Carceri, sempre più decessi: indagini sulle morti sospette di Josephine Carinci ilsussidiario.net, 14 gennaio 2024 Sempre più morti sospette nelle carceri, tra suicidi e decessi sui quali è stata disposta l’autopsia. Dal governo: “Dobbiamo garantire dignità alle persone”. Una settimana dopo il suicidio del 25enne Matteo Concetti, che si è impiccato con un lenzuolo in una cella di isolamento dove era rinchiuso, nonostante soffrisse di problemi psichici, un altro detenuto è morto. Il dramma questa volta è accaduto a Montacuto, nell’anconetano: la vittima è un 41enne algerino trovato senza vita dai compagni di stanza che hanno dato l’allarme quando si sono accorti che l’uomo era immobile sulla brandina e che non rispondeva agli stimoli. Il decesso potrebbe essere avvenuto per cause naturali ma gli inquirenti vogliono vederci chiaro e hanno disposto l’autopsia. Il 41enne era stato arrestato al casello autostradale di Loreto con l’accusa di detenzione di droga a fini di spaccio: con lui c’era una donna di Ancona di 35 anni. A bordo anche 52 grammi di eroina, un coltello e un bilancino di precisione. Nella giornata di venerdì un uomo è stato trovato morto nel reparto di Alta Sicurezza del carcere di Santa Maria Capua Vetere, nel Casertano. Aveva 46 anni e secondo un primo esame medico-legale sarebbe deceduto per un infarto. “Il pur tempestivo intervento degli agenti di polizia penitenziaria non ha purtroppo impedito la morte del detenuto” ha spiegato il segretario provinciale del Sappe, Vincenzo Berrini. Come spiega Avvenire, il detenuto frequentava tre volte alla settimana il centro dialisi ma nel giorno in cui è morto aveva la febbre e non è riuscito a effettuare il trattamento in infermeria. Nelle carceri italiane è sempre più grave l’emergenza. Il segretario generale del Sindacato autonomo dei poliziotti penitenziari, Donato Capece, ricorda i dati dell’ultimo rapporto su “Salute mentale e assistenza psichiatrica in carcere” del Comitato Nazionale per la Bioetica. Tra i disturbi dei carcerati troviamo al primo posto la dipendenza da sostanze psicoattive (23.6%) con conseguenti problemi nevrotici e reazioni di adattamento. A seguire ci sono i disturbi alcol correlati, poi i disagi affettivi psicotici, dopo ancora quelli della personalità e del comportamento, quelli depressivi non psicotici, i mentali organici senili e presenili e i disturbi da spettro schizofrenico. Tra gli uomini prevale la dipendenza da sostanze psicoattive (50,8% a confronto dei 32,5% per le donne) mentre tra le detenute prevalgono i disturbi nevrotici e le reazioni di adattamento. Nei giorni scorsi sono stati registrati tre suicidi e due tentativi, anche a Montorio, dove ha fatto visita di recente il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari. Parlando dell’alto numero di decessi nelle carceri, il politico ha affermato: “Facendo sistema si può raggiungere l’obiettivo di salvare vite, sicuramente, ma è necessario creare e credere a un sistema dell’esecuzione della pena che sia capace di garantire rispetto delle regole e ovviamente garantire anche dignità delle persone”. Il carcere come discarica sociale dei più fragili di Andrea Nobili* Il Resto del Carlino, 14 gennaio 2024 Non tanto e non solo per la condizione delle carceri, spesso vecchie e sovraffollate, in sofferenza per l’insufficienza di personale di Polizia penitenziaria e per la carenza di figure professionali, ma, soprattutto, per la crisi che sta vivendo il nostro sistema di welfare. Ciò, con particolare riferimento al versante volto all’aiuto di soggetti a rischio, come quelli con problemi psichiatrici e di tossicodipendenza, spesso combinati tra loro. In modo superficiale, la politica (la competenza è regionale), nonostante l’intensificarsi del problema, nel corso degli anni, e senza distinzioni di colore, ha derubricato il tema. E nell’indifferenza generale il carcere è diventato una risposta alla malattia psichiatrica, alle dipendenze, alla povertà. Si pensi che quasi il 10 per cento dei detenuti ha problemi psichiatrici; tuttavia, le ore di sostegno sono pochissime. Mancando il personale qualificato, si ricorre sempre più agli psicofarmaci. La salute mentale è un problema enorme all’interno degli istituti penitenziari, un problema che mette a dura prova anche gli operatori che vi lavorano. La conferma sta nell’alto numero di detenuti che si uccidono, oltre dieci volte in più rispetto alla popolazione libera. Molte delle persone più vulnerabili, come Matteo Concetti, in cella non ci dovrebbero proprio stare; tutt’al più dovrebbero essere collocate in reparti specifici per detenuti con malattie psichiche, o, meglio, in strutture dedicate. Si pensi, anche, al dramma di quelle famiglie che non sanno come gestire situazioni sofferte; con i Dipartimenti di salute mentale non più in grado di affrontare un disagio crescente, senza risorse e strumenti a disposizione. Per questo, in certi casi disperati, il carcere è un termine inevitabile. Ma la risposta non può consistere in un facile populismo penale, orientato alla carcerazione delle problematiche psichiatriche. Viceversa, occorrono misure straordinarie, che riconoscano il problema per quello che è, capaci non solo di individuare risorse ma di adeguare ai tempi le normative e conquiste di civiltà come la Legge Basaglia. In questo modo sarebbe, forse, possibile contribuire a rendere le carceri luoghi più umani”. *Avvocato, ex Garante regionale dei diritti dei detenuti della Regione Marche Mi chiamavano “Malerba”, in prigione ho scoperto la mia luce di Giuseppe Grassonelli* L’Unità, 14 gennaio 2024 È necessario ridurre l’isolamento di noi detenuti e il senso di estraneità e repulsione della società, accorciare l’estraneità reciproca. Prendo le mosse da un articolo di Tullio Padovani, “Il carcere va abolito, ecco perché”, uscito su l’Unità il 5 luglio 2023 e che è anche riportato in prefazione all’ultima pubblicazione di Nessuno tocchi Caino, “Pena di morte e morte per pena”. “Il carcere è fatto per sputare all’esterno rifiuti, inutili, inidonei, incapaci di tutto”. Questa frase, in particolare, mi ha colpito nel ricco e articolato ragionamento di Tullio Padovani, volto a farci riflettere sull’importanza di rendere il carcere meno desocializzante, come unica via possibile di uscita da questi tempi cupi. Ho provato a riflettere su come si possa colmare il divario che ci isola dalla società, cosa significhi, come portare la società dentro il carcere e il carcere fuori. Alla luce anche di un anno appena trascorso che è stato molto importante per me. Sono stato arrestato che ero semianalfabeta, ho incontrato i libri in carcere e solo qui ho imparato una cosa che di solito si impara nel percorso scolastico. Io in carcere ho imparato - pensate un po’ - che ogni essere umano custodisce in sé il bene e il male. Questa cosa, quando gli studenti la apprendono, ci restano male, si sentono mortificati, provano pudore e vergogna a sapere di avere dentro pure il brutto, l’ombra, il buio. Provano repulsione per questa parte di sé, si schifano, si voltano dall’altra parte, convinti di essere assolutamente buoni. Per me, invece, è stato proprio l’inverso, perché quando sono arrivato in carcere ero convinto di custodire in me solo il male, di essere un uomo mal riuscito, “malerba” mi chiamavano e ho detto tutto. Pensavo d’essere un errore su due gambe e senza speranza. E invece qui, in carcere, ho fatto la scoperta più rivoluzionaria della mia vita ed è stato uno dei miei momenti più belli, un tempo intimo in cui per la seconda volta io sono nato. Quel giorno mi sono saputo, ho visto che pure io avevo un corredo completo, che non solo tenevo dentro il male, ma pure il bene. Io che avevo seminato odio e morte, ho intuito di avere in me una possibilità di luce. Tullio Padovani obietterebbe che il merito è dell’individuo, dunque mio e dei miei incontri fortunati, come ha spiegato nel suo breve saggio, e che il carcere non c’entra nulla. Io ho sperimentato questo e penso che il carcere non possa essere abolito se esso è inteso come luogo di redenzione e rinascita, come campo di crescita e di opportunità. Io sono stato condannato, so cosa significhi e per questo non condanno il carcere e vorrei che questo luogo che ha assistito alla mia rinascita potesse rinascere a sua volta come istituzione nuova, con un nome diverso, un luogo fatto di vita e di lavoro. Ritorno al fatto che dovrebbe essere meno desocializzante. È necessario ridurre l’isolamento di noi detenuti e il senso di estraneità e repulsione della società, accorciare l’estraneità reciproca. Come? Ma scusate, voi quando andate a fare una passeggiata, dopo una giornata di lavoro, che fate? Andate al cinema, visitate una mostra, andate in mezzo alla natura, state con le persone care, insomma cercate di aumentare il vostro bene, come è giusto che sia. Nessuno di voi direbbe: ora scendo e mi faccio una passeggiata a guardare cosa c’è nei cassonetti o faccio un salto a vedere la discarica! O mi sbaglio? Il mondo e la vita umana non sono un capolavoro se li guardi dall’immondizia, o no? Qualche settimana fa ho sostenuto l’esame di Antropologia culturale, ho studiato l’antropologo e sociologo Malinowski in maniera più approfondita. Ebbene, egli paragonava la società a un organismo vivente, a un individuo. Se è vero che la società è paragonabile a un individuo, mi spingo a pensare che come lo studente che sui banchi apprende di avere dentro il male e immediatamente rifiuta questa parte di sé, così la società rifiuti questa parte di sé che è il carcere. E lo fa non tanto perché sarebbe come mettersi a guardare cosa c’è dentro una discarica, non solo perché esso raccoglie criminali, rifiuti umani, ma anche perché per la società il carcere è la prova che essa non può fare a meno di produrre malfattori come produce rifiuti, e ancor più perché qui, fra queste mura, essa agisce da criminale, perpetrando il male che dichiara di rifiutare per farsi bella. È nel carcere che la società avvera il suo buio, è qui che con i trattamenti degradanti realizza la sua indole maligna che si ostina a rifiutare. La mia conclusione è che “spem contra spem” è da domani, anzi da subito, educare al male, accogliere la parte rifiutata e riconoscerla, per saperla curare. Racconto ogni volta che posso agli studenti che il motivo per cui ho donato la mia storia è stato di far capire che il male esiste e può coinvolgere ognuno di noi, che non bisogna mai sentirsi immuni, ma sempre avere il coraggio di affrontarsi totalmente. *Ergastolano, intervento al X Congresso di Nessuno tocchi Caino La sicurezza si paga con cattiva moneta di Maurizio Giacobbe Micropolis, 14 gennaio 2024 Il comunicato stampa del Consiglio dei Ministri n°59 del 16 novembre 2023 fa riferimento all’approvazione di tre disegni di legge in materia di sicurezza, difesa e soccorso pubblico. Uno degli aspetti più rilevanti di quello che è stato definito dalla stampa “pacchetto sicurezza” riguarda provvedimenti che prefigurano un differente assetto del sistema penitenziario. Nell’iter legislativo che seguirà, con ogni probabilità alcune norme passeranno in forma attenuata nei loro effetti o non passeranno affatto, resta però evidente che il quadro di riferimento per una revisione del sistema penitenziario si basa, per la destra sovranista e neofascista, sull’introduzione di nuovi reati, sull’aumento delle pene, sulla restrizione dei diritti, su imposizioni arbitrarie, con l’obiettivo di generare nella comunità dei ristretti un’umiliante subordinazione, la perdita di dignità, e in ultima analisi produrre malessere e nuova insicurezza. Per Stefano Anastasia - noto ai lettori per essere stato Garante dei diritti dei detenuti nella nostra regione oltre che cofondatore dell’associazione Antigone e docente di Filosofia e sociologia del diritto presso Unipg - tutto quello che sta scritto in questo disegno di legge è una rassicurazione ai referenti sociali della destra in materia di sicurezza, che sono le organizzazioni sindacali di polizia più ancora che le stesse forze di polizia. L’analisi dei comportamenti sociali, lo studio dei regimi carcerari, la considerazione degli effetti delle politiche securitarie dimostrano che le strette autoritarie, la pressione normativa, l’aumento delle pene al fine di deterrenza sono provvedimenti da sempre inefficaci allo scopo che dichiarano di prefiggersi, cioè garantire la sicurezza del cittadino. Essi anzi suscitano sentimenti di insofferenza e rivolta, perché mirano a comprimere i diritti sanciti dalla Costituzione, per il nostro governo un inciampo di cui liberarsi per dispiegare il suo progetto di società classista, razzista, patriarcale, omofoba, antistorica, nostalgica del fascismo e non solo. Evidentemente non è la sicurezza del cittadino ciò che interessa la compagine governativa ma la possibilità di far