Sei detenuto? Vale il principio della presunzione di colpevolezza di Ornella Favero* Il Riformista, 13 gennaio 2024 In questi giorni il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha trasferito a Oristano Tommaso Romeo, una persona detenuta in Alta Sicurezza 1 a Padova, in carcere da più di trent’anni, di cui 8 in 41 bis e più di dieci a non far niente nei circuiti di Alta Sicurezza, fino all’arrivo a Padova, dove da più di dieci anni fa parte della redazione di Ristretti Orizzonti. E lo hanno trasferito, sulla base di una indagine in corso per la quale hanno arrestato suo fratello e altri per fatti risalenti al 2016-17. Suo fratello ha già avuto un processo con l’accusa di aver agito da tramite tra Tommaso e l’organizzazione criminale di cui aveva fatto parte, ed è stato assolto, in questi anni proprio per questo motivo sarà andato a colloquio da Tommaso due volte in tutto, ora ci riprovano con una accusa simile. Noi di Ristretti Orizzonti speriamo si arrivi presto all’archiviazione o, se ce ne dovesse essere motivo, al rinvio a giudizio, una cosa però l’abbiamo capita, dal rigetto del permesso che ha ricevuto il detenuto e dal trasferimento che stanno mettendo in atto: c’è un’indagine che riguarda un detenuto? È sicuramente colpevole (qui tra l’altro ruota tutto intorno ad intercettazioni, e il reato non è nemmeno stato commesso, cioè si parla di una compravendita di droga, poi non avvenuta perché gli acquirenti, dei non identificati siciliani, non avevano soldi! La responsabilità di Tommaso Romeo? Avrebbe passato un “pizzino” con un numero di telefono (questa ovviamente la parola usata per rafforzare l’idea di un ruolo criminale forte). Tanto poi in ogni caso lo Stato non pagherà l’ingiusta detenzione, perché lui è già in galera ed è per definizione “colpevole”. Ma il trasferimento “preventivo” sette anni dopi il “fatto” significa bloccare tutto il suo percorso, perché le sezioni Alta Sicurezza 1, tranne a Padova, sono per lo più dei luoghi desertificati, con gente in galera da decenni che ha perso perfino ogni caratteristica di umanità. La facilità con cui si usa il trasferimento per motivi di “ordine e sicurezza” è la dimostrazione della enorme difficoltà di portare a termine un percorso di recupero per i detenuti di Alta Sicurezza, perché lo Stato preferisce trincerarsi dietro l’affermazione “i mafiosi non cambiano mai”. Qualcuno ha voglia di provare per un attimo a immedesimarsi in questa persona in carcere da più di trent’anni, che aveva cominciato a rivivere con i primi permessi, che si è messa in gioco e ha raccontato i meccanismi perversi con cui lui faceva proseliti tra i giovanissimi per l’organizzazione criminale? E se poi risultasse innocente in questa vicenda, la sua vita non sarebbe comunque rovinata? Per quanto gravi siano i reati commessi, è disumana una pena che, come dice Papa Francesco, non tiene aperta una finestra di speranza, e in questo caso la finestra la stanno chiudendo. *Direttrice di Ristretti Orizzonti Lettera della figlia di Tommaso Romeo Buongiorno, vorrei scrivere poche righe tra le lacrime, il dolore, la delusione e la rabbia che ho dentro di me, purtroppo questo calvario non finirà mai né per me né per mio padre, c’eravamo solo illusi questa è la dura verità. Da quando avevo un anno porto questa croce, un padre in carcere con l’ergastolo ostativo, e finché avrà vita mio padre sarà così per lui e per tutta la mia famiglia. Mi dicono tutti: perché devi ricominciare da capo? Perché ora lo porteranno in un posto dove non lo conoscono non ci conoscono, non so se gli danno più la possibilità di avere un permesso, se gli faranno fare le attività o lo terranno chiuso tutto il giorno in una cella, non faccio altro che pensare a lui. Mi sono veramente sentita a casa a Padova e per questo volevo ringraziarvi, non potrò mai dimenticare che mi avete regalato momenti bellissimi come quello di riabbracciare mio padre senza sbarre, o il piacere di mangiare perla prima volta seduta al tavolo con lui. Tutto questo non lo dimenticherò mai, spero un giorno di rincontrarci, anzi verrò a Padova anche senza mio papà, perché lì mi sono sentita a casa. Grazie di tutto, con affetto. Francesca Romeo Con lo sguardo oltre le mura delle carceri di Alessandra Vanzi Il Manifesto, 13 gennaio 2024 Una conversazione tra Mauro Palma, da poco ex Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà, e Monsignor Matteo Zuppi, presidente della Cei. Nel 2020, durante la pandemia, ho avuto l’occasione di girare delle interviste e altro materiale sull’attività e la persona di Mauro Palma, al tempo Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà; tutto ciò è stato possibile grazie al valido e gratuito contributo di giovani professionisti al tempo disoccupati per via del Covid e all’insostituibile contributo delle mie due figlie che hanno messo insieme la squadra. “La matematica della libertà”, titolo provvisorio del mio doc fantasma, giace al momento nel cassetto in attesa che qualcuno voglia investire qualche euro per finirlo. L’idea era nata in seguito alle rivolte carcerarie e ai troppi morti tra i detenuti. Su questo tema sono riuscita a riprendere una lunga conversazione tra Palma e Monsignor Matteo Zuppi. Attualmente Palma e le sue bravissime collaboratrici Daniela de Robert e Emilia Rossi hanno ufficialmente concluso il loro mandato (Palma ne ha tratto alcune conclusioni su questo stesso giornale il 2 dicembre scorso). Ho chiesto a Palma e a Zuppi se potevamo ripetere l’incontro, questa volta solo su zoom. Dopo lunghe trattative su date e orari finalmente ci siamo riusciti. Mauro Palma si collega per primo. Come ti senti alla fine di questa lunga e avventurosa esperienza? Palma: Come quando stava morendo Francisco Franco che ogni giorno si diceva che era morto, poi invece non era mai morto. Al di là della battuta mi sembra una situazione simile: ho partecipato già a un numero abbastanza alto di miei “funerali”, situazioni in cui le persone mi hanno ringraziato, in cui mi hanno detto ci mancherai. E tutte le volte sembrava che stesse per finire. Un bellissimo dialogo fatto alla Bocconi a metà novembre con Marta Cartabia e il giorno dopo in Statale, con delle cose anche commoventi, ho visto molto affetto, molto apprezzamento di ciò che si era fatto… però tutte situazioni che davano appunto per scontato che il nostro compito era finito. Fino a quando noi, io e le mie due colleghe Daniela de Robert e Emilia Rossi, abbiamo scelto, come data il primo di dicembre e abbiamo organizzato nella sala Zuccari del Senato il saluto ufficiale con interventi, con l’inno di Mameli in una versione molto bella diretta da Muti, poi abbiamo annunciato che noi andavamo a mettere dei fiori alle Fosse Ardeatine perché era doveroso ricordare quella situazione dove da una detenzione si è passati alla morte. Ma il 2 dicembre non è successo assolutamente niente. Vanno completati tutti i passaggi formali. Dal punto di vista soggettivo nostro è una situazione strana perché continuiamo a lavorare ma non si riesce a progettare niente. Ti senti in una specie di passato che non è finito e di presente che non è cominciato. Mi chiedevo chi sarà quel pazzo che si arrampica sulla scaletta della nave Covid col mare grosso come hai fatto tu... Palma: già! Quello che dovremo comunicare a chi ci sostituisce è che questo è un lavoro che ti richiede una messa in gioco personale molto forte, qui si richiede il fatto di andare a scovare i problemi, andare a farli emergere, perché le vulnerabilità delle persone non sempre sono esplicite, tu devi avere pazienza, dare tempo alle persone per tirar fuori… e non sempre i luoghi di privazione della libertà sono quelli canonici. Io in questo in questo ero avvantaggiato perché venivo da più di undici anni a Strasburgo dove avevo presieduto il Comitato che aveva lo stesso ruolo. È importante avere l’impostazione giuridica dei problemi ma è anche importante capire che tra il diritto in qualche modo affermato, il diritto vissuto e il diritto registrato, diciamo, nell’osservazione non sempre questi tre ambiti coincidono, e capire laddove non coincidono. (Nel frattempo è arrivato Monsignor Zuppi). Ci eravamo lasciati durante il Covid… non mi sembra che la situazione carceraria sia migliorata anzi! le poche cose positive che si erano ottenute per via dell’emergenza sono state eliminate... Palma: per esempio il carcere aveva sperimentato le tecnologie e le videochiamate. La videochiamata porta il colloquio in un contesto che è il tuo, ti fa entrare nei luoghi familiari. Nel dopo Covid, cioè adesso, gli elementi positivi sono scomparsi si è ritornati alla precedente gestione, si è cominciato con il fatto che i semiliberi, che avevano avuto per due anni la possibilità di non tornare a dormire in carcere, appena finita l’emergenza, hanno dovuto riprendere a tornare. Sulle telefonate abbiamo avuto un dibattito estivo pietoso: “diamo 5 minuti in più o in meno”. Zuppi: cosa c’è per le carceri nella Finanziaria? c’è stato un pensiero? un finanziamento? si agisce sul contenimento e basta? È chiaro che è necessario un piano a lungo termine sia per quanto riguarda il discorso della Polizia penitenziaria sia per quanto riguarda le strutture e anche le pene alternative. Palma: la cosa più eclatante è stata la proposta di passare al penale il fatto della dispersione scolastica, cosa che c’è stata nell’ultimo decreto: se i ragazzini non vanno a scuola allora metto la penalità ai genitori! A proposito di Finanziaria la Presidente del Consiglio alla domanda sul carcere ha detto si stanno facendo otto padiglioni. È vero, si fanno otto padiglioni che peraltro erano stati una decisione del precedente Governo, sono otto padiglioni da 80 persone, un totale di 640 posti. La differenza attuale che c’è tra i posti regolamentari disponibili e il numero di detenuti è di circa 13.000 posti mancanti, quindi è evidente che il problema non si risolve con l’edilizia. Zuppi: Ho l’impressione che le chiusure durante il Covid, con le conseguenze drammatiche che ci sono state, non hanno insegnato molto se anche le aperture temporanee positive come le telefonate sono state sospese. Dobbiamo far tesoro dell’esperienza di una tragedia che c’è stata, con le violenze e i tanti morti che ci sono stati in diverse carceri. Palma: il carcere attualmente, parlo della media sicurezza non dell’alta sicurezza, sta registrando una fase di grande chiusura, di disattenzione istituzionale a un linguaggio che sia anche di comprensione. E, invece, un linguaggio sempre più centrato sull’esclusione, sul distanziamento, sta influenzando proprio la narrazione sul carcere e, anche, negativamente, il linguaggio giovanile. Questa idea che io chiamo del “castigo meritato”, è un’idea terribile che sta dilagando tra i ragazzi. Questo comporta che c’è da fare del lavoro nel carcere ma ce n’è ancor più da fare fuori dal carcere, nel tessuto sociale dove le culture si costruiscono. Ecco perché, in qualche modo, anche un Garante così come un Cappellano o un Vescovo hanno innanzitutto il tema di andare a scardinare questo modo di affrontare i problemi. Scardinarli nel sociale perché sennò il carcere da solo non ce la può proprio fare. Zuppi: L’altro grande problema di fondo è che le strutture di reinserimento sono sempre molto poche, per le donne e per i minori siamo molto, molto indietro; ed è la Chiesa che ne fa di più, non c’è dubbio. Qui abbiamo aperto la struttura di accoglienza don Nozzi a Corticella, per fortuna tutta la Chiesa di Bologna si è coinvolta in grossi lavori e adesso ci sono quelli della Giovanni 23º che vorrebbero fare una cosa analoga cioè aprire una struttura di accoglienza per i minori che manca. Ma non basta. Palma: Questo modello del “separare” come forma per affrontare la complessità sta diventando dirimente anche al di là del carcere con questa idea di ampliare i centri per migranti. Lì non abbiamo la punizione, non c’è il castigo meritato, ma l’insopportabilità della diversità. In qualche modo se non sei regolare finisci dentro i centri per migranti. Quello che mi preoccupa è che il paradigma detentivo affronta contraddizioni che sono anche territoriali e si espande su altri temi, laddove non si trovano soluzioni. E questo sui migranti sta venendo fuori in maniera pesante. Zuppi: Il problema con gli stranieri, purtroppo, è che tutti i governi lo hanno affrontato in termini di emergenza e di presunta sicurezza. Dico presunta perché poi chiaramente non c’è quando gonfi i centri a cui mancano i finanziamenti per garantire la difesa dei diritti, l’assistenza sociale, tutta la struttura che può permettere un rapporto serio con le persone e quindi la possibilità di un serio esame delle situazioni. Il solo contenimento senza integrazione o eventualmente il rimpatrio concordato, con gli aiuti necessari, non basta! Non riusciamo ad attuare i flussi. Il problema è la domanda-offerta: noi abbiamo un’offerta enorme di persone, che non aspettano altro, offerta che non si riesce a mettere assieme con la domanda che è ugualmente enorme. Il Presidente di Confartigianato nel suo discorso ha detto che i mancati guadagni per gli artigiani sono stati l’anno scorso equivalenti a 10 miliardi di euro. Per mancanza di manodopera non sono riusciti a rispondere alle commesse e aumentare la produzione e quindi le vendite. Questo lo dicono tutte le categorie: edilizia, turismo e via dicendo. Allora proprio questa è la contraddizione. Aggiungerei che, a quel poco che ho capito, questo famoso accordo europeo in realtà è purtroppo soltanto ancora in termini di sicurezza. Un approccio solo difensivo di chiusura non risolve il problema e purtroppo l’Europa non ci