Pene sostitutive, oltre 2.000 misure nel 2023 di Fabio Fiorentin Il Sole 24 Ore, 22 gennaio 2024 Il Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità del ministero della Giustizia ha pubblicato nei giorni scorsi il rapporto sullo stato dell'esecuzione delle misure e sanzioni di comunità, aggiornato al 31 dicembre 2023, che contiene anche i primi dati (provvisori) relativi all'applicazione delle nuove pene sostitutive delle pene detentive brevi, previste dalla riforma “Cartabia” varata con il decreto legislativo 150/2022. Intervenendo sulla legge 689/1981, la riforma ha introdotto nell'ordinamento le nuove pene sostitutive della semilibertà sostitutiva, della detenzione domiciliare sostitutiva e del lavoro di pubblica utilità sostitutivo, modificando anche la disciplina della pena pecuniaria sostitutiva, consentendo così, per condanne fino a quattro anni, l'adozione di misure alternative al carcere già nella fase di merito, senza il passaggio davanti al giudice di sorveglianza, in precedenza necessario in base all'articolo 656 del Codice di procedura penale. Un primo dato interessante è il numero di applicazioni (2.115 persone in carico nel corso del 2023), che conferma la vitalità della nuova disciplina, con 360 detenzioni domiciliari sostitutive, otto semilibertà sostitutive e 1.747 provvedimenti di lavoro di pubblica utilità, mentre non vi sono - al momento - dati sulla pena pecuniaria sostitutiva, in attesa delle rilevazioni statistiche che, in base all'articolo 79 del decreto legislativo 150/2022, dovrebbero essere effettuate in previsione della relazione annuale del ministro della Giustizia al Parlamento. In quasi un anno di vigenza, dunque, il numero delle applicazioni delle nuove pene sostitutive ha surclassato quello delle vecchie sanzioni sostitutive (semidetenzione, libertà controllata e lavoro sostitutivo) che nel 2022 si erano fermate a 422 applicazioni totali. La semilibertà sostitutiva, com'era prevedibile, non ha un grande appeal, in quanto impone quell'immediato contatto del condannato con il carcere che invece il meccanismo di sospensione, previsto dall'articolo 656, comma 5, del Codice di procedura penale per l'accesso alle misure alternative alla detenzione, consente di evitare fino alla decisione del tribunale di sorveglianza. La detenzione domiciliare sostitutiva, che pure non ha avuto finora un'applicazione ampia, ha, invece, molte potenzialità espansive. Tutto si giocherà sulla flessibilità applicativa consentita sotto il profilo della modulazione delle prescrizioni (basti pensare che al detenuto domiciliare può essere concessa la libertà di permanere fuori dal domicilio dalle 4 alle 12 ore al giorno) così da avvicinare la misura domiciliare, nel suo contenuto sostanziale, all'affidamento in prova al servizio sociale (articolo 47 legge sull'ordinamento penitenziario): quest'ultimo non è stato compreso tra le nuove pene sostitutive poiché non previsto dalla legge delega 134/2021 e la sua omissione, secondo molti osservatori, rappresenta uno dei più gravi freni all'uso delle sanzioni sostitutive. Il lavoro di pubblica utilità, infine, con più di 1.700 applicazioni, si colloca al vertice delle preferenze, sia perché si tratta di una misura già ben sperimentata, sia perché può comportare, a determinate condizioni (articolo 56-bis legge 689/1981) la revoca della confisca eventualmente disposta e la non applicabilità al condannato della sospensione della patente (articolo 120 decreto legislativo 285/1992), il cui possesso molto spesso rappresenta un requisito necessario per lo svolgimento dell'attività lavorativa. I dati delle applicazioni del lavoro di pubblica utilità prima della riforma lasciano intravedere più ampie potenzialità applicative di questa modalità esecutiva anche nella sua nuova veste di pena sostitutiva: nel 2021i condannati in carico agli uffici in esecuzione del lavoro di pubblica utilità sono stati 15.228 per reati connessi alla circolazione stradale e 1.004 per reati in materia di stupefacenti; nel 2022, rispettivamente,15.179 e 1.063 e al 31 maggio 2023, 12.616 e 1.071. Dimenticati, invisibili e negletti: i bambini nelle carceri di Eva Benelli scienzainrete.it, 22 gennaio 2024 Sono 19 i bambini che in questo momento in Italia passano la propria vita in carcere, senza aver commesso alcuna colpa, insieme alle loro mamme detenute. Una condizione che condividono con un numero imprecisato di altri bambini e bambine nel mondo, come ricorda un articolo sulla rivista Lancet. La reclusione comporta rischi evidenti per lo sviluppo cognitivo e armonico dei piccoli ed è altrettanto evidente che per ogni bambino o bambina in carcere si è mancato di tutelare il “superiore interesse”. L’Italia ha un ben noto e drammatico problema di sovraffollamento delle carceri, che vuol dire, tra l’altro, inciviltà delle condizioni di detenzione ed elevato numero di suicidi. Secondo il rapporto Antigone 2023 a fronte di una capienza ufficiale di 51.249 posti, al 30 aprile dello scorso anno le persone recluse erano 56.674, di cui 17.723 (il 31,3%) stranieri e 2.480 (il 4,4%) donne, con una crescita della capienza ufficiale dello 0,8%, ma delle presenze di ben il 3,8%. Inoltre, ci dice ancora l’associazione Antigone: “nel 2022 secondo i dati pubblicati dal Garante Nazionale, sono state 85 le persone a essersi tolte la vita all’interno di un istituto penitenziario, una ogni quattro giorni”, emergenza che si è mantenuta preoccupante anche nel corso del 2023 e che con 4 suicidi nei primi 10 giorni del 2024 non sembra essere prossima a una svolta. E come potrebbe, in assenza di interventi? Invisibili, sconosciuti e negletti - In questo scenario definito più volte dalla Corte europea per i diritti dell’uomo, “inumano e degradante” l’Italia si segnala per un altro aspetto di inciviltà: la reclusione di bambini e bambine all’interno di strutture detentive insieme alle loro mamme detenute. Sono 19 in questo momento i piccoli rinchiusi, innocenti, insieme alle loro madri condannate: “ma fosse anche uno solo, costretto a conoscere il mondo e a trascorrere la sua infanzia dietro le sbarre, quella che sto per raccontarvi sarebbe comunque una battaglia di civiltà”, scrive Paolo Siani nell’introduzione al suo libro Senza colpe, bambini in carcere (Guida editori, 118 pagine, 10 euro), che include diversi contributi e testimonianze, tra cui la presentazione della bella mostra fotografica di Anna Catalano. La battaglia di civiltà cui si riferisce Siani, pediatra e parlamentare fino alla scorsa legislatura, l’avevamo commentata qui, ma vale la pena riprenderla, anche alla luce di un editoriale pubblicato l’11 gennaio sulla rivista Lancet, “Children living with incarcerated mothers: invisible, undocumented, and neglected”, che allarga il discorso alla situazione globale. Ne emerge un quadro soprattutto di ombre, perché, come dice il titolo dell’articolo di Lancet i bambini che vivono in carcere insieme alle loro madri sono quasi sempre invisibili e negletti e di loro si sa davvero poco. Secondo il rapporto Global Prison Trends 2023 racconta Lancet, nel mondo la popolazione femminile incarcerata ammonta a circa 740.000 donne, un numero in crescita. Di pari passo ci si può aspettare che sia in crescita anche il numero dei bambini e delle bambine che si trovano incarcerati perché rimangono con le loro madri quando queste finiscono in galera, o perché le loro mamme gravide li mettono al mondo in carcere. Tuttavia gli orientamenti legislativi sulla permanenza dei bambini in carcere sono così divergenti tra i diversi Paesi, che non è stato possibile costruire un quadro omogeneo sulla durata e sui limiti di età dei bambini che vivono nelle carceri. Secondo le Nazioni Unite: “un consenso globale potrebbe non essere possibile, considerati i diversi standard di detenzione e di tutela dei minori in tutto il mondo”. Per esempio, i dati sul numero di donne gravide incarcerate non sono attendibili, continua Lancet, così è difficile sapere con certezza quanti siano i bambini che nascono in prigione e che si ritrovano quindi spesso senza documenti di identità. Di fatto, invisibili. Una parte di questa mancanza di visibilità si può probabilmente spiegare con una certa confusione della governance organizzativa tra ministeri della salute e i ministeri responsabili del sistema penitenziario, ma la si deve anche, in senso più ampio, a una carenza nella definizione di vulnerabilità da parte delle stesse Nazioni Unite che non fanno esplicito riferimento ai diritti umani delle persone private della libertà. Solo 4 su 100.000 - In Italia, per fortuna, le informazioni sono disponibili e accessibili e fanno emergere quanto sia basso il numero delle donne detenute a confronto dei maschi: solo poco più di 4 donne ogni 100.000, mentre il tasso di detenzione maschile è superiore di circa 25 volte. La bassa detenzione femminile, un fenomeno ancora non del tutto interpretato, non è una realtà solo italiana: “A livello mondiale -ci ricorda l’associazione Antigone- la media delle donne detenute nei vari paesi è pari al 6,9% della popolazione carceraria globale, una percentuale leggermente più elevata di quella italiana ma che indica comunque una netta minoranza”. Questa bassa incidenza statistica, tuttavia, non si traduce in condizioni migliori, anzi sembra portare con sé un interesse perfino minore. Il che fa sì, per esempio, che la loro distribuzione negli istituti carcerari le penalizzi, o perché ospitate in istituzioni miste dove però le già scarse energie e risorse (umane e materiali) per realizzare quelle attività specifiche che possono riempire di senso il tempo della detenzione sono rivolte principalmente ai detenuti maschi. O perché, se rinchiuse negli istituti femminili si trovano a fare i conti con un tasso di affollamento anche peggiore di quello maschile: il 118%, superiore, quindi, a quello dell’intero sistema penitenziario italiano, pari ufficialmente al 110. Insomma le donne: “nonostante lo scarso peso numerico che hanno sul sistema penitenziario e di conseguenza la loro scarsa responsabilità del sovraffollamento carcerario, lo subiscono più di quanto accada agli uomini”, commenta Antigone. In questo scenario, le donne con figli al seguito o in stato di gravidanza rappresentano una percentuale così esigua da spiegare, anche se non giustificare, la scarsa attenzione verso di loro e verso i loro bambini e bambine. Se i primi mille giorni sono in carcere - Eppure, quei 19 bambini che a oggi in Italia condividono il destino di detenzione delle madri sono esposti alla cosiddetta sindrome da prigionia: la ristrettezza degli spazi in cui giocare, la mancanza di stimoli, i gesti ripetitivi, sono tutti fattori che possono sviluppare nei bambini detenuti difficoltà nel gestire le emozioni e senso di inadeguatezza, di sfiducia, di inferiorità. Sicuramente un tardivo progresso linguistico e motorio. Quella che è ormai una consolidata evidenza scientifica conferma che i primissimi anni di vita dei bambini, al pari della gestazione, sono fondamentali per il loro sviluppo cognitivo. Nei cosiddetti primi mille giorni l’ambiente in cui il bambino vive svolge un ruolo decisivo: le esperienze precoci positive incidono su come si organizza il cervello e sul suo funzionamento. Quello che succede all’inizio della vita ha un’influenza sul futuro: i primi anni di vita determinano come sarà il rendimento scolastico, lo stile di vita sano, la capacità di relazionarsi con gli altri. Quello che si perde in questa fase sarà difficile da recuperare in seguito. Ecco perché quei 19 bambini che, innocenti, vivono in un carcere con la loro mamma che deve scontare una pena: “sono bambini che crescono in un ambiente per nulla adatto a loro e che, nonostante gli sforzi delle operatrici e degli operatori e dei tanti volontari che lavorano nel carcere, cresceranno senza quegli stimoli necessari per una vita sana”, ribadisce Paolo Siani. Fuori dal carcere - Per accogliere i bambini reclusi fino ai 6 anni d’età, insieme alle loro mamme, sono stati creati i cosiddetti Icam, Istituti di custodia attenuata, esterni agli istituti penitenziari e con dotazioni di sistemi di sicurezza non invasivi, comunque non riconoscibili dai bambini. Sono arredati e strutturati per assomigliare il meno possibile a un carcere: i muri sono colorati, il personale di sorveglianza lavora solitamente senza uniforme e senza armi. Ma, anche così, sempre di carceri si tratta. Inoltre sono pochi (attualmente esistono soltanto a Milano, Venezia, Lauro e Torino, mentre quello di Cagliari non è mai entrato in funzione) perciò stare in un Icam può voler dire allontanarsi dal contesto familiare e, magari, dagli altri figli. E spesso le detenute vi rinunciano. La Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza sollecita gli Stati a non separare i figli dai genitori, ma certamente questo non può voler dire farli vivere in luoghi che non sono adatti a loro come un carcere, per quanto attenuato. È evidente che l’unico posto per un bambino sia fuori dal carcere e per questo, la proposta di legge presentata da Paolo Siani prevedeva la detenzione delle mamme con figli in una casa famiglia protetta. Una battaglia politica giocata sulla vita dei bambini ha fatto sì che alla fine la proposta di legge, snaturata da diversi emendamenti, venisse ritirata. Ma il problema resta, Se ci si trova a dover contrapporre l’applicazione della giustizia alle prospettive di salute e di vita di bambini e bambine, il “supremo interesse dei minori” deve prevalere. Ce lo ricorda la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. E ce lo ricorda la nostra carta costituzionale. Miracolo