Il Garante: “Detenuti e morti in aumento, soluzioni subito!” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 gennaio 2024 Un aumento significativo delle morti in carcere, con un sovraffollamento medio del 127,54% che raggiunge il 232,10% in alcuni istituti, come San Vittore a Milano. Una importante criticità della detenzione in media sicurezza è rappresentata dal fatto che le persone detenute in questa categoria sono costrette a rimanere chiuse nelle camere di pernottamento se non sono impegnate in attività. Questo, in alcuni casi, può portare a situazioni di detenzione inumane e degradanti. A lanciare l’allarme è il collegio del Garante Nazionale delle persone private della libertà, composto dal presidente Mauro Palma e dalle componenti Daniela de Robert ed Emilia Rossi, che sono ancora in carica in attesa che si perfezionino le procedure di insediamento del nuovo collegio. I tre hanno sentito la responsabilità di onorare il loro compito di prevenire le violazioni dei diritti umani a fronte di questa vera e propria emergenza. Il Garante denuncia una situazione critica nelle patrie galere, con 18 decessi registrati nei primi 14 giorni del nuovo anno e un sovraffollamento del 127,54%. L’organo di vigilanza sottolinea la necessità di provvedimenti urgenti per evitare violazioni dei diritti delle persone detenute e per affrontare la grave situazione. La sequenza di morti in carcere ha destato grande preoccupazione, con quattro persone che si sono suicidate nei primi nove giorni di gennaio. Tra questi tragici eventi, emerge il caso di un detenuto ad Ancona, entrato in carcere a settembre per la revoca della detenzione domiciliare e che avrebbe dovuto uscire ad agosto di quest’anno. La penultima vittima, detenuta a Cuneo, si è tolta la vita appena 13 giorni dopo il suo ingresso in prigione il 28 dicembre. Le 14 morti catalogate come “morti per cause naturali” aumentano ulteriormente la gravità della situazione. Questi dati allarmano il Garante Nazionale, che sottolinea la similitudine con il triste andamento del 2022, quando si registrarono 85 suicidi nell’arco dell’anno, di cui 8 solo nel mese di gennaio, e precisamente 5 nei primi 14 giorni. Il sovraffollamento carcerario rappresenta un fenomeno in atto da un anno, con una crescita accelerata rispetto agli anni precedenti. Alla fine del 2022, la popolazione detenuta era aumentata di circa 2000 unità rispetto a dicembre 2021, ma al 30 dicembre 2023, l’aumento registrato è stato del doppio, con circa 4000 persone in più. Negli ultimi tre mesi, l’incremento è stato di 1196 presenze, quasi 400 al mese. L’indice attuale di affollamento carcerario, al 14 gennaio 2024, raggiunge il 127,54%, con 60.328 detenuti rispetto ai 47.300 posti disponibili. Alcuni istituti, come la Casa circondariale di San Vittore a Milano, presentano un sovraffollamento del 232,10%, mentre la Casa circondariale di Canton Mombello a Brescia ha un tasso del 204,95%, e quella di Lodi del 204,44%, e Foggia del 195,36%. La criticità della densità della popolazione detenuta è aggravata dalla modalità di attuazione della nuova disciplina della detenzione della media sicurezza. La carenza di attività nelle carceri determina la permanenza delle persone nelle celle, spazi che in alcuni istituti sono inferiori ai limiti stabiliti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, configurando una forte presunzione di trattamento inumano, violando l’articolo 3 della Convenzione, il quale non ammette deroghe, nemmeno in situazioni eccezionali. Come già detto in premessa, il Garante Nazionale, pur in attesa delle procedure di insediamento del nuovo Collegio per il prossimo quinquennio, sottolinea la necessità di agire immediatamente per prevenire violazioni dei diritti delle persone detenute. Il Garante avverte che il problema del sovraffollamento non può aspettare progetti edilizi a lungo termine, né risolversi con l’aggiunta dei nuovi 8 padiglioni previsti dal precedente governo nel Pnrr, i quali potrebbero ospitare non più di 640 persone, una cifra irrisoria rispetto all’eccedenza attuale di 13.000 detenuti rispetto ai posti disponibili. Il Garante Nazionale raccomanda l’adozione urgente di misure di deflazione della popolazione detenuta, simili a quelle introdotte con il decreto- legge 23 dicembre 2013 n. 146, pur di durata temporanea. Inoltre, suggerisce di avviare rapidamente una previsione normativa per una modalità diversa di esecuzione penale per le persone condannate a pene brevi, inferiori ai due anni di reclusione, che oggi contano più di 4000 unità, attuando un forte rapporto territoriale e recuperando strutture demaniali già esistenti. Queste misure, secondo il Garante Nazionale, potrebbero riportare il sistema carcerario al rispetto della dignità della vita delle persone detenute e alla finalità risocializzante della pena, contribuendo anche a prevenire il disagio che spesso si cela dietro gli atti di suicidio in carcere. La responsabilità di agire con urgenza è ora nelle mani delle Autorità competenti. Saranno sordi e continueranno a ripetere il vecchio mantra delle costruzioni di nuove carceri, come ha fatto la presidente Giorgia Meloni alla conferenza stampa di fine anno? Nell’attesa, si spera che il nuovo garante nazionale, che presto assumerà il ruolo e rimarrà in carica per cinque anni, prosegua la linea tracciata dall’importante lavoro iniziato fin dalla sua istituzione. In questi sette anni, il Garante ha dimostrato di essere obiettivo e indipendente rispetto ai vari governi succeduti. Come auspicato dallo stesso Palma durante l’ultima relazione annuale, il collegio che prenderà il loro posto dovrà garantire la continuità, pur nelle differenze che il carattere e le culture di ognuno di noi possono porre, del cammino avviato “proprio perché non si tratta di esprimere una posizione politica, bensì di adempiere a una funzione di garanzia”. E ha sottolineato: “La politica aiuta, coopera, ma non detta regole alle Istituzioni di garanzia”. Escalation di suicidi in cella: cosa sta succedendo nelle carceri? di Alessio Ribaudo Corriere della Sera, 17 gennaio 2024 Ecco perché il 2024 potrebbe essere l’anno record. A Poggioreale l’ultimo decesso, quello di un 38enne. Se continua questo trend potrebbero essere 91 i suicidi fra le sbarre: sarebbe il dato peggiore dal 1992. Dal sovraffollamento alla necessità di più supporto psicologico: viaggio fra le problematiche dei 60mila detenuti in Italia (9mila in più della capienza). Quattro suicidi nelle prime due settimane dell’anno. Senza considerare altri 14 morti per cause diverse, alcune delle quali in corso di accertamento. Il 2024 è iniziato in modo preoccupante nelle carceri italiane. Se questa triste media fosse rispettata, a fine anno, il bilancio sarebbe quello di 91 detenuti che avrebbero scelto di togliersi la vita dietro le sbarre. Una stima che potrebbe anche essere per difetto visto che, negli ultimi mesi, la popolazione carceraria è aumentata notevolmente. Facendo le debite proporzioni fra popolazione carceraria e quella italiana “libera” si tratta di un tasso 20 volte superiore alla media del nostro Paese. I suicidi - Non si tratta di ergastolani che davanti al fine pena mai non hanno retto psicologicamente. Tutt’altro. Il primo a togliersi la vita quest’anno era entrato in carcere da pochi mesi: prima a Fermo e, poi, ad Ancona da pochi mesi. Era stato condannato a quattro anni ma aveva già scontato gran parte della pena una misura alternativa ai domiciliari e avrebbe saldato il suo debito con la Giustizia ad agosto di quest’anno ma è stato ritrovato cadavere nel bagno della sua cella di isolamento a “Montacuto”. L’autopsia ha stabilito che la causa è stata “un’asfissia meccanica violenta”. Subito dopo la tragedia, la madre ha sporto denuncia ai carabinieri: “Voglio sapere come è morto mio figlio”. Si è impiccato anche l’ultimo suicida in ordine di tempo: un 38enne straniero che ha scelto di farla finita all’interno della sua cella a Napoli-Poggioreale. Prima aveva aveva utilizzato lo stesso metodo un 40enne campano con problemi psichiatrici. “Non possiamo continuare ad assistere inermi a questa carneficina - ha commentato Aldo Di Giacomo, segretario del sindacato di polizia penitenziaria - perché sono sempre i detenuti con fragilità a essere destinati a una brutta fine. Queste persone sono abbandonate a se stesse e il governo deve intervenire”. Anche ad Agrigento un 59enne si è impiccato lo scorso 12 gennaio ma a togliersi la vita non sono solo uomini: il 10 gennaio una detenuta nella Casa circondariale di Cuneo è stata ritrovata senza vita. Era in cella da appena 13 giorni. C’è anche chi sceglie di lasciarsi morire per protesta. Un 65enne è morto dopo un lungo sciopero della fame nel carcere di Rieti. Era in attesa di giudizio ed è spirato nel reparto di medicina protetta dell’ospedale “Belcolle” di Viterbo dove era stato ricoverato coattivamente. La preoccupazione - La fotografia scattata a inizi 2024 preoccupa anche il garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale: “È il preannuncio di un andamento molto simile a quello del 2022 quando si sono contati 85 suicidi nel corso dell’anno: 8 nel mese di gennaio, esattamente 5 nei primi 14 giorni”. Anche il 2023 è stato pessimo: con 68 suicidi è stato il secondo anno peggiore di sempre dal 1992 a oggi. Nell’85,3 per cento dei casi, i detenuti si sono suicidati per impiccamento, nel 5,9 per cento per asfissia con bombola da gas e nel 4,4% per sciopero fame. L’età media è stata di 40 anni ma in 15 non avevano più di 30 anni. A queste triste percentuali si aggiungono che i tentati suicidi, gli atti di autolesionismo. “Gli istituti in cui si sono registrati più suicidi sono Torino, Terni, Regina Coeli a Roma e San Vittore a Milano dove si sono uccise quattro persone a istituto - spiegano dall’associazione Antigone - ma se ne sono uccise tre a carcere anche a Verona, Venezia, Taranto, Santa Maria Capua Vetere, Pescara e Milano Opera”. Le cause - Il fenomeno non è affatto facile da affrontare perché è figlio di numerosi problemi che si sommano. Dalla paura della “nuova” vita fra le sbarre al fine pena mai passando per le droghe o problemi psichiatrici. Proprio il presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi, David Lazzari, ha sollevato il problema del supporto psicologico e ha inviato una lettera al capo dipartimento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) per sottolineare come sia “cruciale l’inserimento degli psicologi in maniera stabile e strutturale in pianta organica nelle carceri”. Poi ha aggiunto: “la complessità del suicidio rende necessario un lavoro di staff che male si fa con chi è presente poco in termini di ore e di visibilità e, inoltre, per provare a incidere sulle molteplici cause di fatti così gravi è necessario a nostro avviso saper leggere il contesto per agire anche con e sull’organizzazione”. Il sovraffollamento - A partire da quello grave di sovraffollamento. Al 31 dicembre 2023 nei 189 istituti penitenziari italiani, stando ai dati forniti dal Ministero di grazia e giustizia , a fronte di una capienza da 51.179 detenuti ne risultavano 60.166 fra cui 2.541 donne (con 20 figli in cella con loro). Solo negli ultimi tre mesi - dal 14 ottobre al 14 gennaio - l’aumento è stato di 1.196 presenze, quindi, quasi 400 al mese. Stando ai dati del Garante nazionale l’indice attuale dell’affollamento delle carceri - alla data del 14 gennaio 2024 - è addirittura del 127,54 per cento “con punte di sovraffollamento del 232,1% nella Casa circondariale di San Vittore a Milano, del 204,9% nella Casa circondariale di Canton Mombello a Brescia, del 204,4% in quella di Lodi, 195,3 in quella di Foggia”. Una tendenza che da mesi preoccupa. “È senza battute d’arresto ed è fenomeno in atto da un anno, con una progressione preoccupante rispetto ai precedenti - chiosa il Garante - perché se alla fine del 2022 la popolazione detenuta era aumentata di circa 2.000 unità rispetto a dicembre del 2021, l’aumento registrato al 30 dicembre 2023 è esattamente del doppio, con circa 4mila persone detenute in più”. C’è di più. In 15mila sono in carcere ma non scontano una condanna definitiva. Addirittura 9.259 sono in attesa del primo giudizio. Custodia cautelare che spesso si trascorre in strutture vetuste o passibili di ricorsi per lo scarso spazio per detenuto. Le struttura - Per Antigone “sulle oltre 100 visite compiute negli ultimi 12 mesi dall’Osservatorio sulle condizioni di detenzione dell’associazione, in 25 istituti, il 33%, c’erano celle in cui non erano garantiti 3 metri quadri calpestabili per ogni persona detenuta”. Ecco perché “il numero di ricorsi da parte di persone che lamentavano di essere state detenute in condizioni degradanti è in costante aumento dalla fine della pandemia”. Secondo un report dell’associazione i ricorsi accolti sono stati infatti 3.382 nel 2020, 4.212 nel 2021 e 4.514 nel 2022. C’è anche una questione strutturale. “Preoccupa lo stato fatiscente di molti istituti perché il 31,4 % delle carceri visitate è stato costruito prima del 1950, la maggior parte di questi addirittura prima del 1900 mentre nel 10,5% non tutte le celle erano riscaldate e nel 60,5% c’erano celle dove non era garantita l’acqua calda per tutto il giorno e in ogni periodo dell’anno o nel 53,9% celle senza doccia (benché il termine ultimo per dotare ogni cella di doccia fosse stato posto a settembre 2005). Ci auguriamo quindi che il 2024 riapra una grande discussione nel paese sul carcere e sulle finalità della pena e si capisca che abbiamo bisogno di più misure alternative, di prendere in carico le persone - soprattutto quelle con dipendenza o disagio psichico - all’esterno, evitando che il carcere diventi un luogo di raccolta di marginalità e emarginazione”. Le proposte - Quella del ricorso alle misure alternative al carcere per chi ha ricevuto condanne sotto i due anni di reclusione riguarderebbe oggi più di 4mila detenuti. “Tali misure - concorda il Garante - potrebbero ricondurre il sistema al rispetto della dignità della vita delle persone detenute e della finalità risocializzante della pena, anche nella prospettiva di prevenire quel disagio che è molto spesso dietro gli atti di suicidio in carcere”. Meno percorribile sempre, sul breve, la costruzione di nuove carceri. “Lo stato di sovraffollamento degli Istituti penitenziari italiani non può attendere i tempi di progetti edilizi di diverso genere - spiega - e non è colmato dalla realizzazione dei nuovi otto padiglioni inseriti dal precedente Governo nel Pnrr, poiché essi potranno ospitare non più di 640 persone: una goccia rispetto all’eccedenza attuale di 13mila detenuti rispetto ai posti disponibili”. Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, lancia “oggi l’allarme sul sistema penitenziario italiano, prima che si arrivi a condizioni di detenzione inumane, degradanti e la politica ponga il tema del carcere al centro della propria agenda e accetti di discuterlo senza preconcetti ideologici o visioni di parte. Andando avanti di questo passo, tra 12 mesi, l’Italia sarà nuovamente ai livelli di sovraffollamento che costarono la condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per violazione dell’articolo 3 della Convenzione Edu”. Il governo non ha idea di come risolvere i drammatici problemi delle carceri di David Allegranti linkiesta.it, 17 gennaio 2024 Ci sono già stati diciotto morti nelle prime due settimane del 2024, la popolazione carceraria continua ad aumentare e l’esecutivo Meloni ha le sue responsabilità: ha introdotto nuovi reati anziché depenalizzare, e il personale è la metà del necessario. Il 2024 delle carceri italiane è iniziato malissimo, lo certifica anche il collegio uscente del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, presieduto da Mauro Palma: “Quattro persone si sono suicidate nei primi nove giorni dell’anno, tra il 5 e il 14 gennaio: la prima era entrata in carcere ad Ancona a settembre, per la revoca della detenzione domiciliare con cui stava scontando la pena, e ne sarebbe uscita ad agosto di quest’anno. La penultima, detenuta nella Casa circondariale di Cuneo, era in carcere da tredici giorni: entrata il 28 dicembre, si è tolta la vita il 10 gennaio”. A queste morti vanno aggiunte le quattordici catalogate come “morti per cause naturali”. Sono diciotto i morti in carcere nei primi quattordici giorni dell’anno: “Il preannuncio di un andamento molto simile a quello del 2022, quando si sono contati ottantacinque suicidi nel corso dell’anno: otto nel mese di gennaio, esattamente cinque nei primi quattordici giorni”, dice ancora il Garante, che sta per essere sostituito da un nuovo collegio che con il carcere e l’esecuzione penale ha a poco a che fare. Il presidente Felice Maurizio D’Ettore, in quota Fratelli d’Italia, è un professore di diritto privato. Sarà mai entrato in carcere? Conoscerà la situazione delle carceri italiane, sovraffollate e inadeguate?, sono le domande che si fanno gli addetti ai lavori. “La tendenza al sovraffollamento senza battute d’arresto è un fenomeno in atto da un anno, con una progressione preoccupante rispetto agli anni precedenti: se alla fine del 2022 la popolazione detenuta era aumentata di circa duemila unità rispetto a dicembre del 2021, l’aumento registrato al 30 dicembre 2023 è esattamente del doppio, con circa quattromila persone detenute in più”, dice ancora il Garante: “Negli ultimi tre mesi (dal 14 ottobre al 14 gennaio) l’aumento è stato di 1196 presenze, quindi, quasi quattrocento al mese”. L’indice attuale dell’affollamento delle carceri italiane, alla data del 14 gennaio 2024, è del 127,54 per cento: 60.328 persone detenute, tredicimila in più rispetto ai 47.300 posti disponibili, con punte di sovraffollamento del 232,10 per cento nella Casa circondariale di San Vittore a Milano, del 204,95 per cento nella Casa circondariale di Canton Mombello a Brescia, del 204,44 per cento in quella di Lodi, 195,36 in quella di Foggia. Giova ricordare che nel 2012/2013, prima della sentenza Torreggiani con la quale la Corte Edu nel 2013 condannò l’Italia per violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani, c’erano sessantaduemila/sessantacinquemila detenuti. Adesso ci stiamo avvicinando di nuovo a quelle cifre e la principale soluzione offerta dal governo - costruire più carceri - non sembra essere utile alla risoluzione del problema. Perché in un sistema carcerocentrico e con una classe politica improntata al panpenalismo come il nostro, gli spazi vuoti vengono riempiti molto in fretta. “Il problema è che il garantista Carlo Nordio non ha invertito la tendenza a uso smodato della detenzione, ma forse, anzi, la sta aumentando. Tra cinquemila detenuti saremo ai livelli di quando ci arrivò la condanna della Cedu e può essere che li raggiungiamo nell’anno”, spiega a Linkiesta il filosofo del diritto Emilio Santoro. Alla mezzanotte del 23 gennaio prossimo, la presidente di Nessuno Tocchi Caino, Rita Bernardini, e Roberto Giachetti, deputato di Italia Viva, inizieranno lo sciopero della fame per protestare contro le condizioni delle carceri italiane: “Il nostro interlocutore è la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, con il ministro della Giustizia Carlo Nordio”, ha detto Rita Bernardini nei giorni scorsi per denunciare la situazione “drammatica e strutturale” delle carceri italiane. La soluzione contro il sovraffollamento, ha detto ancora Bernardini, “non può essere la costruzione, come affermato da Meloni, di altre carceri che poi, va detto, con quale personale si coprono?”. C’è infatti un problema di scarsità di risorse umane in carcere: “Tra pianta organica ed effettivi, il personale presente è la metà di quanto necessario”, ha detto la presidente di Nessuno Tocchi Caino. I direttori, gli educatori, i magistrati di sorveglianza (duecentosessanta in tutta Italia), che peraltro devono fare fronte “non solo ai sessantamila detenuti, ma anche agli oltre centomila “liberi sospesi”, ovvero chi è in attesa di una eventuale pena alternativa, avendo ricevuto una condanna inferiore ai quattro anni. La popolazione carceraria continua insomma ad aumentare e il governo ha non poche responsabilità. Come ha osservato Giachetti, che questo mercoledì interverrà in Parlamento per sei minuti sulla relazione annuale sulla giustizia, “il governo vara il decreto Sicurezza che anziché depenalizzare - facendo diminuire eventualmente la pressione sulle carceri - introduce quindici nuovi reati… Una vera e propria fabbrica di reati”. L’opposizione sta cercando di incalzare il governo, ricordando anche le mancanze del garantista Nordio. È di Italia Viva una proposta di legge che ha l’obiettivo di intervenire sull’istituto della “liberazione anticipata speciale”, ovvero sull’aumento da quarantacinque a settantacinque dei giorni da scontare dalla detenzione, mentre i deputati del Partito democratico della commissione Giustizia hanno chiesto e ottenuto un’audizione urgente del Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Giovanni Russo. “Occorrono risorse ed interventi urgenti per fermare questa strage”, dicono i deputati Federico Gianassi e Debora Serracchiani. Per evitare nuovi record come quello dei suicidi in carcere nel 2022 e altre condanne della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Le carceri sono un problema in tutta Italia: da quello di Firenze, dove piove dentro e ci sono i topi, a quello di Bergamo, come denuncia da tempo il sindaco Giorgio Gori: “Ultime dal carcere di Bergamo: - detenuti: cinquecento sessanta due; - posti regolamentari: trecento diciannove; - tasso affollamento: cento settanta sei per cento; - aumento dal 2020: +34,8 per cento; - agenti previsti (per trecento diciannove): duecentocinquanta; - agenti effettivi: duecento sei; - misure alternative per ridurre il numero dei detenuti: non pervenute”. Carcere, a Udine la prova impossibile di Franco Corleone Il Manifesto, 17 gennaio 2024 Che accadrà al carcere in questo anno segnato già da tragedie? Non occorre essere una Cassandra per prevedere che la situazione insostenibile, di violazione dei principi della Costituzione e di non applicazione delle norme positive dell’Ordinamento penitenziario e del Regolamento del 2000, continuerà come una maledizione. Un clima di ineluttabilità pervade la vita quotidiana, senza catarsi e senza apocalisse. A Udine, come garante, con la collaborazione della Società della Regione e dell’associazione di volontariato Icaro, per il secondo anno ho predisposto un calendario con una scelta di dodici articoli della Costituzione e il richiamo a libri, poesie e pensieri sulla condizione del mondo privato della libertà. La ragione è evidente. Il tempo vuoto è la cifra della galera, il tempo che non passa nel luogo senza, senza speranza e senza senso, nel dolore dell’attesa. Il calendario propone a gennaio l’art. 27 e a dicembre l’art. 32: dal rifiuto dei trattamenti contrari al senso di umanità per l’obiettivo della rieducazione, all’affermazione del diritto fondamentale alla salute e alla vita. Le parole di Franco Battiato e di Goliarda Sapienza, di Davide Turoldo e di Pier Paolo Pasolini possono aiutare non a resistere, ma a combattere la violenza del potere. Le presenze in carcere superano le sessantamila unità e aumentano di 400 persone al mese e si realizza così una dimensione del sovraffollamento per cui la Corte europea per i diritti umani condannò nel 2013 l’Italia. Eppure mi sento di sostenere che il dramma non sta nel dato quantitativo intollerabile, ma nella mancanza di significato della detenzione, cioè nell’assenza di un progetto di vita, presente e futura. Penso sia giusto rialzare la bandiera di Mario Tomassini, mitico assessore di Parma, anima della chiusura di tutte le istituzioni totali, di Liberarsi dalla necessità del carcere. La relazione introduttiva dell’incontro il 30 novembre 1984 a Parma fu tenuta da Franco Rotelli, psichiatra del gruppo di Basaglia e acuto politico. “Tagliare ancora la testa al re” era il titolo dell’intervento di quarant’anni fa ed è un messaggio ancora attuale oggi, per costruire città e impresa sociale. La denuncia di un carcere ridotto a discarica sociale si deve a Sandro Margara (altro che extrema ratio!) e bisogna tornare alle sue proposte, cominciando dalla istituzione delle Case territoriali di reinserimento sociale destinate ai detenuti con una pena inferiore ai dodici mesi, strutture di piccole dimensioni dirette dai sindaci, con una sperimentazione affidata a educatori e volontari caratterizzata da autonomia e responsabilità La proposta di legge (n. 1064), di carattere non premiale, va subito discussa dalla Camera dei deputati, insieme alla proposta di abolizione delle misure di sicurezza (n. 158) per eliminare un reperto di archeologia criminale. Un altro fronte di lotta è rappresentato dalla richiesta di applicazione delle buone indicazioni scritte nel 2000 nel Regolamento, inapplicate e che garantirebbero condizioni di vita dignitose. Occorre anche chiedere l’eliminazione dell’isolamento disciplinare e pretendere dal Servizio sanitario la presenza di psicologi a tempo pieno. Il Governo ha minacciato di punire duramente anche le proteste nonviolente con una criminalizzazione insensata. I garanti e il volontariato sicuramente non staranno in silenzio e sicuramente non saranno complici. Infine la Corte costituzionale pronuncerà prossimamente una sentenza sul diritto alla affettività e alla intimità in colloqui riservati. Potrebbe essere l’occasione per una conquista di civiltà, e la rottura di un tabù. Come accadde con la chiusura degli Opg, gli orrendi manicomi giudiziari: Ci sono più cose in cielo e in terra… Si tratta di una piattaforma ragionevole e non demagogica. Contro passività e rassegnazione. Contro il populismo sul carcere servono i diritti di Samuele Ciambriello* La Notizia, 17 gennaio 2024 Mi colpisce la grande determinazione con cui un detenuto di Poggioreale si è suicidato l’altro giorno. Era a rischio suicidario da un anno, seguito e monitorato. Chi cura le persone libere con sofferenza psichica? Il Dipartimento di Salute Mentale (Dsm). Bene! Il Dsm è formato da psichiatri, psicologi, infermieri, assistenti sociali, tecnici della riabilitazione psichiatrica, educatori, Oss. Dunque per curare la malattia mentale non occorre solo lo psichiatra, motivo per cui anche in carcere per curare i malati mentali occorrono queste figure professionali. In Italia sono detenute 60.215 persone, a fronte di una capienza regolamentare di 47mila. In Campania sono ristrette 7.327 persone, le donne sono 346. La capienza regolamentare nelle carceri campane è di 6.165 persone. In Campania sono ristretti 906 immigrati, 181 semiliberi. I detenuti con condanna, pena inflitta, da O a 3 anni in Italia sono 9.086, in Campania 757. In Italia sono ristretti con residuo di pena da O a 3 anni 22.635 persone, in Campania 2.528. Nella nostra regione vi sono 3.285 detenuti che scontano una condanna da 0 a 3 anni e su una popolazione di 7.327 detenuti, 1.312 sono in attesa di giudizio, 502 sono appellanti e 318 ricorrenti. Definitivi, al 5 dicembre, erano 4.511. I detenuti tossicodipendenti, non dichiarati ma diagnosticati, sono 1.400. Circa 200 quelli con sofferenza psichica e solo a Poggioreale ci sono 70 psicotici. Su questi dati, più che fare ragionamenti teorici, vorrei intervenire concretamente istituendo una sorta di task force fra Amministrazione penitenziaria, Magistrati di Sorveglianza, Garanti per verificare quante di queste 3285 persone sono effettivamente impossibilitate ad accedere alle misure alternative e quante, invece, continuano a rimanere in carcere perché dimenticante. Sono convinto che una operazione sistematica di questo tipo possa portare a ridurre notevolmente queste 3.285 unità ristrette in Campania. È un modo concreto per ridurre il sovraffollamento: depenalizzazione dei reati minori, meno custodia cautelare, più misure alternative al carcere. Purtroppo, la politica è assente, c’è un populismo mediatico, politico, che si coniuga con un populismo penale. Mi auguro che ci sia un risveglio di una coscienza civica sui diritti, perché i diritti generano diritti e non un clima culturale per cui il carcere è un posto esterno alla società, da dimenticare, non da cambiare. *Garante campano dei detenuti e delle persone sottoposte a misure restrittive Giustizia riparativa, si allarga l’elenco dei mediatori esperti di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 17 gennaio 2024 In G.U. (del 15 gennaio n. 11) il Dm 15 dicembre 2023 che modifica il decreto 9 giugno 2023. Cade il divieto di essere iscritti all’albo dei mediatori civili, commerciali o familiari. Il Ministero della Giustizia prova a rimediare al flop di iscrizioni all’elenco dei “Mediatori esperti in giustizia riparativa”, introdotto dalla riforma Cartabia, allargandone le maglie per la registrazione. Si tratta di quei professionisti, adeguatamente formati, che conducono i programmi di mediazione o comunque di dialogo a cui volontariamente partecipano la vittima, chi è indicato come autore dell’offesa, i familiari e chi vi abbia interesse, a seguito di un reato per raggiungere un accordo per riparare l’offesa. Le nuove indicazioni sono contenute nel Dm 15 dicembre 2023, pubblicato sulla “Gazzetta Ufficiale” n. 11 del 15 gennaio scorso. Il decreto modifica i requisiti soggettivi di inserimento nell’elenco nonché le cause di incompatibilità ed altresì il termine di presentazione della domanda di iscrizione all’elenco regolato dal decreto 9 giugno 2023. Quest’ultimo, infatti, oltre ad aver previsto l’istituzione dell’elenco, ne disciplina i requisiti per l’iscrizione e la cancellazione, il contributo, le cause di incompatibilità, la qualificazione di formatore e le modalità di revisione e vigilanza. Il testo dopo aver affermato la necessità di “implementare la funzionalità del sistema della giustizia riparativa” ha dunque previsto “l’ampliamento della platea” dei soggetti legittimati a richiedere l’iscrizione “tenuto altresì conto dell’assoluta esiguità delle domande di iscrizione allo stato avanzate”. Cambiano i requisiti soggettivi. Cade il divieto di essere iscritti all’albo dei mediatori civili, commerciali o familiari. Si riduce l’area delle incompatibilità, prevedendo che i mediatori non possano svolgere la loro attività all’interno del medesimo “circondario del tribunale” - e dunque non più del “distretto di corte d’appello” - in cui esercitano “in via prevalente la professione forense gli stessi mediatori esperti ovvero i loro associati di studio, i membri dell’associazione professionale, i soci della società tra professionisti, il coniuge e il convivente, i parenti fino al secondo grado o gli affini entro il primo grado”. Viene infine assegnato anche un “nuovo e differente termine per la presentazione delle domande di inserimento nell’elenco”. Viene infatti modificata la disciplina transitoria con la sostituzione dell’articolo 21 del Dm 9 giugno 2023 sulla presentazione delle domande che dovranno essere presentate degli interessati, a pena di inammissibilità, entro tre mesi dalla data di approvazione del “modello rettificato” di domanda. Giustizia riparativa tra soluzioni inadeguate e criticità evidenti di Gianluca Gambogi* Il Dubbio, 17 gennaio 2024 Il Tribunale di Genova, con una recente ordinanza, ha evidenziato, come meglio non si sarebbe potuto fare, le criticità della giustizia riparativa. Si tratta, a ben vedere, di questioni più