Il dramma delle carceri, tra sovraffollamento e suicidi di Davide Madeddu Il Sole 24 Ore, 1 gennaio 2024 Il report dell’associazione Antigone traccia un bilancio sullo stato dei penitenziari in Italia nel 2023, alla luce di un’indagine condotta nei 76 complessi detentivi. Un altro anno nero per le carceri italiane con sovraffollamento, strutture datate e suicidi. A descrivere questo quadro è il report dell’associazione Antigone che traccia un bilancio sullo stato dei penitenziari in Italia nel 2023, alla luce di un’indagine condotta nei 76 complessi detentivi dove sono state effettuate, negli ultimi 12 mesi, oltre 100 visite. Cresce il numero dei detenuti - “A fronte di 51.272 posti ufficialmente disponibili, al 30 novembre, i detenuti erano 60.116: 2.549 le donne, il 4,2% dei presenti 18.868 gli stranieri, il 31,4% dei presenti - si legge nel report -. Un dato allarmante perché nell’ultimo trimestre (da settembre a novembre) i detenuti sono aumentati di 1.688 unità. Nel trimestre precedente di 1.198. In quello ancora prima di 911. Nel corso del 2022 raramente si è registrata una crescita superiore alle 400 unità a trimestre”. A leggere lo studio viene fuori che, “se la popolazione detenuta dovesse continuare a crescere con il ritmo attuale tra un anno saremo oltre le 67.000 presenze”. Dalla Puglia alla Lombardia - Le regioni con il più alto tasso di affollamento (che in media è del 117,2%) sono la Puglia con il 153,7% (4.475 detenuti in 2.912 posti), la Lombardia al 142% (8.733 detenuti in 6.152 posti) e il Veneto al 133,6% (2.602 detenuti in 1.947 posti). Poi i casi delle singole carceri: “La situazione in molti istituti è gravissima - sottolinea ancora il rapporto. A Brescia Canton Monbello l’affollamento è ormai al 200%, a Foggia al 190%, a Como al 186% e a Taranto al 180%. Numeri che rispecchiano condizioni invivibili ma che nei prossimi mesi sono destinate a peggiorare”. Tema carcere nell’agenda politica - Una situazione in cui gli spazi non aumentano ma, alla luce degli ingressi in crescita, si riducono. “Lanciamo oggi l’allarme sul sistema penitenziario italiano, prima che si arrivi a condizioni di detenzione inumane e degradanti generalizzate - dice Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione che da anni si occupa dei diritti e garanzie del sistema penale -. La politica ponga il tema del carcere al centro della propria agenda e accetti di discuterlo senza preconcetti ideologici o visioni di parte”. Strutture datate - A destare preoccupazione, prosegue il report “è anche lo stato fatiscente di molti istituti”. “Considerando sempre le 76 schede elaborate, il 31,4 % delle carceri visitate è stato costruito prima del 1950. La maggior parte di questi addirittura prima del 1900. Nel 10,5% degli istituti visitati non tutte le celle erano riscaldate. Nel 60,5% c’erano celle dove non era garantita l’acqua calda per tutto il giorno e in ogni periodo dell’anno. Nel 53,9% degli istituti visitati c’erano celle senza doccia. Nel 34,2% degli istituti visitati non ci sono spazi per lavorazioni. Nel 25% non c’è una palestra, o non è funzionante. Nel 22,4% non c’è un campo sportivo, o non è funzionante”. Autolesionismo e suicidi - C’è poi l’aspetto legato ai suicidi e a quelli che vengono chiamati gli “eventi critici”. I dati elaborati dall’associazione, sino al 29 dicembre, parlano di 68 persone che si sono tolte la vita dietro le sbarre. “Gli istituti in cui si sono registrati più suicidi sono Torino, Terni, Regina Coeli a Roma e San Vittore a Milano. In ognuno di questi istituti quest’anno si sono uccise 4 persone. 3 suicidi si sono registrati a Verona, Venezia, Taranto, Santa Maria Capua Vetere, Pescara e Milano Opera. Nel 85,3% dei casi il suicidio è avvenuto per impiccamento, nel 5,9% per asfissia con bombola da gas, nel 4,4% per sciopero fame”. L’età media di quanti si sono tolti la vita “era 40 anni e tra costoro 15 non avevano più di 30 anni”. Non è tutto. “Nel frattempo nel corso del 2023, negli istituti visitati da Antigone - si legge ancora nel rapporto -, si sono registrati in media ogni 100 detenuti 16,3 atti di autolesionismo, 2,3 tentati suicidi, 2,3 aggressioni ai danni del personale e 4,6 aggressioni ai danni di altre persone detenute”. L’invito alla collaborazione - Dai rappresentanti dell’associazione, che non risparmiano critiche sul fatto che “le politiche governative dell’ultimo anno non hanno di certo aiutato le politiche penitenziarie” arriva anche un appello e una mano tesa verso il Governo. “Ci auguriamo quindi che il 2024 riapra una grande discussione nel paese sul carcere e sulle finalità della pena. Che si capisca che abbiamo bisogno di più misure alternative, di prendere in carico le persone, soprattutto quelle con dipendenza o disagio psichico, all’esterno, evitando che il carcere diventi un luogo di raccolta di marginalità e emarginazione. Antigone è a disposizione insieme al suo bagaglio di conoscenze e competenze maturate in quasi 40 anni di attività, monitoraggio e studio dei sistemi penitenziari e penali”. Scuola della magistratura, Nordio batte il Csm sulle nomine (e forse spiana la strada a Sciarra) di Liana Milella La Repubblica, 1 gennaio 2024 Dei cinque consiglieri, due vengono dal Veneto, la terra del Guardasigilli. C’è un tributarista, materia che la formazione non tratta, ma nessun penalista. Paladini ha fatto parte come Mantovano del centro studi Livatino. “Ispirato” dal suo Veneto - vive a Treviso, ha lavorato a Venezia - il Guardasigilli Carlo Nordio batte il Csm sulla scelta dei consiglieri per il vertice della Scuola della magistratura, potente struttura con tre sedi - Scandicci (Firenze), Napoli e Roma - che cura la formazione dei magistrati con dozzine di corsi organizzati ogni anno che coinvolgono, anche a pagamento, una pletora di docenti. Mentre il Csm, clamorosamente in ritardo, è impastoiato dai legacci delle correnti, come ha denunciato a Repubblica il consigliere “indipendente” (nel senso che ha corso da solo, senza sponsorizzazioni alle spalle) Andrea Mirenda. Nordio ha scelto nei termini della fine dell’anno i suoi cinque nomi. Nessuno di questi riscuote un’alta risonanza mediatica. Tra di loro non c’è, come correva voce, l’ex giudice della Consulta Nicolò Zanon, e nessuno sembra avere la caratura per aspirare alla presidenza della Scuola. Che finora è stata di tre ex presidenti della Consulta, Valerio Onida, Gaetano Silvestri e Giorgio Lattanzi, quest’ultimo tuttora in carica, proprio per garantire il massimo rilievo alla Scuola. Dalla scelta di Nordio potrebbe indirettamente arrivare una sorta di via libera alla presidenza di Silvana Sciarra, la giuslavorista che è stata al vertice della Corte costituzionale fino all’11 novembre. Ma su di lei al Csm ci sono rumors avversi dei sette laici del centrodestra, visto che venne eletta su indicazione dei Pd. I dodici consiglieri in carica alla Scuola scadono il 30 gennaio. Se il Csm non sceglie subito i suoi sette nomi si dovrà andare a una proroga. Ecco in proposito la reazione del consigliere Mirenda: “Il ministro ci ha dato una lezione di stile con la rapidità delle sue scelte; il consiglio, invece, sta facendo una figura barbina, avallando il più che ragionevole sospetto di grandi manovre sotterranee di cui ho già detto”. Ma eccoci a una radiografia dei cinque nomi indicati da Nordio. E già a una lettura rapida risulta evidente che il Guardasigilli non ha mandato alla Scuola neppure un giurista specializzato in diritto penale. A questo punto sarà in difficoltà il Csm, che deve eleggere sei magistrati (e qui c’è la “guerra” delle correnti) e un professore. E Sciarra è specializzata in diritto del lavoro, materia che proprio a Firenze ha insegnato per una vita, lei che era allieva di Gino Giugni. Nordio doveva scegliere un magistrato, due professori e due avvocati. La giudice è Ines Maria Luisa Marini, toga in pensione che ha terminato la carriera come presidente della Corte d’Appello di Venezia, proprio là dove Nordio era procuratore aggiunto. Sposata con un giornalista, i colleghi ne segnalano le “simpatie” per Magistratura indipendente, giusto la corrente delle toghe per cui ha “simpatie” anche il Guardasigilli Nordio. E il Veneto è da sempre nel cuore del ministro della Giustizia, che ogni settimana torna nella sua elegante casa di Treviso. E proprio da Treviso arriva uno dei due avvocati selezionati dal ministro, Federico Vianelli, attivo