Quando si muore al 41bis rimane solo il reato e sparisce la persona di Maria Brucale* Il Domani, 20 gennaio 2024 È di pochi giorni fa la notizia della morte, nella casa di reclusione di Milano Opera, di un uomo di 72 anni, Giulio Bellocco. Stava scontando una condanna a 13 anni e sei mesi per reati connessi alla ‘ndrangheta e da 10 anni era al 41bis. Aveva una malattia neurodegenerativa che ne ha causato la morte poco prima che terminasse di scontare la pena, ma non ha potuto accedere al beneficio di morire a casa con la sua famiglia. Quando muore una persona detenuta in 41 bis i giornali titolano corali stigmatizzando il reato per cui era stata condannata. È morto il boss, I’assassino, lo stupratore, si legge. E tanto più grave è il reato, tanto più passa in secondo piano la tragedia di una vita che si spegne in un carcere. È di pochi giorni fa la notizia della morte, nella casa di reclusione di Milano Opera, di un uomo di 72 anni, Giulio Bellocco. Ne danno contezza diversi quotidiani, soprattutto locali, nella rubrica “‘Ndrangheta”. E subito appresso, informano: era elemento di spicco dell’omonima cosca. Così nella coscienza del lettore, il dolore della ferita sociale rimane sottotraccia, nascosto, vinto da un concetto palesato, venduto come tranquillizzante, rassicurante eppure osceno. È morto il boss. E resta nell’ ombra quanto pur specificato appresso, il racconto. Era malato da tempo, una malattia neurodegenerativa aggravatasi fino a determinarne la morte. Espiava una pena di tredici anni e sei mesi di reclusione ed era ristretto dal 2013, al 41 bis. Parole che scivolano, che disperdono il loro significato, che non sono accompagnate da una riflessione, che non offrono punti di domanda, interrogativi, che non suscitano stupore. Aveva quasi scontato la pena - Eppure basta fermarsi un attimo e contare per vedere che quest’ uomo aveva quasi finito di espiare la sua condanna e seppure malato, sofferente, anche in fin di vita, è rimasto chiuso in quell’odioso regime detentivo che impedisce gli abbracci e i baci dei propri familiari, che consente un colloquio di un’ora al mese dietro a un vetro, che nega l’ amore in ogni forma, che non ammette la riabilitazione e la prospettiva di reinserimento, che fa morire completamente da soli in una stanza spoglia in cui anche le foto alle pareti sono misurate, con lo sguardo su un muro senza cielo, ascoltando nel silenzio il battito del proprio cuore fino a che si ferma. Una di tante storie accomunate dal dolore di una condizione di pena ingiustificabile, di punizione senza ristoro, di patimento senza speranza. Sarebbe bello davvero che chi scrive di questi lutti dello Stato di Diritto si fermasse a capire e a chiederci di capire. Si ponesse delle semplici domande: che senso ha tenere una persona in un regime di massima privazione fino all’ultimo respiro? Negarle l’addio di coloro che ama? Impedirle di stare qualche ora all’aperto? E che senso ha ammettere che una condanna sia espiata per intero in 41 bis senza neppure la possibilità astratta di accedere un giorno a un permesso premio, a una misura alternativa al carcere? Quali strumenti sono offerti a un detenuto perché possa ritornare al consesso sociale se le sue giornate si perdono diuturnamente nella normalità del niente, senza incontri, senza confronto con un mondo relazionale aperto, diverso, nuovo? Se è negato per tutta la durata della pena il recupero di una individualità responsabile che si esprima attraverso la facoltà di scelte minime? Se anche per attraversare il corridoio di sezione è necessario attendere che l’agente preposto apra la porta blindata e vigili? Se perfino per donare un pezzo di pane a un compagno di sventura si deve predisporre una domandina e aspettare i tempi incerti della risposta? Se è negato il lavoro e l’accesso a ogni attesa di progetto, di vita altra, libera, ordinaria? Domande le cui risposte, con un parametro di pena utile e costituzionalmente orientata, appaiono immediate, ovvie, scontate. Nessun senso. E di domanda ne nasce subito un’altra che rimane sospesa. Perché? L’illusione - Perché lasciare intatto quello scrigno di Pandora ci illude che rimangano chiusi lì dentro, lontani e confinati nell’oblio tutti i nostri mali? Perché un governo appare tanto migliore quanto più cattivo è con chi è accusato di crimini associativi? Perché la volontà collettiva è che gli istituti penitenziari non siano luoghi di recupero ma di esclusione, emarginazione, eliminazione? Così ci illudiamo di avere una società migliore? Di essere al sicuro? O alimentiamo un bisogno interno, forse recondito, comunque inappagato di sentirci migliori di qualcuno? Di avere un punto da additare per relegarlo nel limine del diverso, dell’errore, del peccato? Forse solo per riconoscerci come normali, puliti, sani a immaginare da fuori, meglio assai distanti, un cuore che batte in una stanza spoglia, chiusa da barriere e cancelli, senza notti di luna e un uomo, forse sfinito e arreso, che lo ascolta da solo nel silenzio, fino a che si ferma. *Avvocato Aumentano i decessi nelle carceri italiane. Un’analisi del fenomeno di Nicola Scaramuzzi ultimavoce.it, 20 gennaio 2024 Sovraffollamento e decessi sono in aumento nelle carceri e costituiscono un grave problema. Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale ha recentemente sollevato un grido di allarme, mettendo in evidenza l’urgente necessità di adottare provvedimenti concreti per fronteggiare la crescente criticità nelle carceri italiane. In un contesto in cui il tasso di sovraffollamento delle carceri ha raggiunto il preoccupante 127,54%, e con un triste aumento di 18 decessi nei primi 14 giorni del 2024, la situazione si profila sempre più drammatica. È evidente che il sistema carcerario sta affrontando una serie di sfide strutturali che richiedono un intervento tempestivo e mirato. Il sovraffollamento, in particolare, emerge come un elemento centrale che contribuisce in modo significativo alla precarietà dell’ambiente carcerario, mettendo a rischio non solo la salute e la sicurezza degli individui detenuti, ma anche la stabilità complessiva del sistema. Le cifre allarmanti, con decessi che continuano ad aumentare in modo preoccupante, sottolineano l’urgenza di adottare misure correttive efficaci. Sovraffollamento e decessi in aumento nelle carceri nel 2024 evidenziano la necessità di affrontare il problema del sovraffollamento in modo cruciale, per evitare ulteriori tragedie e garantire un trattamento umano e dignitoso a coloro che sono privati della libertà personale. L’adozione di provvedimenti immediati, orientati a riformare e migliorare la gestione delle carceri, è essenziale per affrontare le cause sottostanti di questa crisi e per garantire un sistema penitenziario più equo ed efficiente. Solo attraverso un impegno congiunto delle autorità competenti e degli stakeholder interessati sarà possibile delineare una strada per il miglioramento, riducendo al contempo il sovraffollamento e mitigando il rischio di decessi evitabili nelle carceri italiane nel corso del 2024 e oltre. I dati forniti dal Garante evidenziano una situazione estremamente preoccupante all’interno delle carceri italiane, mettendo in luce una crisi profonda che rischia di replicare il triste scenario del 2022. Nei primi 14 giorni del nuovo anno, quattro persone si sono suicidate, mentre altre 14 sono state catalogate come “morti per cause naturali”. Questi eventi tragici sono solo la punta dell’iceberg di un sistema penitenziario in grave crisi. Il 2023 si era chiuso con un bilancio negativo, segnalando il collasso delle carceri nel Paese. Con un sovraffollamento che aveva raggiunto una media del 117% e superato il 200% in alcune strutture penitenziarie, la capacità delle strutture penitenziarie di garantire condizioni dignitose ai detenuti l’anno scorso è stata fortemente compromessa. Il sovraffollamento, oltre a violare i limiti indicati dalla Corte europea dei diritti umani come trattamento inumano e degradante, attualmente è ulteriormente esacerbato dalle restrizioni sulla libertà di movimento imposte dalla nuova circolare sulla media sicurezza. La carenza di personale di polizia impedisce lo svolgimento di attività quotidiane e compromette esami medici esterni. Nonostante la proposta del Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, di utilizzare caserme come soluzione, si è dimostrato un approccio impraticabile a causa dei tempi e della burocrazia. La mancanza di azioni efficaci da parte del Governo e del Parlamento per affrontare il problema del sovraffollamento è motivo di forte preoccupazione. La proposta del deputato Roberto Giachetti di modificare la liberazione anticipata speciale e ordinamentale riceve sostegno, con l’obiettivo di ridurre immediatamente il sovraffollamento e migliorare le condizioni della comunità penitenziaria. Rita Bernardini, Presidente di Nessuno Tocchi Caino, annuncia una “Grande Satyagraha” di azioni nonviolente nel 2024 per mettere alla prova il Governo Meloni. Stefano Anastasia, Garante dei detenuti del Lazio, allarma sulla possibilità che il sistema penitenziario italiano possa esplodere, superando la soglia critica dei 60.000 detenuti. Il rischio che il sistema carcerario diventi ingovernabile è reale, con il ddl governativo sulla sicurezza che minaccia di trasformare ogni criticità in un problema disciplinare o penale. Il sovraffollamento e l’aumento dei decessi nelle carceri nel 2024 costituiscono un grave problema per il sistema carcerario italiano. L’aumento dei decessi nelle carceri nel 2024 è un problema da affrontare immediatamente L’aumento dei decessi nelle carceri nel 2024 rappresenta una sfida critica per il sistema penitenziario italiano. L’urgenza di provvedimenti è palpabile, e la necessità di riforme strutturali è evidente. Il Garante nazionale ha lanciato un chiaro segnale di allarme, chiedendo alle autorità di intervenire tempestivamente per evitare ulteriori tragedie e garantire il rispetto dei diritti delle persone detenute. La società deve affrontare questo problema con una visione di lungo termine, promuovendo un sistema carcerario che miri alla riabilitazione e al rispetto della dignità umana. Dal Csm alle inchieste, la giustizia costringe Meloni in trincea di Giulia Merlo Il Domani, 20 gennaio 2024 Il vicepresidente leghista Pinelli è l’ennesimo grattacapo per l’esecutivo. La premier è stretta tra inchieste giudiziarie sui suoi e riforme rischiose. La giustizia è il vero nervo scoperto del governo, intesa in tutte le sue accezioni: quella dei tribunali, quella delle riforme e quella degli organi istituzionali. L’ultimo pasticcio è stato combinato dal vicepresidente del Csm, il laico considerato in quota Lega ma in realtà nome su cui c’era la condivisione di tutti i partiti di maggioranza, Fabio Pinelli. La sua maldestra sortita, che voleva enfatizzare i suoi risultati nell’abbattimento dell’arretrato e mettere in chiaro il proposito di rendere il Consiglio un organo di alta amministrazione assolutamente perimetrato rispetto alla politica anche nell’espressione dei pareri, è stata un boomerang disastroso. Attaccando il precedente Csm, la cui vicepresidenza era toccata al dem David Ermini, reo di aver “esercitato una impropria funzione politica”, ha di fatto aperto un fronte con il Quirinale, che del Csm è presidente e collante tra la consiliatura in corso e quella conclusa nel 2022. L’inciampo non è stato enfatizzato dal Colle e in serata anche Pinelli