al Csm: correnti unite (contro Pinelli) di Simona Musco Il Dubbio, 22 gennaio 2024 Anche MI replica, pur con toni soft, al vicepresidente Lo sostiene, in parte, solo l’indipendente Mirenda. C’è aria di tensione nelle stanze del Csm. Dove le correnti, questa volta, sembrano essere d’accordo, almeno in linea di principio, nel “condannare” l’uscita improvvida del vicepresidente Fabio Pinelli. Che nel ribadire l’ovvio - le degenerazioni di natura politica culminate nella notte dell’Hotel Champagne - ha finito per tirare dentro anche Sergio Mattarella, presidente del Csm, in quanto Capo dello Stato, ed elemento di continuità tra la precedente consiliatura e quella attuale. A tarda serata, la voce che viene fuori da Palazzo dei Marescialli, sussurrata e mai apertamente rivendicata, è che Pinelli, in realtà, stia giocando anche un’altra partita, sponsorizzando la riforma del Csm. Che restringerebbe di molto il potere di Palazzo dei Marescialli, limitandone il ruolo politico, quello che il vicepresidente ha assegnato, nella sua sfortunata conferenza stampa, ad un altro organo: l’Associazione nazionale magistrati. Quindi niente più rischio “terza Camera”, quello che, stando alla sua ricostruzione, avrebbe rappresentato la precedente consiliatura. In soccorso di Pinelli, ieri, è arrivato anche il senatore forzista Maurizio Gasparri. Che non a caso ha rilanciato la riforma: “Il vicepresidente del Csm, Fabio Pinelli, in queste ore ha aperto una riflessione sulle esondazioni del passato del Csm. Qualcuno ha detto che critica Mattarella. Niente affatto - ha sottolineato ai microfoni del Tg2 -. Perché Mattarella, quando scoppiò lo scandalo Palamara, fu il primo ad esprimere sconcerto parlando di “degenerazione del sistema correntizio e inammissibile commistione fra politici e magistrati”, che noi ci auguriamo si superi con una buona riforma. Pinelli si riferiva a quelle vicende che Mattarella censurò duramente. Chi inventa polemiche tra il Csm ed il Quirinale sbaglia. La sinistra, Bazoli ed altri, vorrebbero impedire le riforme che, invece, devono rendere più trasparente ed efficace la giustizia italiana. Noi andremo avanti e non ci faremo intimidire dalle minacce di Cafiero de Raho e dalle bugie del Pd”. Pur tentando di salvare il salvabile con un comunicato stampa “correttivo” in zona Cesarini - cercando di negare parole però rimaste agli atti -, Pinelli ha di fatto aperto anche una falla tra la propria poltrona e quella degli altri consiglieri. Con un unico consigliere a dirsi d’accordo con la critica “politica” del vicepresidente, ovvero Andrea Mirenda, l’indipendente che non ne vuole sapere di sacrificare la sostanza per salvare la formalità. Subito dopo le dichiarazioni del vicepresidente, come raccontato sul Dubbio di ieri, 13 consiglieri togati - Francesca Abenavoli, Marcello Basilico, Maurizio Carbone, Genantonio Chiarelli, Tullio Morello e Antonello Cosentino di Area, Michele Forziati, Antonino Laganà, Roberto D’Auria e Marco Bisogni di Unicost, Roberto Fontana (indipendente) e Domenica Miele di Md, ai quali si è poi aggiunto Dario Scaletta di MI - hanno infatti preso le distanze dal vicepresidente, con una nota critica. “Non sappiamo su quali basi fattuali e giuridiche il vicepresidente fondi tali discutibili affermazioni - hanno sottolineato -. È certo che noi non le condividiamo minimamente, né in relazione alla lettura del ruolo costituzionale del Csm che esse sottendono, né in relazione al giudizio sull’operato dello scorso Consiglio, che ha dovuto affrontare gravi e delicate vicende mantenendosi sempre nei limiti delle proprie prerogative”. Una posizione che non ha trovato d’accordo Mirenda. “Condivido pienamente le conclusioni del vicepresidente circa la natura non politica dell’organo di governo autonomo della magistratura”, ha sottolineato, attribuendo “una dimensione spiccatamente fantasiosa” alle polemiche che hanno coinvolto Pinelli, “spingendosi persino all’azzardo di coinvolgere il Capo dello Stato, oltre ogni logica evidenza. Come non condividere - ha aggiunto - il giudizio tutt’altro che positivo sulla precedente consiliatura, i cui molti protagonisti - unitamente a taluni odierni “laudatores” - paiono dimentichi di quanto accaduto?”. Ma “diversamente da quanto assume il vicepresidente”, le “note e pervasive logiche correntizie, già bollate di “modestia etica” proprio dal Capo dello Stato” rappresentano “tutt’ora data la persistente divisione consiliare in “operose” conventicole dedite alla sodalità - la più subdola delle minacce all’indipendenza del singolo magistrato”, ha concluso. Ieri, invece, sono stati i consiglieri di MI a diffondere una nota e, pur prendendo atto “delle opportune precisazioni e puntualizzazioni che sono seguite da parte dello stesso vicepresidente”, hanno ricordato che “sulle questioni istituzionali occorre equilibrio e ponderazione, nei toni come nei contenuti. Il prestigio e la centralità dell’organo di governo autonomo della magistratura si difendono dimostrando, nelle scelte concrete, che l’unico criterio guida è l’interesse delle istituzioni e della giurisdizione. A questo principio è informata la nostra attività quotidiana ed è così che intendiamo tutelare l’istituzione consiliare, nella consapevolezza della enorme responsabilità che grava su ciascuno di noi nonché nella doverosa distanza da posizioni facilmente strumentalizzabili per fini diversi da quelli strettamente istituzionali. Vogliamo infine esprimere il massimo rispetto e apprezzamento per il lavoro svolto in condizioni difficili da chi ci ha preceduto nel governo autonomo della magistratura”, hanno fatto sapere Paola D’Ovidio, Edoardo Cilenti, Maria Vittoria Marchianò, Maria Luisa Mazzola, Bernadette Nicotra ed Eligio Paolini. Facendo dunque salire a 19 i “rimproveri”: tutti i togati, tranne Mirenda. E a queste voci si sono aggiunte anche quelle delle toghe di MI della scorsa consiliatura, ovvero Loredana Miccichè, Antonio D’Amato, Paola Maria Braggion e Maria Tiziana Balduini, che hanno rivendicato il lavoro fatto. “Ci spiace che l’attuale vice presidente, con le dichiarazioni rilasciate in conferenza stampa, continui a ricordare solo i momenti difficili della scorsa consiliatura, senza dare atto né del lavoro svolto, né del suo contributo per la tenuta dell’Istituzione”, hanno sottolineato. Insomma, Pinelli ha compattato le toghe. Come nemmeno i ministri della Giustizia, con le loro riforme, sono riusciti a fare. L’Anm approva due mozioni dopo i casi Nordio e Pinelli: ma MI non firma di Valentina Stella Il Dubbio, 22 gennaio 2024 La corrente conservatrice ha ritenuto soprattutto la seconda troppo politica per essere condivisa. Ennesima dimostrazione di collateralismo governativo? Il parlamentino dell’Associazione Nazionale Magistrati riunito da due giorni a Roma ha approvato due documenti - uno relativo all’informativa di Nordio al Parlamento e l’altro in riferimento alle dichiarazioni del vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, Fabio Pinelli, qualche giorno fa in una conferenza stampa a Piazza Indipendenza - entrambi non sottoscritti da Magistratura Indipendente. La corrente conservatrice ha soprattutto ritenuto il secondo troppo politico per essere condiviso. Ennesima dimostrazione di collateralismo governativo? “Una relazione problematica” è il titolo della mozione - firmata da Magistratura Democratica, AreaDg, Unicost, CentoUno - di stigmatizzazione delle parole del Guardasigilli. Per i sottoscrittori “nella recente relazione del Ministro sullo stato della Giustizia piuttosto che l'indicazione di strumenti che possano essere di ausilio al quotidiano impegno dei magistrati, e dei loro collaboratori, nel rendere il migliore servizio a tutela dei diritti dei cittadini, piuttosto che esporre con quali mezzi si intendano perseguire gli obiettivi del PNRR (nel processo penale forse attraverso una App nata già obsoleta e che al momento consente solo di decuplicare il tempo necessario all'evasione di una richiesta di archiviazione?), si è avuta una nuova manifestazione del timore per il preteso eccessivo potere degli uffici di procura e per i pretesi abusi delle intercettazioni o di altri strumenti di ricerca della prova, essenziali nel contrasto delle forme di criminalità organizzata o di gravi delitti contro l’economia e la pubblica amministrazione”. Per i quattro gruppi associativi “va quindi riaffermata la necessaria difesa e salvaguardia dello strumento delle intercettazioni”. Inoltre “resta fondamentale il mantenimento dell’attuale modalità di reclutamento e di formazione di giudici e pubblici ministeri, poiché valorizza la comune cultura della giurisdizione, che è essenziale per tutti gli appartenenti all’ordine giudiziario, siano essi giudici che pubblici ministeri, quale prima garanzia dell’indagato e vero fondamento della legittimazione e responsabilità dell’organo del pubblico ministero, che è il primo presidio del rispetto delle garanzie per la persona sottoposta a indagini e per la persona offesa”. Da ultimo, “ma non per importanza, devono essere rimarcate le gravi criticità della relazione a proposito del reato di abuso di ufficio”. L’abrogazione di tale delitto “rischia di rendere priva di sanzione la violazione degli obblighi di astensione, la dolosa alterazione di concorsi pubblici, l’assegnazione di appalti, lavori o servizi pubblici, in assenza di procedure di evidenza pubblica: una fascia di impunità che non appare in linea con le esigenze, riconosciute dallo stesso Guardasigilli nella sua relazione alle Camere, di serio ed effettivo contrasto ai fenomeni corruttivi”. Il Comitato Direttivo Centrale dell'Anm “sollecita pertanto il Ministro, cui spetta per costituzione il compito di “organizzazione e funzionamento dei servizi relativi alla giustizia”, ad attuare una reale politica di sostegno dei magistrati, impegnati a garantire il migliore servizio ai cittadini e l'attuazione degli obiettivi del PNRR, garantendo mezzi e risorse, e si riserva ogni necessaria iniziativa a tutela dell'essenza della giurisdizione”. Per quanto concerne la bufera sollevata dalle parole di Fabio Pinelli, il Cdc - tranne Mi e questa volta anche i Centouno - hanno elaborato un documento dal titolo “Parole ed equilibrio”. Ricordando come “nel corso di una conferenza stampa, il Vicepresidente del CSM ha pronunciato giudizi che sembrano svalutativi delle sue funzioni (del Csm, ndr), confinandola ad organo che dovrebbe limitarsi solo a compiti di ‘alta amministrazione’”, i tre gruppi associativi hanno sottolineato che “ogni deliberazione assunta in materia di organizzazione e di amministrazione comporta, di necessità, una scelta tra opzioni culturali e politiche diverse, implica l’assunzione di una decisione tra plurime soluzioni prospettate e prospettabili, richiede sempre un bilanciamento non “neutro” di tutti gli interessi che vengono in rilievo, in funzione di quelli generali della giurisdizione, ed impone valutazioni, espressive di attività di alta amministrazione, in senso ampio “politiche”: alle quali concorrono, d’altra parte, tutti i componenti del Consiglio”. Pertanto “stupiscono le recenti dichiarazioni del Vicepresidente del CSM a proposito del supposto ‘deragliamento’ del precedente CSM: dichiarazioni ‘straordinarie’, che, anche nella più benevola lettura, dimenticano che gli ordini del giorno del CSM sono firmati dal Presidente della Repubblica, circostanza che chi svolge il ruolo di vicepresidente da oltre un anno conosce bene. Vi è poi una prassi che pur avendo avuto meno risonanza mediatica, desta forte preoccupazione: quella adottata da alcuni consiglieri, prevalentemente laici, di votare o astenersi senza alcuna esplicita motivazione, che contribuisce a svilire il ruolo assegnato dalla costituzione al Consiglio, tentando di mutarne la fisionomia”. E dice la sua il segretario dell’associazione che riunisce le toghe progressiste di AreaDg, Giovanni Zaccaro. “Ogni mattina i magistrati italiani cercano di fare giustizia con le poche risorse date dal ministero - spiega Zaccaro - Ogni mattina - ricorda constatano le inefficienze del processo penale telematico che rallenta anche gli adempimenti. Prima semplici”. Oggi, spiega commentando i lavori del Comitato Direttivo Centrale dell’Associazione Nazionale Magistrati, “hanno anche scoperto che il gruppo di magistratura indipendente ha votato, in modo incomprensibile, contro il documento unitario della Anm che denuncia queste cose”. Le nuove tecnologie per una anticorruzione 4.0 di Anna Corrado Corriere della Sera, 22 gennaio 2024 Il tema della prevenzione della corruzione è tornato negli ultimi tempi ad occupare più frequentemente le pagine dei giornali; fa capolino con timidezza uscendo dal limbo in cui è stato relegato, utile a giustificare uno dei tanti adempimenti pianificatori cui sono assoggettate le amministrazioni. A imporre la necessità di una più “sentita” attività anticorruttiva sono soprattutto i finanziamenti Pnrr, l’esigenza che siano ben spesi e, soprattutto, che non finiscano in mani sbagliate. La prevenzione della corruzione non risolve la corruzione, ma certamente la sensazione di avere campo libero può incoraggiare l’appetibile arrembaggio al Pnrr. E quindi potrebbe essere il momento giusto per chiedersi, con oramai più di 10 anni di esperienza sul campo, cosa della legislazione in tema di anticorruzione va salvato e cosa invece, con coraggio, eliminato perché crea solo un appesantimento, significando in concreto attività “inutile” e gravosa per le pubbliche amministrazioni. La legge anticorruzione (n. 190/2012) che per l’epoca ha rappresentato una novità, ha