Nessuno Tocchi Caino vanno nella direzione del rafforzamento della liberazione anticipata. Ma l’associazione, e il movimento che si è creato attorno, sono aperti a qualsiasi altra proposta che porti alla diminuzione della popolazione carceraria e quindi al miglioramento delle condizioni di detenzione. Non si tratta solo di scongiurare il protrarsi di trattamenti inumani e degradanti (pensiamo alla condanna del nostro Paese da parte della Corte EDU nel 2013), ma anche di concepire nuove possibilità di fronte ad una realtà, quella del carcere, che è criminogena e che sempre di più diviene una fabbrica di recidiva come dimostrano tutte le statistiche. “Sentiamo spesso dire nei convegni che bisogna puntare sulle misure alternative” spiega Rita Bernardini. “In realtà, se andiamo a vedere il bilancio del nostro Stato, destiniamo nel budget una cifra enorme per l’amministrazione penitenziaria, 3 miliardi e 400 milioni all’anno per mantenere questa struttura fallimentare; per supportare le misure alternative, compresa la giustizia minorile, spendiamo 380 milioni. È chiaro che il nostro Paese punta sulla reclusione. Perché noi puntiamo sulla riduzione del sovraffollamento? Perché con le attuali carenze, tutte le figure professionali, al diminuire dei numeri, dovrebbero confrontarsi con meno detenuti. Ci sarebbe più possibilità di avere cura per queste persone. Poi bisognerebbe fare in modo che ci sia effettivamente la rieducazione. E che si ponga attenzione all’affettività. Siamo un Paese che concede ai detenuti di media sicurezza una telefonata di 10 minuti a settimana. Se uno ha dei figli minori come può parlare con moglie e figli? Significa interrompere quei rapporti laddove l’ordinamento prevede che l’amministrazione debba fare di tutto perché il detenuto possa mantenerli. Durante il Covid i detenuti potevano chiamare a casa tutti i giorni. Ma finito il Covid tutto è tornato come prima”. Storia di una preoccupante trasformazione penitenziaria di Enrico Sbriglia* L’Opinione, 24 gennaio 2024 Nella distrazione generale si sta ridisegnando un “nuovo” modello di Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, involvendolo in altro, apparentemente più “securitario” ma più vicino a un certo modo di immaginare la giustizia e la pena, più distante dal mondo di quanti coltivino ancora l’idea di un diritto compassionevole, pur se esigente nei principi di legalità, che ha, però, “il difetto” di non percepire come “nemici” il mondo dell’avvocatura, delle università, delle associazioni che si occupino della tutela dei diritti umani e del diritto in genere, ritenendo che proprio la cura degli stessi, ove si perpetrino delle violazioni o vengano banalizzati, costituiscano, essi sì, una lesione del bene della sicurezza di tutti i cittadini. Fino a qualche tempo fa, la figura del direttore penitenziario era avvertita come fondamentale, e non perché dovesse essere coraggioso come “Brubaker”, oppure inquietante, come quello del “Silenzio degli innocenti”, ma in quanto si riteneva necessario un profilo di “public servant” distinto da quello del magistrato, così come dal poliziotto, come le stesse Regole penitenziarie europee (vedasi gli articoli 71 e seguenti, Parte V del testo richiamato) impongono. Andava da sé che il direttore d’istituto o di Uepe (Ufficio esecuzione penale esterna) lo ritrovasse ai vertici degli apparati, grazie a una progressione di carriera basata sulle competenze ed esperienze maturate nel tempo. Solo le posizioni apicali di alta amministrazione, prettamente di nomina politica, in particolare quella di capo del Dap, provenivano dal potere giudiziario, che esercitava, ed esercita ancora, una sorta di singolare diritto di prelazione, se non anche di “curatela” del sistema delle carceri (e gli effetti si vedono tutti), escludendo ogni altro “giurista”, ivi compresi gli avvocati e/o di docenti universitari e, nonostante la legge lo consentirebbe, quanti siano già dirigenti generali della carriera dei direttori. Il sistema era, poi, arricchito da un panorama multiprofessionale di funzionari giuridico-pedagogici, assistenti sociali, funzionari contabili, tecnici (architetti, ingegneri, tecnici edili, agronomi, ingegneri ed esperti informatici), altro personale amministrativo e, “quando si era antichi”, anche da medici, infermieri, oltre che dagli stessi appartenenti al corpo della Polizia penitenziaria distinto, quest’ultimo, nei diversi gradi e ruoli. Finalmente, però, con la legge del 2005, numero 154 (cosiddetta Meduri), e il decreto legislativo numero 63/2006 (articoli 2 e 4), si stabiliva un percorso concorsuale per la dirigenza penitenziaria, che si precisava dovesse essere “unica”, accessibile a candidati “esterni” e, in una percentuale del 15 per cento, pure a quelli “interni”, purché provenienti da qualifiche professionali che precedessero quelle dirigenziali; la carriera era aperta anche ai commissari della polizia penitenziaria; condizione per tutti era che si fosse muniti di laurea. Con gli “interni”, il Ministero della Giustizia avrebbe attinto, con una maggiore velocità nell’inserimento lavorativo, dal proprio risorse umane, motivandole ulteriormente. È, invece, accaduto che con una legge successiva, pure non abrogando le precedenti, la numero 124/2015 (cosiddetta legge Madia) e le susseguenti, per il riordino delle Forze di Polizia, si sia data vita, dilatandone il bacino, ad una distinta dirigenza, quella della Polizia penitenziaria, partorendo un numero rilevante di dirigenti in uniforme. Nel contempo, però, non solo non si effettuavano i necessari concorsi per colmare i vuoti formatisi nel ruolo dei direttori penitenziari, ma dopo quasi 20 anni dalla legge Meduri (forse per un rimuginìo “in odium fidei”, perché all’epoca il disegno di legge fu sostenuto dall’intero gruppo di Alleanza Nazionale), i direttori penitenziari sono ancora senza il loro primo contratto di categoria, praticamente sono dei “sans papier” del pubblico impiego. Guardando il bicchiere “mezzo pieno”, si potrebbe osservare che così, all’interno delle carceri, ci sia una qualificata dirigenza in uniforme, capace di affrontare le tante criticità di cui ci riferiscono le cronache: parliamo di ben 715 dirigenti di Polizia penitenziaria a fronte di 190 istituti; potrebbero essercene quasi quattro per ogni carcere, senza distinguere tra piccole, medie e grandi strutture. Ma così non è, anzi, c’è una fuga dalle prigioni, e non si tratta di detenuti! Nel contempo, continua ad aggravarsi la pericolosissima carenza di direttori penitenziari: molti di essi hanno dovuto, contemporaneamente, governare più istituti o uffici; finanche tre, quattro se non anche più realtà di lavoro; compresi quelli posti sulle isole, costringendoli ad ininterrotti viaggi dal Continente. A tale carenza si aggiunge quella degli agenti e assistenti, dei sovrintendenti e degli ispettori. Molti di loro, come per i direttori penitenziari, sono prossimi al pensionamento. Insomma, mentre quelli della “linea del fuoco” sono piegati da turni ed orari massacranti, devastanti per chi volesse conciliarli con gli interessi familiari, amicali, personali, altri dipendenti sono “scomparsi”. Com’è noto, nelle sezioni detentive il rapporto tra agenti e detenuti può essere di uno a trenta, se non quaranta, cinquanta oppure cento ristretti. Ma non basta, perché, al fine di non incorrere nei gravami della Cedu, i “Soloni penitenziari” del carcere parlato nei convegni, ma non vissuto sulla propria pelle, non sapendo affrontare le condizioni degradanti e disumane di molte strutture, hanno imposto, senza adeguare gli organici, che in molte realtà venisse consentito ai detenuti di circolare liberamente nelle sezioni. Da lì l’ulteriore lamentazione sul pericolo in cui versi l’agente che operi all’interno delle carceri, letteralmente “circondato” dai ristretti che dovrebbe lui, invece, controllare. Detenuti ai quali si nega nei fatti ogni trattamento rieducativo attraverso il lavoro, la formazione professionale e quella scolastica. Ma non basta, perché materie amministrative delicatissime, dove l’esigenza della terzietà è fondamentale, stanno per essere affidate proprio ai neo-dirigenti della Polizia penitenziaria. Si è perfino partorita la nuova figura del viceconsigliere del Corpo (ovviamente non operante all’interno delle carceri), offrendo così un’ulteriore via di fuga a quanti vogliano lasciare alle spalle il mondo delle grate e dei cancelli di acciaio. Si intende, tra l’altro, ritornare ad un’architettura burocratica che riesuma le antiche “Divisioni” ottocentesche degli uffici, dove i dirigenti della polizia penitenziaria tratterranno il Contenzioso di Polizia penitenziaria, gestiranno il Gruppo di intervento operativo, i concorsi del personale in uniforme e il delicatissimo settore della disciplina, nonché altre attività amministrative, che richiedono competenze giuridiche ed esperienza, oltre che l’assenza di ogni coinvolgimento o interesse personale diretto, ancorché di natura politica e sindacale. Ci si potrebbe imbattere, infatti, in casi in cui vengano trattate pratiche di colleghi del proprio ruolo professionale e anzianità, praticamente ipotetici “competitori” nella progressione di carriera! Ha ancora un senso il brocardo “quis custodiet ipsos custodes?”. Se, però, si spera che così facendo le carceri saranno più sicure e funzionali, con un minor rischio di rivolte, con i detenuti più disciplinati, che si ridurrà il numero di aggressioni verso il personale del Corpo, costituito, in quota parte, da canuti “agenti”, mentre i loro dirigenti, che popolano il dipartimento e i provveditorati (diversi dei quali, probabilmente, non hanno mai visto da vicino un detenuto che si auto-lesiona, oppure una crisi d’astinenza di un tossicodipendente, oppure un folle che sfascia letteralmente la cella, o il detenuto che, proclamandosi innocente, tenta d’impiccarsi), resteranno a debita distanza, si commetterebbe un grave errore. E, purtroppo, temo ce ne accorgeremo presto. *Penitenziarista, coordinatore nazionale dei dirigenti penitenziari della Fsi-Usae (Federazione sindacati indipendenti dell’Unione sindacati autonomi europei) Giustizia, la riforma va verso l’aula. Maggioranza blindata di Mario Di Vito Il Manifesto, 24 gennaio 2024 Il governo pensa di cambiare l’emendamento Costa. Bongiorno sarà relatrice. Uscito pressoché indenne dalla commissione Giustizia del Senato, il ddl Nordio è ormai pronto alla sfida dell’aula. Ieri, come ultimo passaggio, è stata votata a maggioranza come relatrice la presidente Giulia Bongiorno della Lega. Gli esiti del futuro scontro parlamentare sono scontati, ma se in commissione sono stati fatti passare pochissimi emendamenti, adesso la partita si presenta diversa e già si ammucchiano voci su alcune possibili modifiche. Dal governo, per esempio, il ministro Nordio in persone e il suo vice Francesco Paolo Sisto potrebbero andare a toccare il famigerato emendamento Costa sulla pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare, cioè quello che molti già chiamano “bavaglio”. In buona sostanza, se con la proposta di Costa è vietata la pubblicazione “integrale o per estratto”, la nuova formulazione prevedrebbe il divieto “integrale o parziale”. Una stretta in piena regola, anche se la norma presenta di per sé un buco bello grande: se non si potrà pubblicare nulla delle ordinanze del Gip, lo stesso non si potrà dire degli atti delle procure, che per ora nessuno pensa di bloccare. Per il resto è facile prevedere nuovi scontri sull’abolizione dell’abuso d’ufficio, sulla limitazione del reato di traffico d’influenze e sulla nuova stretta alle intercettazioni. “La normativa rende sostanzialmente impossibile per il difensore un accesso diretto allo sterminato materiale che di solito si accumula in ogni indagine, nel quale potenzialmente si nascondono elementi fondamentali per la difesa e di conseguenza per il giudice chiamato a decidere”, dice allarmato il presidente delle Camere penali Francesco Petrelli, evidenziando come il garantismo del governo in realtà non esista. Di “non riforma” parla invece la senatrice del Pd Anna Rossomando, mentre il M5s grida alla “controriforma” che “danneggia cittadini e legalità”. Dubbi sulla giustizia che verrà, le toghe attendono Nordio di Giulia Merlo Il Domani, 24 gennaio 2024 Prosegue l’iter dei decreti attuativi della riforma dell’ordinamento giudiziario, che prevede il fascicolo di valutazione delle toghe e il limite ai fuori ruolo. Ma ci sono anche le ipotesi di test psico-attitudinali e del sorteggio per eleggere i togati al Csm. Dopo gli scossoni della prima (e forse ultima) conferenza stampa del vicepresidente del Csm, Fabio Pinelli, la grande attesa è per la giornata di domani in Cassazione. L’apertura dell’anno giudiziario è sempre occasione di critiche incrociate mischiate a buoni propositi e sarà l’occasione per vari faccia a faccia. Pinelli parlerà rivolto anche a Sergio Mattarella, presidente del Csm sfiorato dalle sue critiche maldestre sull’”improprio ruolo politico del passato consiglio”. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio, invece, prenderà la parola davanti ai vertici della magistratura per mettere a fuoco i suoi orientamenti e futuri intendimenti in materia di riforme. Non solo quelle penali che stanno procedendo in parlamento - dalla riforma della prescrizione al ddl Nordio sull’abuso d’ufficio - ma anche quella sull’ordinamento giudiziario. Proprio questa, formalmente due decreti attuativi della riforma Cartabia, sta andando avanti in commissione Giustizia alla Camera e negli intenti della maggioranza dovrebbe essere una rivoluzione copernicana proprio del lavoro del Csm. La riforma - La riforma prevede criteri più stringenti nelle valutazioni di professionalità delle toghe, oltre che una modifica dei criteri per l’accesso in magistratura. In particolare, verrà introdotto quello che impropriamente viene definito il “fascicolo del magistrato”, ovvero un report in cui vengono inseriti i dati su sentenze e atti redatti. La misura è stata fortemente contestata dall’Anm, che in audizione con il segretario Salvatore Casciaro ha parlato di “sistema verticistico improprio e pericoloso”, in cui “un singolo magistrato collocato a un livello superiore può diventare arbitro della carriera di quello collocato in sottordine”. Altro elemento molto avversato dalle toghe è la presenza degli avvocati con diritto di voto nei consigli giudiziari che stilano le valutazioni: “Delegittima il magistrato, che non sarà sereno a giudicare” e di conseguenza “si violerebbe il principio di autonomia e terzietà”, ha detto in audizione il procuratore di Napoli, Nicola Gratteri. Se la magistratura associata contesta il meccanismo, il paradosso è che il decreto ministeriale non piaccia nemmeno al sempre presente Enrico Costa, che il “fascicolo del magistrato” l’ha inventato con un suo emendamento alla riforma Cartabia. “È stato demolito”, ha detto, perché è stato eleminato l’inserimento dell’esito delle attività del magistrato (come le sentenze e richieste di rinvii a giudizio) e l’analisi verrà fatta su atti a campione e sulle relazioni dei capi degli uffici. L’altro decreto, invece, disciplina i fuori ruolo che si riducono in numero di circa il 25 per cento, anche se sono previste eccezioni. Anche questo testo, tuttavia, è stato criticato: questa volta dagli avvocati delle Camere penali, che hanno parlato di “tradimento della legge delega” perché lo schema di decreto attuativo riduce i fuori ruolo a 180, che attualmente sono 194 (240 è il massimo attualmente previsto). I sogni del centrodestra - Se per adesso questo è in discussione, il libro dei sogni del centrodestra contiene altre misure di riforma del sistema che governa le toghe ma per ora rimangono semplici emendamenti. Uno è quello del forzista Pierantonio Zanettin, che punta a introdurre il sorteggio per scegliere i togati del Csm, proprio per andare indirettamente nella direzione auspicata anche da Pinelli di trasformare il consiglio in una istituzione di alta amministrazione senza connotati di corrente. Un altro proposito, che torna spesso nelle parole del sottosegretario Francesco Paolo Sisto, sono i test psico-attitudinali per le toghe, per cui c’era già stato un tentativo di inserimento da parte del sottosegretario Alfredo Mantovano in un consiglio dei ministri. Infine, il prossimo passo che il ministro Nordio ha anticipato è quello di un intervento legislativo per limitare le esternazioni dei magistrati. Tutte ipotesi, per ora, ma che risuoneranno tra le mura dell’aula magna della Cassazione. Stop alla pubblicazione dell’avviso di garanzia. Inappellabilità del Pm di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 24 gennaio 2024 Concluso in commissione l’esame delle misure del disegno di legge Nordio. Anche l’informazione di garanzia non potrà essere pubblicata, tanto più nella sua versione rafforzata che già è destinata a contenere una descrizione dei fatti contestati. Ieri la commissione Giustizia del Senato ha concluso, con il mandato alla relatrice e presidente della commissione stessa, Giulia Bongiorno, i lavori sul disegno di legge Nordio: “credo che questo testo sia l’inizio di un percorso - sottolinea Bongiorno. In questi giorni stiamo avviando il tavolo che permetterà, qualora ci fossero i paventati vuoti di tutela sull’abuso d’ufficio, di riempirli perché stiamo cominciando a rivalutare tutte le ipotesi di reato contro la Pa”. Nel provvedimento, che andrà in aula nei prossimi giorni, oltre alla norma manifesto (l’abolizione dell’abuso d’ufficio), è contenuta una pluralità di misure, sia di diritto penale sostanziale sia processuale. E tra queste ultime trova posto anche l’intervento sull’informazione di garanzia, dove, in sintonia con quanto previsto in materia di ordinanze cautelari nella legge di delegazione comunitaria in discussione sempre al Senato davanti alla commissione Politiche dell’Unione europea, della quale Governo e maggioranza dispongono il divieto di pubblicazione sino alla conclusione delle indagini preliminari. Riservatezza che, quanto all’informazione di garanzia, deve essere assicurata anche nelle modalità di notifica, con la polizia giudiziaria destinata a intervenire solo in via residuale, quando impossibili le ordinarie modalità. Tutela della privacy poi che caratterizza per ministero e forze di maggioranza anche le misure sulle intercettazioni dove sono, tra l’altro vietate, le trascrizioni di dati che permettano di identificare persone estranee alle indagini. È poi introdotto il divieto di pubblicazione, anche parziale, del contenuto delle intercettazioni in tutti i casi in cui quest’ultimo non sia riprodotto dal giudice nella motivazione di un provvedimento o utilizzato nel corso del dibattimento. Resuscita poi l’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento, dove la differenza rispetto alla legge Pecorella già giudicata illegittima dalla Corte costituzionale, sta nella riduzione del perimetro delle pronunce, che dovranno riguardare procedimenti per reati a citazione diretta davanti al giudice unico (un lungo elenco peraltro, che va dalla violenza e resistenza a pubblico ufficiale alla rissa, al furto, alla truffa al danneggiamento). Significativa, tanto da rendere necessario un aumento di organico della magistratura (250 in tutto), poi l’introduzione dell’obbligo di decisione collegiale sulle misure cautelari, con la necessità sempre di prevedere l’interrogatorio preventivo della persona indagata. Anm divisa, le ragioni di Mi: “Non siamo lì per fare la guerra” di Valentina Stella Il Dubbio, 24 gennaio 2024 Mentre la corrente conservatrice studia la strategia comunicativa, trapelano le ragioni della spaccatura su Nordio e Pinelli: “Area e Md parlano a nome di tutti, ma sono in minoranza. Magistratura indipendente per adesso ufficialmente non intende replicare all’articolo in cui, attraverso le voci di Area, Magistratura democratica e Unicost, la si accusava di essere collaterale al governo, dopo non aver sottoscritto due documenti di critica a Nordio e al vice presidente del Csm Fabio Pinelli, elaborati durante l’ultimo parlamentino dell’Anm. Domani ci sarà una riunione del comitato direttivo, la prima con i nuovi vertici ossia Claudio Galoppi, segretario generale, e Loredana Miccichè, presidente. Si deciderà la linea politica e anche quella comunicativa. Occorrerà dunque attendere. Ma qualcosa in via ufficiosa è trapelata da varie fonti. Mi non avrebbe firmato il documento una “Relazione problematica”, riferito all’informativa di Nordio al Parlamento, in quanto la frase con cui lo si chiudeva, e cioè che l’Anm “si riserva ogni necessaria iniziativa a tutela dell’essenza della giurisdizione”, è a detta di qualcuno una espressione che pone il “sindacato” delle toghe “sempre sul piede di guerra rispetto al governo e al Parlamento. Perché fare questo processo alle intenzioni?”. Non avrebbe sottoscritto invece “Parole ed equilibrio”, dedicato alle dichiarazioni del numero due di Piazza Indipendenza, per questa ragione: “Avendo Magistratura democratica trasmesso sabato sera alla stampa un comunicato che poi si è rivelato essere il testo quasi identico del documento contro Pinelli, Mi ha ritenuto di non condividerlo perché avrebbe significato trascinarci a forza. Nei Cdc siamo soliti riunirci più volte tra gruppi e contrattare i punti per la stesura dei testi, ci sono molte mediazioni e alla fine nessun gruppo associativo può vantare la paternità del documento. In questo caso sarebbe stato diverso”. E poi un’altra fonte smentisce che “tra il sabato e la domenica i componenti del Cdc si sarebbero consultati con il vertice per cambiare la linea” e di essere stati prima d’accordo con il documento unitario per poi smarcarsi. “Galoppi era malato, nessuna dietrologia, semplicemente non si è condiviso il metodo e parte del merito”. La corrente conservatrice è comunque consapevole che in questo momento è in minoranza in Anm, “nessuno vuole disconoscere la democraticità della decisione dell’ultimo Cdc”. Però chi ci parla vuole sottolineare un problema, a livello comunicativo: “Area ed Md sono una minoranza ma parlano di più, sia in televisione che sui giornali. Basti pensare all’intervento della presidente di Md Silvia Albano qualche sera fa nel programma di Lilli Gruber, Otto e mezzo, su La7. Quello che purtroppo il pubblico non capisce è che certe persone non parlano a nome di tutta la magistratura. È come chiamare il Partito democratico, che è in minoranza in Parlamento, ad intervenire in un consesso internazionale”. Ma chiediamo: se avessero chiamato Mi, ci sarebbe andata? “Certo - ci risponde la fonte -, ma la stampa chiama certe persone perché le inquadra come opposizione al governo. Alla stampa serve che ci sia una magistratura schierata e chi lo è in questo momento sono proprio le correnti di Area e Md”. Tuttavia se loro vengono inquadrati come opposizione, Mi di fatto è al governo. Basti pensare al potentissimo sottosegretario Alfredo Mantovano, che aveva aderito a Mi e che pare abbia commissariato Nordio, e al fatto che esponenti della stessa corrente sono nei gangli del legislativo di Via Arenula. “Per quanto ne so io - continua la toga -, Nordio ha scelto le persone più affini a lui culturalmente, non ha chiamato la corrente e si è fatto indicare i nomi. Non posso dire che sia avvenuto lo stesso quando a via Arenula c’era il ministro Orlando e a dominare c’erano quelli di Area”. La differenza appare ontologica, ci spiega un altro magistrato: “Noi riteniamo che non spetti alla magistratura scegliere tra diritti in conflitto”. Allora Mi rappresenta il modello di magistrato bouche de la loi? “Ma no, neanche Montesquieu era convinto di questa definizione. Noi difendiamo la nostra indipendenza ma allo stesso tempo crediamo che non spetti a noi fare politica, la scelta definitiva spetta al legislatore. Apostolico, ad esempio, avrebbe dovuto inviare gli atti alla Corte di Giustizia europea, non disapplicare la normativa italiana. E credo che le Sezioni Unite il prossimo 30 gennaio prenderanno questa strada. A me è dispiaciuto che la stampa si sia soffermata sulla vita privata della collega e non sulle motivazioni del provvedimento che non è della singola magistrata, ma frutto di una riflessione dell’intera sezione del Tribunale di Catania”. Però, ad esempio, sul fine vita alcuni magistrati si prendono la responsabilità di rimandare gli atti in Corte costituzionale perché si rendono conto che la politica è inadempiente rispetto ai passi avanti della società: “I vuoti creati dalla politica che di certi argomenti non vuole proprio occuparsi per noi rappresentano un problema - sottolinea il magistrato -. Ma sa qual è la differenza tra noi e Area e Md? È che noi subiamo il fatto di dover sopperire con nostre decisioni a certe mancanze del legislatore, mentre i colleghi progressisti rivendicano il fatto di poter dare una risposta alle rivendicazioni di nuovi diritti nella società”. Infine un passaggio sul Consiglio superiore della magistratura: “Mi è in maggioranza relativa, è un Csm mutevole. La realtà è che dopo lo scandalo dell’Hotel Champagne Area e Unicost si sono ricompattate, ora le correnti progressiste hanno perso potere. E in tutto questo scenario c’è un consigliere (Andrea Mirenda, ndr) che mostra solo una “identità contro” che non può bastare. Non si può solo distruggere, bisogna saper anche costruire”. “Più toghe fuori ruolo”. La retromarcia di Nordio e della maggioranza di Ermes Antonucci Il Foglio, 24 gennaio 2024 Rischia di saltare il già piuttosto ridicolo taglio di sole venti unità (da 200 a 180) del numero di magistrati collocabili fuori ruolo, previsto dalla bozza di decreto legislativo predisposto dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, in attuazione della riforma Cartabia. La commissione Giustizia della Camera oggi discuterà e approverà il parere (non vincolante) sul testo e, secondo quanto confermato al Foglio da diverse fonti ministeriali e parlamentari, i partiti di maggioranza sarebbero intenzionati a chiedere il ritorno al limite massimo di 200 magistrati collocabili fuori ruolo. Dietro la richiesta della maggioranza ci sarebbe un cortocircuito che nell’ultimo periodo ha coinvolto Via Arenula, gli altri ministeri e i presidenti di alcune commissioni parlamentari. Nelle ultime settimane, infatti, i titolari dei ministeri degli Esteri (Antonio Tajani), del Lavoro (Marina Calderone), e delle Imprese e del made in Italy (Adolfo Urso) hanno chiesto al ministero della Giustizia di poter godere dell’operato di alcuni magistrati addetti all’ufficio legislativo di Via Arenula. Medesime richieste sono giunte dai presidenti di alcune commissioni parlamentari, in particolare quelle bicamerali d’inchiesta (come quella sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti). Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha risposto in maniera negativa a tutte queste richieste, sostenendo che il numero dei magistrati in servizio al proprio dicastero è già fin troppo contenuto, e dunque sarebbe impossibile privarsi di validi togati addetti all’ufficio legislativo, che altrimenti rimarrebbe sguarnito. Da qui nasce l’idea della maggioranza di proporre la cancellazione del già risibile taglio di venti unità del numero di toghe collocabili fuori ruolo. La proposta potrebbe essere formalizzata oggi con l’approvazione del parere al decreto legislativo predisposto dal governo. Lo scenario appare paradossale da qualunque punto di vista lo si guardi. In primo luogo sorprende il “no” di Nordio al trasferimento di alcuni magistrati in servizio a Via Arenula verso altri ministeri. Da sempre, infatti, il Guardasigilli è sostenitore del taglio del numero delle toghe fuori ruolo. “Sono favorevole a una forte riduzione dei magistrati fuori-ruolo: credo che dei 200 attualmente distaccati ne basti solo il 10 per cento, gli altri dovrebbero tornare a lavorare nei tribunali”, disse Nordio in un’intervista il 15 febbraio 2022. Nonostante ciò, Nordio non solo nel decreto legislativo ha previsto una riduzione di soltanto venti unità del limite massimo di magistrati ordinari collocabili fuori ruolo (da 200 a 180), ma sta anche respingendo tutte le richieste provenienti dagli altri ministeri di disporre di alcuni magistrati in servizio a Via Arenula. Il secondo aspetto paradossale riguarda il comportamento della maggioranza di centrodestra, anch’essa da sempre sostenitrice della necessità di ridurre il numero dei magistrati fuori ruolo, e in questo modo i condizionamenti esercitati dalle toghe all’interno delle strutture vitali del potere legislativo. A dispetto di questi proclami liberali, Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia sarebbero pronti ad avallare la richiesta proveniente dai vari ministeri e dalle commissioni parlamentari di tornare al numero massimo di 200 magistrati collocabili fuori ruolo, in questo modo svuotando la legge delega approvata ai tempi della Guardasigilli Marta Cartabia. “Io presiedo la giunta per le autorizzazioni della Camera, uno dei massimi organismi giuridici del Parlamento, ma non mi avvalgo di un magistrato. Ho un funzionario della Camera che fa l’avvocato ed è bravissimo”, dice al Foglio il deputato Enrico Costa (Azione), che si oppone all’ipotesi di cancellare la già misera riduzione del numero di toghe fuori ruolo. “Non è obbligatorio avere una figura esterna - ribadisce Costa - All’interno del Parlamento c’è un grande patrimonio di conoscenza, ci sono bravissimi funzionari. Che i presidenti delle commissioni debbano andare a prendersi un magistrato da fuori lo ritengo incredibile”, conclude. Vedremo se il paradosso del centrodestra si compirà. “Col primo sì alla riforma è iniziata la nostra rivoluzione garantista” di Errico Novi Il Dubbio, 24 gennaio 2024 Intervista al viceministro Francesco Paolo Sisto: “È un primo passo”. E certo non è poco. “È il primo importante tassello di un cambiamento epocale: ridefinire il processo in chiave garantista. Il sistema non ha più il pm come baricentro e, nel chiaro obiettivo dell’accertamento penale, si cancella la barbarie di qualche anno fa secondo cui un giudizio è inutile se non porta alla condanna”. Francesco Paolo Sisto è soddisfatto. E non può che essere così: col via libera, decretato ieri in commissione Giustizia al Senato, al ddl Nordio, iniziano ad andare a segno diverse frecce scoccate da via Arenula. Obiettivi considerati prioritari da Carlo Nordio e, appunto, dal suo vice. E questo dopo mesi in cui parte della critica, persino di quella garantista, aveva cominciato a dubitare della concretezza del ministero. Finché il guardasigilli, il suo numero due Sisto e i sottosegretari Ostellari e Delmastro hanno fatto un po’ come nei film di Bud Spencer, in cui il protagonista lascia che una selva di aggressori lo sommerga per poi, con aria quasi infastidita, sollevarsi lentamente e liberarsi con una sbracciata. Ma forse l’analogia cinematografica rischia di essere ipercelebrativa: in fondo avete solo incassato il sì della commissione... Abbiamo ricondotto il processo a una coerenza costituzionale lontanissima dall’idea di cui dicevo prima, da quella logica di pura barbarie che sovrappone accertamento penale e condanna. E per farlo abbiamo riallineato alcune norme a tre articoli della Costituzione, molto semplicemente: il 24 sul diritto di difesa, il 27 che sancisce la presunzione di non colpevolezza e il 111 che impone il giusto processo. L’accertamento penale va doverosamente compiuto, ma nel rispetto delle garanzie. Sull’abuso d’ufficio avete incassato il maggior numero di critiche... Ma abbiamo affermato una nuova cultura dell’amministrazione pubblica: che non è più luogo di presunto malaffare, e in cui i sindaci non sono più costretti a rifugiarsi nella burocrazia difensiva. La cultura della fiducia anziché del sospetto... I sindaci, è il presupposto, sono persone perbene ora finalmente in condizione di lavorare per il Pnrr. Fatta salva la prova contraria, si presume la loro non colpevolezza. Si è avuto il coraggio di abrogare una norma che è non solo inutile, ma dannosa. Era doveroso farlo. Il traffico d’influenze invece resta... Ma la nostra riforma ne assicura finalmente la tipizzazione. Era un reato immenso, sconfinato. E correva il rischio di stimolare un effetto inaccettabile: la mera pendenza del procedimento. Finché il procedimento penale pende, rende: in termini di discredito. E in modo da tradursi in una anomala condanna. Con un danno irreparabile alla stessa vita familiare della persona. Davvero con la modifica sulle intercettazioni si va oltre il tentativo compiuto anni fa con la riforma Orlando? Rovescio la domanda: era mai possibile che si potessero pubblicare intercettazioni prive di rilevanza rispetto al reato? Noi stabiliamo che possono essere accessibili alla cronaca giudiziaria solo i brani contenuti nel provvedimento di un giudice. Il quale diventa arbitro della rilevanza, della pertinenza del materiale intercettato rispetto a ciò che si contesta. Decide il gip, cioè il primo soggetto terzo a entrare in gioco nel procedimento penale... Chi meglio di un soggetto terzo e imparziale può selezionare i brani pertinenti al reato e dunque riferibili dal cronista? Qui c’è anche un implicito richiamo alla separazione delle carriere, che viene di fatto anticipata. Grande passo avanti è pure quello di prevedere che l’informazione di garanzia contenga una pur sommaria indicazione del reato e che, in linea col resto della riforma, non sia pubblicabile. Sulle misure cautelari mi pare che affidarsi a un collegio anziché a un giudice monocratico assicuri ovviamente maggiori garanzie, per il destinatario dei provvedimenti. Analogamente a quanto avviene con la parte della riforma che estende a reati di rango leggermente superiore la regola per cui, prima di procedere a un arresto, l’indagato viene sentito dal giudice. E da ultimo, per i reati a citazione diretta non si ammette impugnazione del pm in appello. Sempre in coerenza coi principi costituzionali. E non ci fermiamo certo qui. Cos’altro proporrete? A breve la nuova disciplina sul sequestro dei telefoni cellulari, quindi le norme su sanzioni tributarie, responsabilità medica e sicurezza sul lavoro. Con inesorabile cadenza, porteremo a casa le riforme che abbiamo previsto nel programma. Disponibili a cogliere gli input proposti da chiunque, ma con una clausola ben precisa: come il Parlamento non può sostituirsi alla giurisdizione, così la giurisdizione non può sostituirsi al Parlamento. Secondo Costituzione i magistrati sono soggetti solo alla legge: mi pare che la separazione dei poteri sia definita in modo chiarissimo. Lo considera un riscatto per l’intera squadra del vostro ministero, dopo varie critiche? Il ministero è un laboratorio in cui ci si impegna alacremente norma su norma. Ci sono materie, come l’ordinamento giudiziario, che andranno messe a fuoco, ma porteremo a casa tutto. Con l’incedere del passista, più che del velocista. E devo confessare una promessa. Quale? Non posso nascondere di aver promesso al presidente Berlusconi che avrei realizzato la riforma della giustizia. In effetti a fronte di qualche misura panpenalista, la spinta di Forza Italia, basata sulla competenza, ha spostato più di quanto ci si potesse attendere... Lo si deve anche al segretario Tajani, che tiene sempre alta l’attenzione sul punto, a cominciare dalla necessaria efficienza del processo. Rispetto a quello che lei chiama panpenalismo, se si riferisce a provvedimenti come il decreto Caivano, beh, lì si tratta di vere e proprie emergenze. Si poteva mai consentire a un minorenne di scorrazzare con una calibro 38 in pugno e fare marameo alle forze dell’ordine? Non c’è stato ricorso al panpenalismo né la riforma Nordio può esserne considerata un bilanciamento. Riguardo a noi di Forza Italia, saremo sempre in prima linea. Col know how, la competenza e l’esperienza, certo. A cui ci siamo ispirati anche nei nostri emendamenti, a cominciare dall’effettiva impossibilità, finalmente sancita, di intercettare il difensore nei suoi colloqui con l’assistito. Così come è coerente con i principi della Carta il divieto di riferirsi, nei verbali d’intercettazione, ai terzi estranei al reato. E a proposito di competenza, rivediamo finalmente gli avvocati nel ministero... È l’inizio della presa d’atto che gli avvocati ci sono, e che va assicurato un ragionevole pluralismo. Dev’esserci un coro, che non significa voce monodica: mi auguro che presto avremo a via Arenula anche rappresentanti dell’accademia. La norma Costa è un bavaglio? Assolutamente no: semplicemente, l’ordinanza cautelare non può essere riferita con le parole testuali del giudice, che sono inevitabilmente meno consone alla presunzione di non colpevolezza rispetto al racconto del giornalista. Direi che proprio non si può parlare di bavaglio. Piemonte. Sanità penitenziaria, verso un Osservatorio regionale vconews.it, 24 gennaio 2024 Sovraffollamento, carenza di personale medico e infermieristico, necessità di maggiore assistenza per chi soffre di malattie psichiatriche e psicologiche i nodi evidenziati dalla relazione presentata in Commissione Sanità. Sovraffollamento, carenza di personale medico e infermieristico, necessità di maggiore assistenza per chi soffre di malattie psichiatriche e psicologiche: sono alcuni dei nodi evidenziati nella relazione sulla Sanità penitenziaria piemontese illustrata questa mattina in Aula, presieduta da Stefano Allasia. L’assessore Luigi Icardi, al termine, ha assicurato il suo impegno per l’istituzione di un Osservatorio regionale. Il documento, redatto dal gruppo di lavoro della Commissione Sanità dopo l’approvazione - nel novembre 2022 - della mozione presentata da Domenico Rossi (Pd) e Sara Zambaia (Lega), per “analizzare le condizioni attuali ed elaborare proposte di miglioramento per il sistema sanitario penitenziario, le cui competenze dal 2008 sono in capo alla Regione”, è frutto di 11 audizioni di soggetti interessati svolte tra il gennaio e il settembre 2023, di un sopralluogo al Lorusso e Cutugno di Torino e dei dati contenuti nel Dossier curato dal Coordinamento regionale dei garanti comunali, presieduto dal Garante regionale delle persone detenute Bruno Mellano. Nell’illustrare la relazione, Rossi ha ricordato, in particolare, che “carenza di personale sanitario, fitto turnover e scarsa attrattività del carcere rendono difficile reperire medici e infermieri. All’impegno di sviluppare percorsi terapeutici e strutture più adeguate per pazienti con problemi mentali che escono dal sistema carcerario corrisponde, inoltre, la difficoltà nell’offrire percorsi alternativi a quelli interni al carcere, con le Asl ed enti del territorio. È urgente rendere più attrattiva la sanità penitenziaria e istituire un Osservatorio regionale, presenziato dall’assessore regionale, dal provveditore dell’Amministrazione penitenziaria e dalla Magistratura di sorveglianza, dotato di potere decisionale per interloquire con l’attuale Gruppo tecnico interistituzionale sulla Sanità penitenziaria”. Zambaia ha sottolineato, tra l’altro, “la necessità di una manovra ‘a tenaglia’ che veda l’intervento dello Stato, da un lato, e della Regione, dall’altro. Allo Stato il compito di prevedere maggiori investimenti sul carcere, innanzi tutto per la formazione del personale, la sistemazione degli edifici obsoleti, non di rado progettati per esigenze di detenzione diverse da quelle odierne e la soluzione dei temi del sovraffollamento, che in Piemonte è pari al 102%. Alla Regione il compito di mettere in campo risposte nuove e adeguate al contesto attuale, a partire dalla creazione di luoghi istituzionali adatti a un confronto strategico sui problemi da affrontare e soprattutto per superare il problema della scarsità di personale sanitario”. Il dibattito è stato aperto da Francesca Frediani (Up), che ha sottolineato “le difficoltà legate al trasferimento dei detenuti che devono essere sottoposti a visite specialistiche in sicurezza” e suggerito “la necessità di affrontare a livello nazionale il problema dell’incompatibilità con certi ruoli professionali e di istituire corsi di specializzazione sulla medicina penitenziaria”. Silvana Accossato (Luv) si è soffermata sulla “carenza di spazi per la vita in comune. Basterebbero interventi di lieve entità per ampliare la disponibilità dei locali ma fa pensare che, dei 166 milioni di euro messi a disposizione dal Ministero per interventi di riqualificazione degli Istituti penitenziari, nulla sia stato destinato al Piemonte”. Silvio Magliano (Moderati) ha evidenziato che “i problemi legati al sovraffollamento portano con sé problemi sia per i detenuti sia per il personale” e suggerito di “seguire l’esempio delle carceri in cui ai detenuti under 25 è data la possibilità di studio o formazione professionale, grazie anche al contributo di associazioni del Terzo settore”. L’assessore alla Sanità Luigi Icardi ha ringraziato il gruppo di lavoro “per aver approfondito, con il proprio impegno, tematiche già in gran parte note all’Assessorato: il personale sanitario, il personale delle carceri, la tutela delle persone detenute, le difficoltà organizzative all’interno delle carceri che si riflettono drammaticamente sulle Asl, che spesso devono far fronte a concentrazioni di detenuti con determinate patologie e non sempre hanno le risorse per affrontarle. Gli uffici regionali già stanno lavorando in questa direzione e mi farò parte diligente per proporre alla Giunta l’istituzione dell’Osservatorio, che può essere utile per dare risposte adeguate ai detenuti, ai lavoratori e al personale sanitario che ha l’obbligo e la responsabilità di lavorare nel sistema carcerario”. Verona. Carcere di Montorio, detenuto di 57 anni si impicca in cella di Andrea Aversa L’Unità, 24 gennaio 2024 Ancora un altro caso di suicidio, già otto reclusi si sono uccisi nel 2024 nelle carceri italiane e sono in totale 23 le persone morte in cella dall’inizio dell’anno. Un detenuto si è tolto la vita nella terza sezione del carcere di Montorio a Verona. La vittima si chiamava Antonio Giuffrida, 57 anni, originario della Sicilia. È stato trovato impiccato in cella. La notizia è stata resa nota dai volontari dell’associazione Sbarre di zucchero. Questo il loro comunicato: “A pochi giorni dalla visita del Sottosegretario di Stato al Ministero della Giustizia, sen. Ostellari al carcere di Montorio (Vr), ci giunge notizia dell’ennesimo suicidio. Un 57enne italiano, detenuto dallo scorso novembre in terza sezione, si è impiccato oggi. Ed ora risuonano ancora più sgradevoli le parole del Ministro Nordio che, rispondendo all’interrogazione dell’onorevole Flavio Tosi, ha catalogato i suicidi dietro le sbarre come una malattia incurabile che dobbiamo accettare. Sbarre di Zucchero non ci sta e lo ribadisce a gran voce che non è più accettabile che le persone sotto la custodia e la responsabilità dello Stato si tolgano la vita con questa drammatica frequenza. E lo ribadiremo domenica 28 gennaio al presidio