Nordio disertore del garantismo di Ilaria Dioguardi vita.it, 19 gennaio 2024 Abbiamo messo a confronto le parole del Guardasigilli pronunciate un anno fa e quelle pronunciate l’altro ieri, in occasione della relazione sull’amministrazione della giustizia. Un anno fa il Guardasigilli affermava di voler “attuare, nel modo più rapido ed efficace, il garantismo del diritto penale”. Trecentosessantacinque giorni dopo, di fronte ai suicidi e al disagio psichico dei detenuti, il ministro mostra la sua impotenza. Il ministro si dichiara, come un anno fa, “affranto dal fardello di dolore dei suicidi in carcere”, afferma che il problema del sovraffollamento carcerario si risolverà solo quando il carcere avrà una “funzione rieducativa” e che il suicidio è “un fenomeno che esiste, diffuso in tutto il mondo”. Le promesse di inizio mandato - Esattamente un anno fa, nel corso della relazione in Senato sull’amministrazione della giustizia, il ministro della Giustizia Carlo Nordio affermava: “Realizzeremo la tutela della presunzione di innocenza della persona, assicurandone la dignità e l’onore durante le indagini e il processo. E, parallelamente, assicureremo la certezza della pena. Una pena che non coinciderà sempre e solo con il carcere, ma che sarà comunque afflittiva, certa, rapida, proporzionata e orientata al recupero del condannato, secondo il nostro dettato costituzionale”. Ieri, nella relazione sull’amministrazione della giustizia, prima alla Camera e poi al Senato, la funzione rieducativa è ritornata più volte nelle parole del Guardasigilli, che ha affermato: “Non riusciremo a risolvere il problema del sovraffollamento carcerario, della tensione all’interno del carcere, della presenza di violenze nei confronti della polizia penitenziaria, dei detenuti tra di loro, dei detenuti verso se stessi (che culmina nel suicidio) se non riportiamo il carcere a quella che è la funzione essenzialmente rieducativa”. Per quanto riguarda il problema del sovraffollamento, il Ministero sembra essere un po’ in alto mare: “Stiamo cercando di capire come si possano trovare delle carceri (costruire un carcere in Italia è impossibile, in tempi brevi) utilizzando delle strutture dismesse, che possono essere le vecchie caserme o altre, che siano compatibili con la situazione carceraria e che diano lo spazio per lo sport e per il lavoro all’interno dell’istituto penitenziario”. Nel 2024 già sei persone si sono suicidate in carcere. A queste morti vanno aggiunte le 14 catalogate come “morti per cause naturali”. 18 morti nei primi 14 giorni dell’anno sono il preannuncio di un andamento molto simile a quello del 2022, quando si contarono 84 suicidi nel corso dell’anno, otto nel mese di gennaio. Il ministro Nordio un anno fa affermava: “Un altro problema è quel fardello di dolore che è costituito dai suicidi in carcere. Qui noi abbiamo e stiamo attuando tutta una politica, anche attraverso l’accordo con le regioni, gli enti locali e le strutture sanitarie, per evitare o quantomeno ridurre questo fenomeno che purtroppo è comune a tutte le parti del mondo ma che in Italia ha assunto soprattutto negli ultimi tempi dei toni di estremo allarme”. A un anno di distanza, nella relazione di ieri sull’amministrazione della giustizia, presentata prima alla Camera e poi al Senato, il Guardasigilli ha dichiarato di nuovo, come l’anno scorso, di essere “affranto dal fardello di dolore dei suicidi in carcere”. Ha sottolineato che “quest’anno, per la prima volta, vi è una flessione, sia pure minima, di questi episodi drammatici, di circa il 15%. Non è una bella notizia, ma ci può incoraggiare nell’andare nella direzione giusta”. I suicidi in carcere sono stati 84 nel 2022, 69 nel 2023. Un anno fa Nordio diceva che “oltre al miglioramento delle detenzioni detentive mediante l’aumento del numero dei posti disponibili e la conseguente diminuzione dell’indice di sovraffollamento nelle carceri, l’amministrazione si è posta l’obiettivo di dare un massimo impulso alla implementazione di spazi per le attività del cosiddetto “trattamento” nei confronti dei detenuti. Questo è orientato essenzialmente al lavoro”. E ancora: “Stiamo attuando un progetto per assicurare il lavoro a chi esce dal carcere, attraverso la defiscalizzazione delle retribuzioni a chi ottiene l’impiego una volta espiata la pena”, affermava il Guardasigilli. “È essenziale che all’interno del carcere vi sia questo sfogo del lavoro. È essenziale che a questa attività lavorativa all’interno del carcere segua un’attività conseguenziale, in modo che quando il detenuto esce, una volta espiata la pena, sappia di trovare un lavoro dignitoso e attui la “recidiva zero”. Il ministro Nordio dichiarava anche che le statistiche dimostrano che “quando una persona ha lavorato in carcere e fuori trova lavoro dignitoso, la recidiva è destinata a scomparire. Per quanto riguarda la giustizia minorile, l’obiettivo è quello di attuare il più possibile quella forma di giustizia di comunità o giustizia riparativa”. Le buone intenzioni e le iniziative concrete - Le buone intenzioni del Ministero sembravano (e sembrano) esserci, quello che sembra mancare sono iniziative concrete. Per il lavoro, ha detto ieri il Guardasigilli, “non cerchiamo soltanto di portarlo all’interno del carcere attraverso la funzione rieducativa del detenuto, cerchiamo di portarlo all’esterno, cioè di trovare un lavoro a chi domani venga liberato, e si possa smarcare da questo che il “marchio di Caino” della detenzione che ha sofferto e possa trovare un lavoro dignitoso, decoroso che elimini o riduca di gran lunga la possibilità di recidiva”. Di nuovo, ieri Nordio ha fatto riferimento alle statistiche, dalle quali “sappiamo che se quando una persona esce dal carcere e non trova lavoro viene buttato sulla strada, prima o dopo ritorna a delinquere e ritorna ad aumentare il problema del sovraffollamento carcerario. Se, invece, viene educato al lavoro e riesce a ritrovarlo una volta liberato, questo rischio non viene eliminato ma viene di gran lunga ridotto”. “Che cosa intende fare il ministro per affrontare la drammatica emergenza in cui versa il sistema carcerario italiano a causa del sovraffollamento e della carenza di risorse umane?”. A chiederlo ieri è stata Maria Chiara Gadda, vice-presidente di Italia Viva alla Camera, nel corso del question time con il ministro della Giustizia Carlo Nordio. “Nei primi 15 giorni del 2024 sono deceduti 20 detenuti, sei si sono suicidati. Tra pochi giorni l’associazione Nessuno tocchi Caino inizierà uno sciopero della fame (Satyagraha, ndr) per denunciare le gravi carenze strutturali, di personale, le enormi difficoltà della gestione sanitaria degli istituti, anche considerata l’elevata presenza di detenuti con problemi di dipendenze e affette da disagi psichiatrici. In molti casi il sovraffollamento supera punte del 200%. Le poche centinaia di assunzioni di polizia penitenziaria effettuate non riescono a colmare le carenze di organico stimate in oltre 18mila unità”, ha proseguito Gadda. “Ma quello che è più grave, nelle carceri italiane mancano educatori, magistrati di sorveglianza, addirittura direttori. Senza queste figure non si possono fare quelle attività come lo sport, la formazione, il lavoro dentro e fuori dalle carceri, indispensabili per azzerare la recidiva. Nessuna soluzione è stata prospettata dal ministro Nordio anche rispetto alla elevatissima presenza in carcere di detenuti con problemi di salute mentale e dipendenze, per i quali il carcere non ha alcuna valenza rieducativa e anzi è concausa delle difficili condizioni di vita e lavoro per gli operatori”. Quella frase sul suicidio - “Ho vissuto il problema dei suicidi in carcere da magistrato. Ho vissuto il problema di suicidi di indagati non in carcere da magistrato, ho vissuto il problema dei suicidi di persone agli arresti domiciliari da magistrato. Non è solo il carcere che provoca il suicidio. Anche un’ingiusta indagine, un’ingiusta detenzione, seppure domiciliare, determina lo shock psicologico. È un discorso che va affrontato a monte privilegiando finalmente la presunzione di innocenza. Questo in linea strategica”, ha affermato ieri, in risposta alla ministra Gadda, il ministro Nordio. “Per quanto riguarda l’aspetto pratico, noi dobbiamo alleviare la tensione carceraria che riguarda sia i detenuti sia la polizia penitenziaria attraverso l’ampliamento degli spazi, che non sono spazi soltanto fisici, ma anche psicologici. Se uno può lavorare, giocare a pallacanestro, fare una partita di calcio non è perché il carcere diventa una PlayStation. La funzione del diritto penale è non lasciare il diritto impunito e non condannare l’innocente. La pena deve essere certa, ma deve essere proporzionata, immediata, deve tendere alla rieducazione del condannato, non deve essere afflittiva oltre il senso dell’umanità. Tutto questo è perfettamente compatibile. Occorre trovare il mezzo, il sistema. Noi siamo apertissimi a qualsiasi soluzione”, ha continuato Nordio. “Tenete conto che abbiamo davanti a noi una marea di persone che, sentendosi vittima di reato, invocano addirittura pene esorbitanti. Se una persona che è una vittima di reato vede che chi ha commesso quel reato non va a espiare la pena, commette un reato anche lui: è un discorso puramente utilitaristico, che coincide con l’etica. Noi dobbiamo batterci, e io lo farò fino alla fine, per evitare questo fenomeno drammatico dei suicidi”. All’interrogazione a risposta immediata di ieri dell’onorevole Flavio Tosi, riguardo alle iniziative in relazione al fenomeno del sovraffollamento carcerario (anche alla luce di recenti casi di suicidio nella casa circondariale di Verona), il ministro Nordio ha risposto che “purtroppo i suicidi in carcere sono diffusi in tutto il mondo perché lo shock psicologico della detenzione, della privazione della libertà e di quello che ne consegue, per molte persone, è intollerabile. Questo non significa sottovalutare il fenomeno, tantomeno essere rassegnati al fenomeno, ma prendere atto che è un fenomeno che esiste. Esiste come la malattia e come altre negatività della nostra esistenza. Sono state prese azioni di coordinamento con le autorità sanitarie locali e con le comunità terapeutiche. Il problema vero è che, nella detenzione, vi sono situazioni di disagio psicologico e psichiatrico che si sono sedimentate nei decenni. Lo dico da ministro e da ex magistrato”, ha proseguito Nordio. “Stiamo provvedendo. Sono state divulgate informazioni ai provveditorati regionali e a tutte le direzioni degli istituti penitenziari per creare i presupposti per alleviare in via preventiva queste situazioni di disagio psichico. Abbiamo fatto assunzioni, stiamo facendo interpelli, accordi con le regioni. La situazione dei carcerati che hanno disagi psichici (che poi sono quelli che sono all’origine dei suicidi) è per metà di competenza nostra e per metà di competenza regionale. Occorre avere una sinergia con le regioni, è dal primo giorno che ci stiamo occupando di questo, un primo risultato è stato raggiunto. Non siamo contenti. Se avessimo carceri con maggiore spazio, con maggiori possibilità di lavoro e sport, i suicidi sarebbero forse, se non evitati, ridotti”. Le dichiarazioni del ministro Nordio sono state criticate dalle opposizioni per non aver fornito proposte concrete per i problemi più urgenti. Il nuovo reato di non-violenza di Luigi Manconi La Repubblica, 19 gennaio 2024 Un nuovo articolo punisce gli atti di “resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti” commessi da detenuti. Nella sua foia legiferante e nella sua irresistibile produzione di nuovi reati (in termini sofisticati: panpenalismo), il governo Meloni ha raggiunto un altro primato. Tra le quindici inedite fattispecie penali introdotte o in via di introduzione c’è una norma che, secondo il giurista Paolo Borgna, non ha precedenti nei codici degli stati democratici. È quella prevista dall’art. 18 del disegno di legge in materia di sicurezza, approvato dal Consiglio dei Ministri qualche settimana fa. Quell’articolo intende punire gli atti di “resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti”, commessi da detenuti. Si consideri quel “anche passiva”. Ciò significa, a esempio, che un recluso sollecitato a consumare il pasto, se si rifiutasse di farlo, sarebbe sanzionato, e pesantemente. È una disposizione davvero inquietante: innanzitutto perché pretende di interferire con la sfera più intima dell’individuo. Quella, cioè, dove vengono assunte le decisioni più delicate, dove si esercita il libero arbitrio, dove si sceglie di obbedire o dissentire, di accettare o rifiutare, di conformarsi o astenersi. Ovvero qualcosa che appartiene ai fondamenti stessi della personalità umana. C’è, poi, un’altra ragione che rende odiosa quella norma: nel faticosissimo e impervio processo di emancipazione dalla mentalità delinquenziale la “resistenza anche passiva” - ovvero la rinuncia alla violenza - rappresenta, per il detenuto, una tappa fondamentale della presa di coscienza e dell’integrazione in un sistema di relazioni sociali non criminali. Di conseguenza, il recluso che si astiene dal cibo o che non si reca in cortile per l’ora d’aria può essere sanzionato penalmente e, così, ricacciato indietro, in una dimensione dove la sola risorsa per affermare i propri diritti apparirà il ricorso alla forza. Contro altri o contro sé stessi. Nel 2023 i suicidi sono stati 68, l’anno precedente 84. Nel corso dei primi dieci giorni del 2024 già 2 detenuti si sono tolti la vita e un terzo è deceduto a seguito di uno sciopero della fame. La vicenda più tragica - semmai fosse possibile una gerarchia dell’orrore - è quella di Matteo Concetti, uccisosi mentre si trovava in una cella di isolamento del carcere di Ancona Montacuto: e appena poche ore dopo che i suoi familiari si erano rivolti a tutte le autorità e a tutte le istituzioni che un genitore può immaginare di sensibilizzare per salvare la vita di un figlio. Concetti, 23 anni, aveva un disturbo bipolare e un sofferto passato di borderline, tra microcriminalità e dipendenze, tra ricoveri e comunità. Avrebbe dovuto scontare ancora otto mesi e, dopo un periodo in regime di detenzione domiciliare, era stato riportato in cella a causa del ritardo di un’ora nel ritorno alla propria abitazione. Leggete l’intervista rilasciata dalla madre di Concetti, Roberta Faraglia, ad Alessandra Ziniti su queste pagine. È un eccezionale documento di amore genitoriale e, allo stesso tempo, di dignità umana e di intransigente coscienza civile. Vi si trova un dolore immenso e un rigoroso atto di accusa contro il sistema penitenziario e la sua natura patogena e letale. Un luogo insensato e mortifero. Dice la madre di Concetti che, nell’incontro precedente di poche ore la sua morte, il giovane dichiarava di essere stato “picchiato da un agente mentre altri due lo tenevano fermo” e che “non gli davano le sue medicine”. Tra sopraffazione e incuria “hanno lasciato che si suicidasse”. Nel novembre scorso, nel carcere di Sanremo, Alberto Scagni, paziente psichiatrico, subì violenze per ore a opera dei compagni di cella. Ancora incuria e gestione disastrosa della componente più vulnerabile della popolazione detenuta. Una quota di reclusi che costituisce quasi il 10 percento del totale. E che risulta pressoché priva di adeguate terapie e di una sufficiente assistenza. Secondo l’associazione Antigone, nel complesso delle carceri italiane, le ore di sostegno psichiatrico sono circa dieci a settimana per ogni cento detenuti, e diciotto quelle per il supporto psicologico. Il quadro generale dice questo: il 42,4 percento dei reclusi consuma psicofarmaci e in particolare sedativi e, secondo la rivista “Altreconomia”, la spesa complessiva relativa a tali trattamenti supera i due milioni di euro per anno. Questo mentre la popolazione detenuta, dopo un breve periodo di contenimento, ha ripreso a crescere e ha superato ormai le 60.000 unità, a fronte di una capienza regolamentare di 51.249 posti e di una capienza effettiva poco superiore ai 47.000. Sono numeri che certificano inequivocabilmente il collasso del sistema, ma nessuno sembra curarsene. In altre parole il circuito penitenziario sembra non avere più scampo e la sua irreversibile rovina è tra i fattori più importanti della crisi dei nostri sistemi di sicurezza collettiva. Una cosa è certa: non saranno i nuovi reati di “incendio boschivo” e di “deturpamento e imbrattamento” di muri a salvarci. Persone private della libertà: il difficile cambio al vertice del Garante nazionale di Daniele Mont D’Arpizio ilbolive.unipd.it, 19 gennaio 2024 Non solo carceri, questure, commissariati, stazioni e comandi delle forze dell’ordine, ma anche centri per gli immigrati, residenze per le misure di sicurezza (le cosiddette Rems, recentemente istituite dopo la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari) e perfino le residenze per gli anziani. Tutti luoghi nei quali - alle condizioni e nei casi previsti dalla legge, come stabilito dalla Costituzione - le libertà personali possono subire limitazioni: per questo su essi vigila il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, che per la prima volta da quando nel 2016 è divenuto operativo affronta in questi giorni un avvicendamento ai vertici. Con qualche strascico polemico, vista anche la grande autorevolezza acquisita in questi anni dal collegio composto da Mauro Palma (presidente), Daniela de Robert ed Emilia Rossi, che lasciano