nel foro della sua città, che non manca di scagliarsi contro il “populismo penale”. L’altro avvocato si chiama Pier Lorenzo Parenti, classe 1973, e arriva da Firenze, dove ha studiato e si è laureato - come recita il suo curriculum - con 104 su 110. E siamo ai due professori. Nordio sceglie Mauro Paladini, ordinario di diritto privato all’università di Milano-Bicocca, e Stefano Dorigo, che a Firenze risulta essere professore “associato” di diritto tributario presso il locale ateneo. La benemerenza del primo dovrebbe essere soprattutto innanzitutto di essere nato a Lecce, la città che ha dato i natali anche al sottosegretario alla Presidenza Alfredo Mantovano, e soprattutto di far parte del Centro Livatino, proprio quello che Mantovano stesso non manca mai di citare in memoria del magistrato ucciso dalla mafia che è il suo idolo. E veniamo al secondo nome, quello di Dorigo. Innanzitutto parliamo di un professore “associato”, e non di un docente ordinario titolare di una cattedra. Peraltro Dorigo insegna diritto tributario, una materia del tutto marginale nella formazione dei magistrati ordinari. Tant’è che l’ex ministro Alfonso Bonafede, quattro anni fa, non solo aveva indicato l’attuale presidente Lattanzi, notissimo penalista, protagonista di sentenze storiche della prima sezione penale della Cassazione, nonché autore della rivista altrettanto nota Cassazione penale, ma aveva anche scelto Claudio Consolo, un processual civilista, e un penalista come Gian Luigi Gatta, docente alla Statale di Milano. Ma quello che colpisce di più nel curriculum di Dorigo è un suo “incidente” che lo ha visto protagonista di un’indagine a Firenze per contrasti nell’assegnazione degli incarichi universitari, inchiesta poi trasferita a Venezia (già, sempre Venezia) e lì chiusa con un’archiviazione. In ogni caso i cinque nomi indicati da Nordio rivelano proprio la mancanza di un esperto di diritto penale, la materia principale per i magistrati ordinari. A questo punto il Csm si dovrà porsi questo problema nella scelta del suo professore. A parte la candidatura di Sciarra, resta quella del professor Marco Pellissero che insegna diritto penale a Torino e attualmente è il presidente dei professori di diritto penale italiani. Ma il Csm ha un solo posto, per il quale peraltro concorrono ben sessanta professori. Palermo. Ai domiciliari il detenuto che chiedeva di morire. Ma senza cartella medica di Irene Carmina La Repubblica, 1 gennaio 2024 Ai domiciliari il detenuto che chiedeva di morire. Ma senza cartella medica. Il 19 dicembre ha lasciato l’Ucciardone sulla sua sedia a rotelle. Finalmente è ai domiciliari Giovanni (nome di fantasia), il detenuto 54enne affetto da una grave neuropatologia ai nervi delle vertebre, che ad agosto era stato trasferito da Rebibbia nel carcere di Palermo. In una cella di 12 metri quadrati, condivisa con altri due detenuti, che non era idonea per i disabili. Lì passava la maggior parte del tempo sdraiato a letto a desiderare di morire, senza riuscire a farsi nemmeno una doccia. “Non ce la faccio più. Ora spero solo nell’eutanasia perché non posso resistere tutti quegli anni in queste condizioni”, aveva detto al garante per i detenuti, Pino Apprendi, dopo avere provato a togliersi la vita quattro volte. A fine novembre, Repubblica aveva raccontato la sua storia. Una storia a lieto fine, viene da dire adesso che Giovanni sconta la pena nella sua abitazione di Siracusa, sua città di origine. Forse, però, sarebbe più corretto parlare di un giusto epilogo perché la carcerazione del 54enne era stata dichiarata dal direttore sanitario “incompatibile con le sue condizioni di salute”. “L’ufficio di sorveglianza ha adottato il provvedimento più adeguato, in linea con il suo stato fisico”, dice Apprendi. Non abbassa la guardia, però. Perché Giovanni, adesso, non va abbandonato. Eppure, le cose sembrano andare esattamente così. L’allarme lo lancia la sua compagna. Dopo aver gioito alla notizia degli arresti domiciliari, ha dovuto fare i conti con un problema dietro l’altro. E non solo perché Giovanni si aggrava di giorno in giorno, dopo che in carcere non è stato curato adeguatamente, vuoi perché una volta non c’era l’ambulanza, vuoi perché un’altra volta mancava la scorta e capitava che non riusciva neppure a raggiungere l’ospedale. Ma anche perché Giovanni ora vive in attesa. Dei suoi effetti personali e dei presidi medici che non sono mai arrivati da Rebibbia. E soprattutto del suo diario sanitario relativo al periodo che va dal 24 novembre al 19 dicembre. “Senza, i medici di Siracusa non possono procedere con un piano terapeutico aggiornato, visto che si tratta di una malattia degenerativa, che peggiora rapidamente”, dice Apprendi. Malattia che potrebbe avere un nome preciso, Sla: lo diranno gli accertamentiche effettuerà a casa. La compagna di Giovanni non molla, il suo avvocato, Antonino Castorina, lo ha difeso gratuitamente pur non avendo ricevuto l’incarico scritto perché la raccomandata partita dall’Ucciardone contenente la procura per il gratuito patrocinio tornava indietro e non arrivava mai a destinazione. Al punto che all’udienza a Roma l’hanno sbattuto fuori dall’aula del tribunale. Genova. Delegazione del Partito radicale visita il carcere di Pontedecimo telenord.it, 1 gennaio 2024 Il portavoce Petrella: “Situazione buona ma migliorabile, soprattutto per quanto riguarda gli spazi”. Prosegue l’iniziativa ispettiva del Partito Radicale nelle carceri italiane. Nella giornata del 30 dicembre una delegazione composta da Stefano Petrella, Angelo Chiavarini, Luca Robustelli e dagli avvocati Leda Rita Corrado, Piero e Sandra Casciaro ha visitato la Casa Circondariale di Genova Pontedecimo. “Abbiamo trovato - dice Petrella - l’istituto nelle stesse condizioni della scorsa estate: 156 i detenuti presenti (88 uomini e 68 donne) su 96 posti di capienza regolamentare, 76 gli stranieri, 119 scontano almeno una condanna definitiva. In esubero la presenza degli agenti rispetto alla pianta organica (111 su 99 previsti), ma come accade altrove mancano effettivi in ruoli importanti come ispettori e sovrintendenti. Sempre carente l’assistenza sanitaria, visto che l’istituto non ha copertura h 24 e non vede presenza di medici dalle 13 del sabato alle 8 del lunedì, manca da molti anni (unico caso in Liguria) un dirigente medico incaricato e non può essere la soluzione affidare tale ruolo al responsabile del Centro Clinico di Marassi, comprensibilmente quasi sempre impegnato a Marassi, la Regione dovrebbe prenderne atto. Non sembrano affatto risolti i problemi degli specialisti: un dentista è tornato dopo anni, ma si vede pochissimo, lo psichiatra fa due soli accessi brevi a settimana (più corretto sarebbe scrivere due ore). Molte le lamentele dei detenuti sulla scarsa disponibilità di farmaci e su repentini cambi di terapie disposti nell’ultimo periodo. “Decisamente buono - prosegue il ci è sembrato il rapporto tra detenuti e il personale di custodia, che ci ha anche questa volta cortesemente e pazientemente accompagnato e buono il livello di attenzione e vigilanza prestato al reparto protetti, dove abbiamo tenuto una piccola riunione con i detenuti nella biblioteca/mediateca. Sono state sostituite le tubature dell’impianto di riscaldamento, ora ben funzionante, e parte degli infissi (le vecchie finestre piene di ruggine che cadevano a pezzi), ma il tetto e la facciata esterna sono in condizioni pessime da anni al femminile dove all’ultimo e penultimo piano l’umidità è ben presente e in condizioni metereologiche avverse spesso piove anche in cella: la Direttrice assicura che i lavori sono già finanziati e destinati a realizzazione entro il 2024, ma ci aveva detto la stessa cosa un anno fa; sono purtroppo ancora al loro posto i pannelli esterni che tolgono luce diretta alle celle di cui aveva chiesto tempo fa la rimozione lo stesso Garante Nazionale”. Per quanto riguarda il lavoro interno, “Il laboratorio della tipografia KC (Aiga vi ha fatto stampare mesi fa il suo libro bianco sulle carceri che ha presentato a Pontedecimo) dai 4 detenuti impiegati qualche tempo fa è passato ad averne 1 a tempo pieno e 1 part time, il call center è fermo da anni, ma occupa ancora locali che potrebbero essere adibiti ad altra attività, per le donne c’è il laboratorio della cooperativa Scar.t. (10 le detenute impegnate part-time) con il suo negozio esterno in Vico Angeli, una