Un penitenziario sovraffollato non rieduca ma può uccidere di Antonio Mattone Il Mattino, 23 gennaio 2024 Ancora un suicidio nel carcere di Poggioreale. È il terzo nel giro di una settimana. Questa volta è stato un giovane di trentacinque anni del padiglione Livorno a togliersi la vita. A questo va aggiunto un detenuto trovato morto all’inizio del nuovo anno, su cui è stato avanzato il sospetto che si possa trattare di un omicidio, e si aspettano gli esiti dell’autopsia per determinare la causa del decesso. Cosa sta succedendo nel penitenziario napoletano dove si sta consumando una vera e propria strage di detenuti? È difficile dare una risposta univoca e immediata a questo interrogativo. Tuttavia queste morti non ci possono lasciare indifferenti e per provare a capirci qualcosa bisogna entrare nei meandri di un luogo tanto complesso quanto pieno di criticità. Innanzitutto bisogna dire che il penitenziario napoletano è solo la punta dell’iceberg di un sistema carcerario che non funziona più e su cui è caduto un silenzio tombale. La politica, di destra e di sinistra appare disinteressata al destino dei carcerati, mentre l’opinione pubblica segue il pensiero dominante e non mostra alcuna empatia per chi in fondo “se l’è voluta”. Le criticità di Poggioreale stanno innanzitutto nei numeri. Troppi detenuti, poco personale, non solo agenti ma anche educatori, mediatori culturali (uno solo) e dirigenti penitenziari. Ci sono vicedirettori a mezzo servizio, che dividono la loro attività tra più sedi, con la conseguenza di non poter garantire la continuità prestazionale. Per non parlare della salute, con due soli psichiatri ad osservare e curare duemila detenuti, e con i tempi biblici per prenotare esami specialistici e interventi che non si possono fare all’interno di quelle mura. E poi quando magari arriva il fatidico giorno, tutto salta per la mancanza della scorta degli agenti, come è successo anche per chi si doveva sottoporre a terapie importanti. Inoltre ci sono ancora diversi padiglioni fatiscenti, dove la vita quotidiana diventa davvero difficile. Anche le attività trattamentali, soprattutto in alcuni reparti, sono carenti e fini a sé stesse: quasi mai consentono l’ingresso nel mondo del lavoro. Oggi nelle carceri italiane c’è una presenza variegata di persone, differenti tipologie che hanno tratti e caratteristiche eterogenee. Accanto agli esponenti della criminalità organizzata e a chi abitualmente è contiguo all’ambiente malavitoso, c’è un vasto mondo di marginalità sociale fatto di senza dimora, immigrati, tossicodipendenti, persone con patologie psichiatriche. Ci troviamo di fronte a detenuti sempre più aggressivi e arroganti da una parte e da malati ed emarginati dall’altra. Una commistione che rende più difficile il lavoro degli operatori penitenziari e condiziona i reclusi più fragili. Tuttavia per comprendere come si possa arrivare a compiere la decisione estrema di togliersi la vita bisognerebbe partire dalle storie individuali di ciascuno. Ma poi c’è un filo comune che ricongiunge tutti questi tragici avvenimenti. È quella disperazione che non fa vedere sbocchi e vie d’uscita alla propria situazione, a cui spesso si accompagna un’estrema fragilità e una grande solitudine. Una miscela che finisce per produrre un corto circuito letale. Quella di togliersi la vita è una tragica decisione che viene presa nei primi giorni dell’ingresso in carcere, come avvenuto al detenuto marocchino del padiglione Firenze o in prossimità della liberazione, come nell’ultimo caso. C’è chi non regge il peso della carcerazione, e chi vive l’angoscia di un futuro incerto una volta libero. E qui una riflessione va fatta. Permettere a chi va verso la fine della pena di scontare gli ultimi mesi in misura alternativa può rendere meno traumatico il “ritorno in società”. Passare dal carcere alla “vita” senza la possibilità di cominciare a costruire il proprio futuro può essere traumatico, soprattutto quando si perdono il lavoro e si rompono i legami familiari. Non si sa da che parte cominciare e si viene presi dallo sconforto. Inoltre, come ha dichiarato lo stesso Ministro della giustizia Carlo Nordio, per i reati minori esistono sanzioni molto più efficaci della detenzione. Un’altra considerazione va fatta sull’effetto emulazione. Un avvenimento così eclatante come un suicidio può avere influenze molto negative, portando altre persone con gli stessi istinti autolesionisti a scegliere la morte invece della vita. A Poggioreale era già accaduto nell’estate del 2018 quando tre carcerati si tolsero la vita nel giro di pochi giorni. Analoghi episodi sono avvenuti in altri istituti della penisola. È un fenomeno difficile da prevenire, anche perché spesso coinvolge individui che prima di allora non avevano mai manifestato intenti suicidari. Bisogna avere il coraggio di dire che il sistema carcere così com’è non funziona più. Non produce sicurezza e difficilmente cambia le persone. C’è bisogno di un carcere diverso, perché non è la galera dura e disumana a suscitare il desiderio di cambiare vita. E mai ci potremo rassegnare alla tragica conta di chi non ha retto il peso del proprio fallimento e viene risucchiato e travolto dai propri fantasmi. Nuovi fondi per nuove carceri: è una follia di Don David Maria Riboldi* Il Riformista, 23 gennaio 2024 Soldi per realizzare una di quelle strutture dove l’aspettativa di vita ha una percentuale drammaticamente bassa: 20 morti nei primi 15 giorni del 2024 nelle patrie galere dello stivale. Nuove carceri? Davvero? Il 18 gennaio l’agenzia del demanio del Ministero della Giustizia ha acquisito un’ampia porzione della ex caserma Rotilio Barbetti a Grosseto, per farne un “nuovo polo penitenziario” che “potrà accogliere molti più detenuti dell’attuale carcere di via Saffi”. Così si legge nel comunicato ufficiale. Un complesso che “insiste su un’area di 15 ettari e ospita 40 fabbricati di varie dimensioni” la cui riqualificazione avverrà “attraverso interventi finanziati dal ministero della Giustizia”. Quindi è ufficiale: si decide di dilapidare il patrimonio pubblico per fare nuove carceri. Perché per ristrutturare un’area di tale ampiezza bisognerà investire non poco del bilancio di via Arenula. Per realizzare una di quelle strutture dove l’aspettativa di vita ha una percentuale drammaticamente bassa: 20 morti nei primi 15 giorni del 2024 nelle patrie galere dello stivale. Di cui 6 suicidi. Le stesse strutture che generano la propria ‘clientela’ in un vero e proprio processo di fidelizzazione, visto che 7 su 10 vi rientrano, una volta usciti. Ora, senza essere imprenditori affermati, va da sé che immettere denaro in un progetto perdente è scelta, a dir poco, improvvida. Ma soprattutto, mi chiedo come non si riesca ad acclarare nelle sedi istituzionali la virtuosità, anzi la convenienza, di investire in progetti di inclusione lavorativa. Lo dicono ormai anche organismi governativi, come il CNEL: chi esce avendo lavorato, non rientra. Un mantra che sta diventando stucchevole riproporre, vista la sordità degli interlocutori, che potrebbero altrimenti destinare quel denaro sostenendo sussidiariamente chi riesce fattivamente a creare condotte di vita non recidivanti, come le tante cooperative sociali di economia carceraria. Nel suo piccolo, La Valle di Ezechiele, nata nel penitenziario di Busto Arsizio, si inserisce nel solco di queste realtà e porta avanti la germinazione di una cultura della giustizia che non si fissi sulla colpa, ma generi responsabilità. Che non si ancori al passato, ma si slanci al futuro. Che non permetta di fare della condanna un pericolosissimo processo identitario, per i condannati e per gli altri. Che ricordi a tutti che il primo pilastro delle nostre istituzioni democratiche recita così: “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”. Così con la cooperativa abbiamo dato vita nuova a ben 26 persone in questi tre anni di attività. Nel 2013 siamo già stati condannati come nazione Italia, perché il nostro modo di trattare le persone in carcere era disumano (‘trattamenti inumani e degradanti’). Dal 2012 ad oggi il numero di denunce è sceso da 2.818.834 a 2.183.045: 700.00 in meno (dati 2022). Le persone in carcere erano 65.000, poi scese per effetto della condanna della Corte Europea, e risalite a 60.000 nel 2019. Scese di nuovo per il Covid, e ora nuovamente risalite a 60.000, di cui 4.000 nell’ultimo anno. Su 47.000 posti ufficiali. Davanti al decrescere dei reati e al crescere delle persone incarcerate, qualche domanda dovremmo farcela. Di fronte a un calo demografico al momento inarrestabile, che determinerà non solo un ridimensionamento della nostra filiera educativa, ma anche dei suoi insuccessi - che gli arresti fermano e attestano - qualche domanda dovremmo farcela. Davanti alla consapevolezza che le carceri italiane non sono piene di persone di origine straniera, visto che 7 su 10 sono del Bel Paese, qualche domanda dovremmo farcela. Davanti alla manifestazione muscolare che crede di generare sicurezza aprendo un nuovo carcere, qualche domanda dovremmo farcela. Ci sono associazioni come Nessuno Tocchi Caino e la sua agguerrita Presidente Rita Bernardini, che alzano la voce e il più ancor rumoroso silenzio dello sciopero della fame, iniziato oggi, per dire l’irragionevolezza di un sistema che sembra sempre sfuggire a ogni forma di prensilità. Ci sono rappresentanti delle istituzioni che stanno coraggiosamente prendendo parola, pur appartenendo a schieramenti e organi diversi: penso all’On. Gadda e all’On. Giacchetti, ma anche alla Presidente della Commissione carceri di Regione Lombardia, Alessia Villa, recentemente intervenuta in consiglio a insistere su progetti di inclusione lavorativa. Ma come forse direbbe il Direttore Renzi de il Riformista, che ringrazio per ospitare queste mie righe, la politica al tempo degli influencer non ama parlare di carcere. Ci vuole grande libertà interiore e ‘quanto basta’ di ‘spregiudicatezza istituzionale’: quella che serve per dire le cose giuste, non quelle che piacciono. Parliamo a un malato da sanare, non a un cliente da compiacere. Non nego che non dispiacerebbe vedergli prendere la parola nel cortile della nostra cooperativa, nell’annuale convegno estivo. Se ne avesse il piacere e la possibilità, lo accoglieremmo volentieri, come accogliamo tutti quelli che non si tirano indietro quando c’è da parlare di carcere. Magari con una visione meno miope di quella cui stiamo impotentemente assistendo. *Cappellano carcere Busto Arsizio La vergogna delle carceri italiane è un fatto, ma come combatterla? di Alessandro Erasmo Costa tuttieuropaventitrenta.eu, 23 gennaio 2024 Il nostro periodico ospita sempre più spesso drammatiche testimonianze sul vergognoso stato delle carceri italiane. Micaela Tosato, Marco Costantini e Monica Bizaji, insieme a tanti altri hanno costituito una rete di denuncia e di dialogo con tutti coloro che subiscono direttamente o indirettamente il dramma della reclusione. L’idea di Micaela è nata dal suicidio di Donatella, una ragazza che condivideva con lei la reclusione, e che non è stata in grado di superare soprattutto l’ingiustificata separazione dal bambino che aveva avuto. Sbarre di Zucchero è oggi una associazione che dà voce a questa comunità che ci testimonia il dramma del sistema carcerario del nostro paese. Fra queste incredibili testimonianze quelle di Marco Costantini, ospitate dal nostro periodico, sono particolarmente significative. Io e Marco siamo diventati amici, non solo per l’incredibile voglia di vivere di Marco, ma anche per la sua grande onestà intellettuale. Seguo sempre la chat di Sbarre: essa ospita prevalentemente singole richieste di aiuto di persone in carcere, denunce di trascuratezze ed abusi, il crescente numero di suicidi ed anche molti dibattiti ed incontri fra giuristi e tutte quelle associazioni che operano a favore delle persone recluse. Recentemente c’è stato anche un incontro con un sottosegretario al Ministero della Giustizia. Ogni denuncia è utile e lodevole, come quelle ospitate da molti giornali. Alcuni aspetti dovrebbero però essere più attentamente considerati. Ho votato i Radicali per anni e da anni ascolto le loro battaglie per le carceri. I giuristi del settore ci spiegano con grande competenza che il sistema in vigore non rispecchia la prescrizione della Costituzione. Tutto vero, ma quanto concretamente utile? Come avviene in molti campi le denunce e i discorsi sulle carceri sono condotti da addetti ai lavori che parlano con altri addetti ai lavori perché i reclusi sanno bene di cosa si sta parlando. I giornali invece denunciano ogni suicidio, perché fa notizia, ma i suicidi sono diventati così numerosi che ormai molti cittadini ci saranno “abituati”. Ciò significa che tutte queste importanti azioni potrebbero finire per diventare meri discorsi, ai quali rispondono i politici con altri discorsi, da pubblicare sui giornali. Sappiamo che la legislazione e i regolamenti non sono adeguati, ma pensiamo davvero che il governo attuale metterà le carceri fra le sue priorità? Sappiamo anche però che in alcune carceri si fa molto per i reclusi, che molti di loro producono vini e dolci in concorrenza con i grandi produttori. Allora, come al solito, si può migliorare anche sotto la regolamentazione vigente. La polizia penitenziaria non si comporta tutta allo stesso modo, come in ogni componente umana. Ci sono i cattivi, i frustrati, i burocrati, ma anche coloro che sono capaci di instaurare rapporti umani con i detenuti. Il grande filosofo Andre Glucksamm ha scritto tantissimi libri di filosofia morale, difficilissimi da leggere: ma se si ascolta una sua conferenza su YouTube si resta stupiti che il metodo che propone per risolvere problemi e conflitti è sempre e soprattutto parlarsi. Se si attaccano, in pieno diritto i funzionari di un carcere, magari davanti ai giudici, si ottiene soltanto una chiusura a riccio di tutto l’apparato, che si difende, omertosamente, soltanto perché ha paura. Parlare con i direttori delle carceri e con tutti gli altri operatori è un processo lungo e difficile ma è forse l’unico che ci può dare qualche risultato concreto. Infine in un paese democratico solo una grande reazione della cittadinanza può smuovere una politica sempre più basata sui social. Lo so che è più difficile, perché ci vuole tempo e pazienza, perché ho parlato con i cattivi in tutto il mondo, ma ho scoperto che si può parlare anche con le persone che sembrano più irrecuperabili, quelle che avevano imparato a vivere soltanto nell’abuso e nella violenza. Il dialogo è sempre lungo e difficile, ma nel Sudafrica di Mandela far parlare torturatori e vittime ha avuto successo. Varrebbe la pena di percorrere maggiormente questa strada. “Niente politica, siamo pm”. Magistratura spaccata sulle riforme di Nordio di Valentina Stella Il Dubbio, 23 gennaio 2024 La corrente di Mi rompe il fronte delle toghe e si rifiuta di firmare la mozione contro il Guardasigilli e il vicepresidente Pinelli. Da quando si è insediato il governo Meloni non è la prima volta che Magistratura Indipendente prova a rompere l’unità dell’Anm su temi cruciali, peraltro accusando le altre componenti dell’Anm di fare politica antigovernativa. È successo a ottobre sul caso Apostolico, si è ripetuto durante il Cdc di questo fine settimana su altri due temi. Il parlamentino dell’Anm ha infatti approvato due documenti - uno relativo all’informativa di Nordio al Parlamento e l’altro in riferimento alle dichiarazioni del vice presidente del Consiglio superiore della magistratura, Fabio Pinelli - entrambi non sottoscritti dalla corrente conservatrice. Con il primo elaborato - “Una relazione problematica” - rispetto a quanto detto dal Guardasigilli, le toghe hanno voluto riaffermare “la necessaria difesa e salvaguardia dello strumento delle intercettazioni”, ribadire le preoccupazioni per l’abrogazione del reato di abuso di ufficio, tutelare la “comune cultura della giurisdizione, che è essenziale per tutti gli appartenenti all’ordine giudiziario, siano essi giudici che pubblici ministeri, quale prima garanzia dell’indagato”. Nel secondo documento “Parole ed equilibrio”, il “sindacato” delle toghe ha stigmatizzato quanto detto dal numero due di Piazza Indipendenza: “Stupiscono le recenti dichiarazioni del Vicepresidente del Csm a proposito del supposto “deragliamento” del precedente Csm: dichiarazioni “straordinarie”, che, anche nella più benevola lettura, dimenticano che gli ordini del giorno del Csm sono firmati dal Presidente della Repubblica, circostanza che chi svolge il ruolo di vicepresidente da oltre un anno conosce bene”. Ebbene, entrambe le relazioni non sono state condivise da Mi. Ennesima dimostrazione di collateralismo governativo oppure rifiuto di far apparire l’Anm alla stregua di un partito politico, come sostiene la stessa Mi? Lo abbiamo chiesto agli esponenti degli altri gruppi associativi. Rocco Maruotti, componente del Cdc per AreaDg, ci spiega nel dettaglio come si sono svolti i fatti: “Dopo una discussione in Cdc che aveva occupato l’intera giornata di sabato sui contenuti della relazione del ministro Nordio sullo stato della Giustizia e sulla conferenza stampa del vice presidente del Csm Pinelli, dibattito nel quale erano intervenuti, con accenti anche estremamente critici, diversi esponenti di Mi, stranamente, domenica mattina, alla riapertura dei lavori e quando si doveva semplicemente votare un documento unitario, che anche i colleghi di Mi avevano contribuito a scrivere, ci hanno fatto sapere che ritiravano la loro firma da quel documento, accampando come pretesto un trafiletto pubblicato sul Fatto Quotidiano che dava conto della posizione espressa dagli esponenti di un altro gruppo, Magistratura democratica, nel corso del dibattito di sabato, dibattito peraltro pubblico e che si poteva seguire in diretta su Radio Radicale”. Continua Maruotti: “In molti abbiamo avuto la sensazione che nella notte fosse successo qualcos’altro che aveva fatto cambiare idea ai colleghi di Mi. Evidentemente non sempre la notte porta consiglio”. Ma cosa sarebbe successo? Forse gli esponenti di Mi si sono confrontati con il nuovo segretario, Claudio Galoppi, che non era presente al Cdc, a differenza del suo predecessore Angelo Piraino, che frequentava i corridoi della Cassazione in queste occasioni? “Ad ogni modo - ha continuato Maruotti - è sembrata a tutti una giustificazione risibile e lo abbiamo fatto presente, con accorati appelli ai colleghi di Mi a rivedere la loro posizione, nella consapevolezza dell’importanza di una posizione unitaria dell’Anm su vicende importanti come quelle che erano in discussione e su temi come quello delle risorse e della riforma della Giustizia di cui ci stavamo occupando”. La risposta? “Tradiva la vera ragione di quell’ingiustificabile “giravolta”: il motivo reale, ci è stato detto dai colleghi di Mi, era rappresentato dalla non condivisione di quella che è stata definita “la politica antigovernativa dell’Anm” che, come ha detto nel suo intervento Enrico Infante di Mi, rischia di trasformare l’Anm in un “partito politico di opposizione”. Abbiamo risposto che l’Anm non è un partito, né di opposizione né di maggioranza, ma un’associazione il cui scopo, sancito dall’art. 2 dello Statuto, è quello di “garantire le funzioni e le prerogative