introdotto nuovi istituti e soggetti, ha creato un dibattito all’interno delle pubbliche amministrazioni sui temi dell’etica pubblica e le ha motivate a fare bene nel processo di analisi e gestione dei rischi corruttivi e nel ricercare misure che più si attanagliassero allo specifico contesto organizzativo (Consiglio di Stato n. 8100/2023). Oggi i piani anticorruzione e forse anche alcune misure di prevenzione andrebbero ripensati soprattutto perché non accompagnati da una concreta attività di monitoraggio e verifica. Niente a che vedere con la rendicontazione Pnrr: un banco di prova estenuante ma anche un’opportunità effettiva che le cose vengano fatte. Negli anni l’interesse generale per la disciplina anticorruzione è via via scemato e le amministrazioni si sono trovate in qualche modo a perpetuare questa moderna fatica di Sisifo, a pianificare strategie di prevenzione rispetto alle quali si registra scarso interesse, a volte ritrosia, vissute spesso come adempimenti che rallentano l’azione amministrativa. È probabile che per qualche segmento di attività la pianificazione anticorruzione abbia rappresentato talvolta un limite; tuttavia questi anni non sono passati invano. Oggi c’è una sufficiente esperienza per ripensare al percorso fatto e alla necessità che si abbia una nuova strategia anticorruttiva, che si combini anche con una nuova domanda di efficienza. Avere un’amministrazione “sana” giova a tutti e la prevenzione della corruzione è essa stessa un valore per il sistema Paese. Ancor di più con un’Europa che ci guarda e con atteggiamento non sempre benevolo. Disporre di un presidio idoneo a tutelare al meglio i finanziamenti Pnrr serve anche a implementare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni. Potrebbe così, in modo sorprendente, delinearsi un nuovo modo di fare prevenzione della corruzione, anche aiutati dalla tecnologia. Le esperienze che si stanno registrando portano, infatti, all’ Anticorruzione 4.0. La digitalizzazione dei contratti pubblici appena varata potrà assicurare una tracciabilità delle procedure che non si immaginava qualche anno fa, soprattutto nelle verifiche dei partecipanti alle gare e nella fase di esecuzione, sempre rimasta la più “misteriosa”. Potrebbero esserci sistemi di intelligenza artificiale in grado di far emergere cambiamenti societari sospetti, operazioni finanziare collegate, assicurare una potenza conoscitiva che alcuna prestazione umana garantirebbe; sistemi a supporto dell’attività di vigilanza per individuare frodi a danno di finanziamenti pubblici; di osservazione dei mercati telematici per far emergere frazionamenti degli appalti o condotte corruttive delle stazioni appaltanti; infine l’utilizzo di blockchain per debellare frodi e false attestazioni. Esperienze in grado di incidere anche sul modo di vigilare sulle situazioni di conflitto di interesse, sulla trasparenza, sugli incarichi. E tutto questo con minore dispendio di energia e probabilmente con maggiori ricadute sul cambiamento culturale dei cittadini e sulla credibilità dell’attività anticorruttiva stessa, in ragione di un ritorno di maggiore efficienza. Per fare tutto ciò è necessario che qualcuno si intesti questo obiettivo e guardi con interesse al futuro del Paese. Le intercettazioni sono indispensabili. Ma su abusi e costi servono nuove regole di Luca Palamara Il Giornale, 22 gennaio 2024 La vera partita si gioca sulla circolazione delle informazioni tra procure e una parte del mondo dell'informazione: ha alterato la nostra democrazia. Il ministro della Giustizia ha affrontato il dibattuto tema delle intercettazioni, riaccendendo polemiche e discussioni. Dopo l'opposizione e la stampa, anche il Comitato direttivo dell'Anm, nonostante una significativa spaccatura al suo interno, ha duramente attaccato Carlo Nordio, ravvisando nel suo intervento la volontà di indebolire la lotta alla mafia, alla corruzione e ai reati di grave allarme sociale e di imbavagliare la stampa. Sgombriamo il campo dagli equivoci. Lo strumento delle intercettazioni non può e non deve essere messo in discussione trattandosi di un mezzo di ricerca della prova fondamentale per tutte le altre ipotesi di reato che attengono alle non meno gravi forme di criminalità comune. Ciò detto, per misurare se effettivamente il governo abbia voluto fare un passo indietro, bisogna guardare ai fatti e non alle parole. Ed i fatti dicono che prendendo spunto da una sentenza della Cassazione del 30 marzo del 2022, che voleva restringere l'uso delle intercettazioni per reati di mafia, il governo ha emanato un decreto per stabilire che nella nozione di “criminalità organizzata” debbano rientrare non solo i reati di mafia anche i procedimenti riguardanti reati compiuti col “metodo mafioso”. Dunque, attenendoci ai fatti e non alle parole, questo decreto testimonia una volontà di rafforzamento anziché di indebolimento della lotta alla mafia, andando addirittura oltre ciò che avevano sentenziato i giudici della cassazione. Posto che le intercettazioni sono indispensabili, il grido d'allarme lanciato dalle opposizioni costituisce allora l'estremo tentativo di alzare una cortina fumogena per impedire che vengano affrontate tre fondamentali questioni: le modalità con cui l'istituto viene maneggiato nella sua applicazione pratica; la indebita pubblicazione di notizie irrilevanti finalizzate alla gogna mediatica e alla eliminazione del nemico politico di turno quando l'indagato riveste cariche pubbliche; il tema dei costi delle intercettazioni. Sul primo punto, la realtà degli uffici giudiziari evidenzia prassi differenti e mancanza di uniformità. Tanto per fare qualche esempio: la famosa inchiesta di calciopoli nel 2006 nata perché a Napoli c'era un GIP che concedeva le intercettazioni, mentre a Roma per quella stessa vicenda un altro giudice riteneva, invece, la non sussistenza dei gravi indizi di reato tali da legittimare le intercettazioni; la recente vicenda di Stefano Esposito ex senatore del partito democratico in relazione alla quale la Corte costituzionale ha recentemente dichiarato l'illegittimità. Sul cosiddetto bavaglio alla stampa si gioca, invece, la vera partita sulla, non regolamentata, circolazione delle informazioni tra gli uffici di Procura e una parte del mondo dell'informazione e che sovente ha alterato la democrazia nel nostro Paese. Che l'argomento sia un nervo scoperto lo dimostra il fatto che già il Consiglio Superiore della Magistratura in una apposita delibera del 2016, supportato dall'illustre parere di autorevoli Procuratori della Repubblica, aveva evidenziato il dovere del pubblico ministero titolare delle indagini di compiere il primo delicato compito di filtro nella selezione delle intercettazioni inutilizzabili e irrilevanti al fine di evitarne l'ingiustificata diffusione. È giusto intercettare i reati di mafia, terrorismo e corruzione, ma se le indagini non trovano questi reati gli elementi irrilevanti non possono essere pubblicati perché altrimenti si altererebbero le regole della democrazia trasformando la nostra società in un “grande fratello”. Infine la questione sui costi. È vero che, grazie alle operazioni di intercettazioni, lo Stato è in grado per il tramite del sequestro e della confisca di ottenere ingenti somme di denaro. Ma ciò non deve impedire la necessità di disciplinare un settore molto magmatico dove tutto è lasciato alla iniziativa di ditte private che svolgono le attività di intercettazioni, ai rapporti che le stesse riescono ad instaurare con le forze di polizia e con gli uffici di Procura e che propongono prodotti assoggettati a diversi costi senza una specifica e preventiva regolamentazione. Sarebbe interesse di tutti sapere come funzionano realmente i server nei quali finisce tutto il materiale intercettato. P.S. Da ultimo una notazione. Ha ragione Henry Jhon Woodcock quando dice che i nostri telefoni sono delle scatole nere: peccato che nella nostra recente storia giudiziaria siano stati illustri magistrati a dire di aver smarrito il proprio telefono. Le regole valgono per tutti? La politica argina i giudici per accontentare i poteri economici: questione morale, dove sei? di Michele Sanfilippo Il Fatto Quotidiano, 22 gennaio 2024 Una delle cause principali della crisi delle democrazie rappresentative è, a mio avviso, l’eccessiva permeabilità della politica rispetto alle pressioni economiche esercitate dal potere economico. Già Cicerone, nelle sue Verrine, ci ammoniva sui guasti della corruzione di chi governa ma, da quando è caduto il muro di Berlino, il lobbismo è sempre più in grado di esercitare pressione sulla politica per orientarne le scelte, in tutti gli ambiti possibili e immaginabili. A livello planetario si possono fare esempi come quello dei mondiali di calcio in Qatar, all’Expo 2030 a Riad o le ridicole (non) decisioni prese durante il recente Cop28. A livello domestico, abbiamo visto come sono state condotte le privatizzazioni. Come sanno bene i cittadini italiani, basta osservare lo stato della sanità pubblica o le infrastrutture (autostrade e telefonia) per capire come la politica (indifferentemente, a destra come a sinistra) le abbia svendute al mercato. Questa commistione tra affari e politica ha consentito la crescita di una zona grigia, sempre più vasta e trasversale tra i partiti, dove la corruzione del politico non viene neppure percepita come tale ma viene, piuttosto, ritenuta fisiologica per il normale svolgimento delle attività. La classe politica delle democrazie di quasi tutto il mondo anziché cercare di ridurre i margini di illegalità, creando anticorpi al suo interno, ha preferito arginare il potere giudiziario. Lo hanno fatto Ungheria, Polonia, Romania, Israele con leggi liberticide che mirano a subordinale il potere giudiziario a quello esecutivo e suscitando proteste più o meno intense. Noi italiani che, come abbiamo visto, abbiamo un’esperienza millenaria in materia, siamo più raffinati. Non sono state promulgate leggi clamorose per affrontare frontalmente il potere giudiziario. Si è lavorato di fino per renderlo inefficace. La politica ha agito su diversi fronti: il depotenziamento del personale, la depenalizzazione di alcuni reati chiave, la contrazione dei tempi per attivare la prescrizione. Tutte queste misure hanno reso il processo incelebrabile, dando a tutti la sensazione dell’assoluta inefficienza del potere giudiziario e quindi della magistratura. I dati sono impietosi. Nel 2018, secondo i dati del ministero della Giustizia, in Italia il 62% dei processi penali non arriva in aula, ossia cade in prescrizione durante lo svolgimento delle indagini. Nel ventennale di Mani Pulite (2012), Piercamillo Davigo scrisse un articolo titolato “Mani pulite venti anni dopo: se le condanne per tangenti sono un decimo di 15 anni fa è per lo sfascio della Giustizia voluto da maggioranze trasversali.” E vi si leggevano frasi del tipo: “Così la politica, da destra a sinistra, ha salvato i ladri” e “le leggi più dannose sono state perciò quella approvata dalla maggioranza di centrosinistra sui reati finanziari e quella della maggioranza di centrodestra sul reato di false comunicazioni sociali”. Come dice lo stesso Davigo, la sensazione diffusa è che in Italia convenga delinquere, soprattutto se si può disporre di buoni avvocati. A me sembra evidente che i problemi della giustizia italiana non abbiano certo a che fare con la separazione delle carriere o con l’eccesso di intercettazioni telefoniche, men che meno con la possibilità da parte della stampa di pubblicare informazioni sulle indagini in corso o l’abolizione dell’abuso d’ufficio. In Italia non c’è un problema di scarso garantismo. Al contrario, tutte le misure promosse dalla politica sono servite solo a garantire impunità a chi la esercita (male). Se non si riuscirà a ridare al potere giudiziario la possibilità di garantire l’esercizio di una giustizia che sia davvero uguale per tutti, non sarà a rischio solo la qualità della politica ma anche e soprattutto la credibilità della democrazia. Sarebbe ora che la questione morale tornasse al centro dell’agenda politica di qualche partito. Uno qualsiasi. Avocati vilipesi sui social, insultati fuori dai Tribunali, minacciati di morte perché assimilati agli imputati che difendono di Valentina Stella Il Dubbio, 22 gennaio 2024 Dai difensori degli stupratori di rimini, ai legali della famiglia Ciontoli e a quelli degli imputati per la morte del giovane Willy Monteiro Duarte, fino alle due avvocate di Brescia “processate” dal tribunale del popolo per aver fatto assolvere un uomo accusato di violenza sessuale. Diciamo francamente: la possibilità di esercitare il mandato difensivo in Italia non è assolutamente messo in pericolo come accade in altri Paesi: basti pensare alla Turchia, all’Iran, all’Egitto, alla Cina. Ma anche noi abbiamo delle storie da raccontare, di legali minacciati a parole o con fatti concreti per esercitare senza timore la loro professione. Il primo nome che ricorre nella memoria è quello di Fulvio Croce, presidente dell’Ordine degli avvocati di Torino. Siamo nel capoluogo piemontese il 28 aprile 1977. Settantasei anni, civilista arriva con la sua macchina davanti al suo studio. Un ragazzo grida “Avvocato”. Lui si gira e una Nagant M1895 di fabbricazione russa gli scarica addosso cinque colpi: tre al torace, poi due alla testa. Fu assassinato perché assunse la difesa d’ufficio - unitamente ad altri consiglieri - nel primo processo celebrato dalla Corte d’assise di Torino nel 1976 contro gli imputati del maxiprocesso ai “capi storici” delle Br. Maurizio Ferrari, il compagno “Mao”, un anno prima, aveva annunciato