ha spiegato di essere stato frainteso, ma ha provocato la rivolta di tutti i consiglieri togati. Dalle sue parole hanno prima preso le distanze i consiglieri di Area, Unicost, Magistratura democratica, l’indipendente Roberto Fontana e anche - dato importante - Dario Scaletta di Magistratura indipendente. A distanza di ventiquattro ore dai fatti, è arrivato anche il comunicato dei rimanenti sei componenti di Mi, la corrente conservatrice delle toghe che nell’attuale consiglio ha trovato un’asse con i sette laici di centrodestra: “Prendiamo atto delle opportune precisazioni” di Pinelli, “sulle questioni istituzionali occorre equilibrio e ponderazione, nei toni e nei contenuti”, è la stilettata. “Esprimiamo il massimo rispetto e apprezzamento per il lavoro svolto in condizioni difficili da chi ci ha preceduto”, è la conclusione. Una presa di distanze anche dell’area togata più in sintonia con la maggioranza, che segna la prima vera incrinatura di un’asse che fino ad oggi era risultata solida. L’unica posizione dissonante è stata quella del togato indipendente Andrea Mirenda, che ha detto di “condividere pienamente” le parole di Pinelli “circa la natura non politica” del Csm, ma anche “il giudizio tutt’altro che positivo sulla precedente consiliatura” ma, ha aggiunto, “c’è ancora molta strada fa fare per affrancarsi dalle logiche correntizie”. Le parole di Pinelli sono riuscite a compattare però per la prima volta tutte le correnti, anche quella che storicamente aderisce a una visione rigida nell’interpretazione delle competenze dell’organo. Col risultato, sebbene tutto teorico e contingente, di finire potenzialmente in minoranza con 19 togati su 33 membri a prendere posizione in modo critico nei suoi confronti. Curiosa eterogenesi dei fini, visto che l’intento di Pinelli sembrava proprio quello di tendere un ramo d’ulivo alla maggioranza, dicendo che “le leggi le fa la politica” e che il Csm doveva ritornare nel suo “perimetro”. Invece, il risultato è stato aprire un nuovo fronte di imbarazzo per la maggioranza che lo ha scelto. Meloni si sarebbe volentieri risparmiata questo ennesimo grattacapo in un settore che non le è mai stato congegnale. Nei lunghi anni di opposizione, infatti, era stata lei a chiedere le dimissioni dell’allora ministra del governo Renzi Josefa Idem per una vicenda di Ici non pagata, come “atto di responsabilità” e lo stesso aveva fatto anche con la ministra dello Sviluppo economico Federica Guidi, in quel caso per una inchiesta che riguardava il marito, parlando di “conflitto di interessi”. Ora al governo, in Meloni ha preso il posto il garantismo nei confronti dei suoi, da Andrea Delmastro a Daniela Santanchè fino a Vittorio Sgarbi, e probabilmente quell’accusa di conflitto di interessi nei confronti di Guidi risuona ancora, pensando al caso delle indagini nei confronti di alcuni membri della famiglia Verdini, di cui fa parte la fidanzata dell’alleato Matteo Salvini. Anche il Capitano, che fino a qualche anno fa suonava campanelli alla ricerca di presunti spacciatori e invocava pene esemplari gettando la chiave facendosi bastare i titoli di giornale, ora evoca riforme della giustizia nella direzione di tutelare gli indagati parlando di “fango mediatico-giudiziario”. Eppure, in più di un anno di governo, le riforme sulla giustizia hanno seguito un iter lento e accidentato: il primo vero provvedimento del ministro Carlo Nordio, approvato in consiglio dei ministri a giugno 2023, ha solo ora terminato il suo iter in commissione Giustizia al Senato. Del resto proprio Nordio, lui sì voce storica del garantismo e del liberalismo, è stato artefice di più di qualche imbarazzo per Meloni con le sue nette prese di posizione contro i pm e l’uso troppo pervasivo delle intercettazioni. Considerazioni perfettamente in linea con le posizioni di Forza Italia, più difficili invece da digerire per l’elettorato storico di Fratelli d’Italia. Secondo fonti vicine alla premier, a palazzo Chigi il timore che nelle procure si stia muovendo qualcosa che potrebbe investire la cerchia ristretta della premier sarebbe forte. Del resto, un sentimento simile era stato evocato anche dal ministro Guido Crosetto con la frase sul fatto che “l’unico pericolo per il governo è l’opposizione giudiziaria”. In questo quadro, Fratelli d’Italia si è mossa in Vigilanza Rai per chiedere conto di quello che hanno definito il “metodo Report”, che in due inchieste hanno sollevato ombre sui padri del presidente del Senato, Ignazio La Russa e della stessa Meloni. Nel caso della premier, l’inchiesta aveva tra le fonti anche la ricostruzione di un pentito giudicato inattendibile dai magistrati ma il conduttore Sigfrido Ranucci ha confermato che “le fonti sono attendibili”. Tutto questo alimenta la sindrome da accerchiamento di Meloni, che continua a volare nei sondaggi e non ha competitor nè in casa nè nell’opposizione ma si sente vittima del sistema e non della qualità della classe dirigente di cui ha deciso di fidarsi. Mattarella furioso per l’ennesimo caso Csm di Ermes Antonucci Il Foglio, 20 gennaio 2024 Il capo dello stato non ha gradito le parole del vicepresidente del Csm Fabio Pinelli, che ha accusato la precedente consiliatura di aver “deragliato dalla sua funzione costituzionale”, né la reazione dei togati di area centrosinistra. Un Sergio Mattarella furioso ha reagito all’ennesimo caso Csm, scatenato dalle dichiarazioni del vicepresidente dell’organo, Fabio Pinelli. Lo rivelano diverse fonti vicine al Quirinale ascoltate dal Foglio. Il capo dello stato non ha affatto gradito lo scarso equilibrio mostrato da Pinelli, che durante una (insolita) conferenza stampa convocata giovedì per fare il punto sui risultati dell’attuale consiliatura, ha giudicato l’operato del precedente Consiglio superiore della magistratura sostenendo che questo avesse “deragliato dalla sua funzione costituzionale”, che è quella di “alta amministrazione” dell’organizzazione giudiziaria e non di “impropria attività di natura politica”, quasi fosse “una terza Camera”. Parole che inevitabilmente chiamavano in causa il ruolo rivestito dallo stesso Mattarella, che del Csm - di questo attuale, come di quello precedente - è presidente. Possibile che l’organo di governo autonomo delle toghe abbia “deragliato” dalla Costituzione, invadendo il campo della politica, con l’avallo del capo dello stato? L’ovvia obiezione ha mandato in tilt Pinelli, che, sollecitato dai giornalisti, ha escluso che Mattarella possa aver “consentito o autorizzato una funzione dell’organo che fosse diversa da quella che la Costituzione gli ha assegnato”, evidenziando però che sarebbe ipocrita non ricordare che “al Csm è accaduto qualcosa, è stata la prima volta nella storia che si è trovato davanti alle dimissioni di cinque consiglieri, e si discuteva del fatto che dovesse essere sciolto”. Il riferimento è chiaramente allo scandalo Palamara. “Credo che sia compito del Csm delimitare l’ambito dei propri pareri alla sua funzione”, ha inoltre aggiunto Pinelli. Risposte non proprio esplicative delle gravi accuse lanciate nei confronti del precedente Csm. Ma l’irritazione di Mattarella si sarebbe estesa anche nei confronti della maggioranza dei consiglieri togati, appartenenti alle correnti di centrosinistra (Unicost, Area, Magistratura democratica), che dopo le affermazioni di Pinelli hanno immediatamente vergato un comunicato stampa per prenderne le distanze: “Non sappiamo su quali basi fattuali e giuridiche il vicepresidente fondi le sue discutibili affermazioni. E’ certo che noi non le condividiamo minimamente, né in relazione alla lettura del ruolo costituzionale del Csm che esse sottendono, né in relazione al giudizio sull’operato dello scorso Consiglio, che ha dovuto affrontare gravi e delicate vicende mantenendosi sempre nei limiti delle proprie prerogative”. Un atto, nella prospettiva di Mattarella, che non ha fatto altro che gettare altra benzina sul fuoco di una polemica che già stava investendo il Csm, organo che non gode proprio di altissima fiducia agli occhi dei cittadini. Nel frattempo, infatti, una parte del mondo politico era già insorta contro le parole di Pinelli, in particolare il Partito democratico. Il fastidio del presidente della Repubblica alla fine ha spinto Pinelli a firmare in serata una nota stampa di “precisazione” che, in realtà, è consistita in una ritrattazione di tutto ciò che era stato affermato in conferenza stampa. C’è da dire che la giornata non era iniziata molto bene per il vicepresidente del Csm. La conferenza stampa non avrebbe dovuto essere un one man show, ma prevedeva la partecipazione dei presidenti delle varie commissioni del Csm, che avrebbero dovuto illustrare in dettaglio i risultati raggiunti nell’ultimo anno. Nessun consigliere, tuttavia, si è presentato all’evento. Pinelli ha giustificato la sua solitudine con la concomitanza dei lavori delle commissioni, ma fonti interne al Csm parlano di una contrarietà dei consiglieri a esporsi a domande dei giornalisti alle quali poi non avrebbero potuto rispondere per giuste ragioni di opportunità (riforma della prescrizione, abuso d’ufficio, intercettazioni ecc.). Domande poi in effetti rivolte a Pinelli, costretto a fuggire da ogni presa di posizione. Che il Csm negli ultimi decenni abbia ampliato i propri poteri, andando al di là dell’impianto previsto dalla Costituzione, è un dato storico. E questo vale soprattutto se si guarda all’attivismo esercitato dall’organo sul piano politico. Le parole di Pinelli hanno dunque un fondo di verità, ma non è immaginabile che a pronunciarle sia lui, il vicepresidente dell’organo: in questo modo qualsiasi riflessione finisce per chiamare in causa il ruolo del capo dello stato, così creando tensioni a livello istituzionale. In questo senso, Pinelli sembra ancora scontare nelle proprie esternazioni la sua provenienza dal mondo forense e universitario. Resta da capire ora quali saranno le ripercussioni delle tensioni emerse fra il Quirinale e il vicepresidente del Csm. Il bavaglio alle Procure, solito favore ai più forti di Gian Carlo Caselli Il Fatto Quotidiano, 20 gennaio 2024 La giustizia è materia delicata e complessa. Il metodo per governarla dovrebbe essere la ragionevolezza, non il paradosso. E invece… Primo paradosso: il sottosegretario alla giustizia Delmastro annuncia in Parlamento ispezioni in 13 Procure, per verificare se siano state compiute violazioni della normativa che consente conferenze stampa solo in caso di rilevante interesse pubblico. In altre parole se i magistrati abbiano parlato anche quando avrebbero dovuto tacere: che guarda caso è proprio il succo di quel che la magistratura di Roma contesta a Delmastro per le notizie che questi ha passato (e non avrebbe dovuto) all’amico parlamentare Donzelli. Secondo paradosso: il processo è liberamente interpretato sugli organi di informazione dalla parte privata, il che dovrebbe consentire, per il naturale riequilibrio delle parti, una lettura speculare ad opera della parte pubblica, anche per precisazioni e chiarimenti a protezione dei soggetti coinvolti. Tanto più che i problemi sorgono soprattutto nel caso del difensore che abbia un committente “forte”, che tiene a veder soddisfatti i suoi interessi oltre che riconosciuti i suoi diritti; per cui richiede al difensore anche aiuto perché non sia danneggiata la sua immagine presso l’opinione pubblica. E se questa è la realtà quotidiana, pretendere di ingessare anche con le ispezioni il