Aumentano i detenuti, aumenta l’esecuzione penale esterna di Valentina Maglione e Serena Uccello Il Sole 24 Ore, 15 gennaio 2024 Cresce l’area penale, con l’aumento dei detenuti e anche di chi sconta l’esecuzione fuori dal carcere. Sono arrivate a quasi 85mila a fine 2023 le persone che scontano la pena all’esterno: +40% rispetto al 2019, mentre i detenuti sono tornati quasi ai livelli pre-pandemia, con 60.166 presenze al 31 dicembre scorso, a fronte di una capienza degli istituti di 51.179 posti. In parallelo, si sono impennati i dati dei condannati e degli imputati che scontano l’esecuzione penale fuori dal carcere: secondo il monitoraggio del ministero della Giustizia, al 31 dicembre scorso erano 84.610 le persone in carico agli uffici per l’applicazione di misure di esecuzione esterna, il 40% in più rispetto al 2019 e in aumento del 14% solo sul 2022. Tanto che, se ormai stabilmente dal 2020ilnumero di chi sconta l’esecuzione penale all’esterno supera quello delle persone detenute, ora il divario ha toccato il 41% in più. È un mondo composito, che unisce strumenti diversi, accomunati dall’impronta rieducativa e dalla relazione con la comunità. E che ha ricadute incoraggianti in termini di recidiva: dagli studi svolti, a campione, emerge che il tasso medio di recidiva per chi ha svolto l’esecuzione penale esterna è del 3o%, contro il 7o% di chi ha scontato la pena in carcere. Nel dettaglio, nell’esecuzione penale esterna entrano le misure alternative alla detenzione (l’affidamento in prova al servizio sociale, 28.252 persone in carico a dicembre scorso, la detenzione domiciliare, 11.782 persone, e la semilibertà, L142 persone), la misura di sicurezza della libertà vigilata (applicata a 4.854 persone) e la sanzione sostitutiva della libertà controllata (34 soggetti). Poi ci sono le sanzioni di comunità: il lavoro di pubblica utilità per chi ha violato le norme del Codice della strada (9.533 persone) o la legge sugli stupefacenti (865 persone), oltre alla sospensione condizionale della pena subordinata a un programma di trattamento, introdotta per chi ha commesso reati di violenza domestica odi genere dalla nuova legge 168/2023, in vigore dal 9 dicembre (applicata a 241 persone) Ha un peso importante la sospensione del processo con messa alla prova, introdotta nel 2014 e potenziata dalla riforma Cartabia; a dicembre erano 26.0841e persone in carico: indagati o imputati che chiedono, appunto, di sospendere il processo per seguire un programma con contenuti rieducativi (dove quasi sempre ricorre il lavoro di pubblica utilità) che porta, se va a buon fine, all’estinzione del reato. La riforma ha ampliato la sfera dell’esecuzione esterna anche introducendo le nuove pene sostitutive di pene detentive brevi, che possono essere irrogate direttamente dal giudice di cognizione, riducendo così i tempi di intervento. Si tratta del lavoro di pubblica utilità sostitutivo (1.510 persone in carico), della detenzione domiciliare sostitutiva (310 soggetti) e della semilibertà sostitutiva (tre persone). L’area penale include anche le persone (47.690 a dicembre) su cui gli uffici di esecuzione penale esterna svolgono indagini e consulenze. Infine, ci sono i “liberi sospesi”, condannati che hanno avuto la sospensione della pena e attendono che i magistrati decidano se ammetterli all’esecuzione esterna: erano oltre 90mila a fine 2022, come ha spiegato il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, rispondendo a un’interrogazione. Questo perché le misure di esecuzione fuori dal carcere non sono aperte a tutti. Le leggi stabiliscono intanto dei limiti di pena (variabili, ma spesso il tetto è quattro anni), anche residua: si possono scontare all’esterno condanne a pene brevi o arrivare dal carcere, quando si avvicina la fine di condanne a pene più lunghe. Agli uffici compete poi una valutazione sulle risorse della persona - in termini di rete familiare, casa, lavoro, ma anche consapevolezza - per decidere se concedere o no le misure esterne. Inoltre, l’accesso non è uniforme sul territorio, ma varia molto anche in base alla disponibilità degli enti. Per Cosima Buccoliero, che attualmente dirige il carcere di Monza, prima a Torino e a Bollate, “dai dati dei reati non emerge un incremento così importante da spiegare l’aumento dell’esecuzione. Sulla crescita della popolazione detenuta influisce sicuramente un aumento dei fallimenti durante l’esecuzione esterna: per fatti commessi durante l’esecuzione esterna o perché ricevono una nuova condanna per un reato diverso da quello per cui hanno avuto accesso alle misure alternative e la cui sentenza arriva molti anni dopo. Le misure alternative possono anche essere aumentate per la ripresa delle concessioni dopo il rallentamento della pandemia”. Inoltre, prosegue Buccoliero, “l’area della penalità è cresciuta perché si vedono gli effetti dell’aggravamento delle misure per tutti i reati previsto dal codice rosso”. Mauro Palma: “Detenzione in crescita, così non funziona” di Valentina Maglione Il Sole 24 Ore, 15 gennaio 2024 Ecco apro il file così leggiamo i numeri aggiornati: ad oggi, io gennaio, le persone in misure alternative sono 85.388. I detenuti sono 60.323. Quindi se li sommiamo, arriviamo a 145.711, numero che delinea la misura dell’area penale oggi. Se io prendo lo stesso dato riferito al 2016, che è l’anno in cui ha avuto inizio il mio mandato, il numero è di 98mila. L’aumento è evidente. Un incremento che non corrisponde alla crescita del numero di reati”. Mauro Palma, Garante nazionale per i diritti dei detenuti, ha chiuso il suo mandato da pochissimo ma in attesa che si insedi il nuovo (Maurizio D’Ettore con Irma Conti e Mario Serio) “ne ho ancora la responsabilità perché la funzione non può restare vacante”, spiega. Come si possono spiegare questi numeri? La prima incongruenza è che se le misure alternative sono cresciute come le carcerazioni vuol dire che non ha funzionato il principio in base al quale, aumentando le misure alternative si diminuiva la pressione sul carcere. Lei pensi che questa mattina mi sono arrivati questi altri numeri: le persone che sono in carcere perché scontano una pena inferiore a un anno, non un residuo di pena, ma proprio una pena, sono in questo momento 1.481, quelle con una pena tra uno e due anni sono 2.912. Secondo me rispetto all’entità della condanna sono numeri rilevanti. E anche su questi non hanno inciso le misure alternative, che tra l’altro dovrebbero incidere anche sui residui di pena. E invece quelli a cui manca meno di un anno per uscire sono 7.702. Insomma il sistema non funziona… L’area penale si è andata progressivamente espandendo, questo è evidente. Di fatto stanno finendo nel penale le contraddizioni minori. Chi è in carcere per pene così piccole vuol dire che c’è perché non ha avuto un buon avvocato, perché magari non ha un indirizzo, magari è straniero. Tutti problemi territoriali, sociali, che invece di essere risolti come tali finiscono per confluire all’interno del carcere. E questo è il primo problema grosso. Quindi possiamo pure aumentare le misure alternative, ma se questo non determina una riduzione del carcere, non abbiamo risolto molto. E il secondo nodo a cui faceva riferimento? Se aumentano tanto le misure alternative al carcere dovrebbero aumentare anche il personale, anche le strutture, anche le risorse da destinare agli uffici di esecuzione penale esterne, perché se no rischiamo che queste siano misure di controllo e non misure per la costruzione di una rieducazione. Domenico Arena (Dgmc): “Al lavoro per mantenere la qualità degli interventi” di Serena Uccello Il Sole 24 Ore, 15 gennaio 2024 La crescita vertiginosa dell’esecuzione penale esterna disegna un sistema che si va ampliando, non più circoscritto al mondo delle carceri. Lavoriamo per mantenere standard di qualità alti nello stilare e realizzare i progetti educativi e nei controlli sul loro andamento”. A dirlo è Domenico Arena, direttore generale per l’esecuzione penale esterna e la messa alla prova all’interno del Dipartimento della giustizia minorile e di comunità del ministero della Giustizia. Perché l’esecuzione fuori dal carcere è aumentata tanto? Si tratta di una tendenza europea, non solo italiana. L’esecuzione esterna è ritenuta il mondo del futuro, ma non può diventare l’unica risposta ai reati: è complementare alla detenzione. Di certo offre una reazione più flessibile ai diversi crimini, mettendo sempre al primo posto la sicurezza sociale. Si punta alla rieducazione e al recupero per rendere la giustizia penale un servizio per la comunità e dare una risposta complessiva alla devianza. Ciò detto, in questi anni è proprio aumentata l’area del penalmente rilevante, visto che in parallelo non sono diminuiti i detenuti. L’esecuzione esterna potrebbe salire ancora? Sì. Oggi nei penitenziari molti reclusi scontano pene residue contenute, compatibili con i limiti per l’esecuzione esterna. Ma non tutti possono passare all’esterno perché occorre poter contare su delle risorse: dalla casa al lavoro, dalle relazioni familiari alla salute. Pesa molto la disponibilità, non uguale ovunque, degli enti pubblici e del Terzo settore con cui lavoriamo. Come state intervenendo? Durante la pandemia è stato varato un progetto che ha portato alcuni detenuti, soprattutto nel Nord, fuori dal carcere in strutture residenziali protette. Miriamo ad ampliare e rendere strutturale questo sistema di residenzialità temporanea, per accompagnare verso l’esterno chi è a fine pena ma non ha una casa. Cerchiamo di offrire un ponte anche verso il lavoro, favorendo il contatto con gli enti che fanno politiche in questo ambito. Siamo poi al lavoro sul fronte del personale. Ora facciamo affidamento su un migliaio di funzionari tecnici, tra assistenti sociali ed educatori, e circa 30o poliziotti penitenziari, che fronteggiano una mole di lavoro soverchiante. Contiamo di riuscire a raddoppiare le risorse entro l’anno grazie all’incremento delle piante organiche. E stiamo creando gruppi di lavoro specializzati. Il ministero sta anche sviluppando un modello per valutare il rischio di recidiva. Si tratta di sistemi già in uso all’estero, fondamentali per rendere le azioni più efficaci. Più minori reclusi dopo il decreto Caivano di Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 15 gennaio 2024 Il carcere resta residuale ma negli ultimi mesi le presenze sono salite del 16%. Per i minorenni il carcere rimane una soluzione residuale ma, negli ultimi mesi di quest’anno, il numero dei reclusi è cresciuto, probabilmente a causa della stretta repressiva introdotta dal decreto Caivano (Dl 123/2023) che è entrato in vigore a metà settembre. In tre mesi i ragazzi e i giovani adulti reclusi nei 17 istituti penali minorili (Ipm) presenti sul territorio italiano sono aumentati del 16%, passando dai 426 del 15 settembre ai 495 del 15 dicembre scorso. In cella ci sono in gran parte maschi (le ragazze sono 13 su 495), con una forte presenza di stranieri che, al 15 dicembre scorso, erano 27o contro 224 italiani. In generale, i giovani interessati da provvedimenti penali e presi in carico dalla giustizia minorile sono però soprattutto italiani (il 78% del totale) mentre gli stranieri sono il 22 per cento. Un disallineamento legato al fatto che i ragazzi stranieri sono spesso privi di reti familiari e sociali esterne. “La loro sovra-rappresentazione in carcere dimostra che l’assenza di punti di riferimento riduce le possibilità di accesso alle misure alternative alla reclusione”, spiega Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone, associazione “per i diritti e le garanzie nel sistema penale”. Le sanzioni eseguite al di fuori degli istituti penali, sono comunque la strada più seguita per i minori e i giovani adulti (in carcere ci sono anche maggiorenni fino a 25 anni che hanno compiuto reati durante la minore età) perché l’obiettivo è favorire percorsi educativi e il recupero sociale, in linea con le finalità che la Costituzione attribuisce alle pene. Nel 2023, seppur di poco, la percentuale dei ragazzi in carcere rispetto alla totalità di quelli presi in carico dalla giustizia minorile (che sono poco più di 14mila) è però salita al 3,5%, mentre nel 2021-2022 era stata del 2,5-2,8 per cento. Anche per i minori la pandemia aveva infatti ridotto le presenze in carcere che, a fine 2020, erano scese a 305 ma che poi, dal 2021, hanno ripreso a crescere (si veda la grafica in alto). Nel 2023, un primo rialzo c’è stato in estate, quando si è saliti sopra i 400, ma l’aumento maggiore si è verificato a partire da ottobre (in tutto il 2023 la crescita è stata del 24%). Il decreto Caivano, varato a settembre dopo lo stupro di gruppo di due cuginette di io e 12 anni avvenuto nel Comune campano a opera di alcuni minorenni, ha allargato le possibilità di ingresso in carcere e, in particolare, ha ampliato la gamma di reati e ridotto la soglia di pena per la custodia cautelare (che causa la maggior parte degli ingressi negli Ipm) e ha, inoltre, consentito l’arresto in flagranza per detenzione e spaccio di stupefacenti, anche di lieve entità. “La giustizia penale minorile italiana è un modello che va difeso e al quale guarda l’intera Europa: non va messo in discussione - continua Susanna Marietti - mentre il decreto Caivano spinge su una pericolosa omologazione degli strumenti per i minori con quelli per gli adulti, sulla base di allarmi generati da fatti di cronaca ma in assenza di una reale emergenza legata alla criminalità minorile. E la stretta sul penale non avviene solo con le leggi ma anche con indicazioni informali”. I reati che portano in carcere i ragazzi e i giovani adulti sono soprattutto rapina, furto, lesioni personali e stupefacenti. Nei primi 14 giorni dell’anno 18 decessi in carcere e un sovraffollamento del 127,54% garantenazionaleprivatiliberta.it, 15 gennaio 2024 Il richiamo del Garante nazionale di fronte al rischio di violazione dei diritti delle persone e alla necessità di provvedimenti urgenti. Ritmi serrati nella successione delle morti in carcere e nell’aumento della popolazione detenuta segnano l’inizio del 2024. 4 persone si sono suicidate nei primi 9 giorni dell’anno, tra il 5 e il 14 gennaio: la prima era entrata in carcere ad Ancona a settembre, per la revoca della detenzione domiciliare con cui stava scontando la pena, e ne sarebbe uscita ad agosto di quest’anno. La penultima, detenuta nella Casa circondariale di Cuneo, era in carcere da 13 giorni: entrata il 28 dicembre, si è tolta la vita il 10 gennaio. A queste morti vanno aggiunte le 14 catalogate come “morti per cause naturali”. 18 morti nei primi 14 giorni dell’anno sono il preannuncio di un andamento molto simile a quello del 2022, quando si sono contati 85 suicidi nel corso dell’anno: 8 nel mese di gennaio, esattamente 5 nei primi 14 giorni. La tendenza al sovraffollamento senza battute d’arresto è fenomeno in atto da un anno, con una progressione preoccupante rispetto agli anni precedenti: se alla fine del 2022 la popolazione detenuta era aumentata di circa 2000 unità rispetto a dicembre del 2021, l’aumento registrato al 30 dicembre 2023 è esattamente del doppio, con circa 4000 persone detenute in più. Negli ultimi tre mesi (dal 14 ottobre al 14 gennaio) l’aumento è stato di 1196 presenze, quindi, quasi 400 al mese. L’indice attuale dell’affollamento delle carceri italiane, alla data del 14 gennaio 2024, è del 127,54%: 60.328 persone detenute, 13.000 in più rispetto ai 47.300 posti disponibili, con punte di sovraffollamento del 232,10% nella Casa circondariale di San Vittore a Milano, del 204,95% nella Casa circondariale di Canton Mombello a Brescia, del 204,44% in quella di Lodi, 195,36 in quella di Foggia. La criticità della densità della popolazione detenuta è aggravata dalla modalità con cui viene attuata la nuova disciplina della detenzione della media sicurezza, per la quale se le persone non sono impegnate in attività restano chiuse nelle camere di pernottamento: la carenza di attività, riscontrabile in modo diffuso nel nostro sistema penitenziario, determina, pertanto, la permanenza nel chiuso delle celle, in spazi che in due Istituti sono anche certificati come inferiori al limite dei 3 mq per persona per cui la Corte europea dei diritti dell’uomo ha indicato la forte presunzione di trattamento inumano, in violazione dell’articolo 3 della Convenzione, articolo che - lo ricordiamo - non ammette deroghe, neppure in situazioni eccezionali. Il Collegio del Garante nazionale ancora attualmente in carica, in attesa che si perfezionino le procedure di insediamento del Collegio che subentrerà per il prossimo quinquennio, non può venire meno al compito di prevenzione sia delle violazioni dei diritti delle persone detenute sia delle conseguenti sanzioni a carico dello Stato e di tutti i cittadini, assegnato dalla legge all’Autorità di garanzia come adempimento ordinario. Il Garante nazionale segnala, quindi, a tutte le Autorità responsabili, che lo stato di sovraffollamento degli Istituti penitenziari italiani non può attendere i tempi di progetti edilizi di diverso genere e non è colmato dalla realizzazione dei nuovi 8 padiglioni inseriti dal precedente Governo nel PNRR, poiché essi potranno ospitare non più di 640 persone: una goccia rispetto all’eccedenza attuale di 13.000 detenuti rispetto ai posti disponibili. Il Garante nazionale raccomanda, pertanto, che si assumano provvedimenti urgenti di deflazione della popolazione detenuta come quelli introdotti con il decreto-legge 23 dicembre 2013 n. 146, sia pure di durata temporanea, e che si avvii in tempi rapidi la previsione normativa per consentire una modalità diversa di esecuzione penale per le persone condannate a pene brevi, inferiori ai due anni di reclusione, che oggi contano più di 4000 unità; una modalità di forte rapporto territoriale, da attuare anche recuperando strutture demaniali già esistenti. Tali misure potrebbero ricondurre il sistema al rispetto della dignità della vita delle persone detenute e della finalità risocializzante della pena, anche nella prospettiva di prevenire quel disagio che è molto spesso dietro gli atti di suicidio in carcere. Servizio Civile Universale. All’associazione “Bambini senza sbarre” ci sono 4 posti disponibili La Repubblica, 15 gennaio 2024 Giovani tra i 18 e i 29 anni non compiuti da inserire nel proprio organico. È stato pubblicato il bando per il Servizio Civile Universale 2023-2024. Quattro i posti disponibili per lavorare con Bambini senza sbarre Ets nel settore “Minori e giovani in condizioni di disagio o esclusione sociale”. Bambinisenzasbarre cerca 4 giovani, tra i 18 e i 29 anni non compiuti, da inserire nel proprio organico. Il termine per presentare la propria candidatura scade alle 14 del 15 febbraio 2024. La domanda deve essere presentata utilizzando lo SPID e collegandosi alla piattaforma DOL, allegando il CV. I percorsi di servizio civile inizieranno nel mese di maggio 2024. La selezione. L’Associazione Mosaico, incaricata della selezione dei candidati, organizza incontri online di orientamento facoltativi, a cui si può partecipare compilando questo modulo. il Bando e le informazioni per candidarsi. Per informazioni Associazione Mosaico, chiamando in orario d’ufficio i numeri delle sedi di: - Monza, tel. 039 9650 026 - mail info.monza@mosaico.org - Bergamo, tel. 035 254 140 - mail comunicazione@mosaico.org - Erba, tel. 031 679 0022 - mail info.erba@mosaico.org Cos’è Bambini senza sbarre Ets. È impegnata da oltre vent’anni nella difesa dei diritti dei bambini e in particolare nella cura delle relazioni familiari durante la detenzione di uno o entrambi i genitori (sono 100mila i bambini che in Italia hanno un genitore in carcere e 2,2 milioni in Europa), nella tutela del diritto del bambino alla continuità del legame affettivo e nella sensibilizzazione della rete istituzionale e della società civile. Lo Spazio Giallo nel carcere di Bollate. Bambinisenzasbarre è attiva in rete sul territorio nazionale col suo “Sistema Spazio Giallo” operativo dentro e fuori dalle carceri. Opera direttamente in Lombardia (Milano, Bergamo, Lodi, Voghera, Vigevano, Pavia), in Toscana, Campania e Calabria e supervisiona le attività dei partner in rete a Brescia, Varese, in Piemonte, Marche, Basilicata, Puglia e Sicilia. Lo Spazio Giallo nel carcere milanese di San Vittore. Il Sistema Spazio Giallo comprende fra le varie attività la creazione e la gestione, nelle carceri, dello Spazio Giallo, ideato da Bambinisenzasbarre. È uno spazio relazionale di ascolto e sostegno psicologico alle famiglie e in particolare ai bambini che entrano in carcere quotidianamente per incontrare il genitore, un’interfaccia con funzione di mediazione tra il mondo esterno e il carcere. Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti. Firmata il 21 marzo 2014 dal Ministero della Giustizia, dall’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza e da Bambinisenzasbarre, rinnovata nel 2016,2018 e nel dicembre 2021, ha recepito l’importanza di questo progetto e raccomanda in 8 articoli che nelle carceri italiane siano presenti degli spazi dedicati ai bambini che vanno a trovare il genitore detenuto e altre contestuali raccomandazioni e linee guida. Il rinnovo della Carta dei diritti - 2021. La Carta riconosce formalmente i diritti di questi bambini, in particolare il diritto alla non discriminazione e alla continuità del legame affettivo con il proprio genitore in attuazione degli artt. 3 e 9 della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (20.11.1989). Da allora Bambinisenzasbarre è impegnata nella diffusione e nel monitoraggio dell’applicazione delle linee guida della Carta negli istituti penitenziari italiani, partecipando al Tavolo nazionale di monitoraggio con Ministero di Giustizia e Autorità Garante dell’infanzia e dell’adolescenza, organizzando e partecipando a seminari e convegni, creando una rete di attenzione nazionale di realtà istituzionali e del Terzo Settore e fornendo consulenza sui temi della genitorialità in carcere. Le spinte autoritarie di un governo che trasforma i cittadini in sudditi di Donatella Stasio Il Dubbio, 15 gennaio 2024 La riforma dell’abuso d’ufficio toglierà alla magistratura il controllo sulla Pubblica amministrazione. Non sarà più reato pagare una persona affinché “spinga” per far vincere un concorso a un amico. È ben più di un colpo di spugna. Il combinato disposto abrogazione dell’abuso d’ufficio e riscrittura del traffico di influenze illecite - contenuto nell’articolo 1 del Ddl Nordio, votato dalla maggioranza con l’ausilio di Italia Viva - è purtroppo l’ennesimo esempio della cultura autoritaria del governo Meloni, che taglia le unghie ai poteri di controllo e di garanzia e conferisce alla pubblica amministrazione un potere quasi sovrano, e insindacabile, nei confronti del cittadino-suddito, abbandonato di fronte a vessazioni, favoritismi, prevaricazioni. Un arretramento dello stato di diritto. Non solo cadranno processi in corso e condanne definitive ma grazie alla presunta riforma diventeranno leciti comportamenti odiosi, anche rispetto all’integrità della pubblica amministrazione, la cui discrezionalità dev’essere orientata alla tutela dell’interesse pubblico, non di quello privato. Un segnale devastante. Con buona pace della questione morale. L’uno-due delle destre di governo si è consumato la scorsa settimana in commissione Giustizia al Senato, che nei prossimi giorni licenzierà il provvedimento per l’aula. L’abrogazione dell’abuso viaggia insieme alla riscrittura del reato di traffico di influenze illecite, introdotto nel 2012 dalla legge Severino n. 190, sotto la spinta delle Convenzioni internazionali sulla corruzione firmate dall’Italia. La mediazione illecita, o traffico di influenze, è una condotta considerata prodromica rispetto alla corruzione vera e propria. Gli intermediari in fatti corruttivi, più volgarmente detti “faccendieri” o “facilitatori”, sono un fenomeno internazionale: l’Università di Stanford ha rivelato che oltre il 90% delle tangenti pagate nell’ambito di transazioni economiche internazionali è stato veicolato proprio da intermediari. La nostra mediazione illecita, però, fin dall’inizio è risultata troppo generica, tanto più in mancanza di una legge sulle lobbies, e difatti è stata “tipizzata” dalla Cassazione, secondo cui il reato sussiste quando la condotta del faccendiere è rivolta alla commissione di un reato, quasi sempre l’abuso d’ufficio. Che ora, però, viene abrogato. Scompare e fa scomparire così tutti i processi e le condanne basate su quello schema. Non sarà più reato pagare una persona affinché “spinga” su un magistrato per ottenere una decisione piuttosto che un’altra, visto che quest’ultima condotta non è più punita come abuso. Diventerebbe lecito anche il pagamento di danaro a chi promette una raccomandazione al componente di una commissione di un concorso, con cui può spendere rapporti personali pregressi, per far risultare vincitore il suo “cliente”. Non soddisfatti di questo risultato, si è voluto comunque riscrivere il reato, cambiandone a tal punto i connotati da prefigurare un ulteriore e più ampio colpo di spugna, di cui beneficeranno anche nomi “eccellenti” (già circolano quelli di Gianni Alemanno e di Luca Palamara). Ma governo e maggioranza non fanno una piega. Nel caso dell’abuso d’ufficio, la cancellazione di quel che resta del reato dopo le precedenti scarnificazioni è stata giustificata in nome di un diritto penale liberale, mentre è vero esattamente il contrario: chi sostiene l’abrogazione è dalla parte del diritto penale autoritario perché alzare una barriera di immunità intorno al pubblico ufficiale equivale a violare il principio di uguaglianza. A sottolinearlo è un professore ultra garantista di diritto penale, avvocato e accademico dei Lincei, Tullio Padovani, ricordandoci che l’abuso è entrato negli ordinamenti europei con la rivoluzione francese ed è figlio del diritto penale liberale, per cui creare una zona franca di discrezionalità insindacabile ci fa tornare a uno stadio che precede, appunto, lo stato di diritto. Anche un altro giurista, avvocato e professore di diritto penale, Massimo Donini, parla di “scelta autoritaria” e considera “una bufala giornalistica e politica” la narrazione secondo cui l’abuso d’ufficio riguarderebbe solo i sindaci e quindi sarebbe imposto dalla loro “paura della firma” anche per ridare slancio all’economia. Da una ricerca sulle sentenze di Cassazione è emerso che i sindaci non sono affatto il bersaglio privilegiato del presunto accanimento dei magistrati: le sentenze che li riguardano sono di poco più numerose (82) di quelle riguardanti altre cariche elettive (presidenti di regione o di provincia, consiglieri comunali o assessori: 72) ma di molto inferiori a quelle che hanno come protagonisti dei tecnici (dirigenti di uffici di enti territoriali, medici, professori universitari…: 176). Pensiamo al detenuto arbitrariamente e intenzionalmente escluso dall’ora d’aria, dalle visite dei parenti o al quale viene impedito l’esercizio di un suo diritto (senza violare l’articolo 608 del Codice penale); al professore universitario che fa entrare in ruolo solo i suoi allievi mediocri sottovalutando abusivamente candidati più meritevoli; al primario ospedaliero che demansiona un aiuto medico perché non dirotta alcuni pazienti verso la sua clinica privata. La casistica è immensa. Ed è singolare che non si spenda una sola parola sulla gravità del reato e sul suo effetto deterrente. Di fronte alle accuse di panpenalismo, il liberale Nordio continua a giustificarsi dicendo che sono segnali di attenzione che lo Stato deve mandare ai cittadini. Ma quale segnale viene mandato con la cancellazione dell’abuso d’ufficio, se non quello di abbandonare il cittadino alle angherie dei detentori del potere pubblico? Silenzio. Muti e sordi, anche rispetto agli impegni internazionali. Se si tratta di colletti bianchi, bisogna sbianchettare i reati, partendo dall’abuso, “ferma restando la possibilità - è la concessione messa a verbale dalla presidente della commissione Giustizia Giulia Bongiorno - di valutare in prospettiva futura specifici interventi additivi volti a sanzionare, con formulazioni circoscritte e precise, condotte meritevoli di pena in forza di eventuali indicazioni di matrice euro-unitaria che dovessero sopravvenire”. Fuori dal giuridichese: se sarà necessario colmare lacune interverremo con nuove norme tipizzate. Ma perché, allora, non farlo subito, contemporaneamente all’abrogazione dell’abuso? È evidente che se la “riforma Nordio” resterà in vigore anche un solo giorno, tanto basterà a fare tabula rasa dei procedimenti in corso e delle condanne passate in giudicato. Lo stesso effetto si produrrà con la riscrittura del traffico di influenze illecite, che ne ha ristretto il perimetro: “l’utilità” concessa per la mediazione dev’essere solo economica, i soldi devono essere destinati anche al pubblico ufficiale, e chi paga deve essere certo (dolo specifico) che una parte dei soldi andrà al pubblico ufficiale. Tutto questo è quasi impossibile da provare perché non sempre nel traffico di influenze c’è passaggio di soldi ma spesso solo di favori (viaggi, vacanze, e altri benefici) e non a caso anche l’Europa parla semplicemente di utilità. I tanti rischi di questa “riforma” sono stati illustrati al Senato anche da magistrati esperti nel contrasto alla corruzione, tra cui Raffaele Cantone, Procuratore a Perugia. Che ha avvertito: l’effetto del Ddl Nordio sarà di rendere condotte odiose non solo penalmente irrilevanti ma addirittura pienamente lecite. Chiunque potrà raccomandare i propri protetti per ottenere una sentenza favorevole o la vittoria in un concorso pubblico. Bel colpo per chi si erge a tutore della legalità. Prescrizione, l’allarme del Csm per la riforma del centrodestra: “Così salta il Pnrr” di Liana Milella La Repubblica, 15 gennaio 2024 Alla Camera da domani in discussione il nuovo sistema che sarà approvato con il pieno appoggio di Azione e Iv. Perfino l’attuale Csm - proprio quello che vede come vicepresidente il consigliere laico leghista Fabio Pinelli, e con una solida maggioranza, tra laici e togati, di centrodestra - non può fare a meno di bocciare l’idea della maggioranza, con il solito appoggio di Azione e Italia viva, di cambiare per la quarta volta in cinque anni la prescrizione. Farà saltare il Pnrr, ma loro vanno avanti lo stesso. Già, proprio questa settimana, a partire da domani alla Camera, si compirà il primo passo della riforma. Pochi emendamenti, un’opposizione decisa a dare battaglia, ma la maggioranza conta di chiudere tutto per giovedì. E il Guardasigilli Carlo Nordio, che mercoledì terrà la sua relazione programmatica per il 2024 in entrambi i rami del Parlamento, sponsorizza la proposta, anche se ci ha messo solo il cappello sopra all’ultimo momento, perché a fare tutto ancora una volta è stato Enrico Costa di Azione in stretta liaison con Pietro Pittalis di Forza italia. Doveva essere una proposta di legge parlamentare, ma in corner il ministro della Giustizia, in una mattinata, l’ha fatta sua. Non è servito a nulla il disperato appello dei 26 presidenti delle Corti d’Appello italiane, reso noto da Repubblica il 2 dicembre, per inserire almeno una norma transitoria nella nuova prescrizione. Che si richiama, come vedremo, a quella del Guardasigilli del Pd Andrea Orlando, superando del tutto quelle di Alfonso Bonafede e di Marta Cartabia. Non c’è stato niente da fare, Nordio non ha neppure risposto ai suoi ex colleghi. E adesso, come si può leggere nel lungo parere del Csm approvato all’unanimità dalla sesta commissione (presieduta da Marcello Basilico di Area, relatore Dario Scaletta di Magistratura indipendente) che mercoledì approderà in plenum, in verità fuori tempo massimo rispetto al voto della Camera, l’organo di autogoverno dei giudici sottoscrive in pieno proprio la linea dei presidenti delle Corti d’Appello. Ecco cosa scrivono, considerando soprattutto “la brevità del termine che residua per il conseguimento dell’obiettivo negoziato con la commissione europea nell’ambito del Pnrr”. Significa - come hanno scritto gli alti magistrati, come hanno sottolineato i giuristi durante le audizioni in commissione, come ha insistito l’opposizione - che l’impegno preso dall’Italia con l’Europa, la riduzione del 25% della mole dei processi penali, non è compatibile con una siffatta modifica della prescrizione. E il Csm né spiega il perché, citando proprio la preoccupazione dei presidenti che viene definita “giustificata “ in quanto “l’entrata in vigore della novella renderebbe necessaria una completa riprogrammazione delle attività giurisdizionali negli uffici di secondo grado e di legittimità, con la riorganizzazione dei ruoli di udienza, a oggi predisposti in modo da evitare, con riferimento ai reati commessi in epoca antecedente al 1 gennaio 2020, la prescrizione e, con riferimento a quelli commessi in epoca successiva, la decorrenza dei temi massimi per la definizione dei giudizi di impugnazione”. Stiamo parlando di prescrizione, cioè del tempo concesso dal codice a ogni reato per essere contestato agli imputati. Un tempo calcolato nel massimo della pena più un quarto, scaduto il quale il processo si chiude necessariamente, a meno che l’imputato non accetti di andare avanti. Ma non accade quasi mai. Le leggi che si sono succedute nel tempo, e che nel lungo parere del Csm vengono riassunte e descritte, perseguivano proprio questo obiettivo, finire i processi evitando la prescrizione. La legge Orlando sospendeva il processo per i condannati per 36 mesi complessivi in Appello e in Cassazione. La legge Bonafede bloccava definitivamente la prescrizione dopo il primo grado. La legge Cartabia, pur mantenendo la Bonafede, prevedeva che il processo d’Appello dovesse durare non più di due anni. Questo, detto in estrema sintesi. Perché la materia della prescrizione è molto tecnica e complessa. Adesso la proposta del governo e della maggioranza è di concedere 24 mesi di sospensione in primo grado e 12 mesi in Appello. Una soluzione che assomiglia solo a quella di Orlando, ma che aveva già proposto durante la gestione Cartabia l’ex presidente della Corte costituzionale Giorgio Lattanzi. Ma non fu adottata. Ovviamente si tratta di una norma favorevole agli imputati, che però mette in crisi la gestione attuale dei processi. E qui torniamo alla richiesta dei presidenti delle Corti d’Appello di inserire una norma transitoria. Che il Csm sottoscrive spiegandolo tecnicamente. Il parere definisce la “riorganizzazione prevedibilmente molto onerosa in quanto individuare i procedimenti da trattare con priorità richiederebbe la preventiva ricostruzione del regime di prescrizione e di improcedibilità applicabile a ognuno di essi”. Era proprio quello che i presidenti delle Corti d’appello cercavano di spiegare a Nordio nella loro lettera, raccontando che, con un personale molto ridotto perché nei loro uffici non è stato aumentato pur in vista degli impegni con l’Europa, con la nuova legge sarà necessario riprendere fisicamente fascicolo per fascicolo migliaia di processi e ricalcolare, per ognuno di essi, qual è il termine di prescrizione. E in molti casi questo andrà fatto anche, all’interno dello stesso processo, per reati differenti che ovviamente si prescrivono in tempi differenti. Per questo il Csm scrive: “L’entrata in vigore della nuova disciplina, che interviene tanto sul tema della prescrizione quanto su quello dell’improcedibilità, richiederà che individuare il regime applicabile a ogni procedimento non possa prescindere dall’applicazione dei principi in tema di successione di leggi nel tempo, essendo in gioco l’istituto sostanziale della prescrizione, ma al contempo, non potrà esaurirsi in essa, poiché di mezzo c’è anche l’improcedibilità che è un istituto di carattere processuale”. Il Csm cerca di spiegare a Nordio qual è la complessità della questione che il ministro della Giustizia dovrebbe conoscere benissimo visto che si vanta di continuo di essere stato pubblico ministero per quarant’anni. Ma pare proprio che, entrando in via Arenula, se lo sia dimenticato. Ecco perché i presidenti delle Corti d’Appello e il Csm sollecitavano “un regime transitorio al fine di scongiurare “brutte conseguenze”. Quelle che lo stesso Csm riassume così: “Nel contesto di una realtà giudiziaria caratterizzata da una situazione di sovraccarico delle pendenze e da rilevanti scoperture di organico del personale, di magistrati e di amministrativi, l’attività di verifica andrebbe preferibilmente a detrimento dei tempi da dedicare alla trattazione delle udienze, alla stesura delle motivazioni, agli adempimenti di cancelleria, con inevitabili ricadute negative sulla durata dei giudizi e lo smaltimento dell’arretrato, e con l’ulteriore rischio di invertire il trend positivo registrato in questi ultimi due anni sotto il profilo della riduzione del disposition time e, di conseguenza, di pregiudicare il raggiungimento entro il 2026 degli obiettivi negoziati con la Commissione europea”. Ancora una volta, come per l’abuso d’ufficio, il governo Meloni sulla giustizia va contro l’Europa. Per evitarlo il Csm, pur dove il centrodestra delle toghe e della magistratura domina, scrive: “Al fine di scongiurare tali possibili evenienze sarebbe opportuno completare l’intervento normativo con la previsione di un regime transitorio il cui perimetro di ammissibilità è ben definito alla luce della giurisprudenza costituzionale con riferimento sia agli aspetti migliorativi che peggiorativi di una nuova disciplina”. Per concludere che vantaggi di una disciplina transitoria sarebbero plurimi “evitando soluzioni difformi, con effetti di imprevedibilità, disomogeneità e instabilità delle decisioni sino al consolidamento, nel futuro, di un chiaro indirizzo interpretativo”. Il parere del Csm si conclude così: “Attraverso l’adozione di una disciplina transitoria il legislatore potrà, nell’esercizio della propria discrezionalità, individuare le soluzioni più idonee a coniugare l’obiettivo di un processo in grado di raggiungere il suo scopo naturale di accertamento del fatto e di eventuale iscrizione del relative responsabilità, con l’esigenza pure essenziale di raggiungere tale obiettivo nel pieno rispetto delle garanzie della difesa, in un lasso di tempo non eccessivo, tenendo conto anche delle necessità di preservare gli importanti risultati sinora conseguiti in punto di durata dei giudizi e di abbattimento dell’arretrato, in vista del pieno conseguimento degli obiettivi fissati dal Pnrr”. Ma, incredibilmente, a porsi questa linea di responsabilità rispetto agli impegni che l’Italia ha assunto con l’Europa non è né il ministro della Giustizia, né la maggioranza di centrodestra in Parlamento, ma i magistrati stessi e il Csm. Informative copia-incolla: è il far west delle indagini di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 15 gennaio 2024 Zero regole, molte suggestioni e fughe di notizie: nelle carte che passano dalla polizia giudiziaria alle procure (e poi ai giornali) la presunzione d’innocenza è ancora un miraggio. Nell’ormai annoso (e quanto mai ripetitivo) dibattito sulle intercettazioni telefoniche e sulla loro divulgabilità o meno nella fase delle indagini preliminari, si dimentica spesso di ricordare l’importanza che da tempo hanno assunto le informative di reato redatte dalla polizia giudiziaria. Il codice di procedura all’articolo 347 prevede che la polizia giudiziaria debba riferire al pm “per iscritto, gli elementi essenziali del fatto e gli altri elementi sino ad allora raccolti, indicando le fonti di prova e le attività compiute delle quali trasmette la relativa documentazione”. L’articolo prosegue sottolineando che vanno comunicate, se conosciute, le generalità di coloro nei confronti vengono svolte le indagini, prevedendo anche delle tempistiche entro cui trasmettere gli atti per i quali è necessaria la partecipazione del difensore. Il successivo articolo 357 prevede invece che la polizia giudiziaria annoti “secondo le modalità ritenute idonee ai fini delle indagini, anche sommariamente, tutte le attività svolte, comprese quelle dirette alla individuazione delle fonti di prova”. La stesura delle informative, come ricordato, negli anni è diventata un’attività centrale da parte della pg. Queste informative, infatti, saranno successivamente utilizzate nella loro interezza dal pm per motivare i suoi provvedimenti ed il giudice delle indagini preliminari, a sua volta, utilizzerà integralmente il provvedimento del collega requirente per motivare il proprio. Per semplificare, si potrebbe affermare che è un “doppio copia incolla”, peraltro avallato dalla Cassazione. Piazza Cavour, con numerose sentenze, ha puntualizzato che la motivazione di un provvedimento “per relationem” è perfettamente legittima e non viola la legge. Agisce quindi correttamente il pm che fa propria la richiesta della pg e il gip che poi fa propria quella del pm. In tale contesto è evidente che le informative di reato siano centrali nell’attività investigativa e che quanto riportato al loro interno sia destinato un domani ad essere discusso fino in Cassazione. Fatta tale premessa, bisogna comprendere ora come vengono redatte le informative di