del potere giudiziario, rispetto agli altri poteri dello Stato” e di “dare il contributo della magistratura nella elaborazione delle riforme legislative” e questo è quello che anche questa volta l’Anm ha fatto, con il sostegno di tutte le correnti, ad eccezione di Mi, che con questa scelta ha, a nostro giudizio, lanciato al Governo un messaggio chiaro e forte di collateralismo. Non credo che i colleghi, neppure quelli iscritti a Mi, abbiano condiviso questa posizione”. Al giudizio molto severo dell’esponente di Area si aggiunge quello di Stefano Celli, componente del Cdc in quota Magistratura democratica: “Sull’ipotesi di collateralismo al governo, credo che al di là delle intenzioni dei singoli contino i fatti: e i fatti ci dicono che Mi non ha voluto votare neppure il documento di serena critica al ministro, nonostante lo stesso contenesse le stesse critiche formulate dal documento di Mi. Basta mettere i due documenti uno di fianco all’altro”. Per Maria Rosaria Savaglio, segretario nazionale Unicost, “l’estrema prudenza da parte di Mi nel muovere qualsivoglia critica alla maggioranza di governo è un dato di fatto. Accusano chi non adopera la medesima prudenza di “far politica”, ma anche sottrarsi al dibattito sulle riforme giuridiche ed istituzionali è una posizione politica”. Invece il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia smorza i toni: “Il dato importante, su cui mi sento di porre l’accento, è quanto emerso dal dibattito, ovvero i contenuti unitari che sono stati esposti durante i lavori del Comitato da parte di tutti i partecipanti”. Csm e “riformina” Nordio, volano stracci nell’Anm di Paolo Comi L’Unità, 23 gennaio 2024 Spaccatura nel consiglio direttivo dello scorso fine settimana: da un lato le toghe di sinistra e di centro, dall’altro quelle di destra. Volano gli stracci nell’Associazione nazionale magistrati. Il potente, ed unico, sindacato delle toghe si è spaccato lo scorso fine settimana sulla riforma della giustizia e sul ruolo istituzionale del Consiglio superiore della magistratura. Da un lato le correnti di sinistra e di centro, dall’altro quelle di destra. La riunione del Comitato direttivo centrale dell’Anm, la prima del 2024, era stata convocata per affrontare il tema della riforma della giustizia che il Guardasigilli aveva illustrato nella sua relazione alle Camere. All’ordine del giorno era stata poi inserita la discussione sulle parole pronunciate dal vice presidente del Csm Fabio Pinelli durante l’ultima conferenza stampa sull’attività svolta in questi mesi a Palazzo dei Marescialli. Visti gli argomenti sul tappeto era alquanto difficile immaginare che ci potessero essere tensioni. La riforma di Nordio, infatti, è all’acqua di rosa, non prevedendo a parte i tanti annunci modifiche significative all’ordinamento giudiziario, come l’introduzione ad esempio della responsabilità civile dei magistrati o la depenalizzazione dei reati. E Pinelli, da parte sua, si era limitato a dire ciò che è scritto nella Costituzione della Repubblica, e quindi che il Csm non è “una terza Camera”. Nonostante queste premesse, l’Anm, sotto la spinta delle correnti di sinistra, è andata lo stesso allo scontro affermando che la relazione di Nordio era “problematica” e che Pinelli avrebbe addirittura “svalutato” il ruolo del Csm. Per avallare queste tesi alquanto improbabili, i pm sono partiti da lontano affermando che “Nordio vuole una giustizia rapida ed efficiente ma non ci ascolta”. E poi che non concede “strumenti che possano essere di ausilio al quotidiano impegno dei magistrati, e dei loro collaboratori, nel rendere il migliore servizio a tutela dei diritti dei cittadini”, manifestando invece il suo timore “per il preteso eccessivo potere degli uffici di procura e per i pretesi abusi delle intercettazioni o di altri strumenti di ricerca della prova, essenziali nel contrasto delle forme di criminalità organizzata o di gravi delitti contro l’economia e la pubblica amministrazione”. Come primo atto di questa strategia, la cancellazione dell’abuso d’ufficio, il reato prezzemolo utilizzato come una clava per colpire gli amministratori pubblici. Senza abuso d’ufficio vi sarebbe, per l’Anm, “una fascia di impunità che non appare in linea con le esigenze, riconosciute dallo stesso Guardasigilli nella sua relazione alle Camere, di serio ed effettivo contrasto ai fenomeni corruttivi”. Nel mirino, poi, anche la ventilata riforma delle intercettazioni che prevede lo scontato divieto di intercettare le conversazioni fra l’avvocato ed il suo assistito, oppure di non trascrivere quelle, penalmente irrilevanti, fra i soggetti esterni alle indagini. Un documento a parte era stato dedicato, come detto, dal Comitato alle dichiarazioni di Pinelli che conterrebbero giudizi “svalutativi” delle funzioni del Csm, confinandolo ad “organo che dovrebbe limitarsi solo a compiti di ‘alta amministrazionè”. Una affermazione quanto mai ovvia, ma non per l’Anm, secondo cui al Csm spetterebbe invece “l’alto ruolo di orientare i compiti di amministrazione della giurisdizione, per il tramite delle varie scelte operate in materia di organizzazione della giustizia, e di esprimere, pertanto, un vero e proprio indirizzo politico in materia giudiziaria”. E per questo motivo, sempre secondo l’Anm, sarebbe stato necessario invece ribadire l’impegno del Csm “a tutela del ruolo e delle prerogative consiliari nel sistema costituzionale”, non essendo possibile giustificare “alcun arretramento rispetto alla tutela dell’indipendenza della magistratura, che è il presupposto necessario e indefettibile per un sereno esercizio della giurisdizione a tutela di tutti i cittadini”. Parole ritenute eccessive dagli esponenti di Magistratura indipendente, la corrente di destra, che avevano deciso di sottoscrivere un loro documento più ‘morbido’, subito però bocciato dalla maggioranza dell’Anm a guida progressista. Ed era stato bocciato, a proposito delle frasi di Pinelli, anche quello delle toghe indipendenti di “Articolo 101” che aveva addirittura ripreso nell’incipit le parole di un discorso recentemente pronunciato dal capo dello Stato: “La Costituzione attribuisce ai magistrati l’esercizio della funzione giurisdizionale. Si tratta, in sostanza, della tutela dei diritti e della garanzia di giustizia che vi è connessa; senza queste lo Stato democratico, fondato sull’uguaglianza e sulla pari dignità delle persone, sarebbe gravemente compromesso”. E poi: “Principale corollario dell’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge è l’imparzialità nell’esercizio della giurisdizione. Affinché tale ruolo possa essere svolto la Costituzione ha sottratto alla Politica il governo dei magistrati e l’ha affidato a un organo apolitico di garanzia, il Consiglio Superiore della Magistratura”. “L’idea del Csm disegnata dal comunicato congiunto di Area, Md e Unicost è quella di un organo di governo autonomo comandato da gruppi di potere faziosi, di tipo partitico. Praticamente l’opposto di quell’organo tecnico di garanzia, imparziale e di alta amministrazione, previsto dalla Costituzione, nonché origine delle degenerazioni correntizie e del nominificio al quale è stato troppe volte ridotto dai precedenti componenti”, ha sottolineato il giudice Andrea Reale, esponente di Articolo 101. Il sospetto, allora, è che dietro questa finta polemica con Nordio sia in atto il solito regolamento di conti fra le correnti. Nulla di nuovo, insomma. Pinelli ha detto una banalità, da anni si oltrepassano i limiti di Giuseppe Di Federico* L’Unità, 23 gennaio 2024 La conferenza stampa tenuta del Vice presidente del CSM Fabio Pinelli giovedì scorso ha ricevuto aspre critiche per due ragioni: per le sue affermazioni sull’operato dei precedenti Consigli che avevano svolto “improprie attività di natura politica” esercitando impropriamente un ruolo da terza camera legislativa; perché avrebbe, con ciò stesso, implicitamente accusato il Presidente della Repubblica di non aver esercitato i suoi doveri di sorveglianza sulle attività del CSM. Affermando che i precedenti Consigli si erano impegnati ad influenzare le attività legislative del Parlamento, l’Avv. Pinelli ha detto una banalità. Il CSM lo fa da molti anni. Lo fa principalmente, ma non solo, coi pareri riguardanti l’attività legislativa del Parlamento. La legge prevede che il CSM dia pareri al Ministro della giustizia “sui disegni di legge concernenti l’ordinamento giudiziario, l’amministrazione della giustizia e su ogni altro oggetto comunque attinente alle predette materie”. Da molto tempo il CSM non rispetta più i limiti posti da quella norma e in buona sostanza decide a sua completa discrezione su quali provvedimenti legislativi esprimersi. Non è possibile in questa sede dare un’idea della discrezionalità con cui i CSM ha agito in materia. In via esemplificativa ci basti ricordare solo che si è più volte espresso sui provvedimenti legislativi riguardanti nome di diritto e procedura sia civile che penale e che ha persino formulato un parere sul d.l. 6 novembre 2008, n. 172, riguardante lo smaltimento dei rifiuti in Campania, un evento che ci viene ricordato da un’ampia ricerca sui numerosissimi pareri del CSM condotta dalla prof. Daniela Cavallini. I pareri del CSM pur essendo formalmente rivolti al ministro della giustizia sono di fatto rivolti anche e soprattutto al Parlamento. Il CSM ha infatti espresso più volte pareri non richiesti dal Ministro e li ha dati anche quando il Ministro aveva fatto sapere di non volerli. Ha espresso pareri sia su provvedimenti legislativi del governo che su quelli di iniziativa parlamentare; ha espresso più volte pareri sullo stesso provvedimento di legge “rincorrendo” l’attività legislativa del Parlamento con i suoi pareri sugli emendamenti di volta in volta presentati. A volte il Consiglio coordina direttamente persino l’elaborazione dei suoi pareri con l’andamento dei lavori parlamentari. Di un episodio del genere sono stato personalmente testimone quando ero componente del CSM. In quell’occasione, 17 febbraio 2005, il CSM stava discutendo un parere su un disegno di legge di iniziativa parlamentare che aveva carattere di urgenza perché il Senato si apprestava a decidere in materia. La discussione sul parere in questione venne però interrotta quando due dei consiglieri del CSM, ex parlamentari, furono tempestivamente informati da loro amici ancora in Parlamento, con i quali si erano mantenuti in costante contatto telefonico, che pochi minuti prima il Senato aveva già deliberato. Mi sembra quindi evidente che finora il CSM si sia di fatto attribuito ricorrentemente un ruolo autonomo nel processo di formazione delle leggi e che facendolo abbia svolto anche una attività di natura politica, come suggerito dal Vice presidente del Consiglio Pinelli. Per quanto riguarda l’implicita accusa che il Vice Presidente Pinelli avrebbe rivolto ai Presidenti della Repubblica di non aver impedito al CSM di svolgere il ruolo improprio di terza camera e di aver con ciò stesso esercitato attività di natura politica, occorre ricordare che l’orientamento del CSM ad avere un rapporto diretto col Parlamento si è manifestato sin dal 1968 ed ha ricorrentemente creato contrasti tra Presidente della Repubblica e CSM. Ne ricordo alcuni: nel 1968 il Presidente Saragat si oppose alla creazione presso il Consiglio di un’apposita “Commissione speciale per i rapporti col Parlamento”; nel 1991 il Presidente Cossiga si oppose, tra l’altro, all’approvazione di un parere del CSM riguardante norme processuali; tra il 2007 ed il 2008 il Presidente Napolitano espresse la sua contrarietà a che il CSM desse pareri su disegni di legge “quando il Parlamento sta già deliberando”, e anche al fatto che i pareri esprimano valutazioni sulla costituzionalità delle norme esaminate, in quanto tale compito “spetta ad altra istituzione” (cioè alla Corte Costituzionale). Come mostrano le nostre ricerche, in tutti questi casi di contrasto ha sempre finito per prevalere, in un modo o nell’altro, il volere del CSM. Vari quotidiani hanno segnalato che le affermazioni dell’Avv. Pinelli avrebbero irritato o addirittura reso “furioso” (secondo Il Foglio) il Presidente della Repubblica e del CSM, Sergio Mattarella. Nulla possiamo dire del pensiero del Presidente Mattarella sui pareri del CSM e sui rapporti tra CSM e attività legislativa. A differenza dei suoi predecessori, da Saragat a Cossiga e a Napolitano, che più volte hanno cercato inutilmente di limitare l’attività del CSM nel dare pareri, non mi risulta che il Presidente Mattarella sia mai intervenuto formalmente a riguardo. Forse perché convinto dell’inutilità di questi interventi o forse perché è più efficace nell’ottenere il risultato voluto attraverso la così detta “moral suasion”. *Professore emerito di Ordinamento giudiziario, Università di Bologna Non è una legge bavaglio, è una legge sbagliata di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 23 gennaio 2024 Quella che si appresta ad essere approvata anche al Senato non è una legge bavaglio, ma una legge sbagliata. Anche se fallirà lo scopo di fermare le cronache, il legislatore va sfidato non ad aumentare i divieti ma a dare più informazione sugli arrestati. L’imminente approvazione anche al Senato di una nuova norma, che delegherà il governo a vietare sino all’udienza preliminare la pubblicazione in forma integrale o per estratto (lasciando possibile solo il contenuto) dei motivi degli arresti e dei sequestri illustrati dai gip nelle ordinanze cautelari, realizzerà una legge sbagliata nella teoria e persino controproducente nella pratica per i cittadini che millanta di voler tutelare, ma non sarà una “legge bavaglio”. Intanto perché è un’espressione da adoperare con pudore, in confronto sia ai bavagli e rischi a cui sono sottoposti giornalisti in Turchia o in Polonia, sia a pregresse proposte normative italiane (ad esempio il ddl Berlusconi-Alfano nel 2008) che di un arresto giungevano a vietare di riferire finanche il contenuto. Non riuscirà a essere “bavaglio” anche senza che i giornalisti abbiano bisogno di violare apposta la legge con la disobbedienza civile; e persino senza nemmeno che debbano barcamenarsi a dosare modiche quantità di virgolettati per sfuggire all’ipocrita distinzione tra estratto (vietato) e contenuto (ammesso) su spezzoni di frasi che, vere o false, complete o travisate, verranno ugualmente fatte circolare (a seconda dell’interesse di cordata) da questo o quello degli ormai non più pochi legittimi detentori (indagati, magistrati, avvocati, forze dell’ordine, periti, cancellieri, staff di comunicazione di partiti e imprese). Affinché non sia bavaglio, invece, basterà paradossalmente prendere in parola la legge: e quindi continuare a scrivere e normalmente virgolettare (anziché le ordinanze di misure cautelari emessa dai gip) le richieste dei pm di misure cautelari, che per definizione dettagliano i medesimi punti fondamentali riportati poi dai gip nelle ordinanze. Infatti, anche quando la norma caldeggiata dall’onorevole Enrico Costa vieterà la pubblicazione del testo delle ordinanze di misure cautelari, le sottostanti richieste dei pm - non essendo né “atti di indagine compiuti dal pm e dalla polizia giudiziaria”, e neanche “richieste del pm di autorizzazione al compimento di atti di indagine” - resteranno pubblicabili perché fuori dal perimetro dell’articolo 329. Sicché i giornalisti prenderanno dalle richieste cautelari, anziché dalle ordinanze oggetto di divieto, i medesimi virgolettati dei contenuti salienti delle ordinanze. Anche l’altra norma già per metà approvata nel ddl Nordio, che vuole vietare a forze dell’ordine e pm di riportare dati dei non indagati “salvo che ciò sia indispensabile per la compiuta esposizione”, in concreto non potrà ottenere il voluto “coprifuoco” informativo sui terzi. Perché i dati irrilevanti, e quelli sensibili su sesso e salute, vengono già oggi (e dal 2017) depurati per legge nelle richieste dei pm, tanto che il giudice, se li vede ancora, ha il potere di restituirli al pm; mentre i riferimenti a persone non indagate, ma funzionali alla comprensione delle indagini in corso, continueranno appunto a essere indicati dalle polizie ai pm, e poi dai pm nelle richieste ai gip. Tanto per fare un esempio mesi fa a Milano riguardante proprio la presidente del Consiglio non indagata, si continuerà a scrivere il “Giorgia sa tutto” con cui un esponente FdI, subentrato a un collega nel Consiglio Comunale di Brescia, spiegava a compagni di partito la contropartita (un incarico al figlio come assistente) con la quale l’europarlamentare Carlo Fidanza aveva convinto il dimissionario a cedere il seggio (“Se serve per levarlo dalle scatole, sono disponibile a dargli un vitalizio di mille euro al mese fino a fine legislatura, magari mettendo sotto contratto non lui ma uno/una che lui ci dice”). E i giornalisti lo continueranno a scrivere perché è interesse pubblico per i cittadini sapere da Meloni se ritenga il proprio dichiarato anelito alla legalità compatibile non solo con la permanenza nell’Europarlamento di chi per quel reato di corruzione ha patteggiato la pena sospesa di 1 anno e 4 mesi, ma anche con la già trionfalmente dichiarata ricandidatura ai primi posti delle liste FdI per le prossime elezioni europee. Tutto senza che per i giornalisti ci sia bisogno nemmeno di invocare il salvagente della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo, che in tante sentenze (come nel 2018 sulla Turchia nel ricorso di un libraio processato dopo un attentato al negozio) ribadisce come pubblicare intercettazioni di politici, ma anche di privati e persino se nemmeno poi condannati, non violi il diritto al rispetto della vita privata (nel quale è incluso quello alla reputazione) nel caso in cui la notizia sia di interesse per la collettività. Il fatto che la legge in cantiere fallisca il proprio scopo non toglie che la maggioranza tradisca una mortificante idea del diritto dei cittadini di essere informati (per decidere) su questioni di interesse pubblico, e quindi del corrispondente compito dei giornalisti. I quali però per contrastarla, senza inflazionare l’allarme-bavaglio, avrebbero due modi. Da un lato, guardarsi allo specchio autocritico e richiamarsi a una attenta autodisciplina nel maneggiare i man mano depositati materiali giudiziari, in modo da mettere a fuoco in modo più corretto e completo le posizioni delle persone coinvolte. E, dall’altro lato, sfidare gli aspiranti censori sul loro stesso terreno, cioè il terreno della strumentale premura di cui si ammantano: impedire che la presunzione di non colpevolezza sia sfregiata dal dilagare della sola versione accusatoria veicolata dagli arresti. Se davvero sta loro a cuore, allora Costa e Nordio, invece di togliere, aggiungano: invece di togliere dalla legge del 2017 la piena pubblicabilità delle ordinanze d’arresto, aggiungano per legge (senza affidarsi poi unicamente allo scrupolo del singolo giornalista nella penombra del finto proibizionismo dei rapporti con le fonti) la medesima piena pubblicabilità ad esempio anche delle ordinanze del Tribunale del Riesame, che a distanza di pochi giorni confermano o annullano le misure cautelari in base agli argomenti difensivi. Sfida che i fautori dei divieti non potranno non raccogliere, pena disvelare il reale segno dei loro