rapporto dei magistrati con la stampa si risolve in un favore ai potenti a scapito dei cittadini qualunque: una giustizia asimmetrica. La gogna social e il valore del segreto istruttorio di Francesco Verri Il Dubbio, 20 gennaio 2024 L’interesse e la discussione sulla “gogna” alla quale i media e i social espongono e sottopongono chi sbaglia (o è solo accusato di aver sbagliato) sono al loro apice. Mai se n’è parlato tanto o per lo meno in modo così diffuso, anche al di fuori - cioè - della cerchia degli addetti ai lavori. Hanno certamente influito alcune clamorose vicende. Soprattutto quella di Chiara Ferragni, accusata di avere consapevolmente ingannato il pubblico sulla destinazione in beneficenza di una parte del ricavato di un pandoro; e ora quella di Giovanna Pedretti, la ristoratrice che si è tolta la vita probabilmente perché non è riuscita a sopportare le critiche e gli insulti basati sul sospetto che avesse inventato una recensione sfavorevole sulla presenza nel suo ristorante di gay e disabili allo scopo di reagire contro il falso avventore e procurarsi, così, una pubblicità a buon mercato (è stato definito “marketing dei sentimenti”). Il “grande pubblico” e la stampa in queste ore si interrogano con una certa (inedita) insistenza sul fenomeno e sulle sue pericolose implicazioni, che le vittime conoscono bene. Le vittime sopravvissute, intendo. Perché fra le persone cadute sotto una “ shitstorm” - come le chiamano - non c’è solo Giovanna Pedretti. Il “Corriere della Sera” ha ricordato il suicidio dell’imprenditore agrigentino Alberto Re che a novembre si è tolto la vita dopo che alla serata inaugurale del festival che aveva organizzato il teatro era rimasto vuoto e questo aveva provocato una valanga di sfottò e di insulti sui social. Ma mi viene in mente anche la vicenda del vigile urbano che, a Bergamo, aveva parcheggiato l’autovettura in uno stallo per disabili e, quando la fotografia della violazione ha cominciato a circolare scatenando il solito fuoco di fila, non ha retto. E come non rievocare, andando un po’ più indietro nel tempo, gli indagati di Tangentopoli suicidi anch’essi perché travolti dall’ondata d’odio scatenata da una “inchiesta spettacolo” svolta senza il minimo rispetto del segreto istruttorio e utilizzando il “tintinnio delle manette” come spauracchio per indurre confessioni e “pentimenti”. Chi respinge l’accusa di ispirare e celebrare processi mediatici (Selvaggia Lucarelli e il compagno) non dice una sciocchezza quando rivendica il diritto di critica. In effetti, se risultasse vero che la recensione pubblicata dalla ristoratrice è una fake news, dovremmo dire che è legittimo smascherarla. Quello che però si trascura è che le opinioni devono essere espresse con misura e moderazione. E, se si tratta di reati ancora da accertare, non si possono anticipare i giudizi. Altro è disapprovare un comportamento o segnalare un errore e persino riferire di un’ipotesi di reato (a tempo debito); altro è offendere e invitare - direttamente o meno, intenzionalmente o meno - il popolo del web all’odio verso il bersaglio di turno. Un sentimento da consumare in fretta perché la notizia brucia, i social fremono e non c’è tempo di approfondire, verificare, garantire i diritti. Vittorio Manes, nel suo prezioso “Giustizia mediatica”, ha scritto: “Di fronte alla distanza temporale tra il processo anticipato in modo fast and frugal dai media e il processo reale, e al cospetto dell’eventuale esito divergente a cui i due “sistemi di verifica” possono condurre, è quasi scontata la tentazione di ritenere il secondo un’accozzaglia di orpelli formali, di lungaggini e cavilli da rimuovere per migliorarne le prestazioni in termini efficientistici, o persino di ritenere il primo strumento più efficace e tempestivo della giustizia istituzionale”. Ora la riflessione è uscita dai saggi, dalle aule delle Università, da quelle dei Tribunali e dai convegni fra avvocati. Un suicidio clamoroso ha messo il tema all’ordine del giorno. Pochi giorni prima, Chiara Ferragni, idolo del web, era diventata Belzebù in un attimo. Colpita da una sanzione. Ma anche da una fuga di notizie su un procedimento penale che avrebbe dovuto restare riservato e di cui invece sappiamo tutto. E che si è concluso male - prima di cominciare. Come è finita in tragedia l’indagine su Lee Sunkyun, l’attore protagonista del film Parasite, interrogato per diciannove ore in relazione a fatti di droga mentre i media, che lo avevano “accompagnato” davanti alla polizia, raccontavano tutto per filo e per segno. Lee si è suicidato alla vigilia di Natale. E ora il regista della pellicola, Bong Joon- ho, accusa gli inquirenti di aver passato le notizie alla stampa e chiede un’inchiesta sulla morte. Ancora Manes ha spiegato, a proposito delle fughe di notizie, che esse provocano una “ustionante e spesso irrimediabile esperienza di degradazione individuale dei soggetti coinvolti perpetrata e subita in un autentico “regime di sospensione” delle prerogative fondamentali che dovrebbero essere garantite dallo Stato”. Serviranno a qualcosa questi ennesimi sacrifici? Si potrebbe cominciare da qui, in fondo. Dal recupero, a qualunque latitudine, del valore del segreto delle indagini preliminari, funzionale a proteggerne il corso ma soprattutto a tutelare i presunti innocenti coinvolti. *Avvocato penalista Non si combattono le idee con il carcere di Salvatore Curreri L’Unità, 20 gennaio 2024 La Suprema corte riafferma la matrice liberale della nostra Carta e della democrazia, che a differenza del regime fascista consente libertà di opinione. Nessuna sorpresa. Come avevo qui previsto, la Cassazione - chiamata a sezioni unite per decidere in via definitiva sulla questione interpretativa - ha stabilito che il cosiddetto saluto romano è reato di pericolo concreto e non astratto. Il che significa, tanto per essere chiari, che esso non va perseguito in sé e per sé, sempre e comunque, ma solo quando, in base al luogo e al tempo in cui viene compiuto, sia considerato idoneo alla riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista, vietata dalla XII disposizione finale della Costituzione (art. 5 legge Scelba del 1952) oppure di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che perseguono l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi (art. 2 legge Mancino del 1993). Si tratta, dunque, di due ipotesi di reato distinte, che possono concorrere tra di loro (per cui si può essere accusati e condannati per entrambe), ma accomunate dal fatto che debba trattarsi di comportamenti, in base alle concrete circostanze del caso, effettivamente idonei allo scopo perseguito, a dimostrazione di come ogni ipotesi di reato prevista per legge debba poi essere interpretata e applicata in base al contesto (da qui il rinvio al giudice di merito). Nessuna sorpresa perché la sentenza della Cassazione s’inserisce in un orientamento giurisprudenziale ampiamente consolidato, addirittura risalente alle primissime sentenze della Corte costituzionale proprio sulla legge Scelba, quando chiarì che “l’apologia del fascismo, per assumere carattere di reato, deve consistere non in una difesa elogiativa, ma in una esaltazione tale da potere condurre alla riorganizzazione del partito fascista” (sentenza n. 1/1957). Deve trattarsi, dunque, di manifestazioni che, per il momento e l’ambiente in cui vengono compiute, sono tali da poter essere considerate idonee “a provocare adesioni e consensi e a concorrere alla diffusione di concezioni favorevoli alla ricostituzione di organizzazioni fasciste” (sentenza n. 74/1958). Pertanto, non è vietata l’apologia in sé e per sé, quale professione di idee fasciste oppure la loro mera commemorazione, ma la loro esaltazione solo se in grado di tradursi in “istigazione indiretta a commettere un fatto rivolto alla detta riorganizzazione e a tal fine idoneo ed efficiente” (C. cost. 1/1957), con gli stessi metodi e gli stessi scopi del fascismo”. Tale giurisprudenza ha avuto modo di esprimersi anche sui reati di opinione, eredità del codice fascista e oggi per lo più dichiarati incostituzionali in assenza di quello che la Corte suprema Usa ha definito “clear and present danger”, cioè di un “pericolo chiaro ed imminente” per l’ordine pubblico inteso in senso materiale. Una giurisprudenza, dunque, che si radica profondamente nella matrice certo antifascista, ma proprio per questo anche liberale e democratica della nostra Costituzione per la quale le idee, finché rimangono tali e non incitano all’azione, si combattono con le idee, e non con il carcere. Chi impugna la Costituzione come una clava da brandire, talora con una certa ossessione, sempre e comunque contro i nemici della democrazia dimostra di non aver ancora pienamente inteso il suo disegno inclusivo, rivelatosi storicamente alla lunga vincente (si pensi, ad esempio, al fatto che sempre la XII disposizione finale ha interdetto dal diritto di voto attivo e passivo i capi responsabili del regime fascista non per sempre ma per appena cinque anni). La nostra non è una democrazia protetta, che vie-ta l’esercizio dei diritti fondamentali contro i principi e valori costituzionali. Ma nemmeno è una democrazia imbelle, che riconosce ai suoi nemici i mezzi per poterla impunemente distruggere, permettendo loro di esercitare quelle libertà che essi pretendono in nome dei nostri principi per negarle in nome dei loro. Come disse Popper, la tolleranza illimitata verso gli intolleranti alla fine porta alla di-struzione dei tolleranti e alla scomparsa della tolleranza. Per questo il punto di equilibrio individuato dalla nostra Costituzione sta nel modo in cui i diritti vengono esercitati, non nella loro finalità. Se la si legge attentamente, ci si può rendere conto di come sia molto più liberale ed aperta di come la si intenda e la si pratichi. Così: le riunioni sono vietate non per quel che si discute ma perché non ci si riunisce in “modo pacifico e senz’armi”; le associazioni sono vietate non per i fini perseguiti, tranne che lo siano già al singolo dalla legge penale, ma se agiscono in modo segreto o hanno una organizzazione di carattere militare; la libertà d’espressione è limitata solo se vi è il reale e concreto pericolo che le parole si trasformino in “pietre”, cioè in comportamenti violenti; i partiti devono agire non per un fine ma con “metodo democratico” (per questo non sono stati mai messi fuori legge il partito monarchico o la Lega Nord quando mirava all’indipendenza della Padania); non vi sono limiti ideologico-politici alla libertà di organizzazione sindacale; né per motivi politici si può perdere il diritto d’elettorato attivo o passivo. Infine, il dovere di fedeltà alla Repubblica e alla Costituzione non impone un fine all’esercizio dei diritti fondamentali. Non va mai abbassato il livello di attenzione verso gli attuali rigurgiti fascisti, benché limitati a frange assolutamente minoritarie e marginali della nostra società. Ed anzi va evitato che, come scriveva Ovidio, “la cura venga somministrata tardi, quando i mali, per eccessivi indugi, hanno acquistato vigore”. Ma un conto è la repressione penale dello squadrismo fascista, come pur accaduto ed anzi non ancora adeguatamente sanzionato, altro è la persecuzione di per sé dell’ideologia fascista anche quando priva di carica istigatrice. La nostra democrazia ha già dimostrato di essere in grado di sconfiggere i suoi nemici perché si è rivelata rispetto a loro eticamente superiore, utilizzando