l’incarico ai nuovi nominati Felice Maurizio D’Ettore, Irma Conti e Mario Serio. “Quando si parla di persone private della libertà di solito si pensa ai detenuti, che ne rappresentano in un certo senso l’esempio più eclatante, che ha portato alla creazione della stessa figura stessa del Garante in seguito anche alla pressione da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) - spiega Emilio Santoro, docente di filosofia del diritto presso l’Università Firenze -. Poi però ci si è resi sempre più conto delle limitazioni della libertà in capo ad altri soggetti, come ad esempio le persone trattenute nei centri di permanenza per i rimpatri (Cpr), per le quali non c’è nemmeno un magistrato di sorveglianza a svolgere una funzione di garanzia”. Santoro presiede il centro interuniversitario di ricerca L’altro diritto, gruppo interdisciplinare di studiosi che da anni collabora attivamente con il Garante, in particolare contribuendo ad individuare “indici di detenzione” che permettono di riconoscere oggettivamente, al di là delle fattispecie giuridiche applicate, tutte le situazioni di privazione concreta o di limitazione severa della libertà. Un’estensione delle competenze che ha dato un ruolo sempre più centrale all’autorità garante, tanto più dopo che il Garante è stato designato dalla legge anche quale Meccanismo nazionale di prevenzione della tortura (National Preventive Mechanism - Npm) nell’ambito del Protocollo opzionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura (Opcat), nonché organismo nazionale di monitoraggio dei rimpatri forzati ai sensi della Direttiva europea sui rimpatri 115/2008. Tra gli sviluppi più interessanti c’è stata anche l’estensione delle competenze dell’autorità all’area sanitaria, andando a comprendere i servizi psichiatrici di diagnosi e cura e le residenze sanitarie assistenziali per persone anziane o con disabilità (Rsa), alle quali si sono aggiunti durante la pandemia i luoghi di quarantena (tra cui i cosiddetti Hotel Covid 19). Del resto in un Paese che invecchia ai ritmi dell’Italia la questione del rispetto della volontà delle persone non pienamente autosufficienti è sempre più all’ordine del giorno. È il caso ad esempio della recente sentenza nella quale la Cedu ha condannato lo Stato italiano perché ha ritenuto che una persona anziana sia stata illegittimamente privata della libertà sulla base della volontà amministratore di sostegno. Un problema dunque ben presente, tanto da portare la delegazione del Comitato per la prevenzione della tortura e delle pene e trattamenti inumani o degradanti del Consiglio d’Europa (Cpt) a includere le Rsa nel percorso dell’ultima visita periodica in Italia. Il nodo dei diritti di anziani e disabili - Ciro Tarantino, docente di sociologia dell’Università della Calabria e membro a sua volta del centro L’altro diritto, si occupa proprio della libertà delle persone malate e disabili. “Si tratta dell’ambito sicuramente più innovativo sviluppato dal Garante in questo primo mandato, decisivo anche nel dare una forma specifica all’istituzione e che ha finalmente introdotto come elementi attivi nell’ordinamento italiano grandi documenti internazionali come la Convenzione ONU per i diritti delle persone con disabilità (Crpd) del 2006”, spiega il docente. Arrivarci è stato complesso: “All’inizio gli strumenti mancavano e hanno dovuto essere in qualche modo creati - continua Tarantino, che da anni si occupa tra le altre cose di partizione fra il Noi e il non-Noi e dei processi di disabilitazione sociale, soprattutto in relazione a disabilità, salute mentale e migrazioni -. Il primo passo è stato ad esempio stilare un elenco di questi luoghi: le carceri sono un numero limitato mentre le strutture residenziali sono migliaia, con denominazioni e normative applicabili diverse a seconda della regione. Spesso poi mancano in questi casi provvedimenti specifici come una sentenza o un provvedimento del giudice, ritualizzazioni e formalizzazioni che come per il carcere permettano di indentificare con sicurezza le situazioni di privazione della libertà”. La questione però, rileva il sociologo, prima che giuridica è soprattutto culturale; “Credo che nessuno voglia rinchiudere senza motivo anziani e disabili. Il fatto è che oggi tutto il peso dell’assistenza ricade sulla famiglia: quando questa va in crisi il collocamento in struttura diventa l’intervento apparentemente più semplice e immediato. Finché c’è la volontà dell’interessato nulla quaestio, il problema è se questa manca o non si hanno alternative. Anche perché per assurdo l’istituzionalizzazione è estremamente costosa, dal punto di vista sia economico che personale, rispetto ad altre forme di assistenza e di supporto”. Sta di fatto che la volontà della persona, anche quando è indebolita, andrebbe rispettata e che la Crpd all’art. 14 stabilisce che non si può essere ristretti nella propria libertà solo a causa della propria disabilità, mentre l’art. 19 riconosce il diritto di ognuno a decidere dove vivere e con chi: “Si tratta di un grande problema per il futuro, che chiama tutta la società a scegliere quale modello culturale di solidarietà adottare, il tipo di comunità che vogliamo essere, che forme di convivenza vogliamo tra le persone”. In questo, sottolinea Tarantino, l’opera svolta dal Garante è stata fondamentale nello spostare l’ottica sul problema: “Prima le condizioni delle persone disabili erano considerate in relazione ai diritti sociali, mentre in questi anni ci si è spostati su una radice più profonda: quella dei diritti di libertà, in quanto tali incomprimibili e non economicamente condizionati. Ed è questo forse il contributo maggiore del primo mandato appena concluso”. Il nuovo collegio e le sfide ancora aperte - Tanto insomma è stato fatto, tanto però resta da continuare e da approfondire in un percorso in cui si rischiano in alcuni casi addirittura pericolosi passi indietro. “Pensiamo solo alla situazione di sovraffollamento nelle carceri, che comporta un’esecuzione della pena contraria al senso di umanità e che si trasforma in una sorta di tortura effettiva - riprende Emilio Santoro -. Ebbene a questo riguardo nel giro di quest’anno rischiamo di tornare alla situazione che portò alla sentenza di condanna da parte delle Cedu e che fu poi decisiva per arrivare poi all’istituzione del Garante. Pensiamo poi ai processi che finalmente sono partiti con l’istituzione del reato di tortura nel 2017: il governo ha garantito al Consiglio d’Europa che questo non sarà abrogato, intanto però il partito di maggioranza relativa ha depositato una proposta di legge in tal senso”. “C’è poi la malattia psichiatrica e il problema di garantire anche e soprattutto alle persone sofferenti il rispetto dei loro diritti - si avvia a concludere Santoro -. Per quanto riguarda i Cpr sono di queste settimane le notizie delle inchieste delle procure di Milano e Potenza, mentre diversi rischi vengono dalla recente normativa sui rimpatri, incentrata sulla detenzione dei migranti che non versino una garanzia finanziaria di quasi 5.000 euro. C’è infine la questione del trattamento dei disabili in rapporto con le nuove normative che ne prevedono la deistituzionalizzazione, nell’ambito della quale il nuovo collegio del Garante dovrà interagire con il nuovo Garante nazionale dei diritti delle persone con disabilità, ciascuno nell’ambito delle sue competenze. Si tratta insomma di sfide enormi, che per il futuro richiederanno competenze giuridiche, sociologiche e direi anche umane altrettanto grandi”. In carcere ho visto il fallimento del nostro Stato di diritto di Aboubakar Soumahoro* L’Unità, 19 gennaio 2024 Le 3 storie che condivido qui, che ho potuto raccogliere durante le mie visite ispettive parlamentari, sono racconti che dovrebbero interrogarci su come tutelare e promuovere il principio costituzionale dell’articolo 27. La prima è quella di Katia (un nome di fantasia per tutelare la sua privacy) che mi ha detto con la voce spezzata e le lacrime agli occhi: “questa mia bambina di 2 anni, vive con me qui da detenuta da quando è nata”. Mentre stringevo tra le braccia la bimba di Katia, ho pensato da padre e da politico, che è un fallimento per il nostro stato di diritto non riuscire a garantire a questa innocente creatura tutte le prerogative della vasta giurisprudenza dei minori, tanto più che “la responsabilità penale è personale”, come recita l’articolo 27. La seconda storia è quella di Antonio che mi ha detto: “Onorevole, qui entriamo sani ma usciamo rotti”. Il carcere, nella sua concezione educativa come sancisce la nostra Costituzione, ha senso se riesce a correggere la disumanità di una persona senza per questo mortificarne l’umanità. La terza storia riguarda Stephen che mi ha detto: “ho sbagliato e voglio saldare il mio debito con la giustizia, però viviamo ammazzati in condizioni disumane e senza riscaldamenti”. Questa testimonianza di Stephen trova conferma nei numeri citati dall’Associazione Antigone che, dopo aver visitato 76 carceri nel 2023, spiega: “Il 31,4 per cento delle carceri visitate è stato costruito prima del 1940. La maggior parte di questi addirittura prima del 1900; nel 10,5 per cento degli istituti visitati non tutte le celle erano riscaldate; nel 60,5 c’erano celle dove non era garantita l’acqua calda per tutto il giorno e in ogni periodo dell’anno; nel 53,9 per cento degli istituti visitati c’erano celle senza doccia; nel 34,2 per cento degli istituti visitati non ci sono spazi per lavorazioni; nel 25 per cento non c’è una palestra, o non è funzionante. Infine nel 22,4 per cento non c’è un campo sportivo, o non è funzionante. Sono numeri che fotografano quindi una condizione delle carceri e della sua popolazione che è fatiscente, degradata e vicina al collasso totale; i suicidi in carcere sono stati 69 nel 2023, il secondo numero più alto dal 1992”. Questa drammatica situazione degli istituti penitenziari in Italia è palesemente in contrasto con i valori della nostra Costituzione. Infatti ho incontrato molti detenuti, soprattutto immigrati che in alcuni istituti rappresentano il 60% della popolazione detenuta, in condizioni detentive drammatiche strutture sovraffollate, celle con l’acqua dal soffitto o con rifiuti, assenza o carenze della figura di mediatori linguistici e culturali, carenza di personale, bagni spesso malfunzionanti, mancanza di spazi comuni, assenza o scorso percorso di formazione, ecc. Oggi il carcere tende a fungere da deposito di disagi sociali per persone alle quali la politica non riesce a dare delle opportunità e una speranza. Eppure la tenuta della nostra civiltà si verifica proprio a partire da come vengono trattenute le persone nelle nostre carceri. A tale proposito il rispetto dell’articolo 27 della Costituzione diventa occasione per riconoscere alle persone detenute quella umanità che dovrebbe portare alla salvezza della nostra comunità. *Deputato “Nessuno tocchi Caino” in sciopero della fame contro il sovraffollamento delle carceri di Maurizio Tortorella Panorama, 19 gennaio 2024 Il 2023 si è chiuso con un sovraffollamento record nelle 189 carceri italiane, arrivate il 31 dicembre a un totale di 60.166 detenuti, malgrado la “capienza regolamentare” sia di 51.179 posti disponibili. Il numero dei reclusi negli tempi è aumentato al ritmo di oltre 400 al mese. Contro questa situazione, dalla mezzanotte di lunedì 22 gennaio, i vertici di Nessuno tocchi Caino, l’organizzazione radicale da anni impegnata per condizioni decenti nel sistema carcerario italiano, inizieranno uno sciopero della fame. L’iniziativa coinvolgerà anche l’ex parlamentare radicale Rita Bernardini e il deputato di Italia Viva Roberto Giachetti. Lo sciopero della fame è teso alla ricerca di un dialogo con la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e con il ministro della Giustizia Carlo Nordio. Oggi alla Camera Giachetti ha parlato della situazione delle prigioni italiane: “In gioco è lo Stato di diritto”, ha detto, “perché il combinato disposto del mancato intervento sul sovraffollamento delle celle e il deficit strutturale degli organici di tutte le figure professionali addette all’esecuzione penale causa i trattamenti inumani e degradanti per i quali l’Italia è stata già condannata dalla Corte dei diritti dell’Uomo di Strasburgo”. Giachetti ha aggiunto di “non poter credere che Nordio e Meloni non ne siano consapevoli”. Ha ricordato che Nordio aveva affermato che per costruire nuove carceri ci vogliono almeno 10 anni, “anche se non ha considerato il fatto che per rendere effettivamente disponibili posti aggiuntivi ci vuole il personale che, come detto, è già oggi fortemente carente”. Giachetti ha indicato quindi la strada “della liberazione anticipata, già prevista dal nostro ordinamento e già adottata nella sua versione speciale all’indomani della sentenza Torreggiani. Ci vuole a questo punto più che mai il dialogo sincero previsto dal Satyagraha, parola che significa “forza della verità”. Giustizia, sentenze e pm: così Meloni sta tradendo la lezione di Borsellino di Emiliano Fittipaldi Il Domani, 19 gennaio 2024 Da sempre di indole giustizialista come gran parte dei Fratelli d’Italia, da quando siede a palazzo Chigi Meloni si è trasfigurata in una turbo-garantista sul modello berlusconiano, quello che confonde la sacrosanta presunzione d’innocenza con una licenza d’impunità, riservata soprattutto a colleghi, potenti e colletti bianchi. Giorgia Meloni sostiene che la strage di via d’Amelio, in cui vennero uccisi dalla mafia Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta, “è stato il motivo per il quale ho iniziato a fare politica”. Un’affermazione che ha ribadito anche lo scorso 19 luglio, stavolta da presidente del Consiglio in carica. A leggere le cronache giudiziarie in cui sono incappati i membri del governo e le infauste proposte sulla riforma della giustizia del ministro Carlo Nordio, però, sembra che la premier abbia fatto strame della più importante lezione di etica politica del suo venerato maestro. Da sempre di indole giustizialista come gran parte dei Fratelli d’Italia, da quando siede a palazzo Chigi Meloni si è trasfigurata in una turbo-garantista sul modello berlusconiano, quello che confonde la sacrosanta presunzione d’innocenza con una licenza d’impunità, riservata soprattutto a colleghi, potenti e colletti bianchi. Da ex fustigatrice, la premier giustifica la sua nuova postura con l’assunto che si è innocenti fino al terzo grado di giudizio, e che la fiducia politica non deve venir meno se non di fronte a una sentenza definitiva di colpevolezza: motivo per cui Andrea Delmastro, Vittorio Sgarbi o Daniela Santanchè, nonostante gli scandali, restano inchiodati alle loro poltrone. Meloni cita Borsellino spesso e volentieri, ma dimentica che il grande magistrato definì la logica da lei usata “un equivoco” usato dalla classe dirigente peggiore. Tre anni prima di saltare in aria, parlando dei rapporti tra mafiosi e rappresentanti delle istituzioni il pm stigmatizzò infatti i partiti che si nascondevano “dietro “lo schermo” della sentenza”: è sbagliato affermare, ragionava il magistrato, “che se la magistratura non lo ha condannato quel politico è un uomo onesto”, perché non sempre la giustizia riesce a raccogliere “le prove per condannare”. Borsellino aggiungeva dunque che oltre a quelli “del giudice esistono i giudizi politici”, e che davanti a sospetti gravi di contiguità con il malaffare i governanti hanno un solo compito: “Trarre le conseguenze e fare piazza pulita al proprio interno di tutti coloro che sono raggiunti da episodi o da fatti inquietanti, anche se non costituenti reato”. Nella sua lezione, il giudice non fa riferimento solo alla mafia: i giudizi possono infatti riguardare anche “un alto burocrate che ha commesso favoritismi: potrebbe non aver commesso reato”, ma dovrebbe essere messo comunque sotto “procedimento disciplinare perché non ha agito nell’interesse della buona amministrazione”. Ora, non c’è bisogno di una sentenza definitiva per affermare che il sottosegretario Delmastro abbia girato intercettazioni a divulgazione limitata al collega Giovanni Donzelli che con quelle ha poi attaccato in parlamento l’opposizione. Né è necessario un dispositivo di colpevolezza in Cassazione per bancarotta o falso in bilancio per sostenere già oggi che le aziende di Santanchè, piazzata da Meloni al Turismo per rilanciare il settore, sono precipitate in gravissima crisi facendo perdere decine di posti di lavoro, e che la ex socia di Flavio Briatore abbia mentito a lei e al paese sostenendo di non avere conflitti di interessi dopo la vendita delle quote del Twiga, visto che da ministra ha poi fondato una società che incassa una quota dei ricavi proprio dello stabilimento balneare. Non è tutto. Non esisteranno contestazioni penali, ma è un fatto che il sottosegretario Claudio Durigon a cui Meloni ha affidato la riforma delle nostre pensioni abbia mantenuto rapporti con soggetti, imprenditori e professionisti rivelatisi anche in via diretta in rapporti con il clan Di Silvio di Latina (per questa frase il leghista ha querelato Domani per diffamazione, perdendo), o che Matteo Salvini - seppur mai indagato - abbia dato incarichi politici a filoputiniani che hanno provato a gestire l’operazione Metropol a favore della Lega. Ed è indubbio che il ministro delle Infrastrutture sia in rapporti stretti con i parenti che hanno preso consulenze d’oro per avvantaggiare