pagare la percezione della sicurezza con la cattiva moneta della limitazione delle libertà e dei diritti, primo fra tutti quello al dissenso e alla disobbedienza civile. Semmai ciò che la interessa è la sicurezza delle élite e la loro protezione dai ‘pericoli’ costituiti dalla marginalità sociale, da tenere il più distante possibile dal mondo patinato dei poteri economici e politici e dalle sacche del privilegio. Su questo binario si sono mossi i governi degli ultimi trenta anni, e massimamente il governo in carica, che fin dalle prime battute ha voluto dare il segno di una svolta involutiva, colpendo le fasce deboli (migranti, working poor, percettori del reddito di cittadinanza, ecc.) e provvedendo ad ampliare il ruolo delle carceri come discarica sociale. Che cosa invece debba intendersi per sicurezza, e con quali strumenti la si possa perseguire, lo afferma con chiarezza il primo dei sei punti con cui l’associazione Antigone si oppone al pacchetto governativo: “La sicurezza è una cosa seria e non può essere declinata solo in termini di proibizioni e punizioni. La sicurezza si conquista con inclusione lavorativa e reddito, o erta generalizzata di salute fisica e psichica, città aperte e a disposizione anche nelle ore notturne di donne e uomini, solidarietà sociale verso le fasce più bisognose della popolazione. La sicurezza è prima di tutto sicurezza sociale, lavorativa, umana. Il pacchetto sicurezza del Governo, che fa seguito alle norme già approvate su rave parties, minori e migranti, è una forma di strumentalizzazione delle paure delle persone”. Ma vediamo per punti in cosa consiste questo pacchetto, e quale visione della società vi sia dietro. Più poteri alle forze dell’ordine Innanzi tutto un rafforzamento dei poteri delle forze dell’ordine attraverso un aggravamento della pena per i reati di violenza, minaccia o resistenza ad agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria e la concessione agli agenti di pubblica sicurezza, già autorizzati al porto di un’arma per servizio, di detenere un’arma da fuoco privata, diversa da quella di ordinanza, senza ulteriore licenza. “È un provvedimento che rischia di avere conseguenze gravi. L’unico modo per limitare le morti violente consiste nell’evitare che ci siano armi in giro - afferma Anastasia - si tratta una forma di americanizzazione limitata alle forze dell’ordine (si parla comunque di circa 300 mila persone)”. La vita nelle carceri - La nota più stonata è cosa si deve intendere, e punire, come rivolta. Paradossalmente per parlare di rivolta sono sufficienti la disobbedienza a ordini della polizia penitenziaria o il tentativo di evasione. Qui la questione si fa grottesca perché una tentata evasione è per definizione un’evasione non riuscita e pensare di punirla come rivolta contraddice al principio per il quale non si può essere puniti due volte e per due delitti diversi a causa della stessa condotta. Se abbiamo in mente le immagini o i resoconti delle rivolte degli anni 70 e 80, coi detenuti sui tetti degli istituti di pena, con i materassi bruciati nelle celle, con gli agenti presi come ostaggi siamo molto lontani dalla realtà che si prefigura. “La previsione del reato penale di rivolta in carcere - ricorda Anastasia - diventerebbe applicabile anche al caso di 3 persone per resistenza passiva, quindi un’attività assolutamente non violenta: il caso tipico sono i detenuti che si rifiutano di rientrare in cella all’orario della loro chiusura oppure si rifiutano di tornare dall’aria perché stanno protestando, per esempio, perché non funziona il riscaldamento”. La pena è da 2 a 8 anni per chi la organizza e da 1 a 5 anni per chi vi partecipa. Un detenuto entrato in carcere per scontare qualche mese per un furto semplice, coinvolto in una protesta o in una disobbedienza del genere, ci potrebbe restare per quasi un decennio, senza poter avere accesso ai benefici penitenziari, in quanto la rivolta viene parificata ai delitti di mafia e terrorismo. Il governo, insomma, ha deciso di stravolgere il modello penitenziario repubblicano e costituzionale, ricollegandosi al regolamento fascista del 1931. Il crimine di rivolta carceraria, così come delineato all’interno del pacchetto sicurezza, sarà una minacciosa arma sempre carica puntata contro tutta la popolazione detenuta. Ci sono poi norme riconducibili alle campagne elettorali della destra, come la carcerabilità della donna incinta, su cui ha fatto campagna Salvini contro le borseggiatrici milanesi in metropolitana. Questo riguarda solo le donne che devono andare in esecuzione penale e che avevano la sospensione obbligatoria se incinte o madri, fino a un anno di pena. Per la custodia cautelare esisteva già la possibilità dell’esecuzione in carcere per la donna incinta in casi di particolare gravità. L’estensione odierna è per le donne che sono già state condannate. Questa è una norma che stava già nel codice Rocco, in epoca fascista. Una norma che sollecita la convinzione (errata) che vi siano zone di impunità ed è scritta espressamente contro le giovani donne Rom. Le già citate norme a tutela dei poliziotti che va propagandando Delmastro in giro per le carceri italiane (l’inasprimento delle pene per resistenza a pubblico ufficiale se fa parte delle forze dell’ordine) sono legate all’ambiente penitenziario per il clima di conflittualità che il governo sta alimentando: “ci sono una serie di cose che loro hanno fatto, come il rientro in carcere dei detenuti in semilibertà usciti per alleggerire il sovraffollamento in tempo di pandemia o come la revoca delle telefonate straordinarie (anch’esse attivate in tempo di covid), o la circolare sulla media sicurezza che obbliga i detenuti a restare chiusi in stanza se non vanno a fare la socialità, che surriscaldano il clima in carcere, di cui i detenuti subiscono le conseguenze penali se succede qualche casino, che io credo sia inevitabile. Ci sarà chi continuerà, per questa via, a caricarsi di nuovi reati e a perdere la prospettiva dell’uscita, e la gestione di queste persone diventerà sempre più difficile. Il sistema penitenziario italiano dopo gli anni 70 e i primi 80, è stato pacificato con la prospettiva della liberazione anticipata per buon comportamento e questo è andato avanti fino alle rivolte per il covid, ma quelle avevano una ragione contingente. Ora il rischio è che diventi uno stato di tensione permanente”. Un bavaglio per frenare le lotte sociali Il decreto introduce una nuova fattispecie di reato per contrastare le occupazioni abusive, che prevede una pena compresa tra 2 e 7 anni di reclusione per chi, con violenza o minaccia, detiene senza titolo un immobile altrui o impedisce il rientro nell’immobile del legittimo proprietario o conduttore. Dagli anni 70 le lotte per il diritto alla casa trovano concretezza nell’occupazione degli immobili sfitti, spesso appartenenti a enti o a società immobiliari che speculano sul loro abbandono (mancato utilizzo e conseguente degrado) per rendere possibili impieghi diversi da quello abitativo o trasformazioni anche radicali della proprietà. Le nuove norme prevedono poi la possibilità di intervenire con celerità nello sgombero degli immobili occupati anche per intervento diretto e immediato delle forze di polizia che raccolgono la denuncia, salvo successiva convalida del giudice. In direzione analoga, cioè per tagliare le gambe alla protesta su temi di rilevanza sociale, va anche la norma contro i blocchi stradali, che diventerebbero reato nel momento in cui risultassero particolarmente allarmanti, sia per la presenza di più persone, sia per essere stati promossi e organizzati preventivamente. Fino ad oggi i blocchi sono stati puniti con una sanzione amministrativa. Giustizia e informazione, il potere vuole la sordina di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 14 gennaio 2024 Un filo lega diverse iniziative legislative del governo o di parlamentari della maggioranza. È l’insofferenza verso la informazione fornita dai media al pubblico. Non per la valanga di notizie e fotografie che svelano i segreti di attrici e calciatori, né tutto sommato per le notizie e dettagli di cronaca nera o rosa riguardanti persone comuni. La reazione riguarda piuttosto le rivelazioni, spesso tratte da indagini penali, su personaggi che sono variamente parte del Potere: il potere politico, quello altrimenti pubblico, quello economico, quello comunque influente nella società. Può essere inevitabile, ma rilevarlo serve a inquadrare il fenomeno. Non da ora, si usa il nobile richiamo alla costituzionale presunzione di non colpevolezza per impedire la circolazione delle notizie tra il vasto pubblico (nei corridoi del Palazzo è altra cosa). Adesso però, più che per la presunzione di non colpevolezza (che riguarda il solo indagato o imputato nel procedimento penale, fino alla eventuale condanna definitiva), si interviene nel campo del diritto al rispetto dell’area di riservatezza che è propria di ciascuno. Infatti, la imposizione di nuovi segreti e divieti di pubblicazione riguarda notizie relative ai non indagati. Non si tratta - per questo aspetto - di un attacco alla magistratura e alla sua funzione, ma di un problema che tocca tutti e ciascuno, perché impedisce alla stampa di svolgere la sua essenziale funzione di informazione, pilastro della democrazia. La libertà di stampa e di espressione comprende il diritto a ricevere le informazioni. Questo spetta a tutti, ma può confliggere con il diritto di ciascuno a veder rispettata l’area di riserbo che tocca la vita privata. Si crea così un conflitto tra diritti: entrambi hanno fondamento nella Costituzione e nelle fonti internazionali, come, in particolare, la Convenzione europea dei diritti umani. Il criterio fondamentale per risolvere il contrasto è quello della proporzione: proporzione nel ritenere esistente l’interesse pubblico alla notizia, proporzione nel decidere se, come e quando pubblicarla, con quale titolo, eccetera. È un dato acquisito che è decisivo non solo il contenuto della notizia, ma anche la personalità più o meno pubblica di chi ne è coinvolto. L’interesse per un dibattito utile alla formazione dell’opinione pubblica in una società democratica è però cosa distinta dalla curiosità del pubblico. Il primo e non la seconda prevale sul diritto delle persone al rispetto di ciò che riguarda la vita privata. Caso per caso la valutazione di proporzionalità può essere difficile e controvertibile nei suoi risultati. Ma essa è indispensabile e il giornalista deve farsi guidare dalle regole deontologiche della sua professione. Si tratta di un esercizio difficilmente disciplinabile con il divieto di pubblicare questa o quella categoria di atti o tipologia di notizie, definite in astratto. Avviene invece ora che la protezione dell’interesse di singoli non indagati, ma coinvolti in un procedimento penale (testimoni, interlocutori in una conversazione intercettata, ecc.), venga fatta prevalere alla cieca su ogni altra considerazione di interesse pubblico. Così si vuole adesso eliminare ogni dato che consenta di identificare soggetti diversi dalle parti nel procedimento (forse sarà solo nelle trascrizioni di intercettazioni). Ma non si considera che il senso e la credibilità di una informazione sono legati alla identità di chi la fornisce, cosicché la eventuale pubblicazione anonima risulta alterata. In ogni caso, contro diffusa prassi giornalistica, anche gli indagati e le parti offese in una indagine o processo penale hanno diritto al rispetto della loro vita privata, ogni volta che non prevalga l’interesse pubblico alla conoscenza. E ora si vuole anche rendere non pubblicabile la motivazione di provvedimenti del giudice di limitazione della libertà personale con le misure cautelari (in carcere o diverse). Ma in tal modo di apre una diversa ragione di dissenso, non più legata ai limiti della protezione di ciò che attiene alla vita privata dei singoli. La motivazione dei provvedimenti sulla libertà personale è una garanzia imposta dalla Costituzione. La conoscenza della motivazione e la sua critica da parte della opinione pubblica è fondamentale condizione che rende possibile il controllo sul funzionamento delle procedure giudiziarie: in questo caso, nello scontro tra il potere dello Stato e il diritto individuale alla libertà. Impedire la conoscenza della motivazione porterebbe a giornali che danno notizia che Tizio è stato portato via da casa: non si sa perché. Stupisce che una simile idea venga proposta da chi si dice liberale. Più in generale, si adotta un meccanismo perverso. Accade - occorre tenerne conto - che in provvedimenti giudiziari e in articoli nei media vi sia qualcuno che straparla o deborda. Invece che lavorare per contrastare questa realtà, per legge si impone: tutti zitti! Nordio e la stretta sui cellulari: pronto un nuovo disegno di legge