aiuta… direi che l’Europa dovrebbe aiutare tutti a garantire un altro modo di affrontare la questione, a permettere il cambio di paradigma che dicevi tu, indispensabile pensando alle proporzioni del fenomeno. Solo uniti potremo dare delle risposte efficaci. Palma: D’altra parte l’Europa dà i soldi alla Turchia perché non arrivino, vuole dare soldi alla Tunisia, all’Albania… io sono un pochino pessimista, cioè pessimista a livello quasi planetario su questo problema perché vedo come si comporta l’Australia, per esempio, che li manda in un’isola, vedo gli Stati Uniti rispetto al Messico. Il bisogno è visto come disturbo e la povertà come errore del singolo. Questo è! È un qualcosa che interroga, direi, la concezione filosofica del presente. Essere bisognoso equivale a disturbare chi non lo è, lo spinge a volersi difendere. Lo vedo proprio a livello planetario e non trovo delle situazioni di accoglienza a cui poter fare riferimento. Io ogni tanto sbatto la testa al muro rispetto al fatto che l’89, che è stato il crollo di alcuni muri, è stato l’inizio di tanti muri. Qui si spendono miliardi per costruire muri che poi sono l’emblema dei muri mentali, dei muri soggettivi che viviamo. Non voglio adesso allargare troppo il discorso però mi domando come sia possibile cercare di far germogliare un paradigma diverso. Mi assale quest’idea in un mondo che costruisce difese dagli altri. Zuppi: Se manca una, diciamo, idealità comune che unisca, che in fondo era quella che ha permesso nel dopoguerra di creare delle strutture sovranazionali e il multilateralismo, con alcuni passaggi fondamentali, penso, appunto, a tutte le dichiarazioni dei diritti, oppure la struttura stessa dell’ONU, oppure, non so, Helsinki per l’Europa… Quando ancora c’era la convinzione e anche la consapevolezza che è meglio perdere sovranità per dotarsi di un approccio comune per prevenire i conflitti, che significa anche combattere le ingiustizie, i disequilibri… direi questa grande visione europea nel mondo cattolico interpretata dalla Populorum progressio, questo senso di universalità, di giustizia… Dopo il crollo del muro non abbiamo saputo cogliere le opportunità per costruire delle relazioni nuove. Perché la Russia non doveva e non poteva avere un legame diverso con l’Europa con la NATO in una rivisitazione generale? perché continuare a considerarla un nemico o non avviare delle relazioni diverse? La seconda parte dell’articolo 11, poi, non è soltanto riguardo alla guerra, al ripudio della guerra come strumento per risolvere i conflitti, ma anche per risolvere i disequilibri, le ingiustizie e per pensare di affrontare i temi che sono e che saranno epocali. Faccio un esempio: l’Africa diventerà, credo in trent’anni, il continente più popoloso, più dell’India e della Cina che invecchia paradossalmente dopo le scelte degli anni 60 sulla natalità. Allora è impensabile credere di poter gestire una pressione che aumenterà! Basta guardare sulle piantine dove sta la ricchezza e dove sta la popolazione, a un certo punto la grande popolazione cercherà di entrare dove c’è la poca popolazione e un’enorme concentrazione di ricchezza…ecco, questo richiederebbe una grande visione multilaterale e anche degli strumenti sovranazionali che possano, appunto, ipotizzare delle risposte, entrare in una in una prospettiva capace di affrontare un cambiamento così epocale. Almeno provare seriamente a farlo a partire dai termini reali non da quelli supposti. Palma: Vedi, io sono un po’ affascinato da alcuni progetti di Ferrajoli, che sembrano del tutto impropri adesso, su una “Costituzione della terra”, cioè di pensare a strumenti nuovi, di accordi, di garanzie che riguardino il pianeta in quanto tale. Perché il regionalismo continentale è l’equivalente del sovranismo di 70 anni fa. Dobbiamo superare questa visione a partire dal problema del movimento delle persone. Io dico sempre che il diritto a emigrare, come diritto, c’è addirittura in alcuni testi del XVI e XVII secolo; ma allora era il diritto a emigrare per andare a colonizzare, cioè il diritto soggettivo di poter andare. Adesso, che, invece, il diritto a emigrare è per venire, in qualche modo, a chiedere, l’abbiamo completamente perso. Io rimango inorridito quando l’Europa pensa di delocalizzare le proprie difficoltà: non ci stanno riuscendo perché ci sono ancora le Corti, però… quanto è fragile tutto ciò se è solo lo strumento giuridico a contenere le pulsioni! Zuppi: Le Corti europee devono difendere i principi costitutivi che sono vicini a quelli della nostra Costituzione. Solidarietà e giustizia sono fondamenti dell’Europa in cui i diritti della persona non possono essere messi in discussione. Quando diciamo di uscire da un’idea di sola sicurezza difensiva non è soltanto idealismo, è proprio realismo. L’attenzione al mondo delle carceri deve ricostruire quello che è stato lacerato e che ha bisogno di essere ricomposto, cui dare speranza perché il fine non è mai solo il contenimento, ma sempre la redenzione, per i motivi cristiani della visita in carcere dove incontriamo la presenza di Gesù e per quelli fondativi della nostra civiltà, - solidarietà, libertà, uguaglianza, giustizia, pace - ricordati dal presidente Mattarella l’ultimo dell’anno. Quanto poi ai soliti commenti “voi siete dei buonisti”, o quello rozzo per cui “la Chiesa c’ha degli interessi”, dico che la Chiesa mette tante risorse e casomai l’unico interesse che ha è la persona e i diritti fondamentali, che dovrebbero essere un interesse generale e non solo della Chiesa. Il mio digiuno contro la catastrofe carceri di Rita Bernardini L’Unità, 13 gennaio 2024 La situazione impone un provvedimento di clemenza non tanto per i detenuti ma per lo Stato che è fuori dai parametri costituzionali. Con Roberto Giachetti inizierò lo sciopero della fame dalla mezzanotte del 22 gennaio prossimo: è bastato annunciarlo perché altri cittadini decidessero di unirsi nel cammino di questa iniziativa nonviolenta. Siamo convinti che uno Stato che voglia definirsi “democratico” e “di diritto” non possa permettersi la catastrofica situazione attuale: oltre 60.166 detenuti sono costretti a vivere in 47.540 posti con un sovraffollamento medio del 127%. In particolare, 103 istituti penitenziari su 189 hanno un sovraffollamento del 150%, il che vuol dire che lo Stato italiano in 100 posti disponibili accalca 150 esseri umani. Oltre 60.166 detenuti sono costretti a vivere in 47.540 posti. Mancano 18mila agenti, e poi direttori, educatori, assistenti sociali, magistrati di sorveglianza. Dalla mezzanotte del 22 gennaio inizierò uno sciopero della fame insieme al deputato di Iv Roberto Giachetti. Siamo convinti che uno Stato che voglia definirsi “democratico” e “di diritto” non possa permettersi questa catastrofe. “Manco ad un caffè rinuncereste!”, così Marco Pannella si rivolgeva a molti intellettuali italiani che si pavoneggiavano proclamando la massima “non sono d’accordo con le tue idee, ma sono pronto a dare la vita affinché tu possa esprimerle”. Il leader radicale, che di scioperi della fame (e della sete) ne ha fatti a centinaia per affermare il diritto alla conoscenza e all’informazione dei cittadini italiani, amava ripetere che sì, rischiava la vita, ma contro la certezza della morte del diritto e dei diritti. Quando sceglieva gli interlocutori delle sue iniziative nonviolente (Presidente del Consiglio, Presidente della Repubblica, ministri o, comunque, rappresentanti istituzionali) non era per mortificarli o ricattarli: al contrario, intendeva aprire un dialogo affinché emergesse la loro parte migliore e ciò di cui erano profondamente e intimamente convinti. Il Grande Satyagraha deciso a dicembre scorso dal X congresso di Nessuno Tocchi Caino, intende affrontare la drammatica condizione delle nostre carceri con il metodo della nonviolenza affinché il “potere” prenda le decisioni adeguate ad una situazione che va via via aggravandosi come dimostra la realtà dei dati ripetutamente richiamati da associazioni come la nostra, dal Garante nazionale e dai garanti locali, da accademici del diritto penale, dagli avvocati dell’UCPI e del Movimento Forense, dai volontari che quotidianamente fanno il loro ingresso in carcere. Con il deputato di Italia Viva Roberto Giachetti inizierò lo sciopero della fame dalla mezzanotte del 22 gennaio prossimo: è bastato annunciarlo perché altri cittadini decidessero di unirsi nel cammino di questa iniziativa nonviolenta. Siamo convinti che uno Stato che voglia definirsi “democratico” e “di diritto” non possa permettersi la catastrofica situazione attuale che possiamo rappresentare così: oltre 60.166 detenuti sono costretti a vivere in 47.540 posti con un sovraffollamento medio del 127%. In particolare, 103 istituti penitenziari su 189 hanno un sovraffollamento del 150%, il che vuol dire che lo Stato italiano in 100 posti disponibili accalca 150 esseri umani. La quotidianità penitenziaria è stravolta anche perché gli agenti di polizia penitenziaria che fanno i turni negli istituti sono 18.000 in meno e per questo chi rimane è costretto a fare turni massacranti “obbligatori” e ricordiamo che con pochi agenti non si possono organizzare le attività per i detenuti come corsi professionali, scuole, lavorazioni serie; persino andare all’area verde per fare il colloquio con i figli minori diventa impossibile se non c’è il personale. Mancano i direttori e gli educatori: con gli ultimi “rinforzi” si coprono a malapena i pensionamenti. Che rieducazione o risocializzazione si può fare senza gli educatori? Se un educatore è costretto a seguire in moltissimi casi più di cento detenuti “in un percorso individualizzato di trattamento” (così recita l’ordinamento penitenziario), come può farlo realmente? La Presidente del Consiglio Giorgia Meloni deve sapere che, in tutto, gli educatori previsti in pianta organica sono solo 923, che quelli effettivamente assegnati sono 803 e che questi 803 hanno giustamente i diritti di tutti gli altri lavoratori (ferie, malattia, gravidanza, legge 104, etc. etc.). Altra realtà da considerare è quella degli assistenti sociali che oramai rarissimamente entrano in carcere perché, anche loro, sono troppo pochi e hanno sulle loro spalle tutto il carico di lavoro degli Uffici per l’Esecuzione Penale Esterna (misure alternative). E i magistrati di Sorveglianza? La pianta organica ne prevede in tutta Italia 246 ai quali si aggiungono 29 presidenti di tribunale: nella realtà i magistrati degli uffici di sorveglianza sono 210 e i presidenti sono 25. Cosa dovrebbero fare questi 235 magistrati? Seguire uno per uno nel loro percorso di reinserimento i detenuti definitivi (74%) rispondendo a tutte le loro istanze, entrare frequentemente negli istituti per verificare le condizioni di detenzione e rispondere alle richieste proposte al momento, decidere la sorte (carcere o misura alternativa) di oltre 100.000 liberi-sospesi. Riescono ad adempiere a tutti questi compiti? Evidentemente, NO! Soprattutto se consideriamo che a tutto questo va aggiunta la carenza (30% circa) di personale amministrativo (cancellieri, contabili, impiegati, autisti, commessi). Questo quadro tanto disarmante e fallimentare quanto costoso (solo i 189 istituti penitenziari costano 3 miliardi e 328 milioni all’anno), non è ancora completo perché occorre aggiungere la dolente nota della sanità penitenziaria da tempo gestita dal SSN e carente sotto ogni punto di vista, non in grado di fornire l’assistenza medica indispensabile ad una popolazione di per sé “fragile” come quella, per fare due esempi, riguardante i tantissimi casi psichiatrici o i dipendenti problematici da sostanze stupefacenti, persone che in carcere non dovrebbero proprio starci e che in carcere possono solo peggiorare la loro situazione. Dal 23 gennaio inizieremo il Satyagraha perché siamo convinti della veridicità del quadro sopra rappresentato, un quadro che, a pensarci bene, impone un provvedimento di clemenza non tanto per i detenuti ma per lo Stato che è fuori dai parametri costituzionali nei quali deve obbligatoriamente e immediatamente rientrare. Noi abbiamo le nostre proposte come quelle del rafforzamento della liberazione anticipata e siamo aperti a qualsiasi altra proposta che porti alla diminuzione della popolazione carceraria e quindi al miglioramento delle condizioni di detenzione. Non si tratta solo di scongiurare il protrarsi di trattamenti inumani e degradanti (non dimentichiamoci la condanna del nostro Paese da parte della Corte EDU nel 2013), si tratta altresì di concepire il “nuovo possibile” di fronte ad una realtà, quella del carcere, che è criminogena e che sempre di più diviene una fabbrica di recidiva come dimostrano tutte le statistiche. 