imprenditori a caccia di appalti pubblici dentro Anas, da quello stesso ministero controllato. “Fatti inquietanti”, direbbe Borsellino. Meloni dell’insegnamento del giudice che ispirò la sua discesa nell’agone politico oggi sembra fregarsene. Lo dimostra la tutela di due condannati in via definitiva come Augusta Montaruli, vicepresidente della commissione di vigilanza sulla Rai, e il numero due del ministero dei Beni Culturali Vittorio Sgarbi, oggi nuovamente indagato per autoriciclaggio di opere d’arte. Ma soprattutto lo evidenzia l’appoggio incondizionato alla devastazione del processo penale portata avanti da Nordio: dietro le intenzioni garantiste sull’abolizione tout court dell’abuso d’ufficio, sulla limitazione delle intercettazioni e sulla difesa mediatica dei soggetti terzi “non indagati”, c’è la volontà di indebolire le indagini di corruzione sui politici e i colletti bianchi. Sarà una fan di Borsellino, ma l’idea di giustizia ed etica pubblica di Meloni è molto diversa da quella del suo magistrato di riferimento. Prescrizione, una buona notizia di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 19 gennaio 2024 L’approvazione da parte della Camera dei Deputati della riforma della prescrizione è, finalmente, una buona notizia sul fronte della giustizia penale. È vero, è l’ennesima riforma di quell’istituto nel giro di pochi anni, dopo la prima c.d. ex Cirielli: Orlando, Bonafede, Cartabia, ed ora Nordio. Certamente non è una prassi virtuosa; certamente si creeranno ulteriori, complesse problematiche applicative e di successione di norme più favorevoli. Ma questo bailamme di norme, obiettivamente poco decoroso, è il frutto avvelenato di un autentico impazzimento penal-populista che ha contagiato la politica dopo la riforma berlusconiana dell’istituto. Marchiata -con qualche ragione- la riforma Cirielli (dalla quale il primo firmatario volle sfilarsi, pretendendo la stravagante apposizione della parola “ex”) come una legge ad personam, si è scatenata una autentica ordalia su questo istituto di antica civiltà giuridica. Alla sua base, infatti, vi è una idea semplicemente incontrovertibile. Lo Stato ha il dovere, istituzionale ed etico, di garantire che una accusa penale a carico di un cittadino venga verificata nella sua fondatezza in un tempo ragionevole. L’imputato non può, da presunto innocente, rimanere prigioniero sine die di una imputazione, per colpe non sue (perché infatti, quando il tempo trascorre per impedimenti dell’imputato o del difensore, il corso della prescrizione è sospeso). Ecco allora che il codice garantisce - è proprio il caso di dirlo - la prescrizione dei reati, con tempi ovviamente calibrati sulla gravità degli stessi. Ed anzi, negli anni gli interventi legislativi hanno reso i tempi di prescrizione dei reati di dimensioni inconcepibili (18, 20, 30, 40 anni ed oltre!). Ma la gazzarra politica ha trasfigurato -agli occhi della sprovveduta pubblica opinione- questo civilissimo istituto nel simbolo di una giustizia asservita alla arroganza dei potenti, strumento di impunità affidato a miracolistici espedienti (che, semplicemente, non esistono) di strapagati avvocati. Quindi, prima il Ministro Orlando (governo PD), ne prolunga i già lunghissimi tempi di maturazione, poi il Ministro populista Alfonso Bonafede ne fa la propria riforma simbolo, fermandola al primo grado, così introducendo la figura dell’imputato a vita. La grande battaglia politica contro questa mostruosità, condotta dalla intera comunità dei giuristi italiani guidata dall’Unione delle camere penali, ha portato il Parlamento, già con il Governo Draghi, ad impegnarsi per rimuoverla. Con la Ministra Cartabia, che aveva comunque i 5 Stelle come gruppo di maggioranza relativa, si è trovata la pasticciata soluzione della improcedibilità dell’appello dopo l’inutile decorso di un termine variamente (ed anche arbitrariamente) declinato a seconda della “gravità” del processo. Oggi si pone fine (ce lo auguriamo: niente scherzi!) a questa penosa ed incivile parentesi, tornando alla prescrizione dei reati ed anche migliorando la riforma Orlando. Era ora. Applausi. Giovanni Maria Flick: “Dubito che la Giustizia migliori con la separazione delle carriere” di Francesco Grignetti La Stampa, 19 gennaio 2024 L’ex ministro: “Sul fine vita, la Corte Costituzionale ha preso l’iniziativa, ma la sua funzione non è quella legislativa che appartiene al Parlamento”. Il presidente emerito della Corte costituzionale, Giovanni Maria Flick, che fu ministro della Giustizia con Prodi, ha sentito il discorso dell’attuale ministro, Carlo Nordio. E dissente. “Resto perplesso su come e dove finirebbe il pubblico ministero “separato” e su quanto questo avrebbe efficacia per risolvere la crisi della Giustizia”. Ma ciò che più l’angoscia è la grande confusione che regna sotto il cielo. Ha visto la bocciatura della legge in Veneto sul fine vita? “Non si capisce, se non come vicenda politica interna alla Lega. Nell’ambito delle prerogative regionali, e ricalcando pignolamente la sentenza 242 della Corte sul fine vita del 2019, si regolavano gli aspetti pratici e attuativi, di competenza del servizio sanitario”. Eppure non ne è meravigliato... “Avevo espresso perplessità per l’ordinanza del 2018 che, al di là del merito, stabiliva un termine ultimativo per il Parlamento”. Lei ha ricordato di recente quelle sue perplessità... “Ho avuto occasione di presentare il libro di Giuliano Amato e Donatella Stasio, nel quale si ricorda che io, ormai ex, ero contrario alla scelta della Corte: posticipare l’efficacia di una declaratoria di incostituzionalità costruendo una sorta di normativa propositiva”. È in effetti una novità rilevante degli ultimi anni, questa sorta di ultimatum. “Molto diversa dai moniti di un tempo”. E perché le perplessità? “Vede, la Corte ha giustamente continuato a insistere che occorreva una legge. Il che vuol dire che non bastava l’intervento della Corte. E qui è il problema. In sostanza, la Corte costituzionale ha superato il vecchio orientamento che limitava la sua iniziativa alla rimozione della legge, o di parte di essa, in contrasto con la Costituzione. Si è passati all’iniziativa, cercando un dialogo con il Parlamento per evitare che rimanesse senza tutela uno spazio che meritava comunque invece di essere costituzionalmente tutelato. Quel dialogo, però, non è stato colto dal Parlamento”. Il nodo che lei evidenzia è il rapporto tra giudice delle leggi e Legislatore? “Esatto. È vero che nel tempo la Corte ha ampliato molto il suo campo di decisione da quello originario che era infondatezza o inammissibilità. Si è arrivati all’accoglimento parziale, a quello interpretativo, alla sentenza interpretativa di rigetto oppure al contrario alla interpretativa di accoglimento, o alla pronunzia di incostituzionalità differita nel tempo. Tutto benissimo, ma si finisce per dilatare il potere della Corte, trasformandolo da negativo a positivo, e indebolire il suo self-restraint, che è premessa della sua legittimazione, creando nuove norme. E non sembra questo il compito della Corte”. Il nodo dei nodi è la paura di molti per un governo che sommi in un colpo solo il premierato, la separazione delle carriere dei pubblici ministeri, e pure le nomine a senso unico dei prossimi giudici costituzionali. Il nuovo presidente Augusto Barbera si è lamentato di un certo costituzionalismo “ansiogeno”. “Finché la maggioranza richiesta per l’elezione parlamentare dei giudici costituzionali rimane quella dei tre quinti, non vedo particolari problemi, come giustamente sottolineato dal Presidente Barbera. Li vedo invece molto, di fronte agli altri appuntamenti costituzionali tra loro connessi, in tema di autonomia differenziata, che delegittima intrinsecamente il Parlamento, ridotto a una sorta di controllore. Oppure in tema di rafforzamento del premierato, che apre anch’esso conflitti preoccupanti e lesione dei poteri, in particolare atipici, del Presidente della Repubblica e del suo ruolo di altissima mediazione”. Intanto ieri il ministro Carlo Nordio ha rilanciato sui pm, che accusa di essere un “pericolo” per la concentrazione di poteri avvenuta nel 1988 a seguito della riforma Vassalli sul processo penale. “Ho sentito. Mi pare un po’ contraddittorio questo disegno di accentrare poteri in capo al Presidente del Consiglio e alle Regioni, ma allo stesso tempo diluire quelli della magistratura. E poi resto perplesso su come e dove finirebbe il pubblico ministero “separato” e su quanto questo avrebbe efficacia per risolvere la crisi della Giustizia”. Però l’abolizione del reato di abuso d’ufficio la convince, vero? “È un reato modificato per cinque volte nell’arco di pochi anni, che praticamente non ha sortito alcun effetto. A chi ci spiega che deve restare per consentire la scoperta di altri reati, rispondo che non è questo il compito di un reato. Quel tipo di abusi va affrontato a livello amministrativo con la responsabilità disciplinare e quella erariale”. È legge il Ddl contro le “ecoproteste”, stretta sulle sanzioni di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 19 gennaio 2024 Il provvedimento a prima firma Sangiuliano prevede la reclusione da 1 a 6 mesi per chi imbratta teche e custodie a protezione di opere esposte in musei, pinacoteche e gallerie. La Camera ha approvato in via definitiva con 138 sì il disegno di legge di iniziativa governativa che introduce sanzioni più severe per chi imbratta o deturpa beni culturali e paesaggistici. Il provvedimento, che ha come primo firmatario il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, era già stato approvato dal Senato l’11 luglio. Molto critica l’opposizione che attacca: “Criminalizzazione del dissenso”. Secca la replica del Ministro: “È bene che non paghino più gli italiani ma chi danneggia”. Il testo di legge si compone di quattro articoli. Nel dettaglio i commi 1 e 2 dell’articolo 1 puniscono rispettivamente: con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 20.000 a euro 60.000, chiunque distrugge, disperde, deteriora o rende in tutto o in parte inservibili o, ove previsto non fruibili beni culturali o paesaggistici propri o altrui; con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 10.000 a euro 40.000 chiunque deturpa o imbratta beni culturali o paesaggistici propri o altrui, ovvero destina i beni culturali ad un uso pregiudizievole per la loro conservazione o integrità ovvero ad un uso incompatibile con il loro carattere storico o artistico. Sono fatte salve (“Ferme”) le sanzioni penali applicabili a fronte di tali condotte criminose. Il Ddl governativo, si legge in una nota del “Servizio studi”, sembra introdurre quindi un “doppio binario” sanzionatorio, per il quale per un medesimo fatto è prevista l’applicazione congiunta di sanzioni penali e amministrative. Il comma 3 prevede che l’organo competente a ricevere il rapporto con il quale viene accertata la violazione e irrogate le sanzioni amministrative è il prefetto del luogo in cui è stata commessa la violazione. La disposizione inoltre precisa che il verbale contenente l’accertamento e la contestazione delle violazioni debba essere notificato al trasgressore entro 120 giorni dal giorno in cui il fatto è commesso. Entro 30 giorni dalla notifica del verbale di accertamento, il trasgressore è ammesso al pagamento della sanzione in misura ridotta. L’applicazione della sanzione in misura ridotta non è ammessa qualora il destinatario del provvedimento sanzionatorio si sia già avvalso, nei cinque anni precedenti, della stessa facoltà (comma 5). I proventi delle sanzioni verranno riassegnati al Ministero della cultura per il ripristino dei beni. L’articolo 2 modifica l’articolo 518-duodecies c.p. al fine di circoscrivere la fattispecie (Distruzione, dispersione, deterioramento, deturpamento, imbrattamento e uso illecito di beni culturali o paesaggistici, vedi sopra “Quadro normativo”), nella parte in cui punisce la condotta di chi rende il bene non fruibile, all’ipotesi in cui la fruibilità sia prevista (analogamente a quanto previsto dall’articolo 1, comma 1, della proposta in commento). L’articolo 3 modifica il terzo comma dell’articolo 635 del codice penale, prevedendo per la fattispecie prevista dal medesimo comma (danneggiamento di cose mobili o immobili in occasione di manifestazioni che si svolgono in luogo pubblico o aperto al pubblico) anche la pena pecuniaria della multa fino a 10 mila euro, in aggiunta alla già prevista pena della reclusione da uno a cinque anni. L’articolo 4 infine modifica l’articolo 639 del codice penale: elevando “fino a euro 309” la multa comminabile ai sensi del primo comma; introducendo una fattispecie aggravata (sanzionata con pene raddoppiate) a carico di chi, al di fuori dei casi previsti dall’articolo 635, deturpa o imbratta cose mobili o immobili altrui in occasione di manifestazioni che si svolgono in luogo pubblico o aperto al pubblico; prevedendo specifiche sanzioni - reclusione da 1 a 6 mesi o multa da 300 a 1.000 euro - per coloro che deturpano o imbrattano teche, custodie e altre strutture adibite alla esposizione, protezione e conservazione di beni culturali esposti in musei, pinacoteche, gallerie e altri luoghi espositivi dello Stato, delle regioni, degli altri enti pubblici territoriali, nonché di ogni altro ente e istituto pubblico. Maxi-multe e carcere. Pugno di ferro contro gli attivisti per il clima di Giuliano Santoro Il Manifesto, 19 gennaio 2024 La Camera approva il ddl Sangiuliano “in difesa dei monumenti”. Le opposizioni protestano: “Colpiscono il diritto di manifestare”. La maggioranza esulta: “Chi imbratta paga”. In gioco c’è il rapporto tra democrazia e dissenso. La Camera ha approvato con 138 voti a favore, 92 contrari e 10 astenuti il disegno di legge proposto dal ministro della cultura Gennaro Sangiuliano riguardante “Disposizioni sanzionatorie in materia di distruzione, dispersione, deterioramento, deturpamento, imbrattamento e uso illecito di beni culturali o paesaggistici”. Si tratta del provvedimento annunciato fin dalla scorsa primavera e pensato per inasprire le pene contro gli attivisti per il clima e le loro azioni, simboliche. Proteste, forse per la prima volta nella storia recente, del tutto nonviolente, che si svolgono proprio davanti a pezzi emblematici del patrimonio storico. Il testo dispone, tra le varie misure, sanzioni amministrative, a seconda della gravità della fattispecie, che vanno da un minimo di 10.000 ad un massimo di 60.000 euro. Non si passerà, dunque, da un dibattimento: basta che il prefetto raccolga le segnalazioni delle forze dell’ordine per comminare la sanzione. Sangiuliano, al solito, ci ha tenuto a infarcire il dibattito a Montecitorio con citazioni autorevoli ritagliate alla bisogna e conclusioni politiche arbitrarie. Eccone una che disegna un nesso pindarico tra gesti di protesta, patriottismo e ambiente: “I monumenti sono diventati parte di quello che Benedetto Croce definiva ‘paesaggio, volto amato della patria - azzarda il ministro - Quindi chi danneggia i monumenti in nome della tutela dell’ambiente danneggia anche l’ambiente stesso”. Nel ddl è stata inserita anche l’aggravante, che raddoppia le pene, per chi compie l’illecito durante manifestazioni che si svolgono in luogo pubblico. Dunque, rischia da uno a cinque anni di carcere “chiunque distrugga, disperda, deteriori o renda, in tutto o in parte, inservibili beni mobili o immobili durante manifestazioni pubbliche”. Che il mirino dell’esecutivo fosse puntato contro i movimenti ambientalisti e che la difesa del patrimonio fosse un comodo espediente è apparso ancora più evidente quando sono stati rifiutati gli emendamenti proposti dall’opposizione. Come quello avrebbe portato a diecimila euro la sanzione per chi distrugge l’ambiente costruendo manufatti abusivi ed ecomostri. Il portavoce di Europa Verde Angelo Bonelli ne ha presentato uno (anch’esso respinto) che avrebbe previsto inasprimenti delle pene per i pubblici ufficiali responsabili di danneggiamento del patrimonio. Adesso ricorda come il governo non sia “credibile” dal momento che “ha devastato il territorio e il paese tutto con continui e dannosi condoni”. Durissimo anche Nicola Fratoianni, secondo il quale “neanche nella legislazione speciale degli anni Settanta sono successe cose come queste”. Il segretario di Sinistra italiana sottolinea che il testo approvato va si muove su un crinale delicato, dal momento che “la relazione tra democrazia e conflitto testimonia dello stato di salute della democrazia”. Anche per Andrea Orlando, ex ministro della giustizia, in ballo c’è il rapporto tra espressione del dissenso e potere politico: “L’utilizzo del diritto penale come elemento simbolico produce diritto penale irrazionale - sostiene il deputato del Partito democratico - Per cui a comportamenti tra loro diversi si applicano pene uguali, spingendo, alla fine, verso comportamenti che sono di più grave allarme sociale”. “La strada che persegue questo governo è chiara: mentre non si fa nulla se non danni per il futuro del paese, nel frattempo vogliono reprimere il dissenso e la protesta” conviene il capogruppo del Movimento 5 Stelle in commissione cultura Antonio Caso intervenendo nel dibattito in aula. La polemica delle opposizioni si è scatenata soprattutto sulla tolleranza zero a senso unico: manica larga per gli esponenti del governo finiti nell’occhio del ciclone (e spesso sotto indagine) nelle ultime settimane e pugno di ferro verso