Matteo, Stefano e gli altri “dimenticati”. Nelle carceri le tragedie non hanno fine di Fulvio Fulvi Avvenire, 21 gennaio 2024 Dietro le sbarre viene rinchiuso chi deve espiare una pena. Ma anche - e in Italia sono più di 16mila sugli oltre 60mila della sovraffollatissima popolazione carceraria - chi non è ancora condannato in via definitiva. Purtroppo è così: si può stare “dentro” anche da non colpevoli e condividere i claustrofobici spazi di una cella col delinquente più incallito e senza nemmeno sapere quando ci si potrà difendere davanti a un giudice. In carcere, luogo di tormenti e di solitudine con se stessi, si soffre, ci si dispera, si muore. Sono già 20 i detenuti che hanno cessato di vivere dall’inizio dell’anno negli istituti di pena italiani, sette dei quali per mano propria, impiccandosi con un lenzuolo attorcigliato appeso alle grate della finestra, come ha fatto la scorsa settimana Matteo Concetti, 25 anni, di Fermo, nella cella di isolamento del carcere di Ancona, dove forse non doveva stare per via delle sue gravi condizioni psichiche. Ma ci si può ammazzare pure lasciandosi ghermire lentamente dall’inedia, come ha deciso Stefano Bonomi, 65 anni, spirato nella notte di Epifania in un ospedale dopo lo sciopero della fame intrapreso nella Casa circondariale di Rieti, dove era detenuto da diversi giorni in attesa di giudizio. E proprio sul numero così elevato delle vittime dentro le carceri già nel primo mese dell’anno il collegio del Garante nazionale delle persone private della libertà personale guidato da Mauro Palma (in regime di “prorogatio” finché non verrà nominato ufficialmente il suo successore, il che dovrebbe avvenire nei prossimi giorni) lancia l’allarme: “Si preannuncia un andamento molto simile a quello del 2022, quando si contarono nei dodici mesi 85 suicidi”. Intanto, sempre all’inizio del 2024, è arrivata all’Italia da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo la condanna per aver sottoposto un detenuto 45 enne, Antonio Libri, a maltrattamenti non garantendogli le cure mediche necessarie avendo stabilito che la prigione è compatibile con il suo stato di salute. Il recluso che inoltrò il ricorso alla Corte di Strasburgo nell’ottobre 2020, condannato all’ergastolo per una serie di pesanti reati, tra cui l’appartenenza a un’organizzazione criminale di stampo mafioso, soffre di diverse malattie, tra cui una grave osteoporosi, ed è stato riconosciuto invalido al 100% con limitata mobilità agli arti inferiori. Nonostante il suo trasferimento da Rebibbia a Roma, in un carcere di Milano e poi in quello di Parma per poter essere sottoposto alle fisioterapie e ad altri trattamenti clinici, questi non sono stati adeguati, ha osservato la Cedu nella sentenza: l’Italia ha violato l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti). Il “caso Libri” mostra un altro squarcio nel sistema penitenziario italiano: l’inadeguatezza dei servizi sanitari all’interno degli istituti di pena, con pochi medici e infermieri, attrezzature insufficienti, scarso coordinamento con i presìdi sanitari del territorio. C’è poi la “piaga” dei servizi psichiatrici che, se potenziati, potrebbero contribuire a ridurre i suicidi, gli atti di autolesionismo e di violenza: in media un detenuto ha diritto a un’ora di colloquio con lo psichiatra ogni tre mesi, e con lo psicologo ogni 40 giorni. Ma ce ne vorrebbero di più. Tutto, in carcere, va contro il messaggio di Cristo di Don Vincenzo Russo* Avvenire, 21 gennaio 2024 È triste constatare che in tanti luoghi, che sono abitati da sofferenza e nei quali trovano forma le contraddizioni più evidenti del nostro vivere sociale, tutto sembra andare in direzione contraria allo spirito che l’annuncio cristiano contiene come suo fondamento. Ciò è senz’altro vero per il carcere. Dio libera l’uomo; l’uomo, in carcere, lo priva della libertà. Dio, incarnandosi, ha elevato la vita umana a grande dignità; l’uomo, in carcere, calpesta tale dignità. Dio si è chinato sulla persona per farsi carico della sua vita; l’uomo, in carcere, l’abbandona, quasi l’annulla, e non si cura di lei. Norme ma soprattutto decisioni umane hanno reso questo luogo ostile all’annuncio cristiano. Ma proprio per queste ragioni non ce ne è uno pari a questo in cui Dio sia realmente presente. Dove trovare Dio, infatti, se non nella vita preclusa alla speranza di coloro che sono in catene, che soffrono una condizione di abbandono, di privazioni di ogni sorta? Egli trova dimora in quelle celle dove spesso si consuma, oltre all’inevitabile sofferenza della pena, un aggiuntivo supplizio dovuto a condizioni di vita che oltrepassano il rispetto dei principi di umanità e si configurano come trattamenti inumani. Come definire se non in questo modo la grave carenza igienico sanitaria nella quale si trovano a vivere persone detenute, in mezzo a insetti e parassiti, in ambienti malsani e degradati, tali da calpestare ogni dignità? Di fronte a simili drammi, taciuti e non riconosciuti, salutiamo le poche azioni e alcuni singoli atti, capaci però di levare in alto il grido di giustizia. È recente una sentenza del Tribunale di Sorveglianza di Firenze che ha accordato a un detenuto uno sconto di pena significativo riconoscendo come, durante i suoi anni di detenzione nel carcere di Sollicciano, egli abbia subito trattamenti inumani, a causa delle gravi condizioni igieniche e della ristrettezza degli spazi. Questo riconoscimento è importante, ma non basta una singola sentenza! Come non bastano le tanto pubblicizzate ed estemporanee attività che alcune realtà associative svolgono, forse con finalità di apparenza e non come occasioni utili a costruire un vero percorso di dignità e umanità per il bene delle persone detenute. Non basta un pranzo di Natale, un momento di festa, a portare la vita nei luoghi di privazione non solo della libertà ma, spesso, anche della vita. Le parole pronunciate dal Cardinale Giuseppe Betori, Arcivescovo di Firenze, in occasione della messa celebrata in carcere a Sollicciano per il Natale, hanno richiamato ancora una volta la durezza di quel luogo, assetato di pace e di giustizia. Ciò è stato ribadito anche nella messa celebrata in cattedrale, dove il Cardinale ha affermato che il volto della pace annunziata dagli Angeli ai Pastori è ferito dalle condizioni inumane delle nostre carceri, in cui si punisce ma non si sostengono percorsi di recupero che portino alla rigenerazione umana e sociale dei detenuti ed evitino l’inesorabile reiterazione dei reati. Le gravi violazioni del diritto e dell’umanità che si consumano dentro le carceri, nascoste agli occhi di chi è fuori e non ha interesse né possibilità di conoscere, continuano a essere, per ogni retta coscienza, un pesante atto di accusa che sale verso Dio. Quanto, anche la comunità cristiana, deve ancora fare per rendere presente il suo annuncio tra quelle mura, per proteggersi dalla facilità della solidarietà sbandierata, dell’iniziativa spot, dei grandi eventi di beneficenza che esauriscono il loro effetto in poche ore e non raggiungono realmente le persone e non le accolgono nel loro essenziale bisogno! Di una cosa può esserci certezza. Se la comunità cristiana talvolta è assente o poco autentica, Dio è invece realmente presente dietro le sbarre, detenuto con i detenuti, oltraggiato con loro da indifferenza e rifiuto. Dio è insieme alla persona povera, ferita, sofferente che qui ha dimora. È luce per chi non ha forza di guardare al futuro. Non perché cieco, ma perché avvilito nella speranza. I veri ciechi siamo spesso noi fuori, falsi liberi, prigionieri di pregiudizi, di consolanti illusioni, di vuote aspirazioni. A essere più che mai urgente è per noi l’incontro con l’autenticità dell’annuncio cristiano e umano, perché si generi un cambiamento che diventi apertura verso l’altro, che ci conduca a gesti concreti per le persone che soffrono a causa della detenzione, per dare speranza e restituire dignità a chi è gravemente oppresso dalle orribili condizioni di vita del carcere. *Direttore pastorale carceraria Diocesi Firenze, Consiglio Direttivo di Nessuno tocchi Caino “Subito una nuova politica carceraria” di Sinistra Italiana Marche Ristretti Orizzonti, 21 gennaio 2024 “Serve un’inversione di rotta nelle politiche della giustizia e della sanità”. Dopo la denuncia del suicidio di Matteo Concetti, lo scorso 5 gennaio nel carcere di Montacuto, e dei casi di tubercolosi, sempre nell’istituto penitenziario anconetano, Sinistra Italiana Marche torna a ribadire la necessità di un radicale cambiamento nella gestione penitenziaria. “Vediamo con soddisfazione - spiegano i referenti del partito - le reazioni del mondo politico e della società civile di fronte alle quattordici morti registrate in Italia, di cui quattro suicidi, da inizio anno. Richieste come una connessione fra difesa della sanità pubblica, sotto continuo attacco, e il suo legame con le condizioni di detenzione, sono basilari e non vanno limitate a risposte emotive. Le prese di posizione dei garanti e dei responsabili dei dipartimenti di dipendenza patologica e l’interessamento del mondo della scuola, inoltre, vanno coordinate come finora non è mai avvenuto”. Nelle Marche, sono due gli istituti penitenziari in netto sovraffollamento: quello di Ancona e quello di Pesaro. Venti i posti a disposizione dei detenuti con malattie psichiatriche, tutti nella Rems (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza) di Macerata Feltria. Senza contare che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria regionale è accorpato a quello dell’Emilia Romagna, con eventi disservizi. “Sinistra Italiana, firmataria a livello nazionale del Ddl sulle case di reinserimento - fanno sapere dal partito - presenterà proposte in tutta la regione e appoggerà tutte le iniziative prese sul territorio per il pieno rispetto degli articoli 27 e 32 della Costituzione, contro la svendita della sanità pubblica e contro l’emarginazione delle classi meno abbienti, spesso nascosta dietro provvedimenti securitari e di ordine pubblico”. Anm, toghe irritate da Nordio e Pinelli di Mario Di Vito Il Manifesto, 21 gennaio 2024 Duri interventi, anche da destra, al comitato direttivo. Md: “Sviliscono il nostro ruolo”. Il clima, lo sapevamo già, è teso. Le uscite dell’ultima settimana del ministro della Giustizia Carlo Nordio e del vicepresidente del Csm Fabio Pinelli hanno decisamente irritato le toghe che, al comitato direttivo dell’Anm, non lesinano critiche e considerazioni piuttosto ruvide. E questo non riguarda solo la sinistra giudiziaria. Il segretario Salvatore Casciaro, di Magistratura Indipendente, prende di petto la questione della possibile futura riforma sulla separazione delle carriere e, pur tra molte ovvie prudenze, infila una stoccata: “Fino a ieri pensavamo che la separazione delle carriere servisse ad assicurare il principio di terzietà del giudice. Oggi, e viene detto chiaramente per la prima volta, apprendiamo che si propone di ridimensionare il ruolo del pubblico ministero e di controllarne l’operato. Attendiamo di capire in che modo detti poteri dovrebbero essere ridimensionati”. Quindi no all’ipotesi che i pm debbano essere sottoposti all’esecutivo, “neppure in forme trasversali o occulte”. E giù ancora, su Nordio, che vuole una giustizia “rapida ed efficiente”, ma ignora, o finge di ignorare, “la lettera di tutti i presidenti delle corti d’appello che sollecitano una disciplina transitoria dei processi di impugnazione pendenti in caso di eventuali modifiche alla disciplina sulla prescrizione dei reati e della improcedibilità”. Il Presidente Giuseppe Santalucia ne ha sia per Nordio sia per Pinelli. Al primo, che aveva definito le intercettazioni “inutili anzi dannose”, oltre che parecchio costose, chiede: “Quando dice che la spesa è eccessiva, quali sono i parametri di valutazione? Di cosa parliamo? Vorremmo un rapporto, un’analisi costi-benefici”. Al secondo invece rimbrotta la definizione di “Csm politicizzato”, ritornello della sua bizzarra conferenza stampa di qualche giorno fa: Certo, il Csm non è un organo in cui devono vivere e proliferare le contrapposizioni politiche. Su