152 suicidi in 24 mesi impongono a tutti una riflessione e un’azione. Ci rivolgiamo con la forza dialogante della nonviolenza al Governo, a Giorgia Meloni, al Ministro della giustizia Carlo Nordio. Facciamo quello che sentiamo di dovere affinché possa accadere il meglio per la democrazia del nostro Paese. Facciamo nostre le parole che il Presidente Mattarella pronunciò due anni fa al momento del suo insediamento: “dignità è un Paese dove le carceri non siamo sovraffollate e assicurino il reinserimento sociale dei detenuti; questa è anche la miglior garanzia di sicurezza”. Sovraffollamento e suicidi, ma il problema-carceri non interessa al governo Meloni di David Allegranti lettera43.it, 13 gennaio 2024 Il 2024 si è aperto con due detenuti che si sono tolti la vita. A fronte di una capienza di 51.179 posti, ci sono 60.166 persone dietro le sbarre. Mancano strutture per la salute mentale. E l’esecutivo che fa? Aumenta il numero dei penitenziari. Che non serve a niente. Analisi di una piaga atavica che la destra sembra snobbare. Nemmeno due settimane di 2024 e sono già due i suicidi nelle carceri italiane. Fatiscenti, da abbattere (come Sollicciano a Firenze, ma non è l’unico). Sovraffollate: 60.166 detenuti presenti al 31 dicembre 2023, parecchio oltre la capienza regolamentare del sistema carcerario, che è di 51.179 posti. Senza strumenti in grado di affrontare l’aspetto psicologico secondo una ricerca di Antigone, il 77,6 per cento degli istituti penitenziari non ha un’articolazione per la salute mentale. Carceri inadeguate, insomma, dove ci finisce chi non ci dovrebbe stare, come il 23enne Matteo Concetti, affetto da patologia psichiatrica, che si è ammazzato nel carcere di Ancona. Perché non c’è la detenzione domiciliare per chi ha problemi psichici? Che cosa ci faceva Concetti in galera? Niente, evidentemente. Ma per essere ancora più sicuri lo chiediamo al filosofo del diritto Emilio Santoro, che a Lettera43 dice: “La Corte costituzionale, con la sentenza n. 99 del 19 aprile 2019, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-ter, comma 1-ter, dell’ordinamento penitenziario, nella parte in cui non prevede che, nell’ipotesi di grave infermità psichica sopravvenuta, il tribunale di sorveglianza possa disporre l’applicazione al condannato della detenzione domiciliare anche in deroga ai limiti di cui al comma 1 del medesimo art. 47-ter”. Per cui, chiarisce Santoro, “c’è da chiedersi quanti dei detenuti con disturbi psichici che si sono suicidati potevano essere spostati in detenzione domiciliare, e casomai presso un luogo di cura? Perché dalla sentenza della Corte quasi nessun detenuto è stato dichiarato incompatibile con il carcere per i suoi problemi psichici e invece si sono aperte strutture o sezioni psichiatriche dentro le carceri?”. L’unica inefficace risposta del governo Meloni: aumentare le carceri - Tutte ottime domande che vanno girate a chi legifera e governa. Anche perché fin qui la risposta di maggioranza ed esecutivo è stata davvero insufficiente. Di fronte al problema di chi si toglie la vita in carcere - evento che ha una sua elevata componente di imponderabilità, come spiega sempre Santoro nelle sue riflessioni - la risposta del governo Meloni è stata solo una: aumentare il numero delle carceri. Ma non serve a niente, come ha osservato Rita Bernardini, che ha presentato alla Camera l’inizio dello “sciopero della fame di dialogo con Giorgia Meloni” promosso dall’associazione Nessuno tocchi Caino. Capo del Dap e garante dei detenuti, due ruoli particolarmente delicati - Accanto a lei anche la deputata Maria Elena Boschi di Italia viva, che ha sottolineato la natura panpenalistica del governo Meloni: “A fronte della necessità di affrontare il problema del sovraffollamento delle carceri, perché uno Stato democratico non può permettersi violazioni dei diritti umani fondamentali, la presidente del Consiglio si muove in direzione ostinata e contraria. La presidente Meloni, con cui è necessario aprire un dialogo sul tema, più che svuotare le carceri le riempie, aumentando pene e reati”. Sono insomma “ancora troppe le persone che non dovrebbero essere in carcere e che troppo spesso subiscono esiti drammatici”, ha detto Boschi, rivolgendo un invito a tutti i deputati e senatori: “Sul tema serve una riflessione seria, che noi di Italia viva facciamo da tempo sia al fianco di Nessuno Tocchi Caino sia attraverso un lavoro legislativo e di sindacato ispettivo. Ma invitiamo tutti i parlamentari a visitare almeno una volta il carcere. Aiuterebbe ad assumere decisioni con maggiore consapevolezza e a scegliere le persone giuste per i giusti incarichi, basta pensare alla delicatezza di ruoli come quelli del capo del Dap e del garante dei detenuti, che ci auguriamo possa svolgere l’incarico con l’indipendenza che ci si aspetta”. A Meloni e al ministro Nordio interessa qualcosa? L’invito di Boschi andrebbe allargato ai ministri del governo Meloni ma anche a tutti i magistrati che non hanno mai messo piede una volta in vita loro nelle carceri italiane. Se ne visitassero qualcuna, si farebbero un’idea senz’altro più precisa di quello che, per esempio, racconta il presidente di Antigone Patrizio Gonnella, nell’ultimo report di fine dicembre 2023 sullo stato di salute delle carceri italiane: “Quello che notiamo è la crescita estremamente rapida del sovraffollamento penitenziario. Oggi i detenuti sono 60 mila, oltre 10 mila in più dei posti realmente disponibili e con un tasso di sovraffollamento ufficiale del 117,2 per cento, con una crescita nell’ultimo trimestre (da settembre a novembre) di 1.688 unità. Nel trimestre precedente di 1.198. In quello ancora prima di 911. Nel corso del 2022 raramente si è registrata una crescita superiore alle 400 unità a trimestre. Andando avanti di questo passo, tra 12 mesi, l’Italia sarà nuovamente ai livelli di sovraffollamento che costarono la condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo per violazione dell’articolo 3 della Convenzione Edu”. Interessa a qualcuno tra Meloni e il ministro della Giustizia Carlo Nordio? Detenuto senza cure, la condanna della Cedu di Eleonora Martini Il Manifesto, 13 gennaio 2024 Strasburgo censura l’Italia per un ergastolano lasciato senza fisioterapia. E in un solo giorno due morti nelle celle. Nelle stesse ore in cui arriva la condanna della Corte europea dei diritti umani all’Italia per maltrattamenti nei confronti di un ergastolano a cui non sono state garantite le cure mediche dovute, sale a otto il numero di decessi di detenuti in carcere dall’inizio dell’anno. Due in un solo giorno. È la seconda volta nel giro di una settimana che nel carcere Montacuto di Ancona muore un recluso. Dopo Matteo Concetti, suicida in una cella di isolamento (ma gli inquirenti hanno aperto un’inchiesta per istigazione), nella notte tra giovedì e venerdì è deceduto anche un 41enne di nazionalità algerina che era stato arrestato il 3 gennaio a Loreto per possesso di 52 grammi di eroina. A dare l’allarme sono stati i suoi compagni di cella, ma per stabilire le cause della morte bisognerà attendere l’autopsia disposta dalla procura. In quel di Caserta, invece, a dare notizia di un “probabile infarto” che avrebbe ucciso un detenuto di Santa Maria Capua Vetere (il carcere dell’”orribile mattanza” ad opera di alcuni agenti sui detenuti) è il Sappe. L’uomo, di 46 anni, era ristretto nel reparto di alta sicurezza “Tamigi” e il sindacato di Polizia penitenziaria coglie l’occasione per lanciare l’allarme sulla sanità penitenziaria: “Altro che emergenza superata”, commenta il segretario generale Donato Capece. Che in una nota riporta i dati del rapporto su “Salute mentale e assistenza psichiatrica in carcere” del Comitato nazionale per la bioetica secondo il quale al primo posto tra le tipologie di disturbi che affliggono la popolazione carceraria ci sono la dipendenza da sostanze psicoattive (23,6%), disturbi nevrotici e reazioni di adattamento (17,3%), disturbi alcol correlati (5,6%). In realtà sembrano dati sottodimensionati: stando per esempio a quanto riportato dalla Società italiana di medicina e sanità penitenziaria “si stima che considerando anche il sommerso, oltre il 60% dei detenuti faccia uso di stupefacenti, mentre prima del Covid non si arrivava al 50%”. Disturbi, malattie e dipendenze, comunque, che quasi mai vengono trattati adeguatamente. Un fatto rilevato, come spesso accade, dalla sentenza di Strasburgo che censura l’Italia per il maltrattamento inferto ad un uomo, condannato all’ergastolo per reati di mafia, che aveva fatto ricorso alla Corte nell’ottobre 2020. L’ergastolano soffre di diversi problemi di salute, tra cui una grave osteoporosi, ed è stato riconosciuto invalido al 100%. Ma né nel carcere romano di Rebibbia, dove la sanità è nelle mani della Regione Lazio, né a Milano e neppure a Parma, ossia nelle regioni dove la salute pubblica è mediamente meglio tutelata, il detenuto ha ottenuto le cure “adeguate”, secondo la Cedu. Malgrado i giudici di Strasburgo non abbiano ritenuto il detenuto incompatibile con il regime carcerario, Strasburgo ha comunque evidenziato che “nonostante i referti medici indicassero la necessità di una fisioterapia regolare e un trattamento riabilitativo intensivo, i cicli di fisioterapia sono stati sporadici, e non c’è alcuna prova che il detenuto abbia mai avuto accesso a un trattamento riabilitativo intensivo”. Riforma delle intercettazioni, la furia dei Pm che perdono il potere di ricatto di Piero Sansonetti L’Unità, 13 gennaio 2024 Sono riforme modeste, di puro buonsenso. Quello che stupisce è la reazione furiosa di Pm e giornalisti, che temono di perdere diritto alla gogna. La commissione giustizia del Senato sta lavorando di buona lena per produrre alcune piccole riforme alla macchina della giustizia. Niente di clamoroso. Nulla che possa porre riparo alle gigantesche distorsioni che negli ultimi 40 anni hanno deturpato il volto del nostro sistema del diritto. Però piccoli aggiustamenti intelligenti. Finalmente, dopo avere per un anno intero giocato al vecchio gioco di aumentare il numero dei reati e la gravità delle pene (dal reato di “concerto affollato”, a quello di “eccesso di soccorso”, alle nuove norme per la detenzione dei naufraghi che non hanno violato nessuna legge, al reato universale -come la strage - di fare un figlio con metodi che non piacciono all’oltranzismo cattolico), finalmente la maggioranza ha invertito la rotta e sta provando a introdurre piccole norme garantiste. L’abolizione di alcuni reati, come l’abuso d’ufficio. Il ridimensionamento di altri reati, come il traffico di influenze. E poi elementari norme che frenano almeno un po’ il ventilatore del fango rappresentato dall’uso selvaggio delle intercettazioni. Non dovete pensare a una rivoluzione, solo a piccole norme di buonsenso. Per esempio è stata votata la proibizione di intercettare e poi di dare ai giornali le veline coi colloqui tra gli avvocati e gli imputati (Credo che il diritto alla riservatezza nei rapporti tra imputato e avvocato fosse garantita persino durante il fascismo). Oppure è stata ipotizzata la proibizione di trasformare in gossip acchiappa-clic (sul web) e acchiappa-copie, quei pezzi di intercettazione che non riguardano l’inchiesta penale e che coinvolgono persone che non sono inquisite. Capite che uno legge il testo di queste misure e si stupisce del fatto che per ottenere delle condizioni basiche di civiltà sia necessario correggere norme precedenti. Invece le Procure e i loro giornali (guidati da Repubblica prima ancora del Fatto) si indignano. Perché? Perché osservano che in questo modo è un guaio sia per i Pm che per i giornalisti. I giornalisti rischiano di restare senza gossip, che da che mondo è mondo è il motore della macchina della giustizia. E i Pm rischiano di doversi limitare alle indagini senza poterle trasformare in spettacolo mediatico, e quindi senza poter bastonare gli imputati prima che siano condannati. In realtà, vedrete, non sarà così. Perché poi giornalisti e Pm trovano sempre il modo per aggirare gli ostacoli e per abbattere quella che loro considerano una barbarie: la presunzione di innocenza. Del resto i giornalisti confessano qual è per loro il cruccio. Per esempio la proibizione di tirare in mezzo un politico o una persona celebre, caduta in una intercettazione, che non sia però indagata. In questi casi la cosa funziona così. Si fa un titolo standard che è questo: “Nell’inchiesta su tizio spunta il nome di Caio”. Poi nell’articolo si precisa che Caio non c’entra niente, però il titolo ha risolto il problema fondamentale, quello di ipotizzare (anzi dichiarare) la sua colpevolezza. La parola “spunta” è una parola chiave nel giornalismo moderno. Se si proibisse la parola “spunta” metà del giornalismo giudiziario affonderebbe. Dunque cosa c’è di positivo in queste piccole riforme? Non molto. Forse solo una cosa: si attenua la possibilità di ricatto sulla politica da parte delle Procure. La politica diventa un pochino meno sotto schiaffo. E le Procure vedono leggermente spuntate le loro armi. Certo che è un fatto positivo. Anche se poi resta tutto il resto del marciume: la mancata separazione delle carriere, la mancata affermazione della responsabilità civile del magistrato che sbaglia, la fine della carcerazione preventiva, la modifica del codice penale con la riduzione di tutte le pene. Per ora che facciamo? Vogliamo accontentarci? No, no, non sarebbe prudente. La recita sull’abuso d’ufficio, reato inesistente già prima della sua cancellazione di Alberto Cisterna L’Unità, 13 gennaio 2024 Nel 2020 il governo “giallorosso” riscrisse pesantemente la norma sull’abuso d’ufficio cancellandone la portata e azzerandone l’applicazione. Da allora le chance di condanna sono ridotte al lumicino. L’eliminazione totale avrà innanzitutto un forte contraccolpo sociale. La discussione sull’abrogazione del reato d’abuso d’ufficio si protrae con una certa stanchezza almeno dal 2020, da quando cioè il secondo governo a trazione giallorossa - addirittura con un decreto legge - ebbe a riscrivere pesantemente la norma cancellandone praticamente la portata e azzerandone l’applicazione. Certo gli amministratori locali si lamentano, ritengono la modifica insufficiente, ma c’è un po’ di ammuina in questo atteggiamento; lo sanno tutti che dal 2020 le chance di condanna sono ridotte al lumicino e che tante Procure mandano direttamente al macero la stragrande maggioranza delle denunce senza stare neanche a perder tempo in indagini del tutto superflue. I numeri delle condanne che circolano in questi giorni per giustificare la tesi del