i giovani attivisti, che dalle parti della destra sono stati ribattezzati “eco-vandali”. “Dopo i ragazzi dei rave party, le Ong che salvano vite umane in mare questa volta, nel mirino delle destre, ci sono le ragazze e i ragazzi di Ultima Generazione, accusati di ‘violenza’ per i blocchi stradali e di danneggiare i beni culturali quando, in realtà, nessun monumento è stato oggetto di danni permanenti” osserva la deputata dem Laura Boldrini. “Siamo passati dalla stagione di Dossetti in cui parlava di diritto alla resistenza civile e di democrazia, a parlare di vernice lavabile e di punizioni” sostiene il suo collega Gianni Cuperlo. Il che fa capire come le azioni di protesta a difesa del clima di questi mesi siano riuscite a bucare l’iniziale ostilità proveniente da larghissima parte del mondo politico, quando qualche secchiata di materiale colorato del tutto innocuo bastava per lanciare l’ennesima emergenza bipartisan o (nel migliore dei casi) produrre tirate paternalistiche sulle forme di lotta accettabili. La petizione contro il legale di Turetta è uno schiaffo allo Stato di diritto di Francesco Petrelli* Il Dubbio, 19 gennaio 2024 Da giorni circola una petizione contro l’Università di Padova, rea, secondo gli accusatori, di aver espresso solidarietà e cordoglio per la morte di Giulia Cecchettin soltanto a parole. Di più: il rettore avrebbe tollerato che l’avvocato Giovanni Caruso, professore ordinario di Diritto Penale, assumesse la “difesa del suo assassino”, Giovanni Turetta. L’Unione della Camere Penali denuncia da tempo il fenomeno sempre più grave delle minacce ricevute dai difensori, non solo nei processi mediaticamente più esposti, per il solo fatto di assistere un imputato accusato di reati sessuali, o di genere o comunque per fatti particolarmente odiosi. Ma in ogni caso, ponendoci di fronte a tali eventi, non ci siamo limitati a difendere ed a proteggere i colleghi da simili gravissimi attacchi, ma abbiamo cercato di comprendere le radici di tale fenomeno che pone a rischio uno dei cardini della convivenza civile. È, difatti, ben comprensibile il riflesso che la sola evocazione di determinate condotte lesive dei beni essenziali della persona possa determinare nell’opinione pubblica. Tuttavia riteniamo che sia allo stesso modo essenziale comprendere come gli elementari principi della convivenza civile, quali sono quelli della presunzione di innocenza (finalmente normativizzato nel nostro Paese) e del diritto di difesa, costituiscono un cardine ineliminabile di ogni stato di diritto. Presunzione di innocenza e diritto di difesa dovrebbero costituire valori condivisi che non possono e non devono mai retrocedere, neppure di fronte alla commissione del crimine più atroce. È questo il traguardo inalienabile della nostra civiltà giuridica. Eppure quel riflesso istintivo, spesso non solo non controllato a sufficienza dall’informazione, ma stimolato e diffuso dal rancoroso flusso della comunicazione social, finisce per prendere il sopravvento, cancellando ogni segno di civiltà ed esondando anche in ambiti che si ritenevano al riparo dall’onda d’urto del risentimento popolare. È quanto accade alla gloriosa Università di Padova, rea, secondo gli accusatori, di avere solo “a parole” espresso solidarietà e cordoglio per la morte di Giulia Cecchettin, laureanda in quell’Ateneo, schierandosi “contro la violenza sulle donne”, in quanto avrebbe al tempo stesso tollerato che l’avvocato Giovanni Caruso, professore ordinario di Diritto Penale, assumesse la “difesa del suo assassino (reo confesso) Filippo Turetta”. Si è diffusa, pertanto, una “petizione” affinché l’avvocato rinunci a quella difesa o, in caso contrario, l’Università si dissoci da tale “scelta totalmente inopportuna”, ciò in quanto detta in modo netto e crudo “non può starsi al tempo stesso con le vittime e con i carnefici”. A ben vedere, in questo caso la questione si fa più complessa, perché non si tratta di un brutale attacco personale che coinvolge solo la persona del difensore, bensì di un diverso atto di accusa che attinge una istituzione importante come un’Università, rea di consentire una simile contraddizione esistente fra difesa della vittima e difesa dell’accusato e, in particolare, una cattedra di Diritto penale presso la quale svolge il proprio incarico accademico il difensore dell’indagato. Dietro all’apparente geometrica linearità della censura, si cela in verità il segno di una sempre più diffusa polarizzazione, di quella estremizzazione delle posizioni basata sulla semplificazione della coppia “amico/ nemico”: o con me o contro di me. Un assioma che rinuncia alla complessità dei rapporti civili ed alla ricomposizione di quell’intreccio di valori apparentemente contrapposti che la modernità implica. Una possibile sintesi che il padre della vittima, ha in questo caso, efficacemente riassunto con le sue parole, con le quali piuttosto che scavare solchi, ha cercato di comprendere la complessità indicando l’azione personale come “cruciale per rompere il ciclo”, evocando le molteplici responsabilità, che ci coinvolgono tutti “famiglie, scuola società civile, mondo dell’informazione”. La Giustizia penale è inevitabilmente il luogo nel quale il giusto e l’ingiusto, il bene e il male, la vita e la morte si confrontano di continuo. Ed è da questo che si dovrebbe partire, piuttosto che lanciare improbabili fatwe. Un’Università dovrebbe essere il luogo elettivo nel quale le contraddizioni si sciolgono, le visioni del mondo si confrontano, nel quale il manicheismo dovrebbe essere messo al bando, propugnandosi invece la valorizzazione dei diritti fondamentali della persona, l’inviolabilità del diritto di difesa, la comprensione, appunto, prima dell’esorcismo ed il reciproco riconoscimento, piuttosto che il pregiudizio. Non si può chiedere ad una Università di essere il contrario di tutto questo. Il difensore non difende il reato e non può essere mai sovrapposto al suo presunto autore. Il mestiere nobilissimo del difensore è difficile proprio perché implica il riassunto di queste contraddizioni e per queste ragioni non merita di essere schiacciato da simili pericolose banalizzazioni. *Presidente Ucpi Detenuto ostativo, la Cassazione dice no al permesso premio di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 gennaio 2024 Il Tribunale di Sorveglianza di Cagliari, che aveva respinto l’istanza, aveva rilevato che il recluso, pur mantenendo una condotta regolare in carcere e raggiungendo un’età ormai avanzata, continuava a rappresentare un pericolo per la sicurezza pubblica. La Cassazione, con la sentenza n. 1235/ 2024, ha respinto il ricorso presentato da un detenuto, condannato per associazione mafiosa, che chiedeva la concessione di un permesso premio. Ricordiamo che questo reato, grazie alla Consulta, non è più considerato ostativo nel senso che i benefici non sono più negati a prescindere. Il Tribunale di Sorveglianza di Cagliari, che aveva respinto l’istanza, aveva rilevato che il detenuto, pur mantenendo una condotta regolare in carcere e raggiungendo un’età ormai avanzata, continuava a rappresentare un pericolo per la sicurezza pubblica. Questo in quanto era radicato nell’ambiente criminale di Castelvetrano ed era intraneo alla famiglia mafiosa Messina Denaro. Il detenuto ha lamentato, in particolare, che il Tribunale di Sorveglianza avrebbe richiesto una “presa di distanza etica e morale” dal fenomeno mafioso, non prevista dalla legge. Inoltre, ha sostenuto che il Tribunale non ha considerato il fatto che aveva chiesto di fruire del permesso premio all’interno di una struttura comunitaria, lontana dal luogo di attività dell’associazione mafiosa di appartenenza. La Cassazione ha respinto il ricorso, ritenendo che l’ordinanza impugnata sia motivata in modo congruo e coerente. In particolare, il collegio ha evidenziato che il Tribunale di Sorveglianza ha correttamente valutato i seguenti parametri: il forte radicamento del ricorrente nell’ambiente criminale di Castelvetrano, la sua intraneità alla famiglia mafiosa Messina Denaro (una delle più potenti e pericolose del panorama criminale italiano), l’irrilevanza del ruolo di mero affiliato nella cosca mafiosa, l’assoluta mancanza di revisione critica del proprio operato da parte del ricorrente e l’atteggiamento reticente e comunque teso a sminuire il rilievo criminale del fenomeno mafioso. La Corte Suprema ha inoltre ritenuto che il luogo indicato per la fruizione del permesso premio non sia rilevante ai fini della valutazione del rischio di ripristino dei collegamenti con la criminalità organizzata. In particolare, il collegio ha osservato che la pericolosità della cosca di appartenenza del ricorrente e il carattere anche internazionale della sua attività rendono possibile che il ricorrente possa ristabilire collegamenti con l’organizzazione criminale anche se si trovasse in una struttura comunitaria lontana dal luogo di consumazione del reato in espiazione. In conclusione la Cassazione ha confermato la decisione del Tribunale di Sorveglianza, ritenendo che il ricorrente continui a rappresentare un pericolo per la sicurezza pubblica, pertanto nessun permesso premio. Questa sentenza è utile anche per sfatare le false informazioni propagate da diversi partiti, alcuni magistrati e giornali, quando sostennero che la sentenza della Corte Costituzionale sull’abbattimento del 4 bis, ovvero sull’ostatività ai benefici penitenziari, fosse un “tana libera tutti”. “Trattamento disumano in carcere”, la Corte europea risarcisce una 39enne di Enzo Spiezia ottopagine.it, 19 gennaio 2024 Strasburgo. Decisione per una donna sordomuta, condannata a 12 anni per omicidio figlio. Un risarcimento nell’ordine di decine di migliaia di euro, per il trattamento disumano subito durante la detenzione in carcere. Lo ha disposto, dopo la dichiarazione unilaterale con la quale il Governo italiano ha riconosciuto l’esistenza della violazione, la Corte europea dei diritti dell’uomo, alla quale avevano fatto ricorso gli avvocati Matteo De Longis e Michele Maselli. Sono i difensori di Loredana Morelli, 39 anni, di Campolattaro, sordomuta ed affetta da una forma psicopatologica, che il 15 settembre del 2019 aveva ucciso Diego, il figlioletto di 4 mesi. Un delitto per il quale la Corte di assise di Benevento, il 2 marzo 2022, l’aveva condannata, riconosciuta la seminfermità mentale, a 14 anni. Una pena ridotta a 12 anni in appello, con una sentenza che sarà impugnata in Cassazione per la sussistenza, secondo la difesa, della totale infermità mentale della donna. Il ricorso a Strasburgo era stato presentato per una serie di motivi: tra gli altri, il mancato trattamento, mentre era in carcere, del problema psichiatrico, l’impossibilità, dovendo indossare la mascherina, di poter leggere il labiale durante la pandemia, e la due volte ritardata scarcerazione dell’imputata, le cui condizioni erano state ritenute incompatibili con la detenzione a Capodimonte. Da circa due anni ospite di una comunità in provincia di Avellino, Loredana Morelli aveva infatti lasciato il carcere il 16 marzo del 2021, dove era rimasta per tre mesi “sine titulo”. Una vicenda assurda, scandita da errori del Riesame rispetto all’indicazione del centro che avrebbe dovuto inizialmente ospitarla, da ritardi, dall’assenza di altre soluzioni e del Piano di trattamento riabilitativo individuale che l’Asl di Avellino avrebbe dovuto preparare, che era anche approdata alla Commissione giustizia della Camera, e che era stata risolta, infine, grazie anche all’intervento della Procura di Benevento. Il giorno in cui si era verificato il dramma, Loredana si era allontanata con Diego da Quadrelle, il centro irpino nel quale abitava, a bordo di una Opel Corsa. Ossessionata dai sospetti, voleva raggiungere la sua famiglia a Campolattaro. Per non farsi fermare dai carabinieri, che la cercavano dopo la denuncia del convivente, aveva imboccato la Benevento -Caianello, giungendo all’altezza di Solopaca, dove la Corsa era finita contro la barriera. Era scesa, aveva preso tra le braccia il figlio, rimasto ferito, come dimostrerebbero le tracce di sangue sul seggiolino e nell’abitacolo, e l’aveva lanciato di sotto, certa che in quel punto scorresse il fiume. Poi, intenzionata a farla finita, aveva fatto altrettanto, restando impigliata tra i rovi, come il bimbo. Lo aveva raggiunto e colpito alla testa con un pezzo di legno, ammazzandolo. Per un anno era rimasta chiusa in un silenzio che aveva rotto prima di essere spedita a giudizio. Quando, supportata da una esperta del linguaggio dei segni, aveva raccontato la sua sconvolgente versione dei fatti, ammettendo di aver ucciso Diego. Ivrea (To). L’agonia di Andrea. Il giornale dei detenuti: “Stava male ma l’hanno lasciato morire” di Giuseppe Legato e Alessandro Previati La Stampa, 19 gennaio 2024 La denuncia dei detenuti sul giornale del penitenziario. I medici non si sarebbero accorti dell’edema polmonare. La procura indaga. Stava male da giorni Andrea Pagani, il detenuto di 47 anni trovato senza vita nella propria cella del carcere di Ivrea il 7 gennaio. E adesso un’inchiesta dovrà ricostruire se e cosa potrebbe non aver funzionato perlomeno in termini di assistenza medica su un uomo che si trovava in regime di custodia dello Stato. Ciò che è certo al momento è che i detenuti del secondo piano dell’istituto di pena piemontese, hanno affidato a “La Fenice”, il giornale online del carcere, una lunga lettera per chiedere che questo episodio non passi sottotraccia. “Il caso in questione è stato preso troppo alla leggera e fatto passare per una semplice influenza - hanno scritto - ma tutti noi della sezione avevamo dubbi, perché il ragazzo faceva fatica a camminare, respirare, muoversi e negli ultimi giorni era sempre più bianco-giallastro e con le labbra viola. Fino alla settimana prima che si ammalasse, veniva regolarmente al campo sportivo e giocavamo a calcio anche per due ore senza alcun problema”. In realtà a Ivrea la procuratrice Gabriella Viglione ha già aperto un fascicolo al momento senza indagati e senza ipotesi di reato. “Atti relativi” è il termine tecnico. Nei giorni scorsi è già stato sentito il compagno di cella, è stata acquisita la cartella clinica della vittima che era già stata visitata dal medico del carcere. È emerso che al detenuto era stata diagnosticata una sindrome influenzale curata con Brufen, Tachipirina e antibiotici. L’autopsia però, commissionata dai magistrati e già eseguita dal medico legale, pare dica altro. E cioè che quello stato di difficoltà respiratoria di Pagani fosse dettato da un edema polmonare. Mancano ancora i risultati degli esami istologici, poi il quadro sarà più chiaro. Si sarebbe potuto o dovuto scoprire prima? Lo si capirà con il prosieguo delle indagini. Certo, questa storia al momento è un giallo. Pagani stava scontando una condanna a 18 anni per aver ucciso il padre Antonello, nel 2019, a Casalnoceto (in provincia di Alessandria). Da tempo aveva preso l’impegno di sostenere la redazione del giornale dei carcerati, oggi online, dove scriveva con lo pseudonimo di “Vespino”. “L’ultima volta che è sceso in infermeria gli è stato detto dal medico di turno di prendere una Tachipirina e un Brufen - raccontano i compagni -. I dottori tendono sempre un po’ a sottovalutare le lamentele dei detenuti, pensando forse che esagerino quando in alcuni casi, come quello in esame, non è propriamente così. Forse sarebbe bastata un’analisi del sangue per capire che il ragazzo non stava esagerando”. C’è poi tutta la procedura per richiedere assistenza ospedaliera che non è così semplice: “Andrea aveva fatto una domandina modello 393, un piccolo prestampato con il quale noi detenuti facciamo le nostre richieste alla direzione carceraria o sanitaria, dove chiedeva di poter essere ricoverato”. Ma non c’è stato nemmeno il tempo di rispondere a quella richiesta dato che il cuore del quarantasettenne ha smesso di battere appena dopo l’Epifania. “Noi detenuti vogliamo delle risposte e vogliamo che venga fatta luce su una vicenda assurda: non si può morire a 47 anni in questo modo. Non si può star male da più di una settimana, peggiorare giorno dopo giorno e farsi da solo la richiesta per essere ricoverato. Tutto questo non ha senso”, dicono. Del caso se ne sta occupando anche il garante dei detenuti, Raffaele Orso Giacone: “Pagani era una persona tranquilla e ben voluta, sicuramente la magistratura verificherà tutto quello che è successo. Mi sento comunque di dire che l’assistenza medica non è mai mancata e questo, per tranquillizzare i familiari che spesso ci contattano, vale per tutti i detenuti. Da quando è arrivata la nuova direttrice si sono fatti grossi passi avanti in questo senso e dentro la struttura ci sono finalmente degli specialisti. È vero però che le procedure per i ricoveri o le visite mediche all’esterno del carcere non sono così immediate. Spesso ci si scontra con le liste d’attesa o con la carenza di personale della polizia penitenziaria che deve organizzare le scorte”. Vasto (Ch). Suicidio Trotta, assolta la direttrice del carcere di Carmine Perantuono rete8.it, 19 gennaio 2024 Dal processo sulle eventuali responsabilità per il suicidio dello psichiatra Sabatino Trotta esce di scena, come richiesto anche dal PM, la direttrice del carcere di Vasto. Rinviato a giudizio l’addetto alla sorveglianza. Si è concluso con l’assoluzione perché il fatto non sussiste il processo con il rito abbreviato nei