la condanna a morte per tutti gli avvocati che avessero accettato di difenderli: “Ci proclamiamo pubblicamente militanti dell’organizzazione comunista Brigate rosse, e come combattenti comunisti ci assumiamo collettivamente e per intero la responsabilità politica di ogni sua iniziativa passata, presente e futura. Affermando questo viene meno qualunque presupposto legale per questo processo, gli imputati non hanno niente da cui difendersi. Mentre al contrario gli accusatori, hanno da difendere la pratica criminale, antiproletaria dell’infame regime che essi rappresentano. Se difensori dunque devono esservi, questi servono a voi egregie eccellenze. Per togliere ogni equivoco revochiamo perciò ai nostri avvocati il mandato per la difesa, e li invitiamo nel caso fossero nominati di ufficio, a rifiutare ogni collaborazione con il potere. Con questo atto intendiamo riportare lo scontro sul terreno reale, e per questo lanciamo alle avanguardie rivoluzionarie la parola d’ordine: portare l’attacco al cuore dello Stato”. Andando ai tempi più recenti, registriamo un altro fenomeno: la circostanza per cui gli avvocati vengono accusati per difendere gli imputati, accusati dei peggiori crimini, e assimilati ingiustamente con il reato da loro eventualmente commesso. Diceva il famoso avvocato francese Jacques Verges: “Je ne suis pas l’avocat de la terreur, mais l’avocat des terroristes. Hippocrate disait: Je ne soigne pas la maladie, je soigne le malade. C’est pour vous dire que je ne défends pas le crime mais la personne qui l’a commis”. L'assimilazione tra l'avvocato e il suo assistito è una delle tante distorsioni che intaccano il ruolo del difensore nella società. Eppure come ha scritto Ettore Randazzo in “L'avvocato e la verità” (Sellerio Editore Palermo): “solo i nemici della democrazia e della libertà possono temere l'avvocatura”. Sempre di più in questi anni stiamo assistendo a vari tipi di attacchi verso coloro che esercitano un diritto costituzionalmente garantito: gli avvocati vengono vilipesi sui social, ricevono sputi fuori dalle aule e pallottole nella buca delle lettere, addirittura le loro auto sono incendiate e le loro famiglie minacciate di morte. Su questo giornale vi abbiamo raccontato diverse storie in merito che vi riproponiamo in questa carrellata. Nel 2017 alcuni balordi diedero fuoco alla macchina dell'avvocato Pierluigi Barone. Dopo ricevette una telefonata anonima al suo studio: “Il tuo cliente è un assassino”, riferendosi ad uno dei cinque giovani, difeso da Barone, indagato al tempo con altri per omissione di soccorso per la morte del 18enne Matteo Ballardini. Proprio al Dubbio l'avvocato raccontò che nella telefonata fecero altre minacce: “Mi hanno detto che poi toccherà alla casa, e poi a mia moglie. Paura? Io sono un legale e non mollo i miei clienti. Questo modo di fare violento mina i principi base della Costituzione e della civiltà. E noi non possiamo cedere”. Invece questo messaggio “Volevo complimentarmi con gli avvocati Mario Scarpa e Ilaria Perruzza, che assistono i 4 maiali stupratori di Rimini! Complimenti per la dignità che avete dimostrato nell’accettare la difesa e non aver rifiutato! Questo Stato tra qualche anno li promuoverà facendoli entrare a pieno diritto nella Casta dei Togati. Nel frattempo speriamo che il tempo regali ad entrambi l’esperienza vissuta dai due polacchi” fu uno dei tanti gravemente offensivi indirizzati ai due avvocati che assunsero l’incarico difensivo di quattro immigrati accusati dello stupro e della violenza avvenuti nei confronti di una giovane polacca e di un suo amico. Arriviamo nel 2018: “Sentenza vergognosa! Dato che la giustizia non esiste sarà fatta in un altro modo. Vendetta anche per te avvocatura”: iniziava così la lettera minatoria che, accompagnata da un proiettile, giunse all’avvocato Andrea Miroli, legale della famiglia Ciontoli, dopo la sentenza di primo grado per la morte di Marco Vannini. Sempre nello stesso anno all'avvocato Giovanni Codastefano, difensore d'ufficio di un uomo accusato di aver violentato la moglie e maltrattato la figlia, toccò leggere questo sul web: “Penso che fa più schifo l’avvocato che lo difenderà”, “Vergognati! Come si fa a difendere uno del genere?”, “Certi avvocati per due soldi difenderebbero anche lo stupratore delle loro madri... merdacce!”, “Bastardo anche l’avvocato”. Non finisce qui: l'avvocato Simone Matraxia, legale di fiducia di Innocent Oseghale, il nigeriano coinvolto nella morte di Pamela Mastropietro, fatta a pezzi e ritrovata in due trolley abbandonati sul ciglio della strada, appena ricevette il mandato lesse su Facebook: “L’avvocato che si prende la briga di difendere certe persone, e certi reati va denunciato per complicità” e altresì “Ha pure un avvocato? Ah, la pena di morte”. L'anno successivo ci spostiamo al Tribunale di Frosinone quando il presidente della Corte d'assise Giuseppe Farinella pronunciò la sentenza di primo grado per l'omicidio di Emanuele Morganti, il ventenne deceduto dopo essere stato aggredito in una notte di marzo del 2017 ad Alatri. Un caso drammatico che aveva suscitato molto commozione per la morte di un ragazzo accerchiato e picchiato, dopo una serata in un locale con la fidanzatina. Non fu allora omicidio volontario, come richiesto dall’accusa, ma preterintenzionale. La derubricazione del reato scatenò l’ira dei parenti e degli amici della vittima. Qualcuno, fuori dal tribunale, aggredì il pool difensivo come ci raccontò proprio l’avvocato Giosuè Bruno Naso: “Ci hanno minacciati e insultati gridandoci “bastardi”, “schifosi”, “come fate a difendere delle merde simili?”. Arrivarono anche degli sputi verso di loro e si rese necessario l’intervento di alcuni agenti delle forze dell’ordine. Sempre nel 2019 a subire minacce sui social furono gli avvocati Domenico Gorziglia, Giovanni Labate e Marco Mazzatosta, legali di Francesco Chiricozzi e Riccardo Licci, i due giovani di Casa-Pound, accusati di violenza di gruppo, lesioni aggravate e violenza sessuale con abuso delle condizioni di inferiorità psichica e fisica nei confronti di una donna di 36 anni. “Ma gli avvocati sono i peggio”, “i due vanno condannati in base alle leggi, vanno puniti, ma chi andrebbe arrestato seduta stante deve essere l'avvocato” e ancora “Lasciateli al popolo, saprà fare giustizia più di quella togata... non dimenticate il legale che andrebbe anche radiato” e “io metterei in galera pure gli avvocati che favoreggiano sti maledetti difendendoli”. Nel 2020 a ricevere minacce di morte furono gli avvocati Massimiliano e Mario Pica, legali dei tre allora indagati per la morte del giovane Willy Monteiro Duarte, ucciso durante un pestaggio a Colleferro. Ricevettero una telefonata anonima a studio: “Dì all’avvocato che lo ammazziamo”. Ma anche Andrea Starace e Giovanni Bellisario, legali di Antonio De Marco, reo confesso del duplice omicidio di Eleonora Manta e Daniele De Santis, sono finiti nel mirino dei leoni da tastiera: “anche l'avvocato dovrebbe andare in carcere”, “non vi vergognate a difenderlo”, “se le vittime fossero stati i vostri figli vi sareste comportati allo stesso modo?”. E poi ad aprile di quest'anno vi abbiamo raccontato la storia di due avvocate di Brescia S.L. e M.M. processate e insultate dal Tribunale del popolo per aver fatto assolvere un uomo accusato di violenza sessuale: “ma questi avvocati non si vergognano a difendere un delinquente simile. Lo schifo assurdo che per i soldi non si guarda in faccia nessuno, eppure sono donne ma nessuna solidarietà. Il denaro e la carriera sono superiori al dramma di questa ragazza” e persino più grave: “Che non debbano mai provare nessun tipo di violenza queste sottospecie di avvocati”. A chi dunque desidera gettare la chiave della cella prima di iniziare un processo, impedendo l'esercizio del diritto di difesa, rispondiamo sempre con un pensiero di Ettore Randazzo: “Senza processo la giustizia dove starebbe? Nel lugubre simbolismo di un cappio penzolante col plauso raccapricciante di un gruppo di scalmanati dimostranti? Ci mancherebbe! Tutti devono essere processati e dunque difesi. Incondizionatamente; altrimenti basterebbe un'accusa grave e infamante per giustiziare sommariamente una persona, espellendola dal consesso civile; non possiamo di certo consentire una simile barbarie”. È allarme sicurezza. Baby gang, ladri, pusher: gli italiani hanno paura di Nino Femiani Il Giorno, 22 gennaio 2024 Milano, ragazze aggredite fuori dalla discoteca. Ancora spari a Roma: 24enne gambizzato. A Napoli delitto in stile Gomorra. I dati del governo: “Aumentano le vittime di reati violenti”. L’Italia non è un Paese per buoni. A suggerirlo non è solo la percezione di insicurezza che serpeggia da un capo all’altro d’Italia, ma i numeri che certificano nel 2023 un aumento della criminalità soprattutto nei contesti urbani densamente popolati. Milano si conferma maglia nera (Indice della criminalità 2023 del Sole 24 Ore), con 6.991 reati denunciati ogni 100mila abitanti nel 2022 e denunce in crescita del 3,5% anche nel primo semestre 2023 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. La top 10 della classifica è popolata da grandi città e mete turistiche: al secondo posto si incontra Rimini (dove nel 2023 si rileva una diminuzione dell’8% delle denunce); Bologna, Firenze e Torino occupano rispettivamente la 4ª, 5ª e 6ª posizione, seguite da Imperia, Livorno, Prato e Napoli. Un discorso a parte merita Roma dove, tra gennaio e giugno 2023, le denunce sono salite dell’8,3% sugli stessi mesi del 2022. “Roma resta una città sicura”, sbraita il sindaco Roberto Gualtieri, a dispetto del trend che preoccupa e spinge il primo cittadino a investire 14 milioni di euro per l’installazione di mille telecamere. Che l’Italia sia diventato “un luogo abitato da diavoli” è confermato anche dai dati del Viminale, appena sfornati. Secondo la Direzione centrale della polizia criminale nel solo periodo 1-14 gennaio 2024, sono stati registrati 14 omicidi, con 8 vittime donne, di cui 6 uccise in ambito familiare/affettivo, 3 per mano del partner/ex partner. Con un aumento del 15 per cento rispetto all’anno passato. A conferma di una tendenza che ha portato a 308 omicidi nel 2021, 325 nel 2022, 330 nel 2023: la previsione, se si va avanti di questo passo, è che nel 2024 si superino i 350 morti. La violenza e la percezione di insicurezza nelle grandi aree urbane è un fatto che permea la cronaca delle regioni italiane. Brutalità metropolitane alimentate da vari fattori come la disoccupazione, la disparità economica, la presenza di criminalità organizzata, l’immigrazione incontrollata, l’indebolimento e la disorganizzazione delle strutture familiari. A farla da padrone sono baby gang, predatori di strada e narcos che controllano le piazze di spaccio, favoriti dalla diminuzione delle politiche di intervento sociale e da una governance della sicurezza improntata alla gestione e non alla prevenzione. Milano - Sono centinaia i senza fissa dimora che controllano, ormai da anni, il territorio nei pressi della Stazione Centrale. Tre di questi, nordafricani, hanno accoltellato un passante per sottrargli cellulare e 20 euro. Era la quinta rapina nella stessa serata. Tecnica identica, le vittime tutte con lo stesso profilo: ragazzini e donne, aggrediti nella giungla dalle parti della Stazione Centrale. Due ragazze di 19 e 27 anni picchiate nei pressi di una discoteca in via Fermi. Bologna - Baby gang assediano ormai i centri commerciali, soprattutto il Gran Reno, inaugurato nel 1993 da Berlusconi. Per impedire abbordaggi delle ’truzzo band’ composte in gran parte da ragazzini italiani, tra i 10 e i 15 anni, con l’aggiunta di minorenni stranieri non accompagnati ospiti di comunità, non basta più il piccolo esercito di steward pagato dagli iper. Dallo scorso weekend è attiva una task foce di poliziotti e vigilantes, 150-200, con un piano di controlli che impedisce ai lazzaroni di rubare smartphone, accessori griffati e soldi ai loro coetanei. Roma - Spari in strada, un 24enne marocchino viene gambizzato poco prima delle 4 del 21 gennaio su via Casilina. In meno di dieci giorni a Roma sono state uccise due persone tra cui un 14enne, tre i feriti. Napoli - Dopo il Far West di Case Nuove con tre giovanissimi che sparano 80 colpi di pistola e kalashnikov, ieri un delitto in stile Gomorra. I killer sono entrati in casa sparando e la vittima per scappare si è gettata dal balcone morendo. Brindisi - Prima la lite, tra i locali della movida, poi l’aggressione con un pugno in pieno volto. Un 30enne viene ricoverato in Rianimazione e un ragazzo di 20 anni finisce in carcere con l’accusa di tentato omicidio. Ragusa - Una baby banda devasta piazza del Popolo a Vittoria, alle porte di Ragusa. I poliziotti denunciano due giovani stranieri che, dopo aver messo a soqquadro i bar della piazza, pubblicano il video su Facebook. Friuli Venezia Giulia. Lavoro in carcere: nuove esperienze per la reintroduzione nella società di Andrea Covre rainews.it, 22 gennaio 2024 In questi giorni compie un anno il nuovo percorso specifico avviato nelle case circondariali di Trieste, Tolmezzo, Udine, Gorizia e Pordenone. Guardare al futuro e non al passato, ricostruire una vita proprio come indica la costituzione all'articolo 27: le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. È il principio-guida che ha portato la formazione al lavoro in carcere fornendo prospettive concrete di reintroduzione nella società. Le risorse del fondo sociale europeo sono veicolate dalla Regione. E proprio in questi giorni compie un anno il nuovo percorso specifico avviato nelle case circondariali di Trieste, Tolmezzo, Udine, Gorizia e Pordenone. Rispetto al ciclo pluriennale precedente che dal 2015 al 2020 ha visto stanziati 4 milioni di euro, in un solo anno dal gennaio 2023 al gennaio 2024 le risorse messe a disposizione sono già oltre la metà: 2 milioni e 200 mila euro e i progetti proposti dalle case circondariali e dagli enti di formazione accreditati sono in continuo progresso. Anna Maria Bosco - direzione regionale Lavoro e Formazione: “Abbiamo finanziato 72 progetti. 