colpo di spugna si riferiscono al “vecchio” testo dell’articolo 323 del 1990, per quello del 2020 mancano dati precisi se non quelli, appunto, delle richieste di archiviazione a pioggia. In verità, lo sanno tutti e tutti tacciono facendo finta di ignorare la portata della riforma del 2020 e per ragioni del tutto comprensibili. Si profila un corpo a corpo ravvicinato e occorre serrare i ranghi, chiudere la bocca e indossare l’elmetto. Quando soffiano venti di guerra è prudente acquartierarsi e mettere sacchi di sabbia alle finestre, come cantava un poeta. Il professor Stortoni, in una notevole intervista pubblicata su Il Foglio dell’11 gennaio, ha indicato pregi e difetti di una abrogazione totale del reato smascherando talune delle innocenti bugie che il fronte favorevole alla conservazione snocciola in interviste e dibattiti televisivi. Punto primo: l’abolizione del reato anche in caso di mancata astensione del pubblico dipendente dall’adozione di un provvedimento o un atto che realizza un interesse proprio o di un prossimo congiunto o danneggia un avversario è intollerabile; non si tratta, in questo caso, di consentire l’esercizio della discrezionalità amministrativa o di incidere su scelte latamente politiche dell’amministrazione. L’abrogazione, per capire, giova finanche ai giudici che potrebbero tranquillamente, ossia senza incorrere in alcun reato, condannare i propri avversari o assolvere i propri amici. A occhio e croce un’aberrazione che ha ben colto il dottor Eugenio Albamonte in un’intervista di qualche giorno or sono, spiegando che a profittare dell’abrogazione non sono solo gli amministratori locali, ma tutti coloro che esercitano funzioni pubbliche, giudici compresi di ogni giurisdizione che pur sono tenuti all’imparzialità e alla terzietà delle proprie funzioni. Una vera e propria eterogenesi dei fini se si pensa che tutto l’affaire Palamara che tanto ha indignato la politica e la pubblica opinione ruota intorno a una girandola di favori per gli amici e di punizioni per i nemici di un certo establishment. Punto secondo: l’articolo 323, si dice, è il modo con cui il cittadino indifeso reagisce di fronte alla prevaricazione di una pubblica amministrazione, come dire, almeno poco limpida se non corrotta e grazie a queste denunce è possibile aprire indagini e scoprire magagne peggiori. La tesi ha un punto di verità. L’aura di discredito che circonda la politica e, spesso, le amministrazioni locali induce il cittadino a considerarsi vittima di soprusi, angherie, ingiustizie, (s)favoritismi. È innegabile che questo circuito di percezione è stato alimentato, almeno da Tangentopoli in poi, dalle stesse indagini, dal loro clamore mediatico, dall’esaltazione del tintinnio delle manette. Mettiamo da parte, per il momento, la silente, fallimentare conclusione di tante di queste investigazioni e consideriamone gli effetti su larga scala. Questa “corruzione percepita” (orrenda endiadi, ma da decenni dilagante anche nella saggistica) ha determinato un’espansione illimitata della domanda di giustizia da parte dei cittadini che si ritengono vessati dalla pubblica amministrazione. Imprenditori, commercianti, semplici utenti che hanno “fiutato” che qualcosa non ha funzionato per il verso giusto nelle procedure amministrative che li hanno riguardati; che spesso si sono imbevuti del chiacchiericcio che circonda certi politici e certi funzionari, che insomma hanno “percepito” che c’è del marcio non solo in Danimarca, sono i primi che redigono esposti e denunce. Nulla di evidente, ovvio, nessuna prova di corruzioni o concussioni; in questi casi una denuncia per abuso d’ufficio assomiglia a un grido di dolore e, anche talvolta, a un warning che si lancia ai presunti reprobi: guardate che ho capito e state attenti. Così l’indagine, le perquisizioni, gli interrogatori, i sequestri sono all’unisono sia il rimedio alla frustrazione per l’ingiustizia che si ritiene o si suppone patita sia un messaggio trasversale all’impudente funzionario. Molti procuratori, con difficoltà e pazienza, arginano questa prassi distorta che tende a trasformare le procure della Repubblica in una sorta di minaccioso ufficio reclami, cestinando anzitempo tutti questi esposti alimentando, tuttavia, una raffica di opposizioni all’archiviazione che ingolfavano gli uffici del gip di tutta Italia che ottengono almeno il fine di portare il funzionario in udienza davanti a un giudice in qualità di indagato e con il proprio difensore. Soddisfazione non modesta in qualche caso. Punto terzo: posto che si chiacchiera da decenni di una riforma della pubblica amministrazione, di conferire trasparenza e snellezza ai procedimenti amministrativi, di sottrarre i cittadini al giogo di mille scartoffie (in cui si annida di tutto), eliminare l’abuso d’ufficio avrà innanzitutto un pesante contraccolpo sociale, si potrebbe dire. Insegnanti saltati nelle graduatorie, imprenditori soccombenti nelle gare, commercianti rimasti senza licenza, disoccupati esclusi dalle assunzioni e migliaia e migliaia di altre persone vedranno cadere anche questa estrema arma di protesta e di difesa. Quanti commiserano giustamente la propria marginalità e recriminano sulla propria fragilità rispetto al potere non avranno altra strada che quella di una costosa giurisdizione amministrativa con i suoi tempi, con i suoi limitatissimi poteri di accertamento. È un problema serio che si annida dentro una nebulosa più grande, il tutto avvolto in un ginepraio inestricabile. Si è immaginato di poter affidare alla giustizia penale un compito di sorveglianza attiva sulla pubblica amministrazione e sulla politica e, soprattutto, una funzione di controllo diffuso, a strascico, sui funzionari pubblici. Il reato d’abuso, per i suoi contorni e la sua persistente ampiezza, è stato l’unico strumento che si è prestato a questa funzione; nessuno si azzarderebbe a denunciare qualcuno di corruzione o di concussione in mancanza di prove evidenti. Caduto il mezzo, il fine resta privo di armi, nudo, impotente. È una valutazione tutta politica che, però, non può essere messa da parte senza una consapevolezza piena di quel che è accaduto. Si è dato ai giudici un compito improprio e immane; le toghe hanno agito per come potevano in forza di una sensibilità alle ragioni dei deboli che costituisce l’elemento costitutivo della giustizia; lo strumento si è, inevitabilmente, prestato ad abusi e forzature conferendo ai magistrati un controllo sulla legalità amministrativa ai limiti della violazione del principio di separazione dei poteri. Il vuoto lasciato dall’abrogazione dell’abuso d’ufficio dovrebbe essere immediatamente colmato con misure compensative sul versante amministrativo. Sia un garante locale, sia una class action amministrativa, sia un tutor, sia l’efficientamento della giustizia tributaria e delle authority, sia un rafforzamento della giustizia contabile (invece pur colpita e contenuta di questi tempi), sia l’ombudsman ovvero un difensore civico di matrice anglosassone, insomma bisognerebbe pur trovarlo un modo per fronteggiare la caduta di tutela che i cittadini, in primo luogo, potrebbero “percepire” con l’abrogazione pura e semplice dell’abuso d’ufficio. Senza una riforma radicale ed estrema della pubblica amministrazione che mitighi il costo sociale (prima che giuridico) dell’abrogazione, la soppressione del reato rischia di produrre l’effetto di un “tana libera tutti” per i funzionari pubblici meno onesti e trasparenti e di accrescere la sfiducia e il distacco di tanti cittadini dalla politica e dalle sue istituzioni concepite come un fortino ormai del tutto inespugnabile. È vero, il reato produce scarsi risultati e provoca molti danni, ma da qualche decennio tanta gente ha fatto ricorso allo strumento per le finalità, in parte oblique e distorte, di cui si è detto ed è questa, a occhio e croce, la sostanza degli argomenti che sono proposti da chi si oppone a una pura e semplice abrogazione. Alla politica trasformare l’arroccamento in una casa di vetro e accordare adeguate misure compensative e di tutela diffusa. Alessandro Barbano: “Invece di riformare la giustizia, la rattoppano” di Federica Olivo huffingtonpost.it, 13 gennaio 2024 Il celebrato autore de “L’inganno” (ora in libreria con “La gogna”) difende l’eliminazione dell’abuso d’ufficio e il limite a pubblicare le intercettazioni ma, dice, serve una riforma più ampia e approfondita e una rivoluzione culturale. Un’intervista imprescindibile. “Sì all’eliminazione dell’abuso d’ufficio, sì anche al contenimento della diffusione delle intercettazioni. Però dobbiamo intervenire sulle macro questioni che stanno a monte. Per fare in modo che, citando Filippo Sgubbi, il diritto penale non sia più totale. Totalizzante, cioè, nella vita delle persone”. Nei giorni in cui si discute tanto della riforma della giustizia, Alessandro Barbano, editorialista, condirettore del Corriere dello Sport e autore del libro La Gogna, di recente pubblicazione, ragiona con HuffPost dei temi che stanno accendendo gli animi della maggioranza, dell’opposizione e anche della stampa. Con un’avvertenza: limitarsi a interventi settoriali non è sufficiente. È di poche ore fa il via libera a un emendamento che prevede la cancellazione di riferimenti a terzi non indagati nella trascrizione delle intercettazioni. L’opposizione grida allo scandalo. Come reputa questa misura? È una misura giusta e doverosa, ma è parte di una necessità più ampia che riguarda la pertinenza probatoria degli atti d’indagine. Cioè, la necessità che il pubblico ministero inserisca in tutti gli atti elementi pertinenti con la prova della supposta colpevolezza. Quindi, gli elementi di contesto, che nulla hanno a che fare con la presunta colpevolezza penale ma che spesso rappresentano condizioni morali, senza pertinenza probatoria, non andrebbero inseriti. E i nomi dei terzi coinvolti indebitamente coinvolti dovrebbero essere espunti dagli atti processuali. Dovrebbe, inoltre, essere sanzionato il magistrato che, invece, utilizza gli atti d’indagine per costruire una narrazione che spesso non fa riferimento alla ricerca delle prove, ma alla costruzione di un processo mediatico. Con categorie di carattere moralistico, ma non penale. Pare di capire che non lo consideri, come qualcuno ha invece detto, un nuovo bavaglio. Cosa pensa, invece, dell’altro cosiddetto bavaglio? Quello con il quale si vieterà la pubblicazione, per intero o per estratto, dell’ordinanza di custodia cautelare? Non si può chiedere ai giornalisti di rinunciare a pubblicare, per estratto o per intero, un’ordinanza di custodia cautelare. Al contrario, non si dovrebbe accettare che questa, in violazione del principio di pertinenza probatoria, abbia al suo interno elementi che nulla hanno a che vedere con la presunta colpevolezza e servono per screditare qualcuno. Il giornalista non ha necessariamente nel suo orizzonte la colpevolezza, è legittimo che si interroghi sulla moralità, sul costume della politica e della classe dirigente. Se tu, giudice, hai inserito degli elementi all’interno dell’ordinanza ritenendoli fondativi di un provvedimento che limita la libertà personale, come si può chiedere a un giornalista di rinunciare a scriverle? Di rinunciare, cioè, a esercitare un controllo che da sempre la stampa esercita su questo genere di atti da sempre. Dal momento che di gogna si muore per estratto, ma anche per riassunto, non è l’indisponibilità di custodia cautelare - che, lo ripeto, non può essere sottratta all’opinione pubblica - la soluzione. Il tema è più complessivo e riguarda l’impatto che la giustizia cautelare, e il processo mediatico che sulla scia di questo si instaura, ha sulla giustizia in generale. E tutto questo squilibrio lo vogliamo risolvere negando al giornalista il sindacato su un atto che limita la libertà personale? Bisogna cambiare il modus operandi del magistrato, dunque? Bisogna cambiare la giustizia. Considerare la custodia cautelare un’eccezione e non la regola, come avviene in Italia. Bisogna realizzare la separazione delle carriere, garantire la terzietà del giudice già nella fase delle indagini preliminare, dare forza alla difesa, ridurre i tempi del processo. Da ultimo, la cosa principale: bisogna vincolare il pm a inserire nell’ordinanza cautelare solo gli elementi di prova strettamente connessi con la supposta colpevolezza e non tutto ciò che, invece, rappresenta mera narrazione di contesto. L’emendamento approvato oggi va in questo senso. In molti, però, fanno notare che seguendo questo schema, il nome di Matteo Salvini avrebbe dovuto essere sbianchettato dall’inchiesta sui Verdini. Sarebbe stato giusto cancellarlo? Sarebbe stato giusto nella misura in cui nessuna delle chiamate in causa di Salvini presenti in quell’indagine ha elementi di pertinenza probatoria. Quei riferimenti sono, invece, pari all’associazione che il giornalista potrebbe fare tra il nome di Salvini e quello di Verdini a prescindere dall’inserimento del nome del ministro negli atti d’indagine. L’associazione che l’indagine fa è un suggerimento al giornalista, di tipo denigratorio, alla condanna mediatica. Ma non c’è bisogno che lo faccia l’inchiesta. Lo può fare il giornalista autonomamente, ricordando che Verdini è il suocero di Salvini. Diverso sarebbe, invece, il caso in cui l’accostamento di Salvini fosse connesso a una supposta colpevolezza di Salvini. Ma in quel caso sarebbe indagato. Prima faceva un elenco di aspetti della giustizia che andrebbero riformati. Gliene aggiungo uno: quello dei test psicoattitudinali per le toghe. L’argomento è molto divisivo e lo strumento è stato spesso contestato. In commissione giustizia al