confronti del direttore del carcere di Vasto Giuseppina Ruggero, e con il rinvio a giudizio dell’assistente capo coordinatore in servizio presso la Polizia penitenziaria e addetto alla sorveglianza dei detenuti, Antonio Caiazza, l’udienza celebrata oggi dinanzi al Gup del Tribunale di Vasto, Fabrizio Pasquale, per il suicidio nel carcere di Vasto dello psichiatra all’epoca dirigente medico dell’Asl di Pescara, Sabatino Trotta. Quest’ultimo si tolse la vita il 7 aprile del 2021, poche ore dopo essere stato arrestato nell’ambito di un’inchiesta della procura di Pescara su una gara da oltre 11 milioni di euro indetta dalla Asl per l’affidamento della gestione di residenze psichiatriche extra-ospedaliere. Nel corso della precedente udienza, il 21 dicembre del 2023, era stata la pubblica accusa a chiedere l’assoluzione per la Ruggero, difesa dall’avvocato Massimo Solari, e il rinvio a giudizio per Caiazza, difeso dall’avvocato Marisa Berarducci. Prima udienza del processo a Caiazza il 27 marzo. Agli imputati la procura di Vasto aveva contestato l’omicidio colposo e la violazione dell’articolo 40 del codice penale - “cagionava o comunque non impediva il decesso di Sabatino Trotta” - e di norme in materia di prevenzione di suicidi oltre che di sorveglianza dei detenuti nella sezione in cui si trovava Trotta. Inoltre sia alla Ruggero che a Caiazza erano state contestate sia la colpa generica consistita in negligenza, imprudenza e imperizia, sia la colpa specifica consistita nella violazione delle norme che disciplinano l’accoglienza e il sostegno dei detenuti negli istituti penitenziari nel caso della Ruggero, e per Caiazza nella violazione delle norme che disciplinano le mansioni degli addetti alla sorveglianza dei detenuti e l’accoglienza e sostegno ai detenuti nuovi giunti negli istituti penitenziari. Palermo. Il caso dell’avvocato minacciato da un agente del carcere arriva in Parlamento di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 gennaio 2024 Il deputato di Italia Viva, Roberto Giachetti, ha presentato un’interrogazione parlamentare indirizzata al ministro della Giustizia in seguito all’articolo pubblicato su Il Dubbio dell’8 gennaio scorso e alla trasmissione di Radio Leopolda “Carceri, bisogna vederle” curata da Rita Bernardini, dell’11 gennaio. La vicenda, lo ricordiamo, coinvolge l’avvocato Stefano Giordano, il quale ha denunciato di essere stato aggredito da un agente penitenziario della Casa Circondariale Pagliarelli di Palermo mentre cercava chiarimenti sul mancato accredito di 450 euro su conti di tre detenuti azeri. Il 18 dicembre 2023, l’avvocato Giordano ha effettuato i bonifici per conto dei familiari dei detenuti, desiderosi di fornire conforto in vista delle festività natalizie. Tuttavia, quattro giorni dopo, i detenuti hanno segnalato che la somma non era stata accreditata. L’avvocato Giordano, insieme al collega Giovan Battista Lauricella, ha cercato spiegazioni presso l’ufficio ragioneria del carcere. La funzionaria presente, affermando che tutti gli adempimenti erano stati correttamente eseguiti, ha invitato il legale a lasciare la stanza urlando. La situazione è sfuggita di mano quando un terzo soggetto, membro della polizia penitenziaria e dichiaratosi marito della funzionaria, ha tentato di aggredire l’avvocato minacciando l’arresto. Nonostante l’intervento della vicedirettrice la situazione è rimasta incandescente, costringendo i legali a cercare rifugio nel suo ufficio. Da sottolineare, come scritto su queste stesse pagine, che questo episodio non solo solleva gravi interrogativi, mettendo in luce una serie di inefficienze che danneggiano i detenuti e pongono in discussione il rispetto dei loro diritti fondamentali, ma anche quelli degli avvocati difensori, tanto da subire minacce da chi dovrebbe tenere - come recita il regolamento stesso - “un comportamento improntato a professionalità, imparzialità e cortesia e mantenere una condotta irreprensibile, operando con senso di responsabilità ed astenendosi altresì da comportamenti o atteggiamenti che possono recare pregiudizio al corretto adempimento dei compiti istituzionali”. Ma questo non è il primo episodio di mancato accredito di denaro ai detenuti difesi dall’avvocato Giordano. Nel mese di agosto 2023, i detenuti stranieri hanno affrontato una situazione simile, risolta grazie all’intervento del Garante dei detenuti della regione Sicilia, Santi Consolo. Per i detenuti stranieri privi di reti familiari nel territorio italiano, infatti, risulta cruciale avere accesso a modesti importi di denaro. Questo consente loro di effettuare chiamate ai propri familiari lontani, affrontare le carenze alimentari spesso presenti e migliorare l’approvvigionamento di beni essenziali per l’igiene personale e la pulizia delle celle. È da notare che tali prodotti sono frequentemente carenti nella fornitura dell’amministrazione carceraria. Il deputato di Italia Viva Roberto Giachetti ha evidenziato che durante le ispezioni condotte dall’associazione “Nessuno Tocchi Caino” negli istituti penitenziari, emerge con frequenza una carenza di personale amministrativo, soprattutto nell’ambito contabile. L’interrogazione parlamentare di Giachetti pone diverse domande al ministro della Giustizia. Si chiede se sia a conoscenza degli eventi descritti, se intenda intervenire per chiarire l’incidente, in quali tempi i detenuti azeri avranno la disponibilità delle somme e quanto tempo è stato necessario ai detenuti stessi nel caso precedente. In particolare, si interroga il ministro Carlo Nordio sulla consapevolezza dell’entità degli stanziamenti dell’amministrazione penitenziaria per le esigenze dei detenuti indigenti e sulle carenze di personale amministrativo e contabile negli istituti penitenziari, con particolare riferimento alla situazione a Pagliarelli. Ora si attende la risposta del ministro della Giustizia. Rita Bernardini ricorda il regolamento che, se il ministro non risponde entro 60 giorni, l’interrogazione parlamentare può essere ripresentata in Commissione, dove il guardasigilli è obbligato a rispondere. Molto spesso i deputati si lamentano del fatto che i ministri non rispondano alle interrogazioni parlamentari. Ma come ci insegna Bernardini di “Nessuno Tocchi Caino”, esistono strumenti per costringerli a farlo. Torino. Quando nelle carceri si vive di Monica Cristina Gallo* riforma.it, 19 gennaio 2024 Per parlare della situazione delle carceri in Italia vorrei partire da un esempio vicino, dalla Casa Circondariale di Torino costruita a fine anni ‘70, inizialmente denominata “Casa Circondariale Vallette” dal nome del quartiere di appartenenza e poi rinominata “Lorusso e Cutugno” in memoria di due agenti della polizia vittime del terrorismo. La struttura (costruita negli anni 70-80) negli anni 90-2000 fu ampliata con la costruzione del padiglione E (l’edificio adibito alla comunità). Le condizioni strutturali incidono sulla quotidianità degli individui che vi sono rinchiusi o che ci lavorano. Gli spazi della detenzione appaiono spesso privi di quell’attenzione progettuale atta a consentire la semplice distanza fra gli individui, una distanza affinché ognuno possa avere a disposizione lo spazio vitale necessario per il proprio benessere. Il più delle volte le camere di pernottamento sono anguste, fatiscenti e ospitano due o tre persone estranee fra loro, talvolta appartenenti a culture, tradizioni e religioni diverse. L’aspetto e la funzione architettonica degli ambienti dovrebbero garantire condizioni idonee alla socializzazione e questo non accade. In occasione delle nostre visite nelle Sezioni carcerarie osserviamo quanto i corridoi siano utilizzati come spazi di socialità. Le persone detenute si abituano allo squallore degli spazi, alla mancanza di cura architettonica e nessuno si sente chiamato a contribuirne al miglioramento. Ed è proprio in questi luoghi, desolanti, che il numero delle persone detenute continua ad aumentare. Il tasso di affollamento medio è arrivato al 110,6%. Il Garante nazionale segnala poi 18 decessi in carcere e un sovraffollamento del 127,54% nei primi 14 giorni del 2024. Spesso non è garantita la separazione tra detenuti adulti e giovani adulti (l’11% dei detenuti ha meno di 25 anni), né quella tra detenuti in attesa di giudizio (40%) e detenuti definitivi (60%), né quella tra definitivi con pene brevi e detenuti con pene oltre i cinque anni. La promiscuità dunque, incide anche sulla collocazione tra regimi chiusi o aperti. L’alto tasso di affollamento incide anche sul percorso di trattamento individuale, soprattutto sulla praticabilità del lavoro. Sono infatti presenti all’interno del carcere, oltre ai servizi per l’amministrazione, anche luoghi adibiti al lavoro e alle attività per il reinserimento delle persone detenute. Nel carcere di Torino solo cinquanta detenuti (pari al 3,7%) lavorano all’esterno, mentre i lavoratori interni sono il 30%. Solo il 17% segue corsi di formazione professionale. Le stesse attese di allocazione nelle sezioni si trasformano così in una sorta d’isolamento, dove le giornate rischiano di passare “facendo nulla” e dove sovente trovano spazio la depressione e atti di autolesionismo (il rapporto dell’associazione Antigone segnala che ben 1100 detenuti fanno uso di sedativi e ipnotici). L’alto tasso di affollamento incide anche sulla presa in carico e l’osservazione degli educatori, sulla cura del personale medico e il lavoro del personale di polizia penitenziaria. Gli educatori, in forza agli Istituti, sono spesso insufficienti e così lo sono i medici e i mediatori linguistici e i volontari. Partendo dunque dall’esempio di Torino, non è difficile affermare che si dovrebbe porre più attenzione al tema carceri a livello istituzionale; che si dovrebbe aprire un ampio dibattito pubblico mediante una razionale riflessione, non tanto su quali correttivi apportare a un modello detentivo che si presume teoricamente adeguato, bensì, al contrario, su come mettere in discussione l’attuale, evidenziandone i limiti, le incongruità, l’inefficienza e l’inadeguatezza in rapporto al mandato ideale e ai costi da sostenere per il funzionamento della “macchina carceraria”. I dati sulla recidiva cristallizzano in negativo il giudizio sulla devastante performance delle carceri italiane e pongono l’imprescindibile questione delle responsabilità. A tale giudizio complessivo è doveroso aggiungere una sottolineatura specifica per quanto riguarda i profili relativi al diritto alla salute delle persone recluse: tempi di attesa per visite specialistiche incompatibili con una qualsivoglia pretesa di prevenzione o di diagnosi e cura. I presidi sanitari interni alle strutture sono insufficienti e dunque costantemente sotto stress, con inevitabili ricadute sotto il profilo relazionale paziente-sanitario; un massiccio e anomalo utilizzo di presidi farmacologici volti a contrastare gli stati d’ansia e di alterazione dell’umore delle persone recluse. Questo particolare approccio sanitario è stato oggetto di una recente inchiesta giornalistica di denuncia, a cui purtroppo non ha fatto seguito alcun intervento chiarificatore da parte delle autorità competenti. *Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Torino Milano. La Casa della Carità porta in carcere “Parole di libertà” di Valentina Rigoldi noizona2.it, 19 gennaio 2024 In occasione di BookCity Milano 2023, nell’ambito del programma BookCity Scuole e Sociale, la Casa della Carità e il liceo scientifico “Luigi Cremona” insieme al Gruppo Carcere “Mario Cuminetti” hanno promosso l’evento pubblico “Parole di libertà”, che ha concluso un percorso formativo sulla lettura ad alta voce, che nell’anno scolastico 2022-2023 ha coinvolto studentesse e studenti del liceo Cremona. Il progetto ha avuto una durata di 6 mesi e si è articolato in una prima fase di formazione, seguita da una serie di incontri all’interno di San Vittore cui hanno partecipato studenti e insegnanti, che hanno svolto azioni di promozione della lettura nelle biblioteche dei diversi reparti della Casa Circondariale. “Questo progetto è una cura per l’anima, sicuramente una piccola esperienza, ma con un valore incalcolabile per le persone che vi hanno partecipato. Gli incontri tra detenuti e studenti hanno infatti consentito di accorciare le distanze tra cittadini dentro le mura del carcere e cittadini che stanno fuori, facendoci diventare un gruppo unico, in cui senza imbarazzo e con molto rispetto e attenzione siamo riusciti a chiacchierare di qualsiasi argomento, spaziando dalla letteratura ai ricordi più difficili da raccontare”, racconta Cecilia Trotto, responsabile della Biblioteca del Confine della Casa della Carità e conduttrice del laboratorio. Che aggiunge: “Sono stata onorata di aver fatto parte di questo progetto, che si ripeterà anche nell’anno scolastico 2023-2024, e di aver avuto l’occasione, anche in questa edizione, di conoscere persone magnifiche e di aver contribuito, per qualcuno, a cambiare qualcosa, a ribaltare qualche prospettiva”. Il progetto si colloca nell’ambito delle attività culturali di promozione dei libri e della lettura all’interno di San Vittore, come forma di partecipazione della comunità esterna all’attività trattamentale. Nello specifico, questa azione fa riferimento alla ormai consolidata esperienza della Casa della Carità, dell’Associazione Gruppo Carcere Mario Cuminetti e degli enti di Biblioteche in Rete a San Vittore nello svolgere progetti all’interno della Casa Circondariale in collaborazione con alcuni licei milanesi, con l’obiettivo di avvicinare i giovani al mondo del carcere, dal punto di vista di chi internamente lo abita: detenuti, personale, volontarie e volontari. Ecco il senso del progetto che emerge dalle parole degli stessi studenti che in maniera sintetica ed accorata sono riusciti meglio di tutti a sintetizzare il valore di questo progetto: “Ciò che provo in modo più vivido è una grande soddisfazione per avere creato un’opportunità di confronto e alla creazione di un ambiente di ascolto reciproco”. “Sono sicuro che noi ragazzi del Liceo Cremona riusciremo a far uscire al di fuori delle mura del carcere i pensieri che ci siamo scambiati”. “Queste nostre righe possono solo sperare di dare voce a queste storie, così che possano ispirare riflessione e cambiamenti futuri”. Brescia. Da Verziano le “Lettere dal carcere” sono scritte anche in Braille di Daniela Zorat giornaledibrescia.it, 19 gennaio 2024 La parola inclusione ha oggi anche una forma tangibile. Anzi tattile. È quella di un libro scritto in braille e con disegni in rilievo creati con materiali che anche le persone non vedenti riescono a capire sfiorandoli con le dita. Non solo. A realizzare questo volume sono stati i detenuti e le detenute del carcere di Verziano che, in forma volontaria, hanno partecipato al laboratorio “Arte terapia” promosso dalle associazioni “Bambini in Braille” e “Carcere e territorio”. Un tomo che ha anche partecipato alla settima edizione del concorso nazionale “Tocca a te” e che ha ottenuto la menzione speciale “Libro del cuore”. Una copia è conservata alla biblioteca di Bologna, un’altra andrà ad arricchire la biblioteca di Sarezzo (che ne ha fatto richiesta) e altre saranno composte. Il progetto - Si intitola “Lettere dal carcere”, nulla a che vedere con il testo gramsciano, se non il luogo di reclusione in cui è stato elaborato. “Lo hanno creato uomini e donne che hanno partecipato in forma mista al progetto - ha illustrato la direttrice, Francesca Paola Lucrezi -, peculiarità esclusiva di questo istituto a livello nazionale. Una ventina di detenuti e detenute ha scritto alcuni testi in braille indirizzandoli a persone con disabilità visive ma non solo. È stata un’occasione per loro, in una condizione particolare di fragilità, di avvicinarsi ad altri tipi di fragilità e difficoltà non volute”. Accanto ai testi, in alcune pagine, sono stati inseriti anche alcuni disegni in rilievo, da un hamburger con tanto di stoffa “a semini” che dà l’idea del panino, al viso di Totò, da una bandiera cubana a una farfalla, immagini da toccare realizzate in relazione al contenuto delle lettere. Bambini in Braille - “È importante fare rete con altre associazioni quando si ha a che fare con l’inclusione sociale - ha spiegato Piera Sciacca, presidente di “Bambini in Braille” -. La scrittura con questo codice viene intesa come mezzo di divulgazione culturale”. “Con questo laboratorio realizzato insieme all’associazione Carcere e territorio abbiamo spostato il focus. Lo scambio epistolare con giovani che avevano particolari difficoltà si è trasformato in uno scambio di fragilità - ha aggiunto Daniela Fiordalisi, Disability manager -; l’attenzione dei detenuti non si è rivolta ai propri problemi ma a qualcosa di utile agli altri. Sono scambi che creano ricchezza per la comunità”. In questo caso i giovani di “Bambini in Braille” sono quelli entrati nel progetto “Sid Solidarietà e inclusione come dono”. Per Carcere e territorio, Alessandra Spreafico ha sottolineato come i detenuti abbiano “imparato da zero a scrivere in braille. Sono stati molto propositivi ed entusiasti, hanno scritto moltissimo”, impegnandosi dalle due alle tre ore ogni settimana, dallo scorso mese di giugno. L’auspicio dei due sodalizi è che la collaborazione con il carcere possa continuare con altri progetti. Milano. Il marchio “La Milanesa” sceglie il carcere di Opera per produrre una collezione di borse di Giulia Crivelli Il Sole 