che ridurrà i dati replicabili di Francesco Grignetti La Stampa, 14 gennaio 2024 Nel mirino l’uso dei cosiddetti “trojan” e i messaggi inoltrati. Prossimo passo, la stretta sugli smartphone. Nel senso che i magistrati, quando avranno in mano il cellulare di un indagato, non potranno più rovesciarlo come un calzino e tirarne fuori a loro discrezione tutti gli elementi che ritengono utili alle indagini. Sta per arrivare un nuovo ddl del ministro Carlo Nordio che pone una serie di paletti nel segno del garantismo. Non tutto quel che c’è nei telefonini potrà essere duplicato, non tutte le comunicazioni o le informazioni immagazzinate saranno utilizzabili come prova. Questo nuovo capitolo, il ministro l’ha annunciato in Parlamento due giorni fa. Ci saranno regole più stringenti sull’uso dei trojan: “Un vulnus enorme alla nostra privacy, all’articolo 15 della Costituzione”. E ci sarà anche un’attenzione particolare agli smartphone sequestrati. “Il cellulare - ha detto infatti Nordio, in risposta a una interrogazione del senatore Pierantonio Zanettin, Forza Italia - non è più un documento, è una vita. Non contiene solo le sue conversazioni con i suoi interlocutori, ma le conversazioni degli altri interlocutori con altri interlocutori, che vengono poi trasferite attraverso quel sistema di inoltro (si chiama così) per il quale sequestrando un cellulare del signor Muzio Scevola, non si sequestra soltanto la vita di Muzio Scevola, ma anche quella di Furio Camillo, di Tizio, Caio, Sempronio e Martino”. E par di capire, insomma, che ci sarà un trattamento specifico per le chat che coinvolgono più persone. Il provvedimento ha la strada spianata, politicamente parlando. Qualcosa il ministro l’aveva accennata già a dicembre, dal palco di Atreju, che è il palcoscenico più caro a Giorgia Meloni. “Sequestrare un telefonino - disse il ministro - è sequestrare una vita, in quanto ormai è pieno di atti riservati, anche se per fortuna la Consulta ha fatto piazza pulita sulla corrispondenza”. Si riferiva alla recente sentenza della Corte costituzionale sul caso Renzi che ha chiarito definitivamente come un messaggio Whatsapp vada equiparato a corrispondenza (il cui segreto è tutelato dalla Costituzione, e può essere violato dal magistrato solo con atto motivato) e non è un semplice pezzo di carta dimenticato in un cassetto, acquisibile per le vie brevi. Stavolta la maggioranza di destra-centro pare davvero compatta. Il ddl del ministro ricalcherà infatti la Relazione conclusiva di Giulia Bongiorno, votata al termine di una indagine conoscitiva sulle intercettazioni, svolta al Senato nei mesi scorsi. Scriveva l’esponente leghista: “Un’immagine o una localizzazione geo-satellitare oppure l’acquisizione occulta di chat pregresse contenute in uno smartphone, si ritiene possano essere considerati documenti informatici acquisibili ex articolo 234 del codice di procedura penale”. E qui, dietro la citazione al codice, c’è il vulnus alle garanzie perché con il 234 si acquisisce e basta. Ma questa prassi, secondo la commissione Giustizia del Senato, considerando le nuove tecnologie, “rasenta la piena libertà di investigazione info-telematica”. Il garantista Nordio annuncia quindi una “rivoluzione copernicana”. Si passerà dall’acquisibile tutto e liberamente, al pochissimo e solo con decreto motivato di un giudice. L’indagato, inoltre, potrà realizzare anche una copia dei dati che si trovano sul cellulare, al fine di verificare se ci sono state manomissioni. Perché questo è il sospetto brandito contro gli investigatori: il trojan - come ha verificato l’indagine conoscitiva del Senato - può acquisire a distanza innumerevoli dati presenti nel telefono bersaglio, tra cui anche le vecchie fotografie, pure quelle conservate nel cloud. “Una vera e propria perquisizione del dispositivo cellulare senza la necessità di sequestro del dispositivo, con le successive verifiche”. E ancora non si è parlato della intelligenza artificiale e della sua capacità di creare foto o audio più veri del vero. Bavagli, ddl Nordio, test ai pm: l’assalto alla Giustizia a tappe di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 14 gennaio 2024 Governo Meloni. Decreti e progetti di legge: a che punto sono le norme della destra. Se il buongiorno si vede dal mattino, allora il governo Meloni (con renziani e calendiani) ha fatto capire subito di avere a cuore l’impunità dei colletti bianchi più di ogni altra cosa. Con norme già approvate e con tutte quelle che sono in discussione tra Senato e Camera. Ricostruiamo contenuti e calendario. Il primo decreto. L’anti-rave con l’ostativo Il decreto legge dell’ottobre 2022 noto come “anti Rave” nato per punire i raduni illegali è stato convertito in legge a novembre 2022. Per l’occasione i reati contro la Pubblica amministrazione sono stati cancellati dall’elenco dei reati ostativi ai benefici penitenziari, persino in caso di associazione a delinquere. In più ai mafiosi detenuti non conviene più collaborare: è imposto l’obbligo di specificare tutto il patrimonio occulto e in caso di dichiarazioni mendaci è prevista la revoca di tutti i tipi di benefici mentre coloro che non collaborano possono restare zitti senza rischiare nulla. I danni della Cartabia sanati solo in parte Sulla riforma Cartabia, che ha reso procedibili solo con la querela di parte reati gravi come il sequestro di persona “semplice”, le minacce, la violenza privata e le lesioni, il governo è intervenuto con una legge approvata definitivamente in Senato a maggio che però sana in minima parte i danni della Cartabia. Resta un’amnistia mascherata: la procedibilità d’ufficio torna in vigore solo in caso di aggravanti di mafia e terrorismo. Il bavaglio #1 “A strascico” Sono già state approvate alcune norme che depotenziano lo strumento delle intercettazioni. Stop a quelle “a strascico”, cioè divieto di usarle per un procedimento diverso da quello per cui si procede, anche di fronte a un nuovo reato a meno che sia previsto l’arresto in flagranza. “Scudati” così i crimini dei colletti bianchi. E ancora: vietato inserire nel verbale di trascrizione delle intercettazioni quelle considerate “irrilevanti” ai fini dell’indagine, il pm dovrà scrivere quanto ha speso per ogni intercettazione. Le norme sono state inserite nel decreto Omnibus approvato in via definitiva dal Senato a ottobre Bavaglio#2 il decreto Costa Con un blitz natalizio dell’ex forzista ora Azione Enrico Costa e la benedizione del governo è stato approvato dalla Camera il divieto di pubblicare le ordinanze di custodia cautelare. Una norma ad alto rischio di incostituzionalità. Ora è in sede referente in Commissione politiche della Ue in Senato. Dopo il via libera il governo dovrà varare un decreto legislativo. Il piano Nordio. Smantellare tutto Il colpo di spugna in più direzioni ha spadroneggiato nella settimana politica appena conclusa. È stato cancellato il reato di abuso d’ufficio, svuotato quello di traffico di influenze, avallati altri interventi anti intercettazioni. Sul fronte intercettazioni, non potranno più essere riportate quelle di non indagati, a meno che siano “rilevanti” e quindi tutto è affidato alla discrezionalità della polizia giudiziaria che ascolta. Stesso divieto per le richieste dei pm di misure restrittive. Una norma pensata dopo l’indagine a carico di Tommaso e Denis Verdini, “cognato” e “suocero” del ministro delle infrastrutture Matteo Salvini, non indagato. I giornalisti non potranno pubblicare a meno che il materiale si trovi nei provvedimenti dei giudici o in dibattimento. Inoltre, approvato un ordine del giorno leghista per abolire la norma della legge Severino che sospende gli amministratori per 18 mesi se condannati in primo grado. Ci sono poi altre norme che aiutano gli indagati: prima fra tutte quella che obbliga il pm (tranne in determinati casi) di avvisare cinque giorni prima una persona che deve essere arrestata per poter essere interrogata. Sull’arresto decideranno tre giudici e non più il gip. E ancora: divieto di impugnazione per il pm, in molti casi, delle sentenze di assoluzione in appello. Il ddl Nordio è in votazione alla commissione Giustizia del Senato. Dopo il voto in aula, si passerà alla Camera. Prescrizione. Il rimedio preferito Al macero la legge Bonafede blocca prescrizione del 2019, in vigore ancora per il primo grado (prima del governo Draghi era blocco definitivo) e pure quella Cartabia, che prevede l’improcedibilità nei processi di appello e Cassazione, se non si concludono rispettivamente entro due ed entro un anno. Ora si cambia di nuovo: sospensione della prescrizione per 2 anni dopo la condanna in primo grado e per 12 mesi dopo la conferma della condanna in appello. Se la sentenza di secondo grado non sarà emessa nei tempi previsti, la prescrizione riprenderà il suo corso. La sesta commissione del Csm, all’unanimità, ha votato un parere che chiede una norma transitoria e concorda con i presidenti delle Corti d’Appello che hanno scritto al ministro Nordio per annunciare il caos degli uffici giudiziari se non si chiariranno vari aspetti tecnici. La riforma, votata in commissione Giustizia della Camera, dopo l’aula il voto a Montecitorio è in programma martedì) andrà in Senato. Il vecchio sogno. La separazione delle carriere Il ddl non solo separa le carriere di pm e giudici, come sognava Berlusconi, ma pensa anche a due Csm distinti e all’aumento del numero dei consiglieri laici di nomina politica. Inoltre, potranno esserci magistrati di nomina politica, indicati dal Parlamento. Il ddl è in discussione nelle commissioni congiunte Affari costituzionali e Giustizia della Camera. Pagelle e test. Il fascicolo dei magistrati Il lavoro cominciato dal governo Draghi è stato portato a termine dal governo Meloni e il decreto legislativo delegato dal Parlamento al ministro Nordio sul fascicolo del magistrato con tanto di pagelle è pure peggiorativo. La bocciatura di una toga, che vuol dire carriera stroncata, sarà molto più facile: il rischio concreto è che, soprattutto i giovani pm, per paura di avere la carriera danneggiata o peggio, di perdere lavoro e stipendio, eviteranno di condurre inchieste scomode contro politici e colletti bianchi. Sulle “pagelle” dei magistrati che avranno i voti come gli scolari (“buono”, “discreto”, “ottimo”, “non positivo”, “negativo”) potranno intervenire anche gli avvocati nei Consigli giudiziari, gli organi territoriali del Csm. Il decreto delegato è in commissione Giustizia della Camera. È stato approvato dal Cdm a novembre senza i prospettati test psicoattitudinali per i magistrati, ma in questi giorni sono tornati in agenda. È l’idea del Piano di Rinascita di Licio Gelli. Ufficio del processo. La carenza di personale amministrativo rischia di farci perdere i fondi Pnrr di Paolo Pandolfini Il Riformista, 14 gennaio 2024 Per fare il punto sulla carenza di personale amministrativo negli uffici giudiziari, Alleanza Verdi e Sinistra ha organizzato per lunedì prossimo presso la Sala stampa della Camera una conferenza stampa a cui prenderanno parte, oltre ai vertici della Funzione pubblica Cgil, il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia ed il capo dipartimento dell’Organizzazione giudiziaria, il giudice Gaetano Campo. Il tema, va detto subito, è di grande attualità ed è ai primi punti dell’agenda del Guardasigilli Carlo Nordio. Per far fronte alla carenza di personale amministrativo ed affiancare i magistrati nella redazione delle sentenze, nella scorsa legislatura era stato ideato “l’Ufficio del processo”. La task force, sulla carta composta da ben 16mila giovani neolaureati, non solo in giurisprudenza ma anche in economia, informatica e scienza politiche, assunti con contratto a termine di tre anni ed uno stipendio netto di circa 1700 euro al mese, avrebbe dovuto abbattere l’arretrato e permettere così all’Italia di ottenere i fondi del Pnrr. Ad oggi però l’Ufficio del processo si è rivelato un mezzo flop, con solo la metà dei posti che sono stati coperti. Questi giovani, pur volenterosi, si sono trovati dalla sera alla mattina nella trincea dei tribunali senza una formazione specifica. L’attività del giudice ordinario, esame del fatto, applicazione del diritto, motivazione dei provvedimenti, non è quella del giudice della Corte costituzionale, da dove veniva la ministra Marta Cartabia, la prima fautrice dell’Ufficio del processo. Alla Consulta il giudice può anche fare il supervisore dei suoi assistenti di studio a cui delegare tronconi della propria attività (a un componente dello staff l’istruttoria, a un altro la ricerca giuridica, a un altro ancora la scrittura della bozza del provvedimento) per poi compiere egli la sintesi finale. Nei tribunali è diverso. Anche perché i ritmi di lavoro non sono confrontabili. Il risultato è stato che lo scorso anno il ministro degli Affari europei Raffaele