Senato, però, se ne ricomincia a parlare. Secondo lei sarebbe una misura sensata? Sì, lo sarebbe. Tutte le professioni che impongono una responsabilità particolare, perché dal loro esercizio dipende la libertà delle persone, devono essere esercitate da chi, oltre ogni ragionevole dubbio, è nelle condizioni di serenità di giudizio, terzietà e di equilibrio psichico. Elementi, questi, che meritano una valutazione. Nel provvedimento che impone una stretta sulle intercettazioni c’è anche l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio. Andava cancellato o no? La mia risposta è: sì, però. Però? Però ci sono questioni di principio e di realismo. Le questioni di principio indurrebbero a una prudenza, perché l’abuso d’ufficio può essere considerato una garanzia per il cittadino rispetto all’abuso del potere. Immaginiamo il pubblico ministero che nasconda le prove a danno del cittadino, o che eserciti le intercettazioni per colpire un cittadino in assenza di presupposti. Però, poi c’è la prassi. E cosa dimostra? Che l’ipotesi di cui parlavo prima si verifica in un’ipotesi residuale di casi. Nella maggior parte dei casi l’abuso d’ufficio è una forma, per l’appunto, di abuso dell’esercizio dell’azione penale, che si concretizza nel dare vita a inchieste che nel 95% non arrivano a condanna. E che, spesso, quando ci arrivano è per fatti bagatellari. Tutto ciò, quindi, mi induce a essere favorevole all’abrogazione, ma dobbiamo stare attenti. A cosa? Ho la sensazione che siamo in una stagione in cui nell’impossibilità di riformare la giustizia in maniera approfondita, pensiamo di rattopparla: pensiamo, cioè, di intervenire su singoli temi, nell’impossibilità di guarire le cause e le grandi asimmetrie del sistema. Noi abbiamo ipotesi di corruzione che vengono confermate sulla base di una mera promessa: nel 2012 è stato inserito il reato di corruzione per l’esercizio della funzione, che è l’espressione di un diritto penale che ha smesso di cercare i fatti costituenti reato e ha messo nel suo radar il cittadino, bersaglio dell’azione penale. Che ha smesso di indagare la colpevolezza e ha messo nel suo radar la presunta pericolosità o, addirittura, la moralità. Qual è la conseguenza di questo modo di intendere la giustizia? Noi stiamo abolendo l’abuso d’ufficio, ma stiamo rinunciando a fare quello che Nordio nel suo discorso di insediamento ha annunciato che la riforma della giustizia italiana parte dai codici: e quindi da una tipizzazione dei reati, che vanno portati a una tassatività che è andata perdendosi per strada. Stiamo ancora rinunciando alla riforma della separazione delle carriere, che è l’unica che può realizzare la terzietà del giudice e la garanzia del cittadino, rispetto all’abuso dell’azione penale. La mia preoccupazione è che alcuni interventi spot, per giusti che siano, vengano considerati esaustivi di una problematica molto più ampia. Così come ho detto che non si risolve il problema della gogna vietando la pubblicazione dell’ordinanza di custodia cautelare, allo stesso modo dico che non si risolve il problema dell’agibilità della pubblica amministrazione eliminando l’abuso d’ufficio, se si lascia che il reato di corruzione sia interpretato in maniera così larga. Questa è una delle preoccupazioni di Giulia Bongiorno, che invitava a riflettere bene sull’abrogazione dell’abuso d’ufficio, perché si corre il rischio che poi i sindaci siano perseguiti per corruzione... Certo, sarà la prima cosa che accadrà. Si utilizzerà l’ipotesi di corruzione per l’esercizio della funzione. È chiaro che l’abuso d’ufficio, per come è scritto ora è una follia, così come il traffico di influenze illecite è una follia, perché dobbiamo prima regolamentare le lobby e poi dire cosa si può fare o no in questo Paese. Insomma, non vorrei che lo scalpo dell’abuso d’ufficio servisse per intestarsi una riforma della giustizia che, invece, è tutta da fare. Test psicologici sui magistrati, ora il centrodestra fa sul serio di Simona Musco Il Dubbio, 13 gennaio 2024 Forza Italia e Lega dicono sì alla vecchia proposta di Berlusconi, d’accordo anche Italia Viva. Campione e Rastrelli (FdI): idea non peregrina. E la proposta piace a anche a Mantovano. “Il tema ulteriore dei test psico-attitudinali, pur non trattato dallo schema di decreto legislativo in esame, merita un supplemento di riflessione da parte della Commissione. Infatti, l’introduzione dei test citati - che pure era stata discussa in Consiglio dei ministri - non ha affatto un valore punitivo ma anzi rappresenta una valorizzazione della fondamentale funzione svolta dalla magistratura. I test psico-attitudinali sono presenti invero in molte professioni che prevedono l’esercizio di rilevanti funzioni pubbliche”. Il virgolettato è di Pierantonio Zanettin, senatore di Forza Italia e relatore, in Commissione Giustizia al Senato, dello schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di riforma ordinamentale della magistratura. Che giovedì, dopo aver terminato di illustrare l’atto, ha rimesso sul piatto la storia dei test per i magistrati, già proposta, tempo fa, a Palazzo Chigi e respinta, allora, dal ministro della Giustizia Carlo Nordio. A raccogliere l’assist è stata la presidente della Commissione, la leghista Giulia Bongiorno, che ha precisato “di essere favorevole, come spesso ho avuto modo di rappresentare, alla possibilità di introdurre test psico-attitudinali per i magistrati”. Test che alla Pubblica amministrazione “fanno tutti - ha sottolineato -. Quello del magistrato è un lavoro delicato che richiede la massima ponderazione ed equilibrio, quindi cosa c’è di male se vieni sottoposto al test?”. E proprio da ministra della Pa Bongiorno, nel 2019, Bongiorno aveva provato a introdurre il tema, proponendo prove in grado di valutare l’equilibrio psichico-mentale ed eventuali patologie psichiatriche delle aspiranti toghe. Zanettin, con un passato al Consiglio superiore della magistratura, non è di certo l’ultimo arrivato in materia. “Conosco a menadito l’ordinamento giudiziario - spiega al Dubbio - e quella di inserire tra gli elementi da discutere in Commissione i test è stata una mia idea personale, che so essere condivisa dal mio partito. Per ora ho solo illustrato questa proposta, ma ho invitato tutti ad affrontare serenamente questo dibattito”. Il clima sembra essere favorevole. E dalle informazioni raccolte dal Dubbio anche Fratelli d’Italia, che in Commissione non si è espressa, potrebbe dare il suo ok per far arrivare la questione al governo. Ne sono la prova la riflessione di due senatori che hanno ascoltato con attenzione l’intervento di Zanettin giovedì a Palazzo Madama. “In linea di principio siamo favorevoli alla proposta, per una serie di ragioni - spiega al Dubbio la senatrice Susanna Donatella Campione -, in primo luogo perché a questi test vengono sottoposti anche altri professionisti, quindi non vediamo preclusioni sul fatto che possano essere applicati anche alla magistratura. Anche perché è notizia di questi giorni che si rileva una carenza di preparazione tra i ragazzi che si sottopongono agli esami per diventare magistrati. Risultano meno preparati, in generale, delle generazioni precedenti. Allora perché non fare una selezione anche dal punto di vista attitudinale? La proposta è ancora solo accennata, quindi ci riserviamo di valutare bene la proposta e come il collega Zanettin ha intenzione di articolare questi test. Di certo l’idea non ci sembra peregrina”. E a conferma che la maggioranza potrebbe proporre al governo in maniera compatta l’idea dei test c’è anche il commento di Sergio Rastrelli. “È una questione che stiamo approfondendo come gruppo anche sotto il profilo tecnico - spiega al Dubbio -. Personalmente sono assolutamente favorevole”. L’idea, però, era già stata rispolverata a novembre, quando il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, aveva proposto, in Consiglio dei ministri, di sottoporre ai magistrati in ingresso a prove psico-attitudinali. All’epoca, stando alle indiscrezioni giornalistiche, Nordio bocciò subito la questione tramite Antonello Mura, capo del legislativo, secondo cui era necessario un preventivo confronto con i magistrati. Ma è stato lo stesso Nordio, il giorno dopo, a rilanciare l’idea in un’intervista al Corriere della Sera: “Il test psicoattitudinale non è uno scandalo ma il tema è delicatissimo”, aveva detto. In quell’intervista il ministro aveva tentato di smentire le indiscrezioni sul botta e risposta in Consiglio. “Al Cdm il provvedimento sull’ordinamento giudiziario è stato da me illustrato compiutamente e approvato all’unanimità senza interventi di nessuno. Sottolineo nessuno”, aveva spiegato. Ma a confermarle sono altre fonti, nonché l’accenno di Zanettin, nella sua relazione, proprio a Palazzo Chigi. Quel che è certo è che il tema non è distante dalle idee del ministro: “Nelle mie pubblicazioni degli ultimi venti anni - aveva aggiunto ancora dialogando col CorSera - ho scritto che questo esame è previsto per la polizia giudiziaria, e quindi non sarebbe uno scandalo se fosse esteso ai pm che ne sono i capi. Anzi a dire il vero io parlavo di esame psichiatrico”. Ma “si tratta di argomento delicatissimo, che va discusso con grande pacatezza e con le interlocuzioni del Csm e degli ordini forensi”. L’idea non piace però alla magistratura. “Sembra quasi un monito - aveva commentato al Dubbio Giovanni Zaccaro, neo segretario di AreaDg -: se non fate i bravi facciamo i test”. E anche Angelo Piraino, segretario generale di Magistratura indipendente, la corrente cui aderiva il sottosegretario Mantovano quando indossava la toga, sembra non comprendere molto il tema. “Mi chiedo a cosa servirebbero: siamo già la categoria di dipendenti pubblici più controllata durante la carriera - aveva commentato -. Ogni quattro anni verificano il lavoro che abbiamo fatto, se va bene possiamo continuare a farlo, se va male siamo sorvegliati speciali per due anni e se il successivo giudizio è nuovamente negativo ci licenziano. Non si tratta di essere promossi, si tratta di continuare a fare il proprio lavoro”. Le Commissioni di Camera e Senato dovranno esprimere un parere entro il 28 gennaio. E a Montecitorio il relatore incaricato di redigere il parere è Ciro Maschio, presidente della Commissione ed esponente di Fratelli d’Italia. A dare supporto a Zanettin c’è anche Italia Viva, che però sembra lanciare una frecciatina al sottosegretario Andrea Delmastro: “Giusti i test psicoattitudinali per le toghe: i magistrati decidono sul bene più prezioso, la libertà - ha commentato la deputata Raffaella Paita -. Dobbiamo essere certi che lo facciano con il giusto equilibrio. Certo, vista la cronaca degli ultimi tempi, quel test andrebbe riservato anche a certi membri della maggioranza…”. L’idea non è comunque nuova, essendo stata una vera e propria ossessione di Silvio Berlusconi: “Questi giudici sono doppiamente matti - disse nel 2003 -. Per prima cosa, perché lo sono politicamente, e secondo sono matti comunque. Per fare quel lavoro devi essere mentalmente disturbato, devi avere delle turbe psichiche. Se fanno quel lavoro è perché sono antropologicamente diversi dal resto della razza umana”. Ed è per questo che nel 2006 ci aveva provato il ministro della Giustizia Roberto Castelli, che nella sua riforma aveva provato a introdurre un colloquio di idoneità psico-attitudinale all’esercizio della professione. Ma anche per via delle critiche dell’Anm, la disposizione fu abrogata con la riforma Mastella l’anno successivo. La goccia cinese contro le toghe di Armando Spataro La Stampa, 13 gennaio 2024 Questo Governo può vantare un record: in poco più di un anno è intervenuto a pioggia sulla giustizia con una quantità di provvedimenti che non ha eguali nella storia recente. Ma la pioggia che si trasforma in stillicidio può assumere anche il significato di una tortura e far vacillare le basi dell’ordinamento giuridico. Non c’è praticamente giornata in cui, sfogliando un quotidiano, non si apprenda, con riguardo al settore della giustizia, di un disegno di legge approvato, di un altro in discussione dinanzi alle competenti commissioni parlamentari, di decreti legge varati in assenza di ragioni di urgenza, di decreti legislativi in fase di lenta elaborazione, di emendamenti che la maggioranza propone e che vanno a modificare testi che pure ha in precedenza approvato. E le chiamano pure riforme, quando - semmai - il termine esatto sarebbe quello di controriforme come dovrebbero definirsi gli ormai storici pacchetti e decreti sicurezza che vanno a ledere i diritti fondamentali degli immigrati (riconosciuti da Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, Costituzione e Risoluzioni internazionali), o come la sequenza di leggi ispirate ad un panpenalismo di matrice populistica: “tutto diventa reato in nome dell’ordine” e le pene aumentano anche per condotte quasi irrilevanti a dimostrazione che questo Governo, pur di dichiarata fede garantista, non tollera il buonismo di alcun tipo, salvo trascurare le condizioni di vita in carcere o quelle di “detenzione amministrativa” nei CPR per immigrati che hanno già determinato condanne del nostro Paese in sede europea. È comunque inutile ritagliare o stampare articoli di giornale o annotare ogni novità: neppure i giuristi sono ormai in grado di stare al passo del Governo e di poter commentare con precisione ogni novità o di poterla collocare temporalmente con esattezza. È pure impossibile commentare tecnicamente in questa sede i contenuti dei provvedimenti cui si è prima fatto riferimento, comunque già analizzati e motivatamente criticati, ma qualcosa va detto su quanto avvenuto negli ultimi