volte trattate su queste pagine anche se rileggerle in un provvedimento dell’Autorità giudiziaria le amplifica non poco. I giudici genovesi hanno colto e sottolineato alcuni aspetti di inadeguatezza del sistema: il primo, davvero sconcertante, attiene all’assenza, assoluta, in questo momento, di strutture che possano garantire percorsi riparativi a chi desidera intraprenderli; il secondo riguarda il meccanismo dell’art. 129-bis c. p. p.; il terzo riguarda la violazione della normativa euro unitaria; il quarto, infine, riguarda l’eccesso di delega, e quindi la violazione degli artt. 76 e 77 della Costituzione, poiché il D.Lgs. n. 150/22 non avrebbe applicato in maniera coerente i principi dettati dalla Legge n. 134/21. Aspetti tutti importanti, nessuno escluso, tant’è vero che la lettura del provvedimento dell’Autorità giudiziaria (l’ordinanza è scritta in maniera chiarissima) offre un nitido quadro delle inadeguate soluzioni poste in essere dal nostro legislatore. Vale la pena tuttavia di soffermarci sulla criticità che risalta maggiormente rispetto alle altre. L’art. 129-bis c.p.p. da tempo viene indicato come portatore di un meccanismo irragionevole e non condivisibile. Non può prevedersi un sistema che consente al giudice di imporre la riparazione alle parti così come attualmente previsto. Innanzi tutto perché non vi può essere costrizione alcuna sulla vittima che può legittimamente rifiutarsi di partecipare altrimenti sarebbe costretta a subire un’ulteriore vittimizzazione. In secondo luogo perché, ed è un aspetto che pone la nostra normativa in contrasto con quella europea, il diritto di difesa costituzionalmente garantito non può essere in alcun modo eluso. Prova ne sia che, proprio a livello sovranazionale, una delle condizioni essenziali per i percorsi riparativi è che il reo abbia riconosciuto come accaduti i fatti che sono contestati al medesimo. Sorprende, non poco, che il legislatore abbia dimenticato un passaggio così importante della normativa europea. Non è quindi un caso che il provvedimento affermi che i programmi di giustizia riparativa devono rispondere almeno alla condizione sopra indicata e cioè che l’autore riconosca i fatti essenziali del caso. Ma non vi è soltanto questo. I giudici del capoluogo ligure registrano, come già evidenziato, la totale mancanza di un’organizzazione per la giustizia riparativa che, alla luce della legislazione vigente, non può essere delegata a strutture diverse da quelle indicate. È davvero pensabile che una delle parti più significative della riforma Cartabia sia stata così mal concepita? Infine si preannuncia, laddove si dovesse proseguire su questa strada, un ulteriore profilo di profonda criticità e cioè l’assenza, o quasi, degli avvocati delle parti nel percorso riparativo. Appare difficile pensare che la parte, vittima o reo che sia, accetti serenamente di affrontare quanto sopra senza la presenza al suo fianco del difensore di fiducia scelto. Le norme di più facile applicazione, come insegnano i classici, sono quelle sagge (e brevi) perché rispettarle è più facile per tutti. Se vogliamo evitare la strage delle illusioni è augurabile che il legislatore torni al più presto sui suoi passi. *Professore di diritto penale Università di diritto internazionale Milano (UPM) Le difficoltà del sistema giudiziario e le riforme di cui l’Italia necessita di Marzia Amaranto Il Riformista, 17 gennaio 2024 Le attuali sfide devono partire da 6 punti fondamentali che richiedono un approccio totale, non solo delle istituzioni ma anche e soprattutto dei professionisti del settore legale. È realisticamente difficile, anche per coloro che non frequentano con regolarità le aule di giustizia, negare che nel nostro Bel Paese è alquanto arduo riuscire a riformare la giustizia. Taluni potrebbero attribuire il problema ad una cultura giuridica radicata, avendo l’Italia una lunga storia tradizione giuridica, la resistenza al cambiamento potrebbe derivare da una forte identità e/o attaccamento agli usi giuridici consolidati nel corso dei secoli. Altri ravviserebbero difficoltà attribuendole alla instabilità politica e frammentazione del sistema politico italiano, che renderebbe difficile raggiungere un più ampio consenso su questioni particolarmente complesse come la riforma giudiziaria. Molti altri attribuirebbero la colpa alla complessa burocrazia che renderebbe arduo il processo di approvazione di riforme giudiziarie, a causa di procedure che rallenterebbero il progresso. Sicuramente la mancanza di risorse finanziarie e umane costituisce un ostacolo significativo all’implementazione di una riforma giudiziaria, ma anche la crisi di fiducia nell’istituzione giudiziaria dovuta ad eventi passati, quali scandali, che hanno minato la fiducia dell’opinione pubblica nell’istituzione giudiziaria, rendendo difficile il compito di raccogliere un più ampio consenso per tale/i riforma/e. Senza dimenticare poi la resistenza a volte di addetti al settore, quali avvocati, giudici e funzionari pubblici, per paura di perdere privilegi o prassi consolidate che contribuiscono alla resistenza al cambiamento. Affrontare queste sfide richiede un approccio strategico, ovvero una leadership politica forte, che riesca a costruire consenso, non solo tra gli attori politici ma anche soprattutto tra la popolazione, con la consapevolezza che è fondamentale sviluppare riforme giudiziarie efficaci e sostenibili aldilà degli ostacoli. Ultimo ma non ultimo punto le riforme richiedono tempo per produrre risultati e troppo spesso l’intangibilità immediata porta a una percezione di inefficacia e di rallentamento nel sostegno. Attualmente ci troviamo dinnanzi alla fase forse più confusa e convulsa di una difficile transizione, verso la quale ancora non è chiaro la direzione in cui stiamo transitando, con inevitabile risalto di contraddizioni, contrasti e asperità. Le attuali sfide del sistema giudiziario italiano devono partire da 6 punti fondamentali. La congestione giudiziaria dovuta al sovraccarico di casi che rallenta i processi legali, causando ritardi eccessivi nelle udienze e nelle decisioni; l’accesso disuguale alla giustizia dovuto alla disparità di accesso ai servizi legali, con persone che a dispetto di altre possono permettersi assistenza legale di qualità superiore rispetto ad altre; la rapida evoluzione tecnologica e le questioni legate all’intelligenza artificiale necessitano l’adattamento alle nuove tecnologie e l’impiego dell’intelligenza artificiale; affrontare le preoccupazioni legate alla protezione della privacy e dei dati sensibili, in relazione alla gestione di grandi quantità di dati personali durante le indagini e i procedimenti giudiziari; l’adattamento alle sfide imposte dalle crisi sanitarie, necessitano di un’implementazione delle udienze virtuali e di una gestione del lavoro da remoto; infine non ultimo l’esigenza di riforme legali che garantiscano un sistema giudiziario adeguato a rispondere alle mutevoli esigenze della società e che affronti le questioni emergenti. Questi sei brevi punti richiedono un approccio totale, non solo delle istituzioni ma anche e soprattutto dei professionisti del settore legale. E allora l’Italia di quali riforme legali necessita? Accelerazione dei processi giudiziari con implementazione di misure atte a ridurre la congestione giudiziaria e l’accelerazione dei tempi dei procedimenti, anche attraverso l’uso della tecnologia digitale; riforma del settore penitenziario con miglioramento delle condizioni carcerarie e implementazione di politiche che favoriscano la riabilitazione e reinserimento in società dei detenuti; lotta continua contro la corruzione e la presenza di criminalità organizzata che influenzi il sistema giudiziario, richiedendo un costante impegno nel garantire l’efficacia applicazione della legge; necessario aggiornamento tecnologico per migliorare l’efficienza del sistema giudiziario ed evitare ritardi nei processi, che possano in questo modo influenzare la percezione della giustizia e ostacolare la dissuasione criminale, pertanto la creazione di un ambiente legale favorevole all’innovazione e che incoraggi gli investimenti e lo sviluppo di tecnologie; riforma del codice civile e del codice penale per poter garantire un adeguamento agli sviluppi sociali, garantendo una maggior chiarezza nelle leggi; riforma del sistema di immigrazione e asilo con la revisione delle leggi sull’immigrazione per affrontare le sfide legate all’integrazione dei migranti; aggiornamento e adattamento alle normative europee in tema di protezione dei dati per lo sviluppo di leggi più robuste nell’affrontare le crescenti preoccupazioni sulla privacy nell’era digitale; ultima ma non meno importante la riforma del lavoro e della sicurezza sociale per rispondere con chiarezza alle dinamiche del mercato del lavoro in continua evoluzione e garantire una maggiore sicurezza sociale. Queste otto proposte di riforme necessarie per affrontare le sfide del sistema giudiziario rappresentano solo alcune delle possibili riforme, che andrebbero considerate e sviluppate per le esigenze specifiche dell’Italia, ma non sono per nulla esaustive essendoci un’infinità di possibili approcci di riforma. Prescrizione “allungata”, primo sì tra le proteste. Le ispezioni in 13 Procure di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 17 gennaio 2024 Addio improcedibilità, tornerà la prescrizione. Per la quarta volta in sette anni, si ricambia. Anche per i processi in corso. La Camera ha approvato, con 173 si e 79 no, la proposta di legge che reintroduce il conto alla rovescia per l’estinzione dei reati. Con due sospensioni: due anni dal primo grado all’Appello e uno dal secondo grado alla Cassazione. Com’era nella riforma Orlando, ma con una differenza: nel caso in cui la sentenza non arrivi nei limiti di tempo previsti, ogni giorno in più entrerà nel computo della prescrizione. Esulta - anche prima del voto finale generando proteste dal Pd - il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro, orgoglioso “del successo epocale di aver ridato i diritti sostanziali ai cittadini, senza deprivare la magistratura del tempo congruo per contrastare i reati”. Soddisfatti del sostegno al governo anche Azione, che con Enrico Costa parla di “scelta liberale”, e Italia viva che con Roberto Giachetti plaude “al ripristino di un tratto di civiltà giuridica”. Protestano le altre opposizioni. Federico Cafiero De Raho, per i 5 Stelle, accusa: “Lo Stato rinuncia alla giustizia”. E il Pd, con Debora Serracchiani, avverte: “Sarà caos nei tribunali, a rischio 3 miliardi del Pnrr”. Conferma le difficoltà il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia: “Il Parlamento è rimasto sordo al nostro appello. Avevamo chiesto una disciplina transitoria perché l’accavallarsi delle norme rende difficile districarsi con il cambiamento in corsa. Anche perché ci sono obiettivi Pnrr da rispettare come il dimezzamento dei tempi e l’abbattimento dell’arretrato”. Accuse respinte dal governo. “La prescrizione torna a essere parametrata alla gravità del reato e alla pericolosità del reo. In più eliminiamo quel Frankenstein giuridico della improcedibilità, votata anche da Pd e M5S, che, secondo magistrati come Gratteri avrebbe mandato in fumo il 50% dei processi, anche di grave allarme sociale”, sottolinea il sottosegretario che sulla norma transitoria, obietta: “Non si poteva fare. Su istituti di diritto sostanziale è il giudice che deve decidere nel modo più favorevole al reo”. Ora la legge passa, per l’ok definitivo, al Senato, dove, da oggi riprendono le votazioni in commissione giustizia per la riforma Nordio. Il sì alla nuova prescrizione arriva in un giorno in cui, a Montecitorio, rispondendo a una interpellanza di Costa, sempre Delmastro, in rappresentanza del governo, ha annunciato l’avvio di ispezioni in tredici procure per verificare se negli incontri con la stampa siano state compiute violazioni alla normativa sulle presunzione di innocenza che chiede conferenze stampa solo in caso di rilevante interesse pubblico e di non eccedere nel dare titoli giustizialisti alle inchieste (“tipo: Banda Bassotti”, esemplifica Costa). Con conseguenze disciplinari in caso contrario. “La normativa sulla presunzione di innocenza non dà parametri, ma lascia ampio margine alle procure di valutare se l’informazione è rilevante. Se introduciamo un controllo disciplinare il rischio è che, per cautela, si chiudano i rubinetti dell’informazione. E non so quanto sia un bene”, rimarca Santalucia. Un rischio che non vede il sottosegretario: “Il monitoraggio è stato fatto “a campione” e non valuta nel merito ma solo se siano state rispettate le procedure previste. I pm prima di convocare una conferenza stampa devono fare richiesta motivata al procuratore”. Sotto la lente Avellino, Brescia, Cagliari, Ferrara, Catanzaro, Frosinone, Livorno, Rimini, Rovigo, Tempio Pausania, Vercelli, Latina e Torino. Ma si estenderà a tutte. Prescrizione, sì dell’Aula: battuto l’asse Pd-Csm di Errico Novi Il Dubbio, 17 gennaio 2024 Semaforo verde per la riforma simile alla “Orlando”: pur di opporsi, il Nazareno avalla l’ingerenza togata. Palazzo dei Marescialli aveva diffuso un parere critico, “sposato” dai dem. Nel calcio lo chiamano “salvataggio alla disperata”. Lo tenta il difensore sulla linea di porta. A volte riesce, a volte no. E la scivolata in cui si è prodotto ieri il Pd sulla prescrizione, incoraggiato dal Csm (oltre che da 5S e Verdi-Sinistra), non ha evitato il gol, cioè il primo via libera alla riforma. La maggioranza ha finalmente portato a casa il sì di un’aula parlamentare a una legge “di sistema” in campo penale (173 favorevoli, inclusi i deputati di Azione e Italia viva, e 79 contrari, tutti di Pd, M5S e Avs). Successo che ora andrà bissato a Palazzo Madama, certo, ma che intanto precede anche il ddl Nordio, sul quale oggi dovrebbe arrivare l’ok in commissione Giustizia al Senato. La vittoria del centrodestra ha un gusto particolare anche perché sconfessa l’altolà incredibilmente “tempestivo” arrivato dal Csm: pochi giorni prima, infatti, la sesta commissione di Palazzo dei Marescialli aveva approvato un parere critico sulla nuova prescrizione, e ha prodotto così un riflesso parlamentare tanto clamoroso quanto offensivo per la separazione dei poteri. Con una comunicazione a sorpresa che ha aperto la seduta di ieri a Montecitorio, il capogruppo Giustizia del Pd Federico Gianassi ha chiesto di riportare la riforma in commissione, innanzitutto perché 26 procuratori di Corte d’appello avevano reclamato, in una lettera a Nordio, una norma transitoria per congelare, di fatto, l’entrata in vigore della legge. Con assoluto candore, l’onorevole Gianassi ha segnalato anche il parere del Csm, che condivide la linea delle Procure generali. Il deputato dem, oltre che candido, è stato eufemistico: il Consiglio superiore, o meglio, la sua commissione avrà pure approvato (“complice” il laico Roberto Romboli, indicato proprio dal Pd) il documento critico nei giorni scorsi, ma ha fatto in modo, guarda caso, che la notizia dell’altolà coincidesse magicamente con l’esame della legge in Aula, fissato dopo tre mesi di rinvii. Una tempistica che definire casuale sarebbe ipocrita: proprio oggi, infatti, il plenum del Csm discuterà e voterà la proposta di parere. Giusto in tempo per fare in modo che ieri, pochi minuti prima che iniziassero i lavori della Camera, le agenzie di stampa riportassero il monito: “Il nuovo regime della prescrizione, contenuto nella riforma, rischia di avere effetti negativi sugli obiettivi del Pnrr”. Incredibile: un no delle toghe a due ore dal voto parlamentare. Se la magistratura istituzionale voleva affermare in modo plastico la propria pretesa di condizionare