Fitto fu costretto ad annunciare che il target della riduzione del 65% delle cause pendenti entro il prossimo 31 dicembre, concordato con Bruxelles, sarà impossibile da raggiungere. Anzi, in circa 50 tribunali, fra cui i più importanti del Paese, Bologna, Milano, Roma, Napoli, l’arretrato invece di diminuire starebbe addirittura aumentando. Per correre ai ripari con il recente Milleproroghe si è allora deciso di procrastinare di due anni la scadenza del loro contratto, con il concreto rischio in futuro di rivendicazioni per una stabilizzazione a tempo indeterminato. Il Pnnr, riguardo la lentezza processi ritenuta “eccessiva”, aveva previsto che dovesse “essere maggiormente contenuta con interventi di riforma processuale e ordinamentale”. “A questi fini “ si poteva leggere nella nota inviata alla Commissione europea “ è necessario potenziare le risorse umane e le dotazioni strumentali e tecnologiche dell’intero sistema giudiziario”. Il “fattore tempo” doveva allora essere affrontato tramite riforme tecnico-processuali, e quindi a costo zero. Le risorse stanziate per il comparto giustizia furono destinate esclusivamente alla creazione dell’Ufficio per il processo da intendersi come “un team di personale qualificato di supporto, per agevolare il giudice nelle attività preparatorie del giudizio”, quali “ricerca, studio, monitoraggio, gestione del ruolo, preparazione di bozze di provvedimenti”. Niente di specifico venne dedicato invece alla digitalizzazione dei tribunali. Sarebbe allora opportuno, vista la drammatica situazione, cominciare a prendere in seria considerazione l’utilizzo dell’Intelligenza artificiale nel settore giustizia. “Gli avvocati dello Stato stanno difendendo la Germania e non le vittime delle stragi nazifasciste” di Franco Corleone L’Espresso, 14 gennaio 2024 La Corte costituzionale ha risolto il contrasto tra diritti umani e immunità di un Paese straniero, offrendo soluzione alle cause di risarcimento per i crimini di guerra. Ma i legali che rappresentano la nostra Repubblica tradiscono il diritto. Agghiacciante. Solo così si può definire quello che sta accadendo nei tribunali civili italiani, da Firenze a Udine, da Pordenone a Trieste, nelle cause di risarcimento per le stragi nazifasciste accadute tra il 1943 e il 1945. Gli avvocati dello Stato stanno adottando tecniche dilatorie insulse, dalla messa in discussione di fatti storici acclarati all’evocazione della prescrizione, dall’offerta di una elemosina alle vittime alla messa in discussione della titolarità nel processo dei parenti delle vittime. La cosa davvero inaudita è rappresentata dal fatto che alcuni avvocati hanno avuto l’ardire di prendere le parti della Germania, dimenticando di dover rappresentare le ragioni dello Stato italiano, di dover rispettare la legge e di tutelare i diritti dei cittadini che attendono giustizia da troppo tempo. Dopo la sentenza della Corte costituzionale che il 4 luglio decise sulla legittimità del Fondo “ istituito dal governo Draghi “ per il ristoro dei crimini di guerra e contro l’umanità compiuti dalle forze del Terzo Reich, le cause impantanate avrebbero dovuto assumere un iter rapido avendo trovato una soluzione per conciliare questioni contrastanti, da una parte il principio della tutela assoluta dei diritti umani e dall’altra la controversia con la Germania fondata sulla norma consuetudinaria di diritto internazionale sull’immunità di uno Stato dalla giurisdizione di un altro Stato. La Consulta ha sottolineato che la legge 79 del 29 giugno 2022 ha individuato una “disposizione speciale e radicale” con una norma “virtuosa anche se onerosa” capace di chiudere un contenzioso infinito attraverso l’istituzione di un Fondo indicato come il soggetto che si assume la copertura dei crediti risarcitori. Finalmente il tribunale di Firenze emanava due importanti sentenze il 9 novembre 2023, riguardanti l’uccisione di Egidio Gimignani e di Giuliano Lotti avvenute nel giugno e luglio 1944 a Tavarnelle Val di Pesa con l’esplicita condanna della Repubblica federale tedesca e la definizione di un risarcimento a carico del Fondo. Le motivazioni erano fondate sulle previsioni della legge e della sentenza della Corte costituzionale. Inopinatamente l’avvocato dello Stato Piercarlo Pirollo ha interposto appello affastellando argomentazioni che fanno a pugni con i riferimenti normativi e giurisprudenziali, chiedendo di escludere la Germania come parte. In particolare, viene trascurata la decisione della Consulta che ha confermato l’eccezione umanitaria in presenza di crimini di guerra e contro l’umanità e anche la giurisdizione nazionale, per cui nelle cause civili la Germania può essere condannata per i fatti accertati e il rimedio congruo deve essere assolto dal Fondo gestito dal ministero dell’Economia. La contraddizione è patente con l’affermazione dell’avvocatura dello Stato espressa nel giudizio davanti alla Corte costituzionale che si riferì alle vittime come “carne viva, non di creditori”. Che fare? I sindaci di Sant’Anna di Stazzema e di Marzabotto hanno scritto al presidente Mattarella esprimendo un profondo sdegno. Tocca alla presidenza del Consiglio e in particolare al sottosegretario Alfredo Mantovano mettere ordine per evitare interpretazioni confuse e distorte. Lo Stato non può coprire le stragi e offendere le vittime, privandole di giustizia. Vicenza. Un 26enne di origine nigeriana si è suicidato in cella di Matteo Bernardini Giornale di Vicenza, 14 gennaio 2024 Si trovava in carcere a Vicenza da settembre, dopo l’arresto nell’operazione anti-droga coordinata dalla Dda di Venezia. Si è impiccato nel carcere “Del Papa” di San Pio X la notte di Natale. Chris Lucky aveva 26 anni, era un cittadino di origine nigeriana e si trovava in cella dal settembre scorso quando era stato arrestato assieme a un’altra ventina di connazionali accusati di far parte di un’associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga. Di loro, dieci, tutti detenuti nel penitenziario cittadino, erano poi stati scarcerati a novembre. Rimessi in libertà perché gli avvocati difensori erano ricorsi al Tribunale del riesame chiedendo l’annullamento (poi ottenuto) della misura cautelare disposta dal giudice per le indagini preliminari del tribunale di Venezia, Luca Marini. Per il Riesame infatti quell’ordinanza altro non era che un banale copia-incolla della richiesta cautelare della procura. E quindi per i dieci presunti spacciatori si erano aperte le porte del carcere, ma questa volta per uscire. Lucky invece, che era stato trasferito a Vicenza da Milano, era rimasto in cella. Dove la notte di Natale si è tolto la vita impiccandosi alle sbarre della sua “stanza” da cui non riusciva più a intravedere alcuna prospettiva. Ritrovamento e autopsia - Ad accorgersi del corpo, ormai privo di vita, del giovane detenuto sono stati gli agenti penitenziari che la sera della vigilia di Natale erano di turno. Il loro intervento è stato immediato, ma ormai non c’era più nulla da fare. Per Chris Lucky era troppo tardi. Sul posto sono intervenuti anche i sanitari del Suem 118 e del decesso - come da prassi - è stata prontamente informata la procura. Che ha poi deciso di disporre l’autopsia sul corpo del 26enne, nonostante sulle cause del decesso - e sulle modalità con cui è avvenuto - non paiano esserci dubbi, tanto che sul caso non sarebbe stato aperto alcun fascicolo. Si è trattato insomma di un gesto volontario dettato dalla disperazione. Gli avvocati - Chris Lucky era co-difeso dagli avvocati Massimo Rizzato e Matilde Greselin. “La notizia della morte di Chris è stata uno choc. Un dramma - ripete l’avvocato Greselin - Stavamo lavorando al suo caso. Personalmente ero arrivata dopo il Riesame perché prima Chris era stato seguito da un collega di Milano. In carcere lo avevo visto diverse volte, ma non ho mai avuto la percezione che potesse accadere quello che poi è avvenuto. La situazione nelle carceri è drammatica, spero si possa arrivare quanto prima a una revisione delle strutture penitenziarie. Così non si può più continuare. Ora, purtroppo, posso solo aiutare la famiglia di Chris, con cui sono stata messa in contatto, a dargli una degna sepoltura”. Agrigento. Si uccide in cella presunto boss di origini calabresi di Antonio Morello Gazzetta del Sud, 14 gennaio 2024 Ha preso il lenzuolo del letto della sua cella, se l’è legato attorno al collo e s’è impiccato. Così, due giorni fa, si sarebbe suicidato Fabrizio Pullano, 59enne di Isola Capo Rizzuto, ristretto nel padiglione di alta sicurezza del carcere di Agrigento, “Pasquale Di Lorenzo”, dov’era detenuto in seguito al suo coinvolgimento nell’inchiesta “Garbino” coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro. A scoprire il corpo senza vita di Pullano, che lascia la moglie e tre figli, sono stati gli agenti della Polizia penitenziaria che hanno allertato subito i soccorsi. Ma per la vittima non c’è stato nulla da fare. Al momento non si conoscono le motivazioni e i dettagli del tragico gesto compiuto dal 59enne di Isola, ma la Procura della Repubblica di Agrigento ha aperto un’inchiesta per fare luce sull’accaduto e i cui sviluppi vengono seguiti da vicino anche dagli avvocati, Pasquale Lepera e Tiziano Saporito, che assistono i familiari di Pullano. Ancona. Detenuto tossicodipendente muore in carcere, da giorni soffriva di crisi di astinenza osimooggi.it, 14 gennaio 2024 Sami Ezzine, arrestato il 3 gennaio scorso per possesso di eroina, ha iniziato ad accusare malori improvvisi e ripetuti già a partire dal 5 gennaio, tanto da suggerire e richiedere, più volte, il trasferimento in pronto soccorso. Una crisi lo ha colpito anche in Tribunale, al momento della convalida dell’arresto, con l’udienza slittata di quasi un’ora per consentire ai sanitari le cure del caso: una terapia farmacologica che ha solo rinviato il momento del decesso di qualche giorno. A vederlo vivo per l’ultima volta, mercoledì mattina, l’avvocato difensore Bernardo Becci di Ancona con il quale ha lamentato sospetti dolori alle gambe, segnale a cui non è stato dato troppo peso. Così giovedì sera, prima di mezzanotte, l’uomo si è sentito nuovamente male. A dare l’allarme, tempestivo, hanno provveduto stavolta i due compagni di cella che, compresa la gravità della situazione, hanno allertato subito i soccorsi, rivelatisi inutili. La salma di Sami Ezzine, che aveva 47 anni, è stata posta sotto sequestro da Paolo Gubinelli, magistrato di turno che ha disposto l’autopsia sul cadavere. Ivrea (To). È morto “Vespino”, caporedattore de “La Fenice”, il giornale del carcere di Liborio La Mattina giornalelavoce.it, 14 gennaio 2024 La Procura di Ivrea ha disposto l’autopsia per accertare la causa del decesso. Si firmava “Vespino” e con questo suo pseudonimo scriveva tanto, ma proprio tanto. L’ultimo suo articolo, sulla rivista online “La Fenice” del carcere di Ivrea, risale al 9 gennaio. Tre giorni dopo “Vespino”, 47 anni, è morto. Quando la notizia è cominciata a circolare da una cella all’altra, alla velocità della luce, in molti han cominciato a piangere. A piangere di brutto. Per quello che lui rappresentava lì. E lì quel che sei stato fuori, quello che hai combinato nel mondo reale, proprio non conta. Lì Vespino faceva il caporedattore. Un leader che cercava di portare avanti, con una incredibile passione, il lavoro nel suo insieme, trascinando e spronando gli altri a scrivere sempre di più e sempre meglio. Dicono che Vespino sia morto per “embolia polmonare” e in effetti “Vespino”, stando ai racconti di chi lo conosceva, da più di una settimana stava male e giorno dopo giorno era peggiorato sempre di più. Faceva fatica a camminare, respirare, muoversi. Aveva dolori in ogni parte del corpo. Nelle ultime ore le labbra erano diventate viola e il colore della sua pelle biancogiallastra. Tutto molto strano considerando che solo qualche giorno prima che si ammalasse, sano come un pesce, aveva giocato a calcio per due ore senza alcun problema. Vespino è morto ed è subito diventato un numero, nel conteggio che si fa di chi passa a migliore vita in carcere. E per la cronaca, fredda e severa solo in questi casi, Andrea Pagani Pratis era semplicemente uno che stava scontando una condanna a 18 anni di reclusione. Uno che prima dell’arresto, faceva l’insegnante di educazione fisica. Fine della notizia. Insomma fuori dal carcere qualcuno ha detto “Amen”, là dentro, invece, in molti han cominciato a borbottare, a farsi delle domande sul senso della propria esistenza e della vita, puntando il dito sulle responsabilità di chi nell’area medica ha preso quel malessere sottogamba facendolo passare per una semplice influenza. “L’ultima volta che è sceso in infermeria - dice e scrive La Fenice - l’hanno dovuto accompagnare. Il dottore gli ha detto: prenditi una Tachipirina ed un Brufen e vedrai che ti passa... Perché