progetti. Bavaglio, blitz di Nordio: arriva l’emendamento per rendere gli atti segreti di Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 23 gennaio 2024 Il governo vuole inasprire ulteriormente la norma Costa: vietato riportare le ordinanze anche solo “parzialmente”. Il governo Meloni sta studiando un emendamento per modificare in senso ancora più restrittivo la norma del deputato di Azione Enrico Costa che vieta la pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare: l’obiettivo è quello di rendere impossibile la pubblicazione integrale o “parziale” degli atti. È questa la possibile novità rispetto al testo approvato alla Camera prima di Natale e considerato un “bavaglio” da molti magistrati, giuristi e associazioni della stampa. Con questa modifica si tornerebbe esattamente alla legge in vigore prima del 2017, cioè quando non si poteva pubblicare niente dell’ordinanza di custodia cautelare: né integralmente né parzialmente. La norma di Costa era stata approvata nella legge di delegazione europea - quella con cui il governo italiano deve adeguarsi al diritto comunitario - alla Camera il 19 dicembre: prevedeva una delega all’esecutivo per scrivere un provvedimento che vietasse la pubblicazione “integrale o per estratto” delle ordinanze di custodia cautelare. Norma approvata con il parere favorevole del governo e il voto della destra e di Iv/Azione. Ora la legge di delegazione europea è passata al Senato per la seconda lettura. In commissione Affari europei la maggioranza non ha presentato emendamenti, mentre l’opposizione ne ha depositati diversi per cancellare la norma o modificarla. E il governo vorrebbe proprio utilizzare un emendamento dell’opposizione come grimaldello per trasformare la norma in senso ancora più restrittivo per i cronisti. Il M5S, con una proposta a prima firma della senatrice Dolores Bevilacqua, vorrebbe smorzare il testo eliminando il divieto “per estratto” dell’ordinanza. Ora il ministero della Giustizia vorrebbe riformulare quell’emendamento proponendo il divieto di pubblicazione “parziale” dell’ordinanza, mantenendo anche il divieto integrale. A un primo sguardo sembra che non ci siano grosse differenze tra la pubblicazione “per estratto” o “parziale”, ma fonti di maggioranza assicurano che invece c’è: la prima formulazione potrebbe garantire ai giudici una qualche forma di discrezionalità e quindi dare la possibilità ai cronisti di pubblicare comunque alcune parti delle ordinanze, mentre la seconda no. In estrema sintesi, se il nuovo emendamento passasse, i giornalisti non potranno più pubblicare niente delle ordinanze di custodia cautelare. Neanche una riga. In questo modo il governo armonizzerebbe il nuovo provvedimento all’articolo 114 del codice di procedura penale che vieta proprio la pubblicazione “anche parziale” degli atti coperti da segreto. Inoltre, in questo modo si tornerebbe esattamente alla disciplina che esisteva prima del 2017, quando la riforma Orlando delle intercettazioni concesse la possibilità di pubblicare le ordinanze di custodia: così, invece, si tornerebbe alla vecchia legislazione introdotta nel 1988 dal codice Vassalli. A lavorarci sono gli uffici legislativi del ministero della Giustizia ma non è detto che il blitz riesca. Oggi la commissione Affari europei del Senato inizierà a votare gli emendamenti e, per arrivare a meta, il governo dovrà convincere il M5S ad accettare la riformulazione dell’emendamento. Ipotesi alquanto improbabile. Ma non è escluso che l’esecutivo possa presentarlo come proposta autonoma. Ieri sera al ministero della Giustizia erano ancora in corso valutazioni visto che una modifica alla legge di delegazione europea comporterà il ritorno alla Camera per la terza lettura. L’emendamento avrebbe anche un significato politico rilevante: sarebbe la prima volta che il governo mette le proprie impronte digitali sul provvedimento voluto da Costa. Se dovesse passare, quindi, difficilmente l’esecutivo potrebbe decidere di non esercitare la delega su una norma voluta da se stesso. Dopo le proteste della Federazione Nazionale della Stampa Italiana (Fnsi) e dell’Ordine dei giornalisti, Meloni durante la conferenza stampa del 4 gennaio aveva spiegato che la norma di Costa “era frutto del Parlamento e non del governo”. Se dovesse passare la nuova formulazione, non sarà più così: l’esecutivo sarà il vero artefice della nuova limitazione sulla pubblicazione degli atti d’inchiesta. Il raptus non c’entra con i femminicidi di Dacia Maraini Corriere della Sera, 23 gennaio 2024 Per contrastare la violenza sulle donne, la sola cosa possibile è agire sulla cultura, sulle abitudini identitarie, sulle disparità di genere, sulla misoginia linguistica. Si continua a discutere sul perché dei femminicidi e c’è ancora qualcuno che parla di malati di mente. Ma quando un fenomeno si ripete ogni giorno e in tutto il mondo non si possono attribuire i delitti a dei raptus ma dobbiamo constatare una intenzione generale di riconquista del potere. Si tratta, come ormai risulta chiaro, di una volontà di punizione, diffusa e condivisa, di cui gli esecutori spesso non sono consapevoli. Nel mondo patriarcale è montata una rabbia vendicativa e una voglia di riportare l’ordine nelle famiglie colpendo e punendo le donne che pretendono autonomia e libertà, riconoscimenti professionali e prestigio. Tutte cose che implicano un nuovo potere. Ricordiamo che la conquista di nuovi poteri è sempre stato il detonatore per lo scoppio di guerre fra popoli e fra Stati. Così succede anche all’interno di un paese fra poteri istituiti e nuove realtà sociali. Si pensi a quello che è costato la conquista della dignità sociale ed economica degli operai contro gli industriali. Si pensi alle rivolte dei contadini contro i feudatari, o le lotte dei democratici contro i proprietari di schiavi e non ultimo gli scontri fra le donne che chiedevano il voto e i governi che lo rifiutavano. Molti, i più saggi e i più generosi capiscono e si adattano, qualcuno mugugnando, ma l’intelligenza e la comprensione fa loro intendere che non si tratta di una catastrofe identitaria ma di una rinuncia ad alcuni privilegi e ad alcune abitudini millenarie. Altri, i più ignoranti, i più narcisisti, i più spaventati, non riescono ad accettare i cambiamenti e la conseguente perdita di potere. E, presi da terrore, si accaniscono sul corpo ribelle. L’ultimo caso del giovane che per mesi ha cercato di avvelenare la moglie incinta e poi l’ha uccisa con 37 coltellate ci fa capire quanto sia drammatica per certi uomini la perdita di poteri e privilegi che considerano naturali ed eterni. Come rimediare? Se concordiamo sulla idea che non si tratta di casi personali ma di una tendenza mondiale dovuta alla paura di perdere una identità virile storica, appartenente per “grazia divina” al genere maschile, non se ne uscirà. La sola cosa possibile è agire sulla cultura, sulle abitudini identitarie, sulle disparità di genere, sulla misoginia linguistica. Tutte cose ancora profondamente radicate. E non sarà facile, perché le radici si estendono in spazi interiori arcani e segreti. 41 bis, la Cassazione conferma: “Colloqui senza vetro divisorio anche con i 14enni” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 gennaio 2024 La Cassazione, Prima Sezione Penale, ha emesso la sentenza n. 3228- 23 in risposta a un ricorso presentato da un detenuto sottoposto al regime del 41 bis. Tale ricorso riguardava un reclamo precedentemente respinto dal Tribunale di Sorveglianza di Sassari, il quale aveva esaminato la richiesta del recluso di poter avere colloqui visivi senza vetro divisorio con il figlio minorenne, pur essendo quest’ultimo di età superiore ai 12 anni, soglia in cui dovrebbe essere consentito il colloquio con l’obbligo di non avere alcun contatto fisico. L’uso del condizionale, come si vedrà, non è usato a caso. Per comprendere i fatti, è necessario ripercorrere quanto accaduto. Il Tribunale di Sorveglianza di Sassari aveva respinto la richiesta del detenuto, ritenendo mancasse una valida ragione per assimilare il figlio del condannato a un minore al di sotto dei dodici anni. La perizia condotta sul ragazzo non aveva rilevato alterazioni significative nello sviluppo psichico che giustificassero un trattamento simile a quello riservato agli infra dodicenni. In dettaglio, il ragazzo era stato descritto come sereno e stabile, ben inserito nel contesto scolastico e familiare, con una pratica sportiva regolare. Di conseguenza, il Tribunale aveva concluso che mancava un fondamento giuridico per consentire colloqui senza l’uso di vetro divisorio. Riguardo alla durata dei colloqui, il magistrato aveva confermato la correttezza della sua decisione (ovvero un’ora sola), sottolineando che al reclamante era concesso un periodo di tempo dedicato ai colloqui, con il diritto di determinare la durata di ciascun incontro con i congiunti. Il ricorso e le questioni sollevate - Il detenuto, tramite il suo difensore, aveva presentato due atti di ricorso. Nel primo, datato 6 febbraio 2023, era stata sollevata una questione di legittimità costituzionale. Il ricorrente aveva invocato gli articoli 3, 31 e 117 della Costituzione Italiana. L’articolo 3 era stato richiamato per evidenziare una distinzione irragionevole tra la situazione del minore infra quattordicenne e quella dell’infra dodicenne, facendo riferimento all’articolo 98 del codice penale, il quale esclude l’imputabilità dell’infra quattordicenne. L’articolo 31 era stato invocato in virtù dell’importanza dell’esigenza del minore di mantenere il rapporto con il padre, ritenendo che tale esigenza dovrebbe prevalere sulle altre giustificazioni per l’uso del vetro divisorio. L’articolo 117 era stato richiamato in relazione ai presunti conflitti con gli obblighi internazionali derivanti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il ricorso aveva anche sollevato la questione di violazione di legge e vizio di motivazione, affermando che l’ordinanza impugnata avrebbe distorto la consulenza tecnica sull’evoluzione psicologica del figlio del ricorrente, sostenendo che la relazione evidenziava una drastica interruzione della continuità affettiva in un bambino con tratti d’immaturità. Nel secondo atto di ricorso, datato 14 febbraio 2023, il detenuto aveva sollevato un unico motivo, denunciando violazione di legge e vizio di motivazione. Si era sottolineato il fatto che il Tribunale aveva ritenuto esistere una facoltà di scelta da parte del detenuto su chi escludere dai colloqui visivi, senza fornire motivazioni in merito alle ragioni per cui il ricorrente doveva essere privato del diritto al mantenimento delle relazioni personali con il mondo esterno. Si era affermato che ciò costituiva una violazione del diritto soggettivo del ricorrente e una compressione del suo diritto all’affettività. In particolare, si era evidenziato che la mancata concessione della possibilità di trascorrere un’ora da solo con il figlio minore sarebbe stata una restrizione non congrua e non proporzionata alle finalità di sicurezza pubblica sottese al regime del 41 bis. La decisione della Consulta - La Corte di Cassazione ha richiamato la sentenza n. 105 del 6 aprile 2023, in cui la Corte Costituzionale aveva già interpretato il sistema normativo vigente riguardo all’utilizzo del vetro divisorio nei colloqui tra detenuti e familiari. Come già riportato da Il Dubbio, la decisione della Corte Costituzionale, che ha giocato un ruolo cruciale nella definizione dell’interpretazione del sistema normativo in questione, ha posto la tutela dei diritti del detenuto e la considerazione degli interessi costituzionali al centro della sua decisione. Questa interpretazione ha aperto la possibilità di colloqui senza vetro divisorio anche con minori ultra dodicenni, quando giustificato da ragioni valide e adeguatamente motivate. La Consulta ha chiarito che una disciplina che escluda completamente la possibilità di mantenere un contatto fisico durante i colloqui visivi con i familiari, inclusi quelli in età più giovane, sarebbe certamente in contrasto con quanto stabilito dall’articolo 27 della Costituzione. Tuttavia, tale esclusione, sulla carta, non esiste. I giudici delle leggi hanno evidenziato che i colloqui con i familiari rappresentano un momento a rischio per l’obiettivo del regime detentivo differenziato, ovvero impedire i collegamenti tra i detenuti appartenenti alle organizzazioni criminali e i membri di tali organizzazioni che sono liberi. Pertanto, durante i colloqui, è legittimo adottare misure rigorose per impedire il passaggio di oggetti. Tuttavia, il legislatore non ha specificato le soluzioni tecniche pertinenti, limitandosi a richiedere che i locali destinati ai colloqui siano ‘ attrezzati’ per prevenire tale passaggio. Per essere più chiari, la Corte Costituzionale ha interpretato il sistema normativo vigente, evidenziando che il legislatore non ha specificamente imposto l’utilizzo del vetro divisorio, ma ha vietato il passaggio di oggetti durante i colloqui visivi. Inoltre, ha sottolineato che, nonostante l’efficacia del vetro divisorio nel prevenire il passaggio di oggetti, la sua adozione non è obbligatoria secondo il testo della disposizione primaria. La Consulta ha indicato che diverse soluzioni tecniche potrebbero essere considerate adeguate, bilanciando gli interessi costituzionali coinvolti, come la tutela del diritto del detenuto di mantenere relazioni affettive con i minori e la necessità di garantire l’ordine e la sicurezza pubblica. La conclusione della sentenza costituzionale di aprile scorso è che l’amministrazione penitenziaria può disporre colloqui senza vetro divisorio anche con minori ultra dodicenni, previa adeguata motivazione. Alla luce della pronuncia della Consulta, la Cassazione ha quindi annullato l’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Sassari con rinvio per nuovo giudizio. Il giudice del rinvio, quindi, è chiamato a riesaminare il reclamo alla luce della diversa interpretazione fornita dalla Corte Costituzionale. NASpI per un lavoratore detenuto: sentenza della Cassazione inca.it, 23 gennaio 2024 Con la Sentenza n° 396 del 5 gennaio 2024, la Corte di cassazione ha affrontato nuovamente il tema del riconoscimento della NASpI ai lavoratori detenuti, rigettando il ricorso presentato dall’INPS contro la decisione della Corte d’Appello che a sua volta aveva confermato il diritto all’ indennità di disoccupazione in favore di un lavoratore detenuto, impiegato in una attività lavorativa intramuraria alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria. La Cassazione nel richiamare la normativa in vigore e la giurisprudenza della Corte Costituzionale, ha affermato che la normativa prevede che il lavoratore detenuto abbia gli stessi diritti e le stesse tutele spettanti alla generalità di tutti i lavoratori. L’Alta corte, infatti, afferma che il fine rieducativo del lavoro non influisce sui contenuti della prestazione e sulle modalità di svolgimento del rapporto di lavoro. Anzi, il lavoro penitenziario è tanto più rieducativo quanto più è uguale a quello dei lavoratori liberi. Inoltre, richiamando la giurisprudenza della Corte Cedu, ha anche affermato che il lavoro intramurario è equiparato al lavoro ordinario ai fini previdenziali e assistenziali e che la normativa (art. 19 L. 56/87) prevede espressamente che lo stato di detenzione non costituisce causa di decadenza dal diritto all’indennità di disoccupazione. Assunti tali presupposti, la Cassazione ha stabilito che l’interruzione del rapporto di lavoro intramurario per fine pena, con la conseguente scarcerazione, non è equiparabile al licenziamento: lo stato di disoccupazione che ne deriva è involontario ed è rilevante ai fini del riconoscimento della NASpI, e ai fini del riconoscimento della prestazione, non incide il fatto che i posti di lavoro vengono assegnati a rotazione ai lavoratori detenuti. Leggi la sentenza: https://www.inca.it/images/PDF/Sentenza_396_2024_cassazione_detenuti.pdf Napoli. Terzo suicidio in una settimana a Poggioreale. E Delmastro pensa al Maghreb di Eleonora Martini Il Manifesto, 23 gennaio 2024 Il sottosegretario annuncia possibili accordi con i Paesi africani per il rimpatrio dei detenuti. Terzo suicidio in otto giorni nel carcere di Poggioreale. Dopo due detenuti che si sono tolti la vita in un solo giorno, il 15 gennaio, Andrea Napolitano di 33 anni e Mohmoud Ghoulam di 38 anni, ieri è stato rinvenuto il corpo di un uomo di 34 anni che sarebbe tornato in libertà tra un mese circa, impiccatosi nella sua cella. Secondo i dati di Ristretti Orizzonti sono 8 i suicidi e 21 in totale i detenuti morti dall’inizio dell’anno. “I suicidi in carcere hanno un tasso venti volte superiore alla media nel nostro Paese”, fa notare il garante campano Ciambriello. Mentre il locale sindacato penitenziario Sappe ricorda “il grave sovraffollamento a Poggioreale dove, a fronte di una capienza regolamentare di 1.571 posti, oggi sono presenti 2.020 persone, delle quali circa la metà con posizione giudica di definitivo”. Malgrado il collegamento tra i due dati non sia comprovabile, anche il sottosegretario di Giustizia Andrea Delmastro ha affrontato il tema dopo una visita al carcere di Massa dove vivono 140 detenuti nello spazio riservato a 100 posti. “La sinistra pensa ai provvedimenti svuota carceri, ma non sono efficaci, con utenti poi che in pochi mesi tornano negli istituti - accusa Delmastro - mentre la risposta della destra al sovraffollamento carcerario è aumentare la capacità detentiva con 240 milioni messi in campo”. Ma la preoccupazione maggiore del sottosegretario è imbonire i sindacati di polizia penitenziaria. “Sono fiero di avere un direttore per ogni istituto penitenziario”, ha detto pur sapendo che non è affatto vero perché, viceversa, spesso tocca ad un solo direttore dirigere più carceri. Ma poco importa, perché la frase serve solo ad introdurre la promessa che “entro marzo avremo anche un comandante per ogni istituto penitenziario”. Quanto al sovraffollamento, Delmastro torna sulla prospettiva più convincente per la sua area di riferimento penitenziaria: “Anche all’interno del piano Mattei stiamo lavorando con alcune aree del Maghreb per consentire le esecuzioni delle sentenze penali italiane nel Paese di provenienza, magari con una cooperazione internazionale dell’Italia proprio sul campo della giustizia o sull’edificazione di nuovi edifici penitenziari”. Una vecchia storia, che comunque riguarderebbe circa l’11% della popolazione penitenziaria. Piacenza. Novate, la disperazione dei detenuti di Fiorentina Barbieri Terra, 23 gennaio 2024 Carcere affollato e con problemi strutturali ma non solo. Alcuni detenuti, una trentina di firme, hanno scritto al quotidiano Terra sul “caso Piacenza”. L’Osservatorio dell’Associazione Antigone sui diritti dei detenuti ha pubblicato, nel 2009, un rapporto sullo stato della casa circondariale di Piacenza. Nessuna censura sulle telefonate e sulla corrispondenza - regolarmente recapitata - ma condizioni strutturali non ottimali (in alcuni casi manca l’acqua calda) e c’è un’inchiesta della Procura della Repubblica, relativa ad un caso di morte/suicidio avvenuto nel novembre 2009. A Piacenza il livello di esasperazione dei detenuti sembra evidentemente salire. Dopo la lettera di Salvador, il detenuto spagnolo che