il legislatore, e se possibile di sostituirlo, non poteva scegliere impianto più scenografico. L’altra cosa disarmante è che il Pd si presta al gioco. Anziché segnalare l’ingerenza, la cavalca alla grande. A far notare a Gianassi che c’è un dejà-vu nella coincidenza fra voto in Parlamento e siluri togati è il relatore della legge, Enrico Costa: il responsabile Giustizia di Azione, che aveva ottenuto fin da subito la piena fiducia del centrodestra, ricorda che “non è nuova la puntualità di certe critiche”. A lui la cosa sembra sconveniente, a Gianassi pare provvidenziale: punti di vista. Non è privo di interesse lo stesso mini-dibattito che segue alla richiesta del Pd: rispedire tutto ai box, cioè in commissione Giustizia, per riflettere sulla norma transitoria invocata dai procuratori. Gianassi dice che così sarà possibile “ascoltare in audizione proprio il parere della magistratura”. Poco dopo prende la parola l’altro relatore di maggioranza, il deputato di FdI Andrea Pellicini, che osserva: “Visto che il collega del Pd tiene all’opinione della magistratura, forse sarà il caso di ricordare una volta tanto anche l’opinione radicalmente contraria espressa, sulla lettera dei procuratori, dall’avvocatura”. Deogratias. Tutta la giornata pare scandita da un certo imbarazzo del partito di Elly Schlein. Perché non si può tacere del fatto che la riforma del centrodestra (partita da un testo base dell’azzurro Pietro Pittalis) riporta sì la prescrizione al suo regime sostanziale, ma nel farlo recupera in gran parte l’impianto della riforma Orlando. Parliamo della prescrizione “2017 edition” (la giostra di riforme richiede definizioni mutuate dal mondo dei videogames) che, come la nuova, si basa sulla sospensione del cronometro in appello e in Cassazione, in modo da evitare che le fasi di impugnazione svaniscano un minuto dopo essere iniziate. Rispetto a Orlando, il successore Carlo Nordio, il suo vice Francesco Paolo Sisto (FI) e i sottosegretari Andrea Ostellari (Lega) e Andrea Delmastro (FdI, delegato ieri a seguire i lavori), hanno variato di poco l’impianto: nel calcolo base si parte dal massimo edittale aumentato di un quarto anziché della metà, e i tre anni complessivi di sospensione sono calibrati con uno scarto appena diverso (24 mesi, anziché 18, in appello). La sola vera novità è che stavolta il tempo sospeso torna nel calcolo non solo in caso di successiva assoluzione ma anche qualora venga sforato. Un incentivo a “correre” che dovrebbe far bene a tutti. Ebbene, contro una riforma quasi fotocopia di quella firmata dal loro ex guardasigilli, i dem ieri hanno scavato tutte le trincee possibili. Fino alla più paradossale, difesa, oltre che da Gianassi, dalla responsabile Giustizia del Pd Debora Serracchiani: un emendamento che avrebbe spazzato via il testo costruito nei mesi scorsi e ripristinato proprio quello di Orlando. Di fatto, la smentita dell’urgenza di quella norma transitoria sollecitata poco prima. Ma così i dem hanno rinnegato pure quella commissione istituita da Marta Cartabia e presieduta, nel 2021, da un gigante del diritto penale come Giorgio Lattanzi. Erano stati i “saggi” guidati dal presidente emerito della Consulta, infatti, a concepire l’assetto quasi integralmente recepito dall’attuale maggioranza. Eppure il Pd, per non dire degli anatemi lanciati ieri dai 5 Stelle, hanno definito quel testo non abbastanza “equilibrato”. Se ne riparlerà fra un po’ in Senato. E per allora, c’è da starne certi, i magistrati tenteranno un’altra scivolata sulla linea di porta. Perché lo stop all’abuso d’ufficio è un’abrogazione non risolutiva: il timore della firma risolto solo in parte di Catello Vitiello Il Riformista, 17 gennaio 2024 All’inizio sarà positivo, ma non andrà sottovalutata la possibile dilatazione di quei reati più gravi. È vero che la scelta di abrogare radicalmente il reato di abuso d’ufficio risolve il fenomeno del cosiddetto “timore della firma”, che paralizza gli amministratori e in particolare i sindaci? In parte, sì. È certamente fondato il timore dovuto alla scarsa determinatezza della fattispecie di abuso d’ufficio descritta dal codice, in ragione del totale controllo del giudice penale sui limiti della discrezionalità amministrativa, rimessa completamente alla scelta interpretativa di chi investiga. Anche gli obblighi previsti dalla normativa sovranazionale in materia di anticorruzione non conducono a legittimare l’estrema “vaghezza” della fattispecie e, men che mai, l’arbitrio interpretativo. In realtà, la genericità della formulazione era nota al Legislatore del 1930, che scelse una formulazione indefinita che non descriveva tutti i vizi tipici degli atti amministrativi, avallata comunque dalla Consulta che preferì far prevalere il carattere abusivo della condotta sulla effettiva illegittimità dell’atto. Le riforme successive, quella del 1990 e del 1997, non rimediarono alla indeterminatezza del testo originario, producendo effetti anche peggiori. Dopo l’aumento della sanzione previsto nel 2012, si arriva alla modifica del 2020 che ha avuto il solo merito di “provocare” una pronuncia della Corte costituzionale nel 2022 con la quale si è riconosciuta l’esistenza del fenomeno della “burocrazia difensiva” che comporta la scelta degli amministratori pubblici di non assumere decisioni comunque utili al perseguimento dell’interesse pubblico e di appiattirsi su prassi meno impegnative che non comportano la loro sovraesposizione. Infatti, pur sottraendo al giudice penale la possibilità di valutare l’inosservanza dei principi generali di buon andamento e imparzialità dell’amministrazione fissati dall’articolo 97 della Costituzione, il nuovo abuso d’ufficio continua a creare confusione tra l’uso “illecito” e l’uso “distorto” del potere pubblico. E allora cosa fare? Come al solito, problemi complessi richiedono soluzioni altrettanto complesse. La “sindrome della firma” costituisce senz’altro un fenomeno con cui fare i conti, vista anche l’incidenza riconosciuta dalla Consulta nel 2022, che ha rilevato come i pubblici amministratori non siano frenati soltanto dalla paura della condanna, ma anche e soprattutto da quella della mera esistenza del procedimento penale e della conseguente gogna mediatica. La soppressione della norma penale senza un intervento legislativo che semplifichi davvero le procedure amministrative e che riveda le fattispecie penali esistenti avrà, all’inizio, un effetto certamente positivo soprattutto nei confronti degli amministratori già sottoposti a procedimento penale per abuso d’ufficio o già condannati. Col tempo, però, non andrà sottovalutata la possibile dilatazione di quei reati più gravi come l’omissione di atti d’ufficio, il peculato per distrazione, la turbativa d’asta, la corruzione, etc., che faranno riemergere con maggiore forza la burocrazia difensiva. L’attuale scelta abrogativa, quindi, è certamente giustificata dalle distorsioni investigative e giurisprudenziali degli ultimi tempi a danno della classe dirigente, ma non potrà prescindere da un serio adeguamento delle procedure amministrative e del sistema dei controlli in seno alla P.A., facendo chiarezza delle disposizioni inerenti alle competenze dei sindaci, dei dirigenti e dei funzionari amministrativi e assegnando ad ogni potere la corrispondente e cristallina responsabilità. Se qualcuno ritenga assurdo lasciare scoperti dal presidio penalistico abusi di funzioni e di poteri dall’indubbia illiceità, dovrà poi ricordare che è certamente doveroso limitare il sindacato penale sull’attività amministrativa perché all’autorità giudiziaria non spetta la valutazione in astratto del perseguimento dell’interesse pubblico, ma la verifica in concreto della condotta illecita descritta dalla norma e posta in essere dall’amministratore pubblico, politico o meno che sia. Il ministero della Giustizia “monitora” 13 procure sul rispetto delle regole nei rapporti con la stampa di Giulia Merlo Il Domani, 17 gennaio 2024 Il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro, ha fatto sapere che sono in atto monitoraggi, all’interno delle ispezioni ordinarie nelle procure di di Avellino, Brescia, Cagliari, Catanzaro, Ferrara, Frosinone, Latina, Livorno, Rimini, Rovigo, Tempio Pauania, Torino e Vercelli. I monitoraggi riguardano il rispetto delle regole sul fatto che solo il procuratore capo possa parlare coi giornalisti, con conferenze o comunicati stampa, attenendosi al principio di presunzione di non colpevolezza Il monitoraggio era previsto ed è stato annunciato oggi, martedì 16 gennaio, dal sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro, durante un’interrogazione alla Camera: l’ispettorato generale del ministero della Giustizia ha attivato il controllo su 13 procure della Repubblica per quanto riguarda le loro modalità di comunicazione sui procedimenti penali in corso: Avellino, Brescia, Cagliari, Ferrara, Catanzaro, Frosinone, Livorno, Rimini, Rovigo, Tempio Pausania, Vercelli, Latina, Torino. La ragione del monitoraggio riguarda l’applicazione corretta delle norme approvate durante il governo Draghi come applicazione della direttiva europea sulla presunzione di innocenza e frutto di una proposta del deputato di Azione, Enrico Costa, che ha promosso l’interrogazione di oggi. A settembre già il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, aveva detto che sono iniziate tre azioni disciplinari a seguito del monitoraggio su queste norme, tre su esercizio della procura generale della Cassazione e una dell’Ispettorato. Le previsioni, che si applicano solo nei confronti delle procure ed erano state accolte con scetticismo dalle toghe, prevedono che solo il procuratore capo possa interloquire con la stampa, tramite conferenze stampa o comunicati stampa; che la comunicazione rispetti sempre il principio di presunzione di non colpevolezza degli indagati e che le procure non assegnino più “nomi d’arte” per le indagini, da cui traspaia un pregiudizio di colpevolezza. Nel caso in cui si violino queste norme, le toghe sono passibili di procedimento disciplinare davanti al Csm. Per rendere efficaci le norme, Delmastro ha spiegato che il governo ha “emanato direttive riguardo all’effettuazione, da parte dell’ispettorato generale del ministero del monitoraggio degli atti motivati dei Procuratori della Repubblica in ordine alla sussistenza dell’interesse pubblico che giustifica l’autorizzazione a conferenze stampa e comunicati degli organi inquirenti”. Quindi, a partire da ispezioni ordinarie eseguite nel turno di settembre 2023, il ministero ha attivato il monitoraggio rispetto a 13 procure. In altri termini, il monitoraggio sul rispetto delle norme sulla presunzione di innocenza si è innestato in un controllo che il ministero già stava effettuando in 13 procure. La presunzione di innocenza - Delmastro ha spiegato anche che il governo intende “garantire la presunzione d’innocenza, evitare la spettacolarizzazione mediatica, che tanto male ha fatto alla stessa percezione che i cittadini hanno della giustizia” e ha parlato della “necessità di rivedere completamente la disciplina degli atti istruttori con particolare attenzione alle intercettazioni”, ricordando anche la norma appena approvata alla Camera che prevede la non pubblicabilità integrale o per estratto delle ordinanze di custodia cautelare e il contenuto del ddl Nordio ora in commissione Giustizia al Senato, che prevede un rafforzamento della privacy del terzo non indagato ma registrato perché parlava con un indagato. Anche se, ha aggiunto Delmastro, “il diritto di difesa deve essere però contemperato con il diritto ad essere informati”. Dietro i ficcanaso social travestiti da giornalisti d’inchiesta c’è solo cattiveria di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 17 gennaio 2024 La creazione di Tribunali del Popolo, votati a giudicare senza contraddittorio né possibilità di difesa per l’accusato e finalizzati a erogare la pena di morte senza appello, è sempre stata una caratteristica del terrorismo. E ne sappiamo qualcosa anche noi in Italia. Questi Tribunali sono esistiti, hanno giudicato, hanno ucciso. Non c’è bisogno di ricordare Aldo Moro, la sua non è stata di certo l’unica esecuzione di quegli anni. Bisognava crederci molto, nel moto rivoluzionario contro il potere, per arrivare a uccidere. E a stabilire che la guerra è guerra, per chi ritiene di essere, appunto, in guerra. Ma il punto tragico è prima ancora del gesto di dare la morte, la pretesa di farlo, senza aver avuto investimento alcuno né da alcuno, nel nome del popolo. Assistiamo oggi, e il paragone non è per niente peregrino, all’esistenza di una sorta di guerriglieri della notte, di tribunale supremo dell’inquisizione, che si è assunto il compito di “placare la sete di verità del popolo contro gli eretici”. Gli eretici sono tutti quelli, a partire da coloro cui per mestiere è affidato il compito di fare informazione, che non mostrano di avere questa “sete di verità”. A tutti gli altri, al popolo, provvedono loro, i guerriglieri della notte, con la loro attività di factchecking, il “controllo dei fatti”. Esercitare l’arte del dubbio fa parte della storia della cultura e della filosofia, e il controllo delle versioni ufficiali dei fatti è, ed è stata, un’esigenza, anche politica, doverosa, soprattutto in presenza di fatti tragici. Un esempio per tutti, la strage del 12 dicembre 1969 a Milano e la successiva morte dell’anarchico Pino Pinelli, volato dalla finestra della questura tre giorni dopo. Di fronte a versioni istituzionali che apparivano poco credibili e contraddittorie sulla storia di quel “volo” e di una magistratura poco coraggiosa, e a un Pci più di governo che di lotta, furono i giovani a impugnare il diritto al dubbio. Persino a scrivere un libro, “Strage di stato”, che dava la propria versione alternativa di quei tragici fatti. Si chiama controinformazione. Non esiste più, come non esiste il giornalismo d’inchiesta, a meno che non vogliamo chiamare con questo termine l’attività velinara e passiva di certi cronisti giudiziari. Esiste invece e purtroppo un altro fenomeno, che ha sostituito la dignità del curioso con la miseria del ficcanaso. Ficcanasare nella vita pubblica e privata del vicino di casa, nell’epoca in cui ciascuno di noi è vicino di casa di tutto il mondo tramite i social, cogliere le sue magagne e usarle per scarnificare il suo corpo e i suoi sentimenti, tutto nel nome della ricerca della verità. Perché per coloro che si sono autoproclamati “controllori dei fatti”, non esistono ostacoli o insuperabili buchi della serratura. Se ti devo mettere nudo fino a toglierti la pelle, lo faccio in nome della verità. Se poi io sono un comunicatore con centinaia di migliaia o magari milioni di ammiratori gregari che si sentono grandi in quanto da me influenzabili, è davanti a tutti costoro che tu sarai nudo e spolpato nel corpo e nella mente, sentimenti compresi. Nessuna pietà, perché i Tribunali del Popolo conoscono un’unica sentenza, quella della pena di morte. Poi arriveranno schiere di psicologi, quando accadono fatti con epiloghi tragici come quello della signora Giovanna Pedretti, titolare della pizzeria “Le Vignole” a S. Angelo Lodigiano, a spiegarci i variegati moti dell’animo che possono portare una persona al suicidio. Certo, tutto vero. Ma, come ci spiegava il professore di storia al liceo, a scatenare una guerra c’è sempre una “causa occasionale”, che va a cadere in un contesto già pronto, ma senza la quale forse la guerra non ci sarebbe stata. Per nostra fortuna nessuno di noi ha in tasca le certezze di Marco Travaglio, il quale ritiene che i giustizieri della notte Selvaggia Lucarelli e Lorenzo Biagiarelli abbiano avuto il “merito” della “verifica dei fatti”. Cioè, di fronte a