315 sono i detenuti in formazione. Edilizia e ristorazione i settori più gettonati”. Settori che cercano persone da impiegare: il futuro insomma passa per il lavoro, ma non solo. Oltre a quelli per imparare un mestiere, ai detenuti vengono proposti anche corsi finalizzati al miglioramento delle relazioni sociali: Bosco: “Questi corsi trasversali danno la possibilità di ambire non solo ad un inserimento lavorativo, ma anche a una buona inclusione sociale”. Dei 315 detenuti che partecipano ai corsi, 16 sono donne e le richieste di partecipazione non mancano. Altri corsi potranno essere attivati fino al 30 giugno e poi si apriranno nuovi programmi con nuovi finanziamenti. Piemonte. Anche in carcere la Sanità è un diritto di Francesco Curzio rossetorri.it, 22 gennaio 2024 Convocato il Consiglio Regionale sul tema della Sanità in carcere. La questione della Sanità in carcere, che ormai troppo spesso viene alla luce in seguito a denunce, ispezioni o episodi drammatici come quello avvenuto pochi giorni fa alla Casa Circondariale di Ivrea, arriva anche nel Consiglio Regionale del Piemonte, che martedì 23 gennaio dalle 10 alle 19, con interrogazioni alle 9.30 e question time alle 14, esaminerà la situazione. Il Servizio Sanitario, che già fa fatica a svolgere le sue funzioni su tutto il territorio a causa dei continui tagli di bilancio e della carenza di personale, all’interno dei penitenziari rivela falle ancora più evidenti. Parliamo di strutture con una popolazione con scolarizzazione media molto bassa, con alto tasso di precedenti per dipendenze e reati connessi, con scarso accesso alla prevenzione e forti disturbi psicologici. In questo contesto l’assistenza medica viene fornita da due medici in alternanza come Guardia medica, non dipendenti dell’Asl ma forniti da CM Service, azienda privata, così come i quattro infermieri. In questo modo però non vengono affrontate le molte difficoltà proprie dell’assistenza medica in un carcere, dal seguire un paziente da un giorno all’altro all’organizzare una visita specialistica o un ricovero in ospedale, dal rifornimento di medicinali al relazionarsi con altre strutture del territorio. Per svolgere queste funzioni nel 2023 l’Asl, dopo otto mesi di mancanza, grazie ai fondi per il contrasto al Covid ha assunto un medico coordinatore, il dottor Massimo Beratto andato da poco in pensione come medico di famiglia, con contratto valido fino al 31 dicembre 2023. Nel frattempo anche per il comparto infermieristico è stata assunta una coordinatrice, tutt’ora in servizio. Al momento attuale l’Asl non ha ancora ritenuto di assumere un altro medico coordinatore e l’unica assistenza è data dai medici a gettone forniti dal privato. A complicare la situazione è anche la cronica mancanza di personale di polizia penitenziaria, cosa che per esempio rende difficile il trasferimento in ospedale di un detenuto con conseguente scorta di personale che in caso di necessità di ricovero è prevista anche in reparto. Anche le visite specialistiche o gli esami medici diagnostici richiedono lo stesso trattamento e costituiscono quindi un problema che un medico coordinatore può affrontare meglio di quello semplicemente di turno. È noto che la carenza di medici è un problema che affligge molte strutture del Sistema Sanitario, anche nella nostra ASL TO4, ma tutto ciò, oltre a dimostrare una incredibile incapacità progettuale a livello nazionale, non sembra essere in cima alle preoccupazioni di chi ha la responsabilità oggi di governare, anche nella nostra ASL TO4 e in Regione. Se la scelta, spesso obbligata dalla mancanza di alternative, è sempre più spesso quella di rivolgersi agli studi privati per una visita specialistica da parte del normale cittadino, in situazioni di detenzione non è proprio possibile per cui è lo Stato, che ha in gestione le persone detenute, che deve assicurare loro le cure necessarie. Andrea Pagani Pratis, collaboratore di questo giornale nell’inserto La Fenice sotto la firma di Vespino, queste cure non le ha ricevute e ora una inchiesta della Procura cercherà di capire come mai, nel 2024, si possa morire in carcere ad Ivrea per una malattia non diagnosticata e non curata. Napoli. Suicidio nel carcere di Poggioreale, il terzo da inizio anno ansa.it, 22 gennaio 2024 Indagine in corso. Provveditore “Situazione personale difficile”. Nuovo suicidio nel carcere napoletano di Poggioreale: si tratta del terzo dall'inizio del 2024. Il detenuto, secondo quanto si apprende, aveva una fine pena a breve termine. A confermare il decesso è il provveditore per le carceri della Campania Lucia Castellano: “Il detenuto era afflitto da una situazione personale particolarmente difficile - dice il provveditore all'Ansa - MI sono già attivata ma la situazione del carcere di Poggioreale, il più affollato d'Europa, è particolarmente complicata”. Secondo quanto si è appreso è in corso una indagine per fare luce sull'accaduto. Ancona. Suicida in carcere, il dolore della mamma: “Giustizia per Matteo, sarà una battaglia” di Federica Serfilippi Corriere Adriatico, 22 gennaio 2024 “La battaglia per ottenere giustizia è appena iniziata, sarà lunga, forse difficile, ma vale la pena di essere combattuta”. A quindici giorni dalla dramma che si è consumato nel carcere di Montacuto, ha voluto rompere il silenzio con una lettera Roberta Faraglia, la mamma di Matteo Concetti, il 25enne fermano che si è impiccato nella cella d’isolamento il 5 gennaio. Il fascicolo - Sul caso, la procura di Ancona ha avviato un’inchiesta con l’ipotesi di reato di istigazione al suicidio. Non ci sono indagati. Il fascicolo è stato aperto dopo la denuncia sporta dalla mamma del giovane detenuto ai carabinieri di Rieti, città dove risiede assieme alla sua famiglia. Ieri voluto concentrare i pensieri e le parole in una lettera. Inizia così: “Mi scuso per il mio silenzio fino ad oggi, non ma sono certa che comprenderete il motivo. Vorrei ringraziare, per prima, la senatrice Ilaria Cucchi: mai avrei creduto di poter ottenere il suo numero personale, né tanto meno che mi rispondesse e che mi fornisse l'attenzione e il supporto che mi era necessario”. La senatrice è stata contattata dalla madre di Concetti (sarebbe uscito dal carcere ad agosto dopo aver espiato una pena di 4 anni) qualche ora prima del suicidio. La Faraglia era preoccupata che il figlio potesse compiere un gesto estremo, considerando che nel colloquio in carcere glielo aveva annunciato: “Io mi impicco”. Di qui, la preoccupazione rivolta alla Cucchi, che non ha fatto in tempo a mettersi in contatto con il sistema penitenziario per poter verificare la situazione del 25enne. I ringraziamenti alla politica - E ancora, il contenuto della lettera: “Ringrazio particolarmente i senatori Ivan Scalfarotto e Matteo Verducci, per le loro dichiarazioni portate all'attenzione del Senato della Repubblica: spero che non siano parole perse nel vuoto. “Ringrazio tutti i mezzi di informazione per l'attenzione posta sulla vicenda, e anche le associazioni che si stanno interessando di quanto accaduto e che hanno manifestato in piazza, e anche tutti quanti hanno dato voce a mio figlio, che voce più non ha”. La volontà di ottenere giustizia impregna ogni parole della missiva: “Quando la mattina aprite gli occhi abbracciate i vostri figli o nipoti, pensate a Matteo Concetti che non respira più, alla sua famiglia: nulla, se non l'ottenere giustizia, potrà lenire il nostro dolore. Mio figlio ha varcato quel cancello con le sue gambe che tanto volevano correre, e ne è uscito in una bara”. E infine: “Sono certa che le indagini in corso chiariranno la responsabilità di quanti non hanno voluto fare nulla per ascoltare il suo grido di aiuto”. La famiglia di Concetti è assistita legalmente dall’avvocato Giacomo Curzi. La diagnosi - A causa dei problemi psichiatrici (gli era stato riscontrato il bipolarismo e l’iperattività), Concetti aveva una amministratrice di sostegno. Parte della pena era stata scontata in una comunità dove era entrato con la doppia diagnosi: tossicodipendenza e problemi psichiatrici. A Montacuto era arrivato a novembre, dal carcere di Fermo. In isolamento era stato collocato per motivi disciplinari: pare avesse aggredito una guardia. Cagliari. Beniamino Zuncheddu scrive al Papa chiedendo una preghiera e un’udienza privata di Nicoletta Cottone Il Sole 24 Ore, 22 gennaio 2024 L’ex allevatore sardo che ha passato quasi 33 anni in carcere accusato della strage di Sinnai è in attesa del verdetto dei giudici nel processo di revisione. “Per Sua Santità Papa Francesco - Città del Vaticano”. Beniamino Zuncheddu scrive a Papa Francesco. Una lettera al Pontefice stilata a quattro mani con il parroco di Burcei don Giuseppe Pisano, per chiedere una preghiera e un’udienza privata dopo la sentenza attesa martedì 23 gennaio, con la quale si attende un’assoluzione piena dell’ex pastore sardo. Provata l’estraneità dell’ex pastore sardo - Nel corso del processo di revisione presso la Corte d’appello di Roma, grazie alle intercettazioni, è stata provata l’assoluta estraneità di Beniamino Zuncheddu a quell’eccidio. Anche il testimone chiave che ha accusato Beniamino ha ammesso di essere stato indotto a mentire. Quello di Zuncheddu, una volta assolto, sarà registrato come il più grande errore giudiziario della storia della giustizia italiana: poco meno di 33 anni in carcere da innocente. Beniamino si è sempre dichiarato innocente. Zuncheddu ha passato quasi 33 anni in carcere - L’ex allevatore sardo - che oggi ha 59 anni ed è entrato in carcere due mesi prima di compiere 27 anni - ha passato quasi 33 anni in carcere, condannato all’ergastolo per la strage compiuta l’8 gennaio 1991 nell’ovile di Cuile is Coccus, sulle montagne di Sinnai, in provincia di Cagliari. Quella sera furono uccisi tre pastori: Gesuino Fadda, suo figlio Giuseppe e Ignazio Pusceddu. Il genero di Fadda, Luigi Pinna, unico sopravvissuto alla strage, si è trasformato nel principale accusatore di Beniamino Zuncheddu. Poi il processo di revisione, chiesto dall’allora Procuratore generale della Corte d’appello di Cagliari Francesca Nanni (ora Procuratore generale della Corte d’appello di Milano) e dall’avvocato Mauro Trogu, legale di Beniamino Zuncheddu, ha dimostrato l’innocenza di Beniamino. Beniamino Zuncheddu, nella sua Burcei grazie all’ordinanza di scarcerazione giunta il 25 novembre 2023, sta affrontando le ultime fasi del processo di revisione che si sta celebrando dinanzi la Corte d’Appello di Roma. Martedì 23 gennaio, dopo la requisitoria del Pg e le arringhe finali delle parti civili e dell’avvocato della difesa Mauro Trogu, dovrebbe arrivare la decisione dei giudici. Monsignor Baturi: la verità si fa strada - La lettera è stata letta a Burcei nel corso di un incontro pubblico al quale ha partecipato l’arcivescovo di Cagliari e segretario generale della Conferenza episcopale italiana monsignor Giuseppe Baturi accolto dal sindaco Simone Monni. “Colpisce tanto - ha dichiarato l’alto prelato ai giornalisti - come una comunità si sia stretta attorno a un uomo che ha vissuto una vicenda veramente terribile, ma molto significativa circa i valori della verità e della giustizia. Quindi sono venuto ad associarmi alla comunità di Burcei, incontrando il signor Beniamino per esprimergli la mia solidarietà. E ricordare a tutti che la verità si fa strada, ma che la giustizia ha bisogno della partecipazione di tutti”. Frosinone. Due anni in carcere per stupro ma è innocente: risarcito con 160mila euro di Aldo Simoni Corriere della Sera, 22 gennaio 2024 L'errore giudiziario determinato da uno scambio di persona: un commerciante di auto ha trascorso anche un anno ai domiciliari. Quell’accusa infamante lo ha tormentato per più di tre anni. Prima il carcere, poi i domiciliari dopo che i giudici del tribunale di Frosinone lo avevano condannato per la violenza sessuale su una studentessa 21enne aggredita dal branco in un casolare. Ora la Corte di appello, riconosciuta la sua piena innocenza, ha invece ordinato al ministero dell’Economia di risarcirlo con oltre 160 mila euro per l’ingiusta detenzione. È la stessa Corte a ricordare come Elvio Milvio, 30 anni, “fu privato della libertà dal giorno dell’arresto (19 dicembre 2016) fino a quello della sostituzione con gli arresti domiciliari (8 agosto 2018) per 598 giorni di custodia cautelare e, dal giorno dei domiciliari, fino alla liberazione (21 gennaio 2019) per ulteriori 166 giorni”. Rito abbreviato senza testimoni - Ma come è stato possibile quest’errore? La Corte specifica che “l’imputato, davanti al gip, negò di essere coinvolto nel delitto per il quale si procedeva, poiché, a suo dire, era vittima di un errore di persona, poi riconosciuto dalla sentenza di assoluzione in appello”. I giudici hanno stigmatizzato il modo in cui furono svolte le indagini che non appurarono la veridicità del suo alibi (“Ero a casa con mia moglie”) e nessuno, a cominciare dai carabinieri, si prese la briga di verificarlo. “Va detto - spiega l’avvocato di Milvio, Emanuele Carbone - che il processo di primo grado si è svolto con il rito abbreviato, per cui non ci fu modo di ascoltare alcun