questo siamo d’accordo. Noi abbiamo fatto molti mea culpa, ancora si continua a parlare di degenerazioni correntizie e di collegamenti con i gruppi di appartenenza, noi stiamo esercitando l’etica della distanza. Questa associazione va fortemente compresa e praticata, vale anche per i laici, ovviamente, questa stessa attenzione a non coltivare le contrapposizioni di gruppo”. I consiglieri di Magistratura Democratica sono intervenuti con toni particolarmente netti. Le dichiarazioni di Pinelli vengono definite “straordinarie” perché “dimenticano che gli ordini del giorno del Csm sono firmati dal presidente della Repubblica, circostanza che chi svolge il ruolo di vicepresidente da oltre un anno conosce bene”. Per quello che riguarda il discorso sullo stato dell’amministrazione della giustizia tenuto da Nordio prima alla Camera e poi al Senato, le toghe rosse sostengono che si sia trattato di “una nuova manifestazione dell’ossessione per il preteso eccessivo potere degli uffici di procura e per i parimenti pretesi abusi delle intercettazioni o di altri strumenti di ricerca della prova (e non degli indagabili), essenziali nel contrasto delle forme di criminalita’ organizzata o di gravi delitti contro la pubblica amministrazione”. Per gli esponenti di Md, “sembrano, quelli segnalati, i tratti, incerti, di un disegno comune che ha l’obiettivo di svilire il ruolo costituzionale della magistratura, i presidi della sua autonomia e indipendenza e la stessa funzione della giurisdizione”. Il comitato direttivo dell’Anm dovrebbe licenziare questa mattina il suo documento conclusivo. Date le premesse, non è difficile prevedere quali saranno i toni. “Il trojan ci serve, ecco perché” se il Gip fa uno spot anti privacy di Frank Cimini L’Unità, 21 gennaio 2024 Il giudice mette le mani avanti. Il trojan viene descritto come insostituibile. Questo nonostante diversi magistrati oltre a politici di diverso schieramento abbiano a più riprese ammesso l’eccessiva invasività di tale strumento che finisce per abbracciare l’intera vita quotidiana dei soggetti coinvolti al di là degli accertamenti in corso. Elogio del trojan. Mai più senza trojan. È questo il messaggio che arriva dal giudice per le indagini preliminari di Napoli Antonio Baldassarre che ha firmato l’ordinanza con arresti in carcere e altre misure cautelari in relazione agli appalti e alle tangenti di Pozzuoli. “Il filo conduttore degli accertamenti compiuti dalla polizia giudiziaria è stato rappresentato dalle intercettazioni telefoniche, ambientali e mediante inoculazione di captatore informatico sui telefoni cellulari di alcuni indagati. A scanso di polemica che talvolta accompagna tale tipo di indagini è bene specificare sin da subito alcuni profili - argomenta il giudice - il primo è che nel caso di specie tale scelta investigativa si è rivelata fin da subito essenziale in relazione alla tipologia di reati in questione. È evidente e di comune esperienza che le indagini di tipo tecnico costituiscono l’unico strumento realmente efficace per accertare i reati a concorso necessario e comunque basata su una inevitabile condivisione dei propositi criminalità parte di tutti i protagonisti coinvolti che procedono nella medesima direzione”. “Gli unici soggetti che sono a conoscenza delle attività delittuose commesse e in corso sono proprio quegli stessi che dei reati si giovano e ne percepiscono i profitti - continua il gip - Gli accordi che conducono a tali fattispecie sono per loro definizione riservati se non segreti, raramente vi sono testimoni disinteressati presenti ai fatti. Le vittime dei reati si rendono conto solo con ritardo ma raramente sono in grado di offrire elementi di conoscenza specifica sull’accaduto. Quindi è giocoforza necessario vincere la mutua e indissolubile riservatezza dei concorrenti nei reati. Per farlo è necessario proprio accedere alle loro conversazioni ai discorsi alle pianificazioni e al contenuto degli incontri riservati organizzati per poter acquisire quegli elementi che altrimenti non avrebbero modo di venire all’esterno”. Insomma si tratta di un’ordinanza che irrompe nel dibattito politico sulla giustizia soprattutto a livello di intercettazioni orientandolo fortemente. Nel caso specifico il giudice delle indagini preliminari arriva addirittura ad affermare che vi possa essere una interpretazione alternativa delle conversazioni. Questo lo si vedrà in seguito. Ma l’ordinanza resta singolarmente esplicita in termini di politiche giudiziarie. Sia consentito affermare che almeno un po’ il giudice l’ha fatta fuori dal vaso. Le prove nascoste, l’impossibile imparzialità del Pm di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 21 gennaio 2024 Se perfino l’insigne giurista Francesco Carrara scriveva, nel 1873 (!), della ovvia propensione del Pubblico Ministero a tenere nascoste le prove favorevoli alla persona da lui sospettata di essere colpevole, dovremmo chiederci come mai sia così difficile affrontare questo tema con pacatezza, se non sapessimo invece quale decisiva partita si giochi intorno ad esso. Il tema delle prove nascoste non interroga, ovviamente fuori dai casi di evidente intenzionalità fraudolenta, la correttezza professionale del Pubblico Ministero. Molto più semplicemente, esso accende i riflettori sulla vera natura di quest’ultimo, che nello scenario processuale è, non può che essere, una parte, al pari della parte civile e della difesa. Nessuno accuserà di scorrettezza quel difensore che eviterà di misurarsi con emergenze investigative scomode per il proprio assistito. Sarà un difensore debole e senza troppe ambizioni, ma non certo un professionista scorretto. Perciò occorre che i sostenitori della mitologica “cultura della giurisdizione” dei Pubblici Ministeri si persuadano che la natura di pubblico ufficiale non conferisce miracolisticamente al titolare delle indagini una impossibile, innaturale imparzialità. Quando il PM e la sua Polizia Giudiziaria selezioneranno le intercettazioni telefoniche o ambientali relative alle persone nei confronti delle quali hanno pervicacemente ottenuto che il giudice le disponesse, sulla base di indizi di reità che hanno ampiamente argomentato essere “gravi” ed “attuali”, qualcuno di voi può seriamente immaginare che quello scrutinio verrà condotto con lo spirito imparziale del giudice? C’è apposta il giudice per questo, santo Iddio! Le parti, ove effettivamente ad armi pari, stresseranno il proprio punto di vista contrapposto, e proprio grazie a questo scontro il Giudice sarà messo nelle condizioni di avvicinarsi nel modo meno impreciso possibile alla ricostruzione della verità dei fatti. Ma la magistratura italiana, nella sua rappresentanza politica e culturale, rifiuta con sdegno questa elementare verità, e pretende al contrario di vedere affermata la superiorità della parte pubblica, che persegue il bene comune e, codice alla mano, ricerca anche le prove a discarico dei suoi indagati. Con paternalistica accondiscendenza verso la parzialità inesorabile del difensore, si vuole in tal modo vedere affermata una disparità originaria e connaturata tra le parti, che significa perciò: il punto di vista difensivo è in sé inattendibile o quantomeno sospetto, mentre il PM altro non fa che ricercare la Verità. Una assurdità che serve - ed è micidialmente servita in questi decenni- ad affermare una supremazia etica e processuale dell’Accusa, in danno -si badi- anche del Giudice, chiamato ad un’autentica sfida ogniqualvolta ritenga di dover smentire l’Accusa. Il Giudice che assolve, in questo quadro culturale avvelenato, è di per sé sospetto. Intercettazioni: le procure “incassano” più di quanto spendono. Le cifre che smentiscono Nordio di Davide Milosa e Valeria Pacelli Il Fatto Quotidiano, 21 gennaio 2024 Quanto speso e quanto “incassato” dalle Procure con le inchieste che si sono avvalse di ascolti e captatori. Il ministro annuncia tagli ai budget, ma una città come Palermo nel 2023 ha incamerato ben 321 milioni in beni sequestrati, a fronte di soli 23 milioni di “uscite”. La Procura di Palermo nel 2023 ha speso per le intercettazioni circa 26 milioni di euro, ma da luglio 2022 a giugno 2023 ne ha “guadagnati” quasi 322 di milioni, valore totale dei beni confiscati e sequestrati anche grazie a inchieste fatte con captazioni telefoniche e ambientali. E che questo strumento di indagine fosse fondamentale nel perseguire reati di mafia lo aveva detto chiaramente il procuratore capo di Palermo in occasione dell’arresto di Messina Denaro. La Procura di Milano invece nel triennio 2020-2022 ha utilizzato 25 milioni di soldi pubblici per “ascoltare” conversazioni, ma alla fine ha riportato nelle casse dello Stato circa 700 milioni, sempre tra beni confiscati e sequestrati. Sono i numeri che smentiscono il ministro della Giustizia Carlo Nordio, pronto a ridimensionare il budget delle Procure. Chiaro che il totale di confische e sequestri non è frutto solo di indagini con captazioni telefoniche, ma la sproporzione tra quanto “investito” e quanto “guadagnato” dà la misura di quale sia stato il lavoro delle Procure. “Non saranno mai toccate le intercettazioni nelle inchieste su mafia, terrorismo o gravi reati, ma una razionalizzazione della spesa è necessaria”, ha detto il Guardasigilli solo qualche giorno fa. Iniziativa che ha preoccupato non pochi magistrati, convinti che questo strumento sia fondamentale in indagini delicate, non solo per i reati di mafia, ma anche per corruzione e femminicidi. Proprio nel campo delle captazioni (per quel che riguarda il loro utilizzo, trascrizione e pubblicazione sulla stampa) questo governo più volte ha annunciato che cambierà molte cose. Il procuratore Rossi “Falso dire che sono costose” - “La Procura della Repubblica - sono sempre parole di Nordio - è l’unico organo in Italia, e penso al mondo, che ha una spesa incontrollata, che non ha un tetto, né un budget, ma poi alla fine i conti non tornano…”. E subito gli ha risposto, nei giorni scorsi, il procuratore capo di Bari, Roberto Rossi: “È una bugia dire che le intercettazioni sono costose”. E ha ricordato i numeri della “sua” procura. Nel 2022 (i dati del 2023, non ancora pronti, dimostrano lo stesso trend), la Procura pugliese ha speso per intercettazioni e videosorveglianza 4,8 milioni di euro, di cui 1 milione e mezzo per intercettazioni telefoniche, 1,1 per il “noleggio delle apparecchiature per le ambientali”, 82 mila euro per intercettazioni informatiche e 2 milioni per “videosorveglianza e localizzazione dell’indagato”. Nel 2021 in totale per le captazioni sono stati spesi 4,1 milioni, nel 2020 3,7 milioni. Queste cifre Rossi le confronta con quanto “guadagnato”, ossia quanto ricavato con sequestri e confische: nel 2022 la cifra è di 244 milioni. L’anno prima la cifra si è assestata a 149,2 milioni, nel 2020 ad altri 154,9 milioni. “La maggior parte di sequestri e confische della mia Procura sono stati possibili proprio grazie a indagini portate avanti con intercettazioni”, spiega Rossi al Fatto. Spese tra Lazio e Lombardia - E le altre Procure quanto hanno speso per intercettazioni? Quella di Roma nel 2023 ha speso circa 10 milioni di euro. Le captazioni sono state usate in parecchie indagini, compresa quella che ha portato agli arresti domiciliari Tommaso Verdini, figlio del più noto Denis, accusato di corruzione e turbativa d’asta. Cimici e intercettazioni telefoniche sono infatti tra le “fonti di prova” citate dai pm capitolini e che hanno consentito, secondo quanto ricostruito dai magistrati, di “accertare l’esistenza di accordi corruttivi”. A Milano invece nel triennio dal 2020 al 2022 la Procura per le intercettazioni (telefoniche, ambientali e telematiche) ha speso 25 milioni. Con un trend di spesa in aumento fino ai 10.747.677 del 2022. Cifra più o meno sovrapponibile a quella dell’ultimo anno. A fronte di questo, da luglio 2022 a giugno 2023 sono stati sequestrati, anche grazie all’uso delle intercettazioni, 700 milioni. La cifra è spiegata dal procuratore Marcello Viola nel documento di riorganizzazione della Procura dello scorso dicembre. Il tutto, scrive, “su impulso della Procura, assicurando