una signora che gestisce un ristorante nella bassa milanese dove si mangia bene tanto che è sempre pieno, e che forse combina qualche pasticcio con i social, ecco partire di scatto un cuoco, cioè una specie di collega, il quale, travestito da giornalista d’inchiesta e controllore dei fatti, “smaschera” la sventurata, rea di aver messo insieme un messaggio di aprile con una riposta di otto mesi dopo. Factchacking, factchacking, controllo dei fatti, controllo dei fatti! Allo squillo di tromba del cuoco risponde dall’altra stanza dello stesso appartamento lo squillo di risposta della fidanzatina, che mette sul palcoscenico dei milioni di suoi gregari il corpo scarnificato della pizzaiola lodigiana. Che non è certo Aldo Moro. Ma che ne ha ormai assunto la stessa immagine sacrificale. Alla domanda sul perché stia accadendo tutto ciò e perché esistano questi giustizieri della notte e quali scopi vogliano raggiungere, sono state date diverse risposte, tutte credibili: esibizionismo, potere, soldi eccetera. Ma ce ne è una che è forse più comprensibile al mondo dei bambini, perché non hanno ancora imparato a controllarsi, che non a quello degli adulti, più adusi a maschere e astuzie. La risposta è questa: la cattiveria esiste. Non in tutti, ma in alcune persone si. Poi molti la sanno controllare e, nel corso della loro vita non fanno, come si dice, male a una mosca. Ma altri invece non controllano, ma anzi coltivano la propria cattiveria. E con soddisfazione. Cerchiamo di non dar loro troppe occasioni. Ma qualcuno ora spieghi perché hanno portato in caserma la ristoratrice di Alessandro Barbano Il Dubbio, 17 gennaio 2024 Perché i carabinieri hanno convocato Giovanna Pedretti in caserma per interrogarla come persona informata sui fatti? È la domanda chiave, nel suicidio della ristoratrice, ancorché del tutto ignorata da media e politici, che da quarantott’ore, e da parti opposte, si rinfacciano la responsabilità della gogna, come fonte di una presunta istigazione al suicidio. Nessuno si chiede perché un cittadino debba essere convocato da un’autorità di polizia per spiegare il senso di una sua libera manifestazione di pensiero sui social, ancorché non veritiera, ancorché forse mossa dal bisogno di farsi pubblicità. In Italia la bugia è forse diventata un reato? È legittimo che a smascherarla sia un influencer. È discutibile che l’influencer si travesta da investigatore, vantandosi di una conversazione- interrogatorio con la vittima, messa nel mirino del suo bazooka di verità. Ma a che titolo la potestà autoritativa dello Stato interviene a far luce sulla veridicità del dibattito pubblico? C’è una notizia di reato che giustifica l’intervento? O piuttosto i carabinieri sono una polizia morale? E se lo fossero, noi saremmo ancora una democrazia? Queste sono le domande che dovremmo porci sulla tragedia della ristoratrice. Le suggeriamo al magistrato che indaga sull’ipotesi di un’istigazione al suicidio. La prima cosa da fare sarebbe chiedere ai carabinieri se il loro intervento è stato sollecitato e da chi, chi e perché è intervenuto, che cosa si voleva appurare, che cosa e in che modo è stato chiesto a Giovanna Pedretti la sera prima del suo suicidio. Riportare questi quesiti al centro dell’indagine è la condizione per rimettere il ruolo dei poteri pubblici in asse con lo Stato di diritto. Restiamo in attesa di una risposta. Veneto Lavoro: percorsi di reinserimento socio-lavorativo delle persone detenute di Tiziano Barone* cliclavoroveneto.it, 17 gennaio 2024 Con il “Progetto Carceri”, Regione del Veneto, Veneto Lavoro e Prap portano i Centri per l’impiego all’interno degli Istituti penitenziari della regione e promuovono percorsi di formazione e reinserimento socio-lavorativo. La Regione del Veneto, Veneto Lavoro e il Prap (Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria) del Triveneto hanno avviato una collaborazione che, nel corso del 2023, ha portato Veneto Lavoro ad entrare negli Istituti penitenziari della regione con il “Progetto Carceri”, un’iniziativa sperimentale per il reinserimento socio-lavorativo delle persone detenute. Il progetto, in particolare, mira a definire un nuovo modello veneto per il reinserimento delle persone in stato ristretto, basato su un approccio inclusivo e fondato sull’integrazione pubblico/privato, grazie all’avvio di collaborazioni tra Centri per l’impiego, Enti di Formazione che già operano negli Istituti penitenziari e Cooperative e imprese interessate ad assumere persone detenute. La Regione del Veneto, tramite l’Area Sanità e Sociale-Direzione Servizi Sociali e in stretta collaborazione con altri Assessorati e Direzioni regionali, pone infatti grande attenzione nelle proprie politiche alla tutela dei diritti delle persone sottoposte a provvedimenti dell’Autorità giudiziaria, promuovendo azioni volte al loro recupero e reinserimento nella società e favorendo una programmazione condivisa degli interventi con tutti gli stakeholder interessati. Dall’ultimo rilevamento effettuato, negli Istituti penitenziari del Veneto sono presenti circa 2.500 persone detenute, di cui il 5% donne e circa la metà stranieri. Di questi, poco più di 500 lavorano per l’Amministrazione penitenziaria e 390 per Imprese o Cooperative del territorio, ovvero circa il 16% del totale, a fronte di una media nazionale che si attesta al 6,4%. Il “Progetto Carceri” si inserisce proprio nella più ampia cornice di iniziative regionali per la realizzazione di un sistema integrato di interventi e servizi per il reinserimento sociale delle persone sottoposte a provvedimenti privativi o limitativi della libertà personale, coordinati dalla Cabina di Regia regionale, appositamente costituita con il compito di analizzare i bisogni e censire le attività in essere con l’obiettivo di definire un Piano di Azione regionale triennale con i competenti uffici delle Amministrazioni centrali, Regione, Enti Locali, Associazioni, Terzo settore, attività produttive, attraverso il quale garantire servizi rispondenti alle esigenze differenziate delle persone e dei contesti territoriali di riferimento. Nato da un Accordo di collaborazione stipulato a luglio 2022 tra Regione del Veneto e Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria (ai sensi della DGR n. 855/2022) e coordinato da Veneto Lavoro in sinergia con l’Unità Organizzativa Dipendenze, Terzo Settore, Nuove Marginalità e Inclusione Sociale della Direzione Servizi Sociali regionale, il Progetto è finalizzato in particolare al rafforzamento delle capacità gestionali, tecniche e specialistiche necessarie per promuovere proattivamente percorsi di inclusione socio-lavorativa a favore dei detenuti. L’attività iniziale ha previsto, nel corso del 2023, l’attivazione di appositi sportelli lavoro in tutti gli Istituti penitenziari del Veneto, anche attraverso un’attività di formazione specifica sul contesto penitenziario in cui sarebbero andati ad operare i 23 operatori del mercato del lavoro in forza ai Centri per l’impiego individuati. La presenza dei CPI all’interno degli Istituti, tramite la collaborazione con le rispettive Direzioni, ha consentito ai detenuti interessati di poter accedere a percorsi di riqualificazione professionale e rendere agevolmente fruibili anche alle persone detenute i servizi che il Centro per l’impiego offre a tutti i disoccupati: rilascio della DID, stipula del Patto di Servizio, avvio di tirocini, supporto nella stesura del curriculum vitae e nella ricerca attiva di lavoro, sia per le attività lavorative svolte all’interno degli Istituti che per le offerte provenienti dalle imprese del territorio. Tra luglio e dicembre 2023 sono state così profilate dai CPI 267 persone detenute, a 175 delle quali è stato rilasciato un voucher per la partecipazione ai percorsi di formazione previsti dal Programma GOL (Garanzia di Occupabilità dei Lavoratori), che prevedono 160 ore di formazione in aula e di tirocinio nei diversi istituti. I percorsi GOL sono stati definiti a partire da una stretta collaborazione con le Aree Trattamentali di ciascun Istituto, il CPI e gli Enti accreditati alla formazione referenti per territorio. Nello specifico, sono stati avviati 60 tirocini di inserimento lavorativo, mentre alcuni destinatari, iscritti al collocamento mirato, parteciperanno a percorsi di tipo personalizzato. Il primo percorso formativo è stato avviato a Vicenza, con un corso per diventare pizzaioli. A Treviso si sono conclusi due corsi, uno per operatori di sistemi elettrico-elettronici e uno per operatori termo-idraulici e di condizionamento, così come si sono conclusi il corso di intonacatore nella Casa di reclusione di Padova e quello di operatore di cucina presso la casa circondariale di Padova. Nella Casa circondariale maschile di Venezia sono invece stati attivati due corsi, il primo per operatori di sala e il secondo per operatori di impianti elettrici. A Belluno sono stati organizzati tre percorsi di formazione per operatori meccanici. Un corso per operatrici ai piani in ambito turistico è stato organizzato presso la Casa di reclusione femminile di Venezia. Infine, nella casa circondariale di Verona sono stati attivati 4 percorsi: manutenzione del verde, cucina, segreteria e amministrazione, logistica e magazzino; nel mese di febbraio prenderà avvio una seconda edizione del corso per manutenzione del verde, nonché un nuovo percorso per operatori edili. Nelle prossime settimane prenderà avvio la seconda fase del progetto, che coinvolgerà gli account manager di Veneto Lavoro, i quali saranno appositamente formati sugli sgravi fiscali previsti dalla Legge Smuraglia (L. 22 giugno 2000, n. 193) in favore di chi assume personale detenuto o privato della libertà in esecuzione penale esterna. L’obiettivo è quello di proporre alle imprese i curricula di alcuni detenuti autorizzati al lavoro all’esterno o di persone in misure alternative. Il progetto ha infatti previsto anche l’avvio di una collaborazione con l’UEPE (Ufficio Esecuzione Penale Esterno) che segue i percorsi di reinserimento. Grazie al programma triennale di interventi della Regione del Veneto, cofinanziato da Cassa delle Ammende, saranno inoltre avviate ulteriori iniziative di sostegno sociale, abitativo e lavorativo al reinserimento delle persone in esecuzione penale. Il “Progetto Carceri”, infine, si pone anche l’obiettivo di contribuire a mappare le eccellenze già presenti all’interno degli Istituti penitenziari del Veneto, dalle produzioni artigianali di alta qualità (come pasticceria, produzione marmellate e conserve, sartoria, falegnameria, serigrafia) a lavorazioni più semplici (assemblaggio e confezionamento) e ad altre tecnicamente complesse (ad esempio, assemblaggi oleodinamici), ma anche servizi ad aziende e privati quali digitalizzazione di documenti, contact center, cucina o la pensione per cani sperimentata a Verona. *Direttore di Veneto Lavoro Campania. Ciambriello: “I suicidi sono anche il prodotto di un clima socio-culturale” Il Dubbio, 17 gennaio 2024 Il carcere di Poggioreale è stato recentemente scosso da un tragico evento: un detenuto di 40 anni ha deciso di togliersi la vita, nonostante fosse stato sotto osservazione per rischio suicidario per oltre un anno. Il Garante regionale Samuele Ciambriello ha commentato l’accaduto, evidenziando la complessità delle questioni che circondano la salute mentale di coloro che si trovano dietro le sbarre. Ha sottolineato il ruolo cruciale del Dipartimento di Salute Mentale nel fornire cure a detenuti con problemi psichici. Tuttavia, ha evidenziato la necessità di una presenza più ampia di figure professionali specializzate, come psicologi, infermieri, assistenti sociali e educatori, all’interno delle carceri. Propone la creazione di un’Unità Operativa Semplice Dipartimentale di Salute Mentale, parallela a quelle presenti al di fuori delle strutture carcerarie. Il Garante ha sottolineato la mancanza di attività trattamentali interne, il limitato contatto con il mondo esterno e la carenza di personale specializzato come possibili fattori che contribuiscono a incidenti di autolesionismo e tentativi di suicidio. Per Ciambriello, i suicidi in carcere non sono solo il risultato di problematiche individuali, ma sono profondamente radicati in un clima culturale che considera il carcere come un luogo separato e dimenticato dalla società. Egli invita a una riflessione più ampia sulla percezione del carcere nella politica e nella società civile, suggerendo che il cambiamento sia essenziale per prevenire futuri episodi tragici. La sua chiamata all’azione si basa sulla consapevolezza che la cura della salute mentale in carcere richiede un approccio completo, con personale specializzato, attività trattamentali e un rafforzamento dei legami con il mondo esterno. Napoli. Carcere di Poggioreale, due suicidi in 24 ore e la Procura indaga su un terzo decesso di Melina Chiapparino Il Mattino, 17 gennaio 2024 Un’emergenza nell’emergenza. È la popolazione di detenuti con disturbi psichiatrici nel carcere di Poggioreale, a Napoli, dove, in poco più di 24 ore, si sono consumati due suicidi in cella. La statistica delle morti all’interno della casa circondariale napoletana Giuseppe Salvia dall’inizio del nuovo anno, è ancora più drammatica alla luce di un terzo episodio. La morte di un 32enne che precede di qualche settimana le due impiccagioni avvenute tra il 15 e il 16 gennaio e, sulla quale, la Procura ha avviato un’indagine contro ignoti per omicidio. Il filo che unisce i tre decessi avvenuti nell’istituto penitenziario è la sofferenza psichiatrica che accomunava i detenuti e che, inevitabilmente, è diventata e continua ad essere per molti reclusi, la seconda grave emergenza nel sovraffollato carcere di Poggioreale. Negli spazi angusti di pochi metri quadrati stracolmi di detenuti, la risposta sanitaria al bisogno di cure psichiatriche fa i conti con un numero insufficiente di medici e risorse limitate. “La sproporzione tra fabbisogno e assistenza è un’emergenza” che secondo il Garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello, “richiederebbe la nascita di un’unità operativa di salute mentale interna al carcere di Poggioreale”. L’ultimo suicidio, in ordine di tempo, è avvenuto ieri mattina. Ghoulam Mohmoud, un 38enne marocchino, senza fissa dimora, entrato a Poggioreale lo scorso 20 dicembre, si è impiccato nella cella che condivideva con altri otto stranieri, all’interno del Padiglione Firenze. Una manciata di ore prima, alle prime luci dell’alba di lunedì, 15 gennaio, Andrea Napolitano, un 40enne originario di Nola, condannato all’ergastolo per l’omicidio della compagna Ylenia Lombardo, si è impiccato nella sua cella del padiglione Torino. Infine, lo scorso 5 gennaio, un 32enne originario di Secondigliano, recluso nel reparto Napoli, è stato trovato privo di vita e con segni di sospette violenze sul corpo che non escludono l’ipotesi di un omicidio, come dovrà stabilire l’esito dell’indagine della Procura che ha disposto l’autopsia del corpo. Anche le salme dei due detenuti impiccati, sono a disposizione dell’autorità giudiziaria ma quello che emerge prepotentemente dai loro fascicoli è la condizione di sofferenza psichiatrica che li accomunava e per la quale erano in cura. La popolazione carceraria di Poggioreale è composta da 2.000 detenuti, circa 800 persone in più rispetto alla capienza della struttura. Tra questi, sono quasi 200 i reclusi affetti da disturbi psichiatrici e, in particolare, 120 con diagnosi di sindrome psicotica e altri 80 con sindrome affettiva, in entrambi i casi è necessaria l’assunzione di farmaci specifici ma questi dati escludono un’altra fetta di disagio mentale. “C’è una parte della popolazione carceraria che soffre di disturbi di ansia e insonnia, in