i dottori tendono sempre un po’ a sottovalutare le lamentele dei detenuti, pensando che esagerino... Quel dottore ... dovrà come minimo fare i conti con la propria coscienza”. Ebbene sì! Vespino non stava esagerando. Sarebbe bastata un’analisi del sangue per capirlo. Ancona. Detenuto morto suicida in cella. I Centri sociali: “Il Garante dei diritti ora si dimetta” di Pierfrancesco Curzi Il Resto del Carlino, 14 gennaio 2024 Un centinaio di manifestanti si sono ritrovati in piazza Cavour dove c’è la sede regionale dell’ente “Giancarlo Giulianelli è incapace e insensibile, dichiarazioni allucinanti. In carcere ci sta chi non dovrebbe”. Lo striscione realizzato dai centri sociali delle Marche riportava lo slogan “Verità e giustizia per Matteo Concetti” durante il corteo che ha sfilato lungo corso Garibaldi. Un centinaio di manifestanti si sono ritrovati ieri pomeriggio in piazza Cavour per denunciare a modo loro la tragedia del 25enne che nei giorni scorsi si è tolto la vita all’interno del carcere di Montacuto. Una morte, quella del giovane anconetano che ha scosso le coscienze. La scelta di manifestare in piazza Cavour non è stata casuale. I centri sociali hanno voluto indirizzare la loro rabbia contro il Garante per i detenuti delle Marche, l’avvocato Giancarlo Giulianelli, la cui sede dell’ufficio è proprio all’interno del Palazzo delle Ferrovie, sede dell’Assemblea legislativa e dell’ombudsman delle Marche: “Si deve dimettere “ è stato l’attacco frontale dei leader dei movimenti antagonisti “ Le sue dichiarazioni dopo la morte di Matteo sono state allucinanti, specie quando ha detto di non essere a conoscenza della situazione di quel ragazzo, di aver negato l’invio di mail e pec da parte della famiglia per segnalare i pericoli. È incapace, insensibile ed è stato messo lì dalla destra. In carcere ci sta chi non dovrebbe, a Montacuto soltanto il 5% dei detenuti riesce a entrare nei percorsi di recupero. Il sistema va cambiato alla radice”. Tra gli interventi ha colpito molto quello di Alì, un ex detenuto di origini nordafricane che a Montacuto ci ha passato diverso tempo: “Il carcere è una rappresentazione della vita qui fuori, ci sono le stesse paure, con la differenza che lì dentro non puoi scappare. Le guardie penitenziarie sono poche rispetto al numero dei detenuti? Sicuramente, ma il problema non è quello, quanto la totale mancanza di umanità da parte loro nei confronti dei detenuti e io posso parlare per esperienza diretta. Quando scoppiano le risse negli spazi comuni o le liti dentro le celle loro lasciano fare”. Particolarmente accorata la testimonianza di una giovane studentessa che ha voluto prendere la parola: “La notizia della morte di quel ragazzo mi ha fatto stare male. Storie del genere non possono accadere, Matteo non doveva stare in carcere. Lottiamo tutti per i nostri diritti” è stato l’appello della giovanissima. Durante il sit-in di protesta c’è stato spazio per l’associazione Antigone che si occupa da anni e in tutta Italia dei diritti dei detenuti. Una rappresentante regionale di Antigone, Monia Caroti, ha sciorinato alcuni dati che presto saranno pubblicati in un report dopo la visita in carcere del dicembre scorso a Montacuto: “Su una capienza regolamentare di 256 posti ci sono 330 detenuti. Gli eventi più critici si sono verificati nelle due sezioni cosiddette ‘chiuse’, ossia con le celle aperte solo 8 ore al giorno; qui nel 2023 si sono verificati 177 episodi di autolesionismo e 14 tentati suicidi. Gli agenti di polizia penitenziaria sono 120, dovrebbero essere 176”. Imperia. Alberto Scagni, la prossima settimana il trasferimento all’Ospedale San Martino di Pietro Adami rainews.it, 14 gennaio 2024 Il 42enne condannato per aver ucciso la sorella Alice è ricoverato da fine novembre dopo essere stato picchiato da due compagni di cella. Alberto Scagni sarà trasferito dall’ospedale di Imperia nel reparto detenuti del San Martino. Le sue condizioni sono migliorate nettamente, ma deve essere ancora tenuto sotto osservazione e proseguire il percorso di cura. A Genova deve però prima liberarsi una stanza singola, quindi passerà ancora qualche giorno. Il 42enne condannato per aver ucciso la sorella Alice il primo maggio 2022 è ricoverato dallo scorso 22 novembre, dopo essere stato picchiato e seviziato per ore da due compagni di cella nel carcere di Sanremo. Tre settimane in coma farmacologico, in cui Scagni ha perso circa venti chili. L’uomo deve scontare 24 anni e sei mesi di carcere, pochi giorni dopo la condanna in primo grado era stato aggredito una prima volta a Marassi: un episodio su cui chiedono di far luce i familiari e i suoi avvocati Alberto Caselli Lapeschi e Mirko Bettoli che hanno presentato un esposto. Il garante regionale dei detenuti Doriano Saracino invita a considerare Scagni in questa fase come vittima di reato. Bologna. Carcere, l’allarme del Garante: “Detenuti crescono in modo preoccupante” bolognatoday.it, 14 gennaio 2024 Le presenze si attestano stabilmente sopra il numero di 800, a fronte di una capienza regolamentare di 498. Sovraffollamento e “condizioni difficili”. Le rileva per il carcere di Bologna il garante dei detenuti Antonio Ianniello: “L’attuale contesto detentivo è assai in sofferenza: ormai da diversi mesi le presenze si attestano stabilmente sopra il numero di 800, a fronte di una capienza regolamentare di 498. La situazione è già apparsa in grande affanno durante la passata stagione estiva, essendosi dovuto procedere, per brevi periodi, alla temporanea sospensione degli ingressi in carcere, dirottati su altri istituti penitenziari regionali”. La situazione, prosegue, “risulta aggravata dalla momentanea indisponibilità di alcuni spazi detentivi che sono oggetto di opportune ristrutturazioni e sanificazioni” che dovrebbero concludersi a fine mese. “Per fare fronte all’attuale condizione di sovraffollamento risulta che sia stato richiesto un cosiddetto sfollamento al Provveditorato regionale, che comporterebbe il trasferimento di persone detenute verso altri istituti penitenziari del distretto allargato Emilia-Romagna e Marche, che comunque, con tratti non dissimili da Bologna, non risultano a bassa densità di affollamento”. Pur “nelle emergenti difficoltà che la struttura sta attraversando, non sembrerebbero ravvisarsi diffusi e crescenti segnali di un aspro e generalizzato acuirsi della tensione all’interno dell’istituto”. Certo, prosegue il garante, “le condizioni sono assai difficili e la situazione resta da monitorare con estrema attenzione, rendendosi opportuna un’attenzione particolare a quelle specifiche vicende personali (e detentive) più difficili e complesse”. Quanto ai fatti di alcuni giorni fa, “si può affermare che la situazione sia stata gestita con professionalità da parte degli operatori penitenziari che sono intervenuti dopo l’incendio nella cella, ma risulterebbe inappropriato il riferimento a un principio di rivolta da parte delle persone detenute. A seguito dell’evento critico sono certamente serpeggiate agitazione e concitazione, principalmente dovute al disagio che l’incendio aveva creato (con la sezione detentiva invasa dal fumo e le persone evacuate), ma parlare di prodromi di una rivolta, così come è stato divulgato, risulta eccessivo”. Il dato numerico relativo alle presenze va monitorato: al 31 dicembre 2023 erano presenti 814 persone mentre un anno prima, al 31 dicembre 2022, c’erano 753 persone. “Se il trend in crescita dovesse confermarsi, non potrebbe escludersi un futuro prossimo allarmante rispetto alla condizione di sovraffollamento, attraverso la configurazione di una pena detentiva che viene ad assumere (a pieno) i tratti perversi del trattamento disumano e degradante”, conclude Ianniello. Intanto, il Sappe denuncia un altro “tentativo di introdurre telefoni cellulari in carcere. Questa volta, ma non è la prima, è avvenuto nel carcere di Bologna dove, con l’utilizzo di un drone, hanno depositato alcuni telefoni cellulari all’interno del perimetro detentivo, dove i detenuti hanno di solito accesso, per le loro attività”. Grazie “alla professionalità del personale impiegato nel servizio di sentinella- affermano Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe e Francesco Borrelli, vice segretario regionale- è stato possibile individuare l’introduzione dei telefoni all’interno del carcere. Sappiamo che l’amministrazione ha già pronto un piano di schermatura degli istituti e stanno già iniziando i primi corsi di formazione per conduttori di Droni, al fine di poter controllare gli istituti penitenziari ed evitare, quindi, ogni ulteriore tentativo di introdurre oggetti non consentiti”. Così “si mette finalmente in atto la necessaria attività di prevenzione che potrebbe risultare più efficace di quella repressiva”, concludono. Verona. Ostellari: “Date lavoro ai detenuti, può salvare delle vite” di Camilla Ferro L’Arena, 14 gennaio 2024 Il sottosegretario alla Giustizia a Montorio dopo i tre suicidi. Ostellari: “Verona ha imprese che possono investire e produrre qui”. “Sovraffollamento, non c’è emergenza rispettati i 3 metri”. “Qui abbiamo persone che si sono tolte la vita. Parlare di Playstation significa fare torto a loro e alla nostra intelligenza”. “Qui” è il carcere di Montorio. Ad uccidersi sono stati, tra novembre e dicembre scorsi, tre detenuti. A tentare di farlo, altri due nelle ultime settimane. “Il videogioco”, invece, sarebbe quello fatto arrivare a Filippo Turetta - reo confesso dell’omicidio di Giulia Cecchettin - che avrebbe scatenato le ire e i maldipancia degli altri detenuti corsi immediatamente a denunciare differenze di trattamento tra reclusi di serie A e B. Narrazione in realtà smentita dagli stessi carcerati che hanno anche scritto una lettera per dissociarsi pubblicamente dalla querelle fatta circolare da parenti e volontari male informati. O volutamente provocatori. Sopralluogo a Montorio - A smorzare la controversia, da Roma è salito ieri a Verona il senatore della Lega Andrea Ostellari, sottosegretario alla giustizia. “Mi limito a ribadire che in questo carcere e in tutte le altre strutture di detenzione italiane”, ha ribadito, “non si applicano favoritismi a nessuno e le decisioni su quelle che possono essere le attività ricreative adeguate a ciascun utente vengono prese da personale qualificato. Quindi”, ha sottolineato, “chi alimenta pericolose leggende, per quel che ci riguarda è fuori dalla squadra, quella che lavora in sinergia per dare risposte concrete ai problemi”. E ha lanciato un appello: “Facendo sistema si può raggiungere l’obiettivo di evitare altri drammi dentro alle celle, creando un sistema dell’esecuzione della pena capace di garantire dignità alle persone. La cura contro i suicidi è il lavoro. Nei penitenziari dove si lavora si verificano meno aggressioni e meno autolesionismi, in un clima di maggior armonia con il personale”. La cura contro i suicidi - Quindi l’appello alla comunità di Verona: “Esiste una legislazione che consente alle imprese di investire e produrre in carcere. Nel Veronese c’è un forte tessuto imprenditoriale, auspico che cooperative e aziende scelgano di trasferire a Montorio le loro lavorazioni. Gli spazi ci sono, chiedo alla città di essere parte di questo progetto contribuendo così a concretizzare un percorso capace di portare beneficio anche alla nostra società. Da parte del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) troveranno piena collaborazione”. In passato la coop Lavoro e Futuro teneva occupati a Montorio 150 detenuti. Per problemi amministrativi, l’accordo con la direzione del penitenziario è saltato e tutto si è bloccato. Oggi i detenuti che lavorano sono pochissimi, circa 35 su 545. Ecco l’altra grande emergenza: la capienza massima della struttura è per 335 ospiti (dati del Dap aggiornati al 31 dicembre). Sos sovraffollamento - “Il problema c’è”, ha ammesso Ostellari, “e se la sinistra pensa di risolverlo, e l’ha fatto in passato, con il “liberi tutti”, questo Governo no: siamo contrari alle leggi svuota-carceri, quindi non concederemo grazie ed indulti, perché non risolvono nulla. Il 70 per cento dei detenuti che esce con questi provvedimenti poi torna nel circuito criminale. La soluzione giusta invece è investire nelle strutture e nel personale e fare una programmazione strategica del sistema di esecuzione della pena nel rispetto delle regole”. Il sottosegretario ha ricordato al proposito che il governo è al lavoro per costruire nuove carceri e che per gli under 18 l’ha già fatto. “Abbiamo riaperto l’Istituto penale per i minorenni di Treviso”, ha elencato, “ristrutturato quello di Catanzaro, ampliato il Beccaria di Milano ed entro la fine dell’anno inaugureremo la struttura di Rovigo”. Resta l’overbooking a Montorio. “La situazione è che qui i posti sono 335 e le presenze 545. Situazione insostenibile e fuori