un’adeguata pervasività ed efficacia dei controlli di polizia, giudiziaria e tributaria, e garantendo una maggiore celerità nella definizione degli esiti sia amministrativi sia penali”. Ora di questi 700 milioni, 450 arrivano dai sequestri effettuati nell’ambito delle indagini della Dda nel settore della logistica. Le inchieste in questo settore hanno coinvolto colossi come Dhl, Gls, Esselunga, Ups e altre. Inoltre un’altra indagine dello scorso ottobre dei carabinieri e della Dda ha portato al sequestro di oltre 250 milioni. Si tratta dell’inchiesta “Hydra” sul consorzio mafioso a Milano costituito da esponenti di ‘ndrangheta, cosa nostra e camorra romana e nel quale aveva interessi anche Matteo Messina Denaro. Qui le intercettazioni sono state decisive, in particolare, per svelare l’esistenza di una spa attiva nel settore petrolifero riconducibile al consorzio e con capitale versato di oltre 300 milioni. Intercettato un manager del consorzio spiega: “È giusto che lo sai perché io rispetto a tutti gli altri, il primo che sbaglia qui prende un colpo di pistola, non ci sono chiacchiere… siamo gli unici in Italia a lavorare con 250 milioni di sospensione di Iva”. Intercettazioni per prendere Messina Denaro - E le intercettazioni sono state fondamentali anche per l’inchiesta più importante degli ultimi anni in tema di mafia, quella che ha portato all’arresto di Matteo Messina Denaro. “L’indagine si basa su due pilastri fondamentali: uno è quello delle intercettazioni che sono indispensabili e irrinunciabili per il contrasto alla criminalità organizzata di stampo mafioso. Senza le intercettazioni non si possono fare le indagini…”, aveva detto il giorno dell’arresto del boss il procuratore di Palermo Maurizio De Lucia. E infatti grazie alle captazioni i pm siciliani sono riusciti a ricostruire anche la rete di complicità che si stringeva intorno al boss. Ma quanto ha speso per intercettazioni una procura come quella di Palermo che porta avanti tante indagini di mafia? Nel 2023 circa 26 milioni di euro. Da luglio 2022 a giugno 2023 però risultano 66,7 milioni di euro di beni sequestrati e 255.220.000 di euro di beni confiscati. Anche grazie alle intercettazioni. Braccialetti elettronici, centinaia di falsi allarmi: “Così la sicurezza è a rischio” La Repubblica, 21 gennaio 2024 Il flop del sistema. Sono 5.695 i dispositivi attivati, un quinto per tenere lontano gli stalker dalle loro vittime. Ricordate Artem Uss, il quarantenne figlio di un oligarca russo vicino a Putin, fuggito a marzo dagli arresti domiciliari in una villa del Milanese dove era in attesa di estradizione negli Stati Uniti? In quattro mesi, il braccialetto elettronico che portava alla caviglia ha suonato almeno una trentina di volte. Tutti falsi allarmi che hanno sempre costretto i carabinieri ad inutili interventi: l’imprenditore era sempre in casa, quando poi è scappato - massimo della beffa - l’ha fatto portandosi dietro il braccialetto, uno di quelli non dotato di Gps, dunque inutile alla sua localizzazione. La denuncia del sindacato dei carabinieri - Di falsi allarmi come quelli, ogni giorno in Italia, dai circa 5.700 braccialetti elettronici attivati, al polso o alla caviglia, di detenuti ai domiciliari o stalker da tenere lontani da donne che rischiano la vita, ne suonano continuamente. Centinaia, denunciano ora i carabinieri aderenti all’Unione sindacale militare interforze associati che, esasperati dalla quantità di inutili interventi sul territorio ma anche preoccupati dagli effetti negativi su possibili vittime o su individui pericolosi, hanno deciso di scrivere ufficialmente ai ministri di Giustizia, Interno e Difesa, competenti in materia di uno degli strumenti di prevenzione ritenuti più utili soprattutto in tema di contrasto alla violenza di genere. “Un dispositivo malfunzionante è in grado di provocare fino a 30 falsi allarmi al giorno - spiega Carmine Caforio, segretario generale dell’Usmia, ma anche comandante di una delle squadre del radiomobile di Roma che dunque conosce bene le ricadute sul territorio - di falsi allarmi in tutta Italia le forze dell’ordine ne riscontrano a centinaia. E questo provoca un dispendio di risorse che non possiamo permetterci. Ogni volta che un dispositivo suona, la pattuglia delle forze dell’ordine che ha in carico il controllo della persona deve subito intervenire per controllare, deve anche accompagnare il tecnico dell’ente gestore per l’eventuale verifica. Un’operazione che impiega almeno un’ora e che distoglie le pattuglie dal controllo del territorio con tutto quello che ne può conseguire. A parte le conseguenze psicologiche per la potenziale vittima di una violenza di genere, che entra in uno stato di ansia continuo e l’inevitabile effetto che un falso allarme ripetuto alla lunga può avere sulla pronta risposta di chi è deputato al controllo”. Come funzionano i dispositivi - A segnalare il malfunzionamento dei braccialetti elettronici in passato è stata anche la polizia, soprattutto per quel che riguarda le zone di bassa ricezione del segnale lanciato dal dispositivo. All’interno dei braccialetti elettronici c’è infatti una scheda telefonica che chiama in tempo reale la centrale operativa ad ogni spostamento dall’area in cui dovrebbe rimanere. Ci sono quelli dotati di geolocalizzatore, dunque in grado di seguire gli eventuali spostamenti sospetti della persona controllata, e ci sono quelli semplici, senza Gps. Nel caso in cui vengono utilizzati per garantire la sicurezza di donne minacciate, sono tarati su una distanza minima a cui lo stalker deve attenersi e un dispositivo gemello viene consegnato alla vittima perché possa essere avvisata in tempo reale di una ipotetica minaccia. “Se non verranno adottati urgenti rimedi il dispositivo, concepito per migliorare la sicurezza, rischia di peggiorarla, diventando uno strumento poco credibile e soprattutto incontrollato - sottolinea Caforio - L’eccessivo e inutile controllo di polizia causa ansia nelle vittime, tensione nei soggetti sottoposti alla misura e demotivazione nelle forze dell’ordine, mettendo in luce l’inerzia di un sistema in avaria che espone il personale preposto a inutili rischi e responsabilità”. Un quinto dei braccialetti utilizzati contro gli stalker - In Italia, a dicembre, il numero di braccialetti attivi era di 5.695. Di questi, 1.018 sono utilizzati per casi di stalking, 671 sotto il controllo dei carabinieri, 348 dalla polizia. A gestire il servizio è Fastweb, la compagnia telefonica che a febbraio 2022 ha nuovamente vinto la gara d’appalto bandita dal Viminale per 15,6 milioni di euro per la fornitura e il monitoraggio dei braccialetti elettronici richiesti dall’autorità giudiziaria. Ai rilievi mossi nella lettera del sindacato dei carabinieri, si sono limitati a rispondere con un “no comment”. Padova. Radicali e carcere, sciopero della fame per fermare i suicidi di Luisa Morbiato Il Gazzettino, 21 gennaio 2024 “Il carcere non si racconta. Devi Vedere!”. È il tema discusso ieri alla Casetta del Giardino Cavalleggeri dai Radicali Padova - Elena Cornaro con la partecipazione, tra gli altri, di Elisabetta Zamparutti di “Nessuno tocchi Caino”. Una mattinata per fare un bilancio della vita in carcere e di quanto constatato durante le visite che gli aderenti ai radicali hanno compiuto nelle Case di Reclusione e Circondariali sul territorio nazionale e in città. Un’occasione anche per ricordare i due giovani detenuti, Matteo e Stefano, che purtroppo si sono tolti la vita dal primo gennaio ad oggi, prime vittime di quest’anno come è stato sottolineato, ad Ancona e a Padova. “Grazie alla campagna “Devi Vedere!” di Radicali Italiani, in questi mesi siamo riusciti a fare accedere quaranta cittadini e cittadine agli istituti di pena di Vicenza, Padova e Venezia. L’obbiettivo dell’incontro è stato raccontare questi mesi di visite, con l’obiettivo di immaginare insieme un futuro alternativo per le istituzioni penali - ha spiegato Vincenzo Vozza segretario del movimento dallo scorso novembre - abbiamo aderito alla campagna nazionale e visitato alcune carceri, compresa Padova. Siamo entrati, non essendo parlamentari che possono farlo in base al loro ruolo, grazie all’articolo 117 del regolamento carcerario che permette l’ingresso ai cittadini. La tradizione radicale in questo senso è di lunga data ma non ci occupiamo solo dei diritti e delle condizioni dei detenuti ma anche della situazione delle guardie carcerarie”. Vozza ha ricordato quindi l’ultima visita al carcere Due Palazzi dell’assessora Donazzan quando definì i detenuti la parte peggiore dell’umanità. “Siamo naturalmente in totale contrapposizione a questo modo di considerare i detenuti, la nostra linea è quella di garantire i diritti e la tutela di coloro che sono privati della libertà - ha continuato il segretario - naturalmente non entriamo certo nel merito dei reati commessi ma del trattamento delle persone”. Vozza durante l’incontro oltre a raccontare con altri presenti la situazione di chi è rinchiuso nelle case circondariali o negli istituti di pena ha affrontato anche le problematiche che incontrano quei detenuti che hanno scontato la pena inflitta e vogliono reinserirsi nella società come, ad esempio, la difficolta di reperire un’abitazione. I radicali inoltre aderiranno allo sciopero della fame che partirà martedì prossimo lanciato da “Nessuno tocchi Caino”. “Si tratta di uno sciopero che si svolgerà a staffetta e noi daremo il nostro contributo - ha concluso - vogliamo sensibilizzare sui suicidi e sulla poca attenzione ai temi della sanita e formazione”. Prato. “La sanità nel carcere funziona. Ora più imprese per dare lavoro ai detenuti” di Sara Bessi La Nazione, 21 gennaio 2024 Rosanna Sciumbata, presidente della commissione consiliare 5, ha fatto una visita al carcere della Dogaia accompagnata dai membri della commissione, e da Marilena Garnier. “Siamo andati per verificare se sia vero il grido di allarme per la situazione sanitaria all’interno del carcere. Abbiamo trovato una sanità che funziona”, afferma Sciumbata. “La Dogaia può contare su una struttura di medici che pur essendo pochi, riescono a coprire giorni e notti sette giorni su sette, a garantire l’assistenza sanitaria ai 560 detenuti. È garantita la presenza degli specialisti con eccezione di urologia e neurologia. Ci sono il radiologo, l’ecografista una volta alla settimana e le sedute di psicologia in Serd. A questo servizio accedono circa 140”. Sciumbata ravvisa l’unica pecca nel settore dell’odontoiatria: “L’attività protesica non è garantita rispetto al fabbisogno; per legge è corrisposta ai detenuti residenti in Toscana”. Soddisfazione è stata espressa per il “servizio infermieristico. Le risposte interne alle richieste sanitarie ci sono: in un anno sono stati portati al pronto soccorso 108 detenuti, solo per eventi acuti”, chiosa Sciumbata. Nota dolente, ormai un refrain costante è “la carenza di personale: manca il 52% di ispettori e il 70% di sovrintendenti. ma si tratta di una risposta che deve arrivare dal ministero competente”. Infine altri due aspetti sono stati affrontati durante l’incontro con la direzione carceraria: “La Dogaia non è in sovraffollamento con l’eccezione di alcuni reparti, come quelli di media sicurezza”. E poi c’è il fronte del reinserimento dei carcerati partendo dal lavoro: “Mancano imprenditori che scommettano sul carcere. Qualche anno fa c’era una ditta che faceva lavorare i detenuti nel carcere. Ci vogliono più possibilità di integrazione grazie all’attività lavorativa: al momento sono una ventina quelli che lavorano fuori grazie ai benefici dell’articolo 21. Invece c’è forte adesione all’attività scolastica”. Milano. “Riciclando buste di caffè creiamo borse fashion” di Giorgio Paolucci Avvenire, 21 gennaio 2024 Una borsetta rossa che profuma di caffè. L’ha inventata un gruppo di detenuti della Casa di reclusione di Opera, alle porte di Milano, rigenerando le buste di caffè Lavazza dopo il loro utilizzo e creando un oggetto che ha tutti i numeri per diventare “fashion’: L’hanno “scoperta” i volontari di “Incontro e Presenza”: un’associazione che opera