molti casi si tratta di problemi che emergono con la reclusione e che non riguardano solo le cure sanitarie in senso stretto” sottolinea Luisa Russo, dirigente del Dipartimento di Salute Mentale dell’Asl Napoli 1 che fa riferimento alla mancanza di “attività riabilitative, progetti educativi e luoghi adatti alla detenzione in funzione della rieducazione dei detenuti”. Gli psichiatri in forza al carcere di Poggioreale sono “due fissi e uno a rotazione che segue il territorio di Poggioreale e lavora per un monte ore nell’istituto penitenziario”. Una proporzione “inadeguata e al di fuori della delibera regionale del 2018 che prevede uno psichiatra ogni 500 detenuti” fa notare Ciambriello che insiste sulla necessità di potenziare l’assistenza psichiatrica a Poggioreale. L’emergenza del disagio mentale in carcere è stata denunciata anche dal Sindacato autonomo di polizia penitenziaria che, ieri, ha annunciato la possibilità di “uno stato di agitazione delle guardie carcerarie nei prossimi giorni”. La possibilità di “un tavolo dove ognuno porti le sue responsabilità” è l’invito di Ciambriello preoccupato dalla “densità dei senza fissa dimora nelle carceri con dati drammatici sulle morti in cella e il rischio di far diventare il carcere un ospizio dei poveri”. Ancona. Carcere, accertato caso di tubercolosi. Dopo le due morti l’anno inizia nel modo peggiore di Antonio Pio Guerra Corriere Adriatico, 17 gennaio 2024 Ancora Montacuto nel mirino. Stavolta la denuncia arriva direttamente dalle celle della Casa circondariale. “È scoppiato un caso di tubercolosi e sono tutti nel panico” si legge in una email recapitata al nostro giornale nella giornata di ieri. Poche righe scritte dalla figlia di un detenuto, corredate però da due pagine in stampatello e firmate “a nome dei detenuti di Montacuto”. Due fogli a righe, scritti con la penna blu ed a tratti evidenziati in verde per rimarcare i concetti più importanti. A partire proprio dal caso di tubercolosi accertato. La preoccupazione - A partire dal caso di tubercolosi, confermato ieri dai sanitari del Dipartimento di Prevenzione dell’Ast, il detenuto straniero si trova ricoverato da venerdì presso l’ospedale di Torrette. L’uomo avrebbe accusato un malore il giorno stesso e sarebbe stato visitato sul posto dai sanitari dal carcere. L’allarme sarebbe scattato poco dopo poiché i sintomi dello straniero erano evidentemente riconducibili ad un caso di Tbc. La paura colpisce soprattutto i suoi compagni di cella, probabilmente quattro, ma non contagiosi. Sì, perché nel carcere di Montacuto i detenuti in media sicurezza vivono in celle da cinque posti. Due letti a castello ed un singolo, il tutto piazzato in una camera di 23 metri quadri. Comprensibile, dunque, il timore di chi aveva convissuto con l’uomo fino a poche ore prima dell’emergenza. Il pericolo - I progressi scientifici hanno permesso di abbassare drasticamente la mortalità della malattia - siamo sotto il 5% - ma è altrettanto vero che restano elevate le possibilità di trasmissione tra persone che vivono strettamente a contatto. Stando alle informazioni diffuse dall’Istituto Superiore di Sanità e dall’European Centre for Disease Prevention and Control, sono stati 2.480 i casi di tubercolosi segnalati in Italia nel 2021. Altro dato interessante, ed in linea coi fatti di Montacuto, è la diffusione di tale malattia nella popolazione. Scrive l’Iss che “il 57,9% dei casi si è verificato in persone di origine straniera”. I dati - L’Italia non fornisce dati disaggregati sulla tubercolosi nelle carceri ma secondo l’Ecdc, “i detenuti hanno un rischio relativo (di contrarre la malattia, ndr) di 8,9 volte superiore al resto della popolazione generale”. Ma il rischio tubercolosi è solo l’ultimo scossone che ha investito Montacuto. Il 2024 è cominciato nel peggiore dei modi col suicidio del 25enne Matteo Concetti, recluso in una cella di isolamento. La seconda vittima pochi giorni dopo: un tossicodipendente algerino di 41 anni morto nel sonno. Un vero e proprio anno nero. La Spezia. Garante dei diritti dei detenuti, arriva l’approvazione del Consiglio comunale cittadellaspezia.com, 17 gennaio 2024 Nella seduta di ieri, lunedì 15 gennaio, il consiglio comunale ha deliberato l’approvazione del regolamento per l’istituzione del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Nelle scorse settimane la Giunta Comunale, guidata dal Sindaco Pierluigi Peracchini, aveva deliberato, su proposta dell’assessore Manuela Gagliardi, l’avvio dell’iter amministrativo per l’istituzione di questa figura che dovrà rappresentare un punto di riferimento delle persone attualmente recluse nel carcere cittadino e dovrà essere il collegamento tra la casa circondariale e le istituzioni per la promozione di percorsi di reinserimento, nell’ottica del recupero della persona favorendo un percorso per l’inserimento sociale e lavorativo. “Un ulteriore segnale di vicinanza dell’amministrazione comunale verso i cittadini più fragili della nostra comunità - dichiara il sindaco della Spezia Pierluigi Peracchini - che dovrà garantire diritti umani fondamentali e promuovere la rieducazione dei detenuti. La società verso la quale dobbiamo tendere non deve lasciare indietro nessuno rispettando la dignità e i diritti di ogni individuo”. Con l’approvazione del regolamento da parte del consiglio comunale l’iter amministrativo è terminato e quindi nei prossimi mesi anche alla Spezia mesi sarà istituito il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Il garante comunale dei diritti delle persone private della libertà personale, dunque, svolgerà, in totale autonomia, attività di diversa natura, finalizzate a promuovere la reale garanzia dei diritti fondamentali delle persone private della libertà. A seguito dell’approvazione del regolamento in consiglio comunale, l’amministrazione comunale procederà a lanciare un bando per individuare il Garante che ricoprirà l’incarico per cinque anni e a titolo gratuito. Reggio Calabria. La Garante dei detenuti per una sanità penitenziaria a misura d’uomo reggiotoday.it, 17 gennaio 2024 Grande partecipazione per un evento che è il primo per quanto riguarda la prevenzione e quindi il diritto alla salute all’interno degli istituti penitenziari. Il commissario dell’Asp Lucia Di Furia, il garante dei detenuti Giovanna Russo e il direttore degli Istituti penitenziari di Reggio Calabria Giuseppe Carrà hanno presentato, lunedì scorso, un’iniziativa prima in assoluto per quanto riguarda gli istituti penitenziari in Calabria. La possibilità di fare prevenzione all’interno degli istituti come si sa, ma già rispetto al diritto della salute, all’interno di luoghi della privazione della libertà personale appare spesso una chimera a fronte delle quotidiane emergenze che il sistema penitenziario affronta. Non è così a Reggio Calabria dove si vuole costruire un modello virtuoso. Già il 14 dicembre 2022 l’Asp di Reggio Calabria presentava il progetto di Prevenzione e screening per la popolazione afferente le patologie tumorali del colon retto. Questa iniziativa Già promossa all’esterno, per la prima volta trova accoglimento all’interno di una casa circondariale. Importanti e significativi i messaggi che sono stati trasmessi alla popolazione detenuta presente all’interno della sala teatro dell’Istituto di Reggio Calabria “San Pietro”. Presenti per l’Asp e non solo, la dottoressa Di Furia, il dottor Giuffrida, il Coordinatore sanità penitenziaria San Pietro Luciano Lucania, il direttore del Dipartimento prevenzione Asp Reggio Sandro Giuffrida, la responsabile Centro screening oncologici Asp Adriana Romeo, la responsabile del laboratorio analisi Asp Maria Teresa Fiorillo, l’associazione Comunità competente con Rubens Curia, la presidente Federfarma Simonetta Natalia Neri. A prendere la parola per i saluti istituzionali e l’avvio del momento informativo e formativo è il Direttore Carrà che ha espresso grande plauso per un’iniziativa apripista nel panorama regionale, che manifesta ancora una volta l’attenzione concreta e reale verso le persone detenute. Reggio Calabria dimostra di essere all’avanguardia rispetto alle iniziative che vengono concretamente operate e messe in campo all’interno degli istituti penitenziari. Ben consapevoli di quelle che possono essere in generale le criticità del sistema sanitario penitenziario, non ci si ferma alle sole risoluzioni emergenziali. Un evento di massima attenzione al miglioramento della qualità della vita del detenuto di cui lo Stato è responsabile ha affermato il Direttore. La dottoressa Lucia Di Furia ha successivamente preso la parola entrando nel merito di quella che è l’iniziativa, trasmettendo grande entusiasmo per l’opportunità che verrà data alle persone recluse di poter effettuare lo screening e quindi di attenzione ad una politica sanitaria di prevenzione quale elemento dell’avere cura, che non lascia indietro nessuno ha dichiarato. Cura soprattutto di se stessi e dell’attenzione che l’Asp regina ha voluto mettere in campo ad un mese dalla pubblicazione nei confronti di tutta la cittadinanza libera, l’iniziativa di poter fare prevenzione anche in carcere. Ha fermato la dottoressa Di Furia di essere particolarmente felice da medico impegnato in prima linea è da commissario dell’Asp regina di essere felice di dare dimostrazione concreta della possibilità di accorciare le distanze tra il dentro il fuori che si concretizza. L’avvocato Russo si dichiara particolarmente soddisfatta di questo momento informativo promosso in favore della popolazione detenuta. La stessa afferma da tempo che il diritto alla salute penitenziaria non deve essere un irraggiungibile meta solo perché ci si trova nella condizione di privazione della libertà personale. Precisa come questa sia un’iniziativa già nata nel giugno scorso ad una riunione del tavolo tecnico sulla sanità penitenziaria che oltre ad occuparsi delle concrete ed effettive esigenze della popolazione detenuta e anche delle emergenze che si verificano appunto quotidianamente, ha tutti gli obiettivi istituzionali di voler concretamente promuovere il diritto e la tutela del diritto alla salute in carcere. È un aspetto al quale la garante tiene particolarmente perché parlare di diritto alla salute, alle cure, all’interno degli istituti penitenziari non è sempre scontato. Ecco perché fa riferimento al tavolo della sanità penitenziaria, dalla stessa voluto, già ad aprile scorso nel quale emergono, grazie alla partecipazione assidua di tutte le istituzioni coinvolte le criticità e le possibili soluzioni. La stessa ritiene, che una contrazione del diritto alla salute in carcere implica purtroppo un peggioramento delle qualità della vita del detenuto e quindi un riverbero negativo anche su chi vi lavora. È stato dato anche un apporto tecnico da parte delle Dottoresse Fiorillo e Romeo, fornendo spiegazioni su cosa sia realmente effettuare screening e fare prevenzione. Molte e interessate le domande da parte della popolazione detenute. Serve lungimiranza, serve progettualità per una visione concreta delle criticità del mondo penitenziario che necessita di competenze specifiche in materia soprattutto quando si parla di diritto alla salute dei detenuti. Creare modelli virtuosi come le tante iniziative già fatte e quelle in programmazione, dimostrano che il dialogo Inter istituzionale tra le parti è la strada per poter diffondere la cultura della legalità in primis che passa per una effettiva promozione dei diritti. Cremona. Sovraffollamento del carcere, l’allarme del Garante: è al 137,5% di Sara Pizzorni cremonaoggi.it, 17 gennaio 2024 È emergenza sovraffollamento al carcere di Cremona, dove la percentuale rispetto a quella che è la capienza prevista. I dati sono stati diffusi dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, secondo cui, a fronte di una capienza massima di 385 posti, le presenze sono ben 528. D’altro canto, come spiegano dagli uffici del Garante, la Lombardia è una delle regioni con i numeri peggiori. Basti pensare che le prime tre realtà più sovraffollate d’Italia si concentrano proprio nella nostra Regione: le maggiori punte di sovraffollamento sono nella Casa circondariale di San Vittore a Milano, con il 232,10% di detenuti in più del previsto. Seguono, con il 204,95%, la Casa circondariale di Canton Mombello a Brescia, e con il 204,44% quella di Lodi. La tendenza al sovraffollamento senza battute d’arresto, fanno sapere ancora dal Garante, è un fenomeno in atto da un anno, con una progressione preoccupante rispetto agli anni precedenti: se alla fine del 2022 la popolazione detenuta era aumentata di circa 2000 unità rispetto a dicembre del 2021, l’aumento registrato al 30 dicembre 2023 è esattamente del doppio, con circa 4000 persone detenute in più. Negli ultimi tre mesi (dal 14 ottobre al 14 gennaio) l’aumento è stato di 1196 presenze, quindi, quasi 400 al mese. L’indice attuale dell’affollamento delle carceri italiane, alla data del 14 gennaio 2024, è del 127,54%: 60.328 persone detenute, 13.000 in più rispetto ai 47.300 posti disponibili. La criticità della densità della popolazione detenuta è aggravata dalla modalità con cui viene attuata la nuova disciplina della detenzione della media sicurezza, per la quale se le persone non sono impegnate in attività restano chiuse nelle camere di pernottamento. Insomma, secondo il Garante non si possono attendere i tempi di progetti edilizi di diverso genere, e il gap non può essere colmato dalla realizzazione degli 8 nuovi padiglioni inseriti dal precedente Governo nel Pnrr, poiché essi potranno ospitare non più di 640 persone: una goccia rispetto all’eccedenza attuale. Si chiedono quindi “provvedimenti urgenti di deflazione della popolazione detenuta, e che si avvii in tempi rapidi la previsione normativa per consentire una modalità diversa di esecuzione penale per le persone condannate a pene brevi, inferiori ai due anni di reclusione, che oggi contano più di 4000 unità”. San Gimignano (Si). Scrittura creativa, un corso per i detenuti di Romano Francardelli La Nazione, 17 gennaio 2024 Dal carcere di Ranza si alza la nuova iniziativa culturale per “ritrovare parole perdute con la scrittura creativa”. Il nuovo laboratorio sarà aperto da fine gennaio fino a giugno. Con lezioni a rotazione ogni 15 giorni, con l’insegnante e psicoterapeuta del Serd Alta Valdelsa Barbara Cincinelli e l’assistente Agostina Gentile, nonché con il contributo dell’associazione culturale Gruppo Scrittori Senesi. Questi nuovi insegnanti guideranno i detenuti di Ranza nel corso-laboratorio dedicato alla scrittura per partecipare al concorso e Premio letterario Città di Siena. “La finalità del progetto, dicono dall’Asl Toscana Sud Est - è quella di avvalersi dello scrivere come strumento che aiuti nel percorso personale di consapevolezza, di espressione di sé, della propria creatività e di ascolto”. Raccontare cioè come “modo di sperimentare uno spazio di libertà e aprirsi a una dimensione comunicativa più ampia in cui l’arte diventa scambio emotivo tra il mondo esterno e il mondo interno”. Fra dentro e fuori le celle di Ranza. Insomma dalla scuola, alla pittura, alla lettura, alla scrittura, alle nuove parole perdute e ritrovate. Il silenzio e l’esempio contro lo strepitare della disinformazione di Mauro Bonazzi Corriere della Sera, 17 gennaio 2024 Noi contemporanei, bombardati da informazioni, notizie, discorsi, senza più filtri capaci di mettere ordine a questa massa di “voci” discordanti. Nel Fedro di Platone, Socrate si paragona a Tifone, un mostro dalle cento teste che parlano lingue diverse. L’immagine è strana solo in apparenza, a pensarci bene. Descrive noi contemporanei, bombardati da informazioni, notizie, discorsi, senza più filtri capaci di mettere