dalla legalità? Non è così perchè la Corte Europea dei diritti dell’uomo dispone richiami e sanzioni quando per ogni carcerato vi sono meno di 3 metri quadri a testa. A Verona questo limite non è superato”. Assistenza sanitaria - Accanto al sottosegretario, l’assessore alla sanità della regione Manuela Lanzarin ha garantito che la Regione è attiva a Montorio con l’assistenza sanitaria e le attività sociali. “Ho di recente incontrato il ministro Schillaci”, è intervenuto Ostellari, “per istituire un tavolo di lavoro sulla sanità penitenziaria e sulle criticità esistenti, che derivano anzitutto dal fatto che la popolazione carceraria è cambiata. Un tempo era costituita in gran parte da italiani con una solida vocazione criminale, oggi invece nelle sezioni ci sono numerosi tossicodipendenti o malati psichiatrici, oltre a disadattati condannati per piccoli reati. Per questo tipo di condannati va trovata una soluzione diversa rispetto alla detenzione classica. E non spetta solo al sistema della giustizia individuarla”. Verona. La rete Dafne e l’aiuto alle vittime di reato Corriere di Verona, 14 gennaio 2024 Domani alle 20.30 al Centro Tommasoli di via Perini a Borgo Venezia si terrà un incontro informativo sui servizi offerti da Rete Dafne in merito all’assistenza alle vittime di reato. Si parlerà dei supporti necessari ad affrontare un trauma, di giustizia riparativa, di prevenzione e diritto alle cure. Rete Dafne si è costituita a ottobre 2021 con la firma di un protocollo d’intesa tra Comune, Associazione scaligera assistenza vittime di reato, Tribunale, Procura, Ordine degli Avvocati e Camera Penale scaligeri, Uls 9, Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata, Garante dei Diritti delle persone private della libertà personale di Verona, Fondazione Don Calabria e Associazione Rete Dafne Italia. Sul territorio conta già tre sedi: in Piazza Mura Gallieno, e a San Martino Buon Albergo e Cerea. “Il teatro in carcere ci permette di parlare di diritti umani, giustizia e libertà perdute” di Susanna Rugghia L’Espresso, 14 gennaio 2024 Storie di donne e uomini testimoni di violenze e soprusi. È “Coraggio senza confini” di Ariel Dorfman, spettacolo interpretato da detenuti-attori nel penitenziario di Rebibbia. “Questo spettacolo ci ha dato modo, in una struttura totalizzante come il carcere, di parlare di diritti umani, giustizia e libertà perdute”. La voce di Fabio, detenuto della casa circondariale di Rebibbia, è ferma nonostante la commozione. È tra i nove attori che hanno preso parte allo spettacolo del 12 dicembre scorso messo in scena nel Teatro “Raffaele Cinotti” di Rebibbia, a Roma, e organizzato dalla Fondazione Kennedy. “È un testo affascinante e delicato, ci ha permesso di commuoverci e di elaborare diverse sensazioni. Parlare di privazione della libertà e di diritti in una struttura carceraria vuol dire tanto. Ho un sogno: che arrivi il giorno in cui una libertà giusta risplenda perché alto è il suo valore effettivo, umano e sociale”. L’opera teatrale del regista Ariel Dorfman, argentino naturalizzato statunitense, tradotta da Alessandra Serra, è stata realizzata interpretando il libro “Speak Truth to Power” scritto da Kerry Kennedy, figlia del senatore Bob Kennedy e fondatrice dell’Associazione Robert F. Kennedy Human Rights, nel quale l’autrice narra le storie di uomini e donne testimoni di violenze e sopraffazioni che hanno trovato il coraggio di reagire e di raccontarle. L’evento è stato promosso in occasione del 75esimo anniversario della proclamazione, da parte dell’Assemblea Generale dell’Onu, della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. “Il progetto nasce dal testo teatrale di Kerry Kennedy “Speak Thruth to Power” che noi abbiamo tradotto con “Coraggio senza confini” per allargare un po’ la prospettiva”, spiega Valentina Pagliai, che dal 2004 collabora con il Robert F. Kennedy Human Rights Italia coordinando i progetti educativi, di legacy e di formazione per docenti e studenti. “Sono interviste ad attiviste e attivisti per i diritti umani, alcuni sono Nobel per la pace, altri sono un pochino più sconosciuti al grande pubblico. Il fatto che molti di loro abbiano fatto esperienze di carcere e di tortura li avvicina idealmente alla vita e alla sensibilità delle persone detenute”. L’intento dello spettacolo è in effetti quello di mettere in prospettiva il peso del luogo e del contesto nel quale le persone nascono: “A seconda del posto in cui sei nato, e dalle forme di potere costituito, si può essere considerati eroi per i diritti umani o delinquenti da perseguire”. Un doppio punto di vista che permette a chi recita di portare molto della propria esperienza, delle proprie sofferenze e dell’ambiguità irrisolta tra giustizia e legalità. “È stato importante mostrare al pubblico la voce di chi la sofferenza se la porta addosso”, continua Fabio. Un’ambiguità che nello spettacolo è incarnata proprio dalla figura dell’essere umano, che è rappresentato come una incarnazione mitica, un Profeta dei Molteplici Mali, che con le sue parole e con la sua presenza ricorda costantemente contro cosa lottano i difensori. “Sono le storie di 51 persone che hanno dedicato le loro vite agli altri, a una causa, pur non possedendo poteri speciali”, spiega Federico Moro, Segretario Generale Associazione Robert Kennedy Human Rights Italia. All’inizio della commedia l’essere umano viene subito individuato come un personaggio pericoloso, nel senso che è in grado di far del male anche fisicamente, un’entità che è sempre in agguato all’interno dello Stato e della Società ed è pronta a passare all’azione, quel genere di energia di cui sono fatte l’apatia e l’indifferenza, cioè i peggiori nemici nella lotta per un mondo migliore. Ma sono poi proprio gli attivisti e le attiviste dei diritti umani a sublimare il significato dell’esistenza. “Quando ho letto il copione mi sono accorto che una parte del testo che avrei interpretato appartiene a Helen Prejean”, spiega ancora Fabio: “Possiedo una dedica sul suo ultimo libro mandatomi da mia sorella che vive a San Francisco”. Prejean è una delle principali attiviste americane contro la pena di morte, è stata presidente della Coalizione nazionale per l’abolizione della pena di morte e autrice del libro “Dead Men Walking” (1983) dove racconta la sua esperienza di consulente spirituale di due detenuti nel braccio della morte. “È una delle poche cose care che tengo con me in carcere. E il fato ha voluto che io interpreti un suo testo. Questo mi ha reso ancora più combattivo nell’affrontare questa tematica, che spero venga divulgata nelle scuole, nelle università e dalle nostre istituzioni”. E nell’opera c’è molto della vita del regista Ariel Dorfman: di origine ebraica, la sua famiglia fu costretta a scappare dall’Europa, poi in Argentina e in America. Trovò infine riparo in Cile, dove poi è arrivata la dittatura di Pinochet. Non a caso ha trasposto in questo reading teatrale la sua esperienza diretta della persecuzione e dell’oppressione. “Abbiamo portato lo spettacolo nel carcere di Bucarest nel 2009. Fu un’esperienza molto forte, c’erano detenuti entrati durante il regime di Ceau?escu e là fuori c’era un mondo completamente diverso che loro non conoscevano”, spiega Valentina Pagliai: “Lo abbiamo portato anche nel carcere femminile di San Vittore nel 2014, dove ci sono tante storie, molto dure e tristi. Ma le vicende di queste attiviste donne che sono sfuggite alla mutilazione genitale femminile, raccontando anche quei Paesi che le hanno accolte non sempre benevolmente, hanno veicolato messaggi diventati importantissimi, se pensiamo ai flussi migratori in Italia. Infine, lo spettacolo è stato portato nel 2016 nel carcere di Sollicciano a Firenze. Anche questo è un penitenziario molto difficile perché le persone vanno e vengono. Quindi, anche i progetti di riabilitazione culturale spesso non riescono ad essere attuati. Nel 2016 fu ripreso da un docente di teatro Yale che voleva fare un paragone fra gli attivisti dei diritti umani e i personaggi dell’inferno dantesco”, sempre per parlare del relativismo della morale quando si raccontano le storie di chi viene perseguitato e privato della libertà. “Lo facciamo per rispondere all’articolo 27 della Costituzione Italiana che dice che il nostro carcere ha valore riabilitativo e non punitivo. È un concetto su cui noi basiamo tantissime attività partecipative anche nelle scuole. Bisogna capire perché le persone sbagliano e lavorare su questa prospettiva è fondamentale. Per l’alto valore riabilitativo della pena detentiva, nel 2019, abbiamo scelto di rilasciare il nostro premio alla dottoressa Rossella Santoro”, direttrice del carcere di Rebibbia che il 12 dicembre, a margine dello spettacolo, ha sottolineato l’importanza di fornire alle persone detenute lo spazio per realizzare le proprie inclinazioni, passioni e capacità. “Il fatto che nove detenuti della Casa circondariale di Rebibbia abbiano interpretato questa storia è per noi un grande onore e una grande opportunità”, conclude Federico Moro: “Il carcere deve essere un luogo dove potere trovare una strada nuova. Ci auguriamo che questo spettacolo possa dare agli attori che con tanta passione lo hanno messo in scena una prospettiva in più e, perché no, la possibilità di intravedere nel teatro una opportunità di carriera quando saranno fuori da qui”. Frédéric Chauvaud: “L’odio è un sentimento semplice, più facile dell’amore” di Marco Ventura Corriere della Sera, 14 gennaio 2024 Frédéric Chauvaud, dal 1998 professore di Storia contemporanea all’università di Poitiers, già membro del comitato nazionale del Cnr francese, si è concentrato sullo studio della violenza, dei conflitti e della giustizia penale. Si è dedicato alla storia dell’odio, tema sul quale ha pubblicato Histoire de la haine. Une passion funeste 1830-1930 (Presses universitaires de Rennes, 2014). Frédéric Chauvaud ha dedicato una vita allo studio della violenza nella storia. Si è concentrato sulla Francia tra Otto e Novecento, ma le sue analisi travalicano il luogo e il tempo. Il suo libro sulla “passione funesta” che percorre la Francia tra 1830 e 1930 è, come indica il titolo, una vera “Storia dell’odio” (Histoire de la haine, 2014). “L’odio”, scrive il professore dell’università di Poitiers, “possiede una storia: le sue espressioni, le sue modalità, i suoi oggetti e i suoi effetti non sono né identici né immutabili”. In collegamento da casa, Chauvaud dialoga con “la Lettura” su come la storia possa farci comprendere l’odio. Cominciamo da quella sua frase: “L’odio possiede una storia”... “L’odio è un sentimento che esiste dalla preistoria, ma ogni volta il contesto è diverso e i modi di odiare non sono sempre gli stessi”. Ha cercato l’odio nella storia del suo Paese... “Prendiamo gli odî della Rivoluzione francese. Si costituiscono due forze: rivoluzionari e monarchici. Per ciascuna delle due l’altro è il nemico. Non è possibile discutere, trovare punti di convergenza. L’unica possibilità è sterminare l’altro. Viene eretto un muro invalicabile. Si può solo calpestare, distruggere l’altro”. L’idea di studiare l’odio le è dunque venuta dal basso, dalla sua osservazione della storia... “Non soltanto. Tempo fa un importante editore francese mi chiese un testo sull’odio per una collana di libri brevi sulle emozioni. Dissi di sì, un po’ ingenuamente, perché il tema è enorme. Per fortuna la collana non si è più fatta!”