testimone, moglie compresa”. In primo grado ai 6 imputati furono inflitte condanne fra i 5 e i 6 anni. A Milvio 5 anni e 4 mesi di reclusione. Pene confermate in appello, ma non a lui che è stato assolto. Il risarcimento - Ma, allora, come finì al centro delle indagini? “La vittima non fu precisa nell’indicare i suoi stupratori - ricorda l’avvocato Carbone -. La prima sera fece due nomi. Poi quelli degli altri. L’ultimo, Milvio appunto, disse invece di averlo riconosciuto sui social. Ma nel casolare dello stupro, al contrario degli altri 5, non furono trovate tracce del mio assistito”. “È la fine di un incubo - spiega il 30enne, gestore di una concessionaria di auto -. La cosa più triste è aver ritrovato mia figlia ormai grande: aveva solo un anno quando mi hanno arrestato. Voglio ricostruire un rapporto con lei”. Per Milvio tuttavia l’odissea giudiziaria non è ancora conclusa: l’ordinanza della Corte d’appello - che riconosce al 30enne 160.593 euro di risarcimento - sarà impugnata dal suo avvocato che ha accettato l’importo come anticipo, visto che Milvio e lui stesso ritengono il danno subìto superiore a quanto stabilito dai giudici. Per questo si rivolgerà alla Corte di Cassazione per chiedere l’importo massimo previsto per l’ingiusta detenzione: 516 mila euro. Bisceglie (Bat). “Semi di legalità”, incontro sul progetto “oltre le sbarre” bisceglielive.it, 22 gennaio 2024 Appuntamento venerdì 26 gennaio nella sede dell’auditorium dell’Epass Bisceglie. Proseguono, per il terzo anno consecutivo, gli appuntamenti del progetto “Semi di legalità”, organizzati dal Settore Giovani dell’Azione Cattolica diocesana. Il prossimo incontro in agenda, dal titolo “Oltre le sbarre: storie di legalità e riscatto”, si svolgerà venerdì 26 gennaio alle 19 presso l’auditorium dell’Epass Bisceglie. Il cuore della discussione sarà conoscere come un progetto sociale attivo nel territorio di Andria riesca a dare una seconda possibilità lavorativa e di riscatto a tutti quei detenuti che hanno voglia e desiderio di cambiamento. Interverranno Don Riccardo Agresti, fondatore della cooperativa “A mano libera” e il magistrato Giannicola Sinisi; è prevista anche la testimonianza di un detenuto che è parte attiva del progetto. L’appuntamento rientra nel ricco calendario di eventi del progetto Semi di legalità con il sostegno della prefettura BAT, della provincia, dei sette comuni e della diocesi di Trani-Barletta-Bisceglie; il progetto giunto alla sua terza edizione è firmato dal Settore Giovani dell’Azione Cattolica diocesana e si rivolge a grandi e piccoli, nato in occasione dei trent’anni delle stragi in cui hanno perso la vita i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Sito web “Semi di legalità”: www.semidilegalita.it Cremona. “Biblioteca vivente”, i racconti dei carcerati per abbattere muri e pregiudizi laprovinciacr.it, 22 gennaio 2024 Ieri il primo incontro del progetto per l’inclusione attiva promosso da Comune, Asst e Cooperativa di Bessimo. L’evento di oggi è il primo momento aperto al pubblico, ma non sarà l’ultimo. Essere un “libro Aperto” non è semplice. Soprattutto quando chi sceglie di raccontarsi si trova in carcere. Così è stato per i partecipanti alla “biblioteca vivente”, che sabato 20 gennaio 2024 ha accolto una trentina di visitatori nella palestra della Casa Circondariale di Cremona. Accompagnati dagli operatori della struttura e del Servizio Dipendenze dell’Asst di Cremona, dieci detenuti hanno risposto alle domande di un pubblico selezionato, composto da cittadini, studenti degli istituti superiori e del Corso d’Infermieristica, rappresentanti del terzo settore e del mondo imprenditoriale. L'obiettivo è duplice: abbattere lo stigma sociale nei confronti di chi sta scontando una pena, e al contempo offrire loro l’opportunità di riflettere sulla propria esperienza e sul percorso da intraprendere una volta fuori dal carcere. È un modo per creare un ponte con l’esterno, tra chi vive il pregiudizio e chi lo esprime. Avviata nel marzo 2023, l’iniziativa rientra nel progetto Re-Start 4.0 (finanziato da Regione Lombardia con fondi POR FSE) per “l’inclusione attiva delle persone sottoposte a provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria”. È promossa dal Comune di Cremona (ente capofila) con il coordinamento operativo della cooperativa Nazareth e realizzata in collaborazione con l’Asst di Cremona e la Cooperativa di Bessimo. Gli studenti dell’Istituto tecnico J.Torriani di Cremona hanno documentato le varie fasi del progetto per promuovere l’iniziativa. L’evento di oggi è il primo momento aperto al pubblico, ma non sarà l’ultimo: l’obiettivo è aprire la partecipazione a tutte le persone interessate. La biblioteca vivente - L’idea nasce nel 2000 in Danimarca, in risposta ad un violento episodio di razzismo subìto da un gruppo di giovani, che rispondono organizzando un evento per abbattere i pregiudizi e favorire il dialogo. Il modello si è sviluppato in diversi contesti, tra cui il carcere, dove i detenuti diventano protagonisti della propria storia. Come “libri viventi”, raccontano il percorso che li ha condotti alla criminalità, l’esperienza del carcere, le fragilità e le riflessioni maturate nel tempo. Il pubblico può interagire con loro, fare domande, affrontare lo stigma che spesso segna chi sconta una pena di detenzione. “Ringrazio tutta la rete del partenariato per il lavoro quotidiano con la Casa Circondariale nell'ambito del progetto RE-START, e per questa iniziativa in particolare ASST Cremona e Cooperativa Bessimo”, afferma Rosita Viola, assessore alle Politiche Sociali e Fragilità del Comune di Cremona. “Una esperienza umana ed emotiva molto forte sia per chi racconta, sia per chi ascolta. Dopo la “lettura” le parole vanno conservate e meditate. Mi auguro che tanti cittadini possano partecipare e “leggere” e incontrare”. Incontrarsi, conoscersi, raccontarsi - “Iniziative come questa aiutano chi vive la reclusione a riflettere sulla propria storia e sul proprio futuro”, spiega Leone Lisè, educatore del SerD dell’Asst di Cremona (diretto da Roberto Poli), che ha seguito il progetto con la collega Francesca Salucci (referente per la Cooperativa di Bessimo) e gli operatori dell’area riabilitativa della Casa circondariale. “In carcere si tende spesso a parlare del reato, della pena, degli anni da scontare, ma occorre scavare più a fondo per far emergere la storia delle persone. Immaginare un finale diverso non è scontato, così come capire quali opportunità si possono aprire per loro”. Aprirsi alla città è un aspetto fondamentale per accorciare le distanze e mettere in discussione i preconcetti. “La biblioteca vivente non è un evento fine a sé stesso - prosegue Lisè - ma un punto di partenza. Ci piacerebbe creare un'opportunità costante di dialogo e confronto, costruire connessioni con il territorio e progetti da sviluppare oltre le mura del carcere, per rendere migliore la città in cui viviamo”. “Impariamo a guardarci dentro” - “Per nove mesi, la solitudine è stata la mia unica amica”, racconta Logan. “A volte resta in testa solo una strada, la più tragica. Le notizie arrivano in modi inaspettati e tu non sei in grado di risolvere niente, sei solo”, aggiunge Ardit. “A volte ci sono dei dolori che non ascoltiamo - afferma Alberto - eppure ero arrivato ad un passo dal cambiare davvero. Ma non è sempre vero che dagli errori si impara”. Per i detenuti, partecipare al progetto è stato il modo per “guardarsi dentro”, condividere la propria storia e confrontarsi sulle difficoltà che li accomunano. Raccontandosi agli altri, hanno imparato a riconoscere la rabbia, il dolore, la frustrazione, a guardare la vita da punti di vista differenti, ad ascoltare gli altri per leggere meglio il proprio vissuto, con maggiore consapevolezza sulle scelte passate e future. A seconda di come si usa il tempo della reclusione, si può uscire peggiori e migliori. È una scelta, su cui questo percorso può aiutare. Destra e censura: la voce del potere di Michele Ainis La Repubblica, 22 gennaio 2024 La libertà d’espressione è il termometro delle democrazie. Ne registra la buona salute, o all’opposto gli stati febbrili. E in Italia - benché non soltanto in Italia - la febbre sale, mentre la democrazia s’ammala. Succede lentamente, goccia a goccia, senza rumor di sciabole né l’ordine d’un coprifuoco. Forse per questo ci facciamo meno caso. Ma gli episodi sono ormai molteplici, un lungo corteo funebre dietro la salma del dissenso, dell’opinione discordante rispetto alla voce del potere. Lasciamo da parte gli antefatti più remoti, come il decreto sui rave party che ha battezzato l’avvio della legislatura. “Raduni pericolosi”, così li definisce: evidentemente la musica techno fa male alla salute, è ok soltanto Sanremo. Mettiamo piuttosto in fila le vicende più recenti, quelle che hanno spinto la Federazione nazionale della stampa, i Comitati di redazione, l’Unione dei giornalisti Rai a diramare un comunicato che suona altresì come un allarme. Dopo la proposta di legge Balboni (ammende smisurate per la diffamazione) e la stretta di Nordio sulle intercettazioni, arriva il divieto di pubblicare le ordinanze cautelari, con buona pace della libertà d’informazione. Che per i giornalisti è un diritto ma al contempo un dovere, un servizio reso al pubblico. Ma a quanto pare il pubblico (nel senso di pubblico potere) ha invece l’informazione in gran dispetto, specie se irriverente, non ortodossa - libera, insomma. Così, il ministro Sangiuliano invia una diffida a Un giorno da pecora, la trasmissione di Cucciari e Lauro. Lo stesso ministro si sarebbe poi adirato per la satira di Virginia Raffaele su Rai 1. FdI deposita un’interrogazione presso la commissione di vigilanza Rai, mettendo sotto tiro Report, per le puntate sulle famiglie di La Russa e di Meloni. Il Consiglio dei ministri s’inventa il reato di “non violenza”, che punisce i detenuti che rifiutino il cibo o l’ora d’aria (ne ha parlato Luigi Manconi). La Camera approva la legge contro gli “imbrattatori”, i ragazzi di Ultima generazione che spruzzano vernice lavabile sui monumenti: fino a 60 mila euro di sanzione. Anche se un giudice a Bologna ha sentenziato che la loro causa - il clima, che minaccia la sopravvivenza stessa della Terra - vanta un’indubbia valenza d’ordine morale e sociale. Nel marzo 2022 un convegno dell’Istituto Bruno Leoni discuteva di “seconda giovinezza” della censura. Sennonché la censura ormai s’esprime in forme più oblique, più indirette, rispetto al Minculpop. Agisce attraverso la promozione degli amici - di chi canta nel coro - al vertice delle più importanti istituzioni culturali; e al contempo nel trasferimento, nel deferimento, nel demansionamento dei nemici. Chi non accetta il verbo deve fuggire altrove, com’è accaduto a molti volti famosi della Rai: Fazio, Berlinguer, Annunziata e via elencando. D’altronde è un vecchio sistema, illustrato già da Béranger, poeta popolare francese vissuto al tempo della Restaurazione: “Io non vivo, che per scrivere dei canti. Ma se voi, Monsignore, mi togliete il posto, scriverò dei canti per vivere”. Tira una brutta aria, insomma. E non solo alle nostre latitudini. Secondo Reporters sans frontières, nel 2023 la libertà di stampa è peggiorata in 31 Paesi. Amnesty International aveva già denunziato la crisi della libertà d’espressione in conseguenza della pandemia da Covid 19. Persino la Francia, patria di Voltaire, si è distinta per un insieme di misure repressive: divieto di manifestare contro i mega bacini idrici di Deux-Sèvres, contro l’Alta velocità Torino-Lione, contro la guerra d’Israele in Palestina. E i giornalisti subiscono minacce e intimidazioni ovunque (721 casi in Italia nel 2022). Eppure manca una reazione, un moto popolare di protesta. Perché? In parte perché è impossibile opporsi al vento della storia: lungo la corsa dei millenni la democrazia rappresenta un’eccezione, mentre in questa stagione di nazionalismi bellicosi sta tornando in auge il primato della regola, dell’autorità senza controlli, senza contrappesi. In parte perché siamo immersi nell’era della solitudine di massa, ciascuno isolato dal consorzio umano dinanzi al suo computer; e la solitudine genera sottomissione, diceva già Foucault. Rimane la denuncia contro il “pensiero unico”, ribadita da Mattarella a Pesaro, il 20 gennaio. Ma di questi tempi il denunciante rischia a sua volta una denuncia. Una psichiatria per l’età della transizione di Claudio Mencacci* Corriere della Sera, 22 gennaio 2024 Più di 1 adolescente su 7 tra i 10 e i 19 anni convive con un disturbo psichico diagnosticato. Ansia e depressione rappresentano oltre il 40% delle diagnosi. Bisogna avere chiaro che la salute mentale è un diritto fondamentale, un lascito di civiltà alle future generazioni. I dati epidemiologici evidenziano che la gran parte dei disturbi psichici continuativi hanno il loro esordio negli anni dell’adolescenza e della giovane età adulta. Che i disturbi mentali esordiscano per lo più in età evolutiva è un dato accertato, altrettanto che spesso evolvono in età adulta per un nutrito numero di concause. Come confermano sia le evidenze cliniche sia gli studi sulla plasticità del sistema nervoso, in nessuna altra fase della vita l’interazione tra dotazione innata e ambiente è così determinante come nel corso dello sviluppo e richiede quindi attenzione e interventi mirati. Accanto alla prospettiva trasversale (quella del momento della valutazione), è necessaria la prospettiva longitudinale. Coniugata con l’attenzione alla specificità dello sviluppo, la prospettiva life span ha consentito di individuare in molte patologie