risorsa preziosa, ma si potrebbe fare di più con maggiori spazi; 18 i detenuti maschi impegnati in art. 21 “interni” (manutenzioni e riparazioni del fabbricato), nessun art. 21 “esterno” e nessun semilibero tra uomini e donne, un dato quest’ultimo abbastanza sorprendente e indicativo di come sia carente al momento l’istituto in termini di reinserimento e preparazione al fine pena. In difficoltà serie è d’altra parte l’area educativa che prevederebbe 3 effettivi, ma le due figure più esperte sono andate in pensione, l’educatrice rimasta è destinata a trasferimento a Marassi e non basta il part time di una seconda a supportarla; occorre l’arrivo di 3 nuovi educatori di ruolo, visto che devono occuparsi di un istituto diviso tra femminile e maschile, con categorie particolari come i sex offenders. “Una caratteristica di Pontedecimo negli ultimi anni - prosegue l’esponente radicale - era stato il regime di apertura delle celle da mattina a sera, che non aveva mai portato particolari problemi, ed è triste vedere anche qui al piano terra maschile e femminile la nascita di due sezioni “a regime ordinario” (4 ore d’aria + 3-4 chiusi/e nella saletta di socialità) per i giudicabili, in (malintesa) applicazione della circolare di Renoldi del 2022. Una buona notizia (come a Marassi e Sanremo) è stata invece l’arrivo di un mediatore culturale, buona è anche la frequenza ai corsi scolastici, 8 tra uomini e donne seguono i corsi del Polo Universitario, che sta svolgendo un ruolo davvero importante in tutti gli istituti della nostra Regione”. “A mancare più di tutto a Pontedecimo - conclude Petrella - sono gli spazi: destinato alla sua apertura ad ospitare solo il femminile e poi diviso tra donne e reparto maschile protetti (da qualche anno soltanto sex offenders) se li è visti dimezzare, con grave preclusione di poter ospitare maggiori attività lavorative e trattamentali, ma l’area esterna al muro di cinta appartenente al carcere è molto ampia (il doppio della attuale) e fin dagli anni ‘90 l’amministrazione ha opportunamente progettato di recuperarla, a valle ci sarebbe spazio per un’area colloqui più facilmente accessibile ed è presente un campo sportivo che attende da sempre di essere utilizzato anche da detenuti e detenute. La Direttrice ha presentato da tempo dei progetti, ci sembra importante che l’Amministrazione Penitenziaria prenda atto della loro necessità e li sostenga”. I radicali concluderanno la loro visita nei penitenziari liguri il 3 gennaio a Imperia e il 5 gennaio a Chiavari. Teramo. Il carcere di Castrogno è sovraffollato: condizioni inaccettabili di Michele Longobardi cityrumors.it, 1 gennaio 2024 Condizioni preoccupanti quelle trovate dalla delegazione guidata dai Radicali che ha fatto visita al carcere di Castrogno, in provincia di Teramo. Quasi 400 detenuti devono dividersi 255 posti, in una situazione di disagio davvero allarmante. ??Sulle orme di Marco Pannella, i Radicali hanno guidato una delegazione del mondo civile e politico che ha fatto visita al carcere di Castrogno, nell’ambito dell’iniziativa “Natale in carcere” con l’obiettivo di controllare le condizioni dei detenuti nelle strutture carcerarie, e non solo nel periodo natalizio. Purtroppo, la visita dei Radicali non ha avuto un esito particolarmente positivo perché la situazione che la delegazione si è trovata di fronte non era certo delle migliori. Il carcere di Castrogno può ospitare un massimo di 255 detenuti, mentre quelli a oggi presenti nella struttura sono quasi 400. Carcere di Castrogno in sovraffollamento - Le cifre parlano da sole: il carcere di Castrogno ospita attualmente 398 detenuti, mentre la capacità effettiva è di soli 255 posti. Questo sovraffollamento è preoccupante e diventa ancor più grave considerando la carenza di personale penitenziario. Nonostante questo, è stato notato un leggero decremento rispetto ai mesi precedenti: da 409 detenuti di qualche mese fa, il numero è sceso a 398, mostrando un trend lievemente in calo, anche se siamo ben lontani da una situazione che possa dirsi normale. Questi miglioramenti minimi, infatti, non modificano in meglio più di tanto le condizioni all’interno del carcere, le quali rimangono critiche. Le celle, ad esempio, non rispettano gli standard europei, ospitando due detenuti in spazi da 9 metri quadrati, mentre le normative impongono che vi siano almeno 6 metri quadrati a persona. Ancora più preoccupante è la mancanza di opportunità rieducative e lavorative per i detenuti, con un’assenza quasi totale di mediazione culturale, nonostante la presenza di numerosi detenuti stranieri. Un altro punto che solleva preoccupazione è stato evidenziato, tra gli altri, dal radicale Ariberto Grifoni, ovvero la drastica carenza di personale penitenziario. Infatti, ci sono solo 167 agenti in servizio, quando invece dovrebbero essercene almeno 212, un totale ancor più sproporzionato considerando il numero reale di detenuti rispetto alla capacità della struttura. In questo contesto, si profila una novità: la possibile chiusura della sezione ad alta sicurezza di Castrogno. Questa decisione non convince proprio tutti, ad esempio l’avvocato Tommaso Navarra, uno degli osservatori presenti, il quale ha sollevato dubbi anche di natura economica. Infatti, la sezione ad alta sicurezza ha garantito negli anni finanziamenti e interventi specifici sull’edificio che potrebbero venire a mancare in caso di soppressione della stessa. Pesaro. Quando la cultura entra anche dentro il carcere di Alessandro Mazzanti Il Resto del Carlino, 1 gennaio 2024 Nella Casa circondariale di Pesaro e nei teatri cittadini sono andati in scena spettacoli, cortometraggi e video, conferenze e importanti tavole rotonde. Ad anticipare l’inaugurazione di Pesaro Capitale della Cultura 2024 si è svolto a Pesaro “Sentieri Incrociati: per un senso di umanità”, Progetto speciale del Ministero della Cultura, a cura del Teatro Universitario Aenigma, capofila del Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere. Nella Casa Circondariale di Pesaro (grazie alla straordinaria collaborazione di tutto il personale dell’amministrazione penitenziaria diretto da Annalisa Gasparro e Palma Mercurio) e nei teatri cittadini sono andati in scena spettacoli teatrali, cortometraggi e video, conferenze, tavole rotonde, premi, laboratori di formazione e specializzazione sui linguaggi e le pratiche di teatro in carcere. La città di Pesaro non è stata scelta a caso. Qui è attivo dal 2002 un progetto teatrale all’interno della Casa Circondariale coordinato dal Teatro Aenigma diretto da Vito Minoia, esperto di teatro educativo e sociale all’Università di Urbino Carlo Bo, e che nel tempo ha portato alla promozione di due compagnie stabili all’interno dell’Istituto: la storica Compagnia “Lo spacco” (costituita da detenute e detenuti) e la Compagnia “Controvento”, impegnata da alcuni anni in un percorso di autoformazione. Entrambi i Gruppi sono andati in scena, conoscendo vicendevolmente le proprie opere in un percorso di accompagnamento alla visione degli spettacoli che ha coinvolto anche un centinaio di studenti delle scuole superiori di primo grado (Galilei di Villa Fastiggi) e di secondo grado (Liceo Marconi) coordinati da Ivana Conte, Paolo Gaspari e Romina Mascioli. “Parlami dentro. Oltre il carcere: lettere di (r)esistenza”, il libro di Marilù Ardillo di Marco Valenti libroguerriero.wordpress.com, 1 gennaio 2024 Ci prendiamo una pausa dai romanzi, per affrontare un tema particolarmente toccante, uno di quelli che da sempre considero fondamentali nel farmi un giudizio sul grado di civiltà di un paese. La carcerazione, o meglio le condizioni a cui sono costretti i condannati, sono una delle discriminanti che credo possano essere viste come gli strumenti che possano permetterci di capire quanto siamo realmente sensibili ad una tra le dinamiche socialmente più delicate. In altre parole è da come trattiamo coloro che identifichiamo come “minoranza” e che si trovano (temporaneamente o meno) in una condizione di disagio, che ci permette di capire dove viviamo e chi siamo. “Parlami dentro. Oltre il carcere: lettere di (r)esistenza” è un testo che nasce dal tentativo di immedesimarsi nelle vite altrui, in questo caso in quelle dei carcerati. Tentativo tutt’altro che facile e indolore in generale, ancor di più nella specificità in questione. Cercare di dare luce a chi vive al buio, dare voce a chi è afono, portare