da mesi rifiuta la terapia insulinica per protestare contro le condizioni in cui è lasciato, ce n’è giunta un’altra, collettiva, stavolta, con una trentina di firme di detenuti che ci descrivono la cattiva gestione del carcere. Richiamano i fatti di novembre, quando era morto un detenuto tunisino, Isam Khaudri, 27 anni, sposato con un’italiana e con una bambina. Era stato trovato per terra, dopo aver forse inalato il gas della bomboletta utilizzata per cucinare. I suoi compagni si erano chiesti, e ne avevano chiesto a quelli che ritenevano loro interlocutori privilegiati - le istituzioni preposte, prima di tutto, gli organi di stampa, le associazioni - perché Isam, in cella di isolamento proprio perché qualche giorno prima era stato sorpreso a sniffare il gas, non fosse sorvegliato 24 ore su 24. Il “suicidio”, del resto, potrebbe non essere stato tale, perché spesso nelle carceri che versano in condizioni di degrado - Piacenza è certo tra queste - chi non è in grado di pagarsi la droga può finire per sniffare gas non per uccidersi ma solo per stordirsi un po’: uno “sballo” per poveri, certo a rischio overdose, come forse è avvenuto per Isam, troppo disperato per dosare correttamente il mix (propano e butano) che andava inalando. E a suo tempo i detenuti ne avevano fatto un esposto-denuncia alla Procura locale per chiarire le modalità di quella morte. Le indagini condotte con una speciale “task force” non sono ancora chiuse. Chiaro e incisivo, invece, l’antidoto individuato dall’Amministrazione Penitenziaria: per togliersi ogni responsabilità una circolare ai direttori delle carceri suggerisce di far firmare una liberatoria ai detenuti che acquistano bombolette! Senza intervenire sulle cause per cui negli ultimi 10 anni nelle carceri italiane sono morti più di 1.500 detenuti, oltre 1/3 per suicidio, nel 2009 il picco di 20-30 morti in più degli anni precedenti. I detenuti che ci scrivono ora riprendono quanto denunziato anche al giornale locale, La Cronaca di Piacenza, dove uno dei sindacati degli agenti si era anche affrettato a bloccare “insinuazioni” sulle responsabilità degli agenti, invitando “a smetterla con le accuse ai poliziotti che operano in carcere”. D’altro canto è evidente che la Direzione voglia scientemente isolare i reparti dei “cattivi”, le sezioni dove sono i detenuti che avevano inviato posta (con le firme) al giornale, impedendo la partecipazione anche a funzioni religiose, infliggendo punizioni che la stessa magistratura di sorveglianza aveva annullato, e - che errore - impedendo la visita in quelle sezioni alla delegazione dell’Osservatorio di Antigone. Santa Maria Capua Vetere. I detenuti producono conserve e confetture, accordo con l’università casertanews.it, 23 gennaio 2024 L’intesa prevede la coltivazione di orti sociali a beneficio degli altri reclusi con uno sguardo al mercato. I detenuti e le detenute del carcere di Santa Maria Capua Vetere produrranno conserve e confetture. Firmato il protocollo di intesa che prevede l’organizzazione di orti e la realizzazione di impianti di trasformazione dei prodotti ortofrutticoli nel penitenziario casertano, in un’ottica di recupero e riscatto delle persone detenute. Il protocollo è stato sottoscritto al termine di un incontro alla Sala Cinese della Reggia di Portici, sede del dipartimento di Agraria dell’Università Federico II, da Regione Campania, Casa Circondariale di Santa Maria Capua Vetere, dipartimento di Agraria e Azienda Speciale della camera di commercio di Caserta. “Il dato rilevante è la sinergia di coloro che partecipano a questa iniziativa, in qualche maniera di coloro che poi assumeranno questi detenuti dediti a coltivare orti e a produrre conserve. C’è in questo un grande lavoro di squadra possibile grazie ai protagonisti di questa iniziativa. È un gioco di squadra in cui ciascuno fa la sua parte perché questo ennesimo progetto possa vedere la luce”, fa sapere il viceministro alla Giustizia Francesco Paolo Sisto, che ha partecipato alla stipula in collegamento video. “Vengono coinvolti detenuti, di media sicurezza, dell’Istituto di Santa Maria Capua Vetere, che coltiveranno orti sociali a beneficio loro e dei compagni. E poi si spera anche a beneficio di committenti esterni”, aggiunge Lucia Castellano, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria. “Li coltiveranno - precisa Castellano - con la supervisione del dipartimento di Agraria della Università degli Studi di Napoli Federico II. È un progetto molto bello in cui crediamo molto perché l’attività agricola riporta in un certo senso allo scandirsi del tempo, cosa che in carcere è un po’ dimenticata. Non solo, ma la cosa importante è questo lavoro sinergico con le altre istituzioni, come ad esempio il dipartimento di Agraria. Non siamo soli ma ci sentiamo supportati dai massimi esperti del settore”, conclude. Roma. Open Fiber verso il bis del piano di reinserimento detenuti di Davide Madeddu Il Sole 24 Ore, 23 gennaio 2024 In corso di valutazione la riproposizione del progetto con il carcere di Rebibbia. Per detenute e detenuti è prevista un’importante attività di formazione. Prima la formazione in carcere poi il lavoro sul campo, all’insegna della tecnologia e dell’innovazione digitale e in nome della connessione ultraveloce. Sono gli elementi che hanno caratterizzato il progetto pilota, per cui è in corso di valutazione una eventuale riproposizione, portato avanti da Open Fiber al carcere di Rebibbia a Roma. Si tratta dell’iniziativa nata in seguito all’adesione, da parte dell’azienda, al Programma Lavoro Carcerario, progetto innovativo di collaborazione tra privato e pubblico, promosso dai ministeri della Giustizia e dell’allora ministero dell’Innovazione Tecnologica e Transizione Digitale (oggi Dipartimento per la Trasformazione Digitale). Un piano definito “importante” che oltre a garantire la presenza di “lavoratori adeguatamente preparati”, ha l’obiettivo di assicurare alle detenute e ai detenuti una preparazione specifica e “di alto livello” che potrà essere spesa anche in futuro, una volta lasciato il carcere. L’azienda, nata per realizzare un’infrastruttura di rete a banda ultralarga in fibra ottica in tutto il Paese al fine di garantire la copertura delle principali città italiane e il collegamento delle aree rurali, a Rebibbia ha portato avanti il progetto che ha interessato 15 detenuti che, dopo aver superato le selezioni, hanno seguito un percorso di formazione di 160 ore all’interno di un laboratorio “appositamente allestito” negli spazi interni della struttura detentiva. “In Open Fiber - sottolinea Romina Chirichilli, direttore personale e organizzazione Open Fiber - abbiamo sempre investito moltissimo nella formazione. A maggior ragione se questa può essere uno strumento per promuovere il reinserimento dei detenuti nel tessuto sociale nell’ottica della funzione rieducativa della pena, come previsto dalla nostra Costituzione. Per questo motivo, abbiamo aderito con convinzione al Programma Lavoro Carcerario accogliendo l’iniziativa dei Ministeri della Giustizia e dell’Innovazione Tecnologica”. L’attività di formazione ha previsto una parte di didattica teorica che ha spaziato dalle conoscenze generali relative alle reti in fibra ottica a quelle propedeutiche allo “svolgimento di operazioni di costruzione e collaudo delle infrastrutture, di esercizio e manutenzione della rete di trasporto e di accesso di Open Fiber”. A seguire anche una parte di formazione pratica in laboratorio attraverso esercitazioni simulate con attrezzature specifiche su lavori particolarmente delicati che hanno riguardato la giunzione e installazione dei sistemi. In una fase successiva, e dopo quella che è stata definita una ulteriore scrematura, c’è stata l’individuazione di 3 detenuti che sono stati assunti dal consorzio Open Fiber Network Solution con contratto Tic e impiegati sui cantieri di Monterotondo (Roma) per circa 6 mesi. “Il progetto è stato realizzato grazie all’impegno e alla capacità di fare sinergia di tutti gli attori coinvolti e al forte coinvolgimento dei ragazzi che, pur essendo in carcere - argomenta ancora il direttore Roberta Chirichilli - hanno potuto ricevere una formazione tecnica grazie alla quale avranno una seconda chance per trovare impiego in un settore, quello delle telecomunicazioni, che sconta peraltro una forte carenza di manodopera”. Figure particolarmente ricercate dal mercato del lavoro, come sottolinea ancora Chirichilli. “Mi riferisco a giuntisti, posatori di fibra ottica ma anche responsabili dei cantieri, figure necessarie per lo sviluppo delle infrastrutture in fibra ottica per le quali, secondo le stime del settore, si registra una carenza di circa iomila lavoratori - continua -. Valenza sociale e impegno sul fronte della formazione, nel quadro di una visione del Paese che punta a una vera trasformazione digitale, sono due pilastri dell’operato di Open Fiber”. C’è poi la prospettiva, perché le finalità del progetto non si esauriscono con la fine della formazione o quando scade il contratto dei detenuti. Le competenze acquisite possono essere impiegate e spese anche una volta espiata la pena e varcato il cancello del carcere. L’attività, oltre a “garantire la presenza di lavoratori adeguatamente preparati”, ha l’obiettivo di fornire “detenute e detenuti un’opportunità lavorativa remunerata, nonché la possibilità di imparare un mestiere che sarà altamente richiesto nei prossimi anni”. Venezia. Giudecca, “Un carcere più umano della media, ma il problema italiano resta” veneziatoday.it, 23 gennaio 2024 La settimana scorsa una delegazione di Radicali Italiani è stata in visita al penitenziario femminile di Venezia. La visita di una delegazione dei Radicali al carcere femminile della Giudecca è stata l’occasione per fare il punto sulla situazione degli istituti di reclusione italiani. La campagna “Devi vedere” - che invita i cittadini, appunto, a osservare con i propri occhi le condizioni dei penitenziari - ha fatto tappa a Venezia venerdì 19 gennaio. “Abbiamo rilevato una situazione migliore rispetto alla media nazionale - è il commento di Samuele Vianello, segretario di Radicali Venezia -. L’istituto femminile veneziano offre numerose attività lavorative e di volontariato. Non mancano però le criticità di natura strutturale”, problema che riguarda tutto il Paese: “La situazione delle carceri italiane è drammatica: il sovraffollamento ha ripercussioni molto serie sulla vita della comunità interna, l’esecuzione penale non è rieducativa ma diseducativa, non riabilitativa ma debilitativa: i tassi elevatissimi di recidiva ne sono la dimostrazione”. Vianello prosegue: “La situazione non migliorerà costruendo nuove carceri, ma realizzando qualcosa di più efficace degli istituti penali, che non infligga sofferenza (e dunque vendetta), ma che reinserisca nella società”. Paolo Ticozzi, consigliere comunale del Partito Democratico, ha partecipato alla visita: “È risaputo che la qualità di una democrazia si può riconoscere dalla qualità del carcere - spiega -. A Venezia siamo al quarto anno di mandato del consiglio comunale e, in tutto questo periodo, il tema del carcere non è mai stato affrontato nelle commissioni. Al contrario, penso che si debba affrontare per capire cosa il Comune possa fare per aiutare il processo di rieducazione delle persone ristrette e garantirne i diritti e il reinserimento nella società”. Ticozzi conclude: “Quella della Giudecca è una realtà ben radicata grazie ai vari progetti sociali e di volontariato, e attraverso i prodotti realizzati dal lavoro delle persone ristrette. La visita mi ha permesso, oltre che di conoscere direttamente una realtà estremamente interessante, di raccogliere sia dal personale che dalle “donne della Giudecca” degli spunti e delle indicazioni di lavoro per migliorare o creare nuovi servizi e collaborazioni tra Comune e carcere”. Roma. Giustizia riparativa, un percorso che consente di dialogare di fronte al dolore di Tiziana Campisi vaticannews.va, 23 gennaio 2024 Nella chiesa di Sant’Ignazio di Loyola, ieri mattina a Roma, gli studenti del liceo classico Ennio Quirino Visconti hanno incontrato Gherardo Colombo, Agnese Moro e Adriana Faranda per riflettere sullo strumento giuridico che permette a quanti hanno commesso reati e a persone offese di incontrarsi, conoscersi, confrontarsi ed essere coinvolti nella progettazione di un’azione volta ad instaurare rapporti nuovi di fiducia. Gherardo Colombo, ex magistrato, Agnese Moro, figlia dello statista ucciso dalle Brigate Rosse nel 1978, e Adriana Faranda, ex militante dell’organizzazione terroristica implicata nel rapimento di Aldo Moro: c’erano loro oggi in cattedra di fronte agli studenti del liceo classico di Roma Ennio Quirino Visconti per parlare di giustizia riparativa, nell’ambito di una settimana dedicata all’educazione civica. L’incontro, che si è svolto nella chiesa di Sant’Ignazio di Loyola, nel pieno centro della Capitale, è stato organizzato con il coinvolgimento dei religiosi gesuiti impegnati nei procedimenti - come i Basic principles on the use of restorative justice programmes in criminal matters elaborati dalle Nazioni Unite definiscono la giustizia riparativa - “in cui la vittima e il reo e, laddove appropriato, ogni altro soggetto o comunità lesi da un reato, partecipano attivamente insieme alla risoluzione delle questioni emerse dall’illecito, generalmente con l’aiuto di un facilitatore”. Settecento i ragazzi stimolati da Colombo - giudice istruttore nell’inchiesta sull’omicidio Ambrosoli, noto anche per l’impegno in inchieste importanti sul crimine organizzato, la corruzione, il terrorismo e la mafia, tra cui la scoperta della Loggia P2 e Mani Pulite e oggi scrittore e saggista - alla riflessione sul concetto di giustizia, “parola usata con grande frequenza - dice - e che si fa fatica a definire”. “Non è mai giusto uccidere una persona - aggiunge Colombo - tuttavia, delle volte, si è autorizzati a farlo, ma il giusto è che non si può privare una persona della vita”. Di qui l’invito a ragionare su quale sia la “risposta giusta” di fronte a chi commette il male. Se si deve punire e in che misura lo si può fare? È giusto ridare fiducia a chi ha commesso un reato? Oppure fare in modo che l’autore di un illecito si renda conto di ciò che ha commesso e non lo ripeta? “I frutti della giustizia riparativa sono veri”, spiega Gherardo Colombo in una intervista a Vatican News- Radio Vaticana e sono tanti. “Consistono nella riconciliazione con se stesso da parte della vittima e da parte del responsabile - specifica il giudice - poi nel restaurare la relazione che era distrutta, quella tra la vittima e il responsabile e poi nel testimoniare che è una strada percorribile”. Tutte queste cose assieme, prosegue, “auspicabilmente, anche se ci vorrà tempo, ci porteranno a vedere sia la risposta - credo, soprattutto la prevenzione -, attraverso una strada che non sia la strada della minaccia per chi trasgredisce, ma sia la strada della comprensione reciproca e quindi della soluzione dei conflitti prima che arrivino ad esplicare tutte le conseguenze negative che generalmente esplicano”. “Guardarsi in faccia e riconoscersi - termina - evita anche le guerre, se ci si riconosce ovviamente”. Il colloquio dell’ex magistrato con gli alunni del Visconti è un preludio al racconto di Agnese Moro. L’esperienza di Agnese Moro - Ha 72 anni oggi la donna minuta ed esile che racconta di quel 16 marzo 1978 in cui vide il padre per l’ultima volta. Quei 55 giorni nelle mani delle Brigate Rosse li ricorda vividi. “Niente si può riparare di quello che è successo - afferma - neanche quella che ero si può riparare”. Per lei sembra assurdo parlare di giustizia riparativa, “cosa si può riparare tra rabbia, rancore, disgusto?”. Ma l’irreparabile e il dolore che lo accompagna creano conseguenze nel tempo, spiega. Agnese Moro le chiama “scorie radioattive”, come tutto ciò che continuamente si è riproposto in quella parte di sé rimasta chiusa fra il 16 marzo e il 9 maggio 1978, quella che lei definisce “dittatura del passato che invade la vita”. La seconda scoria è il silenzio, tutto quello che non si può esprimere a parole, perché si ha paura, anche, “di ferire altre persone, dando, ad esempio, un’idea dura della vita”. La terza “scoria” è quell’ingombro dentro sé di presenze sgradite, di fantasmi, che si odiano e perseguitano, e una ulteriore “scoria” sono la forza e la potenza del male e di chi non si è opposto al male. Un peso, tutte queste cose, che tolgono il respiro, aggiunge Agnese Moro, che appesantiscono la vita. L’intervento di Agnese Moro - “Un giorno mi sono accorta che tutto quello che avevo coperto aveva raggiunto i miei figli e ho capito che avevo trasmesso quel male a un’altra generazione e mi sono detta: basta”. Con l’aiuto di padre Guido Bertagna, gesuita, la figlia del presidente della Democrazia Cristiana intraprende il percorso di giustizia riparativa e incontra alcuni protagonisti del rapimento del padre. “Ci sono degli effetti straordinari da questa esperienza in cui le parole rivelano la possibilità di cambiare le cose - osserva - sono incontri complicati, difficili”. In quegli incontri si conosce anche il dolore di quelle persone che prima erano volti sconosciuti, prosegue Agnese Moro, il dolore di aver commesso cose irreparabili nella convinzione di certi ideali. Un dolore che crea un ponte, che apre al dialogo, in un continuo ascolto e confronto che danno vita, pian piano a una fiducia reciproca, “un legame, un venirsi incontro” che man mano fa dileguare i fantasmi. “E allora i fantasmi diventano persone, i sentimenti si disarmano, il dolore non crea altri fastidi e si può guardare avanti, con la padronanza di ciò che si è senza ‘ospiti sgraditi’”. Dei presupposti necessari a chiunque voglia affrontare un percorso di giustizia riparativa parla padre Giancarlo Gola, gesuita e biblista, impegnato in un gruppo di giustizia riparativa, che a Vatican News-Radio Vaticana chiarisce che a tale programma si può arrivare “sicuramente dopo aver già compiuto un cammino di messa in discussione di sé”, bisogna però avere anche “la voglia e il desiderio, anche se piccolo di incontrare l’altro, diverso da te, e incontrarlo in questo livello profondo di dialogo, che comunque è un evento che ti mette profondamente in questione”. Il dialogo via di rinascita - Calamita l’attenzione dei ragazzi anche Adriana Faranda, che narra della sua gioventù, dell’idea di giustizia che aveva, della sua militanza nelle Brigate Rosse e del percorso di giustizia riparativa intrapreso, “un cammino in fieri, una ricerca di sé stessi, ma anche un modo per capire, confrontandosi, cosa si era e ciò che si è commesso”. Contraria all’uccisione di Moro, si interroga ancora su cosa avrebbe potuto fare perché non venisse assassinato, per far valere il proprio dissenso. Ma parla anche di responsabilità, quella che ciascuno deve assumersi guardando al passato, e pure al presente e al futuro. “Indietro non si torna - sottolinea - allora l’unico modo di tornare alla società e alle relazioni è trovare nuove strade che non abbiano a che fare con le vecchie”. Il percorso intrapreso “in piena libertà” l’ha fatta tornare ad “essere persona, essere Adriana, così come Agnese è tornata ad essere Agnese e non la ‘figlia di…’”, una dimensione in cui “si