una mano per ricorrere a tutti gli strumenti a sua disposizione ma tenendo l’altra “legata dietro la schiena”, senza cioè mai tradire sé stessa e i valori di libertà e legalità su sui si fonda. Il carcerato è un lavoratore privato e i suoi crediti non si prescrivono di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 20 gennaio 2024 La condizione di soggezione in cui si trova il detenuto, rispetto al suo datore di lavoro, impedisce il decorso della prescrizione. La condizione di soggezione nella quale il lavoratore carcerato si trova rispetto al suo datore di lavoro, impedisce il decorso della prescrizione per i crediti che vanta nei confronti del ministero della Giustizia. Né via Arenula può costituirsi nel giudizio contro di lui, avvalendosi di un suo funzionario, come può fare quando la causa riguarda dei pubblici dipendenti, perché il rapporto che si instaura con il detenuto-lavoratore è di tipo privato. La Corte di cassazione, respinge così il ricorso del ministero, contro la sentenza della Corte d’Appello che lo aveva condannato a pagare circa 5.200 euro, come differenze retributive dovute ad un carcerato che, all’interno dell’istituto di pena, aveva svolto molti ruoli, dallo scopino allo spesino, dall’aiuto cuciniere all’addetto alle pulizie. Attività per le quali non era stato adeguatamente retribuito. L’amministrazione ricorrente, che si era costituita in giudizio con un suo funzionario, non negava di essere inadempiente ma sosteneva che il diritto del detenuto-lavoratore era prescritto perché erano passati più di cinque anni dalla domanda, senza che lui avesse fatto alcun atto per interrompere il countdown. Il ministero contestava anche la decisione della Corte territoriale di considerare irrituale la sua costituzione in giudizio attraverso un funzionario, senza essere difesa da un avvocato. Una possibilità che via Arenula rivendicava, perché nelle cause di lavoro con i pubblici dipendenti è possibile per l’amministrazione essere rappresentata dai funzionari, senza difesa tecnica. Carcere come struttura aziendale - Per la Suprema corte entrambi i motivi sono infondati. I crediti del lavoratore che si trova ristretto in carcere, infatti, non si prescrivono nei 5 anni, proprio in considerazione della condizione di privazione della libertà e di soggezione in cui si trova rispetto al suo datore. La Cassazione esclude anche la possibilità di considerare il detenuto al pari di un pubblico dipendente, e dunque la validità della presenza nella causa con un funzionario. Bari. Il Gup: “Il detenuto malato psichico fu torturato con crudeltà” di Eleonora Martini Il Manifesto, 20 gennaio 2024 Le motivazioni della condanna, in rito abbreviato, di uno degli agenti penitenziari. Altri 11 imputati, anche medici e infermieri. Il 24 gennaio prossima udienza del processo ordinario per gli altri accusati. In tanti si accanirono “con crudeltà”, quella notte del 27 aprile 2022, sul detenuto 41enne affetto da gravi problemi psichiatrici - “inerme e disteso sul pavimento alla mercé degli agenti” -, che poco prima aveva dato fuoco al materasso della propria cella, nel carcere di Bari. I picchiatori portavano la divisa dei tutori dell’ordine di Stato. Altri assistettero al pestaggio senza alcuna reazione. Altri ancora coprirono il crimine. Fu una “violenza realizzata a più riprese, in modo corale, da un numero cospicuo di agenti in danno di un detenuto oggettivamente reso più fragile dalla situazione di pericolo appena vissuta, pur se da lui stesso provocata”. A sostenerlo è la Gup di Bari, Rossana De Cristofaro, che ha redatto le motivazioni della sentenza di condanna emessa per uno degli agenti. L’ex sovrintendente della polizia penitenziaria barese è stato infatti già condannato in primo grado, nel luglio 2023 e con rito abbreviato, a tre anni e sei mesi di reclusione per tortura, rifiuto d’atti d’ufficio e falso ideologico. Anche il medico dell’infermeria Gianluca Palumbo è stato ritenuto colpevole di omessa denuncia, con un anno e due mesi di reclusione (pena sospesa). Altri 11 imputati, tra medici, infermieri e agenti, sono a processo in questi giorni con rito ordinario per lo stesso fatto, con accuse che vanno dalla tortura (per cinque poliziotti, tra i quali l’ex assistente capo della polizia penitenziaria di Bari, Raffaele Finestrone), falso in atto pubblico e rifiuto di atti d’ufficio, violenza privata e abuso d’ufficio, fino alla omessa denuncia. Il procuratore aggiunto Maralfa e la sostituta Spagnuolo il 10 gennaio scorso hanno chiesto condanne dagli otto anni di reclusione, per le ipotesi di reato più gravi, fino a una sanzione pecuniaria di 60 euro per due infermieri che avrebbero assistito al pestaggio senza denunciare. Ieri, dopo la discussione delle difese, il collegio presieduto dal giudice Antonio Diella ha aggiornato il processo al 24 gennaio. “L’agire dell’imputato, e degli altri concorrenti nel medesimo reato - scrive la giudice De Cristofaro nelle motivazioni -, sarebbe comunque connotato da crudeltà, poiché dalla visione del video (registrato dalle telecamere interne, ndr) emerge chiaramente come si sia trattato di contegni eccedenti la normalità causale, in quanto inflitte in danno di detenuto psichiatrico, in quegli specifici momenti apparso completamente inerme e disteso sul pavimento alla mercé degli agenti, senza alcuna reazione, venendo dunque ad essere connotate da sofferenze aggiuntive ingiustificate”. Il 41enne “si trovava in stato di privazione della libertà personale e comunque in condizione di minorata difesa” e, si legge nella sentenza, “al momento della condotta aggressiva giacente in terra, da solo, al cospetto di un numero cospicuo di agenti”, “di fatto innocuo”. Per la gup “le gravi violenze esercitate sulla vittima hanno comportato acute sofferenze fisiche e ragionevolmente anche un verificabile trauma psichico”. Secondo l’accusa, le violenze sarebbero iniziate lungo il percorso dalla cella all’infermeria e il detenuto, una volta a terra, sarebbe stato colpito con calci e schiaffi “sottoponendolo per circa 4 minuti a un trattamento inumano e degradante”. Uno degli agenti lo avrebbe tenuto bloccato mettendosi di peso sui suoi piedi. La tesi della difesa però è che si tratti di un eccesso dell’uso della forza ma non di tortura: “Quanto successo quella sera non si doveva verificare - ha sostenuto l’avvocato Guglielmo Starace, difensore di quattro imputati - Le violenze ci sono state, ma quel terribile episodio è un’aggressione, un pestaggio, ma non una tortura”. Una posizione immediatamente fatta propria dal sindacato di polizia penitenziaria Sappe che declassa il pestaggio del detenuto malato come “un’azione deprecabile avvenuta in una situazione di estremo pericolo e di stress”. Un altro degli agenti imputati però, Giacomo Delia, ha avuto il coraggio di chiedere scusa e di annunciare: “Sto seguendo un percorso dallo psichiatra e ho chiesto la pensione”. Milano. Il lavoro dei detenuti trasforma le barche delle persone migranti in strumenti musicali di Maria Elena Viggiano Corriere della Sera, 20 gennaio 2024 Recuperare il legno delle imbarcazioni dei migranti approdate a Lampedusa per trasformarlo in strumenti musicali grazie al lavoro dei detenuti del carcere milanese di Opera. Supportata dalla Fondazione Santo Versace, è questa l’idea alla base del progetto “Metamorfosi” della Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti. E sarà proprio con questi strumenti che i musicisti dell’Orchestra del Mare si esibiranno il prossimo 12 febbraio al Teatro alla Scala. Alla serata hanno aderito musicisti d’eccezione come i violoncellisti Mario Brunello e Giovanni Sollima, accompagnati dal violinista francese Gilles Apap e dai musicisti dell’Accademia dell’Annunciata diretti da Riccardo Doni. In programma anche la lettura di un testo inedito dello scrittore Paolo Rumiz, mentre l’artista Mimmo Paladino ha offerto come scenografia l’installazione de “I Dormienti” con un’immagine scenica che rievoca il dramma dei migranti naufragati. “L’idea è di Arnoldo Mosca Mondadori, un uomo straordinario e illuminato che non si risparmia mai, è sempre a favore degli ultimi e dei più fragili”, racconta emozionata Francesca De Stefano, vicepresidente della Fondazione Santo Versace, costituita insieme al marito Santo Versace nel 2022. “Un progetto meraviglioso di cui siamo partner. È l’economia circolare che genera amore circolare poiché favorisce il recupero dei materiali e, nello stesso tempo, aiuta le categorie svantaggiate”. Infatti i proventi del concerto contribuiranno a finanziare non solo i laboratori di liuteria del carcere di Opera ma anche quelli di Rebibbia e Monza, dove con i legni delle barche vengono realizzati anche oggetti di carattere sacro come i rosari. “Ciò significa una grande attenzione per gli esseri umani e per l’ambiente - continua De Stefano -. È dimostrato che impiegare i detenuti in un lavoro abbatte la recidiva ma, soprattutto, è un modo per ridare dignità alle persone. Hanno sbagliato, certo, ma possono ancora dare il loro contributo alla società”. Inoltre apprendere un mestiere è un modo per provare a riscattarsi anche una volta usciti dal carcere. Sottolinea De Stefano: “L’art.27 della Costituzione prevede la rieducazione del detenuto e i lavori manuali sono una possibilità concreta di reinserimento sociale e lavorativo. Grazie a mio marito ho capito l’importanza dei mestieri manuali, ormai sono sempre meno coloro che realizzano lavori artigianali, ma così si perde una fetta di mercato che va colmata”. La Fondazione Santo Versace è nata con l’obiettivo di aiutare i più fragili supportando progetti di inclusione sociale e di empowerment femminile. Racconta De Stefano: “Con mio marito stiamo insieme da 19 anni ma non siamo riusciti ad avere figli. La Fondazione nasce dal nostro amore e dal desiderio di trasmetterlo agli altri. Evidentemente c’era un progetto più grande per noi perché queste persone mi commuovono, mi insegnano la forza e la determinazione”. Ma amare gli altri non può prescindere dal prendersi cura del mondo in cui viviamo. “Non si può più ignorare l’urgenza riguardo alle tematiche ambientali, le conseguenze dei cambiamenti climatici le stiamo vivendo sulla nostra pelle. Ma sono ottimista, le nuove generazioni hanno una maggiore consapevolezza”. Eppure nei giovani stanno emergendo importanti fragilità, “c’è un grande disorientamento e ci sentiamo fortemente chiamati in causa, forse è arrivato il momento di metterci in discussione e di interrogarci su quale può essere il nostro apporto reale volto a colmare le fragilità figlie di questi tempi e di questa società”. Milano. Cpr, il Garante comunale dei detenuti non si occupa dei migranti di Giansandro Merli Il Manifesto, 20 gennaio 2024 In una mail scrive: “Non disponiamo di unità operative”. La struttura di trattenimento è stata commissariata per le gravi e continue violazioni dei diritti dei trattenuti. I cittadini migranti trattenuti nel Centro di permanenza per i rimpatri (Cpr) di via Corelli, nel capoluogo lombardo, non possono contare sulla figura del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale nominata dal Comune di Milano. Lo ha comunicato lo stesso Francesco Maisto in una mail di risposta alla rete Mai più lager-No ai Cpr. Gli attivisti chiedevano un intervento a favore di una persona reclusa che a causa di un problema al ginocchio ha grosse difficoltà a utilizzare un servizio basilare come quello dei bagni. Nella