24 Ore, 19 gennaio 2024 Del marchio di borse e piccoli accessori La Milanesa si può dire che sia nativo sostenibile, più ancora che nativo digitale, pur essendo nato a rivoluzione digitale in atto. Fin dalla sua fondazione, nel 2019, il marchio ha scelto di produrre artigianalmente - e già questa può essere considerata una caratteristica di sostenibilità sociale - e di farlo grazie all’impegno di persone, per la stragrande maggioranza donne, che vivono in Rsa o case di cura per anziani. A loro Cinzia Macchi, fondatrice de La Milanesa, affidò la creazione delle coperte con le “mattonelle” a uncinetto, con le quali venne confezionatala prima collezione di borse. Da allora l’imprenditrice e stilista ha perso il conto dei tentativi, più o meno riusciti, di imitazione delle sue borse a uncinetto. Anche perché, delusione e amarezza personale a parte, Cinzia Macchi ha continuato a disegnare collezioni, sempre associate a pratiche sostenibili dal punto di vista ambientale (di riciclo e riuso) e sociale. Di pari passo, in cinque anni, è cresciuta l’azienda, aprendo monomarca (quello di Milano è in corso Garibaldi) e ampliando la distribuzione nei multimarca e online. Ora si aggiunge un tassello importante, la collaborazione con la sezione maschile del carcere di Opera, alle porte di Milano. “Molte carceri italiane hanno laboratori interni di sartoria e negli anni sono nati veri e propri marchi per vendere all’esterno le creazioni fatte in questi laboratori - racconta Cinzia Macchi -. Il nostro progetto è diverso perché affidiamo a un gruppo di detenuti una produzione che poi sarà sul mercato col marchio La Milanesa. Sono anche molto felice del fatto che siano uomini a dedicarsi al progetto, andando oltre lo stereotipo che a tagliare e cucire siano soprattutto le donne”. La collaborazione tra Cinzia Macchi e il suo marchio La Milanesa con il carcere di Milano-Opera non sarebbe stata possibile senza l’intermediazione della cooperativa sociale Opera in Fiore, che gestisce il laboratorio di sartoria interno al carcere: si chiama Borseggi e negli anni è diventato anche il marchio dei prodotti confezionati dai detenuti e poi venduti in canali come gli empori di prodotti solidali. “Opera in Fiore è nata nel 2004 e per statuto è una cooperativa sociale, senza fine di lucro, ma con dipendenti e un bilancio”, racconta Elisabetta Ponzone, ideatrice, insieme alla socia Federica Dellacasa della sartoria Borseggi. All’inizio la cooperativa si occupava dell’inserimento lavorativo nel settore del verde di persone svantaggiate, disabili, detenuti e migranti lavorando con aziende e privati a Milano e nel territorio circostante e creando e pulendo aree verdi, giardini, parchi e terrazzi e vendendo piante. Poi è arrivata anche la sartoria Borseggi. “Non è necessario che i detenuti abbiano una precedente esperienza come sarti. Anzi, è ancora più prezioso, crediamo, un percorso di formazione ex novo - racconta Elisabetta Ponzone -, che permetta ai detenuti di imparare un lavoro artigianale. Come ogni altro progetto di Opera in Fiore, l’obiettivo è costruire percorsi virtuosi di responsabilità sociale ed economia circolare, che combattono recidiva e pregiudizio, come dimostrano i dati sull’efficacia di dare a chi sconta una pena, anche lunga, una prospettiva o, se vogliamo, una reale e concreta seconda possibilità”. Le borse create per La Milanesa da un gruppo dei detenuti impegnati nella sartoria Borseggi sono molto semplici: “Stanno già lavorando alle dust bag, quei sacchetti che i marchi della moda danno a chi compra una borsa per proteggerla - spiega Cinzia Macchi. Dust infatti in inglese significa polvere e i marchi di alta gamma investono molto in questi dettagli, che possono fare la differenza. Dalle dustbag, per le quali abbiamo fornito materiali, formazione e macchine da cucire ad hoc, i detenuti passeranno alle borse vere e proprie. Il primo modello è una “shopper”, con una forma molto semplice. Ma semplice, nella moda e non solo, non significa facile e per il marchio La Milanesa la differenza la fanno da sempre i dettagli e i materiali e la cura e passione delle persone che creano le borse”. Elisabetta Ponzone sottolinea l’importanza di coinvolgere in progetti come Opera in Fiore il settore privato e, se si parla di sartoria, marchi della moda: “Negli anni ho capito che la cosa più importante è fare davvero rete. Il che significa avvicinarsi gli uni agli altri facendo ogni sforzo per abbandonare pregiudizi e preconcetti e poi porsi un obiettivo chiarendosi che lo si può raggiungere solo tutti insieme”. Una visione pienamente condivisa da Cinzia Macchi: “L’economia circolare, di cui tutti parlano, riguarda anche le persone. Non importa quanto orribile sia il passato, dobbiamo sempre pensare che un futuro migliore sia possibile”. Arezzo. Sport in carcere, al via il progetto tra il Csi e la Casa circondariale arezzonotizie.it, 19 gennaio 2024 “Rieduchiamo Attraverso lo Sport” è il nome che hanno dato CSI e Casa circondariale alla serie di incontri sportivi e formativi che coinvolgeranno i detenuti e il personale dipendente del carcere. Il Centro Sportivo Italiano - Comitato di Arezzo grazie al progetto di Sport e Salute presentato insieme alla Casa Circondariale “San Benedetto” di Arezzo, si è aggiudicato il progetto per effettuare le attività fisiche all’interno delle carceri italiane. Ras, ovvero Rieduchiamo Attraverso lo Sport è il nome che hanno dato Csi e casa circondariale alla serie di incontri sportivi e formativi che coinvolgeranno i detenuti e il personale dipendente del carcere. Commenta così l’avvio del progetto il presidente del Csi di Arezzo, Lorenzo Bernardini: “Siamo contenti come comitato di esser riusciti ad aggiudicarsi questo bando di Sport e Salute. Rieduchiamo Attraverso lo Sport durerà 18 mesi e vedrà interagire partners qualificati e società sportive affiliate al Csi di Arezzo per svolgere formazione e sport all’interno della Casa Circondariale “San Benedetto” di Arezzo. Sarà un momento importante anche per i detenuti perché, alcuni di loro, avranno l’occasione di effettuare un tirocinio formativo all’interno delle associazioni. A San Domenico farà attività sportiva anche il personale dell’istituto penitenziario (Polizia penitenziaria e funzioni centrali), attraverso delle giornate dedicate al benessere. Un ringraziamento alla professionista Sara Nocentini che ci ha seguiti nella stesura del progetto e grazie alla dottoressa Fabiola Papi e al direttore del carcere Giuseppe Renna per aver creduto nel motto del Csi: Educare attraverso lo sport”. Così, invece, il direttore della Casa Circondariale “San Benedetto” di Arezzo, Alessandro Monacelli: “Sono davvero soddisfatto dell’avvio di questo progetto. È nota l’importanza dello sport negli istituti penitenziari in quanto consente, attraverso un linguaggio universale, l’apprendimento delle regole, il rispetto dell’altro e la condivisione degli obiettivi. Nello sport si può sempre migliorare, perché per raggiungere i risultati è richiesta una lunga preparazione e bisogna perseverare nell’impegno e nella disciplina. Per questi motivi, il progetto del Csi - Comitato di Arezzo è del tutto coerente con la mission del Carcere di Arezzo che, come tutti gli istituti di pena, consiste nel favorire la responsabilizzazione e il reinserimento sociale delle persone detenute”. Genova. Teatro in carcere, nuova stagione di “Voci dall’Arca” di Francesca Di Palma ilcittadino.ge.it, 19 gennaio 2024 I detenuti in scena a maggio con “Sette minuti” e “La parola ai giurati”. Dal 2016 nel Carcere di Marassi c’è il Teatro dell’Arca, realizzato dall’Associazione Teatro Necessario in stretta collaborazione con la Direzione della Casa Circondariale; il teatro è l’unico in Europa appositamente ubicato nella cinta muraria del un carcere, al quale può accedere non solo la popolazione detenuta ma anche il pubblico dall’esterno. Per questo le regole di accesso sono molto stringenti, ma non impediscono di poter accedere per godere degli spettacoli e degli eventi che qui vengono programmati. Il Teatro è sede stabile della Compagnia Scatenati, formata dagli attori detenuti della Casa Circondariale, da professionisti esterni e dagli studenti che nel corso del tempo hanno collaborato alla realizzazione degli spettacoli. L’Associazione Teatro Necessario è attiva già dal 2005 all’interno del Carcere, e ha la finalità di servirsi dello strumento teatrale come via per l’integrazione e la riabilitazione sociale dei detenuti. In questi anni di attività, sono ben 450 i detenuti coinvolti nelle rappresentazioni, come attori o tecnici, 80.000 gli spettatori, decine di scuole e di studenti universitari che hanno preso parte ai tanti progetti. Questa mattina, nel Salone di Rappresentanza di Palazzo Tursi, è stata presentata la nuova stagione del Teatro, “Voci dall’arca - Dato il posto in cui ci troviamo”. Mirella Cannata, Presidente dell’Associazione Teatro Necessario, ha presentato la nuova stagione, che inizia sabato 27 gennaio con lo spettacolo “Suoni nelle culture”. La rassegna di quest’anno è dedicata a Sandro Baldacci, Direttore Artistico del Teatro dell’Arca, regista e fondatore di teatro Necessario, scomparso lo scorso 16 novembre. Per farci raccontare qualcosa di più della prossima stagione abbiamo incontrato il Prof. Carlo Imparato, vicepresidente dell’Associazione Culturale Teatro Necessario Genova. Prof. Imparato, sta per iniziare la VI rassegna teatrale, che ha come sottotitolo “Dato il posto in cui ci troviamo”... Sì, ripartiamo dopo la pausa natalizia anticipando le prime rappresentazione già a gennaio. Dato il posto in cui ci troviamo allude evidentemente al Teatro dell’Arca che ospita gli spettacoli. Non possiamo non ricordare qui Sandro Baldacci, l’anima di questo progetto... La perdita di Sandro è incolmabile. Era il timoniere di quest’arca. La sua mancanza si sente forte a livello umano e spirituale, ma anche a livello oggettivo. La sua esperienza e la sua competenza, unite alla sua umanità, lo hanno reso per noi insostituibile. Pur nella consapevolezza della difficoltà, abbiamo deciso di andare avanti con il nostro progetto e seppur a fatica vogliamo continuare nella certezza che questa era la volontà. Nonostante questo momento tragico, quest’anno portate in scena due spettacoli. Ce li può raccontare? Lo scorso anno abbiamo rappresentato, con un grande sforzo anche di organizzazione, il Riccardo III, che è stato un successo, con 8.000 spettatori. A motivo delle carenze di organico della Polizia Penitenziaria, a cui va sempre il nostro grazie per quanto fanno per noi e per il nostro progetto, abbiamo dovuto ridurre per quest’anno l’impegno. Per questo, abbiamo ripreso lo spettacolo Sette minuti, interpretato dai soli detenuti senza l’inserimento di attori dall’esterno e con scenografie più ridotte. Lo spettacolo è in programma nel mese di maggio al teatro Ivo Chiesa con le consuete rappresentazioni aperte alle scuole. La serata per il pubblico sarà una sola, la prima, martedì 7 maggio, e poi seguiranno altre serate dal 14 al 18 maggio al Teatro dell’Arca e altre rappresentazioni al mattino per le scuole sempre all’interno del teatro. Sette minuti è liberamente ispirato al testo omonimo di Stefano Massini. Con i detenuti della sezione di alta sicurezza torna in scena dal 27 al 31 maggio, solo al Teatro dell’Arca La parola ai giurati. Le rappresentazioni del mattino sono aperte alle scuole. Molte classi entreranno fisicamente dentro le mura del carcere. Quale messaggio si trasmette agli studenti? Quest’anno abbiamo invitato alcune classi a seguire il lavoro del laboratorio teatrale. Seguire da vicino quello che viene fatto, entrare a vedere le prove, verificare l’impegno dei detenuti, la loro professionalità, vedere sul palco persone straniere che fino a qualche mese prima non conoscevano la lingua, persone analfabete che imparano la propria parte, entrare in carcere per vedere gli spettacoli... sono tutti messaggi che sottintendono un unico significato: l’unico modo per educare alla legalità è investire in bellezza. Abbiamo sperimentato che l’unico modo per evitare la recidiva è fare proposte di bellezza, proporre esperienze di professionalità. Per i detenuti, vedere oltre 1.000 studenti che al mattino vengono a vedere lo spettacolo e rimangono in silenzio ad ascoltare è un segnale molto importante. La rassegna è composta anche da altri spettacoli interpretati da altre compagnie... Sì. Il cartellone è ampio. Tutte le rappresentazioni della sera vengono replicate anche il pomeriggio per i detenuti. Segnalo Non è la storia di un eroe, il 23 febbraio, tratto dal podcast Io ero il Milanese, La sfida, il 6 aprile, che racconta il leggendario incontro di boxe fra Muhammed Ali e George Foreman. La programmazione, da gennaio a maggio 2024, è consultabile sul sito dell’Associazione Teatro Necessario; è già possibile prenotare gli spettacoli: www.teatronecessariogenova.org Napoli. “Ofarja”: un cortometraggio per raccontare la vita dei detenuti Il Mattino, 19 gennaio 2024 Un progetto creativo che diventa un’opportunità per parlare di sé. Il cortometraggio “Ofarja” sarà proiettato venerdì, 19 gennaio, all’interno della Casa circondariale di Secondigliano. Un pezzo di sé e del proprio vissuto, un’opportunità per ogni detenuto di trasferire la sua storia, dando libero sfogo all’estro e alla creatività, in un frammento di racconto, in un disegno in gesso su una lavagna in ardesia. Frammenti che insieme danno vita a “Ofarja”, il cortometraggio che alcuni tra i detenuti della casa circondariale “Pasquale Mandato” di Secondigliano hanno realizzato nell’ambito di un progetto in collaborazione con Art33, il Cultural Hub di Napoli Est affidatario del progetto “LievitAzione”, gestito dal Dipartimento per le politiche giovanili e il Servizio Civile Universale. “La presenza sempre maggiore di detenuti di età compresa tra i 18 e i 25 anni ha suggerito l’attivazione, a Secondigliano, di un nuovo percorso formativo. L’obiettivo di questi percorsi è stato duplice. - spiega la direzione della casa circondariale - Da un lato, si è voluto fare in modo che questi ragazzi conoscessero il mondo dell’animazione anche da un punto di vista tecnico, seppur attraverso un primo e molto generale trasferimento di competenze, dall’altro si è voluto fornire loro una nuova occasione di espressione di sé e della propria creatività”. “Il percorso, perfettamente in linea con la filosofia del nostro centro audiovisivo, si è posto come uno strumento per raccontare e raccontarsi oltre ogni barriera”, sottolinea Mariarosaria Teatro, responsabile del cultural hub Art33. Il percorso si è tradotto in un modulo di disegno e street art, curato dallo street artist Fabio De Angeli e dal fonico Salvatore Cosentino, e in un modulo di illustrazione e animazione, con l’illustratore e regista Ahmed Ben Nessib e con i musicisti Antonio Raia e Sergio Naddei. “Lavorare con i detenuti è stata un’esperienza straordinaria -racconta Ahmed Ben Nessib- Ci siamo interrogati sulla funzione emotiva e cognitiva del faro, di cosa possa significare per una persona smarrita in mare, e abbiamo cercato nei nostri ricordi, immagini e figure che, per metafora, hanno orientato i nostri viaggi. I detenuti hanno prodotto 3086 disegni, frutto di otto incontri: il prodotto finale è esclusivamente loro. E dire che il primo giorno alla parola disegno sono rimasti pietrificati”. Video - Il cortometraggio “Ofarja” sarà proiettato per la prima volta venerdì 19 gennaio, all’interno della casa circondariale, in un momento di restituzione ai giovani partecipanti e ai loro familiari. Il percorso dei detenuti ha portato anche alla realizzazione di un murale all’interno dei locali in cui si sono svolte le attività. Quei “gelidi mostri” delle stragi italiane, nemici della democrazia e della verità di Paolo Morando Il Domani, 19 gennaio 2024 Il libro di Gianfranco Bettin e Maurizio Dianese (La tigre e i gelidi mostri, Feltrinelli) va alla ricerca di un senso complessivo in quella stagione sempre più lontana, con pezzi ancora mancanti di verità e processi tuttora aperti. È in questo pozzo nerissimo che gli autori si sono calati. Intanto il titolo, “La tigre e i gelidi mostri”: immaginifico, ma anche preciso nel circoscrivere il campo. La tigre richiama infatti lo Julius Evola di “Cavalcare la tigre”, summa del pensiero antimoderno del filosofo razzista (“un razzista così sporco che ripugna toccarlo con le dita”, lo definì Furio Jesi). Mentre i gelidi mostri sono quelli del Nietzsche di “Also sprach Zarathustra” (“si chiama Stato il più gelido di tutti i gelidi mostri”). È un titolo dunque letterario ed evocativo quello che Gianfranco Bettin e Maurizio Dianese hanno scelto per raccontare, ancora una volta, una storia mai abbastanza restituita alla memoria del paese. Ed è una storia tremenda, rossa di sangue innocente. Ma è un racconto di cui incuriosisce l’ambizione contenuta nel sottotitolo del libro: Una verità d’insieme sulle stragi politiche in Italia. Perché, certo, sappiamo che cosa è avvenuto, caso per caso, bomba per bomba. Ma oggi è necessario dare un “senso” a tutto questo, per quanto questo termine suoni surreale: che senso si può dare infatti a una strage indiscriminata in tempo di pace? Anzi, a un rosario di stragi. C’è davvero lo spazio per farlo, oggi? La risposta è assolutamente sì, non fosse altro perché su quella stagione sempre più lontana (siamo a 54 anni da Piazza Fontana e a 43 