da 35 anni nelle carceri milanesi e che ora vuole farla conoscere al pubblico. Il prototipo era stato realizzato nei giorni precedenti il Natale e offerto dai carcerati ai volontari per un mercatino di beneficenza, riscuotendo l’ammirazione di tanti potenziali acquirenti che però si sono dovuti accontentare di ammirarlo, essendo disponibile in un solo esemplare. Per presentare al pubblico la loro creazione, Luigi, Girolamo, Roberto e Giuseppe hanno affidato ai volontari una lettera dove raccontano i significati che le attribuiscono. “Questa borsetta è stata realizzata da alcune persone detenute della Casa di reclusione di Opera, alle quali farebbe piacere pensare che ci considerate i vostri “fratelli di dentro’: Negli anni abbiamo imparato l’importanza del rispetto delle regole, abbiamo voluto sentirci parte della società e non più una “società a parte’: Facendo la raccolta differenziata in carcere, ci siamo accorti che c’è un materiale che difficilmente trova una collocazione, le buste del caffè: mentre all’esterno sono in plastica, all’interno sono in alluminio e così risultano più difficili da smaltire. Un giorno ci siamo detti: che cosa grande sarebbe se queste buste si trasformassero in qualcosa di bello! Uno di noi ha iniziato a manipolarne una, piega e ripiega ha notato che al tatto risultava gommosa e piacevole. Un’illuminazione, tanto studio, un po’ di pratica fatta in passato con gli origami e abbiamo cominciato a incastrare un pezzo nell’altro come fossero tante persone che si abbracciano. Così, riciclando cento buste di caffè Lavazza è nata la prima borsetta, una piccola opera d’arte portatrice di tanti messaggi: rossa come il colore dell’amore, come un colore del Natale, inoltre essendo “cugina” delle scarpe rosse avrebbe protetto come fosse un mantello magico le nostre “sorelle”, come una sorta di riconciliazione con la società. La borsetta ben presto si è fatta apprezzare dagli operatori penitenziari, dal direttore e dagli amici volontari di “Incontro e Presenza” che ci vengono a trovare tutte le settimane e con i quali abbiamo voluto condividere il frutto della nostra creatività”. Perla realizzazione di una borsetta sono necessarie cento buste di caffè, viene utilizzato un filo di nylon e non si usano colle o solventi. Le buste vengono lavate, asciugate e tagliate in piccoli rettangoli, poi piegati su se stessi in verticale e in orizzontale e in seguito incastrati uno nell’altro, creando una circonferenza composta da 44 pezzi. Con un filo di nylon si uniscono 8 circonferenze, poi si crea la chiusura a forma di piramide con la tracolla. Ogni esemplare richiede 40 ore di lavoro. “La nostra speranza è che questo lavoro venga apprezzato e magari regali un sorriso a qualcuno - commenta Luigi, uno degli artefici dell’iniziativa -. Sentiteci vicino a voi come i pezzi della borsetta, tutti abbracciati per diventare una cosa sola. È un piccolo-grande atto d’amore: abbiamo dato nuova vita a materiali che sarebbero stati scartati e grazie a questa creazione siamo ritornati tra voi che state “fuori”, per volervi bene e per essere voluti bene”. Il direttore del carcere, Silvio Di Gregorio, osserva come “questa e altre iniziative che nascono qua dentro sono il segno evidente di una volontà encomiabile di mettersi in gioco, di testimoniare la volontà di riscatto e la creatività presenti in tante persone detenute”. Per favorire lo sviluppo dell’iniziativa - attualmente realizzata all’interno delle celle - e per darle stabilità, verrà messo a disposizione un locale adeguato e verrà favorita la raccolta organizzata dei sacchetti di caffè consumati all’interno del carcere. E chissà che queste borsette rosse al caffè non diano lo spunto a qualche creativo nel mondo della moda. Cagliari. Da ex detenuto a dipendente in impianto smaltimento rifiuti ansa.it, 21 gennaio 2024 Da ex detenuto nel carcere di Uta a dipendente del Tecnocasic, l’azienda che si occupa dello smaltimento dei rifiuti nella città metropolitana di Cagliari: una nuova opportunità di vita grazie al progetto “Lav(or)ando” della cooperativa sociale Elan. L’assunzione è il frutto di un lungo percorso iniziato col progetto sostenuto dalla Fondazione con il sud, nato per favorire il reinserimento sociale e offrire un’occasione di riscatto. Elan gestisce le due lavanderie industriali di Uta e dell’Istituto minorile di Quartucciu. Durante la detenzione Garau ha potuto svolgere lì un primo tirocinio affiancato dagli operatori: “Per ottenere questi risultati è fondamentale il lavoro di squadra e una fitta rete di imprese pubbliche e private pronte a offrire tempestivamente il loro supporto - spiega Elenia Carrus, vicepresidente e responsabile dell’area inclusione di Elan. Vogliamo ampliare ulteriormente questa rete di partner sensibili al tema dell’inclusione socio-lavorativa delle persone detenute. Siamo felici per Stefano. La sua grande determinazione e l’impegno sono un esempio ispiratore ed è la dimostrazione che il lavoro è una concreta occasione di riscatto”. Scontata la pena, Garau aveva svolto un nuovo tirocinio al Tecnocasic, azienda che ha aderito al progetto, ottenendo il marchio etico solidale “Lav(or)ando 100% inclusione sociale” ideato da Elan. Ora, con il contratto di assunzione, da lunedì 15 gennaio, Garau occupa la postazione del front office, riceve personale e visitatori, risponde al telefono: “Ho ricevuto un’accoglienza davvero straordinaria da parte di tutti, mi hanno commosso - racconta Garau. Mi sono trovato felice da un giorno all’altro. Vorrei ringraziare tutti, in particolare Giacomo Loche che è stato inizialmente il mio tutor e ora un vero e grande amico”. Prosegue parallelamente l’impegno di Elan e crescono le opportunità per la cooperativa. La settimana scorsa si è aggiudicata la nuova gara bandita dalla Polizia di Stato. Lenzuola, coperte, federe e asciugamani degli alloggi e delle celle di sicurezza della caserma Carlo Alberto di viale Buoncammino e della Questura di Cagliari saranno lavati e stirati dai detenuti: “Aumenta per noi la mole di lavoro e aumentano di conseguenza le opportunità di coinvolgere altri detenuti nel percorso di inclusione” conclude Carrus. Terni. “Noi, dai frati per imparare: così prepariamo il domani” di Emanuele Lombardini Avvenire, 21 gennaio 2024 La sfida è di quelle ambiziose: provare a sopperire alle lacune di un sistema giudiziario che - soprattutto per mancanza di risorse e personale - non riesce più a garantire quel fine rieducativo della pena previsto dalla Costituzione. Un fine nobile, reso ancora più importante dal fatto che il progetto nasce da una iniziativa della provincia serafica dei frati minori di Assisi. Da qualche mese è attiva nel Ternano la casa accoglienza per detenuti “Il Leccio di Disma”, ubicata all’interno del convento del Beato Antonio Vici, a Stroncone. Non è un caso che il progetto parta proprio da Terni. Avvenire ha raccontato, qualche settimana fa, del triste record nazionale del carcere umbro per numero di suicidi in cella nel 2023. Proprio in questi giorni la struttura è finita di nuovo sotto i riflettori per una violenta rissa fra detenuti che ha portato al ferimento di uno di questi e all’aggressione di due agenti con l’olio bollente, che non è sfociata in tragedia soltanto per la prontezza di riflessi degli operatori. Padre Danilo Cruciani, guardiano del convento che gestisce la casa di accoglienza sottolinea: “Confrontandoci con il cappellano del carcere, padre Massimo Lelli, abbiamo capito che lì c’era un’esigenza specifica e noi stiamo provando a fare la nostra parte, con i nostri soldi e la generosità del nostro ambiente”. Un lavoro certosino, perché i detenuti (la struttura ne ospita al massimo 4 per volta) vengono seguiti da psicologi ed esperti e da una insegnante di italiano, oltreché dall’esecuzione penale esterna del ministero della Giustizia. Ma non c’è solo questo: “Quello che noi proviamo a fare - spiega padre Danilo - è mettere nella condizione, questira - gazzi, di essere pronti, una volta scontata la loro pena, ad un reinserimento nella società e nel mondo del lavoro. Adesso partiremo con un corso di agricoltura, al quale inviteremo anche altri detenuti del carcere, ma il nostro desiderio è ascoltare le esigenze delle imprese del territorio per provare a fornire loro delle professionalità già formate. Per esempio c’è grande richiesta di falegnami e noi vorremmo far partire un corso di questo tipo. Abbiamo già avviato anche un orto, a breve partiremo con la potatura ed il giardinaggio”. Per questo motivo “Il Leccio di Disma” ha avviato una rete di contatti con le associazioni del territorio. Attraverso una di queste, “Demetra; i detenuti vengono impiegati nella pulizia dei boschi. Ma l’aspetto più importante, come sempre è il calore umano, che all’interno del carcere manca: “I ragazzi vengono qui, vivono l’aspetto comunitario del convento e noi cerchiamo di coinvolgerli - dice padre Danilo - perché quello che abbiamo riscontrato è che a parte i delinquenti abituali, molti di questi ragazzi diventano criminali e lo rimangono perché non hanno alternative”. Emblematico un aneddoto: “Loro si accorgono che venendo qui sono seguiti e viene data loro l’occasione di redimersi. Un ragazzo nigeriano che sta con noi da qualche settimana me l’ha fatto notare mentre lo accompagnavo al lavoro. Mi ha detto: “Io sono in Italia da 6 anni e nessuno si è mai interessato a me, nessuno mi ha mai offerto un’occasione. Voi siete i primi”“. L’accoglienza è già nel nome della struttura: il leccio è l’albero davanti al convento, mentre Disma è il nome che la tradizione assegna al “buon ladrone’,’ segno che la salvezza di Gesù può arrivare a ogni uomo, in ogni momento della vita. A muovere il progetto, del resto, sono le parole del Vangelo di Matteo al capitolo 25: “Tutto quello che avete fatto ad uno solo di questi miei fratelli più piccoli, lo avete fatto a me”. “La nostra convinzione - spiega padre Cruciani - è che una società che dispone di adeguate reti di reinserimento dei detenuti è una società più giusta, più sicura e più vicina a Cristo. Noi siamo una goccia nel mare, come ci hanno detto i responsabili dei penitenziari di Terni, Spoleto e Rieti, che sono intervenuti al taglio del nastro: vorremmo fare in modo che queste gocce aumentassero”. Torino. I santi sociali e la scuola come arma contro la criminalità di Luca Rolandi Corriere di Torino, 21 gennaio 2024 I santi sociali sono nella storia ma il loro impulso, il loro spirito vivono ancora oggi, lo ha ricordato monsignor Roberto Repole, arcivescovo di Torino, nell’occasione dell’inizio delle celebrazioni per il 160esimo anniversario di Giulia Colbert di Barolo, venerabile dal 2015, unica donna tra i santi sociali. Passato e presente sono stati legati da un filo rosso di bene e solidarietà ben espressa nella presentazione del libro “E-mail a una professoressa. Come la scuola può battere le mafie”, edizione Effatà, scritto della giornalista de La Voce e il Tempo Marina Lomunno e del frate francescano Giuseppe Giunti, un legame dettato dal tema che ricorda l’aiuto che diede Giulia alle detenute allora e il rapporto difficile tra società e carcere, presente ancora nel mondo attuale. In un tempo lontano una Torino segnata dalla povertà, dal degrado, dalle discriminazioni di classe presenti in quartieri privi del necessario per vivere dignitosamente, Giulia e il marito Tancredi di Barolo compresero, con coraggio e lungimiranza, che il miglioramento delle condizioni materiali degli ultimi non poteva essere disgiunto da un miglioramento delle loro condizioni morali attraverso interventi pedagogici, sociali e politici. Indirizzarono quindi, a proprie spese, buona parte delle loro iniziative all’istituzione di scuole per ragazze povere, di asili infantili per i figli dei lavoratori di scuole professionali dedicate per lo più al mondo femminile. Alla sua morte, nel 1864, tra le sue volontà vi fu la costituzione dell’Opera Pia Barolo alla quale lasciò l’intero patrimonio di famiglia. “A scuola in carcere” invece il tema di sottofondo del saggio di Lomunno e Giunti presentato grazie alle autorevoli voci di Margherita