. Lo studio dell’odio è diventato la sua professione. “Tema che lascia poca speranza sulla natura umana”. Poi si è concentrato su Ottocento e Novecento. Come ha scelto il periodo 1830-1930? “È logico che si scelga il 1830 per la Francia. In quel momento si raggiunge una qualche pacificazione dopo le violenze rivoluzionarie e il terrore bianco. Si instaura una monarchia costituzionale. È il preludio all’Europa dei popoli. Poi pensavo di arrivare alla Seconda guerra mondiale, ma ho preferito fermarmi prima, al 1930, sulla soglia dei totalitarismi”. In gran parte il suo lavoro è dedicato all’odio politico, anche all’interno dello stesso Paese... “Per Chateaubriand il nemico interno è più pericoloso del nemico esterno. Si giustifica così la guerra civile. Colpisce la violenza di cui si legge nelle cronache parlamentari di fine Ottocento. Durante il dibattito sul caso Dreyfus, nel 1898, in pieno emiciclo, Jean Jaurès si prese un pugno sulla nuca da un deputato monarchico”. E l’odio nella società? “È fortissimo in quel periodo l’odio per i bohémien. Napoleone aveva progettato che venissero rastrellati, portati a Rochefort, vicino a La Rochelle, e quindi deportati oltreoceano in Louisiana. Poi la Francia perse la Louisiana e non se ne fece più nulla”. I “bohémien”? “Chiamavano così i nomadi. Oggi diremmo le “genti del viaggio”. Flaubert descrive con simpatia gli abiti colorati, i canti, ma la gente li esecrava. Era odio vero. Li sospettavano di rapire bambini, di ridurli in schiavitù, di rubare. Divennero argomento elettorale. Nel 1912 si impose per legge che le loro roulotte portassero una targa per identificarli”. Poi c’è l’odio che sfocia nel crimine... “Sappiamo dalle statistiche degli ultimi due secoli che su cento criminali quattordici sono donne. La violenza criminale è chiaramente maschile”. Parliamo di violenze in famiglia... “La violenza in famiglia è legittimata dal codice civile del 1804 che mette le donne alla mercé dei mariti. Il divorzio, prima introdotto e poi abolito da Napoleone, viene reintrodotto nel 1881. Si pensa all’epoca che con questo diminuiscano le violenze, ma non è così. Le cronache giudiziarie attestano un vero odio per le donne”. Di che tipo? “Di due tipi, come nei femminicidi dei nostri giorni. Da un lato vi è la paura dell’abbandono. Uomini non sufficientemente maturi, mai diventati adulti, che uccidono la moglie quando questa vuol rifarsi una vita altrove. Poi c’è l’odio per la propria donna che non si sopporta più e che si è pronti a uccidere in ogni modo possibile. Ho scritto un libro proprio su questo”. Lo Stato non interveniva? “Era restio a entrare in faccende che si ritenevano private. Interveniva oltre una certa soglia e sempre che si rompesse la regola del silenzio. Se una donna veniva colpita a un occhio con un attizzatoio e rimaneva cieca era più facile che intervenisse”. Che cos’ha trovato sulla violenza sui figli? “Sull’incesto si trova poco. Nel codice penale non c’è. Ci sono altre formule, come l’oltraggio al pudore. Fabienne Giuliani ha pubblicato nel 2014 la sua tesi di dottorato sull’incesto nell’Ottocento. Favole come Pelle d’asino venivano probabilmente usate per prevenire. Poi ci sono i maltrattamenti sui figli. La prima rilevazione statistica in Francia avviene nel 1891, presso le corti d’appello. La prima legge che punisce la violenza contro i figli è del 1898”. Perché proprio allora? “Alcuni casi influenzarono l’opinione pubblica. Ricordo il caso di un padre che aveva praticamente inchiodato la figlia di 8 anni alla porta di casa. Mi ha scioccato. L’orrore assoluto. Oppure il caso di una madre convocata dalla polizia perché la figlia, morta, aveva bruciature dappertutto. Si scopre che la ragazza veniva punita a colpi di ferro da stiro arroventato. La madre commenta: così avevamo un domestico negro in casa”. Quella fu la prima legge francese contro il maltrattamento dei minori? “Sì, più di trent’anni dopo la legge contro il maltrattamento dei cavalli da carrozza”. Professore, della sua ricerca su quel periodo storico che cosa ritiene possa essere generalizzato? “Anzitutto l’odio ha una grande carica emotiva. Sfugge alla ragione. Prevale sull’intelletto. La storia delle emozioni è una corrente di studi storici piuttosto recente. Non ne possiamo fare a meno se vogliamo comprendere perché una folla ha agito in quel modo o perché un individuo ha preso quella posizione”. Che cos’altro emerge dalla storia dell’odio? “L’odio è anche un desiderio di vendetta. È interessante osservare gli odî tra famiglie nelle diverse generazioni. Talvolta si dimentica persino quale è stata la scintilla iniziale. Si sa che va odiata l’altra famiglia, ma non si ricorda perché. Succede anche tra vicini”. Ad esempio? “In un caso che ho trovato, un coltivatore aveva tagliato un vitigno millenario nel vigneto del vicino. L’altro ha rimuginato per quasi dieci anni e durante una caccia gli ha sparato nella schiena e l’ha ammazzato”. L’odio è emozione, vendetta... e poi? “Questo è più complicato, ma può essere anche una domanda di protezione. L’odio di chi si sente minacciato, disorientato, vulnerabile è richiesta di protezione”. L’odio implica sempre qualcuno da odiare... “L’odio è un modo di costruire una immagine esagerata, oltranzista dell’altro. Quando si odia non esistono sfumature. Esiste la caricatura. Il nero o il bianco. Questo permette di odiare l’altro facilmente”. In proposito lei ha lavorato sul ruolo della stampa... “Ci sono davvero degli artigiani, dei fabbricanti d’odio. Ci si aspetterebbe dai giornalisti il rispetto della deontologia, una attenzione alla complessità, e invece si prende la scorciatoia: si designa il bersaglio”. C’è più odio nelle epoche di transizione? “Qui si entra nella psicologia della storia, per così dire. Non è ancora molto sviluppata. Va presa con le pinze. L’odio in questo caso sarebbe una sorta di sconforto psichico. Persone che non capiscono la situazione, come probabilmente avviene oggi in Europa o nel mondo. In questi periodi incerti, di transizione, si può gettare la propria angoscia addosso a un gruppo, a un individuo. Beh, è una risposta. Che conforta”. Esempi nella storia che ha studiato? “Nella Francia di fine Ottocento, l’antisemitismo. Prima era larvato, desueto. Ma ora si inventano le razze, viene data una mano di vernice scientifica. Poi si dimentica troppo spesso, almeno in Francia, che si sono odiati profondamente i protestanti. E ancora, con la guerra del 1870 e la Comune di Parigi c’è stato l’odio del tedesco, del prussiano, dello straniero”. Chi odia non sempre passa all’atto... “Il filosofo e psicoanalista francese Cornelius Castoriadis diceva che c’è un quantitativo di odio nel serbatoio psichico degli individui. René Mathis, che nel 1927 ha discusso l’unica tesi di dottorato sull’odio di un filosofo, tesi non eccezionale, ma che ha il merito di esistere, diceva che è molto più facile praticare l’odio che l’amore. Sono d’accordo con lui”. Quali fattori determinano il passaggio all’atto? “Nel 2017 ho organizzato un convegno in Parlamento sul femminicidio e ci siamo posti questa domanda. Le risposte sono sempre molto complesse. Ci sono uomini che odiano le loro donne, che non dicono una parola, che passano all’atto all’improvviso, senza che nulla lo lasci presagire. A livello collettivo, quando il serbatoio è pieno d’odio basta un fiammifero per accenderlo. L’ascesa del nazismo si può spiegare così”. L’odio si accanisce spesso sui corpi... “Davanti alle scene di massacri, come nell’incursione di Hamas in Israele del 7 ottobre, da storico ho sempre sostenuto che il trattamento dei corpi dice molto più di quanto si proclama. C’è l’esecuzione fredda, cinica, riflettuta. Pensiamo agli ufficiali polacchi uccisi nel 1940 a Katyn dai sovietici. È un fatto mostruoso, ma senza smembramento dei corpi. E poi c’è il linguaggio dell’odio che si esprime appropriandosi dei corpi”. Vale la stessa cosa per la violenza sessuale? “Un femminicida seriale noto all’epoca come Assassin Philippe fu il precursore di Jack lo Squartatore, tra 1863 e 1866. Il suo bersaglio erano le prostitute. Talvolta le sventrava, asportava un seno. C’era un trattamento specifico del corpo. Il sadismo è una delle espressioni dell’odio”. Una delle categorie della sua storia è l’odio contro di sé... “È l’odio delle guerre civili, ma anche l’odio tra villaggi. Oggi in Francia si parla di guerriglia urbana, mentre nell’Ottocento c’erano risse tra giovani di villaggi rivali. Nella regione di Poitiers si faceva subire il supplizio della rana. Si teneva la testa di un giovane sott’acqua in uno stagno finché non si vedevano più le bolle d’ossigeno. Talvolta si finiva affogati”. Lei scrive anche di “odio freddo”... “Penso alla repressione di Stato. Un esempio estremo è la “settimana insanguinata” durante la Comune di Parigi, nel maggio 1871. Per un certo tempo s’è detto che era stata opera di soldati sciolti, lasciati a sé stessi. Uno studioso inglese, Robert Tombs, ha dimostrato che fu invece un massacro pianificato. L’odio freddo è l’odio preparato, organizzato contro un avversario ridotto allo stato di oggetto”. Usa poi la categoria di “odio santo”... “È l’odio in nome della religione. Matita alla mano, mi sono letto interamente La France juive (“La Francia ebrea”, ndr) dell’antisemita Édouard Drumont, più di mille pagine pubblicate nel 1886. Tutto viene raccolto e concentrato per dare l’impressione che il combattimento sia proprio necessario: la Francia deve sbarazzarsi dei suoi ebrei. Stessa cosa per i protestanti”. Di qui, la sua categoria dell’”odio necessario”... “Si trova spesso una sorta di rimorso, di vergogna per aver odiato. È difficile rivendicare l’odio. Certi autori però trasformano questa cosa: sappiamo che non si fa, ma è un obbligo morale, è una necessità”. Che cosa le resta da fare sull’odio? Quale dimensione vorrebbe ancora studiare? “Vorrei soprattutto lavorare su altri supporti. Mi sono un po’ interessato al cinema muto. Senza suono, attori e attrici devono esagerare la mimica e diventa interessante osservare come esprimono l’odio, ma anche il disgusto, il disprezzo, la collera. Lo scorso giugno Anne Bléger ha discusso una tesi di dottorato sull’espressione delle tensioni tra uomini e donne nel cinema muto. Una manna di documentazione”. Dovrà dunque uscire dagli archivi giudiziari... “Bisogna lavorare sull’odio nei supporti che piacciono di più alla gente dell’epoca. Oggi le serie tv, ad esempio. Io ho lavorato un po’ sui fumetti. Ma allora il lavoro deve essere interdisciplinare. Da solo non sarei in grado. Sono stato uno dei primi, se non il primo, in Francia, a lavorare sugli archivi giudiziari per la storia contemporanea. Negli anni Ottanta la moda era la storia quantitativa. Si contavano i casi, non si leggevano i dossier. Invece per la mia tesi di dottorato mi sono immerso nei dossier dicendomi: ma qui c’è assolutamente tutto! Ho lavorato così sulla violenza e sono arrivato all’odio”. Allora, a che cos’ è arrivato, in fondo? “L’odio è un sentimento semplice. Parla a tutti. Si partecipa a una riunione, a una cena, si detesta spontaneamente qualcuno, non sappiamo perché, non ci ha fatto nulla, la gradazione può salire velocemente, senza ragioni apparenti. È un meccanismo che mi intriga. Per questo da qualche tempo lavoro con psicoanalisti”. L’odio può essere compreso solo caso per caso? “Nel 1933 le due sorelle Papin uccidono la padrona per cui lavorano come domestiche dopo averle cavato gli occhi. Lo stesso con la figlia. Non si trova un movente. Niente, negli atti che ho studiato, consente di comprendere l’esplosione di odio. Il caso resta un enigma”. Medio Oriente. Mille organizzazioni con il Sudafrica. L’Europa si spacca in due di Andrea Valdambrini Il Manifesto, 14 gennaio 2024 Non solo gli Stati. Tante realtà a sostegno del processo a L’Aja. Spagna, Belgio e Irlanda le voci più critiche verso Tel Aviv. Ma per ora non aderiscono. Più di mille organizzazioni, partiti, sindacati e movimenti in tutto il mondo che hanno espresso il loro sostegno al Sudafrica nella causa intentata contro Israele alla Corte Internazionale di Giustizia de l’Aja (Icj). Le organizzazioni si esprimono attraverso un appello congiunto ai Paesi che non appoggiano la richiesta di Pretoria per “dare forza alla denuncia formulata con forza e con buone argomentazioni”. È questo “il modo per assicurare che ogni azione di genocidio venga fermata e i responsabili possano essere assicurati alla giustizia”, si legge nel testo firmato da sigle americane come il MalcolmX Center, britanniche come la Human Righs Commission e il Critical Studies of Zionism, ma anche spagnole, belghe, francesi e tedesche. E non manca l’adesione di un gruppo sudafricano come il South African Jews for Free Palestine (Sajfp). Per l’Italia - defilata, almeno nei numeri - aderiscono Medicina democratica, l’Associazione di amicizia Italia-Cuba e la sezione nazionale della Women’s International League for Peace and Freedom (Wilpf). Formalmente, l’azione all’Aja del governo sudafricano è stata appoggiata dai 57 paesi dell’Organizzazione di Cooperazione islamica - che comprende l’Egitto, ma anche l’Albania “ così come Turchia, Bolivia, Malaysia, Maldive, Namibia e Pakistan. Più complicato il discorso sui paesi europei, sia intesi singolarmente, che come stati membri dell’Ue. Ma tra i 27 i distinguo non sono mancati. Al gruppo dei pro-Israele senza se e senza ma, guidato da Berlino, ha fatto da controcanto un’azione diplomatica di segno opposto portata avanti da Spagna e Belgio, i due paesi che hanno ricoperto l’incarico di presidenza rotante del Consiglio dei ministri Ue nell’ultimo semestre dello scorso anno (Madrid) e in quello attuale (Bruxelles). Nel caso spagnolo è arrivato martedì scorso dalla leader di Podemos Ione Belarra un invito a Pedro Sanchez a sostenere il “coraggio” del Sudafrica nella causa all’Aja: una lettera ufficiale a governo e ministro degli esteri di Madrid e l’annuncio di una richiesta di dibattito parlamentare. D’altronde il premier socialista spagnolo non ha mancato in passato di criticare duramente il governo Netanyahu per il mancato rispetto del diritto internazionale. Ancora più dirette le parole di Petra de Sutter, vicepremier belga ed esponente dei