dalla Stazione di Bologna, estremi temporali indicati anche nel libro) pezzi ancora mancanti di verità solo ora iniziano a emergere, faticosamente. E promettono di non smettere di farlo: su Bologna infatti sono ancora aperti due processi (quelli a Gilberto Cavallini e a Paolo Bellini, prossimo alla Cassazione il primo e a breve in Corte d’assise d’appello il secondo), mentre per Brescia sono stati rinviati a giudizio nei mesi scorsi due nuovi imputati, entrambi veronesi ed entrambi ex militanti di Ordine Nuovo, Roberto Zorzi e Marco Toffaloni. Per quest’ultimo il procedimento riguarda il Tribunale per i minorenni (tale era infatti l’imputato il 28 maggio 1974), e non è escluso che si debba tornare per la terza volta in udienza preliminare prima di partire davvero con il processo. Ma, al di là dei cavilli, rimane il fatto che la ricerca della verità - quanto meno quella giudiziaria - è ancora pienamente in corso. E dunque i gelidi mostri, “le cui ombre e i cui artigli giungono fino ad oggi”, come segnala lo stesso editore Carlo Feltrinelli in apertura presentando il libro, “che racconta episodi sconosciuti, o reinterpretati alla luce di fatti nuovi e di nuove chiavi di lettura”. Dove quell’”artigli” suona come un riferimento al “documento artigli” (quelli di Licio Gelli e della P2) emerso nel corso dell’ultima inchiesta sui finanziatori e mandanti della strage di Bologna. Appunto: i pezzi di verità per decenni occultati dolosamente, anche da pezzi dello Stato. È in questo pozzo nerissimo che gli autori si sono calati, rileggendo antiche e nuove sentenze, ma anche rimettendosi sulle tracce di personaggi rimasti ai margini delle inchieste, ben protetti dal trascorrere del tempo e dalla persistenza delle omertà: personaggi ormai da tempo deceduti, e dunque non più perseguibili sul piano giudiziario. Lo hanno fatto, Bettin e Dianese, memori della lezione del sostituto procuratore Mario Amato, ucciso a Roma dai Nar poche settimane prima della bomba alla stazione, proprio mentre stava per giungere “alla visione di una realtà d’insieme” dell’eversione di destra, scoprendone i livelli superiori rispetto agli esecutori materiali. Piazza Fontana - Gli autori partono però da uno di questi ultimi, o almeno presunti tali. E le lancette del tempo tornano al dicembre ‘69, alla “madre di tutte le stragi” e a Claudio Bizzari, veronese pure lui, di cui già il magistrato Guido Salvini aveva tracciato un profilo inequivoco nel suo libro La maledizione di Piazza Fontana, indicandolo come colui il quale collocò materialmente la bomba alla Banca nazionale dell’agricoltura. Non ne aveva fatto il nome, è vero, ma subito dopo (si era nell’autunno del 2019) quel nome aveva iniziato a girare, sulla stampa e in rete. Senza però che nessuno riuscisse ad approfondire la questione, visto che Bizzari mori proprio in quei giorni, a 73 anni. E senza lasciare segreti inconfessabili. Fu davvero lui l’ultimo uomo? Nel libro non troverete la pistola fumante: al suo posto, però, tutto quello che su di lui mai finora era stato scritto, ripescando polverosi verbali, scoprendo testimonianze mai connesse tra loro, saldando il tutto attraverso le parole di un altro ordinovista veronese dell’epoca, Giampaolo Stimamiglio. E scoprendo tra l’altro una sorprendente incursione del Bizzari in questione, nella seconda metà degli anni Ottanta, addirittura nella Liga veneta. Piazza della Loggia - Capitolo Brescia. Cioè la strage di piazza della Loggia. È il più corposo, nel libro. E al tempo stesso anche il più scivoloso. Si è detto dei procedimenti giudiziari ancora in corso (meglio: in fase di avvio). Qui, oltre a molto altro, si propongono le dichiarazioni di una teste che costituiscono elemento importante della ricostruzione dell’accusa: Ombretta Giacomazzi, all’epoca fidanzata di quel Silvio Ferrari giovane estremista di destra dilaniato da un ordigno poche notti prima della strage. Un ordigno che lui stesso stava collocando per un attentato. Il racconto della donna attraversa quell’intera complicatissima trama, coinvolgendo strutture militari (il comando delle forze terrestri alleate a Verona), nomi eccellenti (ufficiali dei Carabinieri e dei servizi segreti), eversori di gran fama (ovviamente neofascisti). E tutto ruota attorno ad alcune fotografie in cui, per farla breve, comparirebbero assieme un po’ tutti. E che per questo sarebbero appunto costate la vita al giovane Ferrari. La vicenda è vertiginosa e si inscrive in quella di piazza della Loggia già non semplice di suo. E se la sensazione del lettore può essere quella di incredulità, sappia quello stesso lettore che in questo tipo di storie la realtà supera regolarmente l’immaginazione. Non sarà dunque un compito facile quello dei magistrati bresciani che nei prossimi mesi se ne occuperanno in prima persona, dai banchi di chi sarà chiamato a giudicare. La stazione di Bologna - Infine Bologna. E anche qui a spuntare è un nome sempre rimasto avvolto in un cono d’ombra: quello di Gianpietro Montavoci. Non si ripercorrerà qui ciò che su di lui leggerete nel libro, che è davvero molto: il suo ruolo nella struttura di Ordine nuovo, i suoi strettissimi rapporti con uomini chiave della rete terroristica, la sua competenza in materia di esplosivi, le rivelazioni di chi lo ha indicato come responsabile di un attentato alla sede del Gazzettino (che nel 1978 provocò la morte di un metronotte), addirittura il suo ruolo di informatore per il Sid. Ciò che conta è invece sottolineare la sua presenza il 2 agosto del 1980 a Bologna, da dove quel giorno telefonò ai propri familiari per dire che stava bene. Una suggestione destinata a rimanere tale, vista la morte di Montavoci già nel 1982 in un incidente stradale. Lo sanno bene anche Bettin e Dianese, che hanno quindi preferito concentrarsi sulle densissime pagine che l’Avvocatura dello Stato, nel corso del processo Bellini (e sono pagine richiamate nelle motivazioni della sentenza), ha dedicato a Gelli e alla P2 - ma pure a Federico Umberto D’Amato, l’ex prefetto anche lui piduista - per inquadrarne il ruolo di ipotetico “motore” della strage. Per chi volesse, le oltre 1.700 pagine della sentenza Bellini sono facilmente reperibili in rete. Della prima metà, centrate sull’inchiesta mandanti, Bettin e Dianese dettagliano nel libro ciò che conta. Ad esempio, prima della strage, la “ribellione” contro Gelli da parte dei vertici dei servizi segreti (tutti) che erano nelle sue mani, attraverso un finto dossier che lo indicava come doppiogiochista legato alle intelligence di oltre cortina. Poi la bomba a Bologna, la pubblicazione delle liste della P2 (siamo nella primavera del 1981) e la di poco successiva scoperta, in una valigia della figlia del “venerabile” al rientro in Italia, di documenti ricattatori: il celebre “Piano di rinascita democratica” e soprattutto la cosiddetta Direttiva Westmoreland, sorta di segretissimo “manuale” delle forze armate statunitensi per la guerra non convenzionale. E, guarda caso, seguì un mezzo lieto fine per Gelli che, successivamente estradato dalla Svizzera, mai in Italia ha scontato un solo giorno in carcere, rimanendo ai domiciliari nella sua dorata Villa Wanda. Una “ricostruzione plausibile”, ha scritto la Corte d’assise nella sentenza Bellini, “che specifica l’interesse di Gelli alla realizzazione della strage”. Bettin e Dianese dedicano il libro a Manlio Milani, “anima” della Casa della memoria di Brescia: in copertina, trattata, compare la sua immagine in piazza dopo la strage. Disse agli autori, mentre lavoravano al libro: “Bisogna andare avanti. Tutti quelli che con passione e spirito di servizio vanno in cerca della verità non devono mai farsi scoraggiare. Noi abbiamo perso i nostri famigliari, ma non la voglia di sapere”. Come dargli torto? Se la “parola sintetica” ci toglie la voce di Mauro Magatti Corriere della Sera, 19 gennaio 2024 L’intelligenza artificiale e i rischi per la democrazia. Bisogna iniziare a porsi delle domande, anche non ci sono ancora risposte. Sono passati 40 anni da quando Jürgen Habermas, il più autorevole filosofo tedesco, pubblicò l’opus magnum “La teoria dell’agire comunicativo”, dove sosteneva che il progetto moderno sarebbe rimasto zoppo se, dopo il formidabile sviluppo della razionalità strumentale (legata al calcolo e all’efficienza), non fosse cresciuto anche un secondo pilastro della razionalità comunicativa. Ovvero la capacità delle persone e dei gruppi di esprimere liberamente nella sfera pubblica il proprio punto di vista mediante argomenti e ragioni, alla ricerca di un’intesa. Habermas scriveva all’epoca in cui già la televisione stava cominciando a cambiare pelle, nella direzione della spettacolarizzazione e della dipendenza dall’audience. Internet non c’era ancora e tanto meno lo smartphone e i social. Il problema è che, nei successivi 40 anni, la realtà è andata in direzione del tutto diversa rispetto all’ipotesi del filosofo tedesco: la sfera pubblica contemporanea, più che un’arena di dibattito dove confrontarsi in base ad argomentazioni razionali è diventata un mercato in cui tutti gridano e dove i like e le visualizzazioni diventano gli unici criteri veritativi. Un mondo cacofonico che esaspera estremismi e conflittualità, creando un terreno fertile per le scorribande degli odiatori. In un ambiente comunicativo che ha dimostrato di non possedere anticorpi forti per difendersi dalle fake news e soprattutto dai deepfake (immagini prodotte digitalmente), distinguere il vero dal falso diventa sempre più difficile. Al punto che le opinioni pubbliche si ritrovano esposte a manipolazioni difficili da sventare. In un anno eccezionale dal punto di vista del numero di elezioni (con circa 2 miliardi di persone che nel mondo saranno chiamate a votare), ci sono forti timori che l’uso spregiudicato della AI (l’intelligenza artificiale) possa incidere profondamente sui risultati. Il punto è che, con l’avvento di ChatGpt, lo sviluppo accelerato degli ultimi anni è destinato a subire un ulteriore salto evolutivo. La novità sta nel fatto che le nuove interfacce con cui lavora l’AI generativa sono dotate di competenze linguistiche formali così avanzate da rendere possibile la conversazione uomo-macchina e la creazione di contenuti inediti. Processando il linguaggio naturale, questi nuovi dispositivi non solo riconoscono la struttura sintattica, le regole grammaticali, la regolarità nella costruzione delle frasi. Ma, senza avere nulla a che fare con la capacità del cervello umano di costruire significati che consentono di agire sensatamente, essi sono in grado di costruire discorsi e immagini fondati sulla pura inferenza statistica. Molto concretamente, la possibilità della “presa di parola” da parte della macchina implica il fatto che nella sfera pubblica circoleranno sempre di più testi, scritti, immagini a cui non sarà possibile attribuire una autorialità. Nessun riferimento al senso di ciò che significa oggi essere umani: alla nostra corporeità, al nostro essere allo stesso tempo intelletto e spirito, appartenenti a una particolare comunità sociale e culturale. Si tratta di un passaggio rilevante. Per la prima volta nella storia entriamo in un contesto in cui a essere messa in discussione è la prerogativa umana della parola: lo sviluppo del linguaggio sintetico è destinato infatti a decostruire gli apparati e i dispositivi su cui fonda l’autorità del parlante, della scrittura e della riproduzione dell’immagine. Senza entrare nelle implicazioni filosofiche di queste trasformazioni, preme qui proporre una riflessione sul tema della democrazia. La quale, per ritornare ad Habermas, storicamente si sviluppa proprio nel momento in cui si forma l’opinione pubblica che, articolando la discussione tra punti di vista diversi sulla realtà, ha creato i presupposti del procedimento elettorale prima e di quello legislativo poi. Non a caso, l’istituzione fondamentale degli assetti democratici si chiama Parlamento, cioè il luogo in cui i rappresentanti del popolo discutono in modo aperto e pubblico, per arrivare poi alla determinazione politica. Si parla molto in questi ultimi mesi della tensione esistente tra democrazie e autocrazie. Ma questo confronto (che auspicabilmente non va trasformato in scontro) non riguarda solo i rapporti internazionali, bensì anche i processi sociali e decisionali interni ai singoli Paesi. Per noi democratici l’arrivo della macchina parlante costituisce una sfida: come salvaguardare quel delicato processo di formazione dell’opinione pubblica che è all’origine stessa della democrazia? Se i social, in combinazione con le conseguenze socioeconomiche della crisi finanziaria del 2008 e poi del Covid, hanno favorito i populismi, è lecito domandarsi quali saranno le conseguenze di questi ulteriori sviluppi tecnologici del sistema della comunicazione. Marshall McLuhan, l’insuperato studioso dei media, affermava che il “medium è il messaggio”. Intendendo così dire che il mutamento del dispositivo tecnologico è portatore di un impatto che va compreso ancora prima dei significati che fa circolare. È cruciale allora cominciare da subito a porci delle domande, anche se ancora non abbiamo risposte. Intellettuali ridotti a pop star di Zygmunt Bauman La Stampa, 19 gennaio 2024 Perché nell’era postmoderna, la cultura e il gusto non sono più decisi dai pensatori. L’omogeneizzazione di cui gli intellettuali paventavano l’avvento, comunque, non si è verificata. Al contrario, il mercato della cultura sembra trarre profitto dalla diversità e dal rapido avvicendarsi delle mode. La scena culturale definita dalle forze del mercato evoca più un caleidoscopio di prodotti e modelli variegati e spesso reciprocamente esclusivi che non un’avvilente uniformità e standardizzazione. È proprio questa assenza di modelli privilegiati, non l’uniformità della “cultura media”, che si è rivelata la sfida più seria al ruolo tradizionale degli intellettuali e alla loro autorità un tempo indiscussa in materia di gusto e di scelte culturali. Le scelte sono state privatizzate, diventando un attributo della libertà e della formazione dell’identità personale. La promozione di un determinato modello culturale come essenzialmente migliore, o in qualche modo “superiore” rispetto alle alternative presenti o possibili, è stata aspramente condannata e sdegnosamente rifiutata come atto di oppressione. Con una svolta inaspettata il mercato è stato promosso al rango di principale sostegno della libertà. Il fondamento moderno del potere collettivo degli intellettuali è stato eroso: vi è ben scarsa richiesta ormai per le funzioni di cui essi sono andati orgogliosi per tutto il corso della storia moderna, quelle di legislatori culturali, di progettatori e tutori di modelli culturali adeguati. Ma il fatto che ai “progetti di vita” uniformati si siano sostituite le scelte del consumatore ha avuto anche un altro impatto negativo sul ruolo tradizionale degli intellettuali. A seguito della privatizzazione della formazione dell’identità personale, anche la frustrazione causata dal fallimento dei propri sforzi e la conseguente scontentezza tendono a essere “privatizzate”, disperse e non cumulabili, refrattarie a tutti i tentativi di conglomerarle in una “causa pubblica” unificante, e ancor più a quelli di indirizzarle verso una visione sociale alternativa. Chi si sforza di continuare a svolgere il ruolo intellettuale tradizionale si trova diviso tra innumerevoli partiti, cause, sette religiose eccetera. I diversi motivi di scontento non hanno alcun “denominatore comune”; a nessun singolo conflitto può essere ricondotta l’intera gamma di rivendicazioni e richieste. Le alleanze politiche che mirano all’appoggio della maggioranza possono configurarsi solo come “coalizioni temporanee” che hanno scarse probabilità di sopravvivere al problema specifico che per un breve momento le ha fatte nascere. Cosa ancora più importante, i motivi di scontento determinati dal mercato, se elaborati entro i canali di un’esistenza privatizzata, provocano un’ulteriore domanda di servizi offerti dal mercato e rafforzano anziché minare l’influenza di quest’ultimo sulla sfera sociale e su quella culturale. [...] La fama è stata rimpiazzata dalla notorietà: non un ponderato riconoscimento per i risultati conseguiti, il ripagamento di un debito per i servizi resi alla causa pubblica, ma il fatto di imporsi con ogni mezzo a disposizione all’attenzione del pubblico. Se gli intellettuali annoveravano sé stessi tra la minoranza scelta che poteva rivendicare uno speciale diritto alla fama, essi non possono rivendicare alcun diritto privilegiato alla notorietà. Al contrario le tradizionali attività degli intellettuali - principale causa della loro gloria passata - non si prestano a essere esibite davanti agli occhi del pubblico né a riscuotere un applauso immediato. Quando la notorietà anziché la fama diventa il criterio dell’influenza pubblica, gli intellettuali si trovano in competizione con i campioni sportivi, le pop star, i vincitori di lotterie, i terroristi e i serial killer. In questa competizione non hanno molte speranze di vincere, ma per gareggiare devono giocare il gioco della notorietà seguendone le regole, ossia adeguando la propria attività al principio di “massimo impatto e di obsolescenza istantanea”. La giustezza o la verità delle idee sono sempre più irrilevanti come richiamo nei confronti dell’attenzione pubblica; ciò che conta sono le loro ripercussioni, la quantità di tempo e