è autentici”. “I conflitti si possono risolvere solo col dialogo, parlando - conclude -. E io adesso mi sento profondamente amica di Agnese”. Alba (Cn). “Un carcere più umano”: se ne discute con il Garante regionale dei detenuti lavocedialba.it, 23 gennaio 2024 Il focus, organizzato per venerdì 26 gennaio dall’associazione albese In.differenti, vedrà come relatori Giorgio Leggieri, direttore della Casa di reclusione di Milano Bollate, e Bruno Mellano, garante regionale dei detenuti. Un’occasione di riflessione, di approfondimento e di confronto su un tema di stretta attualità, come quello dei detenuti e della situazione delle strutture penitenziarie: si intitola “Senza sbarre, guida per un carcere più umano”, l’evento organizzato dall’associazione albese In.differenti per venerdì 26 gennaio, alle ore 21 presso la sala Riolfo del comune di Alba. Relatori saranno Giorgio Leggieri, direttore della casa di reclusione di Milano Bollate, e Bruno Mellano, garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Piemonte. La serata, gratuita e ad accesso libero, è organizzata in collaborazione con l’associazione Arcobaleno, la fondazione Ugo Cerrato, con la partecipazione della Cooperativa Libraria “La Torre”. Musica come ponte tra giardino e galera di Ilaria Dioguardi vita.it, 23 gennaio 2024 Parlare di carcere attraverso le canzoni. È l’idea alla base del libro “Metà giardino, metà galera” che ripercorre la storia dell’istituzione carceraria dal secondo dopoguerra ad oggi seguendo il filo delle canzoni di De Andrè, Vecchioni, Gaber, Silvestri, Dalla, Paolillo e tanti altri. Trovare le parole che sappiano raccontare il carcere, fuori dai luoghi comuni. Il libro Metà giardino, metà galera (Editore Erickson) è stato scritto con quest’obiettivo da Alessia la Villa, funzionaria pedagogica, e Leandro Vanni, ispettore superiore di Polizia penitenziaria. È nato da un’idea, ci chiedevamo: “Qual è la prima canzone che ti viene in mente quando si parla di carcere?”, dice Alessia La Villa, coautrice del libro, da 14 anni nell’amministrazione penitenziaria. “Abbiamo notato che sia noi sia la maggior parte delle persone a cui lo chiedevamo rispondeva Don Raffaé di Cristiano Dè André. Roberto Vecchioni è un artista che sul tema carcere ha scritto tre canzoni (e che ha anche vissuto l’esperienza della detenzione). Da qualche idea buttata lì per gioco, facendo riferimento alle nostre conoscenze, al nostro amore per la musica di autore e a un lavoro di ricerca abbiamo deciso di dare vita a questo libro. In ogni canzone escono fuori delle tematiche che riguardano i diritti delle persone detenute”. Ognuna delle canzoni citate nel libro, dagli anni Cinquanta ad oggi, affronta argomenti quanto mai attuali quali i bambini in carcere, l’ergastolo, il diritto all’affettività e alla sessualità. La galera bisogna saperla “concimare” - Il titolo del libro è tratto da una frase di Viva l’Italia di Francesco De Gregori, “canzone che a me e al co-autore Leandro Vanni ha dato delle suggestioni particolari. È stata scritta nel 1979, l’anno in cui gli educatori per la prima volta entrano in carcere. Nel 1975 c’era stata la riforma dell’ordinamento penitenziario, che aveva previsto queste figure anche nelle carceri per adulti, che si trovano di fronte “un’Italia metà giardino, metà galera”. Quest’accostamento potrebbe sembrare un ossimoro: il giardino è l’immagine della luce, della fecondità, della vita, dall’altra parte la galera è buia, nascosta agli occhi della gente. Quella galera che un po’ sancisce “la morte di Dio” cantata da Guccini nella canzone Dio è morto. Io e Vanni ci siamo detti che forse, quello che sembra un ossimoro, potevamo ribaltarlo e fornire nei lettori un’altra prospettiva da cui poter vedere la galera, che può diventare feconda al pari di un giardino, però bisogna saperla “concimare”. E come? Non voltandosi dall’altra parte, come canta De Gregori, tenendo “gli occhi aperti nella notte triste”. Vecchioni dice “Che questa maledetta notte dovrà pur finire”, nella canzone Chiamami ancora amore”, dice La Villa. “Ad un certo punto le cose possono cambiare, bisogna tenere gli occhi aperti, ovvero assumersi delle responsabilità. Il carcere è un argomento che riguarda tutti, non solo chi ci lavora, chi ha un familiare: è una responsabilità collettiva. E allora le persone le possiamo far fiorire, questo è l’obiettivo soprattutto del mio lavoro di educatore in carcere, previsto dall’articolo 27 della Costituzione, che nel 2010 ha cambiato nome diventando quello di funzionario della professionalità pedagogica. Per rieducare, dobbiamo evitare che ci sia questa netta dicotomia tra i buoni che vivono nella metà giardino da una parte e, dall’altra, i cattivi che vivono nella metà galera: non è assolutamente così”. Lungo il filo della storia penitenziaria e musicale - Nel libro si è deciso di seguire il filo cronologico della storia, in ogni capitolo la prima parte è dedicata alla storia dell’istituzione penitenziaria e, la seconda, a come i cantautori decidevano di dar voce a queste tematiche. “Abbiamo deciso di escludere le canzoni di lotta e contestazione politica perché è un mare magnum, un argomento che merita un libro intero”, continua La Villa, “ma abbiamo inserito alcune canzoni che vanno lette e contestualizzate nel momento specifico, come quelle di Claudio Lolli, Alfredo Bandelli e di Gianni Siviero, quest’ultimo è un cantautore che nel 1975 pubblicò l’album Del carcere nel quale è contenuta una canzone nel quale si sente la protesta dal vivo del collettivo di Dario Fo e Franca Rame davanti alle carceri”. Dal 1968 al 1975 esplosero diverse rivolte dei detenuti che chiedevano a gran voce una riforma penitenziaria. “Abbiamo voluto inserire queste canzoni per far capire al lettore di che carcere si stava parlando, con i detenuti che salivano sui tetti, c’era una contestazione molto dura. Poi nel libro si trovano anche canzoni d’autore e più leggere, ad esempio la canzone dei Pooh Pensiero che parla di un detenuto, ma forse non tutti lo sanno”. Bambini in carcere - Il tema dei bambini in carcere è quanto mai attuale. La canzone presentata da La Zero a Sanremo Nina è brava parla di una bambina in carcere con la mamma e dice: “Mi chiamo Nina, dov’è il mio aquilone, Pasquale mi ha detto che siamo in prigione. Ma io sono brava portatemi al mare. Perché sono qui, che devo scontare?”. “Un testo molto forte”, spiega l’autrice “soprattutto per chi, come noi, i bambini li vede dentro l’istituto, quando vengono a colloquio e quando si devono separare dai papà detenuti. A Livorno per un periodo in carcere era presente anche una sezione femminile, a me è capitato di vedere bambini i cui genitori erano entrambi detenuti”. L’attualità di Gaber - “Il decreto Caivano, che vuole più carcere per i minori (si ipotizzava anche di far scendere l’imputabilità a tredici anni), mi fa venire in mente la canzone di Giorgio Gaber La ballata del Cerutti Gino. Scritta negli anni Sessanta, questa canzone non fa altro che evidenziare che il carcere sembra non aver avuto alcuna capacità deterrente per questo giovane, che torna nella sua periferia allo stesso bar del Giambellino”, continua La Villa. “La nostra esperienza, soprattutto con i ragazzi più giovani, ci dimostra che il carcere non ha più alcun effetto deterrente, anzi, rafforza la costruzione di un’identità negativa. Chi finisce in carcere e ci torna, e non si progetta nulla sulla prevenzione per questi ragazzi, è normale che il carcere verrà visto come parte di un percorso senza un effetto né deterrente né rieducativo. Non ha nessun senso pensare di prevedere un pacchetto sicurezza in cui si prevede più carcere se non si investono risorse sui centri aggregativi, sui centri sociali. Io prima di vivere e lavorare a Livorno, dove ormai sono da 14 anni, vivevo a Roma e lavoravo nel Centro di Prima Accoglienza per minori in stato di arresto; nella Capitale andavo ad agganciare i ragazzi dove sapevo di trovarli, nel parco del Colle Oppio, a Tor Bella Monaca, lavoravo per strada: la prevenzione con i ragazzi si fa agganciandoli dove si riconoscono, non portandoli in carcere. Li agganciavamo offrendo loro delle proposte di partecipazione a progetti di incontri aggregativi, mescolando i ragazzi per strada con altri che facevano una vita dove c’erano più stimoli, dallo sport alla musica”. De Andrè e i suicidi, Dalla e i minori detenuti - Cristiano De Andrè aveva 20 anni quando scrisse La ballata del Miché, sul tema del suicidio in carcere. Nell’’incipit “Quando hanno aperto la cella era già tardi perché con una corda sul collo freddo pendeva Miché” “si ha la sensazione di vedere questo cadavere. La canzone parla di chi muore in carcere nell’assoluta indifferenza e nell’assoluta solitudine. Questa ballata è veramente struggente”, prosegue l’educatrice, “così come è struggente la canzone di Lucio Dalla La casa in riva al mare, qui c’è il tema dell’ergastolano che si aggrappa disperatamente alla speranza di poter uscire, sa che questo non avverrà mai ma sogna tutta la vita qualcosa che non potrà succedere ma che gli dà modo di non impazzire. Lucio Dalla ha scritto anche una canzone, dedicata alla detenzione minorile, si chiama Mela di scarto e parla dei ragazzi detenuti nell’istituto penale torinese Ferrante Aporti”. I personaggi raccontati dalle canzoni - Alcune canzoni sono state dedicate a personaggi che, nel bene o nel male, hanno fatto la storia dell’Italia. “Don Raffaé di Cristiano Dè André è Raffaele Cutolo, capo della nuova camorra organizzata, che quando ascoltò la canzone a lui dedicata rimase colpito, scrisse a De Andrè e gli chiese come avesse fatto, senza essersi mai incontrati e senza entrare in carcere, a descrivere le dinamiche che avvengono in carcere. Il cantautore gli rispose e Cutolo gli mandò delle sue poesie scritte in carcere. A quel punto, De Andrè ritenne di dover interrompere ogni tipo di comunicazione: la figura di Cutolo era abbastanza compromettente per iniziare un carteggio fitto. Questa canzone potrebbe essere stata scritta qualche anno fa”, dice l’autrice. Un altro personaggio a cui è stata dedicata una canzone è Renato Curcio. “Nella canzone straordinaria che si chiama appunto Renato Curcio di Francesco Baccini, come il video che hanno girato all’interno della cella di Curcio quando era detenuto nel carcere Rebibbia di Roma. In questa canzone si parla del Curcio uomo che si trova a fare i conti con il proprio passato, con la morte per la propria donna uccisa in un conflitto a fuoco, con le sue idee, di cui dice di non pentirsi ma rivede quello che è stato per capire se abbia avuto un senso. La canzone scritta da Enrico Ruggeri Inevitabilmente (lettera dal carcere) cantata da Fiorella Mannoia parla di Renato Vallanzasca, senza mai nominarlo. Lì si parla del Vallanzasca uomo e di cosa succede a una persona che fa i conti con la propria storia e con quello che è stato: “Le cattive compagnie non sono una scusante, le cicatrici sono tante e profonde”. Questo ragazzino comincia a delinquere già a otto anni”. Francesco Guccini ha dedicato una canzone a Silvia Baraldini. La concretezza prima di tutto - “In carcere bisogna lavorare in concreto. I corsi proposti sia negli istituti per minori sia per adulti devono essere dei corsi che abbiano un aggancio con la realtà, se no è solo tempo perduto. Il territorio deve entrare in carcere”, dice Alessia La Villa, che lavora nel carcere di Livorno e nella sezione distaccata sull’isola di Gorgona, l’ultima isola carcere d’Italia dove i detenuti (attualmente circa 85) sono “sconsegnati”, girano liberamente sull’isola: c’è chi si occupa delle vigne, chi della cura degli animali, chi del forno. “La modalità del territorio che entra nel carcere è una modalità vincente nella misura in cui, se l’attività è reale e concreta, come l’azienda vinicola dei Marchesi Frescobaldi che ormai da più di 10 anni sull’isola di Gorgona forma i detenuti all’interno delle vigne, a questa specifica professionalità e ne assume alcuni, quando escono dal carcere. Bisogna fare una distinzione tra trattamento e intrattenimento: è importante l’aggancio con la vita reale, quello che i detenuti chiedono è un lavoro quando escono, che consenta loro di tornare fuori con nuove prospettive”. Nel libro non abbiamo voluto fare nessuna censura. Abbiamo voluto che questo libro fosse reale fino in fondo. Il ragazzo in copertina è stato fotografato da un poliziotto, è un detenuto sull’isola di Gorgona che suona veramente la chitarra e ha accettato di farsi fotografare. Siamo riusciti, nel nostro lavoro, a creare una squadra, il detenuto si fida e sa che, dietro quella persona che lo sta fotografando, c’è un grande lavoro”. Un libro a quattro mani: un’educatrice e un ispettore - “Colpisce molto il fatto che questo libro sia stato scritto da un’educatrice e da un ispettore. In realtà, sicurezza e trattamento non sono e non possono essere anime conflittuali di un sistema sicuramente migliorabile, sono anime complementari. La cosa buffa è che ci siamo ritrovati, con una stessa visione, a raccontare il carcere attraverso la musica”. A parlare è Leandro Vanni, ispettore superiore di Polizia penitenziaria nel carcere di Livorno, da 30 anni, coautore di Metà giardino, metà galera. “Un ispettore di polizia penitenziaria nell’immaginario collettivo non viene di solito, associato a canzoni di Vecchioni. Sia io sia Alessia La Villa siamo “vecchioniani”. Nel libro parliamo anche delle canzoni di artisti quali Daniele Silvestri, 99 Posse, Matteo Paolillo, autore della fortunatissima colonna sonora della serie televisiva Mare fuori, che è diventato un po’ il tormentone degli ultimi tempi amplificato dalla tv, e che tocca il tema della detenzione minorile”. “Tornano a casa i secondini piano piano, tornano a casa dai bambini sul divano. Dove saranno i mostri della cella? Sono rinchiusi in un armadio su una stampella”, canta Mannarino nella canzone Scendi giù. “Tra le canzoni più recenti, è tra le più interessanti e più crude, una sorta di ballata che si riferisce a fatti di cronaca incontrovertibili, come quelli di Federico Aldrovandi e di Stefano Cucchi. È un testo in cui la denuncia è forte nei confronti della polizia penitenziaria, si impone una riflessione su certi episodi che, negli ultimi tempi, hanno caratterizzato un contesto difficile e fortemente mutato. I problemi sono tanti nel mondo della detenzione italiana, non solo di natura custodiale, ma anche di natura trattamentale e sanitaria. Voltaire affermava che “Il grado di civiltà di un paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”. La situazione delle carceri italiane è sotto gli occhi di tutti”. Zan: “La destra normalizza l’odio. Serve una nuova resistenza” di Daniela Preziosi Il Domani, 23 gennaio 2024 Arriva oggi nelle librerie “E noi splendiamo, invece” (Sperling & Kupfer), il libro di Alessandro Zan. Citazione pasoliniana, linguaggio semplice e diretto, un libro politicamente impegnativo che rivolge ai giovani un invito alla mobilitazione: “Non accettate la politica che vuole normalizzale l’odio, comprimere gli spazi di libertà, che aumenta le pene per le proteste. Se le persone si mettono assieme possono sconfiggerla”. Onorevole, il ddl Zan è stato affossato: cioè seppellito per sempre? Il realtà l’affossamento può portare alla nascita di un germoglio. E la rinascita dopo l’affossamento del ddl Zan sono state le tante piazze di giovani che hanno detto che non ci staranno a quell’applauso osceno di esponenti di destra, la stessa che governa oggi, felici di aver affossato una legge di civiltà. Ma da quella violenza è nata un’altra resistenza. Nel libro propone una stagione di mobilitazione democratica. Nell’Italia che lei definisce a rischio orbanizzazione, è possibile? Dobbiamo dire alle nuove generazioni e ai movimenti che le istituzioni sono di tutti, che serve agire con un approccio da avanguardia, ma tenendo presente che se non vai a votare c’è qualcuno che decide per te. E contro di te. Perché il voto è uno strumento per dire: non vi lasceremo campo libero. Il sovranismo è il franchising dell’intolleranza. Sa adattarsi come un liquido in un recipiente, è diverso da paese in paese, ma è lo stesso veleno. Orbán ha trasformato l’Ungheria in un’autocrazia: attacca i diritti delle persone, imbavaglia i giudici e chiude le università e i giornali. In Polonia è accaduto lo stesso, ma lì c’è stata la resistenza delle donne, delle femministe, dei giovani, della comunità Lgbt è andata a votare stravolgendo i pronostici. L’Italia ha istituzioni democratiche più forti, qui il sovranismo non mette in campo cambiamenti plateali, ma occupa la Rai e le istituzioni per comprimere spazi di democrazia, come una goccia cinese. Per non svegliarsi in un’Italia che assomiglia all’Ungheria dobbiamo attrezzarci. E al mio Pd dico: serve una comunicazione politica più immediata, non temiamo i linguaggi del presente. Deve tornare a essere pienamente il partito delle persone più in difficoltà e quello del desiderio di futuro. Ci sono 10 milioni di ragazzi fra i 18 e i 34 anni, di cui 6 milioni non votano. “Parliamo con i ragazzi”, lei scrive, non “ai ragazzi”... Molte volte il Pd ha parlato dei giovani senza conoscere a fondo i problemi che i giovani denunciano. I giovani fuorisede che hanno piantato le tende contro gli affitti alti, quelli che compromettono il loro diritto allo studio, hanno sollevato un tema forte e vero. E i giovani fuorisede magari vorrebbero votare ma studiano lontano dalla loro città e non hanno i soldi per pagarsi il treno: il Pd deve battersi per una legge che dia il diritto di voto anche a loro. Ascoltare le loro proposte significa farli partecipare alla vita democratica del paese. Schleinismo in purezza? Elly Schlein è una speranza per il Pd che per troppo tempo è stato il partito del vorrei dire certe cose ma non riesco a dirle. Siamo un partito plurale, che è una grande risorsa, ma questo non deve diventare balbettare su ogni cosa. Per arrivare alla sintesi spesso si diluiscono i contenuti e non si riesce a dire nulla di efficace. Come si risolve il caso Veneto, dove una consigliera Pd si è astenuta sul fine vita, e la legge non è passata? Se sei una consigliera regionale, trovi il modo migliore per esprimere i tuoi legittimi dubbi e poi esci dall’aula senza vanificare l’azione di un Pd che aveva deciso in modo inequivocabile e di votare la legge Coscioni. Nel libro lei scrive: forse è più difficile cambiare il Pd che il paese. Solo una battuta? Il Pd è l’unico partito democratico del paese dove la leadership è scelta dai cittadini e non c’è un solo capo al comando. È un partito plurale, che discute davvero, ma deve fare un salto di qualità: essere molto chiaro sui temi. Lo sforzo che Elly Schlein sta facendo è di dare messaggi chiari, dal salario minimo alla sanità, al congedo paritario, ai diritti. Lei scrive della battaglia cruciale del prossimo voto europeo. Non è che si candida? La riflessione sulle candidature è in corso. Saranno fatte le valutazioni più opportune sulle europee, perché è un appuntamento che non possiamo mancare: l’Europa è l’unico argine che abbiamo per difendere i diritti delle persone, non solo quelli civili. I diritti sono l’essenza della cittadinanza, senza diritti le persone sono più deboli. L’Europa è diritti per tutti: non è accettabile che un europeo d’Ungheria abbia meno diritti di un europeo di Francia o di Germania. E ora l’Europa è di fronte a un bivio: o diventa più politica e solidale nel solco del sogno di Ventotene, o vinceranno i sovranismi dei nazionalismi e delle discriminazioni. Schlein deve candidarsi? La decisione spetta a lei, io penso che la sua candidatura sarebbe un valore aggiunto per il Pd. L’Italia è il paese di Vannacci? Stiamo assistendo allo sdoganamento di ogni contenuto discriminatorio. Vannacci, o i vari Vannacci, quelle idee le hanno sempre avute. Ma oggi c’è un tentativo di normalizzarle. È il contrario di quello che sostengono i paranoici contro il politicamente corretto: si lamentano che l’Italia stia diventando un paese in cui non si può più dire niente, invece accade l’opposto. Oggi in Italia si può insultare chiunque, dire dalla tv che odi i gay, gli ebrei, le persone di etnia diversa dalla tua, e non succede niente: la normalizzazione dell’odio, con l’aiuto di Giorgia Meloni, Matteo Salvini e i loro. Un tempo Vannacci non avrebbe mai detto pubblicamente quello che ha scritto, si sarebbe vergognato. Una frase che si sarà sentito ripetere migliaia di volte: la sinistra non vince con i diritti civili. È così? Me lo dicono. Ma è una mistificazione della realtà. Le persone non vivono in compartimenti stagni. Nella loro vita tutto si tiene. Intersezionalità significa questo: che un lavoratore può essere discriminato per classe sociale, orientamento sessuale, identità di genere o provenienza etnica, o per tutto assieme. I diritti non sono solo civili, sociali, ambientali. Sono diritti. Intersezionali come le discriminazioni. La politica della sinistra sarà matura e contemporanea quando parlerà di diritti senza aggettivarli. La sinistra vince se si batte per i diritti, tutti i diritti. Fine vita: la Consulta ignorata e tradita di Andrea Pugiotto L’Unità, 23 gennaio 2024 Nel 2019 ha aperto la strada al suicidio assistito (ad alcune condizioni), ma sembra che per la politica quella sentenza non esista. Il parlamento non ha mosso un dito. Il Veneto ha bocciato la pdl popolare regionale che definiva le modalità di accesso. 