struttura, infatti, sono solo alla turca. Già in passato il garante aveva fatto sapere di non riuscire a seguire quello che accade all’interno del centro, stavolta però è arrivata una comunicazione formale. Particolarmente rilevante visto il momento: nelle ultime settimane le gravi e continue violazioni dei diritti delle persone trattenute sono state certificate da un’inchiesta della procura meneghina. Le accuse contro l’ente gestore, la Martinina Srl, sono risultate così pesanti da portare al sequestro e al commissariamento di via Corelli. Il Gip, infatti, ha confermato i risultati delle indagini dei pm che parlano di condizioni di vita disumane, utilizzo distorto dei fondi e carenza o assenza di servizi basilari (dall’assistenza sanitaria alla qualità del cibo). “Non disponiamo di unità operative da dedicare al Cpr”, si legge nella mail inviata da Maisto. Il Garante, interpellato dal manifesto, sottolinea come non si tratti di una scelta ma di una condizione oggettiva. “Mi meraviglio del fatto che questa richiesta venga rivolta soltanto al Garante comunale”, afferma. In realtà la richiesta era rivolta anche all’ufficio nazionale. “Da quando ha aperto il Cpr abbiamo l’abitudine di segnalare i casi più critici, in termini di maltrattamenti o problemi sanitari, al garante nazionale. Siccome esiste anche quello di nomina comunale informiamo anche lui affinché ci sia la maggiore consapevolezza possibile su ciò che accade all’interno e che denunciamo da tempo”, afferma Teresa Florio, della rete Mai più Cpr. Nei tre anni e mezzo trascorsi dalla riapertura del centro di detenzione amministrativa, a settembre 2020, sono state centinaia le segnalazioni degli attivisti che, tra le altre cose, hanno contribuito all’inchiesta della procura. “Il garante milanese ci ha sempre detto che non può occuparsi anche di via Corelli perché sta dietro alle carceri. Non abbiamo motivo di credere che non sia così ma con il senno di poi, vedendo tutto ciò che è emerso, risulta evidente l’inerzia delle autorità comunali”, continua Florio. Il 4 dicembre scorso, due giorni dopo le perquisizioni disposte dai pm, il consiglio comunale meneghino ha approvato un ordine del giorno del Pd per la chiusura del centro. Dopo l’esplosione del caso il sindaco di centrosinistra Beppe Sala ha dichiarato di aver chiesto a questore e prefetto di occuparsi della malagestione della struttura. Da allora è passato oltre un mese. Almeno sul fronte del garante da lui nominato le cose non sono cambiate. Chi ha visitato la struttura prima del commissariamento racconta di una lista appesa al muro con i nomi di tutti i Cpr presenti sul territorio nazionale. Accanto a ognuno di loro era presente la casella con il riferimento del relativo garante comunale cui rivolgersi. Quella vicino a via Corelli era vuota e, nonostante i recenti sviluppi, lo rimarrà ancora. Sondrio. “Basta promesse. Il Comune risolva i problemi della Garante dei detenuti” sondriotoday.it, 20 gennaio 2024 La denuncia della consigliera comunale Donatella Di Zinno (Sondrio Democratica): “Problema annoso mai risolto. Si abbia il coraggio di ammettere le proprie mancanze”. A proposito del carcere di Sondrio e delle continue ed oggettive difficoltà riscontrate dal garante dei diritti delle persone private nelle libertà personali è necessario fare chiarezza al più presto. Ne è convinta la consigliera comunale di Sondrio Democratica, Donatella Di Zinno, preoccupata da quanto dichiarato a SondrioToday da Orit Liss. “Quanto denunciato purtroppo non è nuovo. Già l’anno scorso, sia nella Commissione comunale competente sia in Consiglio comunale, avevamo affrontato questo tema. Allora il nostro gruppo consiliare era riuscito a convincere l’allora assessore ai Servizi Sociali della necessita di un tavolo istituzionale che facesse il punto della situazione e provasse a risolvere gli annosi problemi”, racconta Di Zinno. Oggi, a distanza di un anno, nonostante la nomina come nuovo assessore di Maurizio Piasini, anch’egli leghista come il suo predecessore, la situazione non sembra esser cambiata. “Nonostante le promesse ed il cambio di gestione nulla è cambiato. Questo è un dato di fatto che ci preoccupa molto. È inutile istituire un ruolo così delicato e poi non mettere le persone incaricate nelle condizioni di poter lavorare”, sottolinea con amarezza la vice capogruppo di Sondrio Democratica. È tempo di decidere per la rappresentante della minoranza eletta a palazzo Pretorio. “Occorre che si faccia una scelta politica, serenamente. Se non si intende sostenere la figura del garante si abbia almeno il coraggio di ‘tagliare’ questa figura. Se l’Amministrazione non intende porre rimedio ai problemi almeno si faccia carico di questa decisione fondamentale”, conclude Donatella Di Zinno. Oristano. “Cpr Macomer e immigrati, detenuti in attesa di reato” di Giulia Mascia sardegnareporter.it, 20 gennaio 2024 “Detenuti in attesa di reato” è il titolo provocatorio dell’incontro dibattito in programma martedì 23 gennaio alle 18.00 nell’ambito degli appuntamenti de “Il Martedì di SDR”. Ospiti dell’iniziativa, nella saletta di via Machiavelli 120/A, saranno Rosaria Manconi, avvocata componente della Camera Penale di Oristano e Francesca Mazzuzi, referente per la Sardegna di “LascaiteCIEntrare”. Promosso dall’associazione culturale “Socialismo Diritti Riforme ODV”, presieduta da Paola Melis, l’appuntamento fa parte del progetto teso a rafforzare le competenze di chi svolge attività di volontariato e favorire la creazione di una rete di collaborazione tra associazioni. L’intento dell’iniziativa è anche quello di offrire occasioni per riflettere sul funzionamento delle Istituzioni e sui diritti delle persone. L’iniziativa intende conoscere la realtà del Centro di Permanenza per i Rimpatri di Macomer, attualmente, in fase di ampliamento, e le norme che sottendono alla vita delle persone ristrette. “Inaugurato 4 anni fa, nello stesso stabile utilizzato fino al 2014 come Casa Circondariale, il CPR di Macomer - sottolinea Paola Melis - è una realtà, ubicata nella zona industriale di Bonu Trau, poco nota ai cittadini nei suoi aspetti di vivibilità e rispetto delle norme. Il dibattito intende approfondire questa conoscenza cercando di riflettere e proporre eventuali alternative per l’accoglienza e la gestione dell’immigrazione”. “L’incontro di martedì - osserva Maria Grazia Caligaris, socia fondatrice di SDR e coordinatrice dell’iniziativa - continua il programma degli appuntamenti dell’associazione finalizzato alla informazione sulle problematiche sociali e culturali della nostra regione. La realtà dei CPR offre un’occasione in più per conoscere il sistema di accoglienza che riteniamo debba offrire garanzie a chi si trova nella condizione di immigrato”. Articolato in appuntamenti quindicinali, nell’intero arco dell’anno, “Il Martedì di SDR” farà un’eccezione il 30 gennaio per presentare il libro del prof. Andrea Pubusa “Nel segno di Lussu”. Il 20 febbraio invece faro puntato su “Minori non accompagnati tra speranze e incertezze”. Napoli. Carcere di Secondigliano, i giovani detenuti si raccontano in un corto animato rainews.it, 20 gennaio 2024 Percorsi di illustrazione e animazione nella casa circondariale: ciascuno delle persone coinvolte ha raccontato un pezzo di sé. Un pezzo di sé e del proprio vissuto per ognuno dei detenuti. Trasferito, dando libero sfogo all’estro e alla creatività, in un frammento di racconto, un disegno in gesso su una lavagna in ardesia. Tutti insieme danno vita a “Ofarja”, il cortometraggio che alcuni tra i detenuti della casa circondariale “Pasquale Mandato” di Secondigliano hanno realizzato nell’ambito di un progetto che la direzione ha avviato in collaborazione con Art33, il Cultural Hub di Napoli Est affidatario del progetto “LievitAzione” in qualità di vincitrice del bando “Fermenti”, iniziativa della Presidenza del Consiglio dei Ministri, gestita dal Dipartimento per le politiche giovanili e il Servizio Civile Universale. La presenza sempre maggiore di detenuti di età compresa tra i 18 e i 25 anni ha suggerito l’attivazione, a Secondigliano, di un nuovo percorso formativo. L’obiettivo di questi percorsi è stato duplice - spiega la direzione della casa circondariale - Da un lato, si è voluto fare in modo che questi ragazzi conoscessero il mondo dell’animazione anche da un punto di vista tecnico, seppur attraverso un primo e molto generale trasferimento di competenze, dall’altro si è voluto fornire loro una nuova occasione di espressione di sé e della propria creatività”. “Il percorso, perfettamente in linea con la filosofia del nostro centro audiovisivi, si è posto come uno strumento per raccontare e raccontarsi oltre ogni barriera”, sottolinea Mariarosaria Teatro, responsabile del cultural hub Art33. Il percorso si è tradotto in un modulo di disegno e street art, curato dallo street artist Fabio De Angeli e dal fonico Salvatore Cosentino, e in un modulo di illustrazione e animazione, con l’illustratore e regista Ahmed Ben Nessib e con i musicisti Antonio Raia e Sergio Naddei. “Lavorare con i detenuti è stata un’esperienza straordinaria”, racconta Ahmed Ben Nessib, disegnatore e regista di cortometraggi animati, nato a Tunisi nel 1992. “Ci siamo interrogati sulla funzione emotiva e cognitiva del faro, di cosa possa significare per una persona smarrita in mare, e abbiamo cercato nei nostri ricordi immagini e figure che, per metafora, hanno orientato i nostri viaggi. I detenuti hanno prodotto 3086 disegni, frutto di otto incontri: il prodotto finale è esclusivamente loro. E dire che il primo giorno alla parola ‘disegno’ sono rimasti pietrificati”. Grosseto. Inaugurato il murale realizzato da detenuti e studenti di Roberto Pieralli La Nazione, 20 gennaio 2024 Da ieri pomeriggio il carcere mandamentale vanta, su una grande parete, un murale frutto di un lavoro, coordinato dal grande. Da ieri pomeriggio il carcere mandamentale vanta, su una grande parete, un murale frutto di un lavoro, coordinato dal grande Maupal, e che ha visto in stretta collaborazione, detenuti e studenti,che hanno saputo realizzare questa opera carica di significati ed emozioni. Particolarmente soddisfatta di questo progetto la direttrice del Carcere Maria Cristina Morrone che, nel ringraziare Laura Romeo presidente della Operazione Cuore, che ha collaborato alla riuscita di questa magnifica opera, si è soffermata sulla collaborazione dei ragazzi, ben 12 studenti del Liceo della Scuola Pontificia Pio IX, che, insieme a 4 detenuti, si sono espressi liberamente raccogliendo un’esperienza unica di cui porteranno un grande ricordo. Da parte di Maupal, l’artista della street art, la descrizione dell’opera, con un panorama che rievoca il profumo della libertà ed è espressa attraverso una classica visione della Toscana ed al centro una strada che porta verso casa. C’è un simbolismo che si rifà al tempo sospeso. Per Laura Romeo quello appena presentato è stato uno dei progetti fra i più emozionanti ed ha detto: “I pregiudizi possono crollare ci vuole coraggio volontà e cuore.” Dietro a tutto questo lavoro , iniziato con la collaborazione fra il Carcere e la Coop THC di Roma, c’è la volontà di un inserimento socio lavorativo per i detenuti e su questo passaggio si è, a più riprese, espressa la direttrice Morrone che ha avuto parole di riconoscenza verso il volontariato ed il Terzo Settore. Nell’eseguire il murales, in tutto sono occorse 10 ore, è stato rilevato come le persone partecipanti