la presenza di finestre evolutive, ovvero di periodi di maggiore sensibilità e trasformabilità delle funzioni e delle competenze, connesse al timing dello sviluppo neurobiologico e psichico e al loro intreccio con la neuroplasticità, e conseguentemente diverse a seconda del singolo disturbo. La “malleabilità” cerebrale dell’adolescenza può essere immaginata come una lente d’ingrandimento su cui possono interferire nel percorso di sviluppo stress di diversa natura (emotiva, tossica, relazionale) con effetti che possono prolungarsi nel tempo. Negli ultimi anni ci sono stati un rilevante incremento delle richieste di diagnosi e interventi per disturbi neuropsichici dell’età evolutiva e un rapido cambiamento nel tipo di utenti e famiglie e dei loro bisogni. In nessun’altra area della medicina si è assistito a un aumento degli accessi ai servizi così rilevante. È drammaticamente incrementata la prevalenza di episodi depressivi e ansiosi, oscillazioni dell’umore, psicosi, dipendenze da sostanze o comportamentali (internet), autolesionismo, disturbi della nutrizione e dell’alimentazione, isolamento in casa, aggregazione in bande. Appare quindi fondamentale strutturare una Psichiatria dell’età di transizione dai 15 ai 24 anni. Ne deriva la necessità di collaborazione tra psichiatria e neuropsichiatria infantile e la capacità di sviluppare integrazione nell’ambito dell’area salute mentale, in particolare nell’area giovani e adolescenti, dove rientrano anche la pediatria, i servizi per le dipendenze e la psicologia clinica. Campagne di sensibilizzazione nelle scuole, screening per disturbi mentali, maggiore informazione ai genitori, riconoscimento precoce dei disturbi, creazione di equipe multidisciplinari sono tra le risposte da implementare coinvolgendo le Istituzioni. *Co-Presidente Società Italiana di Neuropsicofarmacologia Migranti. La beffa del villaggio milionario inutilizzato a Rosarno. E i braccianti nelle baracche di Daniela Fassini Avvenire, 22 gennaio 2024 La denuncia di Medu, medici per i diritti umani che aiutano i 1.500 stranieri che raccolgono gli agrumi in questa zona della Calabria: “Aprire gli alloggi, garantire i diritti ai lavoratori”. La beffa degli ultimi. Di chi arriva in Italia, senza nulla, col solo desiderio di poter lavorare e vivere una vita dignitosa. Soprattutto chi decide di fermarsi al Sud, per lavorare nei campi. E questo è il periodo della raccolta degli agrumi. Sono in tutto circa 1.500 i braccianti che lavorano in particolare nella Piana di Gioia Tauro, in Calabria. Migliaia di stranieri che popolano i casali abbandonati, le baracche fatiscenti e la tendopoli o i vecchi container “autorizzati” sparsi per i comuni di Rosarno, San Ferdinando e Taurianova. Villaggi dove la vita è disumana e lo è ancor di più se a poche centinaia di metri ci sono invece palazzine nuove, ristrutturate con i soldi europei, pronte solo per essere abitate. “Le drammatiche condizioni riscontrate, a partire dal 2013 quando Medu, (l’organizzzazione umanitaria Medici per i diritti umani , ndr) ha raggiunto per la prima volta la Piana, appaiono oggi ancor più grottesche e paradossali, se si accostano le immagini disumane della vita negli insediamenti informali a quelle dei campi container ultimati e mai aperti o delle palazzine disabitate confiscate alla mafia e recentemente ristrutturate per promuovere un abitare dignitoso - racconta Lorenzo, operatore Medu e coordinatore del progetto “Campagne aperte” nella Piana - Cinque milioni e mezzo di euro sono stati spesi ad oggi per la realizzazione di alloggi che non hanno mai aperto i battenti. Di questi, 3 milioni provengono dall’Unione Europea e sono stati destinati alla costruzione di sei edifici per un totale di 36 appartamenti a Rosarno. Ulteriori 2 milioni sono stati stanziati dal Ministero dell’Interno per la creazione del “Villaggio della Solidarietà” su un terreno confiscato al clan Bellocco. Infine, 650.000 euro sono stati investiti per la realizzazione di un Centro Polifunzionale mai attivato in Contrada Donna Livia, nel comune di Taurianova”. Tutti edifici nuovi e disabitati. Alcuni addirittura in parte anche già da recuperare per il mancato utilizzo. L’organizzazione umanitaria Medu è presente nella Piana di Gioia Tauro per portare assistenza medica e supporto legale ai braccianti. Il team (di cui Lorenzo fa parte) opera tre giorni a settimana presso gli insediamenti precari della Piana, raggiungendo con una clinica mobile i circa 1.500 braccianti agricoli stranieri che popolano i casali abbandonati, la fatiscente tendopoli ministeriale e i vecchi container sparsi tra i Comuni di Rosarno, San Ferdinando e Taurianova. La popolazione degli insediamenti è composta da giovani uomini con un’età media di 35 anni provenienti dai Paesi dell’Africa subsahariana occidentale, in particolare Mali, Gambia, Senegal, Ghana e Costa D?avorio. “Molti di loro vivono in Italia da diversi anni e l?88% da più di 3, ma - prosegue Lorenzo - nonostante la lunga permanenza, continuano a trovarsi in una condizione di esclusione, precarietà occupazionale e sfruttamento”. È significativo notare che il 92% delle 94 persone assistite nel primo trimestre del 2023 dal punto di vista sanitario o socio-legale era in possesso di regolari documenti di soggiorno in Italia. Tra commissariamenti, crisi economica e demografica, lavoro nero, illegalità diffusa, sanità al collasso, quella dei migranti e richiedenti asilo costretti a vivere in condizioni disumane per poter lavorare - spesso in nero e in condizioni di sfruttamento - alla raccolta stagionale degli agrumi, “appare come una piaga vergognosa e apparentemente inguaribile, in particolare qui, nella Piana di Gioia Tauro. Una situazione che si ripete ogni anno” denunciano gli operatori umanitari. E così, presso la tendopoli di San Ferdinando, oltre mille braccianti dormono da ottobre a marzo in tende ministeriali divenute ormai baracche coperte di plastica, senza acqua, luce e riscaldamento e a rischio continuo di incendi a causa dei fuochi che vengono accesi quotidianamente per riscaldarsi e cucinare. Estreme sono anche le condizioni in cui versa il casolare fatiscente in Contrada Russo, nel Comune di Taurianova - a pochi metri del “Villaggio della Solidarietà” pronto e mai aperto - dove circa 200 persone vivono tra spazzatura e ratti. “Vivono con la beffa di vedersi davanti un campo di accoglienza pronto ma mai aperto - prosegue Lorenzo - Noi abbiamo contattato l’amministrazione locale ma non ci hanno dato risposta. Fra l’altro, chiediamo anche la presenza fissa dei vigili del fuoco ma ad oggi non ci è ancora stata concessa. L’altra sera, ad esempio, è saltata una cabina elettrica e due ragazzi sono rimasti ustionati e c’è stato bisogno dell’intervento delle ambulanze”. Medu e i partner del progetto “Campagne aperte” chiedono con forza “una soluzione immediata e definitiva”. “È essenziale eliminare rapidamente gli ostacoli burocratici che impediscono l’apertura degli alloggi destinati ai braccianti - dicono - e investire su iniziative che siano in grado di coniugare abitare e lavoro, garantendo al contempo la sostenibilità economica e sociale”. In aggiunta, è urgente adottare misure concrete per proteggere i diritti dei lavoratori agricoli, che troppo spesso sono vittime di sfruttamento, a partire dai meccanismi di controllo e dalla regolamentazione delle politiche di filiera. Nel breve termine, concludono, “è di vitale importanza ripristinare un presidio dei vigili del fuoco nelle vicinanze della tendopoli di San Ferdinando così come servizi essenziali quali acqua potabile, luce e raccolta rifiuti, per evitare che la sicurezza degli abitanti venga ulteriormente compromessa”. Migranti. Minniti: “L’aiuto di Erdogan un errore per l’Italia e la Libia” di Alessandro Barbera La Stampa, 22 gennaio 2024 L’ex ministro degli Interni boccia l’ipotesi accarezzata da Palazzo Chigi di un protocollo con Ankara per la gestione dei flussi: “Legittimerebbe la divisione in due del Paese”. “Rivolgersi alla Turchia per risolvere il problema dell’immigrazione dalla Libia temo sia giuridicamente impossibile. Non solo: legittima la divisione in due del Paese. L’Italia e l’Europa non possono permetterselo”. Per Marco Minniti, già ministro dell’Interno e capo della fondazione di Leonardo Med-Or l’idea emersa dopo la visita di Meloni a Istanbul di chiedere aiuto al più ambiguo dei mediatori è a dir poco discutibile. Minniti, oggi a Bruxelles Italia, Francia e Germania proporranno formalmente la missione di pattugliamento nel Mar Rosso. Basterà? “Mi sembra la risposta più calibrata. I raid aerei rischiano solo di accendere il conflitto”. Ieri i ribelli Houthi hanno fatto passare 64 navi dopo aver issato uno striscione in cui si leggeva “non abbiamo nulla a che fare con Israele”. Che cosa unisce una tribù yemenita con il conflitto a Gaza? “Dopo il 7 ottobre pensavamo che i punti più drammatici di crisi potessero essere il Libano e la Cisgiordania. Avevamo sottovalutato il cosiddetto asse della resistenza. E’ un nome che sembra un’offesa alla storia ma tiene insieme tre organizzazioni: Hamas, Hezbollah e gli Houthi. E’ un’asse che mette insieme cose molto diverse fra loro, sciiti e sunniti, ma tuttavia uniti da una guida politica e militare: l’Iran. Non è un caso per esempio che gli Houthi utilizzino missili a media a lunga gittata forniti da Teheran. Era già accaduto durante l’Expo di Dubai”. Israele e l’Occidente rischiano l’escalation con l’Iran? “L’escalation è evidente, basta mettere insieme i fatti. L’Iran che colpisce l’Iraq con il quale aveva ed ha forti rapporti politici. L’Iran che colpisce il Pakistan e il Pakistan che risponde. In queste ore è giunta la notizia che nell’attacco angloamericano sui campi Houthi fra i morti ci sono membri di Hezbollah e pasdaran iraniani. Anche se nessuno dei diretti protagonisti ha un interesse in sé e le capacità militari per affrontare un conflitto regionale, la situazione può sfuggire di mano”. Nel frattempo in Israele ci sono manifestanti sotto casa del premier Netanyahu. A questo punto anche l’indebolimento del governo di Gerusalemme è un rischio? “Una risposta militare a quel che è accaduto il 7 ottobre, per quanto legittima e comprensibile, senza un orizzonte politico non porta da nessuna parte. Entrambe le parti hanno bocciato l’ipotesi di un accordo di pace duraturo. Comincia a farsi strada anche in Israele l’idea che un Commander in chief non può pensare che l’unico modo per prolungare la sua vita politica sia quella di prolungare all’infinito la guerra”. Cosa pensa dovrebbe fare la comunità internazionale? “Non voglio sostituirmi a nessuno, faccio solo qualche considerazione. La prima: penso che occorrerebbe salvaguardare la stabilità dell’Egitto, sottoposto ad una pressione gigantesca, da Nord e Sud. Da un lato il valico di Rafah, dove la popolazione si è quadruplicata. Gli abitanti di Gaza non hanno più dove andare. Dall’altra parte c’è il Sudan, dove stanno avendo la meglio le milizie legate alla Russia”. Putin è davvero così forte in Africa? “Eccome. La Russia è presente in Mali, in Burkina Faso, nella Repubblica Centrafricana. Il Niger, che è un Paese chiave nel Sahel per il controllo dei flussi migratori, dopo il colpo di Stato e l’avvento della giunta militare ha graziato chi era in galera per traffico di essere umani. Ha messo in discussione gli accordi con l’Unione europea, e fatto un accordo militare con Putin. Mi chiedo se a Bruxelles hanno compreso fino in fondo la posta in gioco”. Di certo l’ha capito Erdogan, che gioca su tutti i tavoli. Sbaglio? “Erdogan ha puntato tutto sul ruolo geopolitico della Turchia, facendo dimenticare i problemi di un Paese con l’inflazione all’ottanta per cento. Ha rivinto le elezioni, ha avuto un ruolo decisivo negli accordi sul grano ucraino, ha tentato persino di mettere d’accordo Israele e Hamas. Quando ha capito che quel ruolo se lo è preso il Qatar, ha spalleggiato Hamas. In queste ore si rincorrono le voci di incontri fra i servizi turchi e i loro vertici…” Dunque ha sbagliato sabato Meloni a incontrarlo con l’obiettivo di chiedere aiuto per risolvere i problemi in Libia? “Penso sia stato utile che la presidente Meloni abbia incontrato Erdogan. Non sappiamo cosa si sono detti, non c’è stata una conferenza stampa, tuttavia possiamo escludere la possibilità che l’Italia possa firmare un accordo con la Turchia per governare i flussi migratori dalla Libia. Mi spiego meglio: se l’Italia vuole sottoscrivere un accordo con Ankara per gestire i flussi - seppur minori - dalla Turchia, ben venga. Sarebbe una scelta in linea con quanto fatto in passato dall’Unione europea per i profughi siriani. Altra cosa è immaginare di chiedere aiuto per gestire gli sbarchi dalla Libia. Anche solo provarci sarebbe una scelta drammaticamente sbagliata”. Perché? “Per almeno due ragioni. La prima è di principio: violerebbe la sovranità della Libia, dunque al di fuori del diritto internazionale. La seconda è di sostanza: metterebbe in discussione gli sforzi diplomatici che sta facendo l’inviato delle Nazioni Unite in Libia per nuove elezioni ed evitare la spaccatura definitiva del Paese in due: uno governato da Tripoli, amico della Turchia, l’altro a est, legato alla Russia di Putin. Dovrebbe essere interesse dell’Italia e dell’Europa lavorare perché il piano dell’Onu, seppur difficilissimo, possa trovare una sponda forte e credibile: il Paese deve tornare unito, ai libici, anche attraverso nuove elezioni”. Il fatto che Erdogan abbia un buon ascendente su una delle parti in causa non può aiutare? “Temo il rischio di un effetto a specchio. Se discuti con la Turchia a ovest, poi dovresti discutere con la Russia a est. Ricordo che a Bengasi regna il generale Haftar, il quale qualche mese fa è stato ricevuto formalmente al Cremlino. Dunque se legittimi una delle due parti, poi devi legittimare anche l’altra. Ce lo possiamo permettere, tenuto conto dell’impegno italiano ed europeo a sostegno dell’Ucraina?”