organizzato per il pomeriggio davanti ai cancelli di un carcere, quello di Verona, che negli ultimi mesi è diventato la tomba di troppe persone. Monica Bizaj, Micaela Tosato, Marco Costantini”. Non si fa neanche in tempo di scrivere di suicidi in carcere che subito ne accade un altro. Ci troviamo di fronte ad una tragedia senza fine. Una mattanza di Stato dimostrata dai numeri: nel 2024 otto persone si sono tolte la vita in un penitenziario. Quattro addirittura in una settimana, tre di queste nel carcere di Poggioreale a Napoli. In totale, dall’inizio dell’anno, sono deceduti nei penitenziari italiani già 23 reclusi. È una strage autorizzata che mortifica la nostra Costituzione e nei confronti della quale le istituzioni, la politica e il governo esprimono totale indifferenza. Il carcere di Montorio non è nuovo ad episodi così drammatici: ma quanto pare va bene così, considerato che non è stato fatto nulla fino ad ora per evitarli. Bologna. Alla Dozza piove anche in infermeria: “Lì detenuti con problematiche sanitarie” di Noemi di Leonardo bolognatoday.it, 24 gennaio 2024 Non basta il sovraffollamento, ora al carcere della Dozza piove anche dal tetto. Lo rende noto Salvatore Bianco, di Fp-Cgil che denuncia le “criticità al reparto 1° Piano Infermeria”. Due camere detentive sarebbero attualmente inagibili a causa di infiltrazioni di acqua provenienti dal tetto della Sezione. Una problematica che “sembra sia ampiamente conosciuta; inoltre pare che le infiltrazioni di acqua riguardino anche altri spazi della stessa sezioni quali la saletta socialità, il corridoio ed anche se in maniera minore altre camere” spiega Bianco. Sarebbero già stati effettuati alcuni sopralluoghi per valutare i lavori da effettuare “ma ad oggi la situazione permane la stessa anzi rischia di peggiorare ulteriormente col tempo” denuncia il sindacalista “considerato che nella sezione sono allocati soprattutto detenuti ricoverati, con varie problematiche sanitarie - quindi - appare evidente che la situazione strutturale non è assolutamente adeguata anche dal punto di vista della salubrità degli ambienti, si chiedono delucidazioni in merito ad eventuali futuri lavori e su eventuali possibili rischi di cedimento della struttura”. Il sindacato, in caso di rischio accertato, chiede dunque “l’immediata chiusura della sezione indicata o in alternativa la sua chiusura per i dovuti lavori di rifacimento del tetto, al termine dei lavori che stanno attualmente interessando il piano terra dello stesso reparto dove potrebbero essere allocati i detenuti ricoverati per il tempo necessario al ripristino di condizioni adeguate di vivibilità della sezione in oggetto”. Nelle scorse settimane, i sindacati di polizia penitenziaria hanno denunciato un dato è superiore a quello, già drammatico, italiano (+117%). + 325 persone rispetto alla capienza massima del carcere della Dozza: “Il sindacato Uil Pa chiede interventi e blocco degli ingressi dei nuovi giunti o delle assegnazioni da altri Istituti in quanto, aggiunge “la gravissima violazione si configura nel caso di specie: in primis viene violata sistematicamente la Cedu (Convenzione europea dei diritti dell’uomo), con conseguente condanna certa in capo all’amministrazione penitenziaria in caso di reclamo ex art. 35 ter O.P.”. Ancona. Carcere di Montacuto, pure la scabbia: il detenuto era già stato affetto da Tbc di Antonio Pio Guerra Corriere Adriatico, 24 gennaio 2024 Dopo le due morti nel giro di una settimana ed il ritorno della tubercolosi, il carcere di Montacuto deve ora fare i conti anche con la scabbia. A denunciarlo sono gli stessi detenuti ma l’effettiva presenza di un soggetto positivo all’infezione viene confermata anche dagli ambienti medici. Già sottoposto ad apposito trattamento, il paziente sarebbe lo stesso che aveva già contratto la tubercolosi e la cui situazione sanitaria aveva gettato nel caos i ristretti del penitenziario anconetano. Gli esami preliminari - Fronte tubercolosi, invece, gli esami preliminari sui contatti stretti del detenuto finito in ospedale hanno portato all’individuazione di alcuni soggetti positivi ai test preliminari per la tubercolosi (test di Mantoux e Quantiferon). “Che non vuol dire malattia” precisano i sanitari. Per tre di loro saranno necessari radiografie ed un esame neurologico mentre per tutti gli altri contatti che hanno superato la prima fase di screening, gli accertamenti saranno ripetuti tra 8-10 settimane. Intanto continua la protesta dei detenuti che chiedono una migliore assistenza medica. E arrivano addirittura a minacciare la rivolta se, entro il 15 febbraio, “il garante Giulianelli non si dimetterà o se non verrà in carcere a confrontarsi con noi”. D’altro canto, lo stesso garante - nei giorni scorsi - aveva ribadito più volte di aver visitato Montacuto anche in tempi recentissimi. “Una rivolta che arriverà fino in Parlamento” promettono i ristretti. L’ultima insurrezione lo scorso 3 gennaio, quando un manipolo di detenuti era riuscito a salire fin sul tetto del penitenziario. Chiedevano il trasferimento. Uno di loro è anche caduto, un volo di quattro metri a seguito del quale soltanto la disperata corsa in ospedale ha evitato il peggio. Due giorni dopo, il 5 gennaio, il suicidio del 25enne Matteo Concetti. Poi ancora un decesso (naturale) il 12 gennaio. Infine la scoperta del caso di tubercolosi il 16 gennaio. Milano. Il Comune dice di voler vigilare sul Cpr, ma poi impedisce al garante dei detenuti di farlo di Ilaria Quattrone fanpage.it, 24 gennaio 2024 La rete di realtà “Mai più Lager - No ai Cpr” ha pubblicato una mail di risposta a una loro segnalazione: nel testo si legge che l’ufficio del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Milano non dispone più delle risorse che, fino a due anni fa, erano destinati ai migranti e al Cpr di via Corelli. Sulla pagina Instagram Mai più lager - No ai Cpr è stata pubblicata una mail di risposta a una segnalazione inviata dalla rete di realtà stessa al Garante Nazionale dei Diritti delle Persone private della libertà personale e a quello Comunale circa “la violazione dei diritti (in particolare, di quello alla salute, come nella gran parte delle volte) di una persona attualmente trattenuta nel Cpr di via Corelli”. La rete ha pubblicato quanto segue: “L’ufficio del Garante Comunale ci risponde così: “Gentilissim*, su disposizione del Garante Francesco Maisto, comunichiamo che il servizio del nostro Ufficio è momentaneamente sospeso, come comunicato in passato, in quanto non disponiamo di unità operative da dedicare al CPR. Con l’occasione, cordiali saluti”. Sulla base di quanto appreso da Fanpage.it, non è la prima volta che la rete riceve una risposta simile: l’ufficio del garante comunale infatti - come riporta la stessa Mai più Lager su Instagram - non disponde più di risorse da dedicare al centro di permanenza per il rimpatrio. Fino a due anni fa, infatti, c’era un’unità operativa che si occupava di migranti e del Cpr tanto che l’ufficio faceva parte del progetto Fami, che riguardava la legalità dei rimpatri assistiti. Due anni fa il Comune ha destinato il personale a un altro ufficio: nonostante nel corso degli anni sia stata più volta avanzata la richiesta di poter trovare qualcuno che assolvesse alla funzione di quella unità specifica, non è stata ancora trovata una soluzione. “Del pesantissimo silenzio del Sindaco Sala sul tema Cpr abbiamo detto di più volte - scrive ancora Mai più Lager su Instagram. È stato interrotto solo, in questi anni, da - per non dire altro - sibilline o pilatesche frasi quali quella dell’ottobre 2019 che prometteva “In via Corelli solo rimpatri”, negando che il Cpr sarebbe stato un luogo di detenzione ma evidentemente un hub di un aeroporto”. E ancora: “Ebbene, nella bagarre di dichiarazioni che si susseguono ora, e solo ora, che la violazione dei diritti umani nel (certificato) lager di Milano è sotto gli occhi di tutti e anche della Procura, il Comune che fa? Sospende l’unica forma di garanzia che - almeno sulla carta - avrebbe dovuto dedicare alla tutela dei diritti delle persone che comunque si trovano sul suolo cittadino in quelle condizioni disumane”. Taranto. 15 detenuti ripuliscono le pareti imbrattate da graffiti: il progetto di giustizia riparativa di Vittorio Ricapito ledicoladelsud.it, 24 gennaio 2024 Una sabbiatrice “green” per ripulire la città dalle scritte che imbrattano i muri. È il nuovo progetto di giustizia riparativa di Unicredit e Noi & Voi in cui sono coinvolti 15 detenuti in esecuzione penale esterna e alcuni migranti richiedenti protezione. Dopo l’acquisto di un mezzo refrigerato, acquistato durante l’emergenza Covid per consegnare pasti ai senza tetto, ora arriva la sabbiatrice “green”, che utilizza il bicarbonato di sodio come elemento abrasivo per la pulizia del patrimonio soggetto ad incuria e ad atti vandalici. Una nuova possibilità per muri e palazzi storici ma soprattutto per una quindicina tra detenuti in esecuzione penale esterna, che hanno partecipato ai corsi di formazione sull’utilizzo del macchinario e da qualche settimana hanno iniziato un percorso di giustizia riparativa utilizzando la sabbiatrice. Con loro anche migranti richiedenti protezione internazionale. La sabbiatrice atomizza un getto di bicarbonato nell’aria compressa accompagnata da acqua e consente di rimuovere vernici, graffiti, grassi, oli, catrame, gomme da masticare, muffe, ruggine e macchie in genere, da qualsiasi superficie senza scalfire il substrato e ripristinando lo stato originario. Attualmente sono stati ripuliti pavimenti e alcune zone esterne della parrocchia sant’Antonio in via Duca degli Abruzzi e la statua della Madonna Addolorata dell’omonima parrocchia, in via Japigia. Ripulito anche l’esterno dell’ex convento delle suore di clausura, oggi Casa Madre Teresa, a Paolo Sesto. Prossimamente si provvederà alla pulizia dell’ingresso della biblioteca Acclavio. “Il sostegno di UniCredit, attraverso i fondi di “Carta Etica”, al progetto Nahco, che prevede l’utilizzo di questa sabbiatrice non corrosiva e che produce residui totalmente biodegradabili, per noi - racconta don Francesco Mitidieri, presidente dell’associazione - è stato fondamentale. I ragazzi coinvolti hanno accolto con entusiasmo la possibilità di imparare ad utilizzare questo macchinario all’avanguardia ma soprattutto di acquisire nuove competenze che in futuro potranno spendere nel mondo del lavoro. È una bella opportunità per loro e per la città, che potrà così essere ‘ripulita’ dall’incuria”. Chieti. “In & Out The Jail”: Progetto per detenuti al Barbella di Chieti di Luca Pompei rete8.it, 24 gennaio 2024 “In & Out the Jail” è un progetto che propone Percorsi formativi e di empowerment per migliorare l’occupabilità delle donne e degli uomini durante e dopo l’esecuzione della pena. I risultati illustrati stamani al Museo d’Arte “Costantino Barbella”, dalla Casa Circondariale di Chieti, con la Scuola di Formazione NXS Srl, la Regione Abruzzo e il patrocinio del Comune di Chieti, presenterà i risultati del progetto In & Out The Jail. Si tratta di un progetto realizzato nella Casa Circondariale di Chieti e destinato a 16 persone detenute, di cui 6 donne, per la qualificazione professionale in Pizzaiolo e Operatrice di Confezione. All’evento saranno presenti le autorità coinvolte nelle politiche governative e per l’inclusione sociale, il Sindaco Diego Ferrara, le autorità locali, una rappresentanza delle associazioni del terzo settore, i rappresentanti della Regione Abruzzo. Offriranno, inoltre, una testimonianza diretta dei percorsi di formazione professionale alcune persone detenute. “L’evento contribuisce a creare l’occasione per dare spazio e stimolare la creazione di percorsi che offrano, attraverso la formazione professionale, una concreta opportunità di reinserimento sociale al termine della pena, all’insegna dell’inclusione sociale e della solidarietà civile - spiega il direttore della Casa Circondariale Franco Pettinelli -. Un progetto che vuole essere una risposta concreta, in linea con le finalità rieducative della pena, a tale fine parte all’iniziativa sarà, tra gli altri, una rappresentanza della Magistratura di Sorveglianza, il Garante Regionale dei diritti dei detenuti, il Direttore, la Comandante e la Capo Area Giuridico - Pedagogica della Casa Circondariale di Chieti. L’evento vedrà anche l’esposizione dei prototipi di abiti realizzati dalle signore detenute che hanno preso parte al corso di formazione professionale in operatrice di confezione”. Milano. Caduta con riscatto (alla Bocconi): Mattia e la speranza in carcere di Giorgio Paolucci Avvenire, 24 gennaio 2024 Conseguire un master alla Bocconi di Milano è il traguardo che molti giovani sognano. Mattia taglierà quel traguardo oggi, ma per lui sarà molto di più che il termine di un percorso di studi: sarà il coronamento di una lunga e impegnativa salita cominciata dopo una rovinosa caduta, di cui il suo cuore porta ancora impresse le cicatrici. Aveva diciotto anni quando finì in galera per avere commesso un reato molto grave in un momento di follia, pentendosene subito dopo ma senza poter scampare alla giusta punizione. Quando entra in prigione per scontare una lunga detenzione fa una promessa alla madre: avrebbe proseguito la scuola fino alla maturità, per amore di lei. E così è stato. Conseguita la maturità, grazie a una borsa di studio si iscrive in carcere alla Bocconi e dopo tre anni si laurea in Economia e Management, poi ottiene la possibilità di frequentare l’università e con un’altra borsa di studio inizia il cammino del master in Marketing e Comunicazione che conclude oggi, mercoledì 24 gennaio, primo detenuto a raggiungere questo ambizioso traguardo. Con lui festeggeranno, insieme ai familiari e agli amici, gli educatori del carcere di Opera che l’hanno accompagnato in questi anni, ma sarà un giorno importante anche per i detenuti (1.500 quelli iscritti alle università italiane, molti ad altri ordini di studio) che hanno intrapreso un percorso scolastico. “Ogni detenuto che comincia a studiare è una branda che si svuota”: è una frase che circola negli ambienti penitenziari, dove molti ristretti trascorrono le giornate oziando sul letto e pochi - troppo pochi, anche a causa di un’offerta formativa inadeguata - dedicano tempo ed energie a migliorare la loro istruzione e a porre le