non si sentivano giudicate ma pronte a condividere questa esperienza. Fra i presenti all’inaugurazione anche fratello Andrea Bonfanti. “La salute mentale ha bisogno di servizi accessibili 24 ore” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 gennaio 2024 C’è una situazione di grave difficoltà che coinvolge i servizi di salute mentale del nostro Paese. I finanziamenti sono scarsi, il personale è insufficiente e spesso non adeguatamente formato, mentre le politiche regionali si orientano frequentemente verso un modello di psichiatria basato sull’ospedalizzazione e sulla contenzione. Basti pensare all’ennesima tragedia, di recente al centro della cronaca, che coinvolge Giulia Lavatura, una 41enne di Ravenna. Lunedì mattina, è uscita dalla finestra all’ultimo piano del condominio, ha camminato sui ponteggi e si è poi lanciata nel vuoto insieme alla figlia di sei anni e alla cagnolina. La madre si è miracolosamente salvata, ma la piccola e il cane no. La donna soffre di un grave disturbo bipolare ed era seguita dal Centro di salute mentale, ma forse non in modo sufficiente. Aveva interrotto l’assunzione dei farmaci, il che forse ha portato al gesto estremo. Per comprendere l’inefficienza dei servizi mentali, ci viene in aiuto una lettera aperta indirizzata al ministro della Salute, ai presidenti delle Regioni, ai Direttori generali e ai Sindaci, redatta da Peppe Dell’Acqua, ex direttore del Dipartimento di salute mentale di Trieste. Questa lettera solleva questioni cruciali e mette in imbarazzo le autorità sanitarie con un appello accorato. Va ricordato che Dell’Acqua, a partire dal 1971, ha lavorato con Franco Basaglia nell’ospedale psichiatrico di Trieste, partecipando al cambiamento e alla chiusura del manicomio. La lettera, scritta a nome dell’associazione Forum Salute Mentale, sottolinea la necessità di ridefinire radicalmente il concetto di assistenza psichiatrica. Curare una persona che vive un disturbo mentale non significa solo somministrare farmaci o ricoverarla in un ospedale psichiatrico. È necessario offrire un supporto globale, che tenga conto della persona nella sua interezza, delle sue relazioni e del suo contesto sociale. I servizi di salute mentale devono essere territoriali e accessibili 24 ore su 24. In questo modo, le persone che vivono un disturbo mentale possono ricevere l’aiuto di cui hanno bisogno in tempi rapidi e senza dover ricorrere a strutture ospedaliere. I servizi di salute mentale devono essere orientati alla comunità e non devono essere luoghi di isolamento ed esclusione. Devono far parte integrante della comunità, favorendo il reinserimento sociale delle persone che hanno vissuto un disturbo mentale. La condizione di lavoro degli operatori dei servizi di salute mentale è fondamentale. Se gli operatori non sono coinvolti in una progettazione comune, se non si sentono valorizzati e sostenuti, non saranno in grado di offrire un’assistenza di qualità. Dell’Acqua denuncia la scarsa comprensione di molti amministratori sulla differenza tra salute mentale e psichiatria, critica il concetto di centri di salute mentale visti come semplici servizi ambulatoriali e evidenzia la persistente mentalità di alcuni amministratori che vedono i centri di salute mentale come luoghi di contenimento anziché di cura. Critica aspramente l’uso delle strutture private e sottolinea l’importanza di servizi aperti e accessibili 24 ore su 24. Dell’Acqua riporta esperienze positive dei servizi aperti H 24, evidenziando la loro efficacia nel gestire situazioni di crisi senza ricorrere a violenze o contenzioni. Sottolinea il successo di organizzazioni che si impegnano a essere ‘ strumenti efficaci di risposta alla crisi”. Nella lettera, rivolta principalmente al ministero della Salute, viene richiamata l’attenzione sulle esigenze di coloro che hanno vissuto esperienze di sofferenza mentale, sottolineando la necessità di programmi che promuovano la riabilitazione attraverso l’arte, la cultura e la partecipazione sociale Dell’Acqua critica la mancanza di supporto da parte delle amministrazioni, attribuendo la situazione attuale alla mancanza di una guida chiara da parte del governo centrale. Invita i ministri, i presidenti delle regioni e gli altri responsabili a riflettere sulla condizione degli operatori, che spesso perdono entusiasmo e senso di appartenenza. Sottolinea che lo scorso giugno, l’associazione Forum Salute Mentale Nazionale ha voluto riproporre, per la terza volta, il disegno di legge, “Disposizioni in materia di tutela della salute mentale volte all’attuazione e allo sviluppo dei principi di cui alla legge 13 maggio 1978, n. 180’. Il testo è stato presentato alla Camera e al Senato dagli onorevoli Debora Serracchiani e Filippo Sensi. Non si tratta dell’ennesima proposta di riforma della legge 180. Il dottor Dell’Acqua ci tiene a sottolineare che il Ddl vuole riaffermare il valore del cambiamento che comunque ha realizzato il nostro Paese e riaccendere attenzione e parole sensate a sostegno delle persone che vivono l’esperienza del disturbo mentale e indicare percorsi e modalità organizzative capaci di indicare vie d’uscita dalla dannosa confusione e miseria cui sono ridotti i servizi di salute mentale oggi. Salute mentale. Ecco cosa prevede il disegno di legge rimasto finora inevaso di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 gennaio 2024 A 45 anni dall’approvazione della “legge Basaglia”, che ha segnato un momento rivoluzionario, ci troviamo ancora di fronte a problemi persistenti, non a causa della legge stessa, ma a causa delle difficoltà nell’attuarla appieno. Come riportato in questa pagina, lo scorso giugno l’associazione Forum Salute Mentale Nazionale ha voluto riproporre, per la terza volta, il disegno di legge “Disposizioni in materia di tutela della salute mentale volte all’attuazione e allo sviluppo dei princìpi di cui alla legge 13 maggio 1978, n. 180) Il ddl depositato mesi fa alla Camera da Debora Serracchiani e al Senato da Filippo Sensi, è un tentativo di affrontare le lacune nella piena realizzazione della “legge Basaglia”. Quest’ultima, nota anche come legge n. 180 del 1978, ha segnato una svolta nella cura dei disturbi mentali in Italia. Al contrario di un semplice abbandono degli ospedali psichiatrici, ha introdotto un innovativo sistema di servizi di assistenza psichiatrica basato sul territorio. Tuttavia, nonostante l’importanza di questa legge, la sua attuazione è stata rallentata nel corso degli anni. Solo negli anni 90, con l’adozione dei progetti obiettivo per la salute mentale, si è registrato un progresso significativo, culminato nella chiusura degli ospedali psichiatrici. Recenti e rinnovate preoccupazioni sulla qualità dei servizi di salute mentale in Italia hanno portato a una riflessione sulla necessità di politiche innovative e di un rinnovato impegno per garantire la salute mentale come un diritto fondamentale. La proposta di legge vuole essere una risposta a questa esigenza. Il ddl pone l’accento su diversi aspetti cruciali. Innanzitutto, prende spunto dal rapporto della Commissione parlamentare del 2013 sull’efficacia e l’efficienza del Servizio sanitario nazionale, evidenziando la necessità di aggiornamenti continui nelle organizzazioni e nelle politiche sociali di prevenzione. Inoltre, sottolinea la necessità di interventi a sostegno delle famiglie e di programmi che affrontino le disuguaglianze regionali nella realizzazione dei servizi di salute mentale. La proposta di legge cerca di risolvere le criticità emerse nel corso degli anni, come la frammentazione dei percorsi di cura, l’uso di pratiche segreganti e contenitive e il ritorno ad approcci basati sul modello bio- farmacologico. Si propone di ridefinire radicalmente il concetto di assistenza psichiatrica, andando oltre la semplice somministrazione di farmaci o il ricovero in ospedali specializzati. Una delle iniziative chiave del ddl è la promozione di modelli di cura efficaci. Si fa riferimento a esperienze positive di “comunità terapeutiche”, in cui le persone affette da disturbi mentali vivono in una struttura comunitaria, ricevendo supporto e trattamento specializzato. Questo modello si basa sull’idea che un ambiente terapeutico positivo e il sostegno sociale siano fondamentali per il recupero delle persone con problemi di salute mentale. Altri modelli innovativi includono l’approccio “housing first”, che si concentra sulla fornitura di alloggi stabili e sicuri per le persone senza dimora affette da malattie mentali, garantendo loro un ambiente sicuro e la possibilità di accedere a cure e servizi di supporto. Inoltre, la proposta di legge sottolinea l’importanza delle nuove tecnologie nell’assistenza psichiatrica, come le applicazioni mobili per la gestione dei sintomi e le terapie online. Tali approcci potrebbero essere particolarmente utili per le persone che vivono in aree remote o che hanno difficoltà di accesso ai servizi tradizionali. In conclusione, il ddl rappresenta un passo importante verso la riforma della salute mentale in Italia. Tuttavia, la sua efficacia richiederà un impegno continuo a livello politico e finanziario, nonché una collaborazione tra vari attori del settore della salute mentale. Ma ad oggi, tutto tace. Un silenzio che proviene anche l’attuale ministro della salute del Meloni. Migranti. La campagna d’Albania di Meloni sui Cpr. Militari in missione per i primi sopralluoghi di Marika Ikonomu Il Domani, 20 gennaio 2024 Il 19 gennaio un gruppo dell’esercito è volato a Tirana per le prime verifiche nelle località prescelte per realizzare i centri per migranti. Il viaggio organizzato nonostante la Corte dell’Albania non si sia ancora pronunciata sulla legittimità dell’accordo Rama-Meloni. Il governo Meloni non arretra sui centri per migranti in Albania. Domani può, infatti, rivelare che ieri personale dell’esercito è volato a Tirana per i primi sopralluoghi nelle località individuate nell’accordo con l’esecutivo di Edi Rama. Un’accelerazione curiosa visto che la Corte costituzionale albanese, chiamata in causa dai partiti di opposizione anti Rama, non si è ancora pronunciata sulla loro legittimità. Il 18 gennaio, infatti, l’udienza è terminata con un nulla di fatto: rinviata al 24 gennaio in attesa di nuovi elementi che verranno depositati dal governo albanese. Evidentemente, nonostante lo stallo ufficiale, Meloni è certa del via libera definitivo nelle prossime settimane. Dunque meglio mettersi avanti con i sopralluoghi così da poter cominciare il prima possibile i lavori per la costruzione di due centri sul territorio albanese. Qui verranno “spediti” i migranti salvati da navi italiane in acque internazionali. La stima è di inviarne circa 3mila al mese. Intanto sul fronte italiano il disegno di legge di ratifica dell’accordo, approvato dalle commissioni parlamentari, è atteso in aula alla Camera a partire da lunedì 22 gennaio. I due sopralluoghi - Il gruppo dell’esercito volato in Albania andrà a verificare lo stato dei luoghi sui quali dovranno sorgere le nuove strutture: un hotspot verrà realizzato a Shëngjin sulla costa, nel nord del paese, la fine dei lavori è prevista in 120 giorni; un centro di accoglienza, invece, sarà operativo a Gjadër a una ventina di chilometri nell’entroterra. Dalle informazioni ottenute da Domani, le strutture volute dal governo Meloni saranno entrambe di nuova realizzazione. La loro costruzione è già stata affidata al 3° Reparto Genio dell’Aeronautica Militare