1. “È più malvagio togliere la vita a chi vuol vivere o negare la morte a chi vuol morire?”. Il dilemma (che incrocio nel noir del norvegese Jo Nesbø, L’uomo di neve) rimanda alla cruciale questione del “fine vita”, transitata in questi giorni tra i banchi del Consiglio della Regione Veneto. Il diritto mite conosce lo strumento per affrontare simili “questioni ultime”: le leggi facoltizzanti. Lo ricordava nel 2007, al seminario dei costituzionalisti italiani sui “problemi pratici della laicità agli inizi del secolo XXI”, un grande giurista cattolico come Leopoldo Elia: “leggi che consentano di ricorrere a taluni istituti in via del tutto facoltativa”, espressione di quella funzione permissiva del diritto che - invece di vietare - consente senza costringere alcuno, libero di non avvalersene secondo i propri convincimenti religiosi o morali. Perché - concludeva Elia - “le leggi vanno fatte per i credenti e per i non credenti” e le leggi facoltizzanti “sono di norma le più adatte ad una società pluralista e multiculturale”. Starebbe al Parlamento approvarle, ma “i politici han ben altro a cui pensare”. Così, in Italia, il “fine vita” resta stretto nel forcipe di due reati del codice Rocco: l’aiuto al suicidio e l’omicidio del consenziente. 2. Sul primo è intervenuta la Corte costituzionale, stabilendo che il divieto assoluto dell’art. 580 c.p. è illegittimo (sent. n. 242/2019). Infatti, non è più punibile chi agevola il suicidio di un malato di patologia irreversibile, capace di esprimere un libero consenso, gravato da sofferenze psico-fisiche insopportabili, che sopravvive grazie a un supporto vitale. Sulla necessità di quest’ultimo requisito, peraltro, la Consulta dovrà ritornare, sollecitata da una recentissima quaestio promossa dal GIP di Firenze. Servirebbe una legge per disciplinare tempi e modi della relativa procedura - tratteggiata in sentenza - che chiama una struttura pubblica del SSN, previo parere del comitato etico territoriale, a verificarne le condizioni e le modalità di esecuzione. Anche qui, sarebbe dovere del Parlamento provvedere, ma “i politici han ben altro a cui pensare”. Aveva provato a stanarlo la stessa Consulta, con un’ordinanza interlocutoria (n. 207/2018) che concedeva alle Camere un anno di tempo per intervenire: da allora, ne sono trascorsi più di cinque. Inutilmente, nonostante una proposta di legge di iniziativa popolare in tema di rifiuto di trattamenti sanitari e liceità dell’eutanasia: depositata in Senato nella XVIII legislatura e ripresentata nella XIX, non è mai stata discussa. Oltre a svuotare di effettività una facoltà costituzionalmente dovuta, quella del legislatore è una latitanza odiosa e crudele, perché aggiunge al calvario del malato ulteriori stazioni: ricorsi giurisdizionali, attese protratte senza tempi certi, interdizioni e ostacoli burocratici, oneri economici. Fino a spingere il paziente a rassegnarsi talora a una soluzione non voluta (l’interruzione delle terapie con sedazione profonda, fino alla morte) che lo costringe “a subire un processo più lento, in ipotesi meno corrispondente alla propria visione della dignità nel morire e più carico di sofferenze per le persone che gli sono care” (ord. n. 207/2018). 3. Che fare, allora? Nell’attesa di una legge statale, coinvolgere le Regioni. A queste vengono sottoposti altrettanti identici disegni di legge d’iniziativa popolare, finalizzati a definire - quanto a ruoli, procedure, tempi - modalità e condizioni d’accesso al suicidio medicalmente assistito, secondo i binari tracciati dalla Consulta. È una strada controversa. L’iniziativa interseca materie diverse, alcune riservate allo Stato, altre condivise con le Regioni. Interpellata, l’Avvocatura dello Stato non ha escluso che la legge, se approvata, “potrebbe esporsi a rilievi di non conformità” al riparto costituzionale delle competenze legislative tra Stato e Regioni. All’opposto, Abruzzo, Emilia-Romagna, Friuli, Piemonte, Toscana, Veneto, l’hanno valutata ammissibile in quanto rientrante nelle proprie prerogative, costituzionali e statutarie. È una strada in salita. Assente una disciplina statale, i principi fondamentali della materia - vincolanti le leggi regionali - vanno desunti dal quadro normativo che a livello nazionale è andato emergendo, giudicato costituzionale incluso. Il che espone l’eventuale legge regionale a ricorso statale, per omissioni o errori interpretativi. È una strada stretta. Le Regioni non possono creare nuovi diritti. Possono solo dettare norme di organizzazione che rendano esercitabile, nell’ambito del SSN, quanto riconosciuto dalla sent. n. 242/2019. Ecco perché l’iniziativa legislativa popolare si limita a pochi articoli essenziali. È, tuttavia, una strada che va esplorata, nel tentativo di eliminare le tante incertezze - spesso di matrice ideologica - che crescono come funghi in assenza di regole. 4. Il Veneto è stata la prima Regione a discutere l’iniziativa legislativa popolare. È andata com’è andata: 25 voti a favore, 22 contro, 3 astenuti (equivalenti ad altrettanti voti contrari). Serviva la maggioranza assoluta dei 50 presenti, mancata quindi per un solo voto. Affermare con sdegno che la legge avrebbe autorizzato il suicidio medicalmente assistito è falso, giacché la sua non punibilità - alle condizioni indicate dalla sentenza n. 242/2019 - è già norma dell’ordinamento. “È materia di competenza esclusiva dello Stato”, hanno sostenuto - con ampia dose d’ipocrisia - consiglieri di politiche alle quali va imputata, a livello nazionale, l’assoluta inerzia parlamentare. Essersi appellati al dovere di tutelare la vulnerabilità dell’aspirante suicida, concretamente significa costringere il malato terminale ad attendere per mesi, in condizioni di sofferenza estrema, prima di poter esercitare una facoltà costituzionalmente dovuta. La denuncia di lacune normative nel testo (in tema di obiezione di coscienza o di età minima, sotto la quale non poter attivare la procedura) sembra ignorare che lo spazio d’intervento per la legge regionale non può andare oltre l’organizzazione dei servizi sanitari, senza introdurre nuovi diritti o condizioni ulteriori a quelle incapsulate nel dispositivo della sent. n. 242/2019; peraltro, un disegno di legge è sempre emendabile, nel rispetto della competenza materiale esercitata. Chi invece ha votato contro temendo una disomogeneità normativa nel Paese, non si avvede che già oggi è così, con Regioni dove il giudicato costituzionale trova applicazione secondo modalità differenti (in via amministrativa o in esecuzione di provvedimento giurisdizionale) e tempi molto variabili, spesso insopportabilmente lunghi. Infine, chi - pur sapendo che l’astensione equivale a un voto contrario - in nome della propria coscienza ha deciso della non-vita altrui, si è reso responsabile di un atto che non è di coerenza, ma di arroganza. Le scelte di coscienza sono tali se ricadono nella propria sfera giuridica, non in quella di altri, e sono autentiche quando non sono a costo zero, ma comportano un prezzo personale da pagare. 5. C’è un denominatore comune tra il voto veneto e la persistente anomia legislativa statale: il rifiuto della breccia aperta dalla sent. n. 242/2019. Cos’altro prova l’esplicita bocciatura dell’art. 2 del disegno di legge regionale che, nel prevedere i “requisiti per l’accesso al suicidio medicalmente assistito”, ricalca il giudicato costituzionale? Una sentenza - ci si è spinti a dire in dottrina - “esorbitante” e “discutibile”, prodigiosamente trasformata in legge quando, in realtà, “non ha sancito alcun diritto all’assistenza al suicidio” né “alcun dovere del SSN di offrire il relativo “servizio”. Ma - si può replicare - così svanisce una prestazione medicalmente assistita di carattere pubblico, costituzionalmente fondata. Né si vede come possa operare la scriminante introdotta dalla Consulta, in assenza di una procedura pubblica (salvo non si pretendano disobbedienze civili, imputazioni e -solo poi - proscioglimenti). La sent. n. 242/2019? Tamquam non esset. Invece, per quanto in grave ritardo, le istituzioni sono chiamate a darvi coerente applicazione, Regioni comprese. Fine vita, sul suicidio assistito la parola torna alla Consulta di Francesca Spasiano Il Dubbio, 23 gennaio 2024 Il Gip di Firenze solleva la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 580 del codice penale, già modificato dalla Corte con la sentenza sul caso Dj Fabo. Non è la prima volta, ma potrebbe essere l’ultima. A distanza di cinque anni dalla storica sentenza 242 del 2019, la cosiddetta Antoniani/ Cappato sul caso Dj Fabo, la Consulta torna ad esprimersi sul fine vita. Con la possibilità di definire una volta per tutte la disciplina che attualmente regola l’accesso al suicidio assistito in Italia in mancanza di una legge in materia. La Gip di Firenze Agnese De Girolamo ha infatti sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 580 del codice penale, istigazione o aiuto al suicidio, per contrasto con gli articoli 2, 3, 13, 32, e 117 della Carta, e di quest’ultimo in riferimento agli articoli 8 e 14 della Convenzione Edu. Il nodo riguarda uno dei quattro requisiti previsti dalla Consulta, che ha in parte legalizzato l’accesso al suicidio assistito in presenza di determinate condizioni: che la persona malata sia affetta da una patologia irreversibile, che sia capace di autodeterminarsi, che reputi intollerabili le sofferenze fisiche o psicologiche che la malattia determina e, infine, che sia dipendente da trattamenti di sostegno vitale. Quattro requisiti, dunque, in base ai quali si esclude la punibilità di chi fornisce l’aiuto alla morte volontaria. Il caso in esame ha a che fare con l’ultimo punto, il “sostegno vitale”, che rischia di discriminare alcuni pazienti se interpretato in maniera restrittiva: molti dei malati che vorrebbero accedere alla procedura, e in particolari i malati oncologici, non dipendono da un macchinario al quale “staccare la spina”, ma per rimanere in vita hanno bisogno di molte altre cose un’assistenza costante, un farmaco, o una terapia. Come nel caso di Massimiliano, il 44enne toscano affetto da sclerosi multipla dalla cui vicenda scaturisce il procedimento nei confronti di Felicetta Maltese e Chiara Lalli, che nel dicembre 2022 lo hanno accompagnato in una clinica in Svizzera per poter ricorrere al suicidio assistito. Insieme a Marco Cappato dell’Associazione Coscioni, entrambe si sono denunciate presso la stazione dei carabinieri di Firenze, e un anno dopo, lo scorso 23 novembre, si è tenuta l’udienza davanti al gip. La quale, a seguito della richiesta di archiviazione della procura, il 17 gennaio ha emesso l’ordinanza di rimessione alla Consulta. “Allo stato la richiesta di archiviazione non potrebbe essere accolta”, spiega la giudice, perché “la condotta degli indagati rientra nell’ambito di applicazione dell’articolo 580 del codice penale, in particolare nella fattispecie di aiuto al suicidio, senza che possa beneficiare della causa di non punibilità introdotta” con la sentenza 242. “Nel caso di specie sussistono tutti gli elementi costitutivi del titolo di reato in origine ipotizzato dal pubblico ministero”, si legge nell’ordinanza. Si esclude il reato di istigazione, avendo Massimiliano scelto autonomamente di porre fine alla propria vita autosomministrandosi il farmaco letale, ma resta l’ipotesi di aiuto, per la “cooperazione e partecipazione materiale alla realizzazione del sucidio” da parte degli indagati. I quali rischiano dai cinque ai 12 anni di carcere. La Consulta, come si è detto, aveva già affrontato la questione e sollecitato il legislatore a colmare il vuoto in materia. Ma di fronte all’inerzia del Parlamento, ogni caso dipende dall’interpretazione che il giudice fa della sentenza 242. “Una disciplina che appare sospettabile di legittimità costituzionale sotto diversi profili”, come ha spiegato la stessa procura nella richiesta di archiviazione: pur ritenendo che Massimiliano non dipendesse da un “sostegno vitale”, neanche in senso allargato, il pm ritiene che ciò non dovrebbe impedire al giudice l’applicazione della causa di non punibilità, perché il requisito in discussione “discrimina irragionevolmente tra situazioni per il resto identiche, poiché impedisce l’accesso al suicidio assistito di persone che pure presentano una malattia irreversibile e una sofferenza intollerabile”. “Come Massimiliano, molte altre persone hanno tre requisiti su quattro e non possono e non hanno potuto scegliere. Come Massimiliano, molte persone non vogliono più vivere e dovrebbe essere un loro diritto scegliere”, dice al Dubbio Chiara Lalli. “Siamo fiduciosi nel lavoro dei giudici della Consulta”, chiosa Filomena Gallo, segretaria dell’associazione Coscioni, difensore e coordinatrice del collegio legale. Chissà che questa volta scrivano davvero la parola fine. “Discriminatorio”: il suicidio assistito torna in Consulta di Eleonora Martini Il Manifesto, 23 gennaio 2024 Il tribunale di Firenze rinvia alla Corte costituzionale l’art. 580 del codice penale per i requisiti richiesti al malato nella sentenza 242/2019. Il caso di Mib, costretto a recarsi in Svizzera aiutato dall’associazione Luca Coscioni poiché non era “tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale”. La prima volta fu nel 2019, quando stabilì la costituzionalità del diritto dei malati terminali italiani ad ottenere dal Sistema sanitario nazionale, in determinate condizioni, l’assistenza medica al suicidio. La seconda volta, nel febbraio 2022, dichiarò invece inammissibili i quesiti referendari sull’”eutanasia legale”. Ora la Corte costituzionale si pronuncerà per la terza volta sul fine vita, e in particolare sulla questione sollevata dal Tribunale di Firenze che riguarda uno dei quattro requisiti richiesti dalla stessa Consulta per la non punibilità dell’aiuto al suicidio: la dipendenza del malato terminale da un “trattamento di sostegno vitale”. Il caso su cui la Gip di Firenze, Agnese De Girolamo, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale riguarda il suicidio assistito di Massimiliano, detto Mib, 44enne di San Vincenzo (Livorno) che morì l’8 dicembre 2022 in una clinica vicino a Zurigo, tre giorni dopo aver diffuso un appello, tramite l’associazione Coscioni, in cui spiegava di soffrire da 6 anni “di una sclerosi multipla che mi ha già paralizzato” e di voler “essere aiutato a morire senza soffrire in Italia, ma non posso, perché non dipendo da trattamenti vitali”. Lo accompagnarono in Svizzera, nel suo ultimo viaggio, l’attivista dell’associazione Coscioni, Felicetta Maltese, e la giornalista Chiara Lalli, che il giorno dopo si autodenunciarono ai carabinieri di Firenze insieme al tesoriere Marco Cappato in qualità di legale rappresentante dell’Associazione Soccorso Civile che aveva organizzato e finanziato il viaggio di Massimiliano. Ad ottobre, il pm e la difesa avevano chiesto per loro l’archiviazione, ma lo scorso 23 novembre la Gip ha rigettato l’istanza proprio perché a Massimiliano mancava il quarto requisito richiesto dalla Consulta (oltre alla patologia irreversibile, le intollerabili sofferenze fisiche o psicologiche, e la capacità piena del paziente di prendere decisioni libere e consapevoli) nella sentenza 242/2019 Cappato/Dj Fabo. Per la giudice De Girolamo, infatti, è “rilevante e non manifestamente infondata - scrive nell’ordinanza emessa il 17 gennaio - la questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 codice penale, come modificato dalla sentenza n. 242 del 2019 della Corte costituzionale, nella parte in cui richiede che la non punibilità di chi agevola l’altrui suicidio sia subordinata” alla “tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale” dell’aspirante suicida. Secondo la Gip questa condizione potrebbe essere in contrasto “con gli artt. 2, 3, 13, 32 e 117 della Costituzione, quest’ultimo in riferimento agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo”. In caso di condanna, gli indagati rischiano dai 5 ai 12 anni di carcere. Ma l’avvocata Filomena Gallo, segretaria dell’associazione Coscioni e a capo del collegio di difesa degli imputati, si dichiara “fiduciosa” nel lavoro dei giudici della Consulta: “Il trattamento di sostegno vitale - spiega - se interpretato in senso restrittivo, è un requisito discriminatorio in quanto non incide sulla capacità di prendere decisioni, sulla irreversibilità della malattia, né sulle sofferenze intollerabili”. E infatti, aggiunge Gallo, “non è previsto in nessuna norma straniera sul fine vita”. L’associazione Coscioni ricorda che a causa di questo requisito imposto, “tanti italiani come Massimiliano (Toscana), Elena (Veneto), Romano e Margherita Botto (Lombardia), Paola (Emilia Romagna), Sibilla Barbieri (Lazio) sono stati costretti ad andare in Svizzera per poter avere accesso al suicidio assistito”. La consulta aveva comunque anche sollecitato il legislatore a normare il fine vita, ma il Parlamento latita. Motivo per il quale l’associazione Coscioni sta raccogliendo le firme per presentare in ogni regione la legge di iniziativa popolare “Liberi subito” che garantisce tempi certi, adeguati e definiti per il controllo dei requisiti dell’aspirante suicida, e