basi per un reinserimento attivo nella società. In un presente carcerario che viene spesso vissuto come un tempo sospeso, c’è chi costruisce un futuro che vuole radicalmente diverso dal passato. Come Mattia, che ha deciso di percorrere la via dello studio come strada del suo riscatto. Dentro quel percorso c’è una grande determinazione unita al desiderio di dimostrare che il reato commesso non è l’ultima e definitiva parola sulla sua esistenza, che l’uomo non è il suo errore, che dopo ogni caduta ci può essere una ripartenza, che il cuore dell’uomo è fatto per il bene anche se il male è sempre in agguato e spesso riesce a prevalere. La salita dall’abisso in cui Mattia era precipitato è costellata di fantasmi: tante notti insonni popolate da incubi in cui riviveva le sequenze del reato commesso, tante lacrime amare, il desiderio di chiedere perdono che conviveva con la convinzione di non meritarlo. Ma insieme ai fantasmi ci sono stati i segni di un bene che l’ha raggiunto e l’ha spronato a non smettere di sperare: l’affetto dei familiari, l’incontro con i volontari che lo andavano a trovare in carcere testimoniando un’attenzione gratuita alla sua condizione, e un’esperienza che ha lasciato un segno indelebile, la partecipazione al progetto “Il senso del Pane” promosso dalla Fondazione Casa dello spirito e delle arti nel carcere di Opera, alle porte di Milano. Lì alcuni detenuti che si sono macchiati di gravi reati producono le ostie che vengono poi utilizzate nelle chiese. È un’esperienza potente fatta di espiazione e di purificazione: dalle medesime mani che si sono macchiate di sangue escono le particole che durante la celebrazione eucaristica diventano il corpo di Cristo, Colui che ha offerto se stesso per la salvezza di ogni uomo. Morte e resurrezione, sofferenza e rinascita, dolore e perdono. Ancora oggi Mattia non riesce a concepire come possa essere perdonato per il male che ha commesso, ma l’esperienza fatta nel laboratorio delle ostie ha scavato un solco incancellabile nel suo cuore. E le parole che Hannah Arendt ha scritto, parlano anche a lui: “Gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire ma per ricominciare”. Roma. Don Ciotti: “La legalità strumento per raggiungere la giustizia” di Roberta Pumpo romasette.it, 24 gennaio 2024 Il sacerdote, fondatore del gruppo Abele e presidente di Libera, ha incontrato i giovani nel cine-teatro Don Bosco. “Diffidate di chi parla di voi ma non con voi - il suo appello -. Diffidate dei navigatori solitari”. L’invito alla “responsabilità, spina dorsale della democrazia”. “Diffidate di chi parla di voi ma non con voi. Sappiate distinguere tra i seduttori e gli educatori perché ci sono tanti seduttori oggi, ben mascherati. Anche forme di pubblicità studiate per catturarvi, per vendere merci, per illudervi con parole scintillanti e immagini meravigliose. I seduttori vogliono suggestionarvi. Gli educatori, invece, vogliono rendervi persone libere. Non mettete in vendita la vostra libertà lasciandovi tentare dalle lusinghe della società delle merci e spacciatrice di illusioni”. È un appello accorato ai giovani arrivato da chi ha trascorso la propria vita accanto a chi si è “perso” affascinato da false promesse, a chi ha combattuto, e non sempre vinto, contro le dipendenze, a chi è stato lasciato ai margini. È l’appello di don Luigi Ciotti, fondatore del gruppo Abele e presidente di Libera, rivolto ai tanti ragazzi che ieri sera, 23 gennaio, hanno affollato il cine-teatro della parrocchia San Giovanni Bosco per l’incontro su “La legalità è lo strumento per raggiungere la giustizia”, uno degli eventi organizzati dalla comunità in occasione della festa di san Giovanni Bosco, che la Chiesa celebra il 31 gennaio. Un dialogo a tutto tondo su legalità, giustizia, responsabilità, impegno civile, durante il quale il sacerdote ha sollecitato gli adulti ad ascoltare di più i ragazzi, “portatori di una linfa nuova, con grandi intuizioni e capaci di leggere la realtà”. La società moderna ha bisogno dei giovani, ha rimarcato; “la Chiesa ha bisogno dei giovani, delle loro capacità, fantasie, passioni”. Lo aveva ben capito don Giovanni Bosco, del quale Ciotti avverte il “grande fascino. Parlo spesso di lui - ha affermato - per le cose che ha fatto, per la capacità, per le intuizioni. Si inventava di tutto per accompagnare i suoi ragazzi. È stato una meraviglia. Gli dobbiamo molto”. Oggi abbiamo bisogno di persone che, nel solco tracciato da don Bosco, “tengano conto delle grandi trasformazioni, siano capaci di accogliere e accompagnare a nuove professioni, dando nuovi strumenti a chi vive situazioni di difficoltà. È una storia che si ripete e che impone a ciascuno di noi uno scatto in più”. All’incontro, ha tenuto subito a precisare, non c’era solo “don Luigi Ciotti” perché lui rappresenta “più un “noi” che un “io”“ in quanto quello che è riuscito a fare in 79 anni di vita è “frutto di una condivisione con altri. È il noi che vince - ha specificato -. Diffidate dei navigatori solitari”. In prima fila ad ascoltarlo anche il vescovo del settore est Riccardo Lamba, il superiore provinciale dei salesiani don Stefano Aspettati, il parroco di San Giovanni Bosco don Roberto Colameo, il presidente del VII municipio Francesco Laddaga. Don Ciotti ha ricordato i primi anni della sua infanzia, il distacco dalle Dolomiti, dov’era nato, per trasferirsi con la famiglia a Torino, nei primi anni ‘50, dove il papà aveva trovato lavoro. Sradicati dalla propria terra, “come accade oggi a migliaia di persone”, per una città dove c’era il lavoro ma “non una casa, come accade ancora oggi a chi arriva in Italia”. Ha raccontato degli anni trascorsi in una baracca, e poco importava se la sua “era una famiglia molto povera ma dignitosa, era comunque additata da tutti. Come succede ancora oggi verso i poveri”. Parlando della legalità, ha spiegato che questa “è lo strumento per raggiungere la giustizia”, che a sua volta deve essere giusta per andare incontro a tutti e mantenere la democrazia, la cui “spina dorsale è la responsabilità”. A tal proposito ha osservato che “ci sono momenti nella vita in cui si ha la responsabilità civile di parlare, di far emergere le cose che non vanno bene. È un impegno morale, un’esigenza categorica”. Davanti alla forbice della disuguaglianza sempre più ampia in Italia, davanti ai 6 milioni di persone in povertà assoluta e a un milione e 400mila bambini poveri, “uno scatto delle nostre coscienze dobbiamo farlo, non possiamo restare in silenzio. Quando vediamo che l’Italia è all’ultimo posto per povertà educativa non possiamo rimanere spettatori”. Udine. “A scuola di libertà”, incontro con gli studenti del Liceo Percoto Ristretti Orizzonti, 24 gennaio 2024 Si è tenuto l’incontro “A scuola di libertà”, che rientra nel progetto ideato dalla Conferenza Nazionale del Volontariato Giustizia per parlare in modo nuovo di carcere, pene e giustizia, cercando di sconfiggere luoghi comuni e pregiudizi. Qui a Udine è magistralmente sostenuto da una realtà che moltissime regioni italiane ci invidiano: il progetto “Il piacere della legalità? Mondi a confronto. Legami di responsabilità”, che possiamo definire come uno straordinario collettore di mondi, guidato da Liliana Mauro, Chiara Tempo e molti altri instancabili insegnanti di una rete che conta ben 13 istituti scolastici in collaborazione con l’Associazione Icaro Volontariato Giustizia, con la Casa Circondariale, l’UEPE, il tribunale di Sorveglianza, il Garante, la Camera penale, il Comitato Pari Opportunità degli avvocati di Udine, l’Ordine degli avvocati, il progetto Spazio Aperto, e una lunga serie di associazioni del territorio. Le finalità di questo incontro sono state dibattute, ragionate, discusse, all’interno delle classi assieme agli insegnanti, da questi confronti sono emerse le domande che sono state rivolte agli esperti presenti: La Dott.ssa Mariangela Cunial magistrato di sorveglianza; La Dott.ssa D’Orlando Katjuscia magistrato di sorveglianza; La Dott.ssa Monica Sensales Comandante della Casa Circondariale di Udine; Il Dott. Franco Corleone Garante dei diritti delle persone detenute; Dott.ssa Stefania Gremese Responsabile del settore scuole dell’Ufficio Esecuzione penale esterna; Il Dott. Raffaele Conte: Presidente Camera Penale Fvg; La Dott.ssa Antonina Tuscano: Coordinatrice laboratorio teatrale Spazio Aperto; Marina Toffoletti Volontaria Associazione Icaro. Roma. “Stato di Grazia”, proiezione del docufilm sul caso di Ambrogio Crespi Il Dubbio, 24 gennaio 2024 Cosa deve fare un uomo per dimostrare la propria innocenza? Come può una famiglia resistere a un evento tanto inaspettato e lontano dal proprio immaginario? Sono i temi al centro del convegno “Legalità e giustizia, strumenti e riforme” che si terrà domani, a partire dalle 15,30, nell’Aula Paolo VI dell’Università Pontifica Salesiana, a Roma, nel corso del quale sarà proiettato il docufilm “Stato di Grazia”, sul caso del regista Ambrogio Crespi, prodotto da Proger Smart Communication (Psc) e Alfio Bardolla Training Group (Abtg). Dopo i saluti iniziali del sottosegretario alla Giustizia. il senatore Andrea Ostellari, ne discuteranno, insieme ai protagonisti del docufilm, personalità delle Istituzioni, gli studenti delle scuole superiori come il Liceo Classico e Linguistico Aristofane, il Liceo Giordano Bruno, il Liceo Giulio Cesare e altri istituti. Il docufilm, diretto dal giornalista Luca Telese e presentato alla 80esima Mostra del Cinema di Venezia, alla Festa del Cinema di Roma e alla Camera dei Deputati, racconta la vicenda umana di un uomo da sempre impegnato socialmente nella lotta antimafia e anticrimine ma che si è trovato a doversi difendere da accuse diametralmente opposte ai principi che lo hanno accompagnato per tutta la vita. Accuse che hanno determinato una condanna a sei anni di carcere, nonostante la dichiarata totale estraneità ai fatti contestati, a cui ha fatto seguito la Grazia concessa dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Un viaggio, quello affrontato da Crespi, dove l’incubo diventa la concretezza delle sbarre, dove la paura diventa l’aria stantia di una cella. Una storia tanto incredibile da sembrare frutto dell’immaginazione di uno scrittore ma che, invece, è diventata pura realtà. Una storia che consente di riflettere sui principi sui quali si fonda la nostra Repubblica. Un dovere di ognuno di noi perché quanto capitato al regista Crespi, la cronaca lo dimostra, può capitare a chiunque. Dopo la proiezione del docufilm ci sarà il dibattito con la partecipazione di Ambrogio Crespi, Luca Telese, Marco Patarnello, magistrato di Sorveglianza Tds di Roma, la psicoterapeuta Maria Rita Parsi, Alessandro Ricci, psicologo e psicoterapeuta docente di Psicologia all’Università Pontificia Salesiana; l’avvocata Maria Brucale, Benedetto Zoccola, testimone di giustizia; don Antonio Coluccia, sacerdote simbolo della lotta allo spaccio e alla criminalità a Roma. A moderare il dibattito la giornalista Flaminia Camilletti. L’evento è aperto a tutti. Sarà possibile registrarsi attraverso il link https://shorturl.at/jpBN4 Torino. “Oltre le sbarre”, a teatro uno spettacolo ispirato a Mare Fuori opesitalia.it, 24 gennaio 2024 I prossimi 3 e 4 febbraio andrà in scena, presso il teatro Cardinal Massaia di Torino, “Oltre le sbarre”, uno spettacolo che vede la regia e coreografia di Antonino Montalbano per il Collettivo Ties, promosso da OPES Piemonte. L’evento, che ha già raccolto numerosi consensi dopo il debutto dello scorso 21 maggio, si ripeterà per raccontare la vita dietro le sbarre; musica e danza sono i mezzi scelti per veicolare i messaggi sociali che caratterizzano l’opera. Un’espressione artistica che intende rivolgersi a una platea ampia e che mette al centro i giovani; di fatto, lo spettacolo è ispirato alla serie tv di successo Mare Fuori. “Sono una detenuta e quella che mi accingo a raccontare è una storia di detenzione, di sofferenza e speranza”, questo è l’incipit di ciò che questo spettacolo andrà a raccontare. Oltre le sbarre, come spiega l’organizzazione, nasce in un momento di confusione mista ad esigenza evolutiva. Si arriva, nella vita artistica di una persona, ad un bivio dove da una parte c’è una strada piatta mentre dall’altra c’è una strada in continuo mutamento. Lo spettacolo, che ha la durata di un’ora, racconta una storia con la voce e con la danza (21 i ballerini in scena). Non ci sono scenografie, ma sono i corpi stessi a fare da scenografia allo spettacolo insieme a un gioco di luci e una ricerca musicale di nicchia. Un nuovo punto di vista - Montalbano decide sapientemente di disegnare storie di carcere, stupro e omicidio. Tutto ciò, per la prima volta, dalla parte del carnefice. In questo caso, tutte donne. “Cerchiamo di raccontare quali sono le emozioni prima, durante e dopo un’azione così estrema ed efferata, che ti cambia la vita per sempre”, ha spiegato Montalbano. Poi ha aggiunto: “È un argomento, quello della criminalità, che mi tocca profondamente da vicino, quindi, ripongo in esso gran parte della mia esperienza di vita, in modo da poter quantomeno raccontare una verità”. Va altresì aggiunto che il collettivo ha come scopo quello di collaborare con le carceri italiane attraverso ricerche artistiche e creazione di spettacoli insieme alle persone che le abitano. Tra gli obiettivi dell’opera, tuttavia, c’è anche la diffusione e la condivisione di temi estremamente attuali; da questo punto di vista essere stati selezionati per la rassegna coreografica “Respiri”, che si terrà a Roma il prossimo 21 aprile 2024, è un segnale forte e di grande rilevanza. Walter e Deimos Palmero: “Utilizzare l’arte per lanciare messaggi forti” - Anche il Comitato Regionale di OPES Piemonte ha commentato l’impegno che c’è dietro lo spettacolo e gli intenti che lo animano: “Oltre le sbarre rappresenta la concretizzazione di uno dei principali obiettivi di questo Comitato regionale, ovvero quello di utilizzare l’Arte per lanciare messaggi forti, che possano essere recepiti dal pubblico privi di filtri e con un linguaggio, come quello del corpo e della musica, che non ammette filtri”. I sogni oltre il mare di Garrone e i “nuovi corsi” della cultura di Cristina Piccino Il Manifesto, 24 gennaio 2024 Cinema e politica. “Io capitano” è nella cinquina dei migliori film internazionali agli Oscar. Alla