giorni. Intanto, rileggendo quanto sin qui scritto, mi accorgo di un mio grave errore: ho detto che, secondo le controriforme in atto, “tutto diventa reato in nome dell’ordine”, ma ho sbagliato! Alcuni, infatti, scompaiono e sono reati gravi come l’abuso di ufficio (nonostante l’Europa chieda a tutti gli Stati di prevederlo nel proprio ordinamento penale) ed altri - come il traffico di influenze - perdono consistenza, il tutto finendo con il favorire i reati dei colletti bianchi e l’espansione della criminalità mafiosa. E genera tristezza il fatto che molti sindaci, indipendentemente dal proprio colore politico, considerino una “vittoria” l’abolizione del reato di abuso d’ufficio che peraltro è stato già recentemente modificato ed il cui ambito d’applicazione - piuttosto - potrebbe ulteriormente essere specificato. Addirittura, si prevede di abolire anche il reato di tortura, approvato nel 2017 con formula blanda e con grave ritardo rispetto alla Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti degradanti approvata dalle Nazioni Unite nel dicembre del 1984.Nella relazione illustrativa della proposta si afferma che l’abrogazione del reato servirebbe “per tutelare adeguatamente l’onorabilità e l’immagine delle Forze di Polizia” che, invece, come ha scritto Glauco Giostra, hanno interesse a non vederle infangate da condotte indegne. Passando al tema delle intercettazioni e della doverosa tutela della privacy, storicamente oggetto di strumentalizzazioni interessate, si è già detto e scritto tanto sul bavaglio (definizione non gradita al Governo, che penso non accetterebbe neppure quella di bavaglino o mascherina sanitaria) che dovrebbe limitare il diritto-dovere di informazione rispetto al contenuto di atti non segreti. Ma ecco che spunta ancora un’ulteriore impensabile novità che andrebbe a compromettere gli ottimi risultati conseguiti con la riforma Orlando: si rischia di limitare le scelte dei Pm e dei giudici in ordine all’utilizzo in provvedimenti formali di certe tipologie di conversazioni intercettate, ulteriormente ampliando il divieto di pubblicazione. Non mi meraviglierei se prima o poi saltasse fuori un disegno di legge che preveda il visto di assenso del Ministro della Giustizia o di un suo delegato sui provvedimenti giudiziari che utilizzino dialoghi intercettati! Battute a parte, crescono quotidianamente le preoccupazioni, anche maggiori rispetto alle attuali, se solo si pensa a quanto è allo studio in tema di separazione delle carriere (con connesso rischio di sottoposizione del Pm all’esecutivo), di riforma del Csm (inclusa l’ipotesi di sorteggio dei suoi componenti di cui ancora si discute) o di disposizioni che il Parlamento dovrà elaborare in ordine ai criteri di priorità nell’azione penale (la quale rischia di perdere del tutto il carattere di obbligatorietà). C’è da chiedersi ancora una volta che paese è mai il nostro, un paese in cui chi governa sembra disconoscere la stessa autorità della legge, il bilanciamento tra i poteri dello Stato e il principio di eguaglianza dei cittadini, gettando sul tavolo il peso di milioni di voti e utilizzando il sostegno di potenti strumenti di informazione. Ed in questa situazione perché i magistrati dovrebbero astenersi dall’intervenire nel pubblico dibattito che riguarda la giustizia? Si dice che i giudici dovrebbero parlare solo con le sentenze. Vero in tempi normali. Ma quelli che viviamo in Italia non lo sono più da molto tempo ed anche le audizioni dei magistrati ed accademici dinanzi alle Commissioni Giustizia di Camera e Senato sembrano l’immagine di una procedura rituale che non determina effetti concreti. Eppure il sistema ordinamentale italiano e le nostre capacità investigative contro ogni fenomeno criminale, come più volte ho detto e come molti fanno finta di ignorare, è invidiato a livello internazionale. Nel 2011, Angelino Alfano, allora Ministro della Giustizia, presentò alla stampa, al fianco del Presidente del Consiglio, la “riforma epocale” della parte della Costituzione dedicata alla Magistratura, che avrebbe consentito di risolvere tutti i problemi che affliggevano la giustizia italiana. Lo fece con l’ausilio di un paio di vignette raffiguranti la bilancia prima e dopo la cura: a piatti disallineati prima della riforma, ma poi con piatti finalmente allo stesso livello. In realtà, sia allora (quando comunque la riforma si arenò per la reazione della società civile) che oggi, penso che gli effetti delle controriforme di cui si discuteva e di cui si discute potrebbero meglio essere rappresentate con la vignetta dell’illustratore Lele Corvi condivisa da Nanni Puliatti, magistrato in pensione, non più assoggettabile ad azione disciplinare! Nel processo penale, il protagonista deve essere l’imputato e non la vittima di Guido Stampanoni Bassi Il Domani, 13 gennaio 2024 Si sta discutendo di inserire in Costituzione un esplicito riferimento al ruolo della vittima nel processo penale. Accettare che il processo penale ceda il passo all’emotività e offra un ruolo da protagonista alla vittima è operazione dal forte impatto simbolico ma che rischia di comportare, come effetto indesiderato, un indebolimento di quelle irrinunciabili garanzie che riempiono di contenuto il principio del cd. “giusto processo”. Si sta molto discutendo, in questi giorni, della proposta di legge che punta ad inserire, all’interno della Costituzione, un esplicito riferimento al ruolo della vittima nel processo penale. Appena dodici parole - “la legge garantisce i diritti e le facoltà delle vittime del reato” - che andrebbero inserite all’interno dell’art. 111 Cost. La proposta - a dire il vero presentata in molte delle ultime legislature - è tornata recentemente al centro del dibattito dopo le dichiarazioni di sostegno di alcune forze dell’opposizione. Ma perché un’affermazione apparentemente banale sta facendo tanto discutere? Laddove non spiegata e contestualizzata, i non addetti ai lavori potrebbero legittimamente domandarsi come mai, nel nostro paese, si riesca a fare polemica anche su un tema quale quello del riconoscimento di diritti e facoltà alle vittime dei reati. E gli stessi potrebbero anche chiedersi se davvero, in assenza di un intervento del genere, alle stesse non siano riconosciute forme di tutela o partecipazione. In realtà, che non si tratti di una modifica banale lo testimoniano le stesse parole di alcuni dei sostenitori della proposta (in particolare l’On.le Scarpinato), secondo cui “inserire in Costituzione i diritti delle vittime imporrebbe, finalmente, un riorientamento dell’intero sistema giustizia, che oggi è orientato tutto dal punto di vista dell’indagato”. E lo testimonia anche la relazione di accompagnamento alla proposta di legge, secondo cui è ormai “doveroso intervenire a tutela della vittima del reato anche all’interno delle regole del “giusto processo”“ anche al fine di “sostituire” l’attuale configurazione del processo, “che vede come protagonista attivo lo Stato e come soggetto passivo l’autore del reato, lasciando la posizione della vittima sullo sfondo”, con una “più ariosa concezione, secondo cui anche la persona offesa assume un ruolo centrale nella dinamica repressiva”. Quello che si invoca con quelle dodici parole è, dunque, un vero e proprio cambio di paradigma con il quale, attraverso il riconoscimento di “piena cittadinanza processuale alla vittima del reato”, si riveda l’intero sistema di giustizia penale. Il ruolo della vittima - Se è corretto riconoscere anche alla vittima di un reato la facoltà di far sentire la propria voce - e negli ultimi anni si è intervenuti in tal senso - altro è pretendere di orientare diversamente il sistema di giustizia penale ponendo la stessa al centro della scena; e ciò per il semplice motivo che, non potendo esistere “vittima” senza “colpevole”, si entra in conflitto con la presunzione di non colpevolezza, la quale vuole l’imputato innocente sino a quando la sua responsabilità non sia accertata da una sentenza definitiva. Né si può trovare una qualche forma di convivenza, in posizioni di parità, tra un innocente (presunto) e una vittima (non presunta). Nel processo penale il ruolo da protagonista - individuato come tale nella Costituzione - è attribuito all’imputato, essendo lo scopo del dibattimento non quello di “fare giustizia”, bensì quello di ricostruire dei fatti sulla base di ciò che viene contestato dal Pubblico Ministero (su cui ricade, ai sensi dell’art. 112 Cost., l’obbligo di esercitare l’azione penale). Al tempo stesso, il nostro ordinamento già attribuisce, a chi sia danneggiato da un reato, la facoltà di costituirsi parte civile (figura che può distinguersi da quella di persona offesa) e la Costituzione stabilisce che ogni processo si svolga nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo e imparziale (art. 111 Cost.). Le aspettative di condanna della vittima di un reato sono per definizione incompatibili con un processo penale ispirato alla presunzione di innocenza, all’interno del quale le garanzie - che in un processo accusatorio non possono che essere modellate principalmente sulla figura dell’imputato - possono diventare privilegi a seconda dal punto di vista da cui si guarda. Ma se il punto di vista del processo diventa il punto di vista della vittima si innesca un cortocircuito in cui a rimetterci è proprio chi, secondo la Costituzione, è un “presunto innocente”. La centralità dell’imputato - Per la vittima del reato - magari i familiari di una donna barbaramente uccisa - saranno sempre pochi anche i 30 anni di reclusione inflitti da una Corte che abbia, magari per le ragioni più fondate dal punto di vista giuridico, ritenuto di escludere qualche circostanza aggravante. A dire il vero, tale pericolosa deriva - che rischia di essere accentuata da tale proposta - è già presente nel nostro sistema, essendo ormai numerosi i casi di vicende processuali nelle quali, alla lettura del dispositivo da parte del Tribunale, hanno fatto seguito urla, insulti e minacce nei confronti del giudice reo di non aver condannato gli imputati, di non averli condannati tutti o di averli condannati a pene considerate lievi. E non si deve essere esperti per comprendere come tutto ciò indica negativamente sulla serenità di giudizio dei magistrati, i quali saranno - magari inconsciamente - sempre più portati a preoccuparsi delle possibili conseguenze, anche mediatiche, delle loro decisioni. Quelle della vittima sono poi delle aspettative che, per il comprensibile trauma personale che spesso si cela dietro tragiche vicende - su cui non si vuole esprimere alcun giudizio per il rispetto che si deve al dolore dei familiari - spesso finiscono con il travalicare la sede processuale, arrivando a trovare inconcepibile che un imputato possa trovarsi “a piede libero” in attesa della decisione di un Tribunale o a rammaricarsi per il fatto che, trovandosi all’estero, lo stesso non possa essere riconosciuto per strada ed etichettato pubblicamente come “assassino” (cosa che, invece, avviene a Roma dove è conosciuto). Accettare che il processo penale ceda il passo all’emotività e offra un ruolo da protagonista alla vittima è operazione dal forte impatto simbolico ma che rischia di comportare, come effetto indesiderato, un indebolimento di quelle irrinunciabili garanzie che riempiono di contenuto il principio del cd. “giusto processo”, avvicinandosi pericolosamente allo scenario descritto dal Prof. Giostra: quello in cui l’esclamazione “giustizia è fatta” è ormai riservata esclusivamente ai processi che si concludono con una condanna dell’imputato. Rosa e Olindo, la confessione e il sangue. I punti chiave della strage di Erba di Giusi Fasano e Andrea Pasqualetto Corriere della Sera, 13 gennaio 2024 Gli avvocati ribadiscono: super teste inaffidabile e una delle vittime non è stata uccisa come racconta la sentenza. Diciassette anni e 32 giorni. Tanto è passato dalla prima volta che abbiamo sentito parlare della “strage di Erba”. Ed è tutt’altro che finita. Ricominciamo daccapo. In un’anonima e tranquilla corte di Erba, nel Comasco, la sera dell’11 dicembre 2006 si consuma una strage. Tre sentenze dicono che Olindo e Rosa - a seconda dei punti di vista coppia diabolica oppure persone al limite della capacità di intendere e di volere - uccidono a colpi di spranga e coltello l’odiata vicina di casa, Raffaella Castagna, suo figlio di due anni, Youssef, sua madre Paola e Valeria Cherubini, la signora dell’ultimo piano che ha la sventura di scendere nel momento sbagliato. Vede del fumo uscire dall’appartamento di Raffaella, risale a chiamare suo marito, Mario Frigerio, e finisce che, appunto, lei viene uccisa mentre lui, sgozzato, si salva per una malformazione alla carotide. Sarà poi il testimone oculare della strage. Rosa e Olindo sono stati condannati in via definitiva all’ergastolo. Ma dopo la decisione della Corte d’Appello di Brescia di accogliere la richiesta di revisione e riaprire il processo, la narrazione adesso diventa quella di uno dei loro avvocati, Fabio Schembri. Che dice: “Tecnicamente per la legge ora sono due imputati, quindi due presunti innocenti”. Innocenti perché? E perché fin qui colpevoli? Il testimone oculare - Come in ogni processo, anche in questo l’accusa ha potuto contare su pilastri che hanno tenuto in piedi le condanne nei diversi gradi di giudizio. La testimonianza di Mario Frigerio in aula, per esempio. Lucida, precisa, potente. Lui che guarda Olindo e gli dice “sei stato tu, disgraziato”. Lui che racconta i momenti dell’aggressione, lui che ricorda sua moglie che chiedeva aiuto... Prima, in ospedale, aveva descritto un uomo diverso da Olindo. Ma in aula ha spiegato