Oggero, Elena Lombardi Vallauri, direttore della Casa circondariale torinese Lorusso e Cutugno, Emma Avezzù, procuratore dei Minorenni del Piemonte e della Valle d’Aosta, Monica Cristina Gallo, garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Città di Torino e Arturo Soprano, presidente emerito della Corte d’appello di Torino e membro del cda dell’opera Barolo, moderati dal giornalista Marco Bonatti. Presente e passato che si giustappongono e si concentrano nella condizione più difficile per una persona, quella della detenzione derivante da un reato e un giudizio di condanna. Voci e riflessioni, volti e storie che nel saggio diventano testimonianze scritte nel saggio dei due autori: esperienze di riscatto a partire dalla scuola scritte da persone che hanno vissuto il carcere, che collaborano con la giustizia e che, grazie all’istruzione, hanno ricostruito la propria esistenza. La scuola senza muri fisici e senza mura culturali. La scuola come principale e indispensabile strumento per sconfiggere la criminalità di stampo mafioso. Pagine importanti per chi si occupa di carcere, ma anche per chi lavora nell’ambito scolastico. Imprescindibili per chi ha in carico minori e persone disagiate. Parlare della vita delle persone detenute nelle strutture di reclusione, degli operatori professionali e volontari che vi lavorano, delle iniziative culturali e delle attività educative all’interno e all’esterno istituti di pena non come approfondimento normativo e distaccato ma realtà di uomini e donne che vivono in una condizione da fare conoscere per dare dignità e rispetto a tutti. Torino. La lettera di un detenuto: “Cara scuola, con te avrei evitato il carcere” di Irene Famà La Stampa, 21 gennaio 2024 L’istruzione come riscatto nelle parole di un carcerato all’incontro di Opera Barolo: “A 50 anni punto alla terza media”. “Cara scuola, magari ci fossimo conosciuti bene. Forse non sarei qui, in cella, dove a 50 anni cerco di prendere la terza media”. La forza dell’istruzione è racchiusa tutta lì: in quella lettera che un detenuto ha donato al francescano Giuseppe Giunti. “Se non aggiustate la scuola, la camorra vincerà sempre. La camorra vive di silenzio, a scuola impari le parole”. E la riflessione vale per la criminalità organizzata. Così come per quella comune e quella da strada. Ecco la sfida che padre Giunti e la giornalista Marina Lomunno hanno raccolto nel libro “E-mail a una professoressa. Come la scuola può battere le mafie”. Un titolo che parafrasa don Milani: le battaglie, in fondo, ricalcano quelle del parroco di Barbiana. “Il mondo carcerario richiede anche una riflessione di tipo culturale”. Lo sottolinea monsignor Roberto Repole dando il via al ciclo di appuntamenti sul carcere, organizzato dall’Opera Barolo insieme al settimanale diocesano La Voce e il Tempo nel 160esimo anniversario della morte della marchesa Giulia Falletti di Barolo. “Alle persone recluse bisogna dare delle parole, che offrono strumenti interpretativi della realtà”. Al Lorusso e Cutugno, operatori e insegnanti ne hanno fatto una missione. “L’offerta è ricca: abbiamo scuole di tutti i livelli”, spiega orgogliosa la direttrice del penitenziario Elena Lombardi Vallauri. Tanti sforzi, però, rischiano di essere vanificati. Le carceri sono sovraffollate. A Torino, l’11 gennaio, i reclusi erano 1488 per 1084 posti. Lo ricorda Arturo Soprano, presidente emerito della Corte d’appello. Lo ribadisce la garante comunale dei detenuti Monica Gallo: “La scuola e gli spazi adeguati per portala avanti sono la priorità”. Tra gli adulti e trai minori. Adolescenti fragili, con alle spalle famiglie altrettanto fragili. “Bisogna trovare un linguaggio che coinvolga questi ragazzi, perlopiù stranieri”. La procuratrice capo del Tribunale dei minorenni, Emma Avezzù, tratteggia un’immagine: educatori e giovani detenuti che leggono articoli di sport. “Bisogna iniziare da qui”. La scuola, quei giovani difficili, non li deve cacciare, lasciare indietro. Ma prenderli per mano e riuscire a portarli avanti. Insegnamento. Ed esempio. “Le parole sono importanti”, afferma la scrittrice Margherita Oggero. E sul linguaggio bisogna interrogarsi. A tutti i livelli. “Chi dice che pagare le tasse è pagare il pizzo allo Stato non dovrebbe sedere in Parlamento”, tuona la scrittrice. Un riferimento, tra tanti che non risparmiano quasi nessuno. “La scuola da sola non può battere la mafia. Ma può insegnare il peso delle parole, a giudicare chi parla, cosa dice, come lo dice”. In ogni contesto. Massa Marittima (Gr). L’arte contro i pregiudizi: studenti e detenuti realizzano un murale in carcere di Jule Busch ilgiunco.net, 21 gennaio 2024 Si è concluso il progetto “Arte senza confini”. Il reinserimento nella società dopo aver scontato la pena. È questa la missione che porta avanti la direttrice della Casa circondariale di Massa Marittima, Maria Cristina Morrone. Ed è anche per questo motivo che questa settimana le porte del carcere si sono aperte per un progetto molto speciale che ha coinvolto il mondo “fuori” e quello “dentro”: studenti e detenuti. Il risultato è un’opera d’opera d’arte. Ecco, per mettere insieme tutti questi elementi, ognuno molto delicato, ci vuole un progetto, quasi una missione. E nelle Colline metallifere un’associazione nota per progetti di grande sensibilità sociale (tra le molte che operano sul territorio) è Operazione Cuore Onlus Ets di Laura Romeo, residente fisicamente a Roma, ma con un cuore che abita in Maremma. Ma partiamo dal principio. Nella giornata del 19 gennaio, al carcere di Massa Marittima è stato inaugurato un murale, realizzato da un gruppo di detenuti insieme agli studenti della Scuola Pontificia Pio IX di Roma in ambito del progetto “Arte senza confini”. L’opera, che decora l’intera parete della saletta comune dei detenuti, raffigura un paesaggio toscano con fiori, campi e verdi colline che sembrano non finire mai. Al centro del murale è dipinta una corda su cui è appesa una clessidra. Come per dire “Ecco, questa è la libertà, la mia casa, il mio punto di arrivo, ma per raggiungere quel punto, devo ancora attendere”. A realizzarlo nei giorni precedenti sono stati gli studenti romani insieme a un gruppo di detenuti. Il progetto si chiama “Arte senza confini”, nasce da una collaborazione tra l’associazione Operazione Cuore e l’associazione Fratel Emanuele Francesconi e vuole lanciare un messaggio di solidarietà ed inclusione per accendere i riflettori sulla realtà degli istituti penitenziari italiani. Il laboratorio di street art, che si è svolto da lunedì 15 a venerdì 19 gennaio all’interno del penitenziario maremmano è stato condotto dal noto artista romano Maupal, conosciuto in tutto il mondo per “Super Pope”, l’opera dedicata a Papa Francesco. “Lavoriamo per un trattamento dei detenuti che gli permetta di reinserirsi nella società una volta fuori dal penitenziario - spiega la direttrice del carcere Morrone -. Quindi, qui arrivano i detenuti che devono scontare il residuo della loro pena prima di essere rilasciati. Il loro è un percorso verso la libertà ed è per questo che collaboriamo spesso con delle associazioni. Infatti il terzo settore è estremamente importante all’interno del nostro carcere perché diventa come un ponte, senza di loro saremmo zoppi. Un grazie particolare va all’artista Mauro Pallotta (in arte Maupal ndr.), la Scuola Pontificia di Roma e Laura Romeo di Operazione Cuore che fin dall’inizio è stata entusiasta di realizzare questo progetto. Spero che potremo collaborare anche in futuro”. I progetti di Operazione Cuore sono noti per la loro sensibilità sociale. Dal 2016 la “madrina” e presidente dell’associazione, Laura Romeo, si impegna a 360 gradi per realizzare grandi e piccoli aiuti alle persone socialmente più deboli, piccoli o grandi che siano. “Questa volta è stata un’esperienza umanamente indescrivibile - dice -, perché abbiamo capito che i pregiudizi si possono e si devono superare, basta avere cuore, coraggio e volontà. E noi in quella stanza, in questa settimana, eravamo come una scuola per i detenuti. C’era un gruppo di lavoro che si comportava come se fossero amici da una vita, è stato incredibile. Siamo stati così uniti che ci dispiace quasi andare via”. Al progetto hanno partecipato quattro detenuti e 12 studenti di quinta liceo dell’istituto romano, dieci maschi e due femmine. Per loro è stata un’esperienza non solo formativa a livello scolastico, ma soprattutto umana. Ognuno di loro era entrato in punta dei piedi, quasi timoroso, ma già dopo poche ore tra loro e i detenuti si era creata una certa complicità in cui ognuno poteva fidarsi dell’altro al fine di realizzare un’opera d’arte. “Abbiamo voluto rappresentare un panorama che dia l’idea di libertà e più colorato possibile - spiega l’artista Maupal -, dove c’è una strada che porta verso “casa” che è un po’ il sogno di ogni detenuto. Però c’è anche un “tempo sospeso” rappresentato da una clessidra in equilibrio su una corda. Insomma, è un po’ una sintesi di quello che può pensare un detenuto qui dentro; che vorrebbe tanto tornare a casa, ma ci vuole ancora tempo”. Insomma un grande successo che ha lasciato dei segni: uno concreto e colorato sul muro e un altro emotivo, capace di superare un confine e soprattutto un pregiudizio. L’amicizia come ancora di salvezza nel carcere dei matti delinquenti di Valerio Marchi Messaggero Veneto, 21 gennaio 2024 Devianza e mutamento sociale nella vicenda di Fabrizio Maiello: il libro scritto con l’aiuto di Franca Garreffa, docente di Sociologia giuridica. “Oggi Fabrizio è un uomo completamente diverso, un individuo ri-nato che tuttavia vive da libero in una società caratterizzata da un clima culturale legato profondamente a domande di crescente carcerizzazione...”: scrive così nelle sue considerazioni conclusive Franca Garreffa - docente di Sociologia giuridica, della devianza e mutamento sociale - condensando il cuore della vicenda di Fabrizio Maiello dopo averlo affiancato nella stesura di un libro appassionante, toccante, necessario: “Nel carcere dei matti delinquenti. Storia di Fabrizio Maiello”, appena edito da Kappa Vu, casa editrice da sempre attenta a storie e questioni legate al disagio sociale e mentale e nelle carceri. È una storia dolorosa a lieto fine, ma - come osserva nella prefazione Donatella Barazzetti, docente di Sociologia - è anche una storia che fa “riflettere sulle possibilità che le “vite di scarto” ritrovino se stesse e si sottraggano a questo marchio”. All’inquadramento scientifico ha contribuito altresì l’avvocato Luca Muglia, garante regionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale della regione Calabria. Muglia, che al pari delle esperte sopra citate ha un curriculum di alto spessore, riflette su “come sia spiegabile quanto accaduto a Fabrizio Maiello e quale significato assume la sua vicenda in termini psicosociali e neurosceintifici”. Dal canto suo, poi, la scrittrice e biografa friulana Carmen Gasparotto ha offerto una “fotografia” di Giovanni Marione (fotografie vere e proprie, che ritraggono Fabrizio e Giovanni, le troviamo invece in un “album” in fondo al volume). Nativo di Flambruzzo, e morto ad Aiello del Friuli nel 2008, Giovanni è stato un uomo sfortunato, vissuto in un contesto sociale di disagio e sofferenza, ma è divenuto un’ancora di salvezza per Fabrizio. Già, perché Fabrizio giocava con la “primavera” del Monza ed era un talento straordinario, una grande promessa del calcio, ma nel 1979, a 17 anni, un infortunio gli frantumò sia il ginocchio sia ogni speranza di carriera. Quindi, entrato in un tunnel di depressione, droga e delinquenza, finì dapprima in carcere e poi, per 14 anni, in un ospedale psichiatrico giudiziario. Le occasioni per l’incredibile svolta furono un pallone, trovato nel cortile dell’istituto detentivo, e Giovanni. Il ritrovato amore per il pallone lo portò ad allenarsi, a concentrarsi, a ritrovare fiducia in se stesso, stabilendo nelle più improbabili condizioni vari record di palleggi, letteralmente da Guinness dei primati. E poi c’è stato Giovanni, ammalato e - secondo i medici - con pochi mesi di aspettativa di vita, chiuso