notizia sono fioccati i complimenti anche istituzionali, di quel governo oggi in carica che sulla vita dei migranti specula quotidianamente. “Io Capitano” ce l’ha fatta. Il film di Matteo Garrone è entrato nella cinquina dei migliori film internazionali in corsa per l’Oscar. Adesso per sapere come andrà si deve aspettare il prossimo 10 marzo, quando al Dolby Theatre di Los Angeles saranno consegnate le statuette. E gli avversari in questa corsa finale sono agguerriti, da Perfect Days di Wim Wenders a La zona di interesse di Glazer - che è presente anche in altre categorie fra cui miglior regia e film. È questa della cinquina una bellissima notizia perché premia il lavoro di un regista quale Garrone che sin dai suoi esordi negli anni Novanta è stato attento a un confronto con la realtà del proprio tempo, cercando nei diversi passaggi che scandiscono la sua filmografia una giusta invenzione formale con cui restituirla. Vale per gli inizi, “piccoli”, o persino intimisti, spesso giocati sul bordo di documentario e finzione come potevano essere Terre di mezzo (1996) o Estate romana (2000), fino a quei titoli che hanno “creato” un immaginario quali Gomorra (2008) o Reality (2012), uniti dall’esplorazione costante di una visione del mondo che si fa metodo di cinema, ricerca, geografia del presente. Io Capitano parla di migranti che sono al centro della nostra contemporaneità, che anzi ne determinano un certo assetto politico, sociale, culturale in cui è mutato lo stesso senso di democrazia. Le barriere, gli accordi coi governi più illiberali per tenere fuori dai confini europei - e non solo - chi si muove come sempre è accaduto nella storia dell’umanità in cerca di nuove occasioni di vita, lavoro, per fuggire a guerre o a persecuzioni. I migranti sono divenuti i nemici, il “fantasma” cavalcato da neoliberismo e destre per giustificare povertà e controllo, il nemico da perseguitare, da lasciare al suo destino in mare. I due giovani protagonisti di Io Capitano sfuggono però a quell’immagine che spesso, anche con le migliori intenzioni, racchiude la rappresentazione dei migranti mostrandoli unicamente come vittime. Seydou e Moussa sono due ragazzi come tanti, hanno molta incertezza del futuro, ma soprattutto sono spinti a avventurarsi in quel viaggio - di cui conoscono i pericoli - dal desiderio comune a tanti della loro età di scoprire il mondo. Solo che per altri è semplice, per loro quella scoperta diviene violenza, umiliazione, morte. Qualcuno ha criticato al film la scelta di immagini troppo “belle”, la visione di un deserto favolistico come se nella sofferenza di chi lì vede la morte a ogni passo non vi sia il diritto nei sogni o nel rifugio dell’immaginazione alla bellezza - che deve poter essere un diritto di tutte e di tutti - anche se non sempre lo si crede. In questo che diviene un romanzo di formazione terribilmente attuale, Garrone accompagna i suoi personaggi in un’esperienza personale e collettiva, e insieme a loro ci rivela situazioni e luoghi che conosciamo dalla cronaca senza però averne mai toccato il vissuto, con prossimità senza retorica in cui guardare. Perché il cinema di Matteo Garrone nonostante il respiro dei suoi spazi non è a differenza di altri un cinema sensazionalista, che vuole accarezzare anche sfacciatamente i miti riconoscibili o quei meccanismi di stupore fatti passare per grande invenzione di regia. È invece un cinema di delicatezza e di emozioni umanissime avvicinate con pudore, che esclude ogni traccia di arroganza, e proprio in questa discrezione sa spiazzare la visione comune. Ieri alla notizia sono fioccati i complimenti anche istituzionali, di quel governo oggi in carica che sulla vita dei migranti specula quotidianamente con proclami e accordi internazionali. E che mostra un disprezzo per il lavoro culturale fatto finora, liquidato unicamente come un gioco di poltrone - “le carte adesso le do io” ha detto a proposito della cultura la premier Meloni in tv manco fossimo a una serata di tressette. Ma se abbiamo i film di Garrone, tra i firmatari della lettera contro la modalità di nomina della direzione del Teatro di Roma, e di altre e altri è grazie a un lavoro appunto reso possibile, seppure con intralci e criticità negli anni, che nella eterna (e un ormai noiosamente abusata) lamentela della cultura come “affare di sinistra” da parte della destra si limita a essere questione di tessere o di “affari di famiglia”. E che ha permesso al cinema italiano di ritrovare un interesse internazionale e di far emergere talenti seguiti con attenzione nel mondo dopo lunghi periodi di esiti assai meno felici. Non si tratta certo di quel “nazionalismo” auspicato in qualche discorso qua e là, anzi ne è l’esatto contrario. E tantomeno dell’occupazione a ogni costo in nome di Dio patria e famiglia che caratterizza i “nuovi corsi”. Quando si andrà a sfoggiare il vestito migliore a Los Angeles sarà bene non dimenticarlo. Il fine vita e la politica che ignora la Consulta di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 24 gennaio 2024 Si usa dire “fine vita”. Ma si discute di situazioni limitate, in cui ci si chiede se debba essere punito l’aiuto prestato a chi ha deciso di togliersi la vita. E poiché il suicidio è una libertà individuale, si tratta di due specifiche categorie di persone: coloro che hanno deciso di uccidersi ma non sono più in grado di farlo autonomamente e coloro che potrebbero farlo, ma vogliono evitare le forme violente, insicure, crudeli per sé e per i congiunti. Il codice penale puniva con pena detentiva chiunque avesse aiutato a realizzare la volontà di chi aveva deciso di por fine alla propria vita. Il tema era da tempo oggetto di dibattito. Nessuna nuova regolamentazione veniva però dal Parlamento, che lasciava in vigore il divieto puro e semplice, costringendo la persona “a subire un processo più lento, in ipotesi meno corrispondente alla propria visione della dignità nel morire e più carico di sofferenze per le persone che gli sono care”. Così si espresse la Corte costituzionale, investita da una questione di costituzionalità, indicando al Parlamento nel 2018 le condizioni che, secondo Costituzione, avrebbero dovuto guidarlo nel definire una nuova legge. Ma il Parlamento - come sempre più frequentemente accade - non ha provveduto e la Corte ha ritenuto di dover essa stessa intervenire per interrompere il perdurare di una situazione incostituzionale. La Corte, con la sua sentenza del 2019 ha dettato rigorose condizioni per la non punibilità di chi aiuta il suicida: che si tratti di persona capace di decisioni libere e consapevoli, affetta da patologia irreversibile, fonte di intollerabili sofferenze, aggiungendo che essa deve essere “tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale”. Che cosa siano tali trattamenti è dubbio (solo macchinari per respirazione, idratazione e alimentazione? O anche farmaci e assistenza medica?). Inoltre sembra irragionevole imporre quella condizione di fronte alla estrema varietà delle situazioni, già presenti o anche temute come svolgimento ineluttabile della malattia. La sentenza indica anche che la procedura deve essere svolta nell’ambito del Servizio sanitario nazionale (che quindi è tenuto ad assicurare la prestazione). Per questo e per altri aspetti, la Corte con la sua sentenza ha anche richiesto al Parlamento di intervenire con legge. Ma anche questa volta il Parlamento non ha provveduto. La sua marginalizzazione, da centro costituzionale della attività legislativa, dipende da vari fattori e attori, ma in questo caso è lo stesso Parlamento a mostrarsi impotente, incapace, creatore di gravi problemi istituzionali, sociali, umani. Il quadro delineato dalla sentenza della Corte costituzionale, nonostante il dettaglio delle previsioni ed anzi proprio per questo, è difficilmente operativo. Alla persona che ha deciso di morire - nelle gravi condizioni in cui normalmente si trova - si impone l’onere di ricorrere perfino al Tribunale per imporre agli uffici regionali e ospedalieri di provvedere, poiché il Ssn opera a livello regionale. Non solo, ma la nuova legge, la cui necessità è stata indicata dalla Corte costituzionale, oltre ad aspetti strettamente operativi che possono rientrare anche nella competenza regionale, potrebbe riguardare altresì importanti aspetti di altra natura, come le procedure di accertamento della libertà e piena consapevolezza della volontà del paziente e l’effettività dell’offerta delle cure palliative. Nel frattempo, si sviluppa l’azione di gruppi contrari alla possibilità stessa di ammettere che non venga punito chi aiuta il suicida: anche contro ciò che deriva dalla Costituzione a garanzia di ciascuno. Di questo infatti si tratta, come è emerso chiaramente dalla discussione che ha accompagnato il rigetto da parte del Consiglio regionale del Veneto di una proposta di iniziativa popolare (promossa dalla Associazione Luca Coscioni) di regolamentazione di tempi e modi dell’agire dei vari uffici per dare esecuzione a ciò che la Corte costituzionale ha deciso. Chi ha votato contro ha motivato richiamando la propria concezione della tutela della vita. Negletto è invece risultato l’argomento di giuridico che riguardava il quesito sulla competenza regionale o statale della disciplina proposta. Meglio presentare slogan più efficaci! Intanto mostra la sua problematicità la soluzione che la Corte costituzionale ha ritenuto di poter adottare per rimuovere la incostituzionalità che il Parlamento continua ad ignorare. La paralisi derivante dall’inerzia del Parlamento e superata (in parte) dall’intervento di una Corte costituzionale che è istituita semplicemente per giudicare della legittimità delle leggi, mostra ora limiti e distorsioni dell’impianto fondamentale della Costituzione. Nel caso specifico la condizione dell’attualità di trattamenti di sostegno vitale è criticabile sul piano della ragionevolezza. Ed è questa in sostanza la questione di costituzionalità che il Tribunale di Firenze pone ora alla stessa Corte costituzionale. La quale è posta di fronte al paradosso di dover giudicare della costituzionalità di una normativa che essa stessa ha definito e imposto con una sentenza. Per sciogliere il problema si osserverà che la Corte deve valutare l’articolo 580 del codice penale “come modificato dalla sentenza 242/2019”, ma resterà comunque l’evidente forzatura del quadro costituzionale: una Corte costituzionale che legifera e dovrà poi giudicare la costituzionalità della “legge” che ha prodotto in luogo del Parlamento; un Consiglio regionale che rifiuta di predisporre le norme necessarie a dare esecuzione ad una sentenza della Corte costituzionale. E, all’origine di tutto, un Parlamento che rifiuta di adempiere al suo dovere. Respinto emendamento per escludere i migranti vulnerabili dai trasferimenti in Albania di Giansandro Merli Il Manifesto, 24 gennaio 2024 Protocollo Roma-Tirana. Il ddl di ratifica in aula. La proposta dell’opposizione raccoglieva le promesse di Cirielli (FdI) in commissione. Ma la maggioranza si è rifiutato di metterle nero su bianco. Il governo ha rifiutato di mettere nero su bianco che nei centri in Albania non saranno trasportati i migranti vulnerabili, categoria in cui rientrano donne, minori e persone fragili a vario titolo. Ieri il Pd aveva presentato alla Camera tre emendamenti al ddl di ratifica del protocollo Roma-Tirana per la costruzione di centri di trattenimento in territorio albanese. Le proposte di modifica dell’opposizione andavano nella direzione di quanto dichiarato dal viceministro degli Esteri Edmondo Cirielli (FdI) durante l’esame del provvedimento in commissione: tutti i vulnerabili andranno in Italia. Ma si sa: verba volant, scripta manent. Così i relatori di maggioranza hanno dato parere negativo, anche ad accantonare l’emendamento. “Vogliamo mantenere un testo snello”, si è giustificato Cirielli a nome dell’esecutivo. Motivazione che non ha convinto le opposizioni. Su quello specifico emendamento si è acceso il dibattito, ma sono stati respinti, insieme alle pregiudiziali di costituzionalità e merito, anche tutti gli altri. A fine giornata ne sono stati votati meno della metà, grazie all’ostruzionismo delle opposizioni. No all’ingresso delle organizzazioni internazionali nei centri, come chiesto dal segretario di Sinistra italiana Nicola Fratoianni. No anche al voto parlamentare per il rinnovo dopo cinque anni, emendamento presentato da Azione. Per il M5S il governo fa campagna elettorale a spese degli italiani. Riccardo Magi (+Europa) giudica l’intesa “un castello di carta fuori dal diritto”. La discussione parlamentare ricomincia oggi alle 9.30 con gli emendamenti mancanti. Poi ci sarà il voto finale sul testo, prima del passaggio al Senato. Intanto oggi a Tirana è prevista la seconda udienza della Corte costituzionale albanese sul ricorso contro il protocollo presentato dalle opposizioni. La decisione deve arrivare entro il 6 marzo. Proibizionismo, le elezioni europee come banco di prova di Leonardo Fiorentini Il Manifesto, 24 gennaio 2024 La caccia alle streghe passa dalla propaganda alla dura repressione. La Camera ha bocciato l’emendamento che salvaguardava i pazienti che utilizzano cannabis terapeutica dalla persecuzione voluta da Salvini con i test antidroga su strada. Nella nuova formulazione dell’art. 187 del Codice della Strada viene infatti rimosso il principio della verifica dello “stato di alterazione psico-fisica” alla guida, aprendo alla punibilità di chiunque abbia usato sostanze psicotrope, anche giorni o settimane prima di mettersi al volante. Il governo Meloni ha chiesto il rinvio del giudizio del TAR del Lazio sul decreto CBD Schillaci-Speranza, in attesa di un parere tecnico sulla pericolosità della sostanza che due Governi non hanno saputo produrre in ben tre anni. La settimana scorsa è stata annunciata infine la sospensione di Canapa Mundi, decisa dagli organizzatori per tutelare la sicurezza e il benessere dei partecipanti ed evitare loro i controlli a tappeto dello scorso anno. Il risultato della demonizzazione priva dunque Roma della sua fiera internazionale della canapa. In Europa invece si respira tutt’altra aria. La novità più importante arriva dalla Repubblica Ceca. È giunta sul tavolo della coalizione governativa di centro-destra la proposta di una nuova legge sulle droghe che vuole regolamentare