reato. Spesso l’estensore si lascia andare a valutazioni che nulla hanno a che vedere con le imputazioni per le quali si procede. Rimase celebre, per ricordare un recente fatto di cronaca giudiziaria che ha particolarmente scosso l’opinione pubblica, una frase del Gico della Guardia di finanza per descrivere i rapporti, e quindi motivare la proroga delle intercettazioni telefoniche, fra l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara e l’allora parlamentare di Italia viva Cosimo Ferri. Le Fiamme gialle scrissero che i rapporti fra i due magistrati erano connotati da una non meglio precisata “opacità”. In sede di dibattimento gli avvocati di Palamara domandarono ai finanzieri chiamati a testimoniare che cosa fosse tale “opacità” ottenendo però risposte quanto mai evanescenti. Recentemente l’ex presidente della Regione Abruzzo e ora deputato del Partito democratico Luciano D’Alfonso, presentando un emendamento, non accolto, alla legge di delegazione europea sulla presunzione d’innocenza e avente ad oggetto “l’obbligo di formazione continua delle forze di Polizia, della Guardia di finanza dell’Arma dei carabinieri e della Polizia penitenziaria nonché norme per la continenza linguistica”, è tornato sull’argomento. La riforma proposta da D’Alfonso avrebbe previsto l’attivazione presso gli istituti di formazione delle varie Forze di polizia di specifici corsi, con frequenza obbligatoria, destinati al personale che esercita funzioni di pubblica sicurezza e di polizia giudiziaria, da inserire in percorsi formativi permanenti, “volti a far acquisire, anche mediante il confronto interdisciplinare e la partecipazione di esperti esterni, competenze mirate al rafforzamento della presunzione di non colpevolezza, alla luce della direttive europee”. Al fine di assicurare l’omogeneità dei corsi, i relativi contenuti dovevano essere definiti con decreto del presidente del Consiglio dei ministri, di concerto con i ministri per la Pubblica amministrazione, dell’Interno, della Giustizia e della Difesa. Obiettivo ultimo, l’utilizzo di un fraseggio che fosse rispettoso della presunzione di innocenza e non colpevolista. Ad oggi non esistono delle regole di scrittura che valgono per tutti ed ogni singola forza di polizia agisce per conto proprio. La formazione è quanto mai “artigianale”: non esistendo un modello, tutto è lasciato alla discrezionalità del singolo. Torna alla mente un altro episodio di cronaca giudiziaria, la maxi inchiesta dei carabinieri del Noe per gli appalti Consip. I carabinieri avevano incardinato l’inchiesta alla Procura di Napoli con il pm Henry John Woodcock. Per competenza gli atti erano stati successivamente trasmessi alla Procura di Roma. Mario Palazzi, il nuovo pm titolare, lette le carte, la prima cosa che fece fu ordinare ai carabinieri del Noe di riscrivere da capo l’informativa non ritenendo fosse sufficientemente chiara. Ciò che andava bene a Napoli non andava evidentemente bene a Roma. In tale contesto, dove regna la discrezionalità, l’attenzione al contenuto delle informative non può non essere massima per evitare che al loro interno confluiscano elementi estranei alle indagini. Essendo - purtroppo - le fughe di notizie all’ordine del giorno bisogna considerare l’ipotesi che il contenuto delle informative possa finire interamente sui giornali prima ancora che le indagini siano concluse. Le pene per chi pubblica atti coperti dal segreto sono quanto mai blande e, comunque, non si può accusare il giornalista, che fa il suo mestiere, di aver pubblicato una notizia: a logica dovrebbe essere perseguito chi l’ha passata, il maresciallo o il pm, che per legge è tenuto al segreto. Anni fa ci fu grande polemica riguardo una norma che consentiva ai vertici delle Forze di polizia di venire a conoscenza “per conoscenza” del contenuto dell’informativa e quindi, in qualche modo, di essere nelle condizioni di influenzare l’operato dei propri investigatori. Dopo una levata di scudi da parte delle toghe, che investì anche il Csm, tutto rientrò. Ma è difficile tenere all’oscuro in una organizzazione di tipo gerarchico-funzionale, come è quella delle Forze di polizia, i superiori diretti sul contenuto di una attività d’indagine in corso. Sempre per rimanere nell’ambito dell’indagine Consip, si era arrivati a ipotizzare che gli allora vertici dell’Arma, il comandante generale ed il capo di stato maggiore, avessero potuto avvertire gli indagati che erano intercettati. Per tutta risposta, i carabinieri del Noe avevano pensato di mettere delle “ambientali” all’interno degli uffici dei propri superiori per accertare se fossero stati loro gli autori della rivelazione del segreto investigativo che aveva compresso l’inchiesta. Non esistendo formazione comune ed essendo tutto lasciato alla valutazione del singolo operatore, il rischio Far West è dunque dietro l’angolo. “Nell’ambito delle annotazioni e dei verbali di polizia giudiziaria - ricordò D’Alfonso - vanno evitati aggettivi che non siano strettamente necessari alla descrizione dell’attività compiuta o di espressioni comunque lesive della presunzione di innocenza”. “Si tratta di correttivi volti a rafforzare, anche al livello dell’attività di polizia giudiziaria, la tutela del diritto alla presunzione di innocenza dell’indagato attraverso la previsione di obblighi formativi continui”, aggiunse il parlamentare dem, auspicando “la promozione di una maggiore prudenza descrittiva, nell’ottica di arginare l’uso e l’abuso di aggettivi ed espressioni ‘stigmatizzanti’, per imporre al contempo l’impiego di un linguaggio cauto, dal tenore possibilista, improntato all’uso del modo verbale condizionale”. Chissà se ci si riuscirà mai. Maxi retate e carcere preventivo: tutto il potere agli apparati di sicurezza di Valerio Murgano* Il Dubbio, 15 gennaio 2024 Mentre doverosamente si discute sugli interventi legislativi finalizzati a limitare la divulgazione del contenuto delle ordinanze cautelari, non ci si avvede che qualcosa di più grave è già avvenuto: il potere giudiziario è stato appaltato agli apparati di pubblica sicurezza, con buona pace dei garantisti o presunti tali. Il governo del potere punitivo dello Stato, esercitato dagli apparati di polizia, è qualcosa di diverso dall’arbitrio interpretativo del giudice e dalle pulsioni populiste del legislatore, perché li trascende. La selezione unilaterale e parcellizzata dello sconfinato materiale investigativo posto a carico di centinaia di indagati, avallata dal finto vaglio del pubblico ministero e offerta all’impraticabile valutazione del Giudice delle indagini preliminari, si risolve “fisiologicamente” (sia consentito l’ossimoro) in un giudizio sommario nei confronti di “categorie criminologiche” assistite dalla presunzione di colpevolezza. Ne consegue l’annientamento definitivo dei tanti malcapitati di turno; tanto meglio se dotati di una robusta carica reputazionale. Cittadini, considerati sudditi, strappati alle famiglie e ai loro affetti, a cui è tolta la libertà, distrutto il credito sociale, spezzata la carriera, per sempre. Si certo, a fronte di centinaia di richieste di carcerazione - puntualmente proposte dagli investigatori nelle informative conclusive di reato - una manciata di indagati vengono graziati dall’applicazione della meno afflittiva custodia domiciliare. La selezione minimale tornerà utile al Tribunale del Riesame per rigettare qualche utopistica eccezione di nullità dell’ordinanza cautelare per mancanza dell’autonoma valutazione del giudice, in aderenza al dettato normativo dell’articolo 292 del codice di rito, come modificato nel 2015. All’apparenza il “semaforo giudiziario” funziona, ma è solo un’altra tragica boutade. La realtà è un’altra: migliaia di pagine imbastiscono fatti e circostanze sulla sagoma di fattispecie di reato accuratamente selezionate, pronte a divenire ordinanza cautelare e poi sentenza. La condanna mediatica è presto servita, quella formale si attende comodamente in carcere, spesso per anni, laddove quasi un terzo dei detenuti è in attesa di giudizio. L’aumento della penalità, così concepita, realizza l’irrazionale criminalizzazione secondaria di intere categorie di individui, disorienta i consociati e accresce pulsioni antisociali, finendo per rafforzare proprio quei fenomeni che si intendono debellare. È un fatto acquisito: all’espansione irregolare del potere militare dello Stato e della penalità corrisponde la proporzionale ascesa della criminalità organizzata. Se nel processo il “metodo” autoritario si infrange sui residui argini edificati da difensori e giudici ostinatamente propensi a controllare l’esercizio del potere repressivo e di polizia dello Stato, il materiale unilateralmente raccolto non andrà perduto, in quanto esiste pur sempre il piano di riserva: riesumare gli archivi delle Procure della Repubblica per legittimare l’applicazione di misure di prevenzione, interdittive antimafia, decreti di scioglimento dei Consigli Comunali, capaci di compromettere gravemente le libertà personali, patrimoniali e politiche degli individui attinti. Il potere debordante degli apparati di polizia e degli uffici dell’accusa riduce sempre più lo spazio di agibilità dei diritti di libertà, stabilizzando un’inconcepibile dipendenza funzionale dell’autorità giudiziaria dalla polizia giudiziaria. Così gli equilibri costituzionali che regolano il cruciale rapporto tra potere coercitivo e diritti fondamentali delle persone sono definitivamente alterati. La sproporzione di mezzi tra gli uffici dell’accusa e la difesa del cittadino, compreso quello basilare dell’accesso al sapere investigativo, cresce esponenzialmente nei processi originati dalle maxi retate a misura degli indefiniti confini delle fattispecie associative. La mediatizzazione delle inchieste giudiziarie, la spettacolarizzazione dei super maxi processi, con richieste di condanna a reti unificate, fan si che si confonda l’arresto preventivo con la penale responsabilità, la qualità d’imputato con quella di condannato. Occorrerebbe chiedersi a chi giova la disattenzione da queste criticità che investono i “fondamentali” del “giusto processo” e cioè quelle precondizioni in assenza delle quali le garanzie previste dai codici si trasformano in forme vuote di contenuti, inidonei a controllare l’esercizio del potere repressivo dello Stato. Dunque, “se” il contrasto alla criminalità è obiettivo condiviso, non più differibile è una chiara e netta presa di posizione da parte di tutti gli attori della giurisdizione che riguardi il “come” e con quali “effetti” concreti sulla vita dei cittadini ciò stia avvenendo. Il silenzio rende tutti complici di una “giustizia” che genera un olocausto d’innocenti in misura che mai si è conosciuta in passato e dei cui terribili effetti, presto o tardi, dovremo fare i conti. *Componente Giunta Unione delle Camere Penali Italiane “Il processo mediatico trasforma un’informativa scartata dai magistrati in un atto d’accusa senza possibilità d’appello” di Valentina Stella Il Dubbio, 15 gennaio 2024 Fughe di notizie, processi sui giornali prima di andare in aula, distrazione di massa usando nomi di terzi non indagati, norme che vengono aggirate: ne parliamo con Oliverio Mazza, Ordinario di Diritto processuale penale all’Università degli studi Milano. Professore, l’altro giorno Repubblica ha pubblicato una intera informativa dei carabinieri che ha gettato un’ombra nera sulla figura di Mario Vanacore, 64 anni, figlio di Pietrino, portiere dello stabile di via Poma a Roma, dove il 7 agosto 1990 fu uccisa Simonetta Cesaroni, e suicidatosi il 9 marzo 2010, qualche giorno prima della sua testimonianza nel processo a carico dell’ex fidanzato di Simonetta, Raniero Busco, assolto definitivamente. Su circa 120 righe dell’articolo, solo dieci sono dedicate all’archiviazione, il resto è tutta la ricostruzione, ritenuta priva di fondatezza dalla pm, dell’omicidio della giovane ragazza da parte di Vanacore Junior che avrebbe prima tentato di abusare di lei e poi l’avrebbe uccisa. Non sappiamo ancora che sia stato violato il segreto istruttorio ma quanto nuoce questo tipo di racconto alle persone coinvolte? Molto probabilmente la posizione di Vanacore verrà archiviata ma nella mente del lettore rimarrà la narrazione dei carabinieri e quel terribile dubbio... Siamo arrivati alla versione grottesca del “non processo” mediatico. Un processo abortito dalla richiesta di archiviazione si trasforma in un atto d’accusa mosso direttamente dalla polizia giudiziaria che non potrà mai essere emendato dalle decisioni dei magistrati. Non siamo in uno Stato di polizia e non è ammissibile che la stampa valorizzi i meri sospetti contenuti in una informativa dei Carabinieri che lo stesso pm ha evidentemente ritenuto congetturale e priva di fondamento. Il “non processo” mediatico mi ricorda i tè del cappellaio matto, un “non sense” che non potrà mai trovare nemmeno parziale compensazione dall’esito favorevole all’imputato del processo reale. Qualche giorno prima La Verità, rispetto all’inchiesta Anas-Verdini Junior, aveva pubblicato alcune intercettazioni in cui si faceva riferimento ad una consulenza effettuata dal figlio, completamente estraneo all’inchiesta, del presidente della Repubblica Mattarella. Quel nome non si trova né nell’ordinanza né nella richiesta del pm. Non crede che si sia superato il limite, usando un nome importante per sviare dall’inchiesta? La strumentalizzazione del nome altisonante è tipica di una stampa scandalistica e sensazionalistica che nulla ha a che vedere con il diritto di informare e di essere informati. Siamo dinnanzi a condotte puramente illecite che non trovano alcuna giustificazione e come tali andrebbero sanzionate. Andrebbe introdotto anche nel nostro Paese il modello dell’azione legale intrapresa dal principe Harry nei confronti dei tabloid britannici. Per una reale deterrenza basterebbe una sentenza pilota ed esemplare, di condanna a un risarcimento milionario o a serie misure interdittive per le testate giornalistiche. Professore è chiaro che spesso, nonostante ci siano delle norme, assistiamo a delle fughe di notizie, soprattutto forse da parte della polizia giudiziaria. Come si può arginare il fenomeno? Paradossalmente l’argine più forte sarebbe la legittima disponibilità degli atti che, tra l’altro, otterrebbe il risultato di spezzare il circolo vizioso fra inquirenti e giornalisti e porrebbe questi ultimi in condizioni di parità nell’accesso alle informazioni giudiziarie. Tuttavia, temo che non sia ancora maturata una cultura del processo e della presunzione d’innocenza tale da consentire questa soluzione. Rimanendo nell’attuale sistema, la sanzione per la rivelazione del segreto d’ufficio c’è, ma i responsabili di questo delitto sono destinati a rimanere sistematicamente ignoti fin quando le indagini verranno svolte dagli stessi uffici di procura da cui sono fuoriuscite le notizie. La pubblicazione arbitraria configura, invece, una contravvenzione risibile, oblabile con un centinaio di euro, e non è un caso. Questo reato ha sempre un autore noto, ma non lo si vuole punire. Un legislatore che volesse seriamente contrastare il fenomeno dovrebbe prevedere che la competenza investigativa sulla rivelazione del segreto d’indagine sia attribuita al PM di un diverso distretto, mentre la pubblicazione arbitraria dovrebbe essere sanzionata con pene pecuniarie rapportate al bilancio della testata giornalistica e, nei casi di recidiva, con l’interdizione temporanea dall’attività imprenditoriale. Secondo lei il combinato disposto tra la legge di recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza e l’emendamento Costa riusciranno a mantenere in equilibrio il diritto all’informazione con quello del rispetto del diritto degli indagati? Dove si ferma il primo diritto e dove inizia l’altro? Temo di no, il divieto di pubblicazione testuale dell’ordinanza cautelare è misura insufficiente e, forse, controproducente, nel senso che i contenuti reinterpretati dai giornalisti potrebbero essere addirittura peggiori del testo del provvedimento. È come guardare il dito e non vedere la luna. Il problema non è la pubblicazione, ma l’atto, ossia l’immoralità insita nel privare della libertà personale un presunto innocente. Anche per i giornalisti sarebbe quasi impossibile convincere l’opinione pubblica che la custodia cautelare non sia un’anticipazione della pena, è un concetto contro-intuitivo consentire tale forma di coercizione per finalità processuali diverse dalla punizione. Il problema, dunque, sta a monte ed è la mancanza di una vera cultura delle garanzie tanto nella magistratura quanto nel legislatore. L’abuso della custodia cautelare si può fronteggiare solo con scelte radicali, diverse dalla inutile politica degli aggettivi e degli avverbi finora seguita. Bisogna confinare le misure coercitive nei soli casi eccezionali in cui l’imputato abbia dimostrato, con il suo comportamento in costanza del procedimento, il concreto e attuale pericolo di violenze. Solo un rigoroso sbarramento all’applicazione della custodia cautelare sarebbe in grado di dare un preciso significato alla presunzione di non colpevolezza. Il dottor Eugenio Albamonte sostiene che molto spesso sono anche gli avvocati a passare le carte ai giornalisti per distrarli dal nome del proprio assistito e offrirgli qualcosa di più succulento. Ammettiamolo, avviene anche questo. Allora, al di là delle norme che spesso vengono aggirate, occorre solo una operazione culturale collettiva per arginare la gogna mediatica e auspicare che l’interesse ricada sul processo dove si forma la prova e non sulle indagini? Mi sembra difficile anche solo ipotizzare una violazione del segreto investigativo da parte di un avvocato, in quanto la segretezza viene meno proprio quando gli atti di indagine sono conosciuti dalla difesa, e una volta caduta la segretezza interna tali atti divengono pubblicabili, quantomeno nel loro contenuto. Ma se ciò accadesse, pensiamo alla divulgazione di un atto noto alla difesa e segretato dal pm, sono convinto che la motivazione dell’avvocato sarebbe ben diversa, agirebbe solo nell’interesse del suo assistito e non certo per ingraziarsi i giornalisti o per dare lustro alla sua persona. Non dobbiamo, quindi, confondere le situazioni: un conto è la gogna mediatica indotta, ammettiamolo, dai comportamenti degli inquirenti, un conto sarebbe la legittima difesa di chi cercasse di ottenere un riequilibrio dell’informazione a favore dell’indagato. L’estenuante caccia alle prove dell’innocenza occultate nelle indagini col Troyan di Alessandro Barbano Il Foglio, 15 gennaio 2024 Delle intercettazioni nascoste. La storia che vede protagonista l’avvocato Giuseppe Milicia assomiglia a una indomita resistenza. È la storia di un’inchiesta e di un processo nella cronica asimmetria tra chi accusa e chi si difende. Qui si racconta una guerriglia. Altro che parità tra accusa e difesa. Altro che prova che si forma nella dialettica tra le parti. Qui si racconta una guerriglia vietnamita, dove il pm fa la parte degli americani e all’avvocato è riservata la sorte dei vietcong. Se vuole salvare il cliente, e talvolta se stesso, l’avvocato deve sgusciare, come avrebbe detto Mao Zedong, con la velocità di un pesce nell’acqua, colpire il nemico con agguati a sorpresa, per poi sparire nella boscaglia. In un’azione penale fatta di sole intercettazioni, è il loro possesso a fare la differenza. Il pm le intercettazioni le detiene, le assembla e le dosa a suo piacimento. Le nasconde. L’avvocato deve scovarle dall’arsenale in cui sono custodite e disinnescarle, come si fa con le mine. È una corsa contro il tempo, fatta di astuzia e spregiudicatezza. Vista dall’esterno, può turbare o, addirittura, sconvolgere. Perché sotto il sagrato dove la giustizia celebra sovrana la catarsi della verità, si menano colpi bassi senza alcun rispetto delle regole. Ma questo è il processo lasciatoci in dote dai guardasigilli Orlando e Bonafede, ritinteggiato dalla Cartabia, come si fa per rinviare una ristrutturazione. Eppure rimasto lì, nella sua cronica asimmetria tra chi accusa e chi si difende. Prendere o lasciare. Attrezzarsi o soccombere. Giuseppe Milicia si attrezza. Sessant’anni che non li diresti, un pizzetto da intellettuale sotto un caschetto da combattente, un singolare impasto di passione civile e amaro realismo. Anni fa distribuì una lettera ai colleghi della Camera penale di Palmi per invitarli a bonificare i propri studi legali dalle microspie della polizia giudiziaria. Oggi che la stessa Camera presiede, non ha dismesso il giubbotto antiproiettile quando calca aule bunker e tribunali tra Catanzaro e Reggio Calabria. La