ordine a questa massa di “voci” discordanti. Crediamo di vivere nell’epoca dell’informazione, ma finiamo per brancolare nell’ignoranza, incapaci di riconoscere le parole autentiche. Era un problema già al tempo di Platone, figuriamoci oggi nell’età dell’intelligenza artificiale e delle fake news, in cui tutti sostengono tutto e i fatti diventano sfuggenti. E non si tratta peraltro di ignoranza soltanto. Queste “voci” influenzano il modo in cui noi vediamo la realtà, le priorità delle nostre scelte, il sistema di valori su cui fondiamo le nostre vite. Ci costruiscono. Come orientarsi in tanta confusione? Platone, che aveva individuato il problema, sapeva anche di non poterlo risolvere. Dove tutti parlano, urlano, proclamano le proprie verità con sicumera incrollabile (perché sono sempre gli altri che sbagliano), cosa si può fare? Ha senso proclamare la nostra verità? Non molto. Aggiungeremmo un’altra voce alle mille che già rintronano nelle orecchie, nostre e degli altri. E perché dovremmo credere a questa voce e non alle altre? Forse davvero non si può fare nulla. E allora rimane solo un’alternativa radicale: l’unica è sforzarsi di tacere, tenersi fuori dalla baraonda, evitare per quanto possibile di aumentare il rumore di fondo. Tutto qui? In effetti, non sembra una soluzione molto convincente per chi è animato dalle migliori intenzioni e vorrebbe davvero contribuire a migliorare una situazione sempre più in bilico. Ma si tratta anche di intendersi su cosa questo silenzio implichi. Di certo non può essere il disinteresse di chi si chiama fuori, perché siamo tutti imbarcati, come diceva Pascal, e non possiamo certo illuderci di poter fare parte a noi stessi. Forse il silenzio è quello di chi prova a seguire altre strade, cercando di mostrare alternative possibili con il suo comportamento pratico. Come quei saggi che continuano imperterriti a concentrarsi sui loro piccoli gesti mentre intorno tutti sono scalmanati, e piano piano riescono a calmare anche gli animi più esagitati. Non è facile, anzi è veramente difficile. Ma non è impossibile e ci aiuterebbe a rivelare l’inconsistenza di un altro dei problemi che affliggono il nostro mondo - il mondo delle emergenze continue, per cui bisogna sempre agire, prendere posizione, schierarsi. Urlare perché non c’è più tempo. Davvero? E se anche fosse, cosa si risolverebbe urlando e chiamando alle armi? Viviamo in un’epoca di grandi passioni, quasi mai positive. Prima o poi si tratterà di tirare un bel respiro, darsi una calmata e iniziare a ragionare. Speriamo che quel tempo arrivi presto. Suicidio assistito: il discorso perfetto di Zaia, che perde la sfida sul fine vita di Chiara Lalli Il Dubbio, 17 gennaio 2024 In Veneto non passa la legge di iniziativa popolare redatta dall’Associazione Coscioni: testo rinviato in Commissione. “Si è detto che il Veneto autorizzerà il fine vita. Oggi noi non autorizziamo un bel niente. Questo progetto di legge introduce dei tempi e il ruolo della sanità”. Luca Zaia, presidente della Regione Veneto, ha fatto un discorso perfetto durante il consiglio regionale di oggi. Il pretesto è la discussione della proposta di legge di iniziativa popolare “Liberi Subito” redatta dall’Associazione Luca Coscioni e firmata da più di novemila cittadini. A cosa serve questa legge? Non ad aggiungere diritti ma a garantire tempi e procedure certi per un diritto che esiste già e che è stato stabilito dalla sentenza della Corte costituzionale 242, la cosiddetta Cappato-Antoniani. Come dice Zaia, appunto. Quella sentenza ha deciso che l’aiuto al suicidio non è più un reato in determinate condizioni, cioè la Corte ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) […] agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”, ma non ha dato un tempo entro cui il servizio sanitario ha il dovere di rispondere. Ecco perché molte persone sono state costrette ad aspettare mesi e mesi per la verifica delle condizioni, cioè per avere una risposta. È ovvio che se ho un diritto ma quel diritto viene diluito in un tempo indefinito, quel mio diritto è fragile, imperfetto, in balìa delle circostanze e di chi deve risponderti. E se ho una malattia terminale, il tempo è un ingrediente ancora più importante. “Tra chi ascolta ci sono anche cittadini, malati terminali, con idee diverse. Per quel che mi riguarda [..] avrò l’accortezza di pesare le parole. La condizione del malato è quella che mi interessa di più”. La posizione sull’argomento di Zaia non è una novità. Ma tutto quello che poi Zaia dice potrebbe valere per qualsiasi altra discussione. A cominciare dalla premessa che dovrebbe essere ovvia ma che spesso si trascura per pigrizia o per malafede. “Io sono andato a leggere il progetto di legge”. È in effetti una buona abitudine leggere ciò che si commenta, ma siamo talmente abituati alla sciatteria che pare un miracolo. E soltanto ieri il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari ha detto che la legge regionale sarebbe il risultato di una interpretazione scorretta della sentenza 242 perché quella sentenza non prevede alcun obbligo ma solo la non punibilità. Non serve essere costituzionalisti per contestarlo, basterebbe leggere per scoprire che la 242 prevede le modalità della verifica delle quattro condizioni e l’affida al servizio sanitario nazionale. Rimanda anche alla legge 219 sulle disposizioni anticipate e sul consenso informato (sarebbe utile leggere anche questa, niente di lungo né di particolarmente complicato - virtù che la 219 condivide con la 242). Non solo. “È doveroso che questo consiglio oggi dia quantomeno idea che si rispettano anche le idee degli altri”. Al riguardo è forse utile ricordare che è la libertà a garantire maggiormente questo rispetto, perché quando esiste un diritto nessuno è obbligato a esercitarlo. Se invece c’è un divieto, siamo costretti a non fare ciò che è vietato (a meno che non si decida di compiere un reato o una disobbedienza civile). Zaia spiega di aver deciso di intervenire anche per la confusione mediatica, “per quella ipocrisia serpeggiante che spesso viene diffusa su temi come questi”. Per una “operazione verità”. Zaia poi ricorda la legge sulle disposizioni anticipate di trattamento (“forse a qualcuno sono sfuggiti dei passaggi”), Eluana Englaro, i diritti inviolabili e ci insegna come si dovrebbe discutere pubblicamente. “Ho letto di tutto sui giornali”, dice mentre io rischio di slogarmi il collo a forza di annuire. E ricorda cosa gli era successo durante il Covid, quando aveva detto che non si sarebbe vaccinato prima dei fragili e che, per un taglio dispettoso (“no che non mi vaccino”), aveva causato scandali e inutili discussioni. Ma questa proposta di legge è semplice se si ha voglia di leggere. E se non la si ha, si può sempre dire non lo so oppure non commentare. “I nostri sanitari e comitati etici sono chiamati a rispondere in virtù della sentenza 242”. Quello che cambia è che, se approvata, devono farlo entro 20 giorni e non quando si ricordano. “Siamo qui per esercitare un diritto inviolabile della democrazia”. Indipendentemente da come la pensiate sul suicidio assistito, e anche se non ne pensate nulla, vi consiglio di ascoltare il discorso integrale di Luca Zaia perché, come ho già detto, vale per tutto, dalla legge di bilancio alle risse sui social (qui dal minuto 42.30 circa). La proposta non passa e viene rinviata in commissione. Rimangono il bellissimo discorso di Zaia e la sentenza 242, naturalmente. Su questi il consiglio regionale non può votare. Migranti. In Albania soltanto gli uomini. Screening a bordo delle navi di Giansandro Merli Il Manifesto, 17 gennaio 2024 L’intesa Roma-Tirana. La realizzazione del protocollo resta piena di punti interrogativi. Nelle commissioni riunite interviene Cirielli (FdI): tutti i vulnerabili andranno in Italia. Domani udienza preliminare della Corte costituzionale di Tirana. Mentre il ddl di ratifica del protocollo Roma-Tirana si prepara a sbarcare alla Camera, il governo inizia a fornire i primi dettagli operativi sui trasferimenti oltre Adriatico. Edmondo Cirielli, deputato FdI e viceministro alla Farnesina, è intervenuto lunedì sera nelle commissioni riunite Affari costituzionali ed Esteri che stanno esaminando il provvedimento: non tutte le precisazioni, però, hanno dissipato i dubbi. Anzi. I più grandi riguardano le procedure per decidere chi andrà in Albania e chi in Italia. Un nodo decisivo, che avrà ricadute giuridiche e logistiche. Cirielli ha affermato che nel paese delle aquile non finiranno i soggetti vulnerabili. Cioè, secondo la legge: minori; minori non accompagnati; disabili; anziani; donne; genitori singoli con figli minori; vittime di tratta; persone affette da gravi malattie o disturbi mentali; vittime di torture, stupri, gravi forme di violenza psicologica, fisica, sessuale o mutilazioni genitali. Il recente dl 133/2023 ha ampliato la casistica a tutte le donne. In Albania, dunque, finiranno solo gli uomini ritenuti non vulnerabili. Lo screening, ha detto Cirielli, dovrebbe svolgersi “a bordo di strutture idonee in mare, dove il migrante possa trovare un luogo sicuro in attesa della prossima destinazione”. Del resto, ha sottolineato il parlamentare, è stata la Commissione europea a chiedere di trasferire solo le persone soccorse fuori dalle acque territoriali. Un tentativo di lavarsi le mani da parte dell’istituzione comunitaria, che vuole evitare frizioni con Meloni in vista delle europee e rassicurare altri paesi membri interessati all’esternalizzazione. Come e chi potrà accertare le vulnerabilità in una fase molto delicata come quella successiva ai soccorsi non è stato specificato. In ogni caso le autorità si riservano ulteriori accertamenti allo sbarco, nel porto di Shengjin. Se saranno individuati altri vulnerabili andranno in Italia. In casi eccezionali il trasferimento potrà essere disposto anche successivamente dai responsabili italiani delle strutture. Cirielli non ha detto se lo screening in mare riguarderà anche le nazionalità. È un dettaglio importante perché in Albania saranno trattenuti i richiedenti da sottoporre alle procedure accelerate di frontiera (tempo massimo 28 giorni). La legge permette questo iter solo per i migranti che vengono dai 16 paesi che l’Italia ritiene sicuri. A parte le nazionalità che non si trovano sui barconi rimangono: Tunisia, Costa d’Avorio, Gambia, Nigeria, Senegal, Ghana e Marocco. Quando saranno separati questi migranti da tutti gli altri? Non si sa. Si sa però che i trasferimenti in Italia avverranno grazie alla “costante disponibilità di vettori” perché i cittadini stranieri non potranno uscire dalle aree concesse da Tirana. Altre ombre restano sui rimpatri: il governo continua a dire che si faranno come dal territorio nazionale, ma le condizioni sono inevitabilmente diverse. Di sicuro non potrà contare sull’aiuto di Frontex, che si è tirato fuori dalle vicende in territorio extra-Ue. “Più andiamo avanti con l’esame del ddl di ratifica e più si rivela la costruzione propagandistica di questo provvedimento, i cui costi sono estremamente sottostimati”, afferma Riccardo Magi, deputato e segretario di +Europa. La maggioranza vuole concludere tra oggi e domani l’esame in commissione, conferendo il mandato per l’aula ai relatori. Le forze di governo non hanno presentato emendamenti, le opposizioni oltre 150. Pareri contrari per tutti, tranne tre. Uno di Azione chiede che le Camere si esprimano sul rinnovo, un altro dei 5S che la legge Zampa sui minori stranieri sia inserita tra i riferimenti normativi e l’ultimo di Italia Viva affinché i migranti siano messi in condizione di accedere all’elenco dei difensori d’ufficio. Dal lato albanese, intanto, si attende l’udienza preliminare della Corte costituzionale sul ricorso presentato dai parlamentari di opposizione. Si terrà domani. La Corte ha tempo fino al 6 marzo per decidere, ma è verosimile lo faccia prima. A meno che non accetti una nuova richiesta formulata dai ricorrenti nei giorni scorsi: sospendere il giudizio di costituzionalità in attesa di un parere della Corte europea dei diritti dell’uomo. Il protocollo migranti, dicono, potrebbe violare la Convenzione europea sui diritti dell’uomo di cui è firmataria anche l’Albania. Non è l’esito più probabile, ma se i giudici di Tirana spedissero tutto a Strasburgo per un parere i tempi si allungherebbero. E di molto. Per Meloni sarebbe una grossa sconfitta. Migranti. “Le donne esposte a violenze nel loro Paese hanno diritto allo status di rifugiate” di Martina Castigliani Il Fatto Quotidiano, 17 gennaio 2024 La sentenza della Corte Ue. È un diritto delle donne esposte a violenze nel loro Paese, vedere loro riconosciuto lo status di rifugiate in Europa. E anche in caso di “rischio effettivo” deve scattare la “protezione sussidiaria”. A stabilirlo è la sentenza C-621/21 della Corte di giustizia dell’Unione europea, chiamata a esprimersi sul caso di una cittadina turca, di origine curda e di confessione musulmana, fuggita in Bulgaria: la donna, divorziata, ha dichiarato di essere stata costretta a sposarsi dalla sua famiglia e di essere poi stata picchiata e minacciata dal marito. Temendo di essere rimpatriata, ha fatto domanda di protezione internazionale: il giudice bulgaro ha sottoposto la questione alla Corte di giustizia Ue. Che si espressa in favore con una decisione destinata ad avere un grande impatto nell’Unione europea. “Le donne, nel loro insieme”, si legge, “possono essere considerate come appartenenti a un gruppo sociale ai sensi della direttiva 2011/95 e beneficiare dello status di rifugiato qualora siano soddisfatte le condizioni previste da tale direttiva”. Ovvero quando, nel loro Paese d’origine, sono esposte, a causa del loro sesso, a violenze fisiche o mentali, incluse le violenze sessuali e domestiche. Qualora queste condizioni non siano soddisfatte, le richiedenti “possono beneficiare dello status di protezione sussidiaria, se corrono un rischio effettivo di essere uccise o di subire violenze”. E, aspetto dirimente, quest’ultima può scattare “anche in caso di minaccia effettiva di essere uccise o di subire atti di violenza da parte di un membro della loro famiglia o della loro comunità, a causa della presunta trasgressione di norme culturali, religiose o tradizionali”. La sentenza della Corte stabilisce quindi, che la direttiva debba essere interpretata nel rispetto della Convenzione di Istanbul, il trattato che vincola l’Ue e riconosce la violenza contro le donne basata sul genere come una forma di persecuzione. La direttiva che viene citata, ovvero la 2011/951, stabilisce le condizioni per il riconoscimento, da un lato, dello status di rifugiato e, dall’altro, della protezione sussidiaria di cui possono beneficiare i cittadini di Paesi terzi: il primo è previsto in caso di persecuzione di qualunque cittadino per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza a un determinato gruppo sociale; la seconda invece, è prevista per qualunque cittadino che non possieda i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato, ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se fosse rinviato nel paese di origine, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno, il che include ad esempio l’essere giustiziato e trattamenti inumani o degradanti. D’ora in poi, secondo i giudici europei, dovranno essere considerate anche le donne esposte a violenze o che rischiano di subire violenze. Tra le prime a commentare in Italia, è intervenuta Maria Cecilia Guerra, responsabile Lavoro della segreteria nazionale Pd: “La sentenza segna un passo avanti fondamentale nel contrasto alla violenza maschile sulle donne, perché conferma che si tratta di un fenomeno sociale e culturale, radicato, non di una cosa che