al centro della stanza chi abitualmente è nascosto in un angolo. Questo il tentativo che sta dietro al libro. Tutto nasce nel momento in cui viene chiesto, a quella che siamo soliti individuare come “società civile”, di scrivere una lettera a una persona sconosciuta, tra le tante detenute in carcere. Una lettera con cui provare a creare un rapporto volto a lenire il dolore della permanenza forzata tra le mura delle celle, ma anche per dare stimolo, forza e speranza, a chi un domani non troppo distante si ritroverà a vedere espiata la propria condanna. Alla fine si tratta di persone come noi, che hanno sicuramente commesso degli sbagli, e che per questo stanno pagando, ma che dobbiamo pensare come futuri uomini liberi, pronti a rivendicare la propria presenza all’interno della società. Contattarli, renderli partecipi di ciò che accade fuori, può e deve essere visto come il primo passo in attesa della scarcerazione. Da un punto di vista strettamente letterario non c’è molto da dire, ciò che conta in questo volume è la forza delle parole, capaci di superare gli ostacoli che fisicamente separano i detenuti dall’esterno, e di concedere loro una seconda possibilità. Non un post sui social, frettoloso e freddo, ma una lettera cartacea, vera e propria, per riprendere un tessuto sociale smarrito da tempo. “In ogni città che abitiamo esiste una moltitudine di persone che fa delle parole la ragione di ogni giornata, che ha dovuto rinunciare alla libertà di uscire, di fare, ma non di sperare. Che ha commesso un errore, ma continua ad impegnare ogni energia per evolvere. […] una chiamata alle parole, un invito a condividere un gesto narrativo di resistenza: scrivere una lettera ad una persona detenuta sconosciuta. Per consegnare un frammento di vita libera che si facesse stimolo, ispirazione, auspicio. […] Si auspica, dunque, che la permanenza in carcere attivi in ogni individuo un processo di elaborazione, cosicché il buio dietro le sbarre possa trasformarsi in una risorsa: la presa di consapevolezza dei misfatti commessi può indurre il soggetto, attraverso un adeguato percorso di rieducazione, ad assumere condotte sane e oneste una volta rilasciato nella società civile. Il libro è uno spiraglio che restituisce tenerezza e fiducia a corpi e anime che talvolta sono stati segnati dalla depravazione, ma che in fondo aspirano a essere ascoltati e riconosciuti come essere umani.” Il testo è stampato senza scopo di lucro, e sarà donato gratuitamente a alcune migliaia di persone detenute nei vari penitenziari italiani, e diffuso nelle scuole, in modo da stimolare dialoghi e riflessioni sulle tematiche emerse, e sull’importanza di prefiggersi obiettivi positivi che possano nutrire l’anima. L’intero ricavato sarà devoluto a sostegno di progetti educativi a favore delle persone detenute. “Solo chi è davvero libero può veramente comprendere chi libero non lo è più”. L’attesa di giustizia è sdegno e coraggio di Vittorio Pelligra Il Sole 24 Ore, 1 gennaio 2024 L’attesa di giustizia è quella speranza alimentata dallo sdegno davanti a ciò che di più ingiusto c’è intorno a noi e che invoca un cambiamento. Mikey Sachs è affranto. Passeggia solitario per le strade di New York. Arriva nel giardino della Columbia, proprio sotto la statua de Le Penseur di Rodin. È assillato da dubbi esistenziali. Guarda quegli edifici che trasudano cultura e, tra sé e sé, mormora “Milioni di libri scritti su ogni argomento possibile e immaginabile da tutti questi sapientoni, ma, alla fine, nessuno ne sa più di me sui grossi interrogativi della vita”. È una delle scene più belle del bellissimo Hannah e le sue sorelle, film del 1986 firmato alla regia da Woody Allen che recita anche nel personaggio di Mikey. È da un anno esatto che, ogni settimana pubblico su queste colonne frammenti di un lungo racconto incentrato sulla storia del concetto di giustizia. Partiti da Omero e dai tragici greci e passando per Tommaso, Hume, Kant e molti altri, la settimana scorsa siamo arrivati a Karl Marx. Un viaggio lungo un anno durante il quale abbiamo percorso se non una piccola parte dell’itinerario che ci aspetta e che vedrà il suo tratto finale, più arduo ma anche più affascinante, nel confronto con le prospettive contemporanee. Siamo a fine anno ed è tempo di bilanci, sia pure provvisori. Dopo cinquantadue settimane di confronto costante e continuato con tutte queste menti brillanti, le loro idee profonde, le tradizioni secolari - i “milioni di libri” di cui parla Mikey Sachs, verrebbe quasi da concludere sconsolati assieme a lui che “nessuno di questi sapientoni ne sa più di me sui grossi interrogativi della vita”. E saremmo, Mikey ed io, in buona compagnia. Carl Schmidt, grande filosofo del diritto, infatti scriveva al riguardo “Che cos’è la giustizia? Non v’è altra domanda che non sia stata discussa in modo tanto appassionato; non v’è altra domanda per la quale non si siano versati tanto prezioso sangue e tante amare lacrime; non v’è altra domanda alla quale sia stata dedicata una riflessione tanto intensa da parte dei più illustri pensatori (…) Eppure questa domanda resta ancora oggi come in passato priva di risposta”. Carl Schmidt come il Mikey Sachs di Woody Allen allora? Sì e no. Prospettive diverse perché mentre il newyorkese cerca invano le risposte al suo mal di vivere nei libri dei sapienti, Schmitt è convinto che tale domanda non abbia affatto risposta; ma anche simili però, perché Micky Sachs alla fine la sua risposta la trova nell’amore sincero e finalmente pacificato per la sorella della prima moglie, perché “il cuore è un muscoletto davvero molto elastico”, e anche Schmitt trova la sua risposta concludendo che per comprendere cosa sia realmente la giustizia sia necessario “cercare di formulare sempre meglio la domanda”. E allora gli scritti di questa serie di Mind the Economy forse non servono tanto per cercare risposte, ma per cercare di formulare meglio certe domande, per indagare l’attesa di giustizia che ha accompagnato la nostra storia in ogni epoca. Un’attesa questa, che non equivale ad una posa statica, ma a un moto dinamico. Appare evidente nell’uso spagnolo del termine dove “esperando justicia” indica contemporaneamente l’attendere e lo sperare. E sappiamo da Sant’Agostino, che “Spei duo pulchri liberi sunt”, “La speranza ha due bellissimi figli: lo sdegno e il coraggio. Lo sdegno per la realtà delle cose e il coraggio per cambiarle”. Allora, l’attesa di giustizia, è quella speranza alimentata dallo sdegno davanti a ciò che di più ingiusto c’è intorno a noi; e come non pensare immediatamente alle guerre che ormai quasi ci appaiono sfumate, come in lontananza. Sofferenza che troppo presto sembra aver prodotto una assuefazione mediatica. E poi il pianeta ferito. Una ferita così grande che è diventata casa e della quale quasi fatichiamo ad accorgerci. Le povertà di ogni tipo, degli ultimi, degli scartati e le diseguaglianze tra le razze, i generi, le età. Luoghi di irriconoscenza, disrispetto e vessazione. Se non riprenderemo a provare sdegno per queste ingiustizie che gridano, non riusciremo a trovare il coraggio necessario ad operare quella speranza attiva che porta il cambiamento, in noi e fuori di noi. Attendere giustizia significa, quindi, non smettere di domandarla, non limitarsi a sperarla ma prendere o riprendere ad operare per suo conto e in suo nome. Mattarella: “Pace è realismo, va perseguita, non basta far tacere le armi” di Franco Stefanoni Corriere della Sera, 1 gennaio 2024 Le parole di fine anno 2023 del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il suo nono discorso, il 75esimo tenuto dal Capo dello Stato. Nono discorso di fine anno per Sergio Mattarella, il 75esimo per un presidente della Repubblica italiana (qui il testo integrale). Alle 20,30 il capo dello Stato, in diretta televisiva, nel personale messaggio agli italiani riuniti per il Veglione, ha fatto un bilancio del 2023 e un augurio per il 2024, come Luigi Einaudi fece, allora via radio, l’ultimo giorno del 1949, dando inizio alla tradizione rispettata per 75 anni da tutti i presidenti. La violenza e innanzitutto le guerre. Mattarella ha espresso l’allarme per la fase storica attuale, colpita da due conflitti, in Ucraina aggredita dalla Russia e in Medio Oriente dove i terroristi di Hamas hanno colpito Israele che a sua volta ha reagito colpendo Gaza. “Avvertiamo angoscia per la violenza