storia di cui è protagonista somiglia a una indomita resistenza. Si processa un sistema, lo stesso presente in tante inchieste calabresi da rappresentare ormai un copione seriale. C’è la ‘Ndrangheta, c’è la massoneria e c’è la politica. Tre livelli che s’intersecano e che fanno librare l’azione penale sopra l’arcaico tribalismo mafioso da cui è partita, e in cui rischierebbe di condannarsi all’anonimato. E ci sono tomi di intercettazioni da farci una biblioteca leopardiana. Poiché per tre anni il Troyan si è accasato negli smartphone di decine di indagati e ha prodotto una gigantesca radiografia del male nascosto nei progetti, nelle intenzioni o più semplicemente nei desideri di una comunità. Così riti di affiliazione tra inguaribili ‘ndranghetisti locali si mescolano, in questa immensa raccolta di reperti umani, a relazioni politiche e a progetti di inquinamento giudiziario. E l’inchiesta prende il volo. C’è un imputato, Domenico Laurendi, assolto in primo grado in un’altra inchiesta di mafia, ma convinto che in appello non la scamperà. Per questo è a caccia di giudici da avvicinare e corrompere. Ci sono due fratelli, uno candidato alle regionali con Fratelli d’Italia dopo due legislature da sindaco, l’altro consulente del lavoro e suo consigliere elettorale. Si chiamano Domenico e Antonino Creazzo. La loro vita professionale e di relazione sta su un crinale sottilissimo, ma non inedito da queste parti, che divide il bene dal male, l’Antimafia dalla mafia. Di qua c’è Ivana Fava, figlia dell’appuntato Antonino Fava, assassinato il 18 gennaio del 1994 da un commando misto di ‘ndranghetisti e mafiosi: è entrata nell’arma con la legge in favore dei familiari delle vittime, ed è tenente presso la scuola allievi di Reggio Calabria. Di là c’è Domenico Alvaro, appartenente a una nota famiglia di ‘ndrangheta, con una condanna a sette anni già scontata. Ivana è moglie di Antonino. Antonino è amico d’infanzia di Domenico. Domenico ha sposato Grazia, anche lei avvocato. Grazia è amica d’infanzia di Ivana. Un simile intreccio di affetti e di vita non può stare tutto dentro una fotografia, allegata all’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia, che - come recita l’ordinanza del gip - “ritrae le due coppie sorridenti, a tavola, in un non meglio individuato ristorante”. Nella grammatica del sospetto basta il sorriso: l’inchiesta ipotizza che Creazzo sia stato eletto con i voti della mafia e in cambio abbia aiutato i mafiosi ad aggiustare i loro processi. Ci sono però molte cose che non tornano in questa indagine, scattata all’alba del 25 febbraio 2020 con sessantacinque ordinanze di custodia cautelare, di cui 53 in carcere, eseguite tra Sant’Eufemia d’Aspromonte e Bergamo, passando per Milano, Novara, Lodi, Pavia, Ancona, Pesaro, Urbino e Perugia. Con un metodo che pare una coazione a ripetere. C’è un nucleo ristretto di presunti mafiosi, poi un secondo livello di colletti bianchi delle professioni e delle logge, e un terzo che punta al cuore delle istituzioni. I tre livelli non sono tenuti insieme da condotte convergenti su uno stesso piano criminoso, ma da quello che potremmo definire un contagio fatto di relazioni, accostamenti, congetture. I reati sono tanti e diversi, ciò che li unifica è un paradigma classico nelle inchieste della magistratura reggina o catanzarese: l’idea che la politica sia il motore dell’intero sistema criminale. Ma la stranezza maggiore è l’esiguo numero di intercettazioni allegate dal pubblico ministero Giulia Pantano e presenti nell’ordinanza del gip rispetto a quelle eseguite in tre anni di ascolti massivi e costanti su un’intera comunità di sospettati. Giuseppe Milicia ha imparato negli anni a cercare l’ago nel pagliaio. È questa l’abilità che distingue, da queste parti, un avvocato. Sono processi di polizia, fatti di sole intercettazioni, e informative che le selezionano e le assemblano, le decodificano e le offrono sul piatto al pubblico ministero. Che a sua volta le ricompone in un racconto coerente con la tesi accusatoria. La salvezza dell’imputato non sta mai nel poco che il pm salva, ma nel molto che lascia fuori. Nel pagliaio, appunto. Ma nel pagliaio ci vuole tempo e pazienza, perché non è che un ago venga fuori per caso, e il primo giorno. E perché nei processi di mafia la precipitazione è un errore capitale. Il giudizio abbreviato è una roulette russa, in una percentuale altissima di casi il giudice conferma la tesi della procura. Nel dibattimento di un giudizio ordinario, la percentuale invece si capovolge. Eppure sono tanti gli imputati a scegliere l’abbreviato. Quando sei sotto inchiesta, il fiato ti si accorcia. E se sei agli arresti, ti manca del tutto. Magari il tribunale ha rigettato il tuo ricorso, magari la Cassazione ha confermato il rigetto, allora s’impossessa di te l’angoscia che la decisione della tua misura cautelare possa diventare una condanna nel merito. E scatta la rassegnazione. L’idea dell’innocenza, a cui sei aggrappato come a una liana, si spezza. E inizi a pensare che, tutto sommato, ti convenga limitare il danno. L’abbreviato assicura uno sconto di un terzo, e con la pena che incombe, può valere molto. Una condanna per mafia vuol dire almeno sedici anni, cinque anni e passa di meno non sono una cosa che tu possa trascurare. È in questi casi che si vede il coraggio dell’avvocato. Quando si tratta di dire al cliente che, se davvero si sente estraneo alle accuse, non può e non deve farsi assimilare al mafioso. Che le amicizie d’infanzia non sono una colpa. Meno che mai le relazioni casuali. E che si tratta di avere fiducia. Perché molte volte ciò che luccica in sede cautelare non è prova in dibattimento. Soprattutto quando a luccicare è un’intercettazione, che non hai ascoltato, di un colloquio che non ricordi. E che potrebbe essere andato in un modo molto diverso da come lo vedi trascritto dalla polizia giudiziaria. Giuseppe Milicia va a caccia di ciò che il pubblico ministero scarta da quando, giovane praticante, seguiva con sacro riguardo l’avvocato Armando Veneto, una bandiera dell’avvocatura calabrese, macchiata a ottantasei anni da una condanna per corruzione che suona come un’onta. Con il vecchio codice poteva accaderti di trovare, tra gli atti scartati, una ricostruzione del fatto, un verbale di sopralluogo, una testimonianza nei quali individuare una contraddizione che scardinasse le ragioni dell’accusa. Ma è con il nuovo codice che lo scouting è diventato l’essenza stessa dell’attività di difesa, rispetto a un pm che, per tutte le indagini preliminari, riunisce, separa, secreta a suo piacimento. Certo, un dovere lo conserva il pm. Se ha ottenuto gli arresti per uno degli indagati, deve allegare nella richiesta che fa al gip tutte le prove, cioè le intercettazioni che giustificano la misura cautelare. Quando poi chiuderà le indagini preliminari, dovrà depositare tutte quelle che ha raccolto in un archivio da lui stesso custodito, consentendone l’ascolto agli avvocati. Non si tratta di pochi colloqui, ma di tre anni di conversazioni compiute con gli smartphone, su cui è stato inoculato il Troyan. Bisogna immaginare che cosa siano tre anni di ascolti per tredici ore al giorno di decine di persone, per comprendere quale immensa mole di dati sia nelle mani della procura. In questo gigantesco pagliaio, dove chiunque si perderebbe, Giuseppe Milicia saprebbe come cercare l’ago che può cambiare il verso di un’indagine. C’è un metodo in questa caccia. Si parte dalle intercettazioni che riguardano il tuo indagato e le persone che lui abitualmente frequenta. Di costoro non hai che brandelli di discorsi captati, riportati come prove nella richiesta di rinvio a giudizio del pm e nell’ordinanza del gip. Di ciascuno di questi frammenti, ti manca un prima e un dopo, che possono contestualizzare un discorso, o dare a una frase un senso completamente diverso da quello indicato dall’accusa. Hai una parte, ti serve il tutto in cui quella parte è inserita. Perché il Troyan è uno strumento potentissimo ma, in un certo senso, stupido. Genera i suoi file con un meccanismo che spezza ogni cinque minuti la registrazione e archivia il frame nella memoria del telefonino, per poi inviarlo all’orecchio di chi ascolta. In gergo ogni nuova archiviazione di materiale si chiama “progressivo”. Vuol dire che, per ricostruire una conversazione di mezz’ora, hai bisogno di sei progressivi di cinque minuti ciascuno. Se nell’ordinanza è riportato il progressivo che va dal minuto cinque al minuto dieci, tu vai a cercare quelli che vanno dal minuto zero al minuto quattro e dal minuto undici al minuto trenta. Tanto più se il tuo cliente ti dice che le cose non stanno come le racconta il pm, che le frasi che sembrano accusarlo vanno inserite in un discorso più ampio, in cui hanno un senso diverso, allora hai il dovere di ricostruire quel tutto che l’indagine ha spezzato. Ma qui accade l’imprevisto che trasformerà il processo in una battaglia all’arma bianca. Perché, con una mossa imprevista, il pm forma un fascicolo parallelo, nel quale riversa tutte le intercettazioni diverse da quelle impiegate. Così è, se vi pare. Ma anche se non vi pare. Perché così ha deciso l’accusa. Le intercettazioni consultabili sono solo quelle allegate alla richiesta di rinvio a giudizio. Tutto il resto è top secret. Perché contiene altre notizie di reato e va approfondito in un’altra indagine. D’accordo, ma perché in questo fascicolò riservato e sottratto alla difesa ci sono anche i cosiddetti progressivi ritenuti irrilevanti? Per meglio dire, c’è una cena intercettata che è considerata prova di partecipazione mafiosa, e di cui si conosce solo una piccola parte, mentre il prima e il dopo sono scomparsi. Ma il prima e il dopo possono dare alla parte che si conosce un senso completamente diverso da quello attribuito dal pm. Possono dimostrare che si sta scambiando una cena tra amici per una cena tra mafiosi, e che il cosiddetto valore probatorio o indiziante di quelle frasi captate può svalutarsi, se solo è possibile contestualizzarle. La risposta del pm è perentoria: quello che hai visto basta e avanza, il resto deve finire in un altro fascicolo. E voi credete che valga la pena contestare questo diniego di fronte al gip? Che valga la pena eccepire che le frasi mancanti sono certamente pertinenti ai fatti contestati? Che lo stralcio abusivo da parte del pm viola quella parità d’armi che dovrebbe riconoscere alla difesa le stesse opportunità di conoscenza dell’accusa, poiché una conoscenza ridotta coincide con una condizione di inferiorità oggettiva? Il gip ti farà notare che il pubblico ministero è il proprietario assoluto e indiscusso delle indagini preliminari. E tu dovrai arrenderti. Perché rischi di fare una battaglia di principio che ti vedrà sempre perdente. Come puoi dimostrare la rilevanza e la pertinenza di ciò che non hai mai visto, perché ti è stato nascosto, e che tuttavia supponi possa esistere? D’altra parte si fa fatica ad accettare che un’indagine lunga tre anni, che raccoglie una montagna di intercettazioni, ne metta a disposizione della difesa lo zero virgola, perché tutto il resto è invisibile. Giuseppe Milicia scorre incredulo il sommario delle attività di ascolto della procura: il dieci ottobre del 2019 l’intercettazione è durata 21 ore e 21 minuti. Ma ascoltabili sono solo 10 minuti di registrazione. Stessa sorte nei giorni successivi: cinque minuti, poi trenta, venticinque, poi di nuovo cinque, e ancora altri dieci. A fronte di giornate intere di colloqui captati. La parte concessa all’avvocato è meno dell’un per cento dell’intera mole di conversazioni acquisite. Mi vuoi dire dove hai messo il restante novantanove per cento? Giuseppe Milicia sa bene che, nella cassetta degli attrezzi di qualunque avvocato penalista, ci sono principi che coincidono con regole di sopravvivenza. Una di queste recita così: quando ti tolgono l’ossigeno, tu cerca di respirare da qualunque spiraglio attraverso cui ancora passi un residuo d’aria. Quello spiraglio sono le prime informative di polizia, impiegate dal pm per giustificare la proroga delle intercettazioni. Che per legge devono essere autorizzate dal gip ogni venti giorni. Per ciascuna proroga c’è un faldone di conversazioni registrate nelle tre settimane precedenti. Ma soprattutto c’è una prima selezione di rilevanza che la polizia giudiziaria ha fatto, ascoltando quei dialoghi captati. L’avvocato Milicia ne chiede copia al pm. In fondo si tratta di materiali che, pur non essendo nell’ordinanza, hanno concorso indirettamente a formare l’atto d’accusa. Risposta: non possiamo darteli, puoi venirli ad ascoltare e chiederne la trascrizione dei soli che ritieni rilevanti. È una cautela imposta dalla riforma del guardasigilli Orlando nel 2017, per impedire che intercettazioni non pertinenti all’indagine finiscano sui giornali. Il retropensiero di questo divieto è che a darle ai giornalisti siano gli avvocati, e quindi si rende la loro acquisizione una caccia al tesoro o, come già detto, la caccia all’ago nel pagliaio. Perché per ascoltare tre anni di intercettazioni dovresti disporre dello stesso numero di brigadieri e marescialli con cui la polizia giudiziaria le ha trascritte. E se pure li avessi, dovresti scaricarne il costo sul tuo cliente. Con l’effetto che solo gli imputati più benestanti potranno pagare una controverifica tanto onerosa. Chiunque sia andato in una sala d’ascolto di procura ha pensato almeno una volta che l’organizzazione del servizio sia fatta apposta per impedirti di lavorare. L’attività di intercettazioni è divisa per sessioni, a ogni sessione corrisponde una giornata di ascolti, frazionata in una quantità spesso gigantesca di registrazioni di cinque minuti ciascuna. Delle quali tu potrai ascoltare solo quelle che il pm ti concede, pilotandoti verso un percorso obbligato nella memoria dell’archivio digitale. La mattina in cui accade l’imponderabile, Emma Di Maio, praticante nello studio Milicia, è da circa tre ore a combattere con il terminale della procura, nel tentativo di scorgere qualcosa di nuovo e di utile tra le poche intercettazioni allegate alle tante richieste di proroga del Troyan, avanzate dal pm al gip in tre anni di indagine. È quasi convinta che stavolta la sua caccia sia inutile, poiché l’intera mole di ascolti è stata frazionata e ritagliata a misura dell’ipotesi di accusa. Ci sono pezzi di conversazioni espunti da colloqui più lunghi, le cui parti mancanti però non si trovano tra quei pochi atti rimasti disponibili, anzi - come si dice in gergo - ostensibili. Tutto quello che potrebbe aiutare la difesa sta nel fascicolo segreto e invisibile alle parti. Non sarà facile spiegarlo all’avvocato, ma pure in un modo o nell’altro bisognerà farlo. Talvolta il fatalismo, con cui ti abbandoni all’evidenza della realtà, ti porta vicino alla verità delle cose più di quanto riesca una caccia pertinace. Emma clicca di qua e di là senza più convinzione, per quella pura curiosità inerziale che, dopo ore davanti al pc, somiglia a una sorta di dipendenza tecnologica. Ed è a questo punto che le sembra di scorgere sul video un’icona sconosciuta. Dopo averla selezionata le si apre davanti, come in un prodigio, il mondo fino a ieri solo intuito: l’archivio di tutte le trascrizioni secretate, con i brogliacci della polizia giudiziaria, la sintesi dei contenuti e una valutazione di rilevanza per ciascuno dei progressivi trascritti. È la memoria off limits di tre anni di ascolti. Un baco del programma di archiviazione digitale l’ha portata nella cassaforte dell’inchiesta. È una svolta. Perché dal sommario, annotato dalla polizia giudiziaria su ciascuno dei brani trascritti, si evince chiaramente che si tratta di conversazioni pertinenti all’indagine e, in molti casi, considerate rilevanti. Per quale motivo, allora, sono state escluse dal pm? È la domanda che l’avvocato Milicia rivolge al gip in una catena di eccezioni, allegando alcune fotografie dei brogliacci rinvenuti, eseguite di soppiatto con lo smartphone dalla sua giovane praticante. Non è vero che le intercettazioni secretate riguardino fatti e persone diverse dagli imputati. Non è vero che siano irrilevanti nell’inchiesta in corso. Il pm ha occultato alla difesa una quantità di intercettazioni che consentono di contestualizzare quelle da lui allegate, dando per esempio a quella cena, considerata un vertice di mafia, una connotazione opposta. Era un incontro conviviale tra amici. Adesso il gip non potrà più chiudere gli occhi. Perché sì, il pm sarà pure il padrone delle indagini preliminari, ma non al punto da far sparire i brani che la polizia giudiziaria valuta rilevanti. L’avvocato Milicia lo mette per iscritto e lo ripete in udienza: badate bene, così si attenta alla regolarità del processo, si violano i diritti di difesa e si produce una nullità di tutti gli atti dell’indagine. Perché questo contesterà lui in giudizio, se non gli sarà messo a disposizione l’intero materiale occultato. Ma talvolta le decisioni del gip hanno un’algida indifferenza alla logica che li fa atti di pura certificazione burocratica. Il pm, scrive il magistrato, rigettando per l’ennesima volta le eccezioni dell’avvocato, ha un potere insindacabile di separazione dei fascicoli. E chiude la partita, assegnando il primo round all’accusa.Milicia non è uno che demorde. Almeno adesso ha la certezza che fuori dall’indagine esistono montagne di intercettazioni che sarebbero manna per qualunque difesa. La sua praticante le ha viste tutte, ne ha fotografate alcune. Se la polizia giudiziaria le ha giudicate rilevanti, e il pm le ha escluse dall’indagine, è legittimo sospettare che saranno utili a provare l’innocenza dell’imputato. E qui, mentre inizia il giudizio di primo grado, l’imputato entra in scena. Antonino Creazzo è il perno dell’inchiesta. Secondo la procura ha chiesto alle cosche voti per la campagna elettorale del fratello, in cambio ha aggiustato il processo di un boss. Ha scelto l’avvocato Giuseppe Milicia dopo averlo visto duellare con il pm per un altro cliente. Dagli arresti domiciliari, in cui si trova ormai da mesi, fa istanza al giudice per consultare personalmente le intercettazioni che lo riguardano. È un suo diritto. Il giudice glielo riconoscerà, consentendogli di lasciare il domicilio coatto per recarsi nella sala d’ascolto della procura. E ogni mattina, con una puntualità di chi non ha altre priorità che quelle di difendere la sua libertà e la sua reputazione, si presenta al tribunale di Reggio e vi resta per ore nell’ascolto di audio che raccontano i suoi ultimi tre anni di vita. Antonino Creazzo è stato lasciato dalla moglie la mattina stessa che l’hanno prelevato per notificargli in commissariato l’ordine di cattura. Quando lui è uscito con i poliziotti, Ivana Fava è andata dal suocero e gli ha detto: “Io non vedrò più tuo figlio, non posso stare con un mafioso”. In pochi minuti un quadro familiare e sociale fatto di intimità, responsabilità genitoriali, amicizie lunghe una vita è venuto giù come un’architettura di carta terremotata da uno tsunami giudiziario. Un blitz di polizia ha ridefinito un paesaggio umano, tracciando un muro altissimo per separare nettamente ciò che fino a ieri si teneva insieme in un puzzle di mille sfumature di grigio. Improvvisamente tutto si racconta in bianco e nero. Antimafia o mafia, non ci sono distinzioni, emozioni, legami che possano resistere alla forza d’urto di un’inchiesta simile. Il tenente dei carabinieri Ivana Fava consegnerà la sua versione a un’intervista sul Corriere della Sera, a partire dalla foto che la ritrae sorridente con il marito e i coniugi Alvaro. “Quella cena - racconta - me la sono trovata organizzata, ed è stata motivo di discussione con mio marito. Tante volte mi sono arrabbiata con lui per certe sue frequentazioni, se ci sono le intercettazioni in casa, sentiranno anche le mie urla”. Domenico Alvaro è stato scarcerato due anni prima, dopo una condanna a sette anni per associazione mafiosa. È in libertà vigilata e il suo amico d’infanzia, Antonino Creazzo, si è dato da fare per dargli una mano a trovare un lavoro, magari lontano da Sant’Eufemia dove tutto è iniziato e dove niente sembra voler finire. Nel prima, che il terremoto giudiziario ha cancellato, l’interessamento di un consulente del lavoro per il recupero di un detenuto di mafia è ancora una pratica della democrazia. La loro antica amicizia è un valore di comunità. Le discussioni sulle elezioni che stanno per arrivare e la richiesta di un sostegno per il fratello candidato alla Regione sono una forma di passione civile, ancorché declinata nella forma familiare che la politica assume da queste parti. Quel sostegno