nel suo mondo di deliri e di terrore, in buona parte non autosufficiente, bersaglio preferito dei detenuti. Fabrizio decise di prendersene cura, lo accudì, lo protesse e gli prolungò la vita di anni, salvando lui per salvare anche se stesso: così, da criminale incallito, divenne “uno strumento utile, per sé e per gli altri, un ‘ponte’ fra la società cosiddetta civile e il mondo degli internati, un esempio in grado di restituire speranza a tanti uomini e donne privati della loro dignità” (Muglia). Oggi Fabrizio vive a Reggio Emilia, lavora in una Cooperativa, si occupa del verde pubblico e porta avanti un progetto sociale rivolto a scuole, associazioni, alla società civile in generale. Il consumo di droga s’impenna per curare il male di vivere ma in Italia nessuno ne parla di Roberto Saviano Corriere della Sera, 21 gennaio 2024 I dati lo dicono chiaramente, il consumo di droga è in aumento. Quel che è ancor più preoccupante, e che dovrebbe portare a una seria riflessione collettiva, è che si tratta dell’aumento esponenziale dell’uso di sostanze assunte per curare quello che, con un’espressione persino poetica, potremmo definire il mal di vivere. Riporto un dato impressionante emerso dal monitoraggio che lo Snap (Sistema Nazionale di Allerta Precoce contro la droga) ha messo a disposizione per il 2022: l’uso di sostanze monitorate perché in qualche modo considerate affini alle droghe è cresciuto del 370%. Nel 2023 negli Usa - il che dimostra che la tendenza è mondiale - si è verificato un aumento esponenziale delle morti per overdose tra i teenager dovute in larga parte al consumo illecito di fentanyl. Alla domanda sul perché ci si droghi così tanto, che mi pongono studentesse e studenti soprattutto quando vado nelle università e nelle scuole, do una risposta sconveniente, sgradevole, scorretta, finanche maleducata: perché la vita è una merda. “Balle” rispondono in molti, “ci si droga per sballarsi, per divertirsi, per fare meglio sesso” (errore madornale credere che le droghe favoriscano i rapporti sessuali: qualsiasi droga porta all’impotenza cronica). Sostanze come alcol e droga danno solo l’illusione di favorire l’approccio con gli altri, ma in realtà creano danni all’organismo, che presenta il conto col passare degli anni. In buona sostanza, la risposta che mi viene data, è che ci si droga per divertirsi; in gergo tecnico di parla di “uso ricreativo”. Posto che il divertimento è una declinazione del vivere, una dinamica sovente di reazione al dolore, di opposizione alla malinconia, alla depressione; questo assunto non nega affatto la mia tesi secondo cui in un mondo sempre più feroce, veloce e che pretende che anche i bambini siano performanti, le droghe e le sostanze affini arrivano a occupare - del resto è sempre accaduto - lo spazio del vuoto, lo spazio dell’ansia. E che il divertimento debba passare dall’assunzione di droghe e/o alcol è una dinamica tipica, indagata da sempre dagli studiosi. Le angosce dominano e, per liberarsene, per alleggerire il quotidiano, bisogna trovare un “additivo” chimico o, anche se naturale, comunque esterno al nostro corpo. Il mondo occidentale ha dovuto, per la prima volta, occuparsi di ciò che lega la sofferenza umana alle droghe con l’epidemia di eroina degli Anni Ottanta. E il termine “epidemia” non l’ho usato a caso: è proprio il termine esatto, quello più appropriato. L’eroina è considerata tuttora la regina delle droghe perché è totalizzante: il corpo diventa dipendente dalla sostanza già dopo pochissime dosi. L’eroina gialla, una varietà letale, è causa di morte per un numero altissimo di persone. È gialla per la scarsità, in Afghanistan, di solventi chimici, il che non consente di lavarla bene. Non perché abbia principi attivi diversi da altre varietà, con cui condivide un grado di pericolosità altissimo. In altre epoche esisteva un dibattito sul tema. Un aumento dei morti imponeva discussioni aperte, magari odiose e superficiali accuse alle famiglie o alla politica di sottovalutare il problema, di affrontarlo solo con la repressione, ma se ne parlava, se ne discuteva animatamente, anche in tv. Oggi il dibattito è del tutto assente. Al più lo affrontano i trapper nei loro brani, ma più che al consumo si riferiscono allo spaccio; la politica ormai parla sempre e solo genericamente di “droghe che fanno male”, ignorando completamente queste dinamiche. Per essere proprio chiari, siamo testimoni, per lo più inconsapevoli, di un’epidemia di sostanze - come accade negli Usa con il fentanyl - usate come antidepressivi, come antidolorifici dell’anima. Dunque il fentanyl non è più utilizzato per lenire il dolore delle ossa, dei muscoli, per la sofferenza provocata dalle lesioni corporee, ma per curare le fratture dell’anima. Diventa il sedativo dell’ansia. Nei giorni scorsi abbiamo raccontato il narcogolpe in Ecuador: un Paese messo in ginocchio da pusher, pali e affiliati. E abbiamo visto bene cosa accade quando il male di vivere è ignorato. È la richiesta di sostanze che “curano l’anima” qui da noi ad arricchire i narcos sudamericani e i terroristi afghani che trafficano eroina. In poche parole, per non aver affrontato il male di vivere, ci siamo giocati la democrazia. Sul web siamo tutti “minorati” di Antonio Polito Corriere della Sera, 21 gennaio 2024 Nell’inchiesta per truffa, l’aggravante della “minorata difesa” di chi sta in rete: è il problema della nostra epoca. C’è un dettaglio dell’inchiesta per truffa sul Pandoro di Chiara Ferragni che va ben al di là di quel processo penale, perché ci dice qualcosa su noi stessi quando stiamo sul web. Sapete che la Procura ha contestato agli indagati l’aggravante della “minorata difesa”. Una circostanza prevista dal nostro codice nei casi in cui il reo, o presunto tale, sfrutti la debolezza della sua vittima, la sua particolare condizione di vulnerabilità, ai fini di commettere o proseguire un reato. Tanto per fare un esempio: se qualcuno ruba il portafoglio a un anziano o a un disabile, si avvale della posizione di svantaggio di chi ha una ridotta capacità di difesa. Dunque deve essere punito più severamente. Lo stesso se qualcuno si approfitta di una persona che abbia avuto un malore, o che sia per esempio priva dei sensi. O se prende a pugni un ragazzino. E così via. Tutte queste fattispecie sono previste nel codice penale. E anzi di recente la giurisprudenza della Cassazione vi ha aggiunto il caso in cui il reato sia compiuto nelle ore notturne, “in considerazione della attenuata possibilità di sorveglianza da parte dei privati e della ridotta vigilanza pubblica”. Mentre il legislatore ha inserito esplicitamente il criterio dell’età anagrafica della vittima, per garantire una tutela rafforzata ad anziani e minori. Ma la novità è che la previsione di questa aggravante nel caso Ferragni, se confermata, darà una sanzione giuridica a un dato di fatto culturale da tempo al centro delle nostre vite. E cioè che le persone sul web sono più esposte, più deboli, più facilmente ingannabili. E tanto più lo sono quanto maggiore è la fama, la notorietà, la capacità di influenza dell’ingannatore o ingannatrice (per ora nel caso in specie solo presunti, appettiamo il verdetto prima di condannare Chiara Ferragni, per quanto antipatica ci possa essere). Perché sfruttando la propria celebrità, che noi erroneamente scambiamo per qualità, per loro è più facile abusare della credulità del popolo del web. Il quale ha una specifica caratteristica: se la beve facilmente. Arriverà cioè in una piccola aula di tribunale il più grande problema della nostra epoca. Quello che ci fa penare osservando i nostri figli credere a qualsiasi cosa leggano o vedano sui social (soprattutto ciò che vedono, perché le immagini appaiono più attendibili, quasi inconfutabili, mentre invece la “verità” che esse certificano è sempre parziale, se non se ne conosce il contesto, il luogo dove sono state riprese, chi le ha riprese, se sono integrali o con tagli, che cosa è accaduto prima e che cosa dopo, eccetera eccetera). Lo stesso problema che ci fa dubitare della qualità di certi successi mediatici. E che in casi sempre più frequenti mette in discussione perfino la genuinità dei consensi politici e dei risultati elettorali. Il processo sul Pandoro potrebbe dunque aprire un vero e proprio vaso di Pandora, qualora i giudici riconoscano l’aggravante della “minorata difesa”. Certificherebbe infatti che quando siamo sulla Rete siamo tutti “minorati”. Così tanto da non poterlo nemmeno capire da soli. Italia-Turchia. Al lavoro su un Memorandum sui migranti di Carlo Lania Il Manifesto, 21 gennaio 2024 A Istanbul la premier in più di due ore di colloquio con il presidente turco Recep Tayyp Erdogan. Intesa sui migranti, sintonia sulla guerra Russia-Ucraina ma freddezza sul conflitto in Medio Oriente, sul quale Italia e Turchia mantengono posizioni distanti. Sono alcuni degli argomenti trattati ieri a Istanbul dalla premier Giorgia Meloni in più di due ore di colloquio con il presidente turco Recep Tayyp Erdogan. Un bilaterale programmato da tempo e che coincide con l’avvio della presidenza italiana del G7, anche se il passaggio di consegne ufficiale con il Giappone ci sarà il prossimo 3 febbraio a Tokio. L’incontro di ieri è servito a Meloni per tornare a chiedere a Erdogan una rafforzamento dei controlli sui migranti in partenza dalla Libia e in particolare dalla Tripolitania, regione di fatto controllata dalla Turchia che da alcuni anni addestra la cosiddetta Guardia costiera di Tripoli. Dell’argomento la premier italiana e il presidente turco avevano già parlato in passato in un incontro avuto all’Onu, mentre a novembre scorso il segretario generale della Farnesina si era recato ad Ankara per proseguire il lavoro. La prossima tappa sarà un nuovo Memorandum, dopo quello con la Libia e la Tunisia, al quale stanno lavorando il ministro degli Esteri Antonio Tajani con l’omologo turco. Sulla guerra tra Russia e Ucraina, Meloni ha ringraziato Erdogan per i tentativi di mediazione tra due Paesi e in particolare per l’accordo raggiunto sul grano. Più difficile, invece, il confronto sul conflitto in corso in Medio Oriente per il quale Meloni ha ribadito l’obiettivo dei due Stati. Una posizione lontana da quella sempre più dura che da tempo ormai Erdogan ha assunto nei confronti di Israele. Ucraina. La tragedia dei bambini rapiti e russificati. Kiev: “Li riporteremo a casa” di Giacomo Gambassi Avvenire, 21 gennaio 2024 Presi ai genitori, prelevati nei convitti, deportati in campi di rieducazione, sono costretti diventare cittadini russi. Le adozioni forzate alle famiglie russe. Almeno 20mila deportati da Mosca. C’è un filmato che Liza Batsura ha ricevuto sul suo telefonino e che l’ha sconvolta. È quello di Zorik Ibrian che viveva con lei nel convitto per minori di Kherson e assieme studiavano nella scuola professionale numero 2. Entrambi ucraini. Ed entrambi 16enni quando i funzionari filo-russi, a servizio delle forze d’occupazione che controllavano la città nei primi mesi di guerra, li avevano “prelevati” e portati a 250 chilometri di distanza in un campo di rieducazione della Crimea chiamato “Amicizia”. “Gloria alla Russia”, le dice Zorik guardando nella fotocamera del cellulare e indicando la bandiera russa sulla sua maglietta. “Ho paura di lui”, sussurra Liza. Lei ce l’ha fatta a rimanere ucraina nonostante la deportazione, le minacce “se parlavo ucraino”, l’obbligo di “cantare brani russi”, le lusinghe di frequentare gratis “l’università a Mosca” o di “ricevere 100mila rubli e un appartamento”. Zorik no. Si è convertito “all’imperialismo di Vladimir Putin con quel lavaggio del cervello che ha un obiettivo: cancellare l’identità ucraina partendo dai nostri bambini e giovani che finiscono in mano russa”, racconta Mykola Kuleba ad Avvenire. Ex presidente della Commissione presidenziale per i diritti dell’infanzia che ha guidato dal 2014 al 2021, è il fondatore “Save Ukraine”, l’organizzazione non profit che riporta a casa i ragazzi trasferiti con la forza nel Paese aggressore. Sono 226 quelli rimpatriati grazie alla Ong dall’inizio dell’invasione. Fra loro anche Liza che ora