cui, sovente, assistiamo: tra gli Stati, nella società, nelle strade, nelle scene di vita quotidiana. La violenza. Anzitutto, la violenza delle guerre. Di quelle in corso; e di quelle evocate e minacciate”. Per il presidente della Repubblica, l’attacco contro Israele è stato “ignobile oltre ogni termine, nella sua disumanità”. Ma la reazione nei confronti dei palestinesi sta provocando “migliaia di vittime civili e costringe, a Gaza, moltitudini di persone ad abbandonare le proprie case, respinti da tutti”. Sentite e preoccupate le prime frasi di Mattarella. Per la sofferenza e la dignità delle persone. Con il timore che l’odio possa durare a lungo. “E l’odio durerà, moltiplicato, per molto tempo, dopo la fine dei conflitti. La guerra è frutto del rifiuto di riconoscersi tra persone e popoli come uguali. Dotati di pari dignità”. Nelle parole del capo dello Stato è emerso l’allarme per la deriva presa dai contrasti politici e bellici internazionali. “Si pretende di asservire, di sfruttare. Si cerca di giustificare questi comportamenti perché sempre avvenuti nella storia. Rifiutando il progresso della civiltà umana”. Tutto questo con il rischio, concreto, di abituarsi a questo orrore. “Vite spezzate, famiglie distrutte. Brutalità che pensavamo, ormai, scomparse; oltre che condannate dalla storia. Una generazione perduta. Volere la pace non è neutralità”. Tema centrale, non solo la violenza, ma la sua diffusione. “Vediamo, e incontriamo, la violenza anche nella vita quotidiana. Anche nel nostro Paese. Quando prevale la ricerca, il culto della conflittualità. Piuttosto che il valore di quanto vi è in comune; sviluppando confronto e dialogo”. E poi: “Penso alla violenza più odiosa sulle donne. Vorrei rivolgermi ai più giovani”. “Cari ragazzi, ve lo dico con parole semplici: l’amore non è egoismo, possesso, dominio, malinteso orgoglio. L’amore - quello vero - è ben più che rispetto: è dono, gratuità, sensibilità”, ha così pronunciato il capo dello Stato. “Penso alla violenza verbale e alle espressioni di denigrazione e di odio che si presentano, sovente, nella rete. Penso alla violenza che qualche gruppo di giovani sembra coltivare, talvolta come espressione di rabbia. Penso al risentimento che cresce nelle periferie. Frutto, spesso, dell’indifferenza; e del senso di abbandono. Penso alla pessima tendenza di identificare avversari o addirittura nemici. Verso i quali praticare forme di aggressività”. E poi: “Democrazia è votare, non state sui social, inseguite la difesa della libertà”. Quindi le questioni sociali, a cominciare dal lavoro. “Il lavoro che manca. Pur in presenza di un significativo aumento dell’occupazione”, ha detto Mattarella. “Quello sottopagato. Quello, sovente, non in linea con le proprie aspettative e con gli studi seguiti. Il lavoro, a condizioni inique, e di scarsa sicurezza. Con tante, inammissibili, vittime. Le immani, differenze di retribuzione tra pochi superprivilegiati e tanti che vivono nel disagio. Le difficoltà che si incontrano nel diritto alle cure sanitarie per tutti. Con liste d’attesa per visite ed esami, in tempi inaccettabilmente lunghi. La sicurezza della convivenza. Che lo Stato deve garantire”. E il pensiero di nuovo ai giovani. “Affermare i diritti significa prestare attenzione alle esigenze degli studenti, che vanno aiutati a realizzarsi. Il cui diritto allo studio incontra, nei fatti, ostacoli. A cominciare dai costi di alloggio nelle grandi città universitarie; improponibili per la maggior parte delle famiglie. Significa rendere effettiva la parità tra donne e uomini: nella società, nel lavoro, nel carico delle responsabilità familiari”. Il pensiero del presidente della Repubblica ha insistito sul concetto di libertà. “Perché la democrazia è fatta di esercizio di libertà. Libertà che, quanti esercitano pubbliche funzioni - a tutti i livelli -, sono chiamati a garantire. Libertà indipendente da abusivi controlli di chi, gestori di intelligenza artificiale o di potere, possa pretendere di orientare il pubblico sentimento. Non dobbiamo farci vincere dalla rassegnazione. O dall’indifferenza”. Soprattutto, Mattarella ha voluto rimarcare il valore della Costituzione. “Ascoltare, quindi; partecipare; cercare, con determinazione e pazienza, quel che unisce”, sono state le parole scelte, “perché la forza della Repubblica è la sua unità. L’unità non come risultato di un potere che si impone. L’unità della Repubblica è un modo di essere. Di intendere la comunità nazionale. Uno stato d’animo; un atteggiamento che accomuna; perché si riconosce nei valori fondanti della nostra civiltà: solidarietà, libertà, uguaglianza, giustizia, pace. I valori che la Costituzione pone a base della nostra convivenza. E che appartengono all’identità stessa dell’Italia”. Valori che Mattarella ha ritrovato girando l’Italia. “Questi valori - nel corso dell’anno che si conclude - li ho visti testimoniati da tanti nostri concittadini. Li ho incontrati nella composta pietà della gente di Cutro. Li ho riconosciuti nella operosa solidarietà dei ragazzi di tutta Italia che, sui luoghi devastati dall’alluvione, spalavano il fango; e cantavano ‘Romagna mia’. Li ho letti negli occhi e nei sorrisi, dei ragazzi con autismo che lavorano con entusiasmo a Pizza aut. Promossa da un gruppo di sognatori”. Guerre, violenza, disuguaglianze: Mattarella fa il discorso più radicale della sua presidenza di Daniela Preziosi Il Domani, 1 gennaio 2024 Il pericolo di assuefarsi alla guerra e la cultura della pace, che non è “neutralità”, la violenza contro le donne e la carezza alla marea di Nonunadimeno. E agli studenti in lotta contro il caro-affitti. Il presidente della Repubblica non parla direttamente della politica italiana, ma disegna un’Italia della solidarietà, della libertà e della partecipazione: le parole “orgoglio” e “identità” ma li svuota di significati sovranisti e divisivi e li riempie con i principi costituzionali. In nome di questi “uniti siamo forti”. Il rischio di assuefarsi alla guerra, la “mentalità di pace” che non è “astratto buonismo ma realismo”, la lotta alla violenza contro le donne, con un messaggio ai giovani, “con parole semplici” su cosa è l’amore. Poco più di sedici minuti, una scenografia semplice, c’è solo il grande albero di Natale nell’inquadratura scelta nella Sala dei Tofanelli, accanto allo studio alla Vetrata, al piano terra della palazzina Gregoriana, l’ala più antica del Quirinale. Nessuno sfarzo, niente lucine intermittenti, non c’è nulla che sfavilli, è un Natale con due guerre molto prossime. Sergio Mattarella anche quest’anno sceglie di stare in piedi (stavolta anzi muove qualche passo in avanti verso le “care cittadine e cari cittadini” a cui si rivolge) per pronunciare il suo nono messaggio di fine anno da capo dello Stato. Il presidente affronta i problemi dal punto di vista generale, ma sarebbe un errore sostenere che si tiene alla larga dell’attualità. Basta ascoltarlo bene. Certo, non fa riferimenti diretti alla politica di casa nostra, e tantomeno alla riforma costituzionale che punta a diminuire i poteri del Colle, come ammesso dal presidente del senato Ignazio La Russa (che poi ha tentato una puntualizzazione che poco poteva aggiustare rispetto alle parole dette). Ma nel finale del suo discorso si sente la preoccupazione nell’invito a smussare i toni delle polemiche. E l’appello a tutta la comunità del paese di restare unita non ha bisogno di interpretazioni: non si tratta dell’invito a uniformare le opinioni, ma un avviso del pericolo di regressione che corre una società diseguale e divisa. E un invito a praticare i valori costituzionali, “valori fondanti della nostra civiltà: solidarietà, libertà, uguaglianza, giustizia, pace”. È questa e non quella sovranista, la definizione di “identità nazionale” per Mattarella. Ed è l’”orgoglio” per questi valori, quello di cui parla il presidente: sembra - sembra, nessuna interpretazione di questo genere viene autorizzata dal Colle, anzi - l’esatto contrario dell’”orgoglio” patriottardo degli auguri di Natale della presidente del Consiglio. Le guerre e la pace - La guerra e la violenza sono il filo conduttore della prima parte del ragionamento. E forse non solo per questo il presidente sorveglia un tono che però non può non lasciare trasparire la preoccupazione. Parla delle guerre “in corso”: cita le devastazione della Russia contro l’Ucraina e l’”orribile e ignobile” attacco di Hamas