le sostanze a seconda del loro effettivo livello di nocività. Prevenzione del rischio, riduzione del danno e politiche basate sulle evidenze scientifiche sono alla base dell’approccio voluto dal coordinatore nazionale antidroga Jindrich Voboril. Sulla cannabis la proposta ceca pare allinearsi alla linea di Malta e Germania, evitando conflitti con l’Unione Europea e le sue norme quadro in materia di sostanze stupefacenti. Non ci sarà quindi per ora un vero e proprio mercato legale della cannabis, anche se lo stesso Voboril ed il Partito Pirata al governo non escludono una sua reintroduzione nel dibattito, almeno in forma sperimentale. Viene confermato invece il regime di decriminalizzazione di coltivazione e possesso ad uso personale, già in vigore con altre modalità dal 2010. A questo si aggiungerà un unico canale legale, alternativo alla coltivazione casalinga: i Cannabis Social Club. Dopo alcuni mesi di consultazioni, sul dossier si è aperto il dibattito politico. Non mancano le voci critiche, come quella di Marek Výborný, Ministro dell’Agricoltura del Partito Popolare, che ha espresso forti dubbi sulla riforma, che a suo parere farebbe aumentare il numero delle persone assistite dai servizi per le dipendenze. Uno dei tanti pregiudizi che le esperienze internazionali hanno già smentito o ridotto a problema risolvibile tramite una buona regolamentazione. Tornando alla Germania, il Ministro della Salute Lauterbach ha confermato che - nonostante i mugugni dentro l’SPD - il primo pilastro della riforma tedesca, limitato all’uso personale e ai Cannabis Social Club, andrà all’esame del Bundestag il 19 febbraio per essere esecutivo dal primo aprile 2024. Chi continua a non preoccuparsi delle normative europee sono i Paesi Bassi: trincerandosi dietro al divieto formale previsto dalla legge olandese, il regime di tolleranza dei coffeshop è stato implementato a metà dicembre dalle prime sperimentazioni di legalizzazione anche del loro approvvigionamento, a Breda e Tilburg. Fuori dall’Unione, la Svizzera ha visto partire le prime sperimentazioni di vendita legale della cannabis a Basilea, Zurigo, Ginevra, Berna, Lucerna e Bienne. Ultima Losanna, dove l’apertura di un unico negozio - secondo Addiction Suisse, il Centro di ricerca incaricato di monitorare la sperimentazione - avrebbe intercettato in poche settimane già il 5% del mercato locale di cannabis. La campagna elettorale per il Parlamento Europeo contrasterà la cupa nube proibizionista che sovrasta il nostro paese? Difendere gli avvocati per difendere tutti, la missione dell’Oiad al fianco dei colleghi in pericolo di Francesco Caia* Il Dubbio, 24 gennaio 2024 L’osservatorio internazionale degli avvocati in pericolo ha l’obiettivo di tutelare i difensori minacciati e perseguitati nel mondo, fornendo loro assistenza legale e sostegno materiale. La giornata internazionale dell’avvocato in pericolo 2024 è dedicata agli avvocati iraniani. L’effettività dei diritti, anche di quelli fondamentali, non è garantita in molti stati. Le sanguinose guerre in corso tra Russia e Ucraina, a seguito dell’aggressione russa, e tra Hamas ed Israele, conseguenza dei tragici fatti del 7 ottobre 2023, hanno reso la situazione ancora più drammatica. Ci sono poi tanti altri conflitti, spesso dimenticati dalla stampa e dall’opinione pubblica, che insanguinano il mondo ed hanno fatto parlare da tempo il Papa di una “guerra mondiale a pezzi”. Il continuo deteriorarsi delle relazioni internazionali, in un quadro generale che vede arretrare la diplomazia, determina l’aumento dei confronti armati, delle stragi di civili e dei crimini di guerra. In questo drammatico scenario rischiano di scivolare in secondo piano le violazioni dei diritti umani negli altri Paesi e le intimidazioni e le violenze, gli arresti e le condanne arbitrarie, contro gli avvocati. L’osservatorio internazionale degli avvocati in pericolo (OIAD), di cui il Consiglio Nazionale Forense è cofondatore, giunto ormai al suo nono anno di attività, continua con maggior vigore la propria azione a sostegno degli avvocati che rischiano la libertà, l’incolumità fisica o addirittura la vita a causa del libero esercizio della professione, anche attraverso il sostegno materiale e l’assistenza legale agli avvocati richiedenti asilo. In Iran, dopo l’annuncio della morte di Mahsa Amini, la situazione si è notevolmente deteriorata, con il regime che viola costantemente il diritto a un processo equo e i diritti della difesa. Ai prigionieri accusati in relazione alle recenti manifestazioni sono stati assegnati avvocati di gradimento delle autorità, ai sensi dell’articolo 48 del Codice di procedura penale iraniano. Agli avvocati specializzati nella difesa dei diritti umani viene spesso impedito di incontrare i propri clienti e di avere accesso a fascicoli e prove. In alcuni casi, è stato addirittura vietato loro di partecipare alle udienze. Lo scorso anno cinque avvocati sono stati assassinati e altri dieci sono stati feriti. Tra settembre 2022 e maggio 2023, nel periodo delle maggiori proteste in Iran, almeno 66 avvocati difensori di attivisti e manifestanti detenuti arbitrariamente sono stati arrestati dalle forze di sicurezza iraniane. Alcuni avvocati sono stati condannati a lunghe pene detentive oppure sono stati costretti a lasciare il Paese per sfuggire ai processi. Emblematico il caso dell’avvocato Saleh Nikbakht, che rappresenta la famiglia di Mahsa Amini. Appena arrivato all’aeroporto di Teheran, il 22 dicembre 2023, è stato portato nella sala di sicurezza dell’aeroporto, dove gli sono stati sequestrati passaporto, telefono cellulare e Premio Sakharov del Parlamento europeo. L’avvocato Saleh Nikbakht rischia ora il carcere. Rilasciato dopo un lungo interrogatorio, l’avvocato è stato informato che sarà presto convocato presso il carcere di Evin per scontare una condanna a un anno di reclusione, emessa il 17 ottobre 2023. È stato condannato per “propaganda contro il regime” sulla base di una denuncia presentata dal Ministero dell’Intelligence iraniano. Le autorità iraniane hanno accusato l’avvocato di aver fornito consulenza alla famiglia Amini, di aver rilasciato interviste ai media e di aver contestato il rapporto dell’istituto forense sulle cause della morte di Mahsa Amini. Le informazioni relative a numerosi altri casi di avvocati ingiustamente arrestati, processati e condannati in Iran, come quelli degli avvocati Arash Keykhosravi e Khosrow Alikordi, sono reperibili sul sito dell’Oiad. Grande attenzione è rivolta agli avvocati che esercitano la loro professione nelle zone di guerra, come in Ucraina. Gli avvocati ucraini continuano a lavorare tra mille difficoltà, anche se alcuni di loro hanno avuto le case oppure gli studi professionali distrutti, impegnati a creare corridoi umanitari dalle zone ucraine occupate, fornire supporto legale ai rifugiati ucraini all’estero, distribuire aiuti umanitari. In Russia gli avvocati sono ingiustamente arrestati perché assimilati ai loro clienti, soprattutto quando sono oppositori politici, come accaduto agli avvocati Vadim Kobzev, Igor Sergunin e Alexei Liptser, difensori del politico e blogger Alexei Navalny. Per quanto riguarda la Turchia negli ultimi mesi l’Osservatorio ha svolto alcune importanti missioni di osservazione processuale. Mercoledì 29 novembre 2023 si è tenuta l’ottava udienza del processo per l’omicidio del Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Diarbakir Tahir Elçi, cui hanno partecipato le colleghe Barbara Porta e Benedetta Perego (del Foro di Torino) e il collega Adam Zaki (del Foro di Ginevra). L’avvocato Antonio Fraticelli, dell’Ordine degli avvocati di Bologna, ha effettuato delle visite in carcere, nell’ambito di una missione internazionale cui hanno partecipato avvocati in rappresentanza di numerosi ordini forensi ed associazioni, a nove avvocati membri dell’associazione degli Avvocati Progressisti ÇHD, detenuti in quattro carceri diverse (tra il 5 novembre 2023 e il 10 novembre 2023). Inoltre ha partecipato all’osservazione di due udienze, una relativa al processo agli avvocati dell’ÖHD (Associazione degli avvocati per la libertà) il 7 novembre 2023 e l’altra relativa al processo contro Gülhan Kaya, membro dell’ÖHD, il 9 novembre 2023. *Vicepresidente Oiad Stati Uniti. In Alabama prima esecuzione di un uomo con ipossia da azoto di Thomas Brambilla Il Fatto Quotidiano, 24 gennaio 2024 Il filosofo Mordacci: “Questo è puro accanimento”. “In Alabama non esiste misericordia per quelli come me, non sono pronto e ogni notte sogno che mi vengano a prendere per portarmi nella camera della morte”. Sono parole pronunciate da Kenneth Smith nella sua telefonata al Guardian. Smith, 58 anni, statunitense, giovedì 25 gennaio potrebbe diventare il primo condannato a morte ucciso con ipossia da azoto, metodo mai sperimentato che provoca il decesso per soffocamento. Su Smith, che nel 2022 ha già subito un tentativo di esecuzione non riuscito a causa di complicazioni tecniche, pendeva una condanna all’ergastolo per un omicidio compiuto nel 1988. Successivamente, però, un giudice ha tramutato la sua condanna in pena capitale, grazie ad una legge ora non più in vigore. “Puro e semplice accanimento caratterizzato da un’inesorabile e disumana crudeltà” ha detto a ilfattoquotidiano.it il filosofo Roberto Mordacci, professore ordinario di filosofia morale, prorettore di scienze umane e sociali presso l’Università Vita-Salute San Raffaele e autore di numerosi saggi su temi etici, bioetici e di filosofia morale. Nel 2022 si è registrato il più alto numero di esecuzioni dal 2017. In che stato di salute versa la nostra civiltà giuridica? Il ricorso alla pena capitale è una mostruosità morale, prima ancora che giuridica. I dati del 2022 sono in chiaroscuro (si veda il rapporto di Amnesty International del 2022): le esecuzioni capitali sono aumentate del 53% rispetto al 2021, passando da 520 a 825 già solo se si contano le pene eseguite nei paesi del Medio Oriente (Iran e Arabia Saudita soprattutto) e dell’Africa del Nord (Egitto), senza contare i numeri molto misteriosi di paesi come Cina, Vietnam e Corea del Nord. Dunque, un imbarbarimento drammatico, che segna un inasprimento delle politiche repressive e violente in quei paesi. D’altra parte, il rapporto ci dice che ben sei stati nel 2022 hanno abolito totalmente o parzialmente la pena di morte (Kazakhstan, Papua Nuova Guinea, Repubblica Centrafricana e Sierra Leone per tutti i reati, Guinea Equatoriale e Zimbabwe per i reati comuni). Più di tre quarti dei paesi del mondo hanno abolito la pena di morte legalmente o nei fatti. Resta scandaloso che in un paese come gli Stati Uniti, che pretende di essere un paese “civile” sul piano giuridico, ancora 27 Stati prevedano la pena capitale, benché 14 di questi non la pratichino di fatto da almeno 10 anni. Sotto questo profilo, l’Europa - dove la pena di morte è stata abolita in tutti gli Stati, con l’unica eccezione della Bielorussia - si trova in condizioni migliori. Nel caso di Smith vi è un accanimento contro un uomo già sopravvissuto ad un tentativo di esecuzione. Tutto ciò come si sposa con il concetto di giustizia? Non si sposa affatto. È intrinseco all’idea di giustizia un concetto non retributivo ma educativo della pena. Significa che non si punisce come vendetta sociale contro il reo, ma che si limita la sua libertà per impedire che possa colpire ancora e si mira a ricostruire un’identità sociale compatibile con il diritto. La ripetizione dell’esecuzione su Kenneth Smith è puro e semplice accanimento. In un’epoca più ingenua si sarebbe considerata la mancata esecuzione come un segno. Qui invece la crudeltà è sistematica, meccanica, inesorabile. L’elemento di umanità è negato deliberatamente. E una giustizia non umana non è giustizia. Resta che le istituzioni dovrebbero pensare al sistema penale come un luogo in cui ci si pone la domanda: come è potuto succedere? In che cosa il nostro ordine sociale ha fallito? È vero che il criminale ha la responsabilità ultima dei suoi gesti e anche una società utopica ha i suoi delitti, come infatti succede anche nell’Utopia di Thomas More. Ma anche qui, la domanda è come evitare che succeda ancora, per quanto possibile. La politica potrebbe intervenire per evitare questo epilogo ma non sembra intenzionata a farlo. Ricerca del consenso o volontà di dare l’immagine di un potere determinato a raggiungere i suoi scopi ad ogni costo? La politica ha completamente perso la visione sociale, l’idea di società da perseguire, l’obiettivo verso cui muoversi. Serva dei sondaggi quotidiani, ondeggia come un drappo senza nessun ancoraggio. Ora, poiché il vento in questo momento è generato da una morbosa fascinazione popolare per politiche “dure”, “forti”, identitarie e anche vendicative (si veda l’occupazione sistematica degli spazi del potere), l’esito è che ogni scelta politica è un’esibizione di muscoli. L’ONU ha meritoriamente promosso, dal 2007, una moratoria universale, che ha avuto buoni effetti: l’ultimo testo, il sesto, è stato approvato nel 2016 con 117 voti a favore, 40 contrari e 31 astenuti. Però tutto dipende dall’autorevolezza dell’ONU e bisogna constatare che in questo momento storico tale autorevolezza è molto bassa. Il 90% delle esecuzioni avviene in soli tre stati del Medioriente (Iran, Arabia Saudita ed Egitto). Qui ci troviamo negli Usa, faro della democrazia. Che effetti può avere agli occhi del mondo? Come detto, il fatto che gli Stati Uniti pratichino ancora la pena di morte è una profonda contraddizione morale per una cultura che si proclama civile. Fornisce un alibi a coloro che non condividono l’evoluzione “illuminista” del diritto di tradizione europea (ricordiamo che le migliori argomentazioni contro la pena di morte furono scritte da Cesare Beccaria in Dei delitti e delle pene del 1764, in pieno illuminismo). E indebolisce in generale l’autorevolezza della cultura occidentale. Anche in seno agli organismi internazionali, chiedere il rispetto dei diritti umani mentre ancora si pratica la pena di morte è francamente risibile. La leadership americana, già in declino, è resa più debole dal mantenimento della pena di morte. Smith sembra destinato ad andarsene con la maggiore sofferenza possibile. Come dovrebbe agire una politica che tuteli le nozioni di rispetto e dignità come pilastri di un