Creazzo l’ha chiesto ad Alvaro, e Alvaro lo ha rifiutato, consapevole che anche l’aiuto più innocente si presta, per un recidivo, a una lettura criminogena. “Lascia stare, Nino - gli dice -, se ti aiuto, danno otto anni a te e dodici a me”. Nel prima, questa rete di relazioni vischiose sta ancora in piedi al confine della legalità, in una frontiera dove ogni favore e ogni conflitto si prestano a una doppia lettura. Come la richiesta di Creazzo all’amico perché intervenga per far cessare l’usura nei confronti di un imprenditore sul lastrico. Un obiettivo per cui basta la parola di una famiglia che conta, come quella degli Alvaro. Eppure allo stesso modo la prova di riconoscere un’autorità diversa e opposta a quella dello Stato. Nel prima, questi sconfinamenti oltre la linea che divide il lecito dall’illecito sono adattamenti di un sistema sociale che cambia a scossoni e più lentamente di quanto dovrebbe. Nel dopo, tutte le sfumature di grigio cadono. Nel dopo, il lavoro legale è un paravento, l’amicizia una oscura complicità, perfino la famiglia è un intreccio malsano da spezzare. Tutti i vecchi istituti della quotidianità assumono di colpo una veste sinistra. L’effetto di un’inchiesta di mafia così dirompente è un deserto di legami. Nel quale Ivana Fava s’inoltra per paura e per rabbia. Lei, la figlia di una vittima di mafia, lei che indossa la divisa della legalità, trascinata nel fango che insozza, insieme con il suo presente, la memoria del suo dolore. La decisione di azzerare su due piedi la sua famiglia forse le è stata suggerita, forse l’ha assunta in un impeto di sdegno, forse l’è sembrato l’unico modo per salvarsi. Ma uno strappo così netto non le eviterà più tardi un avviso di garanzia per omessa denuncia. Era al corrente dei rapporti opachi del marito e aveva il dovere, in quanto pubblico ufficiale, di denunciarli. Il mattino che l’avvocato Milicia la vede comparire in aula, tra i testimoni dell’accusa, comprende che il limite oltre il quale un processo penale può diventare una guerra sta per essere varcato. E alza una trincea difensiva con tutti i mezzi che ha. “Ivana Fava non può deporre senza un avvocato - intima l’avvocato al pm -, se sono criminali le condotte del marito, la posizione della moglie è di piena condivisione”. Così l’accusa ritirerà la testimone. Antonino Creazzo è già un uomo che ha perso quasi tutto ciò che aveva. Gli resta quello spicchio di libertà che gli arresti domiciliari offrono a un imputato in attesa di giudizio. Quello spicchio vale una strenua difesa. Così la sua frequentazione nella sala d’ascolto della procura diventa tanto costante e vitale per lui, quanto ingombrante per il personale di procura. Accade che un giorno un cancelliere gli dia un suggerimento che si rivelerà la chiave per ribaltare le sorti del processo: “Se fa una domanda al giudice del duplicato delle registrazioni - gli dice - gliele consegniamo tutte e può ascoltarle a casa”. Creazzo non se lo fa ripetere due volte. Quando lo racconta all’avvocato Milicia, questi resta di sasso. È una cosa inaudita, pensa. È dall’inizio del processo che lui chiede di poter avere le intercettazioni, e ha collezionato un pacco di rifiuti dal pm e dal gip. Ha insistito per avere quantomeno la copia dei brogliacci, con il sommario sintetico della polizia giudiziaria, per selezionare le parti che sembrano più interessanti. Niente da fare. E adesso un cancelliere le offre in dono all’imputato solo per toglierselo dai piedi. Sta per accadere ciò che nessun avvocato, per tignoso e fortunato che fosse, avrebbe potuto prevedere. Creazzo presenta la sua brava istanza, due righe, poche e semplici parole, come gli ha suggerito il cancelliere. E dopo alcuni giorni si vede consegnare una scatola piena di DVD. Troppo grande e troppo piena per essere solo la memoria delle sue conversazioni ammesse dal pm. Hanno sbagliato ancora una volta, ma stavolta il baco non sta nell’archivio digitale, sta negli uffici della procura. Perché in quei supporti elettronici c’è tutto, davvero tutto il materiale secretato, con i brogliacci sintetici per orientarsi e scegliere ciò che serve alla difesa. Un autogol così Milicia non poteva aspettarselo. Tra le tante conversazioni escluse dal pm ci sono i momenti cruciali dell’inchiesta e la possibilità di ricostruirla in modo opposto rispetto a quanto ha fatto il pm. Perché le cose non stanno come lui sostiene. Tutto ruota attorno alla figura di un personaggio a dir poco eccentrico. Si chiama Domenico Laurendi e nella vita ha fatto molte cose. È imprenditore, anzitutto. Con la ricostruzione post terremoto dell’Umbria e dell’Aquila si è riempito le tasche di quattrini. È stato un politico locale, nei primi anni Duemila con i partitini del centrodestra. Ed è, secondo la procura, uno ‘ndranghetista, appassionato di riti iniziatici di affiliazione, per conto della famiglia Alvaro di Sant’Eufemia d’Aspromonte. L’ha scampata in un procedente processo, in cui il pm aveva chiesto per lui la condanna a vent’anni di reclusione. Ma ha una paura dannata di perdere in appello e finire in carcere. Perciò si agita. Cerca contatti con chi possa “raggiungere” i magistrati che devono giudicarlo, e “aggiustare” la sentenza. La prova che, secondo la procura, inchioda Antonino Creazzo sta in tre colloqui privati di Laurendi tra il 2 e il 3 aprile del 2017. Il primo con un compare, Natale Lupoi, a cui l’imprenditore confida le sue paure di essere incastrato. Se non stiamo attenti, dice, qui “ci solettano” (“ci fanno le scarpe”). Ma aggiunge subito dopo di avere un amico che si è offerto di aiutarlo, e che dovrà incontrare nel pomeriggio dello stesso giorno. “Lui” può arrivare, secondo Laurendi, alla corte d’appello e scongiurare la condanna. “Lui”, secondo la procura, è Antonino Creazzo, fratello del consigliere regionale Domenico, per cui fa in quei mesi campagna elettorale, amico dell’imprenditore agricolo Domenico Alvaro, figura di riferimento del clan, a cui Laurendi appartiene. La prova di questo collegamento sta in un colloquio tra Laurendi e Creazzo, registrato il giorno dopo nello studio del consulente del lavoro. L’imprenditore chiede a Creazzo se può metterlo in contatto con un cancelliere della corte d’appello, che è lo zio di un praticante del suo studio. Creazzo tergiversa, gli racconta una bufala: guarda che questo ha avuto problemi, gli dice, e poi sta per essere trasferito dalla corte d’appello, non potrà aiutarti. Laurendi insiste, professa la sua innocenza ma anche la sua paura di essere condannato e finire in carcere. Creazzo prende tempo, s’impegna a metterlo in contatto con un suo avvocato, da una parte sembra voler corrispondere alla sua richiesta di interessamento, dall’altra vuole tirarsi da parte. Assume l’atteggiamento di chi non vuole scontentare il suo interlocutore, ma non vuole nella sostanza fare nulla per lui. È un difficile, e forse spericolato, equilibrismo da parte di un libero professionista che vive di relazioni pubbliche, in un contesto inquinato dalla pressione della criminalità organizzata. Ma questa sorta di neutralità non basta ad Antonino Creazzo per sottrarsi all’accusa di essere un colluso. Perché pm e polizia giudiziaria collegano il suo tergiversare e la sua finta accondiscendenza con la confidenza che Laurendi ha fatto il giorno prima al suo compare, quando ha detto di dover incontrare uno che lo avrebbe aiutato ad aggiustare i processi. Quel qualcuno, dice la pm in dibattimento, è certamente Creazzo. E che la mediazione del consulente del lavoro sia andata a buon fine lo testimonia, secondo l’accusa, un’altra intercettazione. Tre settimane più tardi Laurendi incontra a Messina un sorvegliato speciale appartenente allo stesso clan, Cosimo Alvaro, e gli riferisce che il suo tentativo di addomesticare la corte sarebbe stato raggiunto nei confronti di almeno uno dei giudici. “Unu lu rrivai” - “Uno lo raggiunsi” -, dice all’amico. Le tre conversazioni di Laurendi sono per la procura la prova regina che inchioda Antonino Creazzo e il fratello, per il quale il consulente del lavoro sta facendo campagna elettorale, chiedendo voti tra l’altro al suo amico d’infanzia Domenico Alvaro, per la procura uno degli esponenti maggiori del clan. Una spregiudicatezza che sta per costargli cara. Ma c’è qualcosa che non torna in questa ricostruzione. Perché nessuna nelle parole di Creazzo a Laurendi autorizza da sola a ritenere che il consulente abbia promesso di attivarsi per aggiustare i processi. Si può discutere, su un piano morale, se un procacciatore di voti non debba prendere le distanze da chi gli annuncia un proposito illecito, invece di preoccuparsi di accondiscendere. Ma nessuna promessa che configuri un patto politico mafioso può desumersi dalle sue parole. La procura ha fatto un sillogismo collegando il senso delle tre intercettazioni. Laurendi ha detto a un amico: incontrerò uno che mi aiuterà ad aggiustare i processi. L’incontro, se pure generico, è avvenuto. E tre settimane dopo Laurendi stesso ha confermato che un giudice è stato agganciato. Due + due + due fa sei. Ma gli anni di carcere chiesti per Antonino Creazzo saranno tre volte tanti: diciotto. Sedici ne merita invece, secondo la procura, il fratello politico, arrestato un mese dopo essere stato eletto in consiglio regionale. Quanto agli uomini del clan, i magistrati andranno ancora più duro: venti anni per Laurendi e, addirittura, trenta per Alvaro, in quanto recidivo. Talvolta un dettaglio può scardinare un intero castello di accuse. Il dettaglio l’avvocato Milicia lo individua nelle parole di Laurendi al compare, quando dice: oggi incontrerò uno che mi aiuterà. L’incontro con Creazzo è avvenuto, ma solo il giorno successivo. E se Laurendi non avesse parlato di lui, ma piuttosto di altri? L’intercettazione del colloquio viene affidata a un perito di parte e dalla nuova trascrizione emerge una parola, parzialmente coperta dal rumore di fondo, che il presunto boss pero ha pronunciato: incontrerò “u dottore”, ha detto. “U dottore” da queste parti è anzitutto il medico. E di medici Laurendi ne ha incontrati due. Uno il giorno prima del colloquio. E l’altro proprio nel pomeriggio indicato per l’appuntamento con il misterioso faccendiere che si sarebbe offerto di aiutarlo. Basta spulciare con pazienza nell’enorme pagliaio delle intercettazioni, secretate dal pm, e per errore di un cancelliere consegnate all’imputato, e il colloquio decisivo spunta. Laurendi lo ha tenuto con Giuseppe Antonio Galletta, già coinvolto in un filone di indagini per scambio politico mafioso con il senatore di Forza Italia Marco Siclari. A Galletta parla del suo caso, chiede aiuto, ricevendo dal medico assicurazioni per un interessamento personale. Non si tratta, stavolta, si rassicurazioni generiche. Si fanno i nomi dei magistrati che hanno nelle mani la sorte dell’imprenditore boss e Galletta si offre a fare da intermediario. Di più, quando Laurendi torna a casa, racconta del colloquio alla sua compagna e l’orecchio del Troyan registra ogni dettaglio delle due conversazioni. Dunque, è Galletta l’uomo misterioso. Ma perché le due intercettazioni restano nell’archivio segreto e invece la procura esibisce solo quella del giorno dopo tra Laurendi e Creazzo, accreditando l’ipotesi che sia il consulente colui che consentirà di raggiungere i giudici? Perché l’inchiesta dribbla il medico faccendiere e punta dritta contro Creazzo e il fratello politico? Sono domande inquietanti, a cui si aggiunge una scoperta clamorosa. Nel pomeriggio dello stesso giorno Laurendi ha incontrato anche Creazzo, che poi rivedrà il giorno dopo nello studio. Ma nel primo colloquio intercettato di tutto si parla, tranne che del caso giudiziario da aggiustare. È un’ulteriore conferma che il mediatore tra il boss e i giudici sia Galletta e non Creazzo. Ma la pm dimostra di aver ignorato il valore di questa prova, anzi di averla secretata in un fascicolo impermeabile alle parti, che solo per caso si è reso conoscibile. Eppure nei brogliacci della polizia giudiziaria, di cui l’avvocato Milicia ormai dispone, quelle conversazioni sono indicate come rilevanti. La denuncia dell’avvocato in aula è un tuono che fa vibrare come un diapason le corde del processo. L’intera inchiesta poggia su un falso, dice Giuseppe Milicia. Se Antonino Creazzo non è l’uomo avvicinato da Laurendi per aggiustare i processi, l’intercettazione dei suoi colloqui per due anni con il Troyan è stata autorizzata indebitamente. Di più, l’occultamento delle prove che scagionano Creazzo è doppiamente grave. Perché erano pertinenti all’indagine e di grande rilevanza. E perché sono state nascoste all’imputato, violando irreparabilmente il suo diritto di difendersi. Solo un errore del cancelliere ha smascherato l’inganno. Ma l’affondo dell’avvocato non si ferma qui. Perché Milicia ormai sa che questo processo somiglia a una partita di calcio giocata in nove contro undici. La parità d’armi tra accusa e difesa è solo uno slogan, e insieme un insulto alla Costituzione. Giocare all’attacco diventa l’unico modo per non soccombere alla forza di un potere inquirente, e anche giudicante per tutte le indagini preliminari, che ha messo sul tavolo solo le carte che gli conveniva scoprire. In quelle conversazioni secretate, denuncia l’avvocato, ci sono notizie di reato, e nomi di persone chiamate in correità che l’indagine ha ignorato, congelandole in un fascicolo riservato, mentre s’indirizzava verso innocenti assunti a bersaglio. La disperata caccia di Laurendi per condizionare una corte d’appello ha coinvolto molti soggetti che si sono prestati ad aiutarlo, forse lo hanno fatto e forse no, forse gli hanno spillato denaro e altri favori. Ma nessuno di costoro è indagato. Perché l’obiettivo dell’indagine erano i Creazzo. E solo loro. Sono parole che incendiano l’aula, trasformando un braccio di ferro in una guerra senza risparmio di colpi. Quando il conflitto nel processo si arroventa a questo punto, si ha la sensazione che la stessa sorte degli imputati rischi di passare in secondo piano. C’è un avvocato che ha sfidato la procura, ha messo in discussione la sua indipendenza e il rispetto delle regole. E la procura scende in campo con tutto il suo carico politico per difendere l’istituzione offesa. Non sarà Giulia Pantano a condurre la requisitoria finale, ma Stefano Musolino, procuratore aggiunto e potente segretario nazionale di Magistratura democratica, la storica corrente di sinistra delle toghe. Il suo atto d’accusa rilancia: “Signori io vi sfido” - dice rivolgendosi agli imputati e ai loro legali -, se pensate che “questo ufficio di procura chissà che cosa ha fatto”, “vi sfido non solo sul piano processuale, ma vi sfido a denunciare condotte disciplinariamente rilevanti, perché questo ufficio sconti non ne vuole. Non siamo un potere dello Stato che intende autoassolversi, se qualcuno ha sbagliato non abbiamo difficoltà a dire che si assumerà le responsabilità, però non si può arrivare alla conclusione di questo processo con dubbi sul modo in cui l’ufficio lo ha gestito… Non accettiamo forme di ricatto”. Al di là del braccio di ferro psicologico che questo scambio di battute scatena, la procura difende il primato di poteri che ha nel processo: la secretazione delle intercettazioni, sostiene Musolino, è giustificata dal fatto che s’indaga per altri reati, cioè sull’ipotesi di corruzione in atti giudiziari nei confronti dei giudici di Reggio. Una spiegazione che Milicia non può accettare. Perché se quelle registrazioni contenevano notizie di reato a carico di magistrati, dovevano essere immediatamente inviate alla procura di Catanzaro, per competenza. E invece lì sono arrivate solo dopo che l’avvocato ha denunciato il caso in aula. “È accaduta una cosa inaudita - ribatte Giuseppe Milicia - del gigantesco materiale raccolto per anni con il Troyan è stata messa a disposizione degli indagati solo una parte infinitesimale. E adesso, con afflato paterno, il pubblico ministero ci dice di tranquillizzarci, poiché lui non ha fatto nient’altro che scartare il superfluo. La realtà è completamente diversa. La realtà è un percorso di menzogne, menzogne dette nel processo, ci mancherebbe, ma nel momento in cui ci si erge a paladini dell’etica e della morale, allora chiamiamo le cose con il loro nome. Il pubblico ministero ha perso completamente il controllo dell’attività di intercettazione nella sua fase esecutiva, perché altrimenti mai sarebbero accadute le cose abominevoli che in quest’aula ho denunciato”. Ma l’avvocato non si contenta di contestare le ragioni dell’occultamento delle prove. Rispedisce al mittente la sfida a denunciare la procura, rivoltagli da Musolino: “Ma signor Pubblico Ministero - dice con beffarda ironia - dove era lei, dov’era il suo ufficio quando la difesa denunciava fatti, circostanze, nomi? Noi non facciamo gli esposti, noi non facciamo l’anticamera nelle Procure della Repubblica, noi il processo lo facciamo qui. Ma viva Dio, voi avete doveri di questo genere, appartenendo all’ordine giudiziario. La Procura della Repubblica dice a un difensore che non accetterà ricatti? Siete voi istituzionalmente titolari del potere di ricatto”. Il finale di questo romanzo noir della giustizia italiana delude le attese della procura. Il detto di Bertolt Brecht - c’è un giudice a Berlino - vale anche per Reggio Calabria. Perché il collegio del tribunale ha capito fino in fondo che cosa è accaduto e ha scelto di stare rigorosamente ai fatti e ai codici. Condannando i mafiosi di un’indagine di mafia, e assolvendo il contesto, grigio quanto si vuole ma non compromesso, che l’indagine voleva tirare dentro. Perché la morale è la morale. Ma il diritto è un’altra cosa. Assolto Antonino Creazzo, assolto il fratello politico, Domenico. Ma assolto anche Domenico Alvaro, l’amico di Creazzo con una condanna per mafia alle spalle. Il bilancio del processo è un parziale fallimento inquisitorio: su cinquanta imputati, trenta assolti e ventuno condannati, pari al 42 per cento, in linea con le performance della magistratura calabrese. La sentenza ha rimesso a fuoco il quadro sociale complesso, con tutte le sue sfumature di grigio, che l’indagine aveva ridotto a una rappresentazione binaria in bianco o in nero. E ha sconfessato l’idea, sottesa alla logica investigativa, di una mafiosità come contagio sociale, a cui l’azione penale oppone una terapia di sterilizzazione. Secondo quest’idea il contagiato, in quanto portatore del virus, è contagioso in tutte le attività che compie, da quelle propriamente criminali alle sue più innocue azioni e relazioni, come parlare con un amico d’infanzia, adempiere agli obblighi familiari, cercare un lavoro, meno che mai instaurare relazioni politiche. Accade così che nello stesso spazio vitale di un piccolo comune della Calabria convivano soggetti sani e altri portatori del virus, la cui patogenicità è certificata negli archivi di polizia. Gli uni e gli altri non possono e non devono mai entrare in relazione. Quando un contatto si realizza, e supera quella strettissima soglia di tolleranza ritenuta accettabile, interviene l’indagine penale a isolare i contagiati con una strategia che potremmo definire virologica. Il cui effetto collaterale è però quello di inquinare con il sospetto ogni relazione umana e produrre una turbativa civile che è, talvolta, pari al male che si propone di combattere. Anche perché una simile strategia è destinata ad aumentare, anziché ridurre, l’area del contagio. E soprattutto a fare terra bruciata attorno ai contagiati, impedendo loro qualunque tentativo di rientrare in società, e spingendoli verso un’irredimibilità che li condanna a delinquere e che trasmette il virus tra le generazioni. Così l’Antimafia di polizia celebra, più o meno inconsapevolmente, la sua alleanza con la mafia. Giuseppe Milicia però non è un sociologo, ma un avvocato. È abituato a stare ai fatti del processo. E si chiede ancora come si sia potuta mettere in piedi una verità investigativa fittizia, costruendola come un puzzle a cui si decide di togliere alcuni pezzi e di adattare quelli che restano a un disegno precostituito. La risposta che si dà, al netto della buona fede degli inquirenti, mai in discussione, è che la tecnica in questa inchiesta sia scappata di mano al governo della ragione. Il Troyan usato à gogo è un insulto a quel criterio di proporzione che i principi costituzionali prescrivono ai mezzi di indagine. Non solo per la quantità immane di intercettazioni che raccoglie, e che, oltre una certa soglia, rende vana ogni possibilità umana di ricostruzione e di analisi. Ma soprattutto perché, sezionando le relazioni sociali al loro livello più profondo, finisce