. Medio Oriente. A Gaza 25mila morti. Netanyahu: “Hamas vuole la nostra resa” di Gabriella Colarusso La Repubblica, 22 gennaio 2024 Il piano Biden per la tregua. Usa, Egitto e Qatar in campo: “Pace in 90 giorni”. Ma il premier israeliano frena. “Con me nessuno stato palestinese”. Bruxelles: “Se rifiuta l’intesa paghi conseguenze”. Benjamin Netanyahu non cambia linea, rifiuta quella che definisce la “resa” chiesta da Hamas e respinge di nuovo l’idea cardine del piano di pace americano ed europeo: la nascita di uno stato palestinese. In un discorso trasmesso in video, ieri, il premier israeliano ha ribadito che la guerra va avanti, perché “la pressione militare” è una “condizione necessaria” per raggiungere uno dei principali obiettivi del conflitto e cioè la “liberazione degli ostaggi” israeliani. Con un accordo politico Netanyahu dovrebbe invece accettare il rilascio di una gran parte dei palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, come avvenuto durante la tregua di novembre, e probabilmente anche un passo indietro dal governo. Una prospettiva che vuole a tutti i costi evitare: “Hamas chiede il ritiro delle nostre forze da Gaza e il rilascio di tutti gli assassini e stupratori. Se fossimo d’accordo su questo il sacrificio dei nostri soldati sarebbe vano”, ha detto. Il gabinetto di guerra israeliano per ora procede sulla strada della guerra: le operazioni a Khan Yunis si espanderanno, ha promesso il ministro della Difesa Gallant. Ma il bilancio del conflitto sta sta logorando il sostegno politico e internazionale intorno a Israele. Il numero dei morti ha superato i 25mila, dati diffusi dal ministero della Sanità di Gaza governato da Hamas che anche l’amministrazione Biden considera attendibili, secondo la sottosegretaria Usa Barbara Leaf sottostimati. Almeno 16mila vittime sono donne e minori, dice l’Onu. È la ragione per cui gli americani hanno intensificato il pressing diplomatico negli ultimi giorni e provano a far ripartire i negoziati. Ieri è arrivato in Egitto l’inviato per il Medio Oriente, Brett Mcgurk, medierà con egiziani e qatarini per riportare al tavolo Israele e Hamas. Secondo il Wall Street Journal, il piano americano si articola in tre fasi durante 90 giorni e prevede l’avvio di un cessate il fuoco, il rilascio graduale di tutti gli ostaggi - prima i civili e poi i militari - in cambio di centinaia di detenuti palestinesi in Israele e di un lento ritiro delle forze israeliane dalla Striscia. L’orizzonte politico che ha in mente Biden è più largo, è un “grande accordo” per il Medio Oriente che includa la normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita in cambio di un percorso irreversibile per un stato palestinese e di un ruolo dell’autorità palestinese a Gaza nel post-Hamas. Netanyahu non è pronto ad accettare un piano simile. “Finché ci sono non ci sarà uno stato palestinese, Gaza va smilitarizzata e mantenuta sotto il nostro controllo”, ha ripetuto ancora ieri sera, evocando quella formula - il controllo di Israele in tutto il territorio “a Ovest del Giordano” - che preoccupa l’amministrazione americana perché cancella ogni prospettiva dei due Stati. È un diniego che non piace neppure agli europei, allineati con Washington sulla necessità che nasca uno stato di Palestina. Oggi a Bruxelles si riunisce il consiglio dei ministri degli Affari Esteri Ue: si discuterà della missione navale nel Mar Rosso ma anche, scrive l’Ft, della proposta agli Stati, fatta circolare dall’ufficio di Borrell, di “esporre le conseguenze che prevedono di adottare in caso di impegno o di non impegno” da parte di Israele ad accettare la creazione di uno Stato per la Palestina. Si tratta di una sorta non-paper che è stato diffuso a livello di funzionari alla vigilia del vertice e che oggi verrà presentato ai ministri ma che, secondo fonti di Repubblica, non avrà il sostegno dei 27 perché considerato da molti troppo sbilanciato. La lunga ombra della narcoguerra sulle democrazie latinoamericane di Lucia Capuzzi Avvenire, 22 gennaio 2024 Dall'Honduras all'Ecuador i governi sono tentati di militarizzare la lotta al crimine organizzato, che ha catturato interi pezzi di Stato. La risposta muscolare rischia però di aumentare la violenza. El Pulgarcito. El Salvador è il “Pollicino d’America”: un Paese minuscolo in un Continente di giganti. Eppure, il voto a cui, fra due settimane, saranno chiamati i suoi abitanti - meno di un centesimo della popolazione latinoamericana -, è la chiave per decifrare le contraddizioni che attraversano l’immenso spazio compreso tra il Rio Bravo e la Terra del Fuoco. In particolare, quelle che scorrono in profondità sotto la sua pelle sottile. Non solo perché le presidenziali salvadoregne aprono una maratona elettorale che vedrà alle urne altre cinque nazioni della regione per designare il proprio leader: Panama (5 maggio), Repubblica Domenicana (19 maggio), Messico (2 giugno), Uruguay (27 ottobre), e Venezuela (seconda metà dell’anno anche se la data non è stata ancora fissata), mentre Brasile e Cile rinnoveranno gli organismi locali. Il capitolo conclusivo del ciclo cominciato nel 2021 che ha ridisegnato la mappa politica in tutti gli Stati, ad eccezione della Bolivia. Ancora una volta - e questa è la principale ragione della centralità della consultazione salvadoregna -, il Pulgarcito è crocevia di direttrici di portata continentale se non globale. Proprio come durante il conflitto civile degli anni Ottanta, scacchiera cruciale nel “grande gioco” della Guerra fredda. Stavolta non si misurano le forze delle superpotenze bensì la tenuta della democrazia latinoamericana. Minacciata, in questo inizio millennio, non dall’esterno - i golpe, più o meno eteroguidati, del Novecento - quanto da qualcosa che si annida nelle sue stesse viscere. È là, nei nodi irrisolti dal processo di democratizzazione continentale del secolo scorso - garanzia universale dei diritti civili e politici ma non di quelli sociali, negati nel modo più brutale ad ampie maggioranze e difesa a oltranza delle posizioni di rendita, anche in termini di impunità, di élite intoccabili -, che è cresciuto lo Stato parallelo, con proprie leggi - violente - e organizzazioni armate. “Secondo Stato”, lo chiama l’antropologa argentina Rita Segato, immagine in negativo di quello ufficiale, in cui una florida economia illegale - favorita dall’abbondanza di una delle materie prime più redditizie: la droga - crea patrimoni di rilevanza tali da rendere insignificanti i controlli istituzionali. Crimine organizzato o narcos è il termine mediatico in voga che, però, rischia di confondere. Perché non è una realtà “altra” rispetto all’apparato istituzionale formale: nata al suo interno è riuscita, anno dopo anno, a catturarne interi pezzi. Per questo, la criminalità in America Latina non è una questione di sicurezza quanto di democrazia. E proprio la presunta lotta ai narcos - le varie “guerre alla droga” - finisce per divenire strumento di legittimazione di nuovi autoritarismi. El Salvador, appunto, docet. Il metodo Bukele Alla vigilia delle elezioni salvadoregne del 4 febbraio, il governo di Nayib Bukele ha rinnovato lo stato di emergenza. È la 22esima volta. Il regime di eccezione è in vigore dal marzo 2022 quando il giovane presidente, designato tre anni prima per rompere l’egemonia dei partiti tradizionali, ha inaugurato la lotta frontale alle “maras”, bande criminali responsabili della violenza fuori controllo. Il Paese è passato da un record mondiale di 103 omicidi su 100mila abitanti nel 2015 all’attuale minimo regionale di 2,25. Ci sono, però, altri numeri da considerare. In meno di due anni, in virtù delle leggi speciali, le autorità hanno recluso 72mila persone senza passare dal giudice. Con 96mila persone dietro le sbarre, El Salvador ha ora il più alto tasso di detenuti al mondo. In parallelo, Bukele ha limitato i poteri del Parlamento, vessato i media indipendenti e acquisito il controllo della magistratura con la rimozione dei togati scomodi. Alla fine ha ottenuto il via libera di un’Alta Corte “addomesticata” a candidarsi per un secondo mandato, nonostante l’esplicito divieto della Costituzione. Con un sostegno intorno al 90 per cento, è molto probabile che vinca. I cittadini sono disposti a tollerare l’autoritarismo di Bukele in cambio della liberazione dalle “maras” che troppo a lungo hanno tenuto in ostaggio le loro vite. Ma le gang sono davvero sconfitte o l’altare su cui El Pulgarcito sta sacrificando la sua precaria democrazia ha la consistenza di un cristallo? Il “populismo punitivista” dell’attuale governo salvadoregno non sembra avere smantellato il “secondo Stato”. Lo ha piuttosto riorganizzato, ridefinendone i confini. L’amministrazione di Bukele è stata segnata da vari scandali di corruzione, come hanno ampiamente rivelato le inchieste di El Faro, il più accreditato quotidiano centroamericano costretto, un anno fa, all’esilio in Costa Rica per potere lavorare. Addirittura, la gestione della spesa pubblica è stata “secretata” per legge fino al 2027. Una parte di questi fondi - ha documentato sempre El Faro - sarebbero stati utilizzati per negoziare con le maras, a inizio mandato: il pugno di ferro sarebbe la conseguenza del fallimento delle trattative. Nel lungo periodo, dunque, le bande potrebbero comparire, magari in un’altra forma. La politica contemporanea, però, vive dell’istante. Ecco perché il “metodo Bukele” sta facendo scuola nel Continente, da Quito a Buenos Aires. In guerra Nel giro di cinque anni, il tasso di omicidi ecuadoriani è cresciuto dell’800 per cento, fino a raggiungere quota 46 ogni centomila abitanti. La violenza è conseguenza dello scontro tra i principali cartelli messicani - Sinaloa e Jalisco nueva generación - per il controllo del porto di Guayaquil, rotta cruciale per esportare la coca verso Usa e Ue. Gli attacchi delle gang locali, arruolate per combattere sul campo, incluso l’assalto plateale alla tv Tc, sono, però, solo la punta dell’iceberg. La conquista di un territorio da parte dei narcos presuppone la “cattura” di porzioni, più o meno ampie, dell’apparato istituzionale. Per questo le risposte esclusivamente muscolari alla crisi non la risolvono, in compenso rischiano di provocare un bagno di sangue. È quanto accade in Messico dal 2007, quando l’allora presidente Felipe Calderón ha dichiarato la “narco-guerra”. Mezzo milione di morti ammazzati, centomila desaparecidos, quasi 390mila sfollati interni sono una sintesi eloquente di questi cruenti 17 anni nei quali il “pugno di ferro” è stato la costante dei tre governi di differente colore politico che si sono susseguiti. Inclusa quello attuale, di sinistra, di Andrés Manuel López Obrador, nonostante la promessa di cambiare una strategia inefficace. Perché la violenza continua ad aumentare. A due mesi dall’inizio dalla campagna per le presidenziali, sono stati già assassinati 12 politici. La popolarità del presidente, però, è al 50 per cento e la “delfina”, Claudia Sheinbaum, è prima nei sondaggi, con 20 punti di distacco dalla leader dell’opposizione Xóchitl Gálvez. La quale, per altro, per ridurre la violenza, ripropone la vecchia ricetta di Calderón. Paradossi della narcoguerra. Il - mal - esempio messicano, oltretutto, fa scuola. Il conservatore Daniel Naboa ha appena dichiarato in Ecuador il “conflitto interno” e ha schierato l’esercito contro i narcos al costo di un miliardo di dollari. L’ultrà Javier Milei vuol fare lo stesso in Argentina. Entrambi si sono, però, premurati di indicare come proprio modello il “duro” Bukele. Il salvadoregno ha anche ispirato la politica della progressista honduregna Xiomara Castro che ha sospeso le garanzie costituzionali in 120 comunità. In Colombia, Cile e Costa Rica, si moltiplicano i politici che cavalcano la narcoguerra per acquisire consensi. Lo slogan, insomma, è diventato l’equivalente latinoamericano dei muri anti-migranti, il cui effetto elettorale è inversamente proporzionale a quello reale. Specie in uno scenario di bassa crescita del Continente: 2,4 per cento, meno della media mondiale. Ci sono, poi, i casi limite di Buenos Aires e Caracas. Nel 2023, con un inedito +211,4 per cento, l’inflazione argentina ha scippato il primato al Venezuela, dove l’aumento dei prezzi si è fermato al 193 per cento. Una cifra sempre tragica. Negli ultimi due mesi, però, si è registrato un rallentamento. Una buona notizia per Nicolás Maduro che, a fine anno, dovrà sfidare l’agguerrita oppositrice Corina Machado per ottenere il terzo mandato. In controtendenza Il Brasile è l’eccezione che conferma la regola. Il Gigante del sud non solo sperimenta un exploit che l’ha portato a diventare la nona economia mondiale. Il presidente Luiz Inácio Lula da Silva, inoltre, privilegia il ruolo della polizia per la garanzia della sicurezza interna. Non tanto per questioni ideali bensì per sfiducia verso le forze armate, dopo il fallito assalto alle sedi delle istituzioni il 6 gennaio 2023. La grande sorpresa del 2024 viene dal Guatemala dove il liberal progressista Bernardo Arévalo è riuscito a scardinare un sistema di potere cementato sulla corruzione e a ottenere la presidenza grazie all’eccezionale mobilitazione dei cittadini. Un segnale positivo in un’America Latina in recessione democratica.