riguarda singole persone”, ha detto. “Con esplicito riferimento alla Convenzione di Istanbul, la Corte riconosce infatti la violenza contro le donne basata sul genere come una forma di persecuzione. E da ciò fa discendere importanti conseguenze per il riconoscimento della protezione internazionale di donne che ne sono vittime”. Per la vicepresidente dem della commissione Femminicidio Cecilia D’Elia “è un altro atto che riconosce i caratteri sistemici e culturali della violenza e che consente al diritto internazionale e al riconoscimento del rischio che le donne corrono di fare un passo in avanti molto importante”. Infine, si tratta di una “svolta” secondo la capogruppo alla Camera di Alleanza Verdi e Sinistra Luana Zanella: “Un passo verso una lotta piena contro questo fenomeno che deve diventare un tabù per la società, come lo è l’incesto”. Ungheria. Salis “incatenata in cella”, ma Budapest prende tempo e Nordio fa spallucce di Frank Cimini L’Unità, 17 gennaio 2024 Ancora nessuna risposta sulle condizioni di detenzione della maestra milanese, attivista antifascista, reclusa in Ungheria da quasi un anno in attesa di processo. Gli avvocati chiedono i domiciliari in Italia. Il Guardasigilli: “Dopo il caso Baraldini non abbiamo una buona reputazione”. I giudici ungheresi prendono tempo e la decisione sull’estradizione a Budapest dell’anarchico Gabriele Merchesi da parte della corte di appello di Milano slitta quantomeno al 13 febbraio. A quella data è stata rinviata l’udienza di oggi. I giudici di Budapest avrebbero dovuto rispondere entro l’11 gennaio scorso alle richieste di accertamenti provenienti da Milano sulle condizioni di detenzione nelle carceri ungheresi dove tra l’altro è detenuta in attesa del processo Ilaria Salis imputata al pari di Marchesi per gli incidenti e la presunta aggressione a militanti fascisti dell’11 febbraio scorso durante una manifestazione. I giudici magiari sostengono di essere stati bloccati nella loro attività dalle vacanze di Natale e di non aver potuto rispettare il termine indicato dai colleghi del capoluogo lombardo. La corte di appello di Milano chiede di essere rassicurata sul rispetto dei diritti nelle prigioni ungheresi soprattutto dopo che è emerso il caso di Ilaria Salis la maestra milanese attivista antifascista che ha denunciato attraverso il padre e i suoi avvocati di stare dall’11 febbraio in una cella di alta sicurezza tra topi, cimici, cibo scarso e condizioni di grande degrado. Al punto che il sostituto procuratore generale di Milano Cuneo Jacob Trafusser, lo stesso che aveva riaperto il caso della strage di Erba, si dichiarava contrario alla consegna all’Ungheria di Gabriele Marchesi. Sia Marchesi sia Salis sono accusati di aver partecipato all’aggressione di due fascisti durante l’Honor Day (celebrazione delle SS) provocando ferite guaribili in 5 e 8 giorni, che in Italia sarebbero perseguibili solo su querela di parte, i magistrati ungheresi invece l’hanno messa giù dura formulando una imputazione molto pesante a carico dei due italiani e di un ragazzo tedesco: lesioni pluriaggravate, associazione per delinquere. Il rischio sarebbe di una condanna a 16 anni di carcere. A Ilaria Salis era stato prospettato un patteggiamento a 11 anni di reclusione. Ilaria Salis in una nuova lettera diffusa attraverso i suoi legali Eugenio Losco e Mauro Straini fa sapere che dovrà affrontare il processo dal 29 gennaio in una “cella di transito grande come un armadio, i piedi legati con una cavigliera oltre a una manetta con un guinzaglio attaccato”. Salis ha chiesto senza ancora ottenerla la traduzione in italiano di tutti gli atti di indagine. Il padre di Ilaria Salis si era rivolto al governo italiano. Il ministro Carlo Nordio se la cavava spiegando che l’Italia non ha una buona reputazione ricordando il caso di Silvia Baraldini consegnata dagli USA e poi scarcerata applicando l’indulto. Per Nordio non si può fare nulla prima del processo. Secondo gli avvocati difensori invece è possibile a causa del reciproco riconoscimento tra stati dell’Unione Europea ottenere la misura degli arresti domiciliari in Italia. È quello che chiede la famiglia della ragazza. Nel caso la corte di appello di Milano dovesse negare l’estradizione di Gabriele Marchesi a quel punto si aprirebbe quantomeno uno spiraglio anche per la sorte di Ilaria Salis che diventerebbe quello che dovrebbe già essere: un caso politico diplomatico. Medio Oriente. Alla Corte dell’Aja l’umanità è al bivio di Roberta De Monticelli Il Manifesto, 17 gennaio 2024 Israele a processo davanti alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja. E la pronunzia di quel nome terribile che squarcia tutti i tabù e gli interdetti, genocidio, suscitando raffiche di riprovazioni e negazioni sparate dai politici, israeliani e no. Anthony Blinken in testa, secondo il quale l’azione legale sudafricana “distrae il mondo”. Da cosa? Come se un’accusa di genocidio fosse una fola che non merita di essere presa sul serio. E invece proprio all’Aja l’umanità è al bivio, per citare Luigi Ferrajoli, “Per una Costituzione della Terra” (Feltrinelli 2022). Lo è la nostra comune umanità, quella già macchiata dai cento giorni di bombe su Gaza, secondo il capo dell’Agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati palestinesi, Philippe Lazzarini. È a un bivio fra l’abisso e la speranza. E non solo per la sorte di Gaza, o la speranza che la Corte accolga la richiesta di misure precauzionali, fra cui il cessate il fuoco, se riterrà plausibile l’accusa: perché ne seguirebbe l’obbligo di fermare l’eventuale consumazione di questo reato dei reati. La nostra umanità è al bivio fra lo spiraglio di questa simbolica riaffermazione della prevalenza del diritto internazionale sulla potenza degli stati, e la spirale di una politica di potenza che già ovunque nel mondo, dove ha potuto, ha rotto i vincoli legali, mutandosi in guerra. Ma è proprio lì, in quell’ammasso di dolore e rovina che è la Striscia di Gaza, che ora brucia l’anima del mondo. Perché lì si consuma quotidianamente una strage che non è solo di corpi e di anime, è di significato e verità. Forse in nessun altro osservatorio tragico del mondo si vede così bene quanto il bivio fra la speranza e l’abisso, fra la civiltà e la guerra mondiale, prenda avvio dal linguaggio. La prima biforcazione è lì: fra chi lo usa sentendosi impegnato a riconoscere il vero - impegno con cui comincia l’etica - e chi delle parole abusa, per ignorare il vero senza neppure confessarlo a se stesso. Per cancellare i nomi dell’altro. Per chiamare democratico uno Stato che si regge sull’esclusione di una parte dei suoi cittadini dai diritti di nazionalità (Nation-State Act del 2018) e sulla soggezione degli altri, non-cittadini, a un regime d’occupazione sempre più feroce, in quella terra che Israele sognò “senza popolo”. E soprattutto per chiamare “guerra”, ora, ciò che “guerra” non è e non può essere, perché il nemico, Hamas, non è uno stato; perché non ha il controllo sul territorio, sulla moneta, sulle frontiere, sull’energia, sull’economia e perfino sulle basi della sopravvivenza: l’acqua, il pane, il lavoro. Perché prima di questa ecatombe Gaza ne ha subite altre cinque, minori certo in estensione e durata, ma simili nell’impossibilità per gli innocenti di fuggire dalla “più grande prigione a cielo aperto”. Perché chiamare “guerra” questa ecatombe di civili, quando il territorio bombardato è a tutti gli effetti soggetto alla potenza occupante (cui il diritto internazionale accolla invece responsabilità di protezione nei confronti dei civili, per severa che possa essere la pena per i responsabili delle milizie di resistenza armata), è una violazione della logica e dell’etica dagli effetti devastanti. Pari solo allo sdoganamento, nel linguaggio prima e negli atti poi, di ciò che viene prima dell’assetto civile delle società umane, che appartiene al loro strato più arcaico e tribale: la vendetta. Se cancellassimo la distinzione radicale fra la violenza senza limiti di legge (come quella di Hamas il 7 ottobre) e quella soggetta a tutti i vincoli di uno Stato di diritto e del diritto internazionale, se la cancellassimo anche dal linguaggio (sempre più cinico e corrivo) della maggior parte dei politici e dei commentatori, cosa resterebbe della civiltà rinata dalle ceneri della guerra, cosa resterebbe perfino della memoria delle vittime della Shoah? Più nulla. Ed ecco perché la voce dell’accusa che si è levata l’11 gennaio alla Corte dell’Aja è parsa a molti “più intima del proprio intimo” - come il richiamo di una possibile salvezza. Grandi attori di tutto il mondo ne hanno rilanciato in rete le frasi cruciali. A molte orecchie esse sono parse, come altre già incise nella memoria umana universale, “legiferanti”. Che è molto, molto di più di “giuridicamente stringenti”. Perché parevano una restitutio, una re-instaurazione del mondo nato da quel “mai più”: quel patto di convivenza pacifica fra tutti i popoli della terra che fu stipulato con la carta dell’Onu nel 1945 e con la Dichiarazione universale nel 1948. Una questione di memoria, come scrisse Kant all’inizio dell’età dei diritti. Non si dimentica più, diceva, la proclamata “primazia del diritto” sulla forza. E mentre l’Europa tace e gli Usa mandano bombe, è come se nelle parole dei sudafricani fosse risuonata la voce profonda di Nelson Mandela, che già una volta aveva rinnovato il mondo. “E farò nuovi cieli, e nuova terra”: all’Aja parve possibile una renovatio mentis, che strappava l’anima del mondo a quella catastrofe intellettuale prima che morale che è la menzogna politica, mostrando come la politica senza il diritto non sia solo cieca, ma anche criminale. E la difesa di Israele? Una questione di memoria, anche questa. Tragica. Non la memoria del diritto, ma la politica della memoria. Anche di questa bisognerà parlare, alla vigilia del Giorno della Memoria. Stati Uniti. Le vite dei migranti ostaggio della campagna repubblicana di Luca Celada Il Manifesto, 17 gennaio 2024 Dalla scorsa settimana, la guardia nazionale del Texas presidia, per un tratto di alcuni chilometri, il confine col Messico a Eagle Pass, in corrispondenza della cittadina messicana di Piedras Negras. La sicurezza di confine è competenza del governo federale ma in polemica con l’amministrazione Biden, il governatore Greg Abbott ha dichiarato che lo stato avrebbe fatto da sé. Il tratto requisito comprende un parco municipale, utilizzato di recente dalle autorità federali per assembrare il gran numero di migranti che attraversano clandestinamente il Rio Grande in quella corrispondenza. Le autorità della Homeland Defense - la guardia di frontiera - avevano allestito qui un centro di accoglienza di fortuna per espletare le prime pratiche di accoglienza e richiesta di asilo. Da mercoledì scorso però, reparti del Texas Military Department e della guardia nazionale dello stato, hanno preso il controllo della zona ed espulso dal parco le controparti federali e recintato il parco con filo spinato. La tragedia non si è fatta attendere. Sabato, una donna ed i suoi due figli sono annegati mentre tentavano di attraversare le acque e raggiungere la riva sul parco “commissariato”. Un portavoce del Cpb (Customs and Border Protection) ha dichiarato che le unità federali che sarebbero normalmente intervenute per un salvataggio sono state impossibilitate a farlo dalle truppe texane. Allertate dell’emergenza, le pattuglie hanno tentato di raggiungere il molo per le imbarcazioni, ma l’accesso gli è stato impedito dagli agenti statali. Già la scorsa estate, Abbott aveva ordinato la disposizione di barriere anti-uomo al centro del fiume per impedire gli attraversamenti e “diffondere il messaggio che il Texas non è facile da raggiungere clandestinamente”. La barriera composta di filari di grandi boe avvolte da filo lamettato, rendeva impossibile non solo l’attraversamento, ma anche l’aggrapparsi in caso di difficoltà. Lo scorso agosto, avvinghiato al filo spinato, era stato rinvenuto il corpo di un migrante. Dopo mesi di polemiche, a dicembre, una corte d’appello aveva infine ordinato la rimozione dei dispositivi galleggianti. Adesso il governatore ha tre nuovi cadaveri per rafforzare il suo messaggio di dissuasione. Dura, a questo riguardo, una nota diffusa dalla Casa bianca che ha chiesto alla Corte suprema di pronunciarsi in merito e ha definito inaccettabili le azioni del governatore, ribadendo che le autorità federali “devono avere accesso al confine per espletare il proprio dovere di sicurezza e soccorso”. Lo scontro avviene nel contesto del clima arroventato attorno all’immigrazione, che promette di essere un tema centrale delle elezioni, con il Gop che accusa Biden di aver “spalancato i confini” ad una “invasione”, un tema cavalcato ad arte da Trump e dai governatori conservatori. Nella narrazione repubblicana la crisi è posta nei termini di identità e sovranità nazionale già ben noti in Europa. Anche il flusso, storicamente alto, è di recente mutato dai tradizionali lavoratori transnazionali del sud e centro America, verso il misto di profughi africani, asiatici e mediorientali che caratterizza anche le rotte mediterranee. Le tensioni non giungevano a questo livello da quando, nel 1957, Eisenhower inviò la divisione 101 Airborne ad integrare le scuole segregate di Little Rock, dopo che il governatore del Arkansas aveva a sua volta mobilitato la guardia nazionale in senso contrario. La situazione in Texas è ad oggi uno degli indicatori più chiari del rischio di crisi costituzionale che corre il paese. Il governatore texano, come quello della Florida Ron De Santis, ha imperniato il suo mandato sulle provocazioni di questo tipo. Da mesi, i governatori dei due grandi stati repubblicani stanno ad esempio spedendo torpedoni di migranti verso le grandi città del nord per “dare una lezione” alle élites progressiste che si oppongono al giro di vite sull’immigrazione. Le “spedizioni” hanno scaricato migranti davanti all’abitazione della vicepresidente Kamala Harris, altre famiglie sono state abbandonate in stazioni di servizio in piena notte con temperature sottozero. DeSantis aveva in precedenza trasportato migranti con voli charter sull’isola di Martha’s Vineyard, in Massachusetts. Dall’agosto del 2022 29.400 persone sono state spedite a Chicago, 35.600 a New York e 12.500 a Washington. Due settimane fa il presidente della camera repubblicano, Mike Johnson, aveva guidato una delegazione d parlamentari Gop proprio ad Eagle Rock per denunciare il fallimento delle politiche migratorie di Biden. I repubblicani chiedono la ripresa dei lavori sul muro di confine iniziato da Trump e la revoca del diritto di asilo, compresa, se necessario, la ripresa della separazione dei figli dai genitori. La retorica del pugno duro è di comprovato effetto, e viene regolarmente ripetuta nei comizi in cui Trump ha denunciato “l’avvelenamento del sangue americano” da parte degli immigrati. I repubblicani minacciano ora di iniziare procedure di impeachment contro Alejandro Mayorkas, il ministro della Homeland Defense di Biden, per “negligenza criminale”. Il Gop ha infine posto la stretta sul confine come condizione per autorizzare gli stanziamenti militari richiesti da Biden per Israele e l’Ucraina. In ogni caso l’effetto desiderato non è una soluzione al problema, assai legato anche alle guerre finanziate dagli Usa, ma piuttosto l’uso plateale della questione per aggregare consensi a destra. Nell’anno elettorale, il confine è sempre più grimaldello demagogico universale del populismo e meta di pellegrinaggi ben pubblicizzati da chiunque proponga di sigillare la frontiera, dal mega influencer miliardario Elon Musk al candidato presidenziale terzo, Robert Kennedy jr.