abita a Kiev ed è stata salvata durante uno dei viaggi della speranza con i quali si fanno arrivare genitori e parenti dei ragazzi fino in Russia a riprenderseli. Come la mamma di Liza, adolescente finita in istituto per le sue difficoltà di relazione. “Ho sempre avuto una madre, ma per i russi ero orfana. Perciò volevano darmi il loro passaporto e trovarmi una famiglia russa”. La guerra in Ucraina ha anche il volto dei bambini “rubati” dal Cremlino. Ventimila quelli identificati dal governo di Kiev. “Di loro almeno 4mila sono orfani - sostiene Kuleba -. Ma, secondo una nostra stima, possono essere un milione e mezzo i ragazzi ucraini che vivono fra la Federazione Russa e i territori occupati”. Una cifra che tiene conto non solo dei due anni di conflitto ma anche del decennio di scontri in Donbass. Kuleba cita Maria Lvova-Belova, la commissaria russa per i diritti dei bambini su cui pende un mandato di arresto della Corte penale internazionale che accusa lei e Putin di deportazione illegale di bambini. “È stata Lvova-Belova ad affermare che 58mila ragazzi sono stati trasferiti in Russia dal Donbass nei mesi precedenti l’aggressione su vasta scala. Ad oggi è impossibile sapere quanti giovanissimi siano finiti in Russia prima o nel corso della guerra cominciata il 24 febbraio 2022, quanti siano ancora in Crimea o nelle regioni occupate dell’Ucraina, quanti siano stati costretti a cambiare passaporto o certificato di nascita”. Nella sede di “Save Ukraine” a Kiev Kuleba mostra il documento che un ragazzo di Kherson ha dovuto accettare quando è finito in Crimea. “In base al nuovo certificato non è nato in Ucraina, ma nel territorio russo”. Perché parte della regione di Kherson è sotto il controllo di Mosca. Risultato? Lui non è un deportato, ma un cittadino di Putin. Niente ladri di bambini, quindi. “Ecco perché è così difficile avere la portata esatta di quello che sta accadendo - spiega Kuleba -. Succede che i ragazzi siano rapiti negli orfanotrofi o dopo aver visto i genitori morire per i bombardamenti. Altri vengono evacuati in Russia con la scusa di proteggerli. Altri ancora sono separati dalle famiglie che si rifiutano di riconoscere l’autorità del Cremlino nelle aree occupate o di inviarli nelle scuole pro-Russia dove è stato pianificato un vero percorso di indottrinamento e dove si è puniti se si dialoga in ucraino o si usa la parola “pace”. Poi ci sono le famiglie che vengono letteralmente comprate: si assicura una somma in rubli pari a 50mila dollari se genitori e figli acquisiscono il passaporto russo”. Un dramma che il presidente Volodymyr Zelensky è tornato a denunciare questa settimana al forum di Davos in Svizzera e che è al centro della missione di pace affidata dal Papa al cardinale Matteo Zuppi. Due gli ambiti di mediazione umanitaria del presidente della Cei: i prigionieri di guerra e i bambini sottratti all’Ucraina. “Oggi non abbiamo meccanismi per avere notizie sui nostri ragazzi presenti nella Federazione Russa e nei territori occupati”, fa sapere Kuleba. E il rientro in patria resta una delle operazioni più complesse. Come ha ammesso anche lo stesso Zuppi. “Perché i ragazzi sono testimoni scomodi per il Cremlino - chiarisce il fondatore della Ong -. Possono documentare con i loro racconti gli allontanamenti coatti. E questo è un crimine di guerra”. Stando ai dati appena diffusi dal commissario per i diritti umani del Parlamento ucraino, Dmytro Lubinets, solo 517 minorenni sono stati restituiti ai loro parenti. Non è un caso che “Save Ukraine” si affidi a blitz clandestini e non a trattative. Fra le leve utilizzate dal Cremlino per russificare gli under 18 ci sono i campi di formazione: 45 quelli censiti fra la Crimea e la Russia. “Almeno 6mila ragazzi ci hanno trascorso da due settimane a sei mesi. Sono come centri vacanze: si fanno escursioni, si mangia buon cibo, si tengono incontri. Ma soprattutto si racconta la “pace” o la “bontà” russa e si descrive l’Ucraina come matrigna. “La Russia ti vuole bene”, si sentono ripetere i giovanissimi che, però, non possono più contattare le famiglie. Si promette anche un’educazione universitaria”. E c’è chi viene convinto a entrare in un’accademia militare. “L’intento è avere soldati da impiegare contro l’Ucraina - avverte Kuleba -. Non è escluso che fra i militari in prima linea con la divisa di Putin ci siano ragazzi ucraini trasferiti oltre confine nei dieci anni di guerra in Donbass”. Quando i bambini giungono in Russia, sembrano scomparire. Un modo per mettere al riparo i vertici politici dalle contestazioni occidentali ma anche per favorire le adozioni forzate. Sul sito degli affidamenti dell’oblast di Mosca sono state scoperte le foto di due gemelline di tre anni, Sofiia e Nadiia Viktorivna Klochkova, prelevate dall’orfanotrofio regionale di Kherson. “La legge russa agevola le adozioni - sottolinea Kuleba -. Ma c’è dell’altro: una coppia russa che fa figli non riceve alcun sostegno economico; una che prende un ragazzo dei territori occupati può contare sui sussidi del governo. Così capita che lo si faccia per soldi, come ci ha raccontato una ragazzina tornata in Ucraina. A lei i russi hanno ucciso la madre e il padre; e si è trovata in mezzo a genitori alcolisti di San Pietroburgo che volevano solo il contributo statale”. Ma dietro l’ansia di dare una nuova famiglia ai “ragazzi del nemico” ci possono essere ulteriori motivazioni. “Alcuni genitori si sentono investiti della missione di far vivere ai bimbi la grandeur russa; altri di liberarli dal nazismo: un ragazzo ci ha riferito che nella sua famiglia adottiva il padre era al fronte a combattere contro l’Ucraina; altri ancora di esibirli come trofei. È il caso del politico filo-putiniano Sergey Mironov e di sua moglie Inna che hanno adottato una neonata dell’orfanotrofio di Kherson”. All’anagrafe ucraina si chiama Marharyta Prokopenko e ha due anni. Le hanno cambiato nome in Marina Mironova per nascondere il “furto” della piccola. Anche se Mironov nega tutto. Una persona su 100 che abitava nella Striscia di Gaza è morta. In meno di 4 mesi di Chiara Sgreccia L’Espresso, 21 gennaio 2024 Dall’inizio dell’operazione di Israele, sono oltre 24mila le vittime. E 8 abitanti su dieci non hanno più la casa. Intanto il Medio Oriente si infiamma tra Iran, Pakistan, Iraq, Siria e Mar Rosso. Una distesa di tende senza fine riempie ogni spazio libero. Tra gli edifici rimasti in piedi dopo i bombardamenti, a Rafah, ormai dall’inizio di dicembre, da quando le operazioni militari di terra stanno distruggendo anche il Sud della Striscia di Gaza, vivono circa un milione e mezzo di persone. Scappate dalle zone in cui il conflitto armato è più intenso, dormono sotto teli di plastica tenuti in piedi da quattro assi di legno. Che non proteggono né dalla pioggia né dal freddo. Che non assomigliano per niente alle case abbandonate di fretta per non morire durante le esplosioni. Sebbene le bombe colpiscano anche i luoghi in cui chi ha perso tutto si rifugia. Anche a Rafah, al confine con l’Egitto, vicino al valico da cui gli aiuti umanitari che entrano non sono sufficienti per sostenere una popolazione allo stremo. Anche al Sud, dove l’esercito israeliano aveva intimato ai palestinesi di cercare la salvezza. Più dell’85 per cento della popolazione della Striscia è sfollato, almeno 1,9 milioni di persone. Più dell’1 per cento, oltre 24 mila, è morto. Più di 60 mila sono i feriti. Da quando sono iniziati i raid delle Idf a Gaza, in risposta all’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023. “La situazione è gravissima”, Sami Abu Omar, cooperante tra i responsabili del Centro di scambio culturale italo-palestinese Vik, dedicato a Vittorio Arrigoni, lo ripete durante ogni telefonata: “La situazione è gravissima, non abbiamo acqua perché senza elettricità non funzionano i depuratori. La situazione è gravissima, non abbiamo niente da mangiare, anche gli animali soffrono la fame. Quei pochi rimasti sono magrissimi. La situazione è gravissima, non abbiamo più carburante e gas. La situazione è gravissima, nei negozi non c’è niente da comprare e i prezzi dei generi alimentari al mercato nero sono troppo alti. La situazione è gravissima, le persone si ammalano ma gli ospedali non funzionano. La situazione è gravissima, abbiamo sei bagni ogni 600 mila sfollati”. Abu Omar si è spostato a Rafah con la famiglia, dopo che la città di Khan Yunis, dove viveva, è diventata il fulcro delle operazioni militari di terra. Parla da una delle tende che riempiono l’area. Sotto la sua, si sentono le voci della vita che resiste attorno. “Ma per quanto? - si chiede - La situazione è gravissima”. Per il Sudafrica, molti Paesi a maggioranza musulmana e oltre mille organizzazioni, partiti, sindacati di tutto il mondo che sostengono Pretoria nella causa che ha intentato contro Israele alla Corte internazionale di Giustizia dell’Aia, le azioni che sta compiendo Benjamin Netanyahu da tre mesi nella Striscia “mostrano un modello sistematico di condotta da cui si può dedurre un genocidio”. Accusando così Israele di violare la “Convenzione per la prevenzione e la punizione del crimine di Genocidio” varata nel 1948, attraverso un preciso piano contro i palestinesi di Gaza che Tel Aviv starebbe portando avanti uccidendo i civili e impedendo loro di avere accesso a cibo, acqua e cure mediche. A sostegno dell’accusa, oltre al fatto che il 70 per cento delle vittime sono donne e bambini, il Sudafrica ha ricordato le dichiarazioni di alcuni esponenti del governo israeliano: “Stiamo combattendo contro animali umani”, aveva detto il ministro della difesa Yoav Gallant. “Quando diciamo che Hamas dovrebbe essere distrutto, intendiamo anche coloro che festeggiano, coloro che sostengono e coloro che distribuiscono caramelle: sono tutti terroristi”, dichiarava il ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir. “Non esistono civili non coinvolti a Gaza”, aveva spiegato Amihai Eliyahu, ministro del Patrimonio, in un’intervista in cui sosteneva che sganciare la bomba atomica sulla Striscia avrebbe potuto essere una possibilità. Per il Sudafrica, prima della sentenza per cui ci vorrà tempo, la Corte Onu potrebbe imporre misure cautelari ordinando a Tel Aviv di cessare i bombardamenti, consentire l’accesso di più aiuti umanitari. Per Israele che si è difeso, “a Gaza non è in corso nessun genocidio”. Secondo l’avvocato Tal Becker, l’intero caso si basa su una “descrizione deliberatamente decontestualizzata e manipolativa della realtà delle ostilità”. Il Sudafrica sta tentando di “utilizzare il termine genocidio come un’arma contro Israele” e anche cercando di “contrastare il diritto intrinseco” del Paese a difendersi. “Nessuno ci fermerà, né L’Aia né l’asse del male e nessun altro”. Così il premier Netanyahu ha commentato il dibattimento alla Corte penale internazionale durante un discorso televisivo. Anche se la “fase intensiva” dell’attacco nel Nord della Striscia dovrebbe essere terminata, stando alle parole del ministro della Difesa Gallant, sotto pressione da Washington per ridurre l’intensità dell’aggressione. E presto si concluderà anche quella nella zona di Khan Yunis e nel Sud. Ma le intenzioni di Israele non sono chiare: dopo più di 100 giorni dall’inizio del conflitto non si intravede nessuna pace possibile. Mentre a Gaza la strage continua. E la tensione sale anche in Cisgiordania dove è in atto un’ondata di violenza “e attacchi da parte delle forze israeliane che non si vedevano dai tempi della seconda Intifada, dal 2000 al 2005”, scrive Al Jazeera. Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari, le forze israeliane hanno ucciso 30 palestinesi, tra cui sette bambini, in Cisgiordania nei primi 15 giorni dell’anno. L’anno scorso sono stati uccisi 507 palestinesi. “Nel mese successivo all’attacco di Hamas del 7 ottobre, più di 800 palestinesi sono stati sfollati dalle loro case in Cisgiordania in un contesto di crescente violenza da parte del movimento radicale dei coloni israeliani, che da tempo persegue l’obiettivo di espellere i palestinesi ed espandere l’impronta ebraica nei territori occupati”, si legge nell’inchiesta esclusiva con cui il Washington Post ha svelato i retroscena dell’uccisione del 17enne Obada Saed Abu Srour nel villaggio di Qusra, lo scorso 11 ottobre, colpito alla schiena probabilmente dai coloni del vicino insediamento di Esh Kodesh, mentre stava scappando. La polizia sta indagando sulla vicenda perché sembrerebbe che le truppe israeliane non siano intervenute per fermare l’attacco nonostante fossero obbligate dal diritto a proteggere tutti i residenti della Cisgiordania, compresi i palestinesi. “A tutti i topi nelle fogne del villaggio di Qusra vi stiamo aspettando e non avremo pietà. Il giorno della vendetta sta arrivando”, avevano scritto i coloni di Esh Kodesh su Facebook qualche giorno prima dell’attacco. “È mio dovere rivolgere questo messaggio semplice e diretto a tutte le parti: smettetela di giocare con il fuoco lungo la Blue line, allentate le tensioni e mettete fine alle ostilità”, ha detto il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres a proposito dell’intensificarsi degli scontri al confine con il Libano tra l’esercito israeliano e Hezbollah, che causano morti da entrambi i lati. Soprattutto dopo l’uccisione del leader militare Wissam Tawil, in un attacco israeliano. “Siamo sempre pronti alla guerra. Sono gli israeliani che hanno paura”, ha commentato Hassan Nasrallah, il capo dell’organizzazione sciita Hezbollah. Ma le ostilità non si stanno intensificando solo lungo la Blue line. Gli houthi non smettono di prendere di mira le navi che attraversano il Mar Rosso neppure dopo gli attacchi di Stati Uniti e Regno Unito,alle loro basi in Yemen. “Lo Yemen si trasformerà nel cimitero degli americani e questi lasceranno la regione umiliati”, ha fatto sapere Ali Al-Qahoum, uno dei leader degli houthi, gruppo armato sostenuto dall’Iran. Che nel frattempo ha iniziato a vendicare gli 84 morti degli attentati di Kerman, avvenuti durante le celebrazioni per Qasem Soleimani, il leader dei pasdaran ucciso dagli americani il 3 gennaio 2020. “I missili balistici sono stati usati per distruggere centri di spionaggio e raduni di gruppi terroristici anti-iraniani”, in Iraq e Siria, hanno detto dal Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica, che riferisce di aver colpito il quartier generale dell’agenzia di spionaggio israeliana Mossad a Erbil: quattro persone uccise e sei ferite. Almeno nove, tra cui quattro bambini e tre donne, secondo i media locali, sono quelle, invece, rimaste uccise in seguito agli attacchi sulla città iraniana di Saravan, nella provincia sudorientale del Sistan e Baluchistan effettuati dal Pakistan dopo che l’Iran ha colpito nel suo territorio alcuni obiettivi definiti “terroristici”.Civili che proprio come a Gaza, come nel caso degli ostaggi israeliani rapiti da Hamas o come per la donna uccisa e le 17 persone ferite durante l’attentato a Ra’anana, vicino a Tel Aviv, all’inizio della settimana, pagano il prezzo più alto. La strage del Fentanyl ha cambiato per sempre San Francisco. E gli Stati Uniti di Manuela Cavalieri e Donatella Mulvoni L’Espresso, 21 gennaio 2024 La ricca città della west coast è la seconda città per incidenza di overdose. La comunità di oltre ottomila senzatetto sopravvive tra mille difficoltà e in assenza di leggi efficaci per aiutare chi soffre di disturbi mentali. E il contrasto tra la miseria estrema e l’opulenza della Silicon Valley dà le vertigini. La Jaguar bianca sfila sicura sulle collinette cittadine. La guida è impeccabile, nonostante al volante non ci sia anima viva. Divertono e inquietano i robotaxi Waymo che da qualche mese scarrozzano locali e turisti per le strade di San Francisco. Decine di sensori e telecamere a corredo permettono visuali perfette, in grado di arginare ogni imprevisto. Incluso il passo claudicante di un homeless che attraversa all’improvviso, senza badare ai semafori. È in quella frenata prudente che si annida la contraddizione di questa città magnifica e dolente. L’ammiraglia americana dell’innovazione è anche asilo della più problematica comunità senzatetto della costa ovest. Ottomila anime, per la maggior parte tossicodipendenti e afflitti da malattie mentali. San Francisco - seconda per incidenza di overdose dopo Filadelfia - è il volto di un’epidemia che lacera l’intera nazione ormai da anni. Il primo presidente a dichiararla emergenza nazionale fu Donald Trump nel 2017. Nel 2023 i decessi per droga hanno superato le 112 mila unità negli Usa, solo nella Bay Area sono stati più di settecentocinquanta. Per oltre l’80% delle vittime il killer si chiama fentanyl, un oppiaceo sintetico confezionato in laboratori messicani grazie a precursori realizzati in Cina. È ormai il padrone delle piazze di spaccio. L’anno appena iniziato potrebbe essere ancora più terribile a causa di una tendenza che sta diventando comune: il fentanyl assunto in combinazione con metanfetamine e cocaina. La quarta ondata, la chiamano in studi separati i ricercatori Daniel Ciccarone (University of California) e Joseph Friedman (University of California Los Angeles). La prima fu negli anni 2000, con gli oppioidi delle grandi case farmaceutiche, quando i medici hanno iniziato a prescriverli per alleviare i dolori causati da operazioni chirurgiche o infortuni, nascondendo il rischio dipendenza. La seconda intorno al 2010, quando milioni di persone sono passate all’eroina; la terza nel 2013, con l’aggressivo avvento appunto del fentanyl. “È da cinquanta a cento volte più potente di quello che vendevano ai miei tempi”, racconta Tom Wolf che gli effetti di questa crisi sociale li porta sulle braccia, segnate da larghe cicatrici. I capelli sale e pepe, che oggi fissa con un filo di brillantina, sei anni fa sembravano esplodergli in capo nella foto segnaletica diventata virale in tutto il mondo, quando con un tweet rispose che era in riabilitazione a un datore di lavoro che non voleva assumerlo a causa del suo passato. Ex dipendente pubblico, ex tossicodipendente, ex homeless, oggi è diventato un attivista che collabora a stretto contatto con le istituzioni. Quella di Tom è una storia simile a infinite altre. Tutto inizia nel 2018 con una cura di antidolorifici prescritta dopo un intervento al piede. Lui è un impiegato comunale, marito e padre devoto di due bambini, dalla vita che più regolare non si può. In convalescenza l’ossicodone gli provoca una potente dipendenza. “Presi tre pillole insieme perché una sola non mi calmava il dolore. Fu euforia pura”. L’anticamera dell’inferno. In principio riesce a lavorare e a prendersi cura della famiglia. “Durò poco; finite le prescrizioni, ero per strada a comprare pillole al mercato nero, prima, ed eroina poi. Ora tutto è stato completamente sostituito dal fentanyl”, dice mentre mostra l’angolo di Golden Gate Ave, dove ha dormito per sei mesi dopo essere stato allontanato dalla famiglia. Ci si trova nel quartiere di Tenderloin, ribattezzato “the tent city” per la concentrazione di accampamenti dei senzatetto. L’umanità più misera di San Francisco si addensa in questa cinquantina di isolati, a Sud-Ovest di Union Square, la zona dello shopping. Anche se dopo il Covid la popolazione homeless è sciamata in altri quartieri come South Market, Mission, Hayes Valley e Haight-Ashbury. I numeri sono lievemente in calo, ma la situazione resta critica. Ogni tanto si sentono gli strilli di chi litiga o contratta, ma gli abitanti di queste tendopoli malconce non fanno troppo baccano. L’odore, pungente, colpisce più forte. Molti sono distesi tra veglia e sonno, adagiati tra rifiuti ed escrementi. A terra ci sono giocattoli rotti, bottiglie, siringhe e fogli di alluminio, rimasugli di cibo e paccottiglia. E carrelli della spesa diventati trolley. Come tanti oggi, anche Wolf in queste strade viveva grazie a piccoli furti, mentre le dosi gliele passavano gli spacciatori, in cambio della sua disponibilità a fare da palo mentre loro erano in azione. È finito in manette sei volte. A cambiargli la vita, gli ultimi tre mesi di prigione seguiti da sei di disintossicazione grazie all’Esercito della Salvezza. Adesso nel Tenderloin torna come un uomo nuovo. Per aiutare chi come lui è finito in questo burrone. I numeri delle morti da overdose in città hanno iniziato a lievitare in tempo di pandemia, quando le vittime delle droghe superarono quelle del Covid. A dicembre 2021 la sindaca London Breed - dal 2018 prima afroamericana a ricoprire la carica - dichiarò 90 giorni di emergenza. Scattarono le manette per tanti spacciatori, le strade furono in parte ripulite, a qualche centinaio di tossicodipendenti venne offerta una casa. I pochi risultati, però, evaporarono presto: la crisi è ancora acuta, nonostante la mastodontica quantità di investimenti a disposizione (690 milioni di dollari solo nell’anno fiscale in corso). Inutili, come l’ultimo tentativo di ripulire la città per i lavori della Cooperazione economica Asia-Pacifico a novembre e l’incontro tra il presidente Joe Biden e l’omologo cinese Xi Jinping. Wolf è molto critico con le politiche adottate da San Francisco. “Siamo liberal, anche io sono democratico. Ma i progressisti più estremi sostengono che, se qualcuno decide consapevolmente di uccidersi per strada, non bisogna intervenire. Abbiamo adottato questa politica per paura dello stigma e di usare la risposta unilaterale degli anni ‘90 con la guerra contro le droghe. Ora però il pendolo si è spostato completamente verso la depenalizzazione. E la città è diventata una calamita regionale. Qui la droga per strada costa cinque dollari; la polizia non ti dà fastidio e puoi avere un sussidio in contanti di 600 dollari al mese”. Secondo l’attivista non aiutano neanche le leggi statali. Già dal 2014, infatti, la California aveva declassato alcuni reati minori legati a furto e possesso di droga. Lo scorso aprile un giudice federale ha stabilito che, rispettando le direttive cittadine, non è possibile rimuovere i senzatetto se non si è in grado di fornire un alloggio. Al momento, inoltre, non è possibile forzare le persone con problemi mentali a farsi curare. “Questo è sbagliato - prosegue Wolf - perché esse costituiscono un pericolo per la popolazione. Non stiamo parlando dei bohémien di una volta. Ci sono molti tipi di senzatetto. A sinistra si dice che è una questione abitativa (San Francisco resta una delle città con gli affitti più alti d’America), a destra che è un problema di droga e malattia mentale. Le persone nel mezzo, come me, diranno che sono entrambe le cose. Dare solo una casa a un tossicodipendente non risolve la dipendenza, per arginare il fentanyl è necessario un trattamento”. E di posti disponibili in strutture riabilitative ce ne sono poche centinaia. “Un altro punto è la riduzione drastica dell’offerta. Lo scorso anno la polizia ha sequestrato circa 76 chilogrammi di fentanyl in questo quartiere, ovvero il 10%. Si poteva fare di più, ma i fondi alla polizia sono stati tagliati. Mancano almeno altri 700 agenti”. “La politica parla di inclusione - continua Wolf - eppure questo quartiere è principalmente una comunità di colore. Qui devi far scortare i tuoi figli a scuola”. Sono realtà vissute anche in altre città degli Stati Uniti, ma a San Francisco, la capitale mondiale dell’intelligenza artificiale, è impossibile da accettare. A pochi passi prosperano gli innovatori della Silicon Valley e dieci delle aziende più importanti al mondo, tra cui Apple, Alphabet e Meta. È la terza area più ricca del pianeta, il tasso di disoccupazione è inferiore al 3%. E questo rimane vero, nonostante gli strascichi dei danni economici della pandemia - più che mai evidenti nella desolazione degli uffici vuoti in centro a causa del lavoro da remoto - e la fuga di qualche investitore. Chi ama questa città fa appello alla sua storica resilienza, quella che le ha permesso di essere un baluardo di libertà negli anni di fermento della contro-cultura e dell’affermazione Lgbt. E poi quella di quando ha saputo risorgere dopo il terribile sisma del 1906. “Ma c’è bisogno di cambiamento - conclude Wolf - parlare di equità a San Francisco è davvero ipocrita, visto che viviamo una delle situazioni più ingiuste di tutti gli Stati Uniti”.