l’intervento del Ssn. In Veneto una settimana fa la legge è stata bocciata, ma in altre regioni la proposta o altri testi simili sono stati già depositati. Prossimo appuntamento, in Lombardia. Dove la Regione sta vagliando le oltre 8 mila firme depositate, ed entro il 2 febbraio dovrà pronunciarsi sull’ammissibilità della pdl. Tempi che potrebbero allungarsi se i proponenti della legge fossero chiamati in audizione dall’Ufficio di presidenza. Il quale può decidere solo all’unanimità, altrimenti la parola passa all’aula del consiglio regionale. La strada è lunga, ma a rimetterci sono solo i malati che soffrono e aspettano. Freddo e violenza, la strage silenziosa dei clochard di Marco Birolini Avvenire, 23 gennaio 2024 Nel 2023 sono morti 415 senza tetto. Ma tra le cause dei decessi non c’è solo il gelo. Sono 49 le vittime di violenza. L’ultimo delitto a Torino: un polacco ucciso a colpi di pistola. Nei mesi invernali del 2023 sono morte 133 persone senza dimora: un balzo deciso rispetto alle 86 del 2022, a conferma del fatto che, nonostante gli sforzi messi in campo a più livelli, il freddo stagionale continua a rappresentare un problema in più per chi vive in strada. L’ultimo a morire di freddo è stato un 40enne, trovato senza vita nella serata di domenica in un’area dismessa della stazione di Varese. L’anno scorso le vittime dell’ipotermia erano state 15. La strage degli “invisibili”, però, dura tutto l’anno, con numeri in tragica crescita: 415 morti, mentre nel 2022 erano stati 399. E il 2024 non dà grandi motivi di speranza, visto che in meno di un mese ci sono già stati 30 decessi. Si muore d’inverno, ma anche in estate (102), in primavera (70) e in autunno (110). I clochard muoiono soli, spesso (154 casi, il 40% del totale) per malattie aggravate dalle condizioni di miseria in cui sono immersi. Dopo le malattie, però, la seconda causa di morte è la violenza: 49 i clochard morti nel 2023 in conseguenza di reato. Nei giorni scorsi un nuovo caso, sfociato in omicidio. Un 43enne ucciso a colpi di pistola - Cinque colpi di pistola hanno spezzato la vita “invisibile” di un polacco 43enne. Margin Wojciechowski è stato trovato sabato nei boschi di Venaria, vicino a Torino, a ridosso dei binari della ferrovia, poco distante dal bivacco di fortuna che si era costruito. Sul corpo del clochard sono risultati subito evidenti dei segni di ferite: inizialmente si era pensato a un accoltellamento, ma l’autopsia ha rivelato che il senza tetto è stato ucciso da un’arma da fuoco di piccolo calibro. Sul caso indagano i carabinieri di Ivrea e gli uomini del nucleo investigativo del comando di Torino, che stanno cercando di restringere il campo delle ipotesi. L’arma del delitto non è ancora stata trovata, così come non ci sono al momento sospettati: un delitto ancora tutto da decifrare, e che conferma come i pericoli, per chi vive senza avere un tetto sopra la testa, non arrivino soltanto dal freddo. Il nuovo report della Fio.Psd (Federazione Italiana Organismi per le Persone Senza Dimora) spiega che il 42% dei decessi tra i clochard (ne sono morti già 30 in questo avvio di 2024) deriva da un evento violento o traumatico. Vivere tra quattro mura non ripara solo dai rigori dell’inverno, ma anche e soprattutto da aggressioni e incidenti. Senza avere una membrana domestica attorno, si è giocoforza esposti a rischi di ogni sorta. Non a caso la Fio.Psd batte con insistenza proprio su questo tasto. “La casa è ciò che manca alle persone senza dimora, la base per una vita stabile e sicura dalla quale ripartire” ha sottolineato ieri la presidente Cristina Avonto. Il petardo contro la senza dimora - Ma non è solo il giallo di Venaria a riportare all’attenzione delle cronache (spesso distratte) la questione degli homeless. Ieri le suore benedettine di Boville Ernica, nel Frusinate, hanno diffuso un video che suscita sdegno. Le riprese delle telecamere di sicurezza, in bianco e nero ma nitide, mostrano una donna che dorme fuori dal portone del monastero, avvolta nelle coperte. A un tratto si vede arrivare un ragazzo, raggiunto di lì a poco da altri tre: il gruppo accende un razzetto e lo spara verso la vittima. Mentre l’ordigno esplode con fragore, il quartetto si dà alla fuga. Per fortuna la donna si è solo spaventata, svegliandosi di soprassalto, ma non ha riportato conseguenze. Già identificati gli autori dell’odioso gesto: sono tutti minorenni, uno ha poco più di tredici anni. I carabinieri li segnaleranno alla procura dei minori per violenza privata, accensioni ed esplosioni pericolose: la vittima ha già sporto denuncia. Le suore (criticate da qualcuno per aver postato su Facebook un video con immagini di minori) hanno poi spiegato che la signora ha in realtà un’abitazione, che le è stata assegnata dal Comune in sostituzione di quella fatiscente dove risiedeva. Ma lei rifiuta di vivere in entrambe, scegliendo di stare nel piazzale davanti al monastero in compagnia dei suoi cani. Un dramma personale come ce ne sono troppi, favoriti dall’indifferenza generale. Gli ultimi casi, con esito tragico, nei giorni scorsi a Milano. Un senzatetto (senza documenti), soccorso in Porta Ticinese, è morto in ospedale dopo esservi stato portato dagli operatori del 118 e dagli agenti della Polizia locale. Quando è stato trovato era già in arresto cardiaco, inutile la corsa al Policlinico. Un altro senzatetto, un romeno di 57 anni, era stato trovato morto poche ore prima vicino a una chiesa in via Saponaro, alla periferia della città: anche per lui un malore si è rivelato fatale. Le grandi aree urbane, secondo il report della Fio.Psd, restano quelle con più vittime: nel 2023 a Roma sono morti 44 clochard, a Milano 22. Al terzo posto, insieme a Torino, si è piazzato tristemente Bergamo, nonostante gli sforzi messi in campo da Comune e Caritas: 9 i decessi nella città lombarda, uno in più di Bologna. Seguono Brescia e Genova con 7. Ma sono 215 i comuni italiani ad aver registrato almeno un decesso fra i senza dimora. Segno che l’emergenza è diffusa e riguarda tutti. Migranti. Più arrivi via mare, meno presunti scafisti in arresto di Giansandro Merli Il Manifesto, 23 gennaio 2024 I dati delle associazioni registrano un’inversione di tendenza: 177 nel 2023. L’anno precedente erano stati 261 con un numero di sbarchi inferiore del 50%. “Ma la criminalizzazione resta un elemento cardine delle politiche italiane ed europee”, avverte Sara Traylor, tra le curatrici dello studio. Lo scorso anno gli arrivi via mare sono aumentati, i presunti scafisti finiti in arresto sono invece diminuiti. Ancora una volta i numeri sull’immigrazione smentiscono il governo, le sue promesse roboanti e la continua costruzione di nemici pubblici da incolpare di questo o quel fenomeno sociale di larga portata. Stando ai dati, infatti, la caccia “agli scafisti lungo tutto il globo terracqueo” che avrebbe dovuto “rompere le tratta” di migranti, parole pronunciate da Giorgia Meloni a Cutro quasi un anno fa, ha rallentato invece di accelerare. I conti li fanno le associazioni Arci Porco Rosso e Bordeline-Europe che da tempo seguono le persone accusate di guidare le barche dei migranti e nei prossimi giorni presenteranno un nuovo report. Attraverso un monitoraggio quotidiano della stampa locale e nazionale le due organizzazioni stimano in 177 i presunti “scafisti” - definizione cui preferiscono quella di “capitani”, usata dagli stessi migranti - tratti in arresto lo scorso anno. Le cifre non sono ufficiali, ma negli anni scorsi con quel tipo di rilevazione hanno permesso di individuare due terzi del totale degli arrestati resi pubblici successivamente dalla polizia. Si arriverebbe così a circa 250 casi. Nel 2022 erano stati 261. Più che il confronto in termini assoluti conta quello relativo agli sbarchi che da un anno all’altro sono cresciuti del 50% (da 105mila a 157mila). “Nel 2023 sono state arrestate circa tre persone ogni 200 arrivi. Nel 2021 e nel 2022 il tasso di criminalizzazione era due volte più alto”, scrivono le associazioni che calcolano 3.250 arresti dal 2013. È utile ricordare che in tutti questi casi non si parla di trafficanti. Chi organizza i viaggi e realizza grossi profitti sull’assenza di canali legali di ingresso in Europa non sale sui barconi a rischio naufragio. Chi guida le barche invece, come raccontano il film Io capitano e tante storie uscite dai tribunali negli ultimi dieci anni, spesso lo fa per evitare violenze, sotto la minaccia delle armi o perché impossibilitato a pagarsi il viaggio. Molte volte manca la percezione di andare incontro a conseguenze penali gravissime. Le Associazioni ipotizzano due spiegazioni per questo trend: il fatto che le navi Ong siano indirizzate sistematicamente in porti del nord dove ci sarebbe meno interesse ad arrestare gli scafisti e i Gip locali tenderebbero a non convalidare fermi basati su prove deboli; una diversa politica ad Agrigento e Lampedusa che invece di arresti sistematici dopo gli sbarchi si concentra su casi specifici in cui si registrano morti durante il viaggio, torture o, per la prima volta, anche pirateria. Su questo secondo aspetto, il più rilevante, il procuratore aggiunto di Agrigento Salvatore Vella ha spiegato in un’intervista a Repubblica che lo scorso anno c’è stato un forte aumento dei barchini in ferro partiti dalla Tunisia su cui “è difficile individuare un soggetto che abbia realmente commesso il reato e non ne sia vittima”. Nel frattempo molti arresti sono stati realizzati nei porti della Sicilia orientale e della Calabria. La prima provenienza dei presunti scafisti, come nel 2021-2022, resta l’Egitto. Nell’ultimo triennio sono stati circa 300 i cittadini di quel paese portati in carcere. Una significativa differenza in termini di nazionalità si registra sulla rotta ionica, che parte dalla Turchia e finisce sulle coste calabresi. Qui fino al 2021 la maggior parte delle persone finite nei guai perché alla guida delle barche erano russi e ucraini. Le cose sono cambiate dall’anno seguente, con l’invasione ordinata da Putin. Le persone fermate lo scorso anno venivano soprattutto da Kazakistan, Turkmenistan, Tagikistan. In totale sono una quarantina e si trovano in prigione. “Nonostante per ora siano diminuiti gli arresti, la strategia politica rimane la stessa: la criminalizzazione dei capitani è un elemento cardine delle politiche italiane ed europee - dice Sara Traylor, di Arci Porco Rosso - Lo dimostra il decreto Cutro che inasprisce le pene. A marzo 2023 nelle carceri italiane risultavano più di 1.000 persone con accuse di questo tipo. Finché il numero non si azzererà il fenomeno rimarrà oggetto di forte contestazione per chi difende la libertà di movimento”. Rischiavano l’ergastolo, assolti a Messina quattro egiziani Il peschereccio era partito dalla Libia a luglio 2022 con 674 persone. Soccorse dalle autorità italiane, sono fatte sbarcare in diversi porti. 179 a Messina. Qui quattro egiziani vengono indicati come gli scafisti. Accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e morte come conseguenza di altro delitto i ragazzi, tra 18 e 24 anni, rischiano l’ergastolo. Ma gli avvocati Rosetta Carcione, Andrea Caristi, Eleonora Caruso e Francesco Cardaci ne dimostrano l’innocenza. Tutti assolti a dicembre scorso. Le motivazioni arriveranno entro due mesi, intanto si possono fare delle ipotesi. “Per la ricostruzione del fatto il giudice non aveva altri elementi oltre le sommarie informazioni rese da testimoni non intervenuti nel dibattimento. Sono stati sentiti solo tre migranti, su quasi 700, che hanno fornito dichiarazioni contrastanti”, afferma l’avvocato Cardaci. È poi risultato chiaro che gli imputati non avevano partecipato alla preparazione del viaggio: a terra gli uomini armati erano libici. Alcuni di loro avrebbero guidato il peschereccio inizialmente, per poi dileguarsi. Solo a quel punto a bordo si sono organizzati per evitare il peggio in attesa dei soccorsi. Ai quattro è andata bene: in casi analoghi, dove è mancato l’impegno delle difese, l’esito è stato diverso. In prigione per un processo nullo. La Cassazione: tutto da rifare Quella di Michael B. è una storia kafkiana. Il cittadino nigeriano sbarca ad Augusta nel 2014, ha 22 anni. Tre eritrei lo accusano: è lo scafista. Sottoposto a fermo, riceve un avvocato d’ufficio che non si presenta all’udienza di convalida. Così il Gip individua un legale “immediatamente reperibile”. Senza conoscere le conseguenze il migrante elegge domicilio presso il difensore. Quello d’ufficio viene depennato senza motivo, l’altro non solleva eccezioni e porta avanti il processo. Quando nel 2019 arriva la condanna - 4 anni e 8 mesi più un milione di euro di multa - non fa appello. L’imputato non viene mai informato di quanto accade nel tribunale di Catania. Vive regolarmente in un centro d’accoglienza a Perugia, ottiene il permesso di soggiorno per motivi umanitari. Nel 2021 viene arrestato mentre cerca di rinnovarlo. “Ero in contatto con lui per quella pratica. Acquisite le carte mi sono trovata davanti una vicenda penale gravissima in cui non sono stati garantiti i diritti alla difesa e al giusto processo”, afferma l’avvocata Alessia Arcangeli. La legale presenta istanza di rescissione alla corte d’appello di Catania, che la respinge. La Cassazione, però, le dà ragione. Michael B. intanto ha trascorso un anno e mezzo in carcere. Ora il processo è da rifare. Dopo sette anni di carcere chiede la revisione del processo Quando nell’autunno 2015 Diouf Alaji è arrivato nel porto di Taranto, dopo un soccorso multiplo operato da assetti italiani, credeva di essere finalmente al sicuro. Invece è finito in carcere, accusato di essere lo scafista di un gommone su cui viaggiavano oltre 100 persone di cui 8 erano morte per soffocamento. Il processo si è svolto con rito abbreviato e difensore d’ufficio. In primo grado la condanna a 12 anni, in secondo a 8. Alaji è rimasto in carcere dall’ottobre 2015 all’aprile 2022. Non parlava italiano e ha denunciato di non aver compreso le accuse mosse contro di lui. Adesso, grazie al sostegno di Baobab Experience e dell’avvocato Francesco Romeo, vuole la revisione del processo: si è sempre dichiarato innocente. “Abbiamo chiesto a prefettura e questura di Taranto l’elenco delle altre persone soccorse, che viaggiavano su diversi mezzi. In totale erano circa 600 e solo una ha puntato il dito contro Alaji. Per ora abbiamo avuto risposta negativa ma procederemo comunque alla richiesta di revisione, davanti alla Corte di appello di Potenza, quella competente”, afferma Romeo. Dal caso nasce la campagna “Capitani coraggiosi” per la revisione dell’art. 12 Testo unico immigrazione sul favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Gli allarmi e i silenzi. L’opacità sulle operazioni di soccorso agli immigrati in mare di Vitalba Azzollini* Il Domani, 23 gennaio 2024 Se non ci fosse stato Sergio Scandura di Radio Radicale, probabilmente non avremmo avuto costanti notizie sulle ricerche di un’imbarcazione con circa 40 persone a bordo, dispersa dal 12 gennaio, per la quale Alarm Phone aveva lanciato l’allarme. Nulla di strano - si potrebbe dire - i giornalisti hanno il compito di informare. Invece, c’è di strano che tace chi avrebbe l’obbligo di riferire quanto succede in mare: il comando generale della Guardia costiera. Per il caso del 12 gennaio, solo quattro giorni dopo è stato diramato un lacunoso comunicato ufficiale, inidoneo a permettere a eventuali navi di soccorso, oltre che agli organi di informazione, di sapere esattamente dove fosse accaduto l’evento. Nel dicembre scorso, per una nave dispersa con 61 persone non c’era stato nemmeno un comunicato, e ciò ha concorso ad alimentare i molti dubbi sulla vicenda, conclusasi con un naufragio. L’obbligo di informazione della Guardia costiera - Il “Piano nazionale per la ricerca ed il salvataggio in mare”, adottato da ultimo con decreto del ministero dei Trasporti del 4 febbraio 2021, contiene una parte dedicata ai “rapporti con gli organi d’informazione”, presente anche nel Piano precedente. Con riguardo “ai sinistri, alle emergenze che ne derivano ed alle misure che vengono adottate”, l’informazione dev’essere “la più possibile rapida, obiettiva ed uniforme”, rispondente a “requisiti di chiarezza e realismo”, con notizie “concise, accurate, complete e coerenti”, “date con tempestività, regolarità e cadenza fissa, possibilmente giornaliera”. Nel Piano si indicano le figure della Guardia Costiera incaricate dei contatti con i media, “ciò al fine di diffondere notizie che abbiano caratteristica di univocità e di ufficialità”. Se durante una grave emergenza in mare non viene diffuso dalla Guardia costiera nemmeno un comunicato, o ne viene diffuso uno dopo diversi giorni, in violazione di quanto previsto nel Piano - per cui ci si deve affidare a rilevazioni e tracciamenti di Scandura - c’è qualcosa che non torna. E non è tutto. Le navi delle ONG e l’effetto chilling - Oltre a questa sorta di “segreto di stato” sulle operazioni in mare, sono sempre più carenti anche le informazioni fornite dalle navi delle organizzazioni non governative (ONG). È probabile che regole onerose e arbitrarie, le quali impongono obblighi sproporzionati, tra cui quello di sbarcare i naufraghi in porti lontani, e soprattutto il rischio di multe e confische delle navi stiano determinando una sorta di effetto “paralizzante”, cioè intimidatorio (chilling effect). Il timore di possibili conseguenze legali può scoraggiare anche la trasparenza da parte di chi opera salvataggi in mare. Il riferimento è alle normative dell’ultimo anno sulle ONG, in primis al decreto del gennaio 2023, voluto dal ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi. In base a tale decreto, Ocean Viking è stata sequestrata giorni fa per aver modificato la rotta assegnata dall’autorità competente dopo un salvataggio, per effettuarne un altro poco distante. Qualche mese fa era toccato alla Sea-Eye 4, sottoposta a fermo amministrativo e multata per la stessa condotta. La possibilità di un effetto intimidatorio era stata paventata nel febbraio scorso da Dunja Mijatovic, commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa, la quale aveva chiesto al governo italiano di “ritirare” il decreto Piantedosi, ma inutilmente. L’informazione che non esiste - “Dal 2018 le autorità hanno smesso di dare comunicazioni sui salvataggi e sulle intercettazioni. Non pubblicano più dati sugli arrivi o sulla provenienza esatta. Le immagini sono pochissime, i giornalisti non possono seguire le operazioni di soccorso e spesso sono allontanati dai posti dove avvengono gli sbarchi”, spiegava Scandura mesi fa, in un’intervista a Internazionale. L’opacità ebbe inizio in concomitanza con la firma del Memorandum con la Libia, ed è poi proseguita, facendo mancare un’informazione che è non solo necessaria, ma anche dovuta, in spregio al diritto alla conoscenza dei cittadini. Se la Guardia Costiera non emette comunicati informativi, o li emette con notevole ritardo e molte lacune, e se il timore di conseguenze “ritorsive” dissuade le navi delle ONG dal fornire dettagli su attività operative, certe notizie ufficialmente non esistono. E se certe notizie non esistono, può accadere che un ministro - Matteo Salvini - sostenga con disinvoltura in tribunale che, quando era al vertice del dicastero dell’Interno, non