il perché: “All’inizio non riuscivo a capacitarmi”, ha detto in sostanza, “che il vicino potesse esser così feroce con me e mia moglie che nulla gli avevamo fatto”. L’istanza di revisione della difesa di Olindo e Rosa racconta un’altra versione. Interpella consulenti vari che giurano: nella mente di Frigerio si è formato un falso ricordo indotto da quello che gli è stato suggerito mentre in ospedale stava malissimo. Individua il padre di tutti i suggeritori nel luogotenente dei carabinieri Gallorini che avrebbe insinuato il nome di Olindo nei ricordi del teste. Definisce “scientifiche” le consulenze che dicono tutto questo e ritiene “impossibile” il percorso mentale di Frigerio dalla prima descrizione a quella fatta in aula. Sangue e confessioni - Senza addentrarci in dettagli troppo tecnici, in sostanza si tratta di una macchia del sangue di Valeria Cherubini trovata sul battitacco dell’auto di Olindo. Per l’accusa una prova regina, scientificamente parlando. Valida. Ma nelle richieste di revisione (ne sono state presentate tre) si adombra la frode processuale ipotizzando che la macchia ematica analizzata dal professor Carlo Previderè in realtà non sia stata prelevata dalla Seat di Olindo e che quindi qualcuno abbia, diciamo così, giocato sporco creando quella prova. E poi ci sono le confessioni di Olindo e Rosa. Sono state sempre ritenute genuine malgrado le successive ritrattazioni. Anche perché da una parte hanno raccontato dettagli che poteva conoscere solo chi era presente alla strage. E dall’altra hanno riferito (senza sapere l’uno cosa avesse detto l’altra) particolari che coincidevano perfettamente sul dopo-strage (dove si sono lavati, dove hanno buttato via i vestiti...). Nelle istanze di revisione invece si parla della coppia come di creduloni ingenui e semplici. Si descrive l’”invadenza psicologica” degli inquirenti che avrebbero messo a punto una “vera e propria circonvenzione” ai loro danni. Avrebbero confessato, in pratica, convinti che presto sarebbero tornati a casa e che nel frattempo avrebbero avuto una cella matrimoniale. Deficit cognitivi - Per spiegare come i coniugi si siano inizialmente addossati la responsabilità della strage gli avvocati hanno allegato alla richiesta di revisione consulenze di esperti che hanno “rilevato disturbi psicopatologici in Olindo e Rosa e deficit cognitivi importanti in Rosa”. Elementi, dicono, non valutati nei precedenti processi. È vero: la Corte d’appello del primo grado negò la perizia psichiatrica. Lo fece perché aveva materiale sufficiente per la valutazione psicologica. Per esempio i resoconti degli psicologi del carcere e le visite psichiatriche durante la detenzione: 46 Rosa e 42 Olindo. Sono agli atti i video-colloqui con l’allora consulente psichiatrico della difesa, Massimo Picozzi: fra quei filmati la confessione (ritenuta convincente) di Rosa. La morte di Valeria - Un capitolo della revisione riguarda la morte di Valeria Cherubini che, secondo la difesa, non è avvenuta come descritto nelle sentenze. I verdetti (e Frigerio) dicono che lei fu aggredita mentre scendeva sul pianerottolo dei Castagna e che poi cercò inutilmente salvezza risalendo a casa sua dove fu trovata senza vita. Sbagliato, sostengono le difese. Perché le sue ferite non le avrebbero consentito di salire le scale né il taglio alla gola le avrebbe permesso di chiedere aiuto da casa sua (fu sentita dai primi soccorritori che raggiunsero il piano sotto fra fuoco e fumo). Deduzione: mentre chiedeva aiuto chi l’ha uccisa era ancora con lei e non possono essere Olindo e Rosa che a quel punto, secondo le sentenze, erano già lontani a crearsi l’alibi. La pista alternativa - La Cassazione ha già spiegato di ritenere giusto il lavoro del primo e secondo grado sulle piste alternative. Troppo generici i testi e “infondata l’ipotesi della vendetta della malavita organizzata”. Nel chiedere la revisione gli avvocati insistono: la pista giusta è una faida per motivi di droga fra il gruppo di Azouz Marzouk (spacciatore tunisino, marito di Raffaella e padre di Youssef) e un gruppo di marocchini rivali sulla “piazza” locale. Pista sostenuta da uno dei nuovi testimoni rintracciato dalla difesa. Anche lui spacciatore nonché ex compagno di cella di Azouz. “Strage di Erba, ecco tutti i dubbi su confessione e riconoscimento” di Andrea Lavazza Avvenire, 13 gennaio 2024 La difesa di Rosa Bazzi e Olindo Romano ha riunito 15 esperti di scienze del comportamento. Sartori (Università di Padova): nella sentenza si va contro i dati scientifici sulla memoria Olindo e Rosa durante il processo per la strage di Erba. Mancano quasi due mesi all’udienza davanti alla Seconda sezione della Corte d’appello di Brescia, ma è già accesissimo il dibattito sulle nuove prove che saranno portate in aula al fine di ottenere la revisione della sentenza di condanna all’ergastolo per Rosa Bazzi e Olindo Romano. In particolare, una nuova perizia sui coniugi evidenzierebbe disturbi psicopatologici in entrambi e deficit cognitivi nella donna. Inoltre, tra i testimoni che rientrano nella richiesta portata avanti dai legali, vi è anche la testimonianza di un tunisino, Abdi Kais, secondo il quale nell’ordinanza di custodia cautelare che lo portò in carcere per droga mancavano alcune intercettazioni effettuate anche nella casa del massacro. Giuseppe Sartori è stato protagonista scientifico di casi giudiziari che hanno fatto il giro del mondo per il ruolo innovativo svolto dalle neuroscienze. Professore di Neuropsicologia e Psicopatologia Forense presso l’Università degli Studi di Padova, è uno dei 15 studiosi di scienze del comportamento che la difesa di Rosa Bazzi e Olindo Romano ha arruolato per la revisione del processo sulla strage di Erba. In questa intervista racconta per la prima volta alcuni degli elementi chiave che sono stati presentati al fine di ribaltare la sentenza definitiva di condanna. L’esito è tutt’altro che scontato, e sui media si sono riformati i “partiti” dei colpevolisti e degli innocentisti. È quindi utile considerare che cosa ci potrà essere di nuovo in aula dopo tanti anni, senza sottovalutare il peso delle prove di colpevolezza già acquisite. Com’è nato il super gruppo di esperti, consulenti della difesa? Parlo solo per gli specialisti che si sono occupati degli aspetti comportamentali (riconoscimento e confessione). Io sono stato contattato dagli avvocati e, dopo aver iniziato a studiare il caso, mi sono reso conto che erano necessarie competenze in diversi settori per poter produrre una consulenza tecnica efficace. Ho perciò coinvolto i migliori esperti a livello nazionale ed internazionale nei vari settori (riconoscimento facciale, false confessioni, tecniche d’interrogatorio, decodificazione del parlato degradato…). I colleghi si sono subito dimostrati motivati vista la rilevanza scientifica e tecnica della vicenda. La richiesta di revisione si basa sulla presunta incoerenza scientifica di alcune parti probatorie della sentenza. In particolare, il riconoscimento di Olindo Romano da parte del sopravvissuto alla strage. Ci può spiegare? La revisione richiede che vengano prodotte nuove prove, le quali devono incidere sulle argomentazioni che hanno in origine portato alla condanna. Dallo studio delle sentenze, è emerso che alcune argomentazioni su punti molto importanti confliggono chiaramente con risultati scientifici consolidati in questo ultimo decennio. Ad esempio, si afferma che il ricordo migliora con il tempo e “matura”. Questa argomentazione serve a spiegare perché Frigerio, l’unico testimone oculare, cambia versione sull’identità dell’aggressore: prima lo descrive come uno sconosciuto e poi lo “riconosce” in Olindo Romano, persona a lui molto familiare. Ebbene, dal punto di vista scientifico, il ricordo non migliora, bensì peggiora con il tempo. Inoltre, se è familiare, il volto viene riconosciuto immediatamente. Non esiste, scientificamente parlando, la possibilità di riconoscere dopo molto tempo una persona che è stata percepita dapprima come sconosciuta. Il riconoscimento di facce familiari è automatico ed insopprimibile. Se Frigerio avesse visto Olindo Romano, avrebbe dovuto riferirlo subito, così dice l’esperienza scientifica che riguarda il riconoscimento di volti. Viene messa in discussione anche la confessione. Su quali basi? Nelle sentenze si afferma che un innocente mai confesserebbe qualcosa che non ha fatto. Negli ultimi 15 anni, ricerche hanno mostrato che la falsa confessione è evento tutt’altro che raro. Su 325 condannati, poi assolti in revisione con il test del Dna, il 25% si era autoaccusato di un crimine che non aveva commesso. L’unico modo certo per sapere se una confessione è vera consiste nell’identificare un’informazione (indicativa di colpevolezza) che gli inquirenti già non avevano. In questo caso manca questa caratteristica: i due condannati hanno un profilo che corrisponde a quello del tipico “falso auto-accusatore” e producono una descrizione dei fatti decisamente disancorata dai dati raccolti. Più che di una confessione si tratta di un sì o un no ad affermazioni fatte dall’interrogante. Manca del tutto un qualsivoglia racconto spontaneo della vicenda. Nelle piccole porzioni in cui il racconto è spontaneo, non corrisponde ai fatti. Quali sono le altre incongruenze che la difesa ritiene palesi? Nelle confessioni, i due condannati commettono tantissimi errori (ne sono stati elencati più di 200) e la presenza di questi errori è stata riconosciuta nella sentenza di appello. Una cosa particolarmente importante è che la scena del crimine era al buio (le 8 di sera di dicembre; la luce era stata staccata). Quindi, i due non potevano descrivere come erano vestite o posizionate le vittime, dato che non avevano avuto modo di vederle se non in penombra. È chiaro che queste informazioni hanno altre origini. Sappiamo oggi, dai giornalisti investigativi che si sono occupati del caso, che durante le confessioni i due indagati avevano davanti a sé le fotografie della scena del crimine. È così che hanno potuto dire qualcosa sulle caratteristiche visive di una situazione che non potevano aver osservato bene, perché l’azione è stata portata a termine al buio. Perché, a suo parere, in tre gradi di giudizio questi temi non sono stati sollevati o ritenuti rilevanti? Gli studi scientifici sulle false confessioni e sul riconoscimento di volti familiari non erano a disposizione all’epoca dei processi. Alla luce di queste nuove conoscenze scientifiche, il modo in cui vanno interpretate le confessioni e il riconoscimento di Olindo Romano da parte di Frigerio cambia moltissimo. Per quanto riguarda la condizione psichica dei condannati, nessun accertamento è stato fatto all’epoca dei processi, nonostante le ripetute richieste della difesa. Una delle prove nuove che abbiamo portato è lo studio neuropsicologico su Rosa Bazzi, che ha messo in evidenza una disabilità intellettiva. Questo dato è importantissimo, perché spiega come mai Rosa non sappia leggere, non conosca la sua data di nascita e non abbia compreso molte delle domande che le furono rivolte. Prove fantasma e una strana confessione. Ecco perché Rosa e Olindo possono essere assolti di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 13 gennaio 2024 Chi ha seguito l’inchiesta da subito non ha difficoltà a coltivare il dubbio, 17 anni dopo. È possibile che ventisei giudici si siano sbagliati? È possibile. E che due persone abbiano confessato un delitto mai commesso? E che un testimone cambi in corso d’opera la descrizione dell’assassino? E che di una macchia di sangue non si sappia dove è stata rilevata e con quali modalità? Tutto possibile, per chi sta scommettendo sul processo di revisione nei confronti di Rosa Bazzi e Olindo Romano, ergastolani da 17 anni, condannati per l’orrenda strage di Erba del 2006, quattro persone, tra cui un bambino di due anni, uccise a coltellate e colpi di spranga. In attesa della decisione del tribunale di Brescia del primo marzo sulla revisione del processo, continuano a crederci prima di tutto i legali dei due condannati, a partire dal pervicace avvocato Fabio Schembri. E poi il sostituto procuratore generale di Milano, Cuno Tarfusser, che con la sua richiesta di revisione del processo in contrasto con il capo dell’ufficio si sta giocando la reputazione con il procedimento aperto al Csm. Prima di lui e fin da subito dagli arresti di Rosa e Olindo, solo pochi giornalisti avevano coltivato l’arte del dubbio sul caso. Erano quelli che avendo seguito l’inchiesta fin dall’inizio, che avevano potuto seguire passo passo quanto sia facile “accompagnare”, sulla base del poco per non dire del nulla sul piano delle prove, testimoni, opinione pubblica e infine ventisei giudici, alla condanna di due innocenti. Dubbio non vuol dire certezza, naturalmente. E se per caso Rosa e Olindo fossero responsabili di quella strage, avrebbero comunque dovuto essere assolti con quella formula che non esiste più nel codice, cioè l’insufficienza di prove. Esaminiamole dunque, queste prove, alternando la memoria a quanto scritto dal procuratore Tarfusser. Sgombriamo subito il campo da alcuni elementi di tipo “negativo”, cioè quelle prove che proprio non esistono. Quattro persone sgozzate e nessuna traccia di sangue sul corpo e sugli abiti del due assassini. Avrebbero fatto in tempo a lavarsi, cambiarsi e trafugare gli abiti insanguinati in pochi minuti, mentre già arrivavano i pompieri, perché nel frattempo gli assassini avevano dato fuoco al palazzo. Nessuna traccia neppure del loro dna sul luogo del delitto, l’appartamento di Raffaella Castagna, dove invece esistono tracce di persone sconosciute e mai individuate. Non parliamo