Verdi, che ha dichiarato di volersi spendere nel governo - di ampia coalizione a sette partiti, guidato dal liberale Alexander De Croo - per schierarlo dalla parte del Sudafrica contro la minaccia di genocidio. In precedenza, De Sutter aveva sostenuto la necessità di boicottare Tel Aviv, anche imponendo sanzioni commerciali e sottolineando come “bombardare Gaza a pioggia è disumano, ma Israele ignora con tutta evidenza qualsiasi richiesta di cessate il fuoco”. È Polemica invece in Irlanda, tradizionalmente sostenitore della causa palestinese, dove il premier Leo Varadkar, leader del partito liberal-conservatore Fine Gael, ha escluso che Dublino possa appoggiare Pretoria alla Corte dell’Aja, sottolineando la necessità di usare con cautela il termine “genocidio”. Ragion per cui, diversi partiti di opposizione della sinistra, tra cui Sinn Fein e Labour Party lo hanno accusato di “inaccettabile assenza di coraggio”. A nulla sembra valsa però la loro protesta, né l’editoriale apparso mercoledì scorso sul quotidiano Irish Times, dalle cui colonne il professor Maeve O’Rourke, del Centro per i Diritti umani dell’Università di Galway ha scritto: “I nostri rappresentanti politici dovranno rendersi conto del fatto che l’Irlanda è tenuta ad agire come stato firmatario della Convenzione sul Genocidio” (trattato internazionale adottato dalle Nazioni unite nel 1948, ndr). “Sua responsabilità è quella di proteggere i diritti delle persone”, ha concluso riferendosi alla disastrosa situazione umanitaria di Gaza. Medio Oriente. Gli Houthi, il “nemico perfetto” nel nuovo conflitto di Alberto Negri Il Manifesto, 14 gennaio 2024 Oltre Gaza, dallo Yemen allo Stretto di Bab al Mandeb fino a Suez. Come l’Occidente sta contribuendo a un’altra guerra senza avere tentato di evitarla. Li chiamano “ribelli” ma occupano la capitale Sanaa da quasi dieci anni, governano il 70% del Paese e controllano l’esercito yemenita: alleati dell’Iran - come Hezbollah, Hamas, il regime siriano di Assad e le milizie sciite irachene - minacciando la navigazione dallo stretto di Bab el Mandeb fino a Suez, sono il nuovo “nemico perfetto” degli Usa e dell’Occidente. Tutto questo senza averci mai parlato o negoziato e considerato le loro istanze. Non volevamo la guerra allargata in Medio Oriente ma stiamo contribuendo a un altro conflitto senza avere tentato di evitarlo. Anche agli Houthi applichiamo una logica perdente, dal momento che dopo l’invasione russa dell’Ucraina l’Iran non solo non è più isolato ma conta sull’appoggio di Russia e Cina, membri del Consiglio di sicurezza e di quelle alleanze del Sud del mondo che stanno cambiando gli equilibri mondiali. Gli Houthi stanno risucchiando gli Usa - e forse anche noi - in nuovo conflitto mediorientale che non riguarda solo il Mar Rosso ma anche la terraferma dove gli Stati uniti sono paladini di un’unica sovranità, quella israeliana, cosa chiarissima già con l’attacco all’Iraq del 2003, l’inizio del caos. La deterrenza americana è un’illusione di stabilizzazione, anzi provoca esattamente il contrario. Perché gli Houthi sono intervenuti in Mar Rosso? I “ribelli” dicono che vogliono colpire le navi dirette in Israele e hanno anche lanciato attacchi contro il porto israeliano di Eilat, così come nel settembre 2019 avevano bersagliato gli impianti petroliferi sauditi. La mancata reazione americana a protezione del regno wahabita allora fu uno dei grandi motivi di dissenso tra Washington e Riad che pure dalla guerra aperta agli Houthi, lanciata nel 2015, è uscita pesantemente sconfitta. Un fallimento visto che Riad aveva pesantemente bombardato e con gli Emirati aveva assoldato decine di migliaia di mercenari. Se da una parte gli Houthi oggi intendono colpire le navi dirette nei porti israeliani, dall’altra forse il vero motivo è che intendono tenere in scacco l’Arabia saudita e la comunità internazionale per mostrare la loro influenza militare e ottenere in futuro un riconoscimento politico internazionale che finora non è mai arrivato. Ma chi sono? Nel dicembre del 2009 credo di essere stato uno dei primi a conoscerli da vicino. La guerra contro il regime del presidente Saleh - poi ucciso dagli stessi Houthi nel 2017 in un tentativo di fuga - era già in corso e i sauditi pagavano i soldati yemeniti appoggiandoli anche con l’aviazione. Eccoli come mi apparvero allora. Erano una trentina, appostati sulla strada per Sada, la loro roccaforte storica. Ad Harf Surfian, sullo sfondo di montagne con rocce nere e taglienti che preludono alla frontiera saudita, si mostrarono mentre ripiegavano nelle ultime sacche di resistenza, braccati dai soldati e dalle tribù fedeli al presidente. Un portavoce disse che avrebbero ripreso la città “molto presto” mentre “altri gruppi di guerriglieri - affermava - erano lanciati nel distretto di Jawf per attaccare i sauditi al confine”. Indeboliti e stanchi, gli Houthi di Harf Surfian non portavano però segni evidenti della battaglia, come se fossero usciti ancora indenni da questi santuari di roccia scura, crateri e fortificazioni millenarie e dove applicavano la tattica del “mordi e fuggi”. Armi ne avevano poche, a tracolla gli Ak 47 con bandoliere colorate e giberne militari. Ma niente ordigni pesanti, soltanto qualche lanciagranata Rpg appoggiata sul cassone dei pickup Toyota. Quasi tutti indossavano le kefiah a scacchi che incorniciavano volti duri, provati, tra loro combattenti esperti ma anche ragazzi di 14-15 anni o forse meno. Gli Houthi già allora combattevano per Teheran anche una sorta di guerra per procura oltre che di liberazione. Eppure - fu quello che mi spinse ad attraversare lo Yemen - nessuno si interessava alla questione Houthi, un’altra delle grandi sottovalutazioni dei conflitti contemporanei. Gli Houthi appartengono alla minoranza zaydita e furono anche manovrati per contrastare l’ascesa dei predicatori wahabiti appoggiati dai sauditi. Poi, quando ebbero acquisito un certo potere rivendicativo, si ribellarono facendo adepti nelle regioni del Nord più tradizionalista, dove ancora oggi non digeriscono la rivoluzione del ‘62 che abbatté l’imamato millenario. Il clan famigliare degli Houthi se ne sente in qualche modo l’erede rivendicando come Seyyed (i religiosi dal turbante nero) una discendenza diretta da Maometto. Il conflitto locale degli Houthi ha dunque una dimensione religiosa, culturale, geopolitica e territoriale. Ma da isolato che era si è trasformato in una crisi internazionale collegata a problemi regionali. Nata all’inizio degli anni 90, la ribellione rimane uno degli elementi chiave della situazione yemenita. Gli insorti hanno rappresentato il principale avversario delle forze governative sostenute da Arabia saudita ed Emirati. Di natura tribale e regionale, il movimento Houthi ha a lungo giustificato la propria ribellione con il desiderio di porre fine alla marginalizzazione dello Yemen nord-occidentale. A questo si aggiunge la difesa della minoranza religiosa che rappresentano, lo zaydismo, una corrente inclusa, con più di qualche dubbio degli islamologi, nello sciismo. La loro è stata un’avanzata anche violenta, spesso anche indiscriminata contro i civili, e alla devastante coalizione guidata da Riad, gli Houthi hanno opposto l’implacabile logica della ritorsione, non esitando a utilizzare bambini-soldato e a ricorrere al terrore contro ogni voce di dissenso. Qual è la possibile evoluzione di questo conflitto? Gli Houthi puntano nel conflitto Israele-Hamas a ridurre la pressione militare israeliana su Gaza e intanto tengono sotto scacco soprattutto l’Arabia saudita, mettendo Riad in una posizione scomoda, proprio mentre negoziava per un cessate il fuoco. Riavvicinandosi all’Iran con la mediazione cinese (i pasdaran armano e addestrano gli Houthi), i sauditi speravano di raggiungere un compromesso. Ma ora prevale la logica delle armi e i sauditi con l’attacco anglo-americano temono, come molti altri Stati della regione, una guerra maggiore e senza freni. Giappone. Il boia ammazza “a sorpresa” di Sergio D’Elia* L’Unità, 14 gennaio 2024 Nessun preavviso. Entrano in cella ti portano dritto al patibolo. Nel 2023 non ci sono state esecuzioni, ma l’incertezza è lacerante. Una buona notizia è giunta alla fine dell’anno appena trascorso dalla terra del Sol Levante. Per la prima volta dal 2020, non si è verificato nessun damashi-uchi, un “attacco a sorpresa”, come gli esperti definiscono il modo di fare giustizia in Giappone. Nella nazione dove nasce il sole e tutto luccica, dai palazzi imperiali ai mille templi e santuari dorati, dai grattacieli infiniti nelle grandi città ai parchi nazionali sulle montagne, c’è solo un luogo dove tutto è coperto da una coltre spessa di incertezza e segretezza: il braccio della morte. Il codice di procedura penale prevede che l’esecuzione della pena di morte sia effettuata entro sei mesi dalla data in cui la sentenza diventa definitiva e senza scampo, ma chi sarà giustiziato e in che tempi dipende da quel che passa per la mente del Ministro della Giustizia. In un’altra epoca i termini di preavviso erano più lunghi, oggi le notifiche arrivano ai detenuti una o due ore prima dell’esecuzione, mentre le famiglie e gli avvocati vengono a conoscenza della loro impiccagione solo dopo che è avvenuta. Si dice che il motivo per cui l’annuncio è fatto il giorno stesso dell’esecuzione è perché una volta un detenuto nel braccio di Fukuoka non ha atteso la morte per mano dello Stato, si è ucciso prima tagliandosi i polsi con un rasoio che aveva segretamente. Il Ministero della Giustizia, invece, ha spiegato in parlamento e altrove che “gli avvisi anticipati possono disturbare la stabilità emotiva dei condannati a morte”. L’attacco a sorpresa può avvenire quando meno te lo aspetti. Quando l’addetto della prigione apre la porta della cella e annuncia l’esecuzione e il prigioniero viene immediatamente preso, legato, ammanettato e portato con gli stessi vestiti nell’edificio dove si trova la camera della morte. Il detenuto è poi bendato e ammanettato con le mani dietro la schiena. Una tenda si apre rapidamente e al centro della stanza appare l’apparato per eseguire la condanna a morte tramite impiccagione. Il boia pone il detenuto al centro di un segno quadrato e gli mette una spessa corda intorno al collo. In una stanza separata da un vetro ci sono tre guardiani in fila uno accanto all’altro, in piedi davanti a una leva. Quando un alto funzionario dà il segnale, tutti e tre azionano il meccanismo contemporaneamente. Nessuno di loro potrà dire di aver compiuto l’atto decisivo. L’asse del pavimento sotto il detenuto si apre all’improvviso con un rumore metallico, il corpo del condannato precipita e scompare alla vista. La corda oscilla avanti e indietro e qualcuno la afferra finché non smette di tremare. Un medico che dovrebbe salvare una vita è lì per accertarne la morte. Spoglia il detenuto e gli posiziona uno stetoscopio sul petto, che sussulta ancora. Ascolta il battito del cuore di chi viene ucciso sotto i suoi occhi. Questo rito raccapricciante è stato sospeso almeno per un anno, nel 2023. Per fortuna, l’anno è passato senza che un solo condannato a morte sia stato giustiziato in Giappone. Restano, però, ancora appesi alla firma di un decreto del Ministro della Giustizia, in attesa di essere appesi poi davvero alla forca, 107 persone condannate a morte. Nel 2023 tre condannati hanno lasciato il braccio morte, ma non sono stati liberati, sono usciti dal braccio come si suol dire “coi piedi davanti”: sono morti in prigione per cause naturali, semmai è possibile che “naturale” sia e non criminale la morte in carcere di un essere umano. Iwama è “evaso” ad agosto all’età di 49 anni. Yuji Kubota se n’è andato a settembre all’età di 78 anni per insufficienza respiratoria. Miyuki Ueta è morto all’età di 49 anni soffocato dal cibo. I tre posti in tal modo liberati, sono stati subito occupati da tre nuovi condannati a morte: Hayato Imai, Takashi Uemura e Toshihiko Iwama. I treni ad alta velocità giapponesi sono sempre in orario, partono e arrivano nel posto e al momento giusto in ogni stazione, collegano le parti più diverse dell’arcipelago, quelle della tradizione millenaria, del recente e tragico passato e di un futuro ancora ignoto a buona parte del mondo. In un battibaleno, arrivi sulle spiagge subtropicali di Okinawa, vai all’isola di Hokkaido rinomata per i vulcani, le terme naturali e le stazioni sciistiche, approdi sull’isola di Honshu dove si trovano il memoriale della bomba atomica di Hiroshima e la capitale Tokyo famosa per i grattacieli di vetro lucente, lo shopping sfrenato e la cultura pop. Nel braccio della morte del Sol Levante, invece, tutto è fermo, grigio, segreto. In un luogo come questo, fuori dal tempo e fuori dal mondo, non sorge mai il sole, regna l’incertezza, la vita stessa è una pena. *Nessuno tocchi Caino