di spazio che a esse dedicano i media, e ciò dipende principalmente dal loro “valore di intrattenimento”. È probabile che la gloria di cui godevano un tempo gli intellettuali fosse legata ad altri fattori - ora in gran parte scomparsi - caratteristici dell’età moderna: le grandi utopie di una società perfetta, i progetti di una ingegneria sociale globale, la ricerca di criteri di verità, giustizia e bellezza universali, nonché la presenza di poteri istituzionali con aspirazioni ecumeniche che avevano la volontà e la capacità di agire in base a tali criteri. L’elevata posizione degli intellettuali in quanto artefici e arbitri del progresso storico nonché tutori della coscienza collettiva di una società che si autoperfeziona non poteva sopravvivere alla fede nel progresso e alla privatizzazione del processo di autoperfezionamento (questa, secondo alcuni autori, è la ragione per cui gli intellettuali non hanno mai goduto di un prestigio sociale di tipo europeo nell’atmosfera del “sogno americano”, che rappresenta il progresso come un’impresa e un risultato privati più che sociali). Gli intellettuali hanno poco da offrire alla “maggioranza soddisfatta” dei Paesi ricchi, a meno che non si lascino fagocitare dalla “scena culturale” commercializzata offrendo le proprie idee come un prodotto fra i tanti nel sovraffollato supermercato dei prodotti culturali. Indubbiamente essi hanno perso il loro ruolo di legislatori della cultura, tutt’al più resta loro la speranza di rendere indispensabile la nuova funzione di interpreti culturali, di mediatori nell’attuale scambio tra stili culturali autonomi, differenziati ma equivalenti. Il crollo dell’alternativa comunista alla società dei consumi ha inferto un ulteriore colpo alla posizione di cui godevano gli intellettuali come arbitri di una scelta reale e tangibile tra modelli sociali alternativi. [...] Alcuni autori, in particolare Michel Maffesoli, hanno osservato a questo proposito il riaffermarsi di una sorta di “tribalismo”, di un nuovo interesse per la delineazione di confini, per la separazione, per l’esclusione degli “altri”, il tutto finalizzato alla creazione e alla difesa di una fragile identità di gruppo. Nel caso di queste “neotribù” sono richieste prestazioni analoghe a quelle già fornite dagli intellettuali (sebbene sotto differenti bandiere e all’interno di un diverso discorso) all’epoca della costituzione degli Stati nazionali e della ricerca di principi universali. L’analogia deriva dal fatto che gli interessi trascurati dei gruppi emarginati hanno una possibilità di essere affermati e presi in considerazione solo se le rivendicazioni specifiche vengono rielaborate in forma di istanza critica nei confronti dell’ordine sociopolitico esistente nel suo complesso. Il mutamento osservato da più parti nella filosofia e nella sociologia contemporanee - che ora mettono l’accento sulle origini “locali” della conoscenza e dei modelli culturali e attribuiscono una funzione positiva, anziché considerarla una limitazione, alla dimensione particolaristica, legata a un determinato gruppo, della visione del mondo e dei modelli culturali in generale - può essere interpretato come un riflesso di questi nuovi sviluppi. Sempre più spesso i filosofi e i sociologi esaltano il valore di quelle stesse tradizioni locali e di quel “radicamento” nelle singole comunità che i loro predecessori deprecavano auspicandone l’estinzione in quanto d’ostacolo alla progressiva acquisizione di una verità, di un’etica e di un’estetica universali e condivise da tutta l’umanità. La teorizzazione della permanenza e del carattere positivo della differenziazione culturale è uno dei tratti più significativi dell’autocoscienza postmoderna delle professioni intellettuali nei paesi ricchi del mondo. Ungheria. Ci sarà un giudice a Budapest per Ilaria Salis? di Riccardo Noury* Il Domani, 19 gennaio 2024 L’imputazione dei pubblici ministeri ungheresi è di “atti potenzialmente idonei a provocare la morte”, nonostante le lesioni subite dalle vittime dei presunti assalti - che non hanno sporto denuncia - siano state ritenute guaribili con prognosi di 5-8 giorni. Per quell’accusa, Ilaria Salis rischia fino a 24 anni di carcere. Lei si è sempre dichiarata innocente. Comincerà il 29 gennaio a Budapest il processo nei confronti di Ilaria Salis, la cittadina italiana che da quasi un anno è in detenzione preventiva nel carcere di massima sicurezza della capitale ungherese. Ilaria Salis è accusata dell’aggressione a tre militanti dell’estrema destra durante il cosiddetto Giorno dell’Onore, una commemorazione che ogni 11 febbraio riunisce a Budapest centinaia di neonazisti. L’imputazione dei pubblici ministeri ungheresi è di “atti potenzialmente idonei a provocare la morte”, nonostante le lesioni subite dalle vittime dei presunti assalti - che non hanno sporto denuncia - siano state ritenute guaribili con prognosi di 5-8 giorni. Per quell’accusa, Ilaria Salis rischia fino a 24 anni di carcere. Lei si è sempre dichiarata innocente. Maltrattamenti - C’è una prima questione di diritti, legata al trattamento carcerario. Come reso noto dai suoi familiari e dai suoi legali, solo all’inizio dello scorso settembre - dunque, quasi sette mesi dopo l’arresto - Ilaria Salis ha avuto la possibilità di contattare i genitori, descrivendo le condizioni detentive degradanti cui era sottoposta: topi e scarafaggi in cella, cibo scarso, meno di tre metri e mezzo di spazio a disposizione, l’umiliazione di essere trascinata alle udienze legata e tenuta al guinzaglio da un agente di scorta. Ilaria Salis ha anche raccontato di essere rimasta otto giorni in cella di isolamento senza prodotti per l’igiene personale (carte igienica, assorbenti e sapone) e di aver ricevuto dall’ambasciata vestiti di ricambio e un asciugamano solo 35 giorni dopo l’arresto. Fino a quel momento era stata costretta a indossare gli indumenti consegnatile al momento dell’ingresso in carcere, senza possibilità di cambiare biancheria intima, indossare indumenti igienicamente consoni o avere a disposizione un asciugamano per fare la doccia. Pena sproporzionata - Le carenze strutturali del sistema carcerario ungherese, dove peraltro nel 2023 si è registrato il numero più alto di detenuti dal 1990, sono state più volte evidenziate dal Comitato Helsinki Ungheria e da Amnesty International: sovraffollamento, cattive condizioni igienico-sanitarie, anni di investimenti insufficienti e scarso ricorso a misure cautelari alternative. Su questa situazione e in attesa di ricevere ulteriori informazioni da parte ungherese, la Corte d’appello di Milano ha negato l’estradizione di un altro cittadino italiano, Gabriele Marchesi, raggiunto dagli stessi capi d’imputazione di Ilaria Salis. Il sostituto procuratore della Corte ha anche sottolineato la sproporzione tra la relativa modestia dei fatti contestati e l’enormità della pena prospettata. Il secondo aspetto preoccupante, segnalato dai legali e dalla famiglia di Ilaria Salis, riguarda la mancata traduzione di una parte degli atti processuali, incluse le perizie mediche sulle persone ferite, al momento accessibili esclusivamente in ungherese, nonché l’impossibilità della detenuta di visionare i video depositati come prove incriminanti: circostanze, queste, che violano il diritto a un processo equo, sancito dalla Convenzione europea dei diritti umani, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e da norme derivate. Ambasciata inerte - I legali ungheresi di Ilaria Salis hanno più volte presentato istanza per chiedere che le misure cautelari fossero svolte nel paese di residenza dell’imputata, in ottemperanza alla Dichiarazione Quadro 2009/829/GAI del Consiglio, ma le richieste sono sempre state rigettate senza che l’ambasciata italiana, nonostante esplicita richiesta della famiglia, facesse alcun atto concreto per appoggiarle. Le autorità italiane hanno dichiarato che i nostri organi consolari hanno effettuato regolari visite nel carcere in cui Ilaria Salis è reclusa, per verificarne le condizioni di detenzione. Tuttavia, non risulta che finora siano state fatte rimostranze ufficiali alle autorità ungheresi. Su tutti questi aspetti, Amnesty International Italia ha scritto alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni, al vicepresidente del Consiglio e ministro degli Affari esteri Antonio Tajani, al ministro della Giustizia Carlo Nordio e, per conoscenza, all’ambasciatore italiano in Ungheria Manuel Jacoangeli chiedendo urgentemente al governo italiano di intraprendere ogni azione possibile per garantire i diritti fondamentali a Ilaria Salis e rispondere alle richieste dei legali e della famiglia di adoperarsi per consentire che l’imputata possa affrontare il processo in Italia. *Amnesty International Italia Stati Uniti. La milanese e il condannato nel braccio della morte Usa: “Quelle lettere di speranza” di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 19 gennaio 2024 È nato come rapporto epistolare: lei, milanese 85enne; lui, un condannato della Florida nel braccio della morte. Silvia Rocco a Natale è andata anche a trovarlo: per l’uomo è stata la prima visita in assoluto. Nel meraviglioso libro del magistrato Elvio Fassone si raccontava la lunga corrispondenza tra un ergastolano e il suo giudice. Qui il rapporto epistolare è tra una milanese di 85 anni e un condannato della Florida accusato di avere ucciso un’anziana, che da tredici anni vive nel braccio della morte. Nonostante mille difficoltà il legame si è fatto così stretto, assiduo ed essenziale - evidentemente per entrambi - che a Natale la signora, peraltro con difficoltà motorie, è andata persino a trovarlo di persona dall’altra parte dell’Atlantico: per quell’uomo è stata la prima visita in assoluto. Nessuno mai, in tredici anni, era andato a trovarlo lì in carcere, dove vive dentro a una cella di 2 metri per 2,80 senza finestre, con quattro ore d’aria alla settimana. Lo ha fatto Silvia Rocco, quattro figli e diversi nipoti, che ha competenze nella comunicazione non verbale, insegnava teatro e si è sempre occupata di relazioni d’aiuto, anche in situazioni estreme. Dieci anni fa è stata colpita da una neuropatia progressiva alle gambe e da allora ha dovuto fermarsi: “La malattia mi ha avvilito e reso impotente, almeno dal punto di vista motorio. Ho dovuto smettere con il volontariato che facevo prima”. Ma un giorno, nel gennaio di due anni fa, attraverso un’amica entra in contatto con Donald Williams, 67 anni, dell’Union correctional institution di Raiford, in Florida. “Me l’avevano descritto come un uomo solo al mondo. Immaginavo che le sue sarebbero state lettere tristi. Pensavo di dovergli portare una ventata d’aria fresca, visto che ho una vita piuttosto ricca, e credevo che avrei ricevuto poco in cambio, ma presto la storia ha preso un’altra piega”. Lettera dopo lettera, Donald ha scoperto di avere dei sentimenti: “Si è aperto con me. E io, di conseguenza, con lui. Siamo diventati amici, amici veri. Come se tra noi fosse spuntata d’improvviso una luce di vicinanza che è sempre più forte e sincera”. Cosa possono fare di così potente le lettere? Silvia non sa una parola d’inglese, peraltro - e Donald non conosce l’italiano. Entrambi, quindi, si aiutano con Google translate, che lui peraltro può utilizzare solo sotto strettissima sorveglianza. “Quello che mi colpisce è la bellezza delle sue lettere, delle sue parole. Donald è cambiato, nel tempo”, continua Silvia. L’accusa di omicidio che lo ha portato alla condanna a morte è una spada di Damocle, ma “il suo processo è solo indiziario, per questo l’esecuzione viene procrastinata continuamente da tredici anni”. Piano piano le lettere gli hanno fatto riscoprire di essere umano e lui ha cominciato a dare un valore alle sue giornate, a combattere, per come può. “Fa l’avvocato di se stesso, cerca a distanza di tanti anni prove e indizi, per quanto possibile. È una battaglia durissima ma è comunque qualcosa che lo fa sentire vivo”, riflette Silvia. E racconta che Donald ha recuperato i ricordi, che sono una ricchezza anche quando presentano conti terribili - da bambino e adolescente, ad esempio, ha subito e visto violenze e deprivazioni indicibili -, gli è venuta voglia di studiare, non a caso, Legge. “È di una intelligenza straordinaria, quando si è arruolato nei marines è risultato il primo per quoziente d’intelligenza, ci tiene a farmi avere tutti i documenti, quasi a provare ciò che dice”. Quindi Silvia aggiunge: “Per lui ogni cosa nuova è un dono. Ha sempre maggiore coscienza di sé. Persino i miei figli, che all’inizio erano un po’ preoccupati, si sono dovuti abituare all’idea che per me Donald è una persona importante”. Lei lo stima, lui intravede una finestra possibile dentro a quella cella buia e minuscola dove vive. Per l’incontro vis-à-vis di Natale si sono preparati bene. Lei si è fatta accompagnare nel lungo viaggio da un’amica che conosce la lingua. “Donald era vestito con una tuta arancione, come nei film, e aveva la testa rasata, gli occhiali e un sorriso che a me commuoveva. La stanza dei colloqui era bianca e azzurra - prosegue il racconto ancora emozionato di Silvia -, le persone intorno non le vedevamo neanche. Ci siamo stretti la mano forte e abbiamo comunicato con gli abbracci, gli sguardi e soprattutto i silenzi. C’era una complicità sincera, a dispetto della differenza d’età. Siamo ormai grandi amici. Ho guadagnato un bel ricordo. E ho fatto il regalo più bello che potevo fare, innanzitutto a me stessa, viaggiando fino a là”. Gran Bretagna. L’Hotel Ruanda di Rishi Sunak: i migranti deportati in Africa di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 19 gennaio 2024 Su impulso del premier britannico il parlamento approva il Safety of Rwanda Bill che prevede il controverso trasferimento degli immigrati sbarcati illegalmente. Ora il primo ministro britannico Rishi Sunak ha bisogno dell’appoggio di tutto il suo partito perché all’esame della Camera dei Lord dovranno sostenere il suo disegno di legge su un piano di espellere richiedenti asilo in Ruanda. Il provvedimento, per la prima volta presentato da Boris Johnson nel 2022, è già passato alla Camera dei Comuni con una comoda maggioranza di 44 voti dopo che una rivolta tra i tories, che sembrava profilarsi dietro le quinte ad opera di alcuni deputati che volevano norme ancora piu dure, si è in gran parte dimostrata infondata. Sunak però non avrà la possibilità di dormire sonni troppo tranquilli e i segnali circa una dura opposizione sono già arrivati in maniera copiosa. Per questo il primo ministro ha esortato la Camera dei Lord “a fare la cosa giusta” sostenendo la sua legislazione e parlando ieri a Downing Street, Sunak ha affermato che l’approvazione del disegno di legge è “una priorità nazionale urgente”. I conservatori per il capo dei Tories devono “attenersi al piano” perché la massima priorità è quella di “fermare le barche” di migranti. Ora rimane una questione di non piccola importanza e cioè capire quando, una volta approvata la legge, potrebbero partire i voli diretti verso il Ruanda, un quesito al quale però il premier non ha dato nessuna risposta. Sunak ha fatto della politica sull’immigrazione, il fulcro della sua premiership. Secondo il piano, i migranti che attraversano la Manica su piccole imbarcazioni sarebbero oggetto di una vera e propria deportazione in un paese straniero. Ma una versione precedente del provvedimento è stato dichiarata illegale dalla Corte Suprema nello scorso novembre. Il nuovo disegno di legge dunque potrebbe arenarsi alla Camera dei Lord, ma anche in caso contrario è probabile che debba affrontare una serie di ulteriori sfide legali. Ad esempio l’ex revisore indipendente della legislazione sul terrorismo, Lord Carlyle, ha avvertito che è “un passo verso il totalitarismo” per i ministri porsi al di sopra dei tribunali. A questo proposito uno degli ostacoli maggiori risiede nell’articolo 39 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) che è stata introdotta nel diritto britannico nel 2000 attraverso la legge sui diritti umani. Ai sensi dell’articolo della CEDU, la Corte di Strasburgo può imporre misure cogenti ai suoi firmatari qualora decida che esiste una minaccia per la vita o il rischio di maltrattamenti. Ciò significa che il tribunale potrebbe imporre ingiunzioni temporanee di emergenza sulle espulsioni dei richiedenti asilo in Ruanda, come ha fatto nel giugno di due anni fa quando il primo volo di linea per il Ruanda è stato bloccato. Il primo ministro ha affermato, tuttavia, che esiste una clausola contenuta nel disegno di legge sul Ruanda che consente al governo di aggirare questo dispositivo. Sunak ha spiegato che: “Il disegno di legge contiene specificamente un potere che chiarisce che i ministri sono quelli che prendono queste decisioni”. In questo senso il Parlamento gli ha dato ragione. Non certamente i Laburisti che non hanno lesinato critiche. Stephen Kinnock ha affermato che il governo dovrebbe lavorare con i partner europei per “perseguire le bande criminali” che trafficano di esseri umani piuttosto che “inseguire espedienti da prima pagina” come la politica di Sunak sul Ruanda. Un concetto ribadito anche dal leader dei liberali Ed Davey secondo il quale: invece di affrontare le questioni del costo della vita e i problemi del sistema sanitario nazionale, il governo è stato “troppo impegnato a combattere su una politica impraticabile e costosa che è destinata a fallire”.