ordinamento carcerario? Il rispetto è più che il semplice riconoscimento della dignità intrinseca delle persone. È, nella concretezza delle dinamiche sociali, la regola non scritta delle relazioni di potere. Se non riconosco che l’altro ha nella sua libertà un potere indipendente, che non posso totalmente controllare, perdo la possibilità di associarmi con l’altro, di fare cose che solo insieme potremmo fare. E anche il reo, se l’unico modo di trattarlo è sopprimerlo, non ha l’occasione, la possibilità di usare la sua libertà diversamente, in modo da riscattarsi. Una pena sensata mira a rendere le persone di nuovo capaci di usare bene la propria libertà. Distruggerla è solo la proclamazione di una definitiva sconfitta. Una delle tesi in sostegno della pena capitale è l’effetto deterrente, ma i dati sembrano dimostrare altro. Perché negli Usa è così difficile portare avanti una riflessione sul tema? I dati dimostrano che il più alto tasso di omicidi avviene nei paesi che prevedono la pena di morte. Come sempre Beccaria aveva intuito, non è l’intensità della pena ma la sua certezza a fare da deterrente. E nel caso della pena capitale è semplicemente ovvio che l’uso della crudeltà da parte dello Stato non può che dare l’impressione di “legittimare” la violenza nei comportamenti sociali. Lo Stato deve tenersi il più lontano possibile dalla violenza e dall’uso della forza: come diceva Hannah Arendt, dove c’è il potere, ossia la capacità di agire “di concerto”, non è necessaria la forza e anzi quest’ultima finisce per erodere e consumare il potere. La cultura americana è uno strano mix di liberismo radicale e concezione repressiva del diritto, in cui raramente fa breccia una visione solidale. Forse per questo resiste il mito della pena capitale come simbolo dell’ordine politico. Stati Uniti. Sant’Egidio chiede di fermare l’esecuzione di Kenneth Smith di Michele Raviart vaticannews.va, 24 gennaio 2024 La morte dell’uomo, detenuto in Alabama per omicidio da 35 anni è prevista per il 25 gennaio. Sarebbe la prima persona per cui sarà utilizzato il metodo del soffocamento per azoto, bandito perfino dai veterinari per sopprimere gli animali. Smith era già sopravvissuto all’iniezione letale un anno e mezzo fa. Una sorta di “accanimento omicida” per la Comunità che in una conferenza a Roma ribadisce come questa sarebbe una nuova frontiera nella “cultura della morte”. La morte di Kenneth Eugene Smith in Alabama, prevista per il prossimo 25 gennaio, segnerà “un nuovo standard di disumanità nel mondo” e, se avverrà, sarà “la cartina di tornasole del livello attuale di civiltà”. A lanciare questo allarme è la Comunità di Sant’Egidio, a meno di quarantott’ore dall’esecuzione dell’uomo, in carcere da 34 anni per omicidio. La sentenza di morte per Smith era stata già eseguita un anno e mezzo fa, ma l’uomo, a causa delle difficoltà nel trovare la vena “giusta”, era riuscito a sopravvivere all’iniezione letale dopo quattro ore di agonia. Un modo considerato barbaro anche per gli animali - Per questo lo Stato dell’Alabama ha deciso di utilizzare, per la prima volta, il metodo dell’ipossia da azoto, cioè il soffocamento causato dall’inalazione di azoto assoluto. Un sistema considerato indolore dallo Stato americano ma che è bandito perfino dall’associazione internazionale dei veterinari perché considerato troppo crudele verso gli animali. L’unica eccezione riguarda i maiali che, al contrario di Smith, sarebbero comunque sedati prima dell’inalazione. “Il 25 gennaio potrebbe esserci un passaggio di civiltà”, spiega Mario Marazziti, principale referente della Comunità di Sant’Egidio per l’abolizione della pena di morte, “e cioè se si accetta come normale uccidere un essere umano in un modo che viene considerato barbaro anche per gli animali, usando un essere umano come cavia oppure no. È la differenza tra la cultura della vita e la cultura della morte”. Un “accanimento omicida” - Kenneth Eugene Smith, che oggi ha 58 anni, fu assoldato nel 1988 da un predicatore per uccidere la moglie e incassare l’assicurazione sulla vita intestata alla donna. Per questo fu pagato mille dollari. Dopo l’omicidio il predicatore si tolse vita, mentre la sentenza di morte del complice di Smith è stata eseguita dieci anni fa. “Già quattro persone sono morte in questa storia”, continua Marazziti, “è una sorta di ‘accanimento’ dello Stato, considerando che Smith è in carcere da 35 anni e che nella maggior parte dell’occidente si esce dal carcere dopo 30 anni”. Don Marco Gnavi: non abbiamo più la misura della sacralità umana - “C’è in gioco la vita di Kenner Smith, ma insieme ad essa la vita della civiltà che sta abbassando il suo livello al degrado di un’uccisione barbara, una tortura che si vuole legittimare dicendo che è indolore”, ribadisce don Marco Gnavi, parroco di Santa Maria in Trastevere. “Non abbiamo più quella misura, sollecitata sempre da Papa Francesco della sacralità della vita. Quest’uomo ha speso già 35 anni della sua vita nel braccio della morte, è stato sottoposto a un tentativo di uccisione durato quattro ore e se noi accettiamo in maniera inconsapevole o consenziente che l’asticella della civiltà si abbassi, in un tempo di guerra, anche a questa inumana degradante pena senza appello, condanniamo noi stessi a vivere un futuro molto problematico”. Ultime ore per tentare di fermare l’esecuzione - Smith è una delle sole due persone negli Stati Uniti ad essere sopravvissuta ad un’iniezione letale. Un metodo che negli anni è diventato sempre più lungo e doloroso, dopo la messa al bando a questo scopo del pentobarbital - una delle tre sostanze che componevano il liquido dell’iniezione e prodotto in Italia- grazie anche a una campagna promossa negli anni 2009-10 dal governo italiano e dalla Comunità di Sant’Egidio. La nuova esecuzione di Smith “fissa il rientro della tortura come se fosse una cosa normale”, conclude Marazziti, “in un modo che va oltre perfino il medioevo, dove se si sopravviveva alla ‘prova del fuoco’ si era liberi. La Comunità di Sant’Egidio ha inviato alla governatrice dell’Alabama, Kay Ivey, un appello firmato anche da diversi leader religiosi per sospendere l’esecuzione, mentre in queste ore i giudici stanno esaminando i ricorsi dei giudici. Ungheria. Nordio riceve il padre di Ilaria Salis: “Era ora” di Mario Di Vito Il Manifesto, 24 gennaio 2024 Diplomazia a piccoli passi, si punta al ritorno in Italia. Lunedì a Budapest intanto comincia il processo. La diplomazia si muove a piccoli passi per Ilaria Salis, prigioniera a Budapest da quasi un anno perché accusata di aver aggredito insieme ad altri due neonazisti ungheresi ai margini di una manifestazione in memoria delle azioni militari delle SS durante la seconda guerra mondiale. Roberto Salis, nella giornata di ieri, è stato ricevuto dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, che gli ha offerto qualche rassicurazione sull’impegno del governo. “Non è stata una chiacchierata inutile - ha detto il signor Salis -, anche se non ho ancora visto un piano d’azione. Almeno però abbiamo finalmente un canale diretto e Nordio mi è sembrato sinceramente vicino alla famiglia”. L’idea è di riportare Ilaria Salis in Italia per farle scontare qui la custodia cautelare, magari agli arresti domiciliari, in attesa che la giustizia ungherese faccia il suo corso. Già nella giornata di lunedì, a Bruxelles, il ministro degli Esteri Antonio Tajani aveva richiesto al suo omologo di Budapest Peter Szijjarto di “trovare soluzioni alternative al carcere”. “Sono riuscito a parlare con mia figlia - ha raccontato ancora Roberto Salis dopo l’incontro con Nordio -, è contenta e mi ha detto che magicamente, dopo 11 mesi, domani riceverà la visita dell’ambasciatore italiano. Che evidentemente si è accorto della situazione”. E poi, sulle condizioni dietro le sbarre di sua figlia: “Uso ancora l’avverbio magicamente, ora magicamente Ilaria è stata coinvolta in alcuni laboratori che se non altro la tengono impegnata in carcere”. La magia grazie alla quale la situazione ha cominciato a cambiare - anche se è presto per parlare di risultati concreti a - è frutto dell’attenzione che l’opinione pubblica ha cominciato a riservare per il caso di Ilaria Salis e della sua difficile situazione in carcere a Budapest (il padre parla in maniera esplicita di “tortura” a tal proposito): cimici, topi, scarafaggi, cibo di dubbia fattura e provenienza, catene, guinzagli, abbandono pressoché totale. Particolari che la donna ha svelato in due lettere recapitate ai suoi avvocati italiani Eugenio Losco e Mauro Straini. Per settimane la vicenda è sembrata sospesa in un limbo, poi, anche con la costituzione di un comitato promosso tra gli altri dalla senatrice di Avs Ilaria Cucchi, in tanti hanno cominciato ad occuparsene e, in qualche modo, a preoccuparsene. Anche il governo ha cambiato posizione: dal disinteresse iniziale è passato in breve alla linea della prudenza (“Dai tempi del caso Baraldini non abbiamo buona fama per le estradizioni”, aveva detto Nordio in parlamento) e infine all’intervento. “Mia figlia merita una comunicazione diretta da parte dei rappresentanti dello stato - questo il commento ancora di Roberto Salis - è evidente che c’è stato un grosso problema di comunicazione tra le nostre istituzioni e l’ambasciata italiana in Ungheria, che ha avuto un ruolo fondamentale dato che sia al ministero degli Esteri sia a quello dell’Interno non sono arrivate le comunicazioni corrette”. Lunedì mattina a Budapest comincerà il processo a Ilaria Salis, ma adesso a contare è anche quello che accade fuori dal tribunale. Repubblica Democratica del Congo. Sull’uccisione di Luca Attanasio il governo è latitante di Luca Attanasio Il Manifesto, 24 gennaio 2024 Il 22 febbraio del 2021 nel Nord Kiwu, vennero uccisi l’ambasciatore italiano, il carabiniere Vittorio Jacovacci e l’autista congolese Mustapha Milambo. Oggi a Roma la quinta udienza, decisiva per la continuazione del processo intentato dalla Procura di Roma ai due funzionari del Pam. Ma l’esecutivo italiano non è parte civile. Il 22 febbraio del 2021 in un villaggio della Repubblica Democratica del Congo (Rdc), ed esattamente nel Parco del Virunga, nella tormentata regione del Nord Kiwu, vennero uccisi l’ambasciatore Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Jacovacci e l’autista congolese Mustapha Milambo. A distanza di quasi tre anni oggi a Roma si terrà la quinta udienza che sarà determinante per la continuazione del processo che ha intentato la procura di Roma nei confronti di due funzionari del Pam (Programma Alimentare Mondiale): Rocco Leone, vice direttore, e Mansour Rwagaza (posizione poi stralciata perché irreperibile) che operavano nella Rdc quando è avvenuto l’agguato nei confronti dell’ambasciatore italiano. Secondo l’accusa avrebbero omesso “per negligenza, imprudenza e imperizia…ogni cautela idonea a tutelare l’integrità fisica” dei partecipanti alla missione. In effetti, risulta dagli atti che il nome dell’ambasciatore Attanasio, che partecipava al convoglio del Pam, sia stato derubricato il giorno prima della partenza per cui i caschi blu dell’Onu, che normalmente accompagnano questo tipo di missioni, non sono intervenuti come le altre volte in cui l’ambasciatore era andato in quest’area estremamente pericolosa. La difesa del funzionario del Pam, di fatto l’agenzia delle Nazioni unite deputata ad affrontare le emergenze alimentari, ha invocato l’immunità per il vice direttore Rocco Leone, sostenendo che i funzionari Onu godono dell’immunità quando sono in missione. In realtà, esiste un elenco delle Nazioni unite per tutti i funzionari che godono dell’immunità che dovrebbe essere a conoscenza di tutti i Paesi che hanno sottoscritto l’Accordo. A quanto è finora emerso non risulterebbe il nome di Rocco Leone, anche se l’elenco sembra che non venga aggiornato da due anni. Certo è che questo dirigente era sull’auto dell’ambasciatore ed è uscito illeso dall’agguato, insieme agli altri dipendenti del Pam che facevano parte del convoglio. Se oggi venisse accolta la tesi della difesa di Rocco Leone, basata sull’immunità del dirigente del Pam, si può ritenere definitivamente concluso l’iter processuale. Ma, al di là dei cavilli giuridici c’è un fatto che ha una grande rilevanza politica: il dirigente del Pam avrebbe avuto tutto l’interesse a fare chiarezza sull’accaduto se non avesse niente da nascondere o giustificare. E proprio i massimi dirigenti di questa agenzia delle Nazioni unite, spesso sospettata di scarsa trasparenza nella gestione degli aiuti alimentari nelle aree di crisi, dovrebbero intervenire per riscattare la loro immagine e smontare ogni sospetto. È noto, infatti, che sulla distribuzione dei beni alimentari in presenza di condizioni estreme della popolazione, si giocano lotte per il potere, forti pressioni e interferenze da parte dei governi locali per favorire una etnia piuttosto di un’altra, da parte delle organizzazioni criminali e movimenti politici armati. Nell’area dove è avvenuto l’agguato, al confine con il Rwanda, c’è la presenza di un coacervo di soggetti armati e di interessi che da anni hanno scatenato una guerra di lunga durata che ha causato 6milioni di morti in 25 anni per la rapina dei minerali preziosi. Una delle tante guerre dimenticate. Ma, finora non era mai accaduto, da nessuna parte del mondo, che un ambasciatore italiano venisse ucciso in un agguato mentre era in missione. Il fatto grave è che il nostro governo non si sia costituito come parte civile al processo, mentre l’abbia fatto il Comune di Limbiate, dove è nato Luca Attanasio, e l’Associazione Vittime del Dovere. Possibile che la patriota presidente del Consiglio, che ha promosso il vertice Italia-Africa dei prossimi giorni, non abbia sentito il bisogno di difendere l’”onore della nostra Nazione” - per usare le sue categorie - per fare pressione sui massimi responsabili del Pam e sul governo della Repubblica Democratica del Congo perché si faccia vera luce su questa strage. Non ci si può accontentare dell’ergastolo dato a sei congolesi come esecutori, mentre non si conoscono i nomi dei responsabili e dei mandanti. Come ha scritto Pierre Kabeza, sindacalista congolese residente in Italia, “cercare la verità sulla morte dell’ambasciatore italiano significa aprire uno spiraglio di luce sulla interminabile guerra nel Kiwu”.