per istruire un processo alle intenzioni e alle emozioni, difficile da ricondurre a fattispecie di reato. Soprattutto in assenza di riscontri fattuali che, in queste indagini di sole intercettazioni, mancano del tutto. Si realizza così, per via tecnocratica, un’anticipazione di tutela che porta il diritto penale lontano dalla cornice liberale di verifica di un fatto illecito. E lo sospinge in una funzione di analisi e controllo sociale, in cui il paradigma della colpevolezza, cioè dell’accertamento di un reato, cede a quello della pericolosità, che ha al centro l’indagato e che viene dedotta dagli indizi, dai precedenti, dalle congetture. Questo è il diritto di polizia, verso cui il grande fratello investigativo ha condotto la democrazia italiana. Quel diritto è uno strumento potentissimo nelle mani di una magistratura che lo indirizza verso il bersaglio di turno. Sbaglierebbe chi pensasse che un’indagine a senso unico, come quella condotta dalla procura di Reggio, sia stata consapevolmente guidata verso gli esponenti del nuovo centrodestra per motivi di stretta faziosità politica. In quanto potere politico supplente, la magistratura oggi è meno politicizzata di ieri, anche quando veste la casacca sindacale di una corrente storicamente di sinistra. La logica che governa le sue scelte è quella di contrastare chiunque eserciti, magari attraverso l’esercizio del voto, un controllo sociale disfunzionale rispetto a quello che la magistratura stessa si sente legittimata a esercitare in posizione sovraordinata rispetto alla politica. Non è più un conflitto ideologico a condizionare l’azione penale, ma un puro conflitto tra poteri. La politica, soprattutto quella che governa, è un bersaglio prescelto perché la prova della sua corruzione serve a legittimare la supremazia del potere magistratuale nel controllo sociale. A quest’obiettivo concorre quell’attività di umiliazione pubblica - in gergo anglosassone si definisce shaming - che si realizza attraverso la diffusione delle intercettazioni, le sole capaci di provare, al netto di qualunque responsabilità penale, la pusillanimità di chi amministra la cosa pubblica. A Sant’Eufemia di Aspromonte questo piano è fallito? L’avvocato Milicia vorrebbe potersi rispondere di sì. Ma sa che la sua sarebbe un’illusione. Sa che ha vinto una mera battaglia processuale, ma ha perduto una guerra civile. Poiché il risultato dell’indagine non sta nella sentenza, che assolve gli imputati dopo averli arrestati, delegittimati politicamente, etichettati con il marchio isolante del sospetto. Il risultato è nella stessa azione penale, e quel risultato è ampiamente raggiunto. E sa anche che la procura impugnerà le assoluzioni, non perché pensi di ribaltarle in appello, ma perché non sorga dubbio su chi abbia la titolarità del controllo sociale. Sa, ancora, che, nella logica corporativa che regola il sistema, un’indagine fallimentare come questa sarà una medaglietta da appuntare al petto e su cui costruire la carriera dei magistrati che l’hanno condotta. Per questo l’avvocato Giuseppe Milicia si è circondato di un gruppo di giovani praticanti, e guardando l’ottimismo e la passione con cui s’immergono nelle profondità del diritto s’è convinto che loro, certamente, saranno capaci di costruire un Paese diverso dal suo. Le discutibili indagini sotto l’occhio del tribunale del popolo di Claudio Cerasa Il Foglio, 15 gennaio 2024 Rosa, Olindo e gli altri. Ci sono casi in cui lo stato di diritto, per esigenze mediatiche, è andato a farsi benedire. Le colpe di un sistema giudiziario che a forza di utilizzare la tecnica dello “smarmella tutto” ha mostrato una incapacità di fare indagini sul campo. Fuggite dalla fuffa e concentratevi sulla ciccia. E la ciccia in fondo è tutta qui: le indagini, bellezza. Ci sono due modi diversi di leggere le notizie relative al caso Erba e alla possibile revisione del processo. L’approccio numero uno, molto progressista, porta a pensare che i magistrati abbiano sempre ragione e che dunque ogni rumore di fondo che arriva all’interno di un’indagine sia una distrazione dalla verità rivelata. L’approccio numero due, molto conservatore, porta invece a pensare che i magistrati abbiano sempre torto e che dunque anche l’inchiesta più solida alla fine meriti di essere messa in discussione solo per il gusto di poter dire che i magistrati hanno sempre torto. Sul caso Erba le due scuole di pensiero si sono nuovamente confrontate, senza smuoversi dalle proprie idee, ma c’è una terza via per districarsi intorno a questi due approcci ed è una via che ci sentiamo in dovere di riproporvi per non perdere di vista la ciccia. Il problema non è il garantismo o il giustizialismo. Il problema, nella storia di Erba, come in molte altre è uno e soltanto uno ed è il modo in cui in Italia vengono fatte le indagini quando le indagini diventano una notizia da prima serata. È a quel punto che scatta un meccanismo perverso. La storia di cronaca diventa centrale. Il popolo si appassiona, divora ogni dettaglio, vuole sapere tutto e lentamente da pubblico diventa prima attore e poi giudice. E quando un fatto di cronaca si ritrova a dover fare i conti con il voyeurismo del pubblico, con il tribunale del popolo, succede che gli inquirenti, coloro che hanno in mano le indagini, siano costretti a fare una scelta: chiudere le indagini il prima possibile, facendo in fretta, per sfamare il mostro del circo mediatico o tenere le indagini aperte il tempo necessario, senza fretta, senza sentirsi in dovere di dover sbattere qualcuno in galera solo per far tacere il tribunale del popolo. Quando il caso di cronaca diventa parte del dibattito pubblico la fretta prevale sulla ragione e le indagini spesso ne risentono. Stefano Nazzi, fantastico cantastorie di cronache giudiziarie del Post, lo ripete spesso: il punto non è come le indagini influenzano l’opinione pubblica, ma come l’opinione pubblica influenza le indagini. E quando si parla di Erba, e non solo di Erba, la ciccia è tutta qui. Leggete cosa dice il procuratore Cuno Tarfusser, deciso da anni a far riaprire il caso di Erba. Su Erba, parla di errate tecniche di intervista investigativa, “dense di numerosissime suggestioni su di lui attuate e la palese violazione di precise e note leggi scientifiche in materia di memoria e di riconoscimento di volti”. Parla di una storia “fortemente dubbia” che sarebbe “la prova della ‘macchia di sanguè (sangue della vittima Valeria Cherubini che sarebbe stata trovata sul battitacco dell’auto di Olindo Romano)” con confessioni “indotte, con modalità che definire poco ortodosse è fare esercizio di eufemismo”. Definisce le dichiarazioni autoaccusatorie di Romano e Bazzi “false confessioni acquiescenti”, in quanto la confessione dei due imputati venne ritrattata, definita “una vera e propria circonvenzione”, ottenuta “sotto pressione”. La richiesta piccona dunque i tre pilastri dell’accusa. Tarfusser pensa che Olindo e Rosa siano innocenti. Noi non ci spingiamo a tanto, avendo in fondo gli accusati confessato in diretta tv l’omicidio, ma ci spingiamo a dire altro: in Italia, le indagini vengono fatte così male, quando vi sono casi di cronaca che diventano improvvisamente mediatici, che anche processi che sembrano ovvi, lineari, senza sorprese possono offrire sorprese. E i casi di processi mediatici fatti con la tecnica dello smarmella tutto, famosa espressione utilizzata in “Boris” dal mitico Duccio Patanè (Ninni Bruschetta) per sfumare con un colpo di luce i difetti degli attori, sono ormai molti. Sono casi in cui lo stato di diritto, per esigenze mediatiche, è andato a farsi benedire. E sono casi in cui improvvisamente si scopre che a causa di indagini fatte con i piedi, anche le verità che appaiono scontate non lo sono. Si scopre così che, durante le indagini sull’omicidio di Meredith Kercher, compiuto a Perugia la sera del primo novembre del 2007, Amanda Knox venne interrogata per 54 ore in assenza di un avvocato (l’Italia per questa vicenda è stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani). Si scopre così che, durante il processo sull’omicidio del carabiniere Cerciello, i due studenti imputati non hanno subìto un giusto processo, perché, così ha deciso la Cassazione, non è detto che Cerciello e il collega Varriale si siano qualificati come appartenenti alle forze dell’ordine e i giudici, ha scritto la Cassazione, sono incorsi “in un deprecabile e manifestamente illogico automatismo”. Si scopre così, ancora, che nel processo Stasi, a Garlasco, un ex maresciallo avrebbe mentito di fronte al gup del tribunale per giustificare un suo errore investigativo, quando cioè scelse di non sequestrare la famosa e cruciale bicicletta nera custodita nell’officina del padre di Alberto Stasi. Si scopre così, sul caso Yara, che il famoso filmato del furgone bianco di Massimo Bossetti che passa e ripassa davanti alla palestra di Yara Gambirasio il giorno della sua scomparsa è in realtà stato trasmesso per mesi su web e tg senza che fosse reale, perché era un video confezionato ad hoc. Si scopre così, ancora, dopo trent’anni di indagini, che sul delitto di Simonetta Cesaroni non tutte le indagini sono state fatte bene, non tutte le piste sono state seguite, non tutte le persone scagionate possono essere considerate come tali. Nel migliore dei casi, per così dire, i processi vengono riaperti. Nel peggiore dei casi, invece, i processati alla fine risultano innocenti. E quando vi è di fronte a voi la possibilità che vi sia una revisione di un processo, più che chiedervi chi sia innocente e chi no chiedetevi se possa essere considerato innocente un sistema giudiziario che a forza di utilizzare la tecnica dello smarmella tutto ha mostrato un’incapacità diffusa nel fare indagini sul campo. Strage di Erba, i veleni in attesa del processo di Giusi Fasano Corriere della Sera, 15 gennaio 2024 A giudicare da un certo modo di raccontare questa storia, sembra quasi che i precedenti verdetti in primo, secondo e terzo grado siano già carta straccia. L’avevamo già detto una volta ma ora tocca ripeterlo: attenzione ai facili entusiasmi. Più in alto si salta per esultare, più grande rischia di essere il tonfo in caso di caduta. È un consiglio per gli innocentisti esaltati del caso Erba: prudenza. Gli ergastolani Olindo e Rosa hanno ottenuto la revisione del processo: buon per loro. Un punto a favore della difesa. Ma - promemoria per chi li vorrebbe già liberi - prima di vederli passeggiare per le vie di Como (come fecero la sera dell’11 dicembre 2006 mentre la casa della strage andava a fuoco) serve una cosuccia al momento non a portata di mano: una sentenza di assoluzione che regga fino all’ultimo grado di giudizio. Fabio Schembri, il loro avvocato, dice che a questo punto per la legge sono “presunti innocenti” perché ancora “sub iudice”. D’accordo. Presunti innocenti. Che però sono già stati condannati in tre gradi di giudizio per aver ammazzato un bimbo di due anni e tre donne, e per aver sgozzato un uomo sopravvissuto per via di una malformazione congenita alla carotide. O tutto questo non si può più dire? Perché, a giudicare da un certo modo di raccontare questa storiaccia nera, all’improvviso sembra quasi che i precedenti verdetti in primo, secondo e terzo grado siano già carta straccia. Brescia riapre il caso, va bene. Ma sapremo il 1° marzo in udienza che cosa i giudici riterranno opportuno discutere dei tantissimi punti citati nelle tre richieste di revisione. Tutte le “nuove” fonti di prova? La gran parte? Soltanto una? La stessa Corte d’Appello di Brescia - per dire - l’altro giorno ha rigettato l’istanza di revisione per il noto caso del professor Antinori, dopo aver riaperto il processo, sì, ma per sentire solo una delle testimonianze proposte dalla difesa. Tornando a Erba: il risultato evidente per Olindo e Rosa è che l’esercito degli innocentisti da tastiera cresce e serra i ranghi. Il solito Fragolino2000, che non ha nome ma idee chiare, dai social ci informa che sono sicuramente innocenti perché lui lo sa. Giornalisti che invece sanno davvero, perché conoscono il caso, sono arrivati a denunciare altri giornalisti al Consiglio disciplinare dell’Ordine accusandoli (fra l’altro) di “non considerare” il loro lavoro d’inchiesta. Ovviamente il Consiglio ha rigettato tutto. Ma il dettaglio serve a capire quanto questa storia sia avvelenata. A cominciare dalla narrazione. Lazio. Anastasia: “Carceri affollate, investire nel territorio” di Lucandrea Massaro romasette.it, 15 gennaio 2024 Il tasso di sovraffollamento medio in Italia è del 127%, nel Lazio del 138%. Il garante regionale: “La detenzione non può essere il surrogato dei servizi sociali”. Sul sito del Garante dei detenuti del Lazio si legge che alla fine del 2023 “il numero di detenuti presenti negli istituti penitenziari del Lazio è stato pari a 6.537, con un incremento di 604 unità rispetto ai 5.933 di inizio anno”. Vale a dire che il tasso di crescita è stato +9,4%. “In tutta Italia - prosegue il report - il numero di detenuti presenti alla data del 31 dicembre 2023 era pari a 60.166: sono cresciuti di 3.970 unità in un anno (+7,1%)”. Il tasso di sovraffollamento medio nelle carceri in Italia è del 127%, nel Lazio del 138%. Per ogni cento posti disponibili, ci sono 27 detenuti in più nelle carceri, 38 nel Lazio. Una condizione che si rivela di fatto un aggravio di pena, di cui abbiamo parlato con il Garante dei diritti dei detenuti per la Regione Lazio, Stefano Anastasìa, tra i fondatori dell’Associazione Antigone nel 1991 e docente di Filosofia del diritto presso l’Università telematica Unitelma-Sapienza. Per lui la questione è chiara: “Il carcere non può essere il surrogato dei servizi sociali”. “Se la cultura diffusa è una cultura che pensa che le devianze sociali debbano stare in carcere, più carceri abbiamo e più ne riempiamo”, spiega. “Dagli anni ‘90 ad oggi siamo passati da 35 mila a 51 mila posti ma il sovraffollamento è cresciuto ancora di più”. Ma persone che non possono stare fuori ce ne sono: “I criminali pericolosi, o quelli in grado di fuggire, alterare le prove o reiterare il reato o quelli legati alla criminalità organizzata saranno quante? Trentamila persone? Ma le altre 30 mila ci stanno perché non sappiamo dove metterle fuori. Dobbiamo scegliere di investire sul territorio non nelle carceri”. È bene ricordare che in Italia ci sono diverse opzioni alternative al carcere, solo che sono scarsamente applicate: “Sì, sono alternative che frequentemente si hanno subito dopo la decisione sulla pena - spiega Anastasìa -. Ci sono persone condannate a pene brevi che essendo in condizioni sociali, relazionali, e con sostegni familiari, con casa, lavoro, che riescono a scontare le pene brevi non in carcere ma al domicilio o in altre strutture. Invece ci sono tutti gli altri che entrano in carcere e hanno difficoltà poi ad accedere alla misura alternativa, che è uno dei problemi principali del nostro sistema penitenziario”. È come se ci fosse un bivio: chi prende la strada del carcere poi fa fatica ad uscirne, mentre invece chi riesce sin dall’inizio della sua pena ad accedere alle alternative può scontare la pena fuori dal carcere in condizioni sicuramente più dignitose, meno invalidanti. Ma chi sono quelli che “restano dentro”? Leggendo il report saltano agli occhi innanzitutto gli immigrati. “Hanno meno strumenti per difendersi in giudizio - sottolinea il Garante -, hanno meno risorse per poter accedere a delle alternative e quindi finiscono più facilmente in carcere. Non a caso quei dati si potrebbero incrociare con le pene inflitte ai detenuti”. Vale a dire? “Gli stranieri hanno livelli di pena molto più bassi rispetto agli italiani: gli italiani - osserva Anastasìa - finiscono in carcere solo se fanno reati molto gravi o se vengono da ambienti di marginalità sociale. Gli stranieri vanno in carcere sempre”. Nell’insieme il 2023 è stato un anno di peggioramento della situazione carceraria: meno permessi premio per le festività, revoca del permesso di comunicare più frequentemente coi familiari accordata durante il Covid (oggi ridotto ad una telefonata a settimana), obbligo di restare in cella se non si ha una attività da svolgere, ma a causa degli scarsi organici vuol dire che il pomeriggio si passa in cella “invece ci dovrebbero essere occasioni di formazione, di cultura ma anche di svago”, dice ancora Anastasìa. Unico miglioramento è il tasso di suicidio. Infine il tema dei bambini in carcere, non meno importante degli altri. “È un grande problema, perché ovviamente è qualcosa che ha un impatto sulla loro crescita. Qui abbiamo due diritti dei bambini: uno, quello di stare con la propria madre, e due, quello di stare fuori dal carcere”, il tema è conciliarli. Catanzaro. Detenuto malato oncologico muore in carcere lacnews24.it, 15 gennaio 2024 Il garante Ciambriello: “Il diritto alla salute prevale su tutti i diritti”. L’uomo di origine campane era stato trasferito da Avellino nella casa circondariale del capoluogo dove ha perso la vita. Un detenuto di origine campana è morto nel carcere di Catanzaro, dove era stato trasferito dalla casa circondariale di Avellino. Sulla vicenda è intervenuto il garante delle persone private della libertà personale Samuele Ciambriello. “Modestino Forte, 57 anni prima detenuto ad Avellino e poi trasferito a Catanzaro, non rispettando il diritto alla territorialità della pena, è morto per un cancro ai polmoni al quarto stadio. Il medico del Tribunale lo ritiene compatibile con il regime carcerario. Solo venerdì 12 gennaio al Modestino Forte gli sono concessi gli arresti ospedalieri. Il detenuto era già in coma farmacologico, tre giorni prima avevano rigettato i domiciliari”. “Il diritto alla salute e alla vita prevale sempre. Il carcere è uno spazio fuori dal mondo, un tempo fuori dal mondo, un istituto patogeno. Un calvario. Chiedo - conclude Ciambriello - giustizia e verità. Non si può continuare, nell’indifferenza generale, a morire in carcere e di carcere”. Parma. Da Lo Piccolo a Biondino (ex autista di Riina): chi sono i 10 reclusi al 41 bis parmatoday.it, 15 gennaio 2024 Si tratta per lo più di personaggi di peso all’interno di Cosa nostra, alcuni dei quali decisamente vecchi sepolti al “carcere duro” ormai da decenni. Sono 10 i detenuti al 41 bis nella casa circondariale di via Burla, a Parma. Su un totale di 728 registrati in tutta Italia a ottobre scorso (poco più dell’1,3 per cento degli oltre 56 mila reclusi in Italia), ai quali si è aggiunto a gennaio il boss Matteo Messina Denaro, catturato dopo 30 anni di latitanza. Si tratta per lo più di personaggi di peso all’interno di Cosa nostra, alcuni dei quali decisamente vecchi sepolti al “carcere duro” ormai da decenni. Tanti i boss che si trovano poi nello stesso penitenziario, anche se i contatti tra loro sono impossibili. A Parma si trovano Antonino Cinà, Salvatore Lo Piccolo, Salvatore Biondino, Fifetto Cannella, Sandro Diele, Giuseppe Fricano, Francesco Giuliano, Giuseppe Guastella, Domenico Passarello e Vincenzo Pipitone di Torretta. Il 41 bis, dopo il caso dell’anarchico Alfredo Cospito, è tornato al centro del dibattito politico con toni particolarmente accesi, che finiscono però per polarizzare l’opinione pubblica e non affrontare l’argomento nel modo più corretto. Il “carcere duro”, introdotto dopo la strage di Capaci, ha un’unica finalità: impedire ai mafiosi detenuti di poter continuare a mantenere contatti con l’esterno. Nel tempo, però, si è ulteriormente appesantito e spesso, per decisioni difformi prese dai tribunali di Sorveglianza sono stati aggiunti divieti e “punizioni” che la norma non prevede affatto. Per questo nel tempo non sono mancate le denunce per trattamenti ritenuti inumani e degradanti, sui quali è intervenuta anche al Corte Costituzionale. Regolarmente, poi, sono gli stessi detenuti al “carcere duro” a fare ricorso contro il rinnovo da parte del ministero della Giustizia. Milano. Il processo senza fine per un pugno sul pianerottolo di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 15 gennaio 2024 Sei anni, 16 udienze e 2 giudici, tutto a spese dello Stato. L’emblematico caso del contenzioso tra due ex amici: la lite è accaduta il 17 febbraio 2017, ma tra tentativi di conciliazione, Covid e rinvii la sentenza è arrivata solo a novembre 2023 Duemila settecento settanta due giorni, sei anni e due mesi trascinatisi in 16 udienze, per un banale processo a un solo imputato, con un solo testimone da sentire davanti al giudice di pace, su una sola imputazione di lesioni personali, foriera di una prognosi di soli cinque giorni per un asserito pugno tra due coinquilini sul pianerottolo di casa, con il