di Bari. I costi per la costruzione delle strutture d’oltremare rimangono però un mistero. Tajani lo scorso dicembre ha precisato che saranno meno di 200 milioni. Un parametro utile per il confronto può essere la cifra stanziata per i nuovi cpr italiani: il governo ha messo già a disposizione una cifra totale di 150 milioni. I cpr in Italia - Oltre all’operazione albanese, è in fase di attuazione il piano per i nuovi cpr italiani, da costruire ex novo. Un primo progetto, svelato da questo giornale, prevedeva la realizzazione di strutture circolari, sul modello carcerario del Panopticon, che permette di controllare ogni singolo detenuto. Il Panopticon come simbolo di controllo e oppressione destinato a un sistema che non dovrebbe essere detentivo, perché le persone verranno trattenute non per aver commesso un reato ma per non avere un permesso di soggiorno. Ma per la detenzione amministrativa il governo di Giorgia Meloni ha progettato moduli abitativi da blindare come “celle di sicurezza”. La lista dei luoghi - Dall’elenco iniziale sono però scomparse alcune località, come Ferrara, dove il sindaco leghista Alan Fabbri si era detto disponibile ad aprire il suo territorio a un nuovo cpr. Fabbri sosteneva che la maggiore presenza di forze dell’ordine avrebbe portato più sicurezza in città, scontrandosi però con opposizioni, società civile e arcidiocesi, che ha preso posizione contro la realizzazione di un luogo di violazione dei diritti umani e di una “città carcere”. Rimane invece nella lista interna all’amministrazione Castelvolturno, dove il sindaco di Fratelli d’Italia Luigi Petrella si era detto pronto a realizzare alleanze contro il governo guidato dalla leader del suo partito. Confermato Catanzaro, in Calabria, e uno in Liguria a Diano Castello, in provincia di Imperia. Una nuova località è poi Marsala, che diventerebbe il terzo cpr siciliano, con il centro di Caltanissetta e di Trapani già funzionanti, in contrasto con quanto previsto dal governo che aveva annunciato un centro per rimpatri in ogni regione, “da realizzare in zone scarsamente popolate e facilmente sorvegliabili”. Rispetto ai progetti di fattibilità rivelati da Domani a ottobre, il numero di strutture si è ridotto a sei nuovi centri e due in ristrutturazione: Milano e Torino. Qui i lavori risultano già avviati. Nel capoluogo piemontese è all’opera il Primo reparto infrastrutture di Torino, a Milano il Primo reparto Genio dell’Aeronautica militare di Villafranca. Due strutture al centro delle cronache anche recenti. Il centro di Torino è infatti stato chiuso a marzo 2023. Teatro di suicidi, abusi e reso inagibile dalle proteste dei trattenuti contro le condizioni di vita all’interno. Il cpr di Milano invece è stato sequestrato poche settimane fa d’urgenza e commissariato dalla magistratura con l’accusa nei confronti dell’ente gestore di frode nelle pubbliche forniture e turbativa d’asta, per il cibo scadente e maleodorante, servizi sanitari, legali e di mediazione assenti. Tempi e finanziamenti - Solo per la realizzazione e la ristrutturazione di queste otto strutture il governo ha stanziato, confermano fonti qualificate, 150 milioni di euro. Si possono stimare, quindi, quasi 20 milioni di euro per ogni centro. Una cifra presumibilmente più bassa per i centri di Milano e Torino già esistenti, e più alta per la costruzione di edifici ex novo. A questi si devono aggiungere le spese di gestione. Secondo le stime del rapporto di Action Aid Trattenuti, dal 2018 al 2021, “il costo complessivo del sistema di detenzione per stranieri risulta essere di quasi 53 milioni di euro”, si legge nel rapporto. Se le ristrutturazioni sono iniziate, non si può dire lo stesso della consegna al genio militare dei moduli prefabbricati necessari per avviare le nuove strutture. Le fonti consultate da Domani a ottobre stimavano un periodo di almeno sei mesi per la produzione dei 100 moduli necessari per dare vita a un solo centro dei sei nuovi previsti. Impossibile, perciò, per il governo rispettare la tempistica di un anno, annunciata cinque mesi fa. Ci vorrà più tempo. Migranti. Amnesty contro l’intesa Roma-Tirana: “Viola i diritti umani e ha costi elevati” Il Manifesto, 20 gennaio 2024 “Amnesty International Italia è profondamente preoccupata per i potenziali impatti negativi del protocollo sull’effettiva tutela dei diritti umani e invita le istituzioni italiane ad astenersi dalla sua ratifica e attuazione”. Lo afferma in una dichiarazione l’Ong con riferimento al protocollo Roma-Tirana per la costruzione di centri di trattenimento per migranti oltre Adriatico. La discussione parlamentare del ddl di ratifica inizierà lunedì. Amnesty solleva cinque punti di criticità. Il primo è la “palese infrazione” dell’obbligo internazionale di garantire rapidamente un porto sicuro di sbarco. Il secondo è la trasformazione del trattenimento dei richiedenti asilo da eccezione ad automatismo. Il terzo riguarda la tutela di minori e soggetti vulnerabili: il governo ha promesso di non trasferirli in Albania ma secondo l’Ong “non è chiaro come e chi svolgerà la verifica delle situazioni di vulnerabilità”. Il quarto riguarda l’effettività del diritto alla difesa dei migranti che, nonostante i centri saranno sotto giurisdizione italiana, rischia di essere pregiudicato in concreto a causa della distanza fisica. Il quinto punto tocca i costi che al momento sono stimati in oltre 500 milioni di euro ma inevitabilmente lieviteranno quando le tante caselle vuote del progetto dovranno essere riempite. “L’attuazione del protocollo avrà innumerevoli conseguenze negative sui diritti umani. In particolare sul sistema di ricerca e soccorso in mare, sul diritto di asilo e sulle garanzie procedurali a difesa delle persone in condizioni di vulnerabilità, nonché sulla libertà personale delle persone richiedenti asilo e migranti”, dichiara Anneliese Baldaccini, responsabile Relazioni istituzionali di Amnesty International Italia. Intanto giovedì scorso, nell’udienza preliminare sul ricorso dei parlamentari di opposizione, la Corte costituzionale di Tirana ha chiesto al Consiglio dei ministri di presentare il trattato di amicizia con l’Italia del 1995. Ritiene necessario esaminarlo per approfondire le questioni di costituzionalità che sono state poste sul protocollo. Per quanto riguarda la richiesta dei ricorrenti di trasmettere le carte per un parere alla Corte Edu di Strasburgo i giudici albanesi hanno comunicato che si esprimeranno sul punto al termine del processo di esame. La prossima udienza è prevista per il 24 gennaio. Migranti. Acque territoriali e zona Sar: così la Libia ruba mare per impedire i soccorsi di Luca Casarini L’Unità, 20 gennaio 2024 Una finzione come lo è la zona Sar libica (suggerita da Roma ai tempi di Minniti) che solo un altro stato costiero potrebbe mettere in discussione. Il governo fantoccio di Tripoli vuole che l’International maritime organization (Imo) dichiari la sua “zona di contiguità”. Si tratta di una porzione di mare che si estende fino a 24 miglia dalla costa, sulla quale lo stato di riferimento può esercitare il controllo sulle navi che lo percorrono. Le acque territoriali, estensione in tutto e per tutto della sovranità di terra, arrivano fino a dodici miglia. Con questa mossa i libici puntano a raddoppiare la loro possibilità di coercizione sugli assetti che si trovano a navigare al largo delle loro coste. La dichiarazione di “zona di contiguità” prevede che “lo stato costiero possa esercitare il controllo necessario al fine di prevenire le violazioni delle proprie leggi e regolamenti doganali, fiscali, sanitari e di immigrazione entro il suo territorio o mare territoriale, punire le violazioni delle leggi, e regolamenti di cui sopra, commesse nel proprio territorio o mare territoriale.” E’ quanto previsto dall’art.33 della Convenzione di Montego Bay. Peccato che la Libia, o il cosiddetto governo che è stato insediato a Tripoli dall’Occidente, non l’abbia nemmeno mai sottoscritta. Si ripete dunque, la farsa della dichiarazione della “zona Sar libica”, una vera e propria finzione funzionale alle attività di cattura e deportazione dei profughi che tentano di fuggire da quel paese, e dai suoi lager, via mare. Allora furono i funzionari del Ministero degli Interni italiano retto da Marco Minniti, a suggerire alle autorità libiche di autoattribuirsi la zona Sar, che solo un altro stato costiero potrebbe mettere in discussione. Ovviamente non è mai esistita fin dalla sua istituzione, nel 1979 ad Amburgo attraverso l’omonima Convenzione internazionale, una zona Sar attribuita ad un paese che non è in grado di soddisfarne i requisiti, come il rispetto dei diritti umani e l’operatività in mare per quanto riguarda le operazioni di salvataggio dei naufraghi. Ma la Libia, non essendoci nessuno degli stati interessati a sollevare il problema, continua a servirsi di questo paravento giuridico, per tentare di giustificare l’attività di polizia di frontiera illegale, operata attraverso bande paramilitari camuffate da “guardia costiera”. Il problema però è che l’autodichiarazione di “zona Sar” - peraltro la più estesa del Mediterraneo - non prevede, a differenza della “zona di contiguità”, nessuna possibilità di intervento coercitivo su navi che solcano acque internazionali. Con il giochetto delle 24 miglia invece, gli assetti libici, che sono motovedette fornite dal governo italiano e dall’Unione europea, potranno intervenire anche sequestrando navi di soccorso intervenute per salvare la vita delle persone in mare. Se ciò avviene dentro le 24 miglia, e in nome di operazioni di contrasto alle violazioni di leggi libiche, gli ufficiali della cosiddetta guardia costiera, e magari proprio quelli ricercati dal Tribunale penale internazionale per gravi crimini contro l’umanità, potranno arrembare navi, prenderne il controllo manu militari, dirottarle a Tripoli, arrestare gli equipaggi e fare nuovamente prigionieri i naufraghi a bordo. L’unico motivo che ha spinto i funzionari italiani ed europei a far fare questa dichiarazione ai loro “colleghi” di Tripoli, è quello dell’azione militare di controllo sui migranti che scappano e tentano di salvarsi in Europa. L’anomalia del Mediterraneo, il cui spazio di mare continua ad essere in gran parte regolato dal diritto internazionale e sul quale gli stati non possono esercitare sovranità diretta, continua a registrare i tentativi di introdurre la violazione dei diritti umani come “norma”. Per fare questo, in ogni parte del mondo e ad ogni frontiera di mare, come in questo caso, o di terra, si istituiscono no man’s land, vere e proprie fasce di territorio sul quale non vigono gli stessi diritti per chi si trova ad attraversarli, siano essi operatori dei soccorsi o viaggiatori forzati in cerca di asilo. E dunque si allarga, a partire dalla costa, la sovranità nazionale degli stati che tende a comprimere lo spazio di diritto internazionale, in modo da poter abolire quelle garanzie minime ancora previste dalla legislazione. Nel caso della Libia, la completa abolizione della Convenzione di Ginevra sui profughi e rifugiati, che impedirebbe ciò che quotidianamente accade, cioè respingimenti di massa, passa attraverso lo stravolgimento della Convenzione di Amburgo sul soccorso in mare e oggi anche sull’uso illegale della Convenzione di Montego Bay sulle acque di contiguità. L’obiettivo dell’Unione europea e dell’Italia, è risolvere l’anomalia del Mediterraneo, che in questi anni