contro i civili israeliani e - accanto - le migliaia di vittime civili della reazione del governo israeliano e le “moltitudini di persone” di Gaza costrette “ad abbandonare le proprie case, respinte da tutti”. Parla anche delle guerre “evocate e minacciate” - è di queste ore la minaccia della Cina a Taiwan e della Corea del Nord contro quella del Sud -. La guerra “è frutto del rifiuto di riconoscersi tra persone e popoli come uguali” per affermare “un principio di diseguaglianza”, le “macerie non solo fisiche” pesano “sul nostro presente e graveranno su futuro della nuova generazione”. Mattarella fa riferimento al mercato delle armi, così diffuse e “fonte di enormi guadagni”, eppure, per il presidente, la guerra nasce dalla sopraffazione: “È indispensabile fare spazio alla cultura della pace, alla mentalità della pace”, “non astratto buonismo, ma il più urgente e concreto esercizio di realismo se si vuol cercare una via d’uscita a una crisi che può essere devastante per il futuro dell’umanità”. Le guerre devono essere “un’eccezione e non la normalità del futuro”, dice. Ma non è diventato “pacifista” nell’accezione dei movimenti disarmisti: anzi, sottolinea, “per porre fine alle guerre in corso non basta invocare la pace”, serve “la volontà dei governi, anzitutto quelli che hanno scatenato i conflitti” perché “volere la pace non è neutralità”. La cultura di pace va coltivata “nei gesti della vita di ogni giorno, nel linguaggio che si adopera”. La violenza contro le donne e i diritti - Di qui Mattarella torna - lo ha fatto spesso in quest’ultimo anno - sulla violenza “più odiosa”, quella contro le donne. Stavolta usa parole “semplici”, dirette ai ragazzi, sull’amore “quello vero”: che “non è egoismo, dominio, malinteso orgoglio”, “è ben più che rispetto”. La violenza è anche “espressione di rabbia, il risentimento che cresce nelle periferie” frutto “del sentimento di abbandono”, e “la tendenza a identificare nemici”, spesso “travolgendo il confine che separa il vero dal falso”. Parole che si riferiscono ai fenomeni in rete, non solo italiani: ma anche qui è difficile non pensare alle dinamiche dello scontro fra maggioranza e opposizione. Un clima di scontro che rende più difficile affrontare i problemi concreti delle famiglie e dei cittadini: il lavoro “che manca, pur in presenza di un significativo aumento dell’occupazione”, quello “sottopagato”, quello “a condizioni inique e di scarsa sicurezza, con tante e inammissibili vittime”; le “immani differenze di retribuzione fra pochi super privilegiati e tanti che vivono nel disagio”, il diritto universale alla salute minato da “liste di attesa per visite ed esami in tempi inaccettabilmente lunghi”, la “sicurezza della convivenza che lo stato deve garantire, anche contro il rischio di diffusione delle armi”. Anche qui è difficile non farsi venire in mente l’ultima pensata di un senatore di Fdi, quella di consentire anche ai sedicenni di andare a caccia, quindi di portare legittimamente un’arma: proposta già ritirata dal governo, e comunque tentata dalla destra. I giovani non sono quelli da armare, sono quelli che dovrebbero coltivare il futuro, e invece “si sentono estranei a un mondo che non possono comprendere”, “un disorientamento” che nasce da “un mondo che disconosce le loro attese”, la citazione a mo di esempio è la questione ambientale. I diritti preesistono - “Quando la nostra Costituzione parla di diritti, usa il verbo “riconoscere”: significa che i diritti umani sono nati prima dello Stato ma anche che una democrazia si nutre prima di tutto della capacità di ascoltare”. Il passaggio molto politico: “Occorre coraggio per ascoltare, e vedere situazioni finora ignorate”, “realtà a volte difficili da accettare”: i fragili “rimasti isolati” nella società della “cultura dello scarto” - l’omaggio all’”instancabile magistero” di papa Francesco è esplicito - gli anziani, gli studenti “che vanno aiutati a realizzarsi, il cui diritto allo studio incontra ostacoli, a cominciare dai costi degli alloggi” nelle città universitarie “improponibili per la maggior parte delle famiglie”, l’effettiva parità fra uomini e donne, i migranti. Ed è alla voce diritti che il presidente torna sulla questione dell’Intelligenza artificiale, come aveva fatto già nel discorso alle alte cariche dello Stato: “Ci troviamo nel mezzo di quello che verrà ricordato come il grande balzo storico dell’inizio del terzo millennio. Dobbiamo fare in modo che la rivoluzione che stiamo vivendo resti umana. Cioè, iscritta dentro quella tradizione di civiltà che vede, nella persona - e nella sua dignità - il pilastro irrinunziabile”. L’orgoglio per i valori costituzionali - Il finale è sui “valori”: la solidarietà, “la partecipazione attiva alla vita civile, a partire dall’esercizio del diritto di voto” che non è “rispondere a un sondaggio, o stare sui social”, la democrazia che è “esercizio di libertà”, libertà “che, quanti esercitano pubbliche funzioni sono chiamati a garantire”, libertà “da abusivi controlli di chi, gestori di intelligenza artificiale o di potere, possa pretendere di orientare il pubblico sentimento”. Libertà che è un “diritto di partecipare alla vita della comunità” prima che “un dovere”, “anche un diritto al futuro”. Il presidente torna per l’ennesima volta sull’evasione che “riduce le risorse per la comune sicurezza sociale. E ritarda la rimozione del debito pubblico; che ostacola il nostro sviluppo”. E invece “contribuire alla vita e al progresso della Repubblica, della Patria, non può che suscitare orgoglio negli italiani”. Mattarella usa lo stesso termine usato dalla premier Meloni nel suo video di auguri natalizi (“Siano feste di serenità e orgoglio”), una delle poche che sappiamo di lei in questi giorni di malattia e silenzio. Ma ne sostanzia il significato, ribaltando la retorica sovranista e divisiva: “La forza della Repubblica è la sua unità”, dice Mattarella, “L’unità non come risultato di un potere che si impone” ma come modo “di intendere la comunità nazionale”, “un atteggiamento che accomuna; perché si riconosce nei valori fondanti della nostra civiltà: solidarietà, libertà, uguaglianza, giustizia, pace”. In nome della Costituzione. Il finale sono esempi di pratica dei valori costituzionali “che appartengono all’identità stessa dell’Italia”. Ed anche qui il presidente usa un termine caro alla destra, l’”identità”, ma lo sostanzia con la pratica dei valori: “Li ho incontrati nella composta pietà della gente di Cutro”, “nella operosa solidarietà dei ragazzi di tutta Italia che, sui luoghi devastati dall’alluvione, spalavano il fango; e cantavano ‘Romagna mia’”, “negli occhi e nei sorrisi, dei ragazzi con autismo che lavorano con entusiasmo a Pizza aut”, “di quelli che lo fanno a Casal di Principe, laddove i beni confiscati alla camorra sono diventati strumenti di riscatto civile (...) tenendo viva la lezione di legalità di don Diana”, “nel radunarsi spontaneo di tante ragazze, dopo i terribili episodi di brutalità sulle donne. Con l’intento di dire basta alla violenza”: parla della marea di Nonunadimeno, e così chiude le tante polemiche della destra su quelle manifestazioni. E poi nell’impegno di “donne e uomini in divisa”, nelle persone “che, lontano dai riflettori della notorietà, lavorano per dare speranza e dignità a chi è in carcere”, “chi ha lasciato il proprio lavoro per dedicarsi a bambini, ragazzi e mamme in gravi difficoltà”, “le loro storie raccontano già il nostro futuro” “ci dicono che uniti siamo forti”. Giulia Cecchettin, un dolore privato si trasforma in lutto pubblico di Marco Imarisio Corriere della Sera, 1 gennaio 2024 Il femminicidio tra due studenti ha avuto un impatto senza precedenti. Le parole della sorella e del padre, che hanno mantenuto riservatezza e riserbo su sé stessi e la loro storia. Gli ultimi metri sono stati rivelatori di quanto poco sapevamo, e sappiamo. Dalla piccola chiesa di Saonara fin dentro il cimitero, fin davanti alla fossa e al cumulo di terra fresca coperto da un telo industriale. Camminando, osservando, sono emersi parenti sconosciuti, zie suore che piangevano, un nonno in disparte che chiedeva aiuto perché le stampelle si piantavano nel fango, cugine mai nominate che si guardavano anche loro intorno con aria spaesata. Carla Gatto, la nonna accusata anch’essa di parlare troppo, di aver presentato un suo libro scritto in precedenza e di aver troppo sorriso, era accanto