coinvolgimento di due giudici avvicendatisi, nove diversi viceprocuratori onorari scomodati a rappresentare l’accusa nelle varie udienze, altrettanti cancellieri man mano di turno, due avvocati, il personale di un centro di mediazione, e tutto peraltro a spese dello Stato con il “gratuito patrocinio” degli onorari legali dei due litiganti ammessivi in forza dei limiti di reddito dichiarati: un ideale viatico per le imminenti cerimonie di inaugurazione dell’anno giudiziario ad opera di ministri, Csm, magistratura e avvocatura, che al solito conteranno quanti (tanti-troppi) siano i processi, e quanto (tanto-troppo) durino, e quanto (troppo) si sprechino le (già troppo poche) risorse di personale e mezzi disponibili per farvi fronte. La “banalità” del caso - E pensare che tutto principiò dalle torte: quelle che due amici, peraltro inquilini a due piani diversi della stessa casa popolare a Milano, avevano preventivato di produrre e vendere assieme, a questo scopo iniziando a comprare (la parte offesa con l’anticipo di propri 20mila euro) un furgone coibentato concordemente intestato a un terzo amico pure parte del sogno imprenditoriale. Poi però la progettata attività imprenditoriale non decolla, e chi aveva messo i soldi del furgone si presenta il 17 febbraio 2017 a bussare a casa dell’amico, inquilino nella stessa casa Aler, per chiedergli conto della situazione. Ne nasce un parapiglia, nel quale la parte offesa lamenta di aver subito un pugno da parte dell’imputato, pugno le cui prospettate conseguenze vengono refertate in una prognosi di cinque giorni di guarigione. Processo risolto in una udienza di poche ore? Eh no. I tentativi di accordo - Il 28 marzo 2018 il giudice onorario di pace invita i due a trovare un accordo stragiudiziale diretto alla remissione della querela, ma l’astio tra le parti non fa raggiungere questo risultato: fallimento di cui nella seconda udienza il 12 giugno 2018 i legali danno atto al giudice di pace, che cerca comunque di indirizzare le parti a un tentativo di conciliazione in udienza, che pure fallisce. Ciò nonostante il giudice le invia al “Centro di mediazione sociale e penale di Milano”, e rinvia al 23 ottobre 2018. Quel giorno legge il risultato: il relatore del Centro di mediazione comunica che imputato e parte offesa nemmeno ci pensano a conciliarsi. Rinvio al 12 febbraio 2019, giorno in cui il giudice acquisisce la relazione negativa del centro di riparazione, il denunciante si costituisce parte civile, il processo viene dichiarato aperto e l’istruzione dibattimentale fissata al 17 luglio 2019. Le liti in aula - Qui il pubblico ministero domanda solo l’esame della parte offesa ed eventualmente dell’imputato, gli avvocati delle due parti, Claudio Oldani e Maurizio Terragni, non depositano alcuna lista testi e si limitano a chiedere il controesame: si farà quindi tutto nella successiva udienza del 22 gennaio 2020? No, perché il giudice di pace torna a tentare una conciliazione, proponendo anche una somma risarcitoria: udienza più volte sospesa, conciliaboli tra le parti, gli avvocati cercano di convincere i due ex amici che invece, divenuti acerrimi e irriducibili nemici, non accettano e anzi - come risulta dal surreale verbale d’udienza - “litigano davanti al giudice”. Che a quel punto assume la testimonianza della parte offesa, e rinvia al 7 aprile 2020 per l’esame imputato, la requisitoria, le arringhe e la sentenza. A quel punto ci si mettono però le sospensioni dei processi per il Covid, quindi due rinvii prima al 9 giugno e poi al 25 novembre 2020, allorché viene interrogato l’imputato, il giudice decide che ha bisogno di sentire un teste, e il processo viene aggiornato (per questo e per la conclusione) al 31 marzo 2021. Ma quel giorno l’Unione delle Camere Penali indice uno sciopero, al quale aderisce l’avvocato dell’imputato: si rinvia al 15 settembre 2021. Solo che, nel frattempo, scorre non solo il processo ma anche la vita delle persone. E ad esempio cambia il giudice titolare del dibattimento. Le parti, almeno su questo, si mettono una mano sulla coscienza e non fanno ricominciare tutto da zero ma “prestano il consenso alla conservazione degli atti sin qui svolti”. L’epilogo - Il nuovo giudice, “al fine di valutare l’opportunità di proseguire l’istruttoria”, rinvia di sette mesi al 22 marzo 2022, quando però l’imputato presenta un “legittimo impedimento” a comparire in udienza: altro rinvio di otto mesi al 30 novembre 2022. Finalmente viene esaminato l’unico teste, poi la discussione finale viene calendarizzata a sei mesi dopo, 23 maggio 2023, data che in seguito viene d’ufficio rinviata di altri quattro mesi al 27 settembre e poi ancora di due mesi al 29 novembre 2023, allorché finalmente viene pronunciata la sentenza. Di cui peraltro la motivazione (in teoria entro 15 giorni) non è ancora stata depositata dopo un mese e mezzo. “Gorgona”, storie di uomini in cerca di riscatto sull’isola-carcere Messaggero Veneto, 15 gennaio 2024 Il docufilm al Visionario, mercoledì a Cinemazero. In sala anche il regista Antonio Tibaldi. La vita dentro un carcere unico al mondo, in mezzo al mare, dove gli uomini attraverso il lavoro cercano il proprio personale riscatto è quella raccontata in “Gorgona”, miglior documentario italiano al Festival dei popoli 2022. E sarà proprio il regista Antonio Tibaldi a presentare il film al Visionario di Udine domani alle 19.30 e il giorno seguente a Cinemazero di Pordenone alle 20.45. L’isola-carcere Gorgona, a 19 miglia da Livorno, è l’ultima colonia penale agricola d’Europa. Su questo fazzoletto di terra una novantina di detenuti intraprendono un percorso rieducativo basato sul lavoro, dalla cura del bestiame alle attività nei campi. Per essere ammessi servono requisiti precisi: nessun legame con la criminalità organizzata, niente problemi di tossicodipendenza e una pena definitiva sufficientemente lunga da permettere di costruire un percorso rieducativo. L’occhio della telecamera conduce lo spettatore in un’immersione senza veli nella vita di cinque detenuti, tra il lavoro quotidiano, il rapporto con gli educatori e il loro difficile percorso, dentro un mondo dove la bellezza avvolge, come un sudario, i delitti e il dolore degli uomini. Il documentario restituisce con profonda umanità gesti e luoghi di un’isola e della sua comunità, impegnata in un processo di rieducazione e trasformazione in accordo col tempo lento della natura e le forme delle relazioni tra esseri umani e mondo animale. Uno sguardo di prossimità che rinuncia al giudizio, ponendosi in ascolto e sollevando domande su temi radicali come l’errore, la colpa, le responsabilità individuali e sociali e sulla possibilità di cucire i margini delle ferite”. Per maggiori informazioni sulla programmazione e per acquistare i biglietti consultare i siti www.cinemazero.it e www.visionario.movie. La musica di un “Guaglione” e un video neomelodico contro i social della mafia di Paola D’Amico Corriere della Sera, 15 gennaio 2024 L’uso di TikTok è sempre più sfruttato dai clan del Foggiano, il Csv replica con un videoclip realizzato dal cantautore Giovanni D’Angelo. La criminalità nel Foggiano fa proseliti attraverso i social. TikTok, in particolare, è lo strumento prediletto - si possono aprire profili anonimi - per propagandare la (sub)cultura mafiosa. Una ricerca del professore Marcello Ravveduto, docente di Digital Public History all’Università di Salerno, con ricercatrici del corso di Informatica Umanistica dell’Università di Pisa, ha “mappato” la galassia delle mafie foggiane (quarta mafia, l’insieme di gruppi criminali della Capitanata, nel nord della Puglia) attraverso le piattaforme digitali. E ha messo a fuoco il linguaggio di figli, mogli e cugini dei mafiosi o loro affiliati, influencer evoluti, abilissimi nel giustificare la devianza criminale e nel creare una “estetica del potere - spiega in sintesi Ravveduto - e cioè far capire che più sei ricco e famoso più hai diritto di comandare”. Un lavoro, realizzato con il finanziamento della Fondazione Magna Grecia (fondazionemagnagrecia.it), utile per cercare anticorpi che difendano i giovanissimi. Il Centro Servizio al Volontariato di Foggia partendo da qui ha già realizzato il videoclip “Guaglione” del cantautore foggiano Giovanni D’Angelo, che ribalta con forza gli stereotipi dei messaggi del genere neomelodico napoletano super-gettonati tra gli adolescenti della Capitanata. Questo nell’ambito di un più ampio progetto di carattere sociale sostenuto da Csv (www.csvfoggia.it) con Consulta provinciale per la legalità, Teatro pubblico pugliese, Fondazione dei Monti Uniti di Foggia. Il video sarà diffuso sui social, nelle scuole e nei luoghi di aggregazione. “Lancia un appello alle nuove generazioni: attenzione a non finire nelle trappole della criminalità. La scelta - spiega Annalisa Graziano del Csv - non è stata casuale: proprio attraverso le piazze virtuali i clan riescono a raggiungere e reclutare manovalanza tra i giovanissimi, con numeri impensabili fino a qualche anno fa”. Prossimo obiettivo è costituire un Osservatorio per il monitoraggio delle mafie sui social network. “La magistratura ci aveva allertati sulla presenza virale delle comunicazioni mafiose sui social. I clan si adeguano, si raccontano attraverso i simboli del potere: denaro, gioielli, macchine di lusso. La ricerca ci aiuta a comprendere il loro linguaggio. Se vogliamo entrare nel cuore dei giovani - conclude Daniela Marcone, che si occupa di memoria delle vittime di mafia ed è nell’Ufficio di presidenza di Libera - non possiamo perdere tempo, il video usa i parametri musicali più amati ma rimette al centro la persona con il suo valore”. L’occidente è in guerra, ma non sa per cosa combatte di Gabriele Segre Il Domani, 15 gennaio 2024 L’occidente è in guerra, militare, economica e valoriale. Ma non ne usciremo se continueremo solo a guardare il nemico invece di chiederci cosa dobbiamo cambiare per vincere. L’occidente è in guerra. Ci sono pochi dubbi a riguardo: per accorgersene è sufficiente leggere i nomi di villaggi scritti in alfabeto cirillico, arabo o ebraico associati alla tragica contabilità di munizioni, missili e morti. Se non bastasse, si possono enumerare le battaglie senza armi con cui giovani e vecchie potenze si contendono il dominio dell’economia globale. O ricordare ancora i conflitti più sottocutanei, ma altrettanto polarizzanti, scatenati a casa nostra, nel cuore di Europa e Stati Uniti, contro l’ombra sinistra di populismi, suprematismi e radicalismi antidemocratici. Immobile, con i piedi nel baratro - Sì, siamo in guerra e ne osserviamo con devozione la regola primaria: identificare il nemico. Ma dopo di ciò le certezze iniziano a vacillare, perché se oggi sappiamo bene “contro chi” stiamo combattendo, siamo piuttosto confusi nel riconoscere “per che cosa” stiamo lottando. Oggi imbracciare le armi sembra diventato un riflesso incondizionato: unica risposta plausibile di fronte alle minacce alla nostra dimora. Ma la guerra di pura difesa è destinata a una triste sconfitta. Per prevalere non basta salvare “ciò che si ha”. Si deve capire “ciò che si è”. Per vincere servono idee: formidabili ordigni per trasformare il pensiero, ma che troppo spesso rimangono nell’arsenale delle nostre coscienze. Ci verrebbero in soccorso nei momenti di crisi, quando il contesto parrebbe spacciato, permettendoci di immaginare scenari diversi, impensabili fino a un attimo prima. Eppure, coi piedi nel baratro, l’occidente rimane immobile. Incatenato alla necessità del presente, preferisce specchiarsi nei fasti della sua storia gloriosa. In mancanza di fantasia di “pensieri nuovi”, si aggrappa a “pensieri vuoti”. Un nulla di fronte al quale qualunque retorica antica appare più convincente. Un moto rivoluzionario necessario - Ma il passato non basta. In guerra, ogni impulso conservatore diviene presto insopportabile. Si sente allora il bisogno di iniziare da capo, di ribaltare la prospettiva: un moto rivoluzionario di comprensione del mondo; così radicale da spingerci a trasformarlo. Uno sforzo immane che trascende le capacità individuali. Quando Galileo ha puntato il suo telescopio verso Giove, la nostra cognizione dell’universo è mutata per sempre di fronte a una nuova verità. Ma nelle questioni umane, l’intuizione geniale di un singolo non è mai sufficiente. Un pensiero creativo, se espresso nel proprio salotto, non serve a nessuno. Perché una nuova proposta maturi in cambiamento reale, essa deve essere il frutto di uno sforzo collettivo. Nella consapevolezza che una società è tale se i singoli individui non agiscono soli, ma uniti in un progetto comune. Un processo tortuoso e alle volte doloroso, che ci impone di confrontarci con i limiti delle nostre convinzioni, obbligandoci ad affrontare paure recondite e a porci domande indigeste. Magari iniziando proprio da quelle che chiamano in causa la democrazia che difendiamo così strenuamente. Per farlo, bisognerebbe tuttavia ricordarsi che non si tratta di un dogma inviolabile: è da quando l’abbiamo concepita che ci interroghiamo sulla sua natura e sui suoi mutamenti nel tempo. Eppure, oggi sembriamo esserci dimenticati di questa sua peculiare spinta evolutiva. Proprio quando ce n’è più bisogno. Tuttavia, nulla di ciò sarà possibile senza l’azione della politica. È suo il compito di orientare tale spirito trasformativo, dando forma al pensiero critico, organizzandolo e agevolandone la condivisione. Non può abdicarvi ora, limitandosi a seguire il moto di un infinito progresso a cui non si riesce più a dare un senso. Senza politica, non ci sarà mai una rivoluzione delle idee, al massimo una sterile innovazione che non trasforma la società, ma, nel renderla più efficiente, la mantiene ancora più stabile. Proprio ciò di cui non abbiamo bisogno. Ciò di cui, invece, abbiamo bisogno è cambiare il punto di vista. Abbiamo osservato così tanto il nemico da aver dimenticato le fattezze del nostro “esercito”. Dobbiamo re-imparare a guardare il nostro lato del campo, non per compiacerci degli stendardi della nostra armata, ma per domandarci se questi ci rappresentano ancora. La terza guerra mondiale a pezzi ci circonda: l’idea che l’Occidente viva in pace è un’illusione di Loretta Napoleoni* Il Fatto Quotidiano, 15 gennaio 2024 Le guerre dimenticate hanno il vizio di tornare a condizionare la nostra vita. Anche in questa fase storica in cui in Occidente il nazionalismo trionfa sul globalismo e la fortezza Europa alza muri di cinta verso il cielo sempre più solidi, i conflitti ignorati per lungo tempo minacciano il nostro privilegiatissimo stile di vita, e spesso lo fanno con prepotenza inaspettata. E così la guerra a Gaza, la più vecchia del moderno Medio Oriente, e quella nello Yemen, tra le più recenti, hanno portato in casa nostra tragedie umane che molti reputavano inimmaginabili e tra poco svuoteranno anche i nostri portafogli. E vediamo come questo secondo fenomeno prende forma. Da novembre gli Houthi, un gruppo terrorista sciita affiliato e finanziario dall’Iran con base nello Yemen, ha iniziato a lanciare attacchi nel mar Rosso da dove transita il 30 per cento del traffico commerciale mondiale. Per debellarli gli Stati Uniti hanno creato una coalizione di forze, di cui fa parte il Regno Unito e anche l’Italia; gli Houthi, però, almeno per ora, continuano a terrorizzare il transito da e verso il canale di Suez. Soluzione del problema: molte compagnie marittime hanno optato per la circumnavigazione dell’Africa, decisione che implica costi logistici aggiuntivi e spesso significati per i prodotti che transitano da e verso l’Europa ed il Nord America. Gli Houthi non attaccano le petroliere provenienti dal golfo Persico - per non attirare le ire dei produttori arabi - e più volte hanno dichiarato di avere come obbiettivo solo navi e prodotti che hanno a che fare con Israele, ciononostante la tensione nel mar Rosso sta facendo gravitare i costi delle assicurazioni marittime, aumenti che impattano sui costi finali di trasporto. I conflitti dimenticati fanno parte della terza guerra mondiale. Nulla in questa guerra è come le precedenti, soprattutto l’illusione di pace occidentale. Costruita come un puzzle dove ogni pezzo rappresenta un conflitto, questa assume aspetti diversi a seconda di quale regione del mappamondo si prende in considerazione. E così, la guerra vera di Gaza finisce per distorcere il consumo in Europa alimentando il nemico inflazione attraverso la riattivazione del terrorismo marittimo lungo il mar Rosso. Ed ancora, la guerra civile nello Yemen che due acerrimi nemici, la sciita Iran e la sunnita Arabia Saudita, sponsorizzano, a sud del canale di Suez diventa un conflitto allargato che vede la marina militare americana, la più grande ed efficiente al mondo, ed i suoi alleati combattere contro le navi pirata degli Houthi e lo sponsor Iran. Tra i grandi burattinai di questo nuova tipologia di guerra mondiale ci sono paesi come l’Iran e l’Arabia Saudita, nazioni che ai tempi della Seconda guerra mondiale o erano colonie dell’occidente o facevano parte della periferia più povera e meno sviluppata dell’Impero occidentale. È questa un dettaglio che ci porta ad una riflessione importante. A causare il coinvolgimento delle colonie durante l’ultimo conflitto mondiale fu la contaminazione di quello centrale, la battaglia per il controllo dell’Europa da parte dei nazisti e fascisti, e dell’Asia per i giapponesi. Anche se mondializzata, la Seconda guerra mondiale era geograficamente circoscritta dalle mire espansioniste dell’Asse. Oggi i conflitti sono localizzati e globalizzati allo stesso tempo, tensioni locali, mire espansioniste o ostilità regionali si sovrappongono a interessi geopolitici globali. Oggi i blocchi in collisione sono più di due. E questo spiega come la guerra a Gaza non è un conflitto tra Israele e Hamas ma tra Israele e l’Iran, sponsor di Hamas, Iran e Libano attraverso gli Hezbollah, anche loro sponsorizzati dall’Iran; è anche un conflitto per procura tra l’Iran e gli Stati Uniti ed i suoi alleati in Europa e nel Golfo. La terza guerra mondiale a pezzi si sta combattendo sotto le mura di cinta della fortezza Europa, se smettiamo per un attimo di ascoltare la caciara delle notizie banali locali, dalla preparazione del festival di Sanremo alle presunte truffe degli influencer made in Italy, è possibile sentire i boati delle bombe che cadono, il pianto dei bambini senza infanzia, le grida strazianti dei sopravvissuti. L’idea che l’Occidente viva in pace è un’illusione, la guerra volutamente ignorata nel quotidiano, ci è entrata nel sangue, fa talmente parte della nostra quotidianità che quando andiamo al supermercato e tutto costa il doppio non pensiamo che la causa originaria sia la guerra a Gaza o quando leggiamo sui giornali che l’assedio dei migranti non accenna a scemare non pensiamo che questo sia dovuta all’allargarsi dei confini della terza guerra mondiale. Districarsi da questo groviglio geopolitico non sarà facile e chissà, forse non è neppure più possibile. Forse è troppo tardi, avremmo dovuto fermarci vent’anni fa. Ma lasciarsi trasportare dall’inerzia e finire per essere fagocitati dalla forza centripeta del nuovo conflitto non può e non deve essere la nostra opzione. Finché anche solo l’illusione di pace sopravvive la speranza di una pace vera esiste. *Economista Medio Oriente. Il processo alla Corte dell’Aia e l’antisemitismo eterno di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 15 gennaio 2024 L’accusa a Israele per “genocidio” mentre l’Osservatorio del Cdec documenta una nuova ondata di rancore contro gli ebrei. L’atto d’accusa portato all’Aia contro Israele apre, accanto al tentativo di tutelare la popolazione palestinese di Gaza, questioni di coscienza e contraddizioni. È impossibile, certo, non porre in discussione la proporzionalità della risposta israeliana all’aggressione patita per mano di Hamas: il protrarsi e le dimensioni della reazione militare, le sofferenze e i lutti per due milioni di civili. Lo fanno persino gli americani, alleati storici di Gerusalemme. Ma l’idea stessa di promuovere davanti alla Corte internazionale una causa nei confronti della nazione vittima del pogrom del 7 ottobre (oltre 1.200 ebrei assassinati e 6.000 feriti nel deserto del Negev e nei kibbutzim di confine, 253 rapiti, tra cui numerosi bambini, decine di donne stuprate e mutilate), rovesciandole addosso una parola - genocidio - coniata nel 1944 per la Shoah, ha un effetto straniante e ha indotto il premier Netanyahu a parlare di “mondo alla rovescia” (l’Iran, dante causa dei terroristi islamici giunto infine a rivendicare il massacro del “Sabato nero”, è, ad esempio, tra i grandi sostenitori del dossier promosso dal Sudafrica). Il processo, come inevitabile, tende a radicalizzare le posizioni. Talché, chi crede nel buon diritto di Israele a difendere la propria sopravvivenza si troverà in sgradita compagna della destra ultrareligiosa di Ben-Gvir e Smotrich; e chi è più sensibile ai patimenti dei gazawi può finire per accostarsi alla propaganda di assassini come Yahya Sinwar e Mohammed Deif, capi dei carnefici del 7 ottobre. Inoltre, il giudizio dell’Aia non ha forza cogente ma solo impatto reputazionale: non potrà sortire effetti concreti sul campo. Avrà invece, come sicuro risultato, una nuova ondata di rancore verso gli ebrei: non solo contro i soldati di Tsahal nella Striscia ma contro tutti gli appartenenti alla religione ebraica e in tutto il mondo. Ed è questa, per noi che guardiamo da lontano il conflitto, l’insidia maggiore: un sentimento che scorre da sempre nelle nostre società e si manifesta con andamento carsico, come un veleno sottile, in occasione di ogni grande crisi mediorientale, dalla Guerra dei Sei Giorni del 1967 alla strage di Sabra e Chatila del 1982. La geopolitica fa da detonatore a una sottocultura che affonda le radici nei luoghi comuni di secoli (per dire: il “Dio cattivo degli ebrei” contrapposto al Dio misericordioso dei Vangeli). Una preziosa finestra per capirlo si trova a Milano, vicino alla Stazione Centrale, proprio accanto a quel Binario 21 celebrato da una commossa Liliana Segre, dal quale i nazisti caricavano le loro vittime sui vagoni piombati diretti ai lager. È l’Osservatorio Antisemitismo, settore del Centro di documentazione ebraica contemporanea (Cdec) che dal 1975 monitora quotidianamente sull’Italia il fenomeno e le sue manifestazioni: aggressioni fisiche o verbali, graffiti, insulti web, discorsi pubblici di odio. Negli uffici di piazza Safra hanno appena concluso il rapporto 2023 con circa 460 episodi segnalati durante l’anno (erano 241 nel 2022) e con trend triplicato dopo il 7 ottobre: i casi erano 67 tra ottobre e dicembre del 2022, sono stati 221 negli ultimi tre mesi di quest’anno (avvertenza: la categoria presa in esame è ovviamente più ampia dei soli crimini d’odio di cui ha dato conto di recente il ministro Piantedosi su dati Oscad, l’osservatorio del Viminale sulle discriminazioni). Sono frammenti di vita che rendono un clima. Dai temi di educazione civica “sull’apartheid contro i palestinesi” all’interrogazione subita in un liceo scientifico romano da uno studente ebreo chiamato a “esporre le ragioni di Israele” davanti alla classe, fino alla bambina di una media fiorentina bullizzata dalle compagne (“ti buttiamo dalla finestra, speriamo muoiano tutti gli ebrei”); dal rabbino minacciato in strada a Genova al membro della comunità attaccato a Catania per la Stella di Davide al collo da un distinto cinquantenne che gli ha aizzato contro il cane gridando “eccone un altro! Ma quanti ca… siete?”