ci sono stati morti in mare. Tutto si tiene, come sempre. Aggressioni, insulti, minacce: cresce l’antisemitismo in Italia di Luca Monticelli La Stampa, 23 gennaio 2024 Casi più che raddoppiati dal 7 ottobre rispetto agli anni precedenti. Gli episodi si registrano da Nord a Sud. Un’ondata di antisemitismo che non si è mai vista negli ultimi quarant’anni. Per respirare un clima simile bisogna tornare alla guerra in Libano dell’82. In Italia non c’è ancora una situazione di massima allerta come in Francia, ma l’atmosfera sì è fatta tossica: i cittadini di religione ebraica e gli israeliani che studiano e lavorano nel nostro Paese si sentono in pericolo. Dal 7 ottobre, il giorno dell’assalto di Hamas ai kibbutz al confine con la Striscia di Gaza, e del massacro al festival musicale Supernova nel deserto del Negev, i casi di antisemitismo sono raddoppiati. Addirittura triplicati se si prende in considerazione il primo mese di guerra a Gaza. L’Osservatorio antisemitismo del Cdec, la Fondazione centro di documentazione ebraica contemporanea, ha registrato 73 segnalazioni a ottobre, 72 a novembre, 67 a dicembre. Il totale degli episodi verificati dal Cdec nel 2023 è di 454, nel 2022 i casi registrati erano stati 241, nel 2021 furono 226. La guerra a Gaza ha comportato una recrudescenza di odio nei confronti degli ebrei di tutto il mondo, anche quelli italiani patiscono offese, umiliazioni e magari sono costretti a nascondere i simboli religiosi. Secondo un sondaggio dell’Ugei (l’Unione giovani ebrei d’Italia) l’83% dei ragazzi delle comunità nota un aumento dell’antisemitismo e perciò ha cambiato la propria quotidianità per paura di subire aggressioni. Il 60% dei giovani che hanno partecipato al sondaggio temono che la loro identità ebraica possa costituire un motivo di discriminazione sul posto di lavoro o di studio, e uno su due dichiara di avere assistito o di essere stato vittima di almeno un episodio di antisemitismo negli ultimi mesi. L’Ugei commenta così i risultati del report: “Sono allarmanti e ci fanno riflettere sul modo in cui la critica legittima nei confronti dello Stato di Israele si sia trasformata in manifestazioni di violenza verbale e fisica, demonizzazione del popolo ebraico e glorificazione del terrorismo”. Ci sono Università - come quella di Cagliari - che vogliono interrompere le relazioni e i progetti di ricerca con gli atenei israeliani; i centri sociali si scagliano contro la fiera di Vicenza sull’oro perché ci sono tre stand israeliani su oltre mille; i fumettisti boicottano la mostra del fumetto di Lucca perché la locandina è realizzata da un artista israeliano e ha ricevuto il patrocinio dell’ambasciata. Per non parlare del saluto romano ad Acca Larentia, un gesto che incita alla violenza. Tutto questo accade perché una parte del mondo della cultura, dei media e della politica sta di fatto incolpando gli ebrei di tutto il mondo per le migliaia di vittime palestinesi. Una criminalizzazione e un fragore mediatico che costringe molte famiglie a togliere la mezuzah dallo stipite della porta di casa o a non parlare in ebraico in pubblico. Sul sito dell’Osservatorio del Cdec periodicamente vengono verificate e poi inserite tutte le segnalazioni antisemite; al di là di quelle che riguardano il web e i social, sono in crescita le aggressioni, gli insulti, le minacce nella vita reale. Graffiti a Napoli: “i sionisti non sono benvenuti” - Un gruppo di studenti israeliani che frequenta la facoltà di medicina a Bologna ha raccontato il disagio per aver subito insulti da colleghi arabi, questi giovani adesso hanno paura ad andare all’Università. Alcune ragazze sono state coperte di offese e sputi fuori dal tempio a Firenze. In un bar di Milano, vicino al quartiere ebraico, sono comparsi volantini minatori. Sempre a Milano, in un altro locale, il proprietario ha trovato la scritta “i sionisti non sono benvenuti”. All’università Statale un ragazzo americano è stato aggredito perché indossava una collana con la stella di David. A Livorno è comparsa la scritta “W Hamas”, e in un mercato della città toscana alcuni bambini giocavano a calcio con la testa di un manichino con scritte antisemite. A Bosio, in provincia di Alessandria, sul muro della casa di una famiglia di origine ebraica è stata disegnata una stella di David. Episodi simili sono successi in tutte le grandi città italiane, con stelle di David e svastiche disegnate per le strade e persino negli ascensori di alcuni condomini. L’ultima scritta con insulti è stata rinvenuta in via San Barnaba a Milano, vicino alla sinagoga. A Varese è stata vandalizzata una targa per Liliana Segre, a Roma deturpate diverse pietre d’inciampo, a Fano è comparso uno striscione che giustifica la violenza carnale contro donne ebree. A Torino, in zona universitaria, sono stati diffusi volantini con vignette che ritraggono gli israeliani secondo i dettami dell’iconografia antisemita. Dare voce e giustizia agli invisibili di Rosario Aitala* Avvenire, 23 gennaio 2024 “Non c’è pace senza giustizia”. La massima risale agli anni Ottanta, quando iniziò a risuonare nelle proteste per le strade americane. Marca un nesso che si vorrebbe indissolubile e a senso unico. La formula originale era però più articolata. 14 gennaio 1968, Alameda, California. L’America è dilaniata dal conflitto vietnamita e Martin Luther King parla a una piccola folla davanti al penitenziario Santa Rita dove ha fatto visita a Joan Baez, la madre e un’altra attivista arrestate per una manifestazione. Per il padre del movimento per i diritti civili e della resistenza pacifica il destino serba una morte violenta ottanta giorni più avanti. D’un tratto dice: “Non può esserci giustizia senza pace e non può esserci pace senza giustizia”. Quasi un ossimoro. King vuole mettere in relazione il movimento per i diritti civili e l’impegno per la pace. Considera le attiviste portatrici dell’obbligo morale a protestare contro l’ingiustizia della guerra. In tal senso, pace e giustizia stanno e cadono insieme. Primo gennaio 1972. Paolo VI riprende la connessione fra i due valori con una diversa sfumatura. Intitola il suo messaggio per la quinta giornata mondiale della pace: “Se vuoi la pace, lavora per la giustizia”. Si rivolge a chi esercita responsabilità pubbliche. Identifica la pace con l’ordine fissato nella legge, che è illecito infrangere. Vede nella giustizia “ciò che è e che deve essere”, una forza propulsiva che può germinare assetti migliori di quelli vigenti, che può promuovere ideali nobili, condizioni di sviluppo nazionale, sociale, economico e culturale più eque, esenti da calcoli di dominio. Spostiamoci sulle dinamiche dei conflitti armati. La pace è condizione per la giustizia o il suo obiettivo ultimo? È lecito diluire la giustizia per facilitare la pace? O rendere giustizia anche a costo di innescare o aggravare conflitti? Non ci sono risposte universali. Uno. Le atrocità di massa, attacchi a civili inermi, distruzioni, stupri, torture, terrorismi, genocidi, sono sempre atti politici. Il Male è funzionale al potere. Si uccide, si tortura, si perseguita per dominare spazi e risorse, per governare con la paura, annichilire il dissenso, soggiogare le volontà. Il sangue impregna il potere che giustifica il sangue. La giustizia penale internazionale deve accertare e sanzionare le atrocità criminali, ma non può comporre i conflitti politici che ne sono all’origine. I governi fanno la guerra e la pace. I tribunali né l’una né l’altra. La deterrenza è però una funzione significativa delle corti internazionali, che non sempre si realizza. Mentre i crimini sono in corso, una misura d’urgenza come un ordine di cattura, può indurre i belligeranti a rispettare le norme internazionali che attenuano la disumanità della guerra. Ad esempio può spingere a sospendere la deportazione dei civili del nemico, rilasciare gli ostaggi o limitare i danni incidentali alle persone incolpevoli e inermi, impiegando nei centri abitati armi di precisione invece di bombe indiscriminate. Due. Giustizia e politica non nacquero sorelle, ha scritto Francesco Carrara. Devono essere sempre reciprocamente indipendenti. Il giudice delle atrocità internazionali però è immerso nella geopolitica, cammina dentro la cronaca che si fa storia. Gli Stati possono ostacolare il corso della giustizia, impedire le indagini, proteggere i destinatari dei mandati di cattura, perseguitare giudici, procuratori, funzionari, vittime e testimoni. Non è teoria. D’altro canto, le decisioni dei giudici internazionali hanno conseguenze politiche obiettive perché accertano crimini di soggetti che agiscono in nome di governi, organizzazioni politiche e milizie. Lo Statuto della Corte penale internazionale attribuisce al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, quando agisce per il mantenimento della pace, sia il potere di sollecitare l’apertura di procedimenti, sia quello speculare di sospenderli temporaneamente. Un accordo di cessate il fuoco o di pace può, per esempio, prevedere la provvisoria sospensione di indagini e ordini di arresto. Prerogativa di per sé non irragionevole, purché se ne faccia uso meno arbitrario del potere di veto e non si giochi la pace sulla pelle dei popoli trattati come pedine. Le amnistie, che cancellano i crimini, invece non possono paralizzare l’azione della Corte quando hanno l’obiettivo di garantire l’impunità agli autori delle atrocità di massa. Tre. C’è una domanda ricorrente che viene dai sopravvissuti: “Perché noi?”. In questi tempi disperati, dare voce, speranza e fiducia agli invisibili e offrire una verità, imperfetta ma imparziale e indipendente, è il senso più profondo e umano della giustizia internazionale. L’attribuzione delle responsabilità e la riparazione morale del male ingiusto sono le precondizioni per interrompere il ciclo dell’odio e creare il tempo della pace. È una strada tortuosa che genera numerosi interrogativi. E un’unica certezza, o meglio ambizione, che Martin Luther King condensò in poche parole: “Prevarremo, perché l’arco dell’universo morale è lungo, ma tende verso la giustizia”. *Giudice della Corte penale internazionale “I regimi non potranno mai piegare il coraggio degli avvocati” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 23 gennaio 2024 Verso la Giornata degli avvocati in pericolo. Parla Leonardo Arnau, presidente della commissione Diritti umani del Cnf. In occasione della “Giornata internazionale dell’avvocato in pericolo”, il 24 gennaio, è inevitabile volgere lo sguardo a quanto accade nel “cuore dell’Europa” e nel Mediterraneo. “In questi ultimi anni - dice al Dubbio Leonardo Arnau, presidente della commissione Diritti umani del Consiglio nazionale forense - si è assistito, purtroppo, ad un progressivo deterioramento della tutela dei diritti umani, in un numero sempre maggiore di Stati e, sul piano dell’effettività, persino all’interno dell’Unione europea”. Avvocato Arnau, quest’anno il 24 gennaio assume un significato ancora più importante? Credo sia opportuno ricordare che difendere la libertà dell’esercizio della professione forense in qualunque Stato e contesto sociale, equivalga a salvaguardare lo Stato di diritto. E senza Stato di diritto non può esserci vera democrazia. Riaffermare questo principio non è mai superfluo, se solo si considera che, secondo una recente ricerca commissionata dal settimanale britannico Economist, solo il 5,7% della popolazione mondiale vive in Stati di democrazia compiuta o completa. Occorre farlo soprattutto in occasione della Giornata internazionale dell’avvocato in pericolo che si celebra ufficialmente dal 2010, il 24 gennaio, per ricordare il massacro di Atocha del 1977, a Madrid, in cui furono uccisi cinque legali esperti di diritto del lavoro, nel periodo di transizione tra la dittatura franchista e la democrazia. Una data pregna di significato per l’avvocatura, quest’anno dedicata all’Iran. L’avvocatura italiana, con l’impegno diretto del Consiglio nazionale forense, quale obiettivo intende raggiungere celebrando la “Giornata dell’avvocato in pericolo”? La giornata ha anzitutto l’obiettivo di richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sulle minacce, sulle violenze, e in molti casi, purtroppo, sugli omicidi di avvocati, in diverse parti del mondo e nei cinque continenti, colpevoli solo di aver esercitato in maniera indipendente ed autonoma la loro professione di avvocato e di spendersi per la difesa dei loro assistiti nel quadro del rispetto dei diritti fondamentali e del giusto processo, così come previsti nelle convenzioni internazionali. Ma ricorrenze evocative, come questa, ben lungi dall’essere uno stanco rito, svolgono la funzione di riaffermare la centralità, anche nel nostro sistema costituzionale, della tutela dei diritti umani e del diritto di difesa, oggi posto in discussione su più fronti. Colpire e perseguitare un avvocato ha come fine quello di intimidire una società intera? Non possiamo dimenticare che lo Stato di diritto vive sempre in un precario equilibrio ed il nostro non fa eccezione. Per questo motivo dobbiamo seguire con attenzione ciò che succede nel mondo, perché le spinte autoritarie travalicano facilmente le frontiere. Il modo in cui vengono rappresentati e trattati gli avvocati ed i difensori dei diritti umani è una spia della circolazione del virus autoritario. Gli avvocati, a qualunque latitudine, difendono la libertà e i diritti delle persone, ne sono portatori. Chi calpesta i diritti umani, in primo luogo, aggredisce l’avvocatura che ha il compito di tutelarli. In ogni angolo del mondo assistiamo ad arresti e condanne di avvocati che sono strumentali alla negazione dei diritti civili dei cittadini. La difesa degli avvocati minacciati è, dunque, la difesa di ogni persona dalle possibili prevaricazioni dello Stato. È un problema che riguarda tutti, perché ogni potere, in assenza di idonei contrappesi, ha una naturale tendenza ad espandersi, a danno di tutti i cittadini. Mettere sotto osservazione i luoghi dove questa patologia si manifesta non vuol dire ficcare il naso in questo o quello Stato straniero: significa occuparsi di sé stessi. Perché quello che oggi accade oltre le nostre frontiere è accaduto in passato da noi, potrebbe riaccadere domani e magari, in forma strisciante, sta già iniziando ad accadere. In alcuni Stati di recente si sono verificati gravi episodi ai danni degli avvocati. Il 24 gennaio servirà a sensibilizzare tutta l’opinione pubblica? Sicuramente. L’Iran, così come la Turchia, sono Stati di civiltà e cultura millenaria. I casi di Nasrin Sotoudeh, alla quale il Cnf ha conferito il Premio dell’Avvocatura italiana, consegnato simbolicamente in occasione del Congresso Nazionale Forense dello scorso dicembre, e di Ebru Timtik sono paradigmi che si ripetono nella storia e che ci riguardano da vicino. La toga di queste colleghe è il simbolo di chi non si sottomette, di chi non si piega all’ingiustizia, di chi è disposto a pagare qualsiasi prezzo perché vengano rispettati i diritti di tutti, di chi è pronto a qualsiasi sacrificio per il diritto. In molte parti del mondo si muore per aver fatto il proprio dovere di difensore, per aspirare ad un giusto processo, per la difesa dei diritti umani e civili. Nei confronti di questi martiri abbiamo tutti un debito che siamo chiamati ad onorare, ricordando che quando vengono attaccati gli avvocati e la funzione difensiva, sono oggetto di aggressione l’individuo e le sue libertà. La storia di Nasrin ed Ebru parla anche a noi, perché è compito prioritario dell’avvocatura e di chi crede nei valori democratici proseguire nell’impegno per la difesa dei diritti umani e dei loro difensori, per l’autonomia dell’avvocatura e della giurisdizione da qualsiasi forma di condizionamento esterno. Qual è il programma delle iniziative della Commissione diritti umani del Cnf? Di fronte a problematiche così difficili e complesse occorre evitare di disperdere energie e competenze e agire in sinergia coordinandosi, sul tema specifico, con le Commissioni diritti umani che si sono formate presso numerosi ordini forensi circondariali, proprio su impulso del Cnf, con le associazioni di avvocati maggiormente rappresentative e con le istituzioni preposte a livello centrale e locale. Lavoreremo su due livelli. Il primo, internazionale, raccordando l’azione della Commissione con gli analoghi comitati costituiti in seno agli organismi dell’avvocatura europea e internazionale e, più in generale, con le istituzioni che operano nell’ambito dei diritti umani. A livello nazionale, invece, intendiamo istituire un’autorità indipendente per la promozione e tutela dei diritti umani. Ungheria. Ilaria Salis, il padre dopo la mossa del ministro Tajani: “Luce in fondo al tunnel” di Federico Berni Corriere della Sera, 23 gennaio 2024 La donna rischia fino a 24 anni di carcere. La maestra 39enne è detenuta a Budapest “in condizioni degradanti”. L’accusa: ha aggredito espremisti di destra (guariti dopo pochi giorni). I legali: “Obiettivo portarla in Italia”. Una cauta speranza, racchiusa in un post su Facebook: “Inizia a vedersi un po’ di luce in fondo al tunnel”. Poche parole, quelle di Roberto Salis, dopo aver appreso che la diplomazia si muove per sua figlia Ilaria, da 11 mesi in un carcere ungherese “in condizioni degradanti” dopo aver partecipato a una manifestazione contro un raduno europeo di neonazisti tenutosi a febbraio scorso a Budapest. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha incontrato a Bruxelles il suo omologo ungherese Péter Szijjártó, al quale ha avanzato alcune richieste in una nota relativamente allo status della maestra elementare milanese di 39 anni. Si starebbe trattando per farle ottenere gli arresti domiciliari. “Ho chiesto un impegno attento, da parte ungherese, sulla situazione della nostra connazionale per garantire tutti i diritti che hanno i nostri detenuti”, ovvero un “trattamento rispettoso delle regole e della dignità della persona, ed eventuali soluzioni alternative alla detenzione”, ha dichiarato il titolare della Farnesina. Parole che riaccendono l’ottimismo nel padre della donna: “Aspettiamo di vedere un piano operativo su come questa attività sarà svolta. Ho sentito Ilaria questa mattina (ieri ndr): è molto speranzosa che finalmente tutta questa attività di sensibilizzazione sul suo caso abbia qualche effetto”, ha replicato Roberto Salis, cittadino monzese, che si batte per riportare la figlia Ilaria in Italia attraverso un comitato creato assieme alla senatrice Ilaria Cucchi, al quale hanno dato adesione migliaia di cittadini, personalità del mondo della politica e dell’arte. La condizione della militante antifascista in carcere rappresenta “un’aperta violazione dei diritti e della dignità della persona”. Come denunciato, la cittadina italiana “ha subito nelle prime settimane un trattamento assimilabile alla tortura”. L’accusa mossa alla 39enne è di aver aggredito degli estremisti di destra (guariti dopo pochi giorni). Secondo quanto riferito, rischia fino a 24 anni di reclusione. Il processo è previsto il 29 gennaio. Gli avvocati Eugenio Losco e Mauro Straini, che assistono la donna con un collega ungherese, hanno riferito di non essere a conoscenza di trattative diplomatiche, ma hanno confermato che l’obiettivo primario è sempre stato quello di “riportare Ilaria a casa”