al padre e ai due figli, ma sembrava separata da loro, mai uno sguardo, mai una mano che si allungava verso di lei. Quando è arrivato il momento di lasciare questa storia, i media, noi compresi, si sono chiesti se davvero, al termine di un interminabile novembre, potevamo dire infine di conoscere davvero i Cecchettin e la loro storia. Cosa sono stati e cos’erano, prima. Ma poco importa. Hanno mantenuto riservatezza e riserbo su sé stessi e la loro storia. Per proteggersi dalla marea montante, dell’interesse generale, della morbosità, degli elogi e degli insulti. Non dovevano spiegazioni a nessuno. E non hanno mai avuto interesse a presentarsi come la famiglia del Mulino Bianco. Hanno soltanto lasciato congetture e illazioni al resto dell’Italia che li osservava. Senza curarsi troppo di quel che si diceva di loro sui social, sulle divisioni causate dal loro impegno a trasformare un lutto devastante in un momento di riflessione collettiva. Almeno a questo è servita la morte di Giulia. Una ragazza di ventidue anni, uccisa da un suo coetaneo, appartenente a una generazione che ci si illudeva fosse immersa in una narrazione diversa da quella del possesso e del controllo sulla donna. La settimana di vana attesa prima del ritrovamento del suo corpo straziato da 26 (ventisei) coltellate ha funzionato come sempre da detonatore dell’interesse mediatico intorno a una vicenda in fondo non dissimile da tante altre, se non per la diversa età di assassino e vittima. Due studenti di buona famiglia spariti nel nulla. Una delle zone più produttive e agiate del Paese. Il sospetto indicibile che non si può dire e scrivere. Gli appelli senza speranza. Le ricerche inconcludenti. Poi, in rapida sequenza, la testimonianza di un vicino di casa, il filmato di una aggressione, le tracce dell’auto. Un giallo, bisognava considerarlo tale, soltanto che la fine era purtroppo nota. Fino al mattino del 18 novembre, quando il cadavere di una giovane donna è stato ritrovato in fondo a un dirupo vicino al lago di Barcis, in provincia di Pordenone. Quale fosse il suo nome, era chiaro a tutti, ancora prima della conferma dei Carabinieri. Da quel giorno, è come se fosse cominciata un’altra vicenda, che è sembrata coinvolgere l’Italia intera. Poche volte un delitto ha avuto un impatto così forte sul piano culturale, mediatico e anche politico. Il dibattito e gli opposti furori intorno al padre Gino e alla sorella Elena, dapprima la più decisa e rabbiosa nel rivendicare la matrice sociale di quel delitto orrendo, hanno trasformato un dolore privato in un lutto pubblico. E ancora, la cattura del colpevole, reo confesso, il rimpatrio, il carcere, l’interrogatorio, i dettagli del suo gesto orrendo. In tutto questo, qualcosa è andato perduto. Come spesso accade quando una vicenda di cronaca nera diventa patrimonio di tutti, generando un dibattito pubblico, la vittima esce dalla memoria collettiva. Diventa un nome, un simbolo. Colpa di nessuno, ma è così. Il destino postumo di Giulia non è stato diverso da quello di altre vittime della recente storia criminale d’Italia. Chi era davvero, quali erano i suoi desideri, cosa pensava. A mettere insieme tutti i frammenti e le testimonianze di questo lungo mese, non ne esce mai un ritratto completo. E forse, non potrebbe essere altrimenti. Ma forse è anche giusto farlo, ancora una volta, l’ultima. Era nata a Saonara, dove oggi riposa poco distante dalla sua mamma. L’ultimo comune di Padova prima della provincia di Venezia. Una bambina quieta, così l’ha ricordata il padre Gino. Aveva fatto il liceo classico al Tito Livio di Padova, la scuola più prestigiosa del capoluogo, che ebbe tra i suoi molti allievi illustri anche il futuro Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Era piccola di statura, minuta, spesso taciturna. Si era diplomata con il massimo dei voti. Aveva scelto di studiare ingegneria, ma non si vedeva a progettare ponti e palazzi. Nei suoi ultimi anni, aveva deciso che dopo la laurea, che stava per conseguire con quasi un anno di anticipo, si sarebbe iscritta a un corso di disegno. La sua vera passione. A una amica aveva confidato di avere in testa un libro di illustrazioni per bambini. Amava passeggiare, ogni tanto veniva presa in giro perché un po’ impacciata a sciare. Diversamente sportiva, diceva di sé. Aveva il dono dell’autoironia. Si prendeva poco sul serio, anche se avrebbe potuto farlo, dotata com’era di una intelligenza che i suoi insegnanti, fin dalle elementari giudicavano fuori dalla norma. Giulia aveva convissuto con il dolore più grande che una figlia possa immaginare. La madre Monica, alla quale somigliava in modo impressionante, si era ammalata nel 2016. Diagnosi fin da subito infausta, come si usa dire. Era mancata il 20 ottobre del 2022. Poco prima, Giulia aveva lasciato una prima volta l’uomo che poi la ucciderà. Sentiva di non avere testa per una relazione impegnativa, come invece le veniva richiesto da lui. Tutto quel che è venuto dopo, la ripresa del fidanzamento, un nuovo addio, il senso di colpa per lui che stava male, aveva a che fare con una elaborazione del lutto ancora da compiere, almeno così hanno sostenuto gli esperti che si sono cimentati nell’interpretazione di questa dinamica di coppia. Ma chissà poi se è vero. Il ritratto più intimo, che più di ogni altro ha restituito l’entità della perdita, è stato letto nella piccola chiesa di Saonara dalla sorella Elena, così diversa e così simile da lei. E in qualche modo è sembrato giusto che a farlo fosse la persona che per prima ha dato una dimensione politica e collettiva alla sua morte, attirandosi addosso critiche e attacchi feroci. Giulia alla quale era semplice fare regali, perché la divertiva qualunque cosa vagamente buffa e carina. Giulia che non buttava via mai niente, nemmeno le cose rovinate. Che collezionava scatole di latta per riempirle di altre scatole. Che non amava decidere, nemmeno il gusto del gelato. Giulia che amava la letteratura inglese e Jane Austen, e con lei sognava di andare a vedere la brughiera. Giulia che aveva una paura irrazionale delle cimici, Giulia che si dimenticava sempre le chiavi, e una volta tentando di entrare dal cancello si era strappata il cappotto e la felpa. Era sua la sua sorellina, ha detto Elena tra le lacrime, ma anche la sua sorella maggiore. Dopo la morte della madre era rimasta a casa, finendo per occuparsi del padre e del fratello minore. Aveva dovuto diventare adulta in fretta, ma continuavano a collezionare pelouche ai quali dava nomi assurdi. Giulia che era una promessa di vita. In questi primi giorni d’inverno, dalla casa dei Cecchettin si vede un panorama grigio e lattiginoso, con l’orizzonte chiuso da un cantiere in costruzione. Sul cancello esterno, qualcuno lascia ancora dei biglietti, che suo padre ritira alla sera. Lui ed Elena hanno promesso di andare avanti in quello che è giusto. Giulia non lo saprà mai. Ma il suo nome continua a irradiare luce. 2024, gara a ostacoli per le democrazie di Stefano Stefanini La Stampa, 1 gennaio 2024 Il massiccio attacco russo contro le città ucraine è preludio alle prove che ci attendono nel 2024. Fra una manciata di ore, in rapida successione, i cieli si accenderanno spettacolarmente da Sydney a Los Angeles. Gioiamone ma non dimentichiamo quelli di Kiev e di Odessa, tetramente illuminati dai bombardamenti di razzi e droni e dai tracciati della contraerea ucraina. Un’autocrazia bombarda una democrazia. Il 2024 sarà per le democrazie una corsa ad ostacoli sui quali le autocrazie sperano di vederle inciampare. Per i Paesi democratici, fra cui l’Italia che ha un ruolo importante con la presidenza del G7, un anno in cui il successo si misurerà dal superamento delle sfide di cui sono irti i prossimi 12 mesi. Con due grosse guerre in corso, rischi di escalation e di nuove crisi, e una cinquantina di nazioni alle urne, abbraccianti circa la metà della popolazione mondiale, la lista di ostacoli è lunga. Israele e Ucraina non sono gli unici conflitti a insanguinare il pianeta, basti pensare al Sudan e a Myanmar, a tanti più o meno a bassa intensità in Africa, ma sono quelli che mettono a rischio gli equilibri mondiali. In Medio Oriente, dopo l’eccidio di Hamas del 7 ottobre, la guerra dentro Gaza sta provocando una catastrofe umanitaria che rischia di pesare a lungo sulle coscienze, pur senza mettere in discussione il diritto all’autodifesa di Israele. Gli equilibri