ha mantenuta aperta la contraddizione dell’irriducibile conflitto tra i diritti umani e la sovranità statuale. Tra gli interessi degli stati, dei loro apparati e quelli degli esseri umani che si organizzano per non essere costretti a morire. Questo tentativo di superare la contraddizione, per poter esercitare il potere di vita o di morte in maniera perfettamente legale, si riconosce anche nell’ultimo patto europeo per le migrazioni e l’asilo. L’istituzione alle frontiere dell’Unione, di centri di detenzione per l’”esame veloce” delle richieste d’asilo, e lo stesso patto tra Italia e Albania che funge da apripista al piano di deportazione in paesi extra Ue di richiedenti asilo e migranti, ha una chiara direzione di marcia. Il respingimento degli esseri umani, la deportazione, la consegna del loro internamento a paesi dalle inesistenti strutture di garanzia del rispetto dei diritti umani, sono sul piatto. E’ uno degli aspetti di questa guerra civile globale nella quale il mondo è sprofondato, in questo caso la guerra contro le persone povere che sono costrette a mettersi in cammino verso l’Europa per tentare di sopravvivere. Ma il Mediterraneo continuerà ad essere una contraddizione, ed è proprio dentro di essa che continueranno a nascere gli errori della matrice. È continuando a percorrerlo, in lungo e in largo, disfacendo di notte i muri che loro erigono di giorno, che troveremo i modi e il senso di disertare e sabotare questa guerra civile. Sovraffollamento, criminalità e diritti umani di Giada Aquilino L’Osservatore Romano, 20 gennaio 2024 La popolazione carceraria, un’”umanità ferita” bisognosa di “redenzione”. Parte dalle parole di Papa Francesco la riflessione di Gianni La Bella, professore ordinario di Storia contemporanea all’università di Modena e Reggio Emilia, sulle carceri in America Latina, a pochi giorni dalla rivolta nei penitenziari e dalla violenza nelle strade dell’Ecuador, ad opera di bande criminali legate ai cartelli della droga messicani. “In America Latina la struttura carceraria non ha purtroppo alcun profilo per essere un luogo in cui sia possibile, per le persone che vengono recluse, trovare una redenzione della propria vita”, osserva il docente, profondo conoscitore delle dinamiche latinoamericane, che da anni segue per la Comunità di Sant’Egidio. “C’è un universo concettuale che fa delle carceri un luogo di assoluta repressione ed esclusione dal resto della società. Negli ultimi anni la popolazione carceraria in America Latina è cresciuta esponenzialmente: il primo vero problema delle carceri è dunque il sovraffollamento. Ad Haiti per esempio si va a oltre il 450%, un record raggiunto anche in altri Paesi come il Guatemala, la Bolivia, l’Ecuador, dove le persone recluse vivono alle volte anche con altri 15 detenuti, in luoghi dove i minimi diritti umani sono massicciamente calpestati”. Proprio l’Ecuador è passato da essere uno dei Paesi più sicuri della regione ad uno dei più pericolosi. Il 2023 è stato l’anno maggiormente letale della sua storia recente, con quasi 7.600 morti violente (in vertiginoso aumento quelle dei bambini), rispetto alle poco più di 4.000 dell’anno precedente. “La popolazione carceraria di tutto il Paese - evidenzia - è nelle mani di organizzazioni criminali, legate ai cartelli messicani della droga, le quali spesso di fatto, in alternativa, in combutta o nell’indifferenza della struttura pubblica, prendono in mano la gestione del carcere, instaurando un clima di sopraffazione, violenza, sfruttamento, come una sorta di Stato nello Stato”. “È interessante notare che il presidente Daniel Noboa, per motivare l’applicazione delle misure repressive contro le bande criminali dell’Ecuador, abbia equiparato la rivolta delle carceri alla presenza di un conflitto armato interno, quindi a una sorta di sollevazione in armi contro i poteri legittimi dello Stato. E ciò ha permesso l’applicazione di un regime speciale che ha come modello quello che è stato realizzato a El Salvador”. Il riferimento è al programma portato avanti dal presidente Nayib Bukele che, a partire dal marzo 2022, ha invocato i poteri di emergenza come parte di una serie di misure senza precedenti contro le bande armate (le cosiddette maras o pandillas), che ha portato tra l’altro all’arresto di oltre 75.000 sospetti membri di gang, alla sospensione di alcuni diritti, alla costruzione di un maxi-penitenziario capace di ospitare anche 40.000 detenuti. Una strategia che ha di fatto ridotto le azioni criminali su tutto il territorio salvadoregno - gli omicidi sono passati “dai 105 ogni 100.000 abitanti del 2015 ai 17-20 dello scorso anno” - ma ha innescato forti proteste da parte dei difensori dei diritti umani per i metodi usati. “Il carcere - va avanti - è costruito con due soli materiali: il cemento e il ferro. I detenuti dormono su lastre di ferro senza materasso, i familiari devono pagare per loro cibo e prodotti per l’igiene e i reclusi possono indossare soltanto una sorta di biancheria intima, sono a torso nudo, con lo sguardo rivolto sempre verso il basso. Due cose mi pare importante sottolineare: da un lato il consenso che questo modello sta registrando all’interno dell’opinione pubblica non solo salvadoregna ma latinoamericana in generale e dall’altra quanto esso sia repressivo e lesivo dei più elementari diritti dell’uomo. Siamo cioè lontani da una cultura dell’incontro con chi ha commesso dei delitti, finalizzata a una redenzione, a un sistema carcerario orientato al reinserimento dei detenuti nella società”. Anche in Messico, fa notare La Bella, “dal 2018 a oggi la popolazione carceraria è aumentata notevolmente: le stime, anche se molto approssimative, ci dicono che siamo intorno alle 250.000 persone nell’ambito del regime carcerario”. L’incremento è ricondotto dall’analista principalmente a tre fattori: “il ricorso alla prassi sistematica della custodia cautelare, i ritardi nella gestione dei processi e il fatto che si venga portati in carcere per qualsiasi tipo di reato: non esiste di fatto quello che noi chiamiamo regime delle misure alternative, con percorsi di rieducazione, servizio sociale, affidamento”. In tale prospettiva il docente dell’università di Modena e Reggio Emilia nota inoltre “una cultura che tende ad assimilare tutti i tipi di reato in una sorta di sovversione contro la società” e sottolinea come “per il Messico, come anche per molti altri Paesi dell’America Latina, sia importante mettere in luce le particolari condizioni di indigenza, repressione, umiliazione che soffrono le donne”. Proprio un carcere femminile, quello di Támara, in Honduras, è stato teatro a giugno scorso della tragica morte di una cinquantina di detenute, principalmente per un incendio scoppiato negli scontri tra bande rivali all’interno della struttura. “Nell’organizzazione del sistema criminale del traffico degli stupefacenti - ricorda La Bella - le donne rappresentano il gradino più basso: sono le cosiddette “mulas” che trasportano, spesso inconsapevolmente, la droga da una parte all’altra del Paese. E negli ultimi anni la percentuale delle recluse per questo reato è altissima”. Il sovraffollamento delle prigioni si ripropone pure in Brasile: il Paese detiene il terzo posto a livello mondiale per popolazione carceraria, dopo Stati Uniti e Cina. “Secondo i dati a disposizione, più del 40% dei detenuti sono in attesa di giudizio e il tasso di sovraffollamento sfiora il 70%”, sottolinea La Bella. E cita ancora il caso di realtà criminali che fanno “del carcere un luogo dove gestire totalmente il proprio potere”, come la banda “Pcc-Primo commando della capitale”, una delle principali organizzazioni criminali del Paese, “alleata con cartelli analoghi, ormai presente in Bolivia, Uruguay, Paraguay e in collegamento anche con la ‘ndrangheta calabrese”. Thailandia. Per Busbas 50 anni di carcere: ha diffamato la monarchia di Emanuele Giordana Il Manifesto Dall’inizio delle proteste nel 2020 1.938 persone sono state perseguite per aver partecipato a assemblee o manifestazioni. Mongkol “Busbas” Thirakot - un attivista trentenne di Chiang Rai (Thailandia settentrionale) - è stato condannato a 50 anni di carcere per aver violato la legge sulla diffamazione reale, il famigerato articolo 112 del codice penale, la più drastica legge a difesa della monarchica che esista sul pianeta. L’udienza d’appello si è risolta con una condanna che ha tenuto conto di più reati oltre a quelli ascrittigli in primo grado, cosa che gli ha aumentato la pena. Secondo i suoi avvocati si tratterebbe della più severa condanna per violazione dell’articolo 112 del codice penale del Regno. Ora Busbas sta presentando una richiesta di cauzione alla Corte Suprema. Una battaglia in salita. LA COLPA di Busbas è di aver partecipato a quel Movimento studentesco giovanile che negli anni scorsi - anche in piena pandemia - ha contestato la monarchia, il governo semi militare e la legge elettorale chiedendo che venissero ridotti beni e autorità del monarca. Attivista di un movimento che si è poi esteso a vasti settori della società thai, è stato arrestato nell’aprile 2021 mentre era in sciopero della fame a Chiang Rai per difendere il diritto alla cauzione per i prigionieri politici - tantissimi - incarcerati o condannati per aver violato la legge sulla diffamazione o il codice penale che tratta il capitolo “sedizione” (articolo 116). Nelle carte dell’accusa c’erano però anche 27 post su Facebook che hanno fatto decidere alla Corte d’appello che Busbas è colpevole di altri 11 capi di imputazione di lesa maestà, oltre ai 14 stabiliti dal primo grado. Da qui l’aumento della pena iniziale di 28 anni cui se ne sono aggiunti altri 22. LE COSE sarebbero andate forse diversamente se la Thailandia avesse rispettato il voto popolare della primavera scorsa che aveva dato la vittoria a un partito - Phak Kao Klai - che aveva fatto dei limiti alla corona una sua bandiera. Ma poi la magistratura ha bloccato con un cavillo la candidatura a premier di Pita Limjaroenrat, il leader del partito, e i giochi sono tornati in mano all’élite che ha ottime relazioni sia col re sia con l’esercito. Occasione sprecata di cui Busbas non è l’unico simbolo. Amnesty International ricorda il caso di Anchan Preelert, una ex alta funzionaria del settore statale fiscale condannata nel gennaio 2021 e a cui inizialmente era stata comminata una pena detentiva di 87 anni con l’accusa di aver violato il famoso articolo 112 e il Computer Crime Act per via di post su molteplici social media che avrebbero diffamato la monarchia. La pena è stata poi ridotta a 43 anni perché Anchan ha confessato. Così adesso tocca a Busbas il primato di una condanna che ha il sapore di una legge medievale. Una condanna ai sensi dell’articolo 112 comporta un minimo di tre anni di reclusione e un massimo di 15 anni per ciascuna accusa. Il cumulo, come si vede, può portare a condanne che equivalgono al carcere a vita. SECONDO I DATI di Thai Lawyers of Human Rights (Tlhr), il gruppo di avvocati che ha diffuso la notizia della condanna di Busbas, a oggi, dall’inizio delle proteste del luglio 2020 fino al 31 dicembre 2023, almeno 1.938 persone sono state perseguite in 1.264 casi a causa della loro partecipazione ad assemblee e manifestazioni politiche (286 sono bambini e giovani sotto i 18 anni). L’accusa di lesa maestà riguarda invece almeno 262 persone in 287 casi. Il re può dormire sonni tranquilli. Potrebbe dunque anche accordare loro il perdono reale.