. Betti Guetta, responsabile dell’Osservatorio, si domanda dolente “in quale millennio smetteremo di essere un… voi”, e parla della solitudine come sentimento prevalente di questi mesi: “Più che spaventata sono depressa”, dice, pensando agli amici spariti e anche alle vittime palestinesi di questo orrore. Il livello di violenza è ben lontano dalla Francia, dove gli ebrei hanno intrapreso dagli anni degli attacchi jihadisti un esodo di paura, o dalla Germania dei gruppi neonazisti; ma dopo il 7 ottobre gli episodi si sono “trasferiti dal web al mondo reale” anche qui. Così reali che nelle università i ragazzi ebrei hanno cominciato a nascondersi. Un report riservato rivela che tre quarti degli studenti israeliani celano in ateneo la propria identità o evitano di parlare in ebraico, uno su tre ha eliminato kippah e Stelle di Davide. Due terzi dei 243 giovani sondati dall’Ugei pensa che essere ebreo possa causare discriminazione sul luogo di lavoro o di studio, la quasi totalità denuncia un aumento di episodi di antisemitismo. Secondo un sondaggio condotto tra 2.579 universitari non ebrei in tre atenei del Nord Italia dal sociologo Asher Colombo, il 38% degli studenti di destra pensa che “gli ebrei non sono italiani fino in fondo” e il 59% di quelli di sinistra che “il governo israeliano si comporta coi palestinesi come i nazisti si comportarono con gli ebrei”. La Rete resta il volano più truculento, come sempre. Hitler il criminale più gettonato, talvolta mascherato dietro l’hashtag “pittore austriaco” (300 milioni di visualizzazioni) per evitare restrizioni. Ma basta sfogliare il bel libro di Alessandra Tarquini “La sinistra e gli ebrei” (Il Mulino, 2019) per constatare come il morbo dell’antisemitismo non sia certo esclusiva della destra più cupa. “Palestina dal fiume al mare”, slogan che presuppone la scomparsa di Israele, è stato gridato molte volte in questi mesi da antagonisti e collettivi studenteschi. E il vecchio Proudhon, già a metà del Diciannovesimo secolo, considerava gli ebrei “una razza da sterminare col fuoco o col ferro, con l’espulsione o con qualsiasi mezzo”. Che più di centosettanta anni dopo tanti lo prendano alla lettera deve farsi ragione di sollecitudine e solidarietà verso chi diventa un bersaglio: anche di fronte a un processo da cui il mondo uscirà solo più diviso e intossicato. Arabia Saudita. Oltre 1.250 impiccagioni, con bin Salman otto sanguinosi anni di regno di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 15 gennaio 2024 In queste settimane le organizzazioni per i diritti umani stanno terminando la raccolta dei dati sull’applicazione della pena di morte nel 2023. Un compito a volte impossibile, come nel caso della Cina; altre volte difficile, come in quelli dell’Iran o di altri stati in cui molte esecuzioni non sono rese note dalle autorità. Incrociando i dati di Reprieve, di Amnesty International e dell’Organizzazione euro-saudita per i diritti umani e confrontandoli con quelli ufficiali, è emerso che lo scorso anno in Arabia Saudita sono state eseguite almeno 172 condanne a morte. Nel 2022 erano state almeno 196, il numero più alto dei precedenti 30 anni. Facendo le somme, dal 2015, l’anno in cui il principe della Corona Mohamed bin Salman ha assunto di fatto il potere, ci sono state almeno 1257 impiccagioni, una media di 140 all’anno. Gli ultimi otto anni sono stati i più sanguinosi nella storia moderna dell’Arabia Saudita. Questi dati rendono carta straccia le promesse di bin Salman di limitare l’applicazione della pena di morte e di abolirla per i rei minorenni. Due di questi ultimi hanno esaurito ogni possibilità di ricorso giudiziario e la loro esecuzione, ha lanciato l’allarme Amnesty International, potrebbe essere imminente. Ma intanto le relazioni dell’Occidente con l’Arabia Saudita vanno avanti come se nulla fosse: la narrazione dominante è che bin Salman ha avviato il suo regno verso le riforme. Al resto pensa lo sportwashing, di cui l’imminente Supercoppa italiana negli stadi sauditi è uno degli esempi più evidenti. *Portavoce di Amnesty International Italia Sri Lanka. Arresti indiscriminati e minori lasciati senza cure, nutriti dai vicini di Arundathie Abeysinghe* La Repubblica, 15 gennaio 2024 La solidarietà delle famiglie che vivono in povertà. L’Ordine degli avvocati dello Sri Lanka indaga sulla condotta delle forze dell’ordine. Una recente operazione anti-droga chiamata “Yukthiya” (che significa “giustizia”) sta lasciando centinaia di bambini senza genitori a causa degli arresti indiscriminati. Secondo Patali Champika Ranawaka, già ministro dell’Energia e leader del Fronte Repubblicano Unito (URF), la polizia ha arrestato un gran numero di tossicodipendenti, a volte entrambi i genitori, soprattutto a Colombo e nella sua periferia. In molti casi, i bambini soffrono la fame mentre i loro genitori sono in detenzione. Bambini tra i 2 e i 10 anni. Secondo due residenti di Mattakkuliya, Kamalini Sinnarasa e Vadivel Pathmarajah, oltre 100 di bambini di età compresa tra i 2 e i 10 anni sono stati nutriti per giorni da organizzazioni dei servizi sociali e dai vicini, spesso molto poveri. In alcune zone di Colombo, la maggior parte dei bambini i cui genitori sono stati portati via dalla polizia non riuscivano ad avere nemmeno un pasto al giorno. Alcuni bambini tra i 4 e i 10 anni hanno iniziato a mendicare lungo la strada con i loro piccoli fratelli. Pochi sono in grado di pagare le spese legali. La maggior parte delle persone arrestate, inoltre, non è in grado di pagare le spese legali. Anche se l’operazione è già entrata nella sua terza settimana, ancora nessuna figura chiave coinvolta nel traffico di droga è stata arrestata. Mentre la polizia giustifica l’operazione, per diversi critici si tratta di una farsa. Le forze dell’ordine sono accusate di usare tattiche troppo pesanti, tra cui arresti di massa, e di mostrare “scarso rispetto per la privacy e la dignità delle persone”. Sono sorte anche domande sulla bassa quantità di droghe recuperate durante l’operazione. Finora arrestati 26.476 sospetti. In base ai dati più recenti, a partire dal 5 gennaio scorso sono stati condotti 54.090 raid in tutto lo Sri Lanka con la polizia a caccia di altri 2.453 sospetti. Circa 1.549 persone sono state inviate in centri di riabilitazione. Sulla base dei risultati ottenuti finora, la polizia ha aperto indagini su 216 casi, in particolare riguardo a coloro che hanno accumulato grandi quantità di ricchezza attraverso il traffico di droga. Il portavoce della polizia, SSP Nihal Thalduwa, ha riferito che i raid sono stati effettuati in aree mirate che coprono tutte le 607 stazioni di polizia del Paese. I parenti di diverse persone che erano state arrestate dalla polizia hanno contattato il Comitato per la protezione dei diritti dei prigionieri per ricevere tutele legali. Le indagini degli avvocati. Gli avvocati Samantha Tennakoon, Nilmini Balasuriya e Kasun Hewapathirana hanno detto ad AsiaNews: “Siamo seriamente preoccupati per il modo in cui la polizia sta lavorando nell’operazione “Yukthiya”. L’Ordine degli avvocati dello Sri Lanka (BASL) ha deciso di affrontare la questione con tutte le parti interessate, tra cui il presidente e ministro della Difesa, Ranil Wickremesinghe, e il ministro della pubblica sicurezza Tiran Alles. *Asianews Le forze di sicurezza riprendono il controllo delle carceri in Ecuador agi.it, 15 gennaio 2024 Le autorità di Quito hanno ottenuto la liberazione di oltre 200 funzionari tenuti in ostaggio dalle bande di narcotrafficanti che hanno dichiarato guerra allo Stato. Domenica le forze di sicurezza dell’Ecuador hanno ripreso il controllo di diverse carceri cadute nelle mani dei membri delle bande, dopo aver ottenuto il rilascio di oltre 200 funzionari tenuti in ostaggio all’interno delle carceri. La latente crisi di sicurezza del paese è scoppiata la scorsa settimana quando il governo e le potenti bande di narcotrafficanti si sono dichiarati guerra totale l’uno all’altro, dopo la fuga dalla prigione di un pericoloso signore della droga. I detenuti si sono ribellati nelle carceri dove le bande esercitano un controllo enorme, prendendo in ostaggio guardie carcerarie e impiegati amministrativi, mentre nelle strade un’ondata di violenza ha causato la morte di 19 persone. Immagini non verificate sui social media di saccheggi, omicidi brutali e altri attacchi hanno seminato il terrore nella popolazione. Domenica l’esercito ha condiviso video dell’esplosione delle mura di una prigione e ha dichiarato il “controllo totale” di una prigione nella città di Cuenca dove, secondo il sindaco, erano tenuti in ostaggio 61 dipendenti. Hanno anche condiviso immagini di centinaia di detenuti intimiditi, a torso nudo e a piedi nudi, distesi a terra in diverse carceri. “Abbiamo ripreso il controllo di sei centri” e siamo impegnati a prendere il controllo dell’ultima prigione a Cotopaxi, che ha visto brutali massacri negli ultimi anni, ha detto il generale Pablo Velasco a Caracol TV. Le autorità hanno annunciato il rilascio di 201 guardie carcerarie e funzionari amministrativi, provenienti dalle carceri di sette province. Il presidente Daniel Noboa ha celebrato le uscite in un post su X, l’ex Twitter. “Congratulazioni al lavoro patriottico, professionale e coraggioso delle forze armate, della polizia nazionale e della SNAI... per aver ottenuto il rilascio delle guardie carcerarie e del personale amministrativo detenuti nei centri di detenzione di Azuay, Canar, Esmeraldas, Cotopaxi, Tungurahua, El Oro e Loja”, ha scritto. Le immagini trasmesse dalla polizia mostravano le guardie, molte in lacrime, stremate e sostenute dai colleghi poco dopo il rilascio.”Siamo liberi... Grazie a Dio siamo usciti tutti sani e salvi”, ha detto un impiegato della prigione in un video pubblicato sui social media, sventolando la bandiera ecuadoriana e stando di fronte a una prigione nella provincia meridionale di Cotopaxi. Un tempo baluardo di pace tra i principali produttori di cocaina, l’Ecuador è precipitato nella crisi dopo anni di espansione da parte dei cartelli transnazionali che utilizzano i suoi porti per spedire la droga negli Stati Uniti e in Europa. L’ultima crisi è stata innescata dalla fuga dal carcere di Guayaquil di uno dei capi delle bande di narcotici più potenti del paese, Jose Adolfo Macias, conosciuto con lo pseudonimo di “Fito”, che era a capo della principale banda del paese “Los Choneros”. Il governo ha dichiarato lo stato di emergenza e il coprifuoco, facendo infuriare i gangster che hanno dichiarato “guerra” ai civili e alle forze di sicurezza. Noboa a sua volta ha detto che il Paese è “in uno stato di guerra” contro 22 bande. Ha schierato nelle strade oltre 22.000 agenti di sicurezza, che hanno perquisito e spogliato giovani alla ricerca dei tatuaggi che li identificavano come membri di una delle bande. Le autorità hanno riferito di oltre 1.300 arresti, otto “terroristi” uccisi e 27 prigionieri evasi riconquistati nell’operazione. Sono stati uccisi anche due agenti di polizia. Noboa ha promesso di non piegarsi alla violenza, dando ordine di “neutralizzare” i gruppi criminali responsabili. “Credo che vinceremo e non smetterò di lottare finché non lo faremo”, ha detto venerdì alla BBC. Le bande di narcotrafficanti utilizzano spesso le carceri come uffici penali, da dove gestiscono il traffico di droga, ordinano omicidi, amministrano i proventi del crimine e combattono fino alla morte con i rivali per il potere. È nelle carceri che si combattono gran parte delle guerre tra bande, con brutali scontri tra detenuti che hanno provocato più di 460 morti, molti dei quali decapitati o bruciati vivi, dal febbraio 2021.Il tasso di omicidi in Ecuador è quadruplicato tra il 2018 e il 2022, quando le bande criminali hanno trovato un punto d’appoggio nel paese. L’anno scorso è stato il peggiore, con 7.800 omicidi e la cifra record di 220 tonnellate di droga sequestrate. Noboa ha annunciato di voler costruire due carceri di “super massima” sicurezza con una capacità di oltre 3.000 persone, con sul tavolo anche proposte per future “navi prigione”. La prigione cilena piena di gatti di Luca Sofri ilpost.it, 15 gennaio 2024 Sono più di 300 e la loro presenza ha effetti positivi sulle persone detenute che vivono nel carcere più sovraffollato dello Stato. La presenza di animali nelle carceri, specialmente nell’ambito di programmi di riabilitazione dei detenuti, è una cosa abbastanza comune. Più rara è invece la loro presenza nelle celle, che quando si verifica è limitata a pochi animali di proprietà di specifici detenuti. Per questo motivo il caso del principale penitenziario di Santiago, la capitale del Cile, è piuttosto unico: dentro alla prigione vivono più di 300 gatti a stretto contatto con le persone detenute e la loro presenza ha migliorato la vita all’interno del carcere, che è il più affollato del paese. La loro convivenza è stata raccontata recentemente da Jack Nicas in un articolo per il New York Times. Conosciuta semplicemente come “Peni” e costruita nel 1843, nella Penitenciaría di Santiago vivono circa 5.600 detenuti: nelle aree più affollate vivono anche dieci persone nella stessa cella e le condizioni igieniche sono molto scarse, ma la presenza di centinaia di gatti viene considerato un aspetto molto positivo. Quando siano arrivati i gatti e per quale motivo non è chiaro. Alcuni dicono che si è trattato da subito di gatti randagi arrivati spontaneamente, mentre altri pensano che i primi furono portati per risolvere il problema dei topi. Per diversi decenni hanno vissuto separati dalle persone e si sono riprodotti fino a diventare diverse centinaia. Poi quasi naturalmente hanno iniziato a entrare in contatto con i detenuti che hanno iniziato ad accudirli, adottandoli informalmente e dando loro dei nomi, condividendo il loro cibo e i loro letti e, in alcuni casi, costruendo loro delle cucce. Tuttavia, fino a circa dieci anni anni fa la popolazione felina si stava espandendo in modo incontrollato e i gatti si ammalavano spesso, sviluppando anche un’infezione contagiosa che rendeva alcuni animali ciechi. Secondo l’assistente sociale Carla Contreras Sandoval la situazione “stressava persino i detenuti”. Così nel 2016 il penitenziario fece un accordo con l’associazione di volontari Fundación Felinnos, che si è occupata di raccogliere sistematicamente tutti i gatti per curarli, sterilizzarli e castrarli. Il successo del programma è stato in parte merito dei detenuti, che si occupano di portare ai volontari i gatti che stanno male e chiedono loro informazioni su come accudire i cuccioli. Denys Carmona Rojas, 57 anni, che sta scontando otto anni per possesso di armi, ha raccontato al New York Times di aver accudito molti gattini nella sua cella, somministrando in un caso del latte speciale a una cucciolata dopo che la madre era morta durante il parto. La presenza dei gatti ha avuto effetti positivi sul clima della prigione. La direttrice Helen Leal González ha detto al New York Times che la loro presenza “ha cambiato l’umore dei detenuti, ha migliorato il loro comportamento e ha rafforzatoil loro senso di responsabilità, in particolare nella cura degli animali”. La prigione è un luogo ostile dove le condizioni di vita sono pessime, cosa che contribuisce a creare dissidi fra i detenuti. Invece, “quando si vede un animale che dà affetto e genera sentimenti positivi, logicamente si verifica un cambiamento di comportamento e di mentalità” di chi li accudisce. Fra i molti detenuti intervistati, Carlos Nuñez, che sta scontando una condanna di 14 anni per furto, ha sostenuto che per molti di loro è la prima volta che si prendono cura di qualcosa o qualcuno: “un gatto ti costringe a preoccuparti per lui, a dargli da mangiare, a dargli attenzioni speciali. Quando eravamo fuori e liberi, non lo facevamo mai. L’abbiamo scoperto qui”. Alcuni gatti vengono “adottati” da tutti i detenuti di una cella e questo stimola la collaborazione. In diversi citano anche il modo in cui gli animali danno loro conforto nei momenti più duri. Secondo i volontari, quando il programma è stato creato nel 2016 i gatti erano più di 400, una cifra in cui non erano inclusi i cuccioli, mentre ora sono circa 300 e sono in costante diminuzione dato che quando un detenuto finisce di scontare la sua pena ed esce spesso si porta con sé il gatto che aveva accudito durante la reclusione. La presenza di animali nelle carceri, specialmente di cani, non è una novità. In passato la loro convivenza esisteva ma era poco strutturata, mentre dagli anni Settanta hanno iniziato a diffondersi, a partire dagli Stati Uniti, diversi programmi di riabilitazione dei detenuti attraverso l’addestramento o l’accudimento di animali. Diversi studi hanno provato che questa relazione porta a risultati positivi. La ricercatrice spagnola Beatriz Villafaina-Domínguez spiega per esempio che programmi svolti nelle prigioni di diversi stati hanno provato che il rapporto fra detenuti e cani portava a “una diminuzione della recidiva, un miglioramento dell’empatia, un miglioramento delle abilità sociali e un rapporto più sicuro e positivo tra i detenuti e gli agenti penitenziari”. Oggi sono molto usati negli Stati Uniti: in Arizona, i detenuti addestrano cavalli selvaggi per pattugliare il confine con il Messico, mentre in Minnesota e Michigan addestrano cani per non vedenti e non udenti. In Massachusetts, i detenuti aiutano invece a curare animali selvatici feriti o malati, come falchi, coyote e procioni. Questi programmi esistono anche in Italia: al carcere di Bollate, a Milano, alcuni detenuti imparano a gestire una scuderia e prendersi cura dei cavalli, mentre altri fanno la stessa cosa con i cani randagi.