regionali sono scossi a favore dell’Iran, ma non alterati irrevocabilmente a condizione che il conflitto non si allarghi, specie al Golfo e al Mar Rosso mettendo a repentaglio i traffici commerciali ed energetici mondiali. Più presto ha termine questo tipo di offensiva israeliana contro Hamas, meglio è. A quel punto il cosa fare con Gaza diventerà un nodo cruciale del 2024. Seguirà in tempi più lunghi quello dello Stato palestinese. Più difficile immaginare che le armi tacciano in Ucraina in un prossimo futuro. I recentissimi bombardamenti sono il corollario del discorso di fine anno di Vladimir Putin. Di valenza strategica minima ma di scopo intimidatorio, confermano l’obiettivo di assoggettare Kiev ai voleri di Mosca, premessa allo scardinamento delle strutture portanti di tre quarti di secolo di pace in Europa, Ue e Nato. La tenuta, militare, politica ed economica, dell’Ucraina, oggi Paese candidato Ue, diventa per l’Europa la principale priorità dell’anno prossimo. La Russia accetterà un cessate il fuoco solo quando convinta che non ci sarà né resa ucraina né abbandono dell’Occidente. Dal canto suo Kiev ha bisogno di essere sicura che l’aggressione russa non si ripeterà. L’unica garanzia affidabile è la Nato. Il vertice di Washington dovrebbe prendere seriamente in considerazione l’invito a Kiev. Con significative eccezioni - nessuno perderà ore di sonno in attesa delle urne russe il 15-17 marzo - le elezioni sono un esercizio di democrazia. Ben venga il fitto calendario del 2024, a cominciare dalla più grande democrazia del mondo, l’India che vota in aprile-maggio pur su una deriva pregiudizialmente favorevole a Narendra Modi. Tre appuntamenti saranno cruciali. Il 14 gennaio vota Taiwan. Lo spartiacque è fra indipendentisti e (relativamente) accomodanti verso Pechino. La Cina non vuole che il futuro di Taiwan sia determinato dai…taiwanesi. Come reagirà? Sono elezioni che possono avere ripercussioni sulla stabilità dell’Indo-Pacifico. A giugno si vota nell’Ue. In genere le elezioni europee, pur avendo peso legislativo, non cambiano molto nelle politiche dei governi né in quelle della stessa Unione. Le prossime si profilano tuttavia come una sfida della galassia sovranista e populista, con non nascoste correnti antiatlantiche e filorusse, alla filosofia comunitaria dei partiti tradizionali. Il nuovo Parlamento europeo avrà poi voce in capitolo nella formazione della nuova Commissione in autunno. Il test europeo, pur importante, impallidisce di fronte a quello americano del 5 novembre, ultimo e più alto ostacolo della corsa delle democrazie nel 2024. Se Donald Trump sarà il candidato repubblicano - rimane nettamente il favorito malgrado l’ascesa di Nikki Haley - gli Stati Uniti avranno un Presidente che governerebbe da autocrate con pochi freni. Sono americani di fede repubblicana, come Robert Kagan, a dirlo. A parte le conseguenze per la Nato, l’Europa e l’Ucraina, la grande sconfitta sarebbe proprio la democrazia americana. È l’inciampata in cui molti autocrati, da Vladimir Putin a Viktor Orban, sperano. Solo fra undici mesi sapremo se tirare un sospiro di sollievo. Iran. Slogan e canti, i giudici “processati” dalle detenute nel carcere di Evin di Luciana Borsatti huffingtonpost.it, 1 gennaio 2024 Un gruppo di prigioniere di coscienza accoglie la visita dei magistrati nel reparto femminile dove è reclusa anche la Premio Nobel Narges Mohammadi e costringe le guardie a metterli al sicuro in una stanza. “Fermate la macchina della morte e il ciclo di violenza contro la gente di questa terra”. “Processati” e costretti ad andarsene da un gruppo di detenute del carcere di Evin, dove sono reclusi un gran numero di prigionieri politici e di coscienza, fra i quali il Premio Nobel per la Pace Narges Mohammadi. È accaduto a un gran numero di magistrati e funzionari dei settori Giustizia e Sicurezza, che il 27 dicembre si erano recati per una visita nel reparto femminile della nota prigione di Teheran. Fra i giudici il capo della sezione 28 della Corte Rivoluzionaria Mohammad Reza Amouzad, che aveva condannato a morte Mohsen Shakeri - il primo a finire sul patibolo tra i manifestanti del movimento Donna Vita Libertà, Nel gruppo vi erano anche il capo della sezione 26, Iman Afshari, il responsabile ad interim della Corte di sicurezza, Ali Qanatkari, e il capo della magistratura della Provincia di Teheran, Alqasi-Mehr. A riferire l’episodio quasi in presa diretta è un resoconto fatto pervernire dalle celle dello stesso carcere, e pubblicato anche sulla pagina Instagram in persiano della stessa Narges Mohammadi, dove si parla con soddisfazione di un vero processo messo in atto dalle detenute e di una “fuga” dei magistrati. Dopo avere saputo dell’arrivo di alcuni giudici responsabili delle condanne più pesante contro attivisti e manifestanti, le detenute sono entrate nel corridoio dello staff su cui affacciano le stanze dove questi erano riuniti, e a far sentire le proprie voci contro la repressione, le carceri, la detenzione, la tortura e le esecuzioni. Non appena hanno cominciato a cantare in coro alcuni inni - fra i quali l’italiana “Bella Ciao”, ormai una canzone di rivolta anche in persiano - le guardie hanno chiuso le porte dall’interno. Una delle prigioniere, cercando di entrare, si è trovata con le dita incastrate nello stipite della porta: ma le guardie, nonostante l’ordine di soccorrerla - prosegue il racconto - non le hanno prestato attenzione. Non appena altre nove donne sono entrate nel corridoio, anche la porta che lo separa dalle sezioni è stata chiusa a chiave, lasciando fuori le altre prigioniere. Ma tutte gridavano “Morte al dittatore” “Morte alla Repubblica islamica” “Donne, vita, libertà”. E cantavano anche “Khoon Arghavanha” (un inno del movimento di sinistra della rivoluzione del 1979, dedicato al sangue dei martiri e alla luce della libertà dopo il buio) e altre canzoni nate dopo la morte di Jina Mahsa Amini. Anche il nome di Mohsen Shekari (dopo di lui sono stati una decina i manifestanti giustiziati) è risuonato decine di volte nel reparto femminile. Mentre il numero delle guardie aumentava, i funzionari della prigione chiedevano alle detenute di andarsene, insistendo sul fatto che si potevano chiedere informazioni solo sui propri casi. Ma loro erano lì, hanno risposto le detenute, per “dichiarare che l’autorità giudiziaria deve fermare la macchina della morte”, come “il mortale ciclo di violenza contro la gente di questa terra”. Una richiesta avantata, si sottolinea nel resoconto, con lo stesso metodo di resistenza e lotta contro l’oppressione usato nelle strade, e con un chiaro messaggio ai giudici: “Un giorno sarete ritenuti responsabile di tutti i vostri crimini disumani”, perché “avete ucciso persone innocenti, avete giustiziato, torturato e imprigionato.” Nel momento in cui le detenute venivano circondate e respinte dalle forze di sicurezza, e alcune cadevano a terra a poca distanza dalla stanza della loro riunione, i giudici - che per tutto quel tempo erano rimasti chiusi, senza far udire alcuna voce - si allontanavano dal reparto femminile, inseguiti dalle grida “Assassino, vattene!” e “Donne, vita, libertà”, finché le porte del carcere non si sono chiuse alle loro spalle. Questo era “il momento sognato di mettere i criminali a processo e chiedere giustizia - conclude il resoconto-. È stato un momento potente, che riflette la volontà del popolo e la rottura del muro della tirannia”. In un commento al post sulla pagina Instagram di Narges Mohammadi una nota aggiunge che, benché non vi siano registrazioni né foto di quanto accaduto, le voci delle detenute resteranno bene impresse nelle menti dei giudici. L’episodio conferma quanto va dicendo da tempo la stessa Premio Nobel tramite i messaggi che riesce a far giungere alla famiglia dal carcere, come quello letto dai due figli durante la cerimonia di premiazione dell’11 dicembre scorso a Oslo: è la società civile, che si mobilita dall’interno dell’Iran e anche dalle sue carceri, la vera anima della lotta per il cambiamento del sistema politico del Paese. E le sue voci più autentiche, come ribadito in una recente intervista anche dal marito Taghi Rahmani, sono quelle di “studenti, insegnanti, attori del cinema, attivisti sindacali e personaggi politici in carcere o agli arresti domiciliari, detenute delle carceri femminili”, che stanno prendendo sempre più coraggio e determinazione.