dell’alibi, uno scontrino di Mc Donald di Como che registra un’ora dopo quella del delitto. Eh, ma un’ora dopo. Ma vogliano lasciare il tempo di cenare, prima di pagare e far battere lo scontrino? Probabilmente l’avvocato Schembri avrebbe altro da aggiungere. Ma per ora fermiamoci. Passiamo quindi alle tre “prove regine”, quelle che hanno convinto gli investigatori prima, e ventisei giudici dopo. Prova-pistola fumante: il testimone Mario Frigerio. Paradossale, ma è proprio la prova più debole, anche se il testimone, che ora non c’è più, ha deposto in aula le proprie “certezze”. Il signor Frigerio si è salvato dalla mattanza per via di una anomalia fisica, per cui la scudisciata alla gola lo ha gravemente ferito, ma alla fine lasciato in vita. La sua prima deposizioni in ospedale è inequivocabile. Due notizie dà con sicurezza: chi lo ha aggredito era uno “sconosciuto”, “di pelle scura, olivastra”. Uno sconosciuto che lui era pronto a riconoscere anche con photophit o identikit. Piano piano però gli viene fatto il nome di Olindo, che per lui non era affatto uno sconosciuto visto che era il suo vicino di casa, e che non è affatto di pelle scura e olivastra. Pure, di accompagnamento in accompagnamento, anche malandato in salute e con successivo indebolimento cognitivo a causa dell’intossicazione da ossido di carbonio dovuto all’incendio, il signor Frigerio continuerà ad accusare il vicino, con cui i rapporti non erano mai stati eccellenti, di essere colui che aveva tentato di ucciderlo. E la sua testimonianza diventerà quella pistola fumante trovare la quale è il sogno di ogni investigatore. Seconda prova: la macchia del sangue di un’altra delle vittime, Valeria Cherubini, sul battitacco dell’auto di Olindo Romano. Se il primo indizio faceva parte di quelle possibili forme di autosuggestioni che fanno parte anche della letteratura poliziesca, questa sarebbe invece, se fosse una prova, l’unica scientifica. La prima sensazione è che non sia stata trovata, ma cercata, perché spunta fuori dopo settimane, dopo che i due coniugi avevano anche continuato a usare l’auto. Inoltre, e la domanda non è secondaria, questa traccia ematica è stata repertata davvero sull’auto o altrove? Perché in nessuna foto dell’auto questa traccia è mai visibile. Ci sarebbero buchi nella catena di custodia e pasticci di firme, per cui non si sa bene chi abbia consegnato quel reperto ai consulenti tecnici. E arriviamo a una questione di fondo, le confessioni degli imputati. Quello che ha più impressione sull’opinione pubblica, ma anche quello che ben conosce qualsiasi studente di giurisprudenza, che sa bene come mai, mai, la confessione sia una prova. Le confessioni, ci sono, certo. Ma basterebbe averle ascoltate, insieme soprattutto alla registrazione della preparazione di Rosa all’interrogatorio con il magistrato, per scrivere la parola “dubbio” a caratteri cubitali. Ci sono le registrazioni ambientali nella casa di Rosa e Olindo. Può darsi che i furbissimi (mah) assassini già sapessero di avere l’abitazione imbottita di microspie, fatto sta che i registratori riportano banali conversazioni tra coniugi. Uno dice all’altra, secondo te chi è stato, poi si pongono domande. Mai un’ambiguità che possa suscitare sospetto. Poi c’è un dialogo che è un capolavoro, quando gli investigatori, avendo individuato nel marito l’anello debole della coppia, gli lasciano intendere che confessando potrebbero uscire dal carcere. Concedono un colloquio tra i due e i carabinieri li intercettano. Olindo dice: “ascolta… ho parlato con il magistrato… lui ha detto che se vogliamo far finire questa storia qui…”. Rosa: “Si?” “Di dire la verità” “Ma non c’è niente da dire… non c’è niente Olli, hanno fatto tutto loro, adesso torno a ripeterglielo, glielo ho detto cento volte”. Olindo: “Loro mi hanno spiegato la cosa in termini pratici. Se per disgrazia trovano qualcosa, ti processano e ti danno l’ergastolo. Se invece confessi, hai le attenuanti e il rito abbreviato. Dici la verità, che la moglie non c’entra niente e non becchi niente”. “Ma non è vero Olli”, Rosa insiste. “E io becco le attenuanti e finisce la storia”. Rosa: “Ma cosa c’è da confessare, non siamo stati noi” “Lo so, aspetta... ma se facciamo così prendiamo anche dei benefici e ce ne andiamo a casa”. Il 10 gennaio 2007 Rosa decide di autoaccusarsi. L’interrogatorio inizia alle 15,25 con queste sue parole: “Intendo rendere piena confessione, ho fatto tutto da sola”. Prima era stata preparata con metodi che desteranno scandalo quando il suo nuovo avvocato decise di rendere pubblico quel video. Diciassette anni e ventisei giudici dopo, occorrono commenti? Cartabia, sconto di pena di un quinto per decreti penali non opposti anche se adottati ante Riforma di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 13 gennaio 2024 Lo sconto di pena di un quinto per la mancata opposizione al decreto penale di condanna - come previsto dalla Riforma Cartabia - si applica anche se il provvedimento del giudice è stato adottato prima dell’entrata in vigore delle nuove norme e notificato successivamente alla data del 30 dicembre 2022. Infatti, pur trattandosi di norma processuale essa reca un trattamento di favore “sostanziale” nell’ipotesi di non prosecuzione del processo nei gradi successivi. L’applicazione retroattiva colma la circostanza di fatto che - già in vigore la norma premiale - il condannato non abbia ricevuto l’avviso al momento dell’emissione del decreto in data ante Riforma. Avviso che, invece, d’ora in poi il Gip è tenuto a dare alla parte e dove questa viene informata della possibilità di ottenere lo sconto del quinto della pena pecuniaria attraverso esplicita rinuncia - entro 15 giorni dalla notifica del decreto - ad opporsi alla condanna e procedendo entro lo stesso termine ad effettuare il pagamento. Come afferma la Cassazione penale - con la sentenza n. 1296/2024 - va accolta la domanda del ricorrente che nel caso concreto chiedeva al Gip l’applicazione dello sconto una volta scaduto il termine per proporre opposizione al decreto penale di condanna. La nuova versione dell’articolo 460 Cpp va applicata, quindi, anche alle istanze proposte al Gip dopo la scadenza dei 15 giorni per opporsi proprio in ragione del mancato avviso relativo alla possibilità di ottenere lo sconto di pena se si paga la somma risultante entro lo stesso termine di 15 giorni dalla notifica del decreto con contestuale rinuncia ad opporvisi. La decisa applicazione retroattiva della norma premiale mirata al fine deflattivo dei contenziosi comporta che lo sconto automatico di pena in caso di rinuncia all’opposizione vada riconosciuto anche nel caso in cui sia scaduto il termine per l’opposizione al dereto penale notificato però dopo l’entrata in vigore della Cartabia che ha aggiunto la lettera h ter) all’articolo 460 del Codice di procedura penale. Agrigento. Detenuto si toglie la vita al reparto “Alta sicurezza” agrigentooggi.it, 13 gennaio 2024 Un detenuto si è tolto la vita, impiccandosi nella cella che occupava nel padiglione “Alta sicurezza” del carcere “Pasquale Di Lorenzo” di Agrigento. La tragedia si è verificata ieri mattina. A ritrovare il corpo, quando era ormai troppo tardi, sono stati gli agenti della polizia Penitenziaria. Inutile ogni tentativo di soccorso. Non si conoscono i motivi del tragico gesto. È stata aperta un’inchiesta che viene coordinata dalla Procura della Repubblica. Appena pochi giorni fa, nella Casa circondariale di contrada “Petrusa” c’era stata una rivolta, poi rientrata, grazie all’opera di mediazione del personale della Penitenziaria. Ancona. Detenuto trovato morto in cella a Montacuto, è la seconda vittima in una settimana anconatoday.it, 13 gennaio 2024 Dopo il decesso di Matteo Concetti questa notte è stato trovato privo di vita un 41enne. A dare l’allarme sono stati gli altri detenuti. Era finito dentro dopo un arresto per droga che risale al 3 gennaio scorso. C’è un altro morto nel carcere di Montacuto. Si tratta di un detenuto, 41 anni. È il secondo decesso, nella Casa circondariale, in una settimana. Il 5 gennaio era stato trovato impiccato, in una cella di isolamento, Matteo Concetti, 25 anni, fermano. Questa notte il detenuto morto, è di nazionalità algerina, era invece in una cella comune, con altri due detenuti che avrebbero dato l’allarme. All’arrivo dei sanitari però non c’è stato nulla da fare. Le cause del decesso sarebbero naturali ma la Procura, a cui in tarda mattinata è arrivata l’informativa, disporrà l’autopsia per fugare ogni dubbio. L’uomo era stato arrestato il 3 gennaio scorso, dai carabinieri della Compagnia di Osimo, insieme ad una donna di 35 anni, all’uscita del casello autostradale di Loreto. I due erano stati trovati con 52 grammi di eroina. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Detenuto gravemente malato muore nel reparto di Alta sicurezza di Gianni Vigoroso ottopagine.it, 13 gennaio 2024 Ciambriello: “Il diritto alla salute prevale su tutto”. “Ancora un morto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Il diritto alla salute all’art. 32 della Costituzione, sancito come diritto fondamentale, prevale sugli altri diritti, compreso quello della sicurezza, perché è il diritto alla vita. Il detenuto frequentava tre volte a settimana il centro dialisi, ma stamattina poiché aveva la febbre, non è uscito per effettuare la dialisi. È stato due ore nell’infermeria del carcere, dove è stato monitorato dalle figure professionali presenti. Era un dializzato cronico. Lunedì sarò presente al carcere di Santa Maria Capua Vetere per effettuare una visita ed ascoltare i detenuti di quel carcere”, così Samuele Ciambriello, Garante campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, sulla morte avvenuta oggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere di Nicola Baldascino, 46 anni, ristretto nel reparto Tamigi in Alta Sicurezza. Napoli. Alessandro Esposito, trovato morto a Poggioreale: l’autopsia si farà il 15 gennaio di Andrea Aversa L’Unità, 13 gennaio 2024 Il giovane napoletano aveva 32 anni. È stato trovato senza vita in cella lo scorso 5 gennaio. Sul corpo c’erano segni di violenza. La Procura ha avviato un’indagine contro ignoti per omicidio. L’esame autoptico, rinviato lo scorso 8 gennaio, stabilirà le vere cause del decesso. L’esame autoptico è stato rinviato nei giorni scorsi a causa dell’indisponibilità, per motivi di salute, di uno dei periti. È di oggi, secondo quanto appreso da l’Unità, la notizia per la quale l’autopsia sulla salma di Alessandro Esposito sarà eseguita il prossimo lunedì, 15 gennaio. Il giovane, 32 anni, è stato trovato senza vita in cella nel carcere di Poggioreale. Era lo scorso 5 gennaio e sul corpo della vittima sono stati riscontrati segni di violenza. Per questo motivo la Procura di Napoli ha avviato un’inchiesta per l’accusa contro ignoti di omicidio. Esposito era recluso nel reparto ‘Napoli’ e viveva insieme ad altri due detenuti. Secondo le testimonianze di chi ha visto il cadavere, dalla bocca del 32enne era uscito del liquido. Alessandro Esposito: chi era il giovane detenuto trovato morto a Poggioreale - Tuttavia, sul caso ci sono dei punti oscuri. Innanzitutto, sulle sette ore trascorse dal decesso alla comunicazione resa all’avvocato Onofrio Annunziata. Il legale ha spiegato a l’Unità: “La morte del mio assistito è stata ufficialmente registrata per le 9.30 del mattino di venerdì scorso. L’amministrazione penitenziaria mi ha avvisato via Pec alle 16. E ho dovuto io stesso avvisare i familiari del giovane”. E poi, considerato che Esposito era affetto da disturbi psichici (era bipolare), perché era detenuto in carcere e non in una struttura sanitaria adeguata? Il 32enne, originario di Secondigliano, era detenuto per maltrattamenti in famiglia. Doveva scontare una pena di tre anni, gliene restava uno soltanto. Il giorno prima del decesso, il 32enne ha avuto modo di incontrare la madre. Secondo quanto appreso da l’Unità, Alessandro le avrebbe detto di stare male a Poggioreale. L’autopsia doveva essere eseguita lo scorso 8 gennaio. Ora, il prossimo lunedì, finalmente potremmo sapere le cause della morte del giovane. Soprattutto potranno conoscerle i suoi familiari. Oristano. Caso di Stefano Dal Corso, prime indicazioni dall’autopsia eseguita a Roma linkoristano.it, 13 gennaio 2024 Non ci sarebbero tracce di percosse ma un’analisi completa sul corpo non è stata possibile a causa delle condizioni precarie. Non sarebbero state individuate tracce di lesioni compatibili con un pestaggio o percosse sul corpo di Stefano Dal Corso, il detenuto di Roma morto all’età di 42 anni, nel carcere di Massama, il 12 ottobre del 2022. È quanto trapela dopo l’autopsia effettuata oggi al Policlinico Gemelli di Roma dal medico legale Roberto Demontis, incaricato dalla procura della repubblica di Oristano che ha aperto un nuovo fascicolo per omicidio volontario, dopo aver indagato in precedenza per suicidio. Secondo quanto si è appreso, a causa dell’avanzata stato di decomposizione della salma, non è stato possibile per il perito effettuare un’analisi completa. Per avere maggiori elementi occorrerà attendere 90 giorni e l’esito degli esami istologici che dovrebbero aiutare a capire se Stefano Dal Corso appunto si sia suicidato, come sinora era stato ipotizzato, o per le lesioni causate da un pestaggio, come accreditano le dichiarazioni rese da un supertestimone nelle scorse settimane. Quest’ultimo aveva riferito che Stefano Dal Corso fosse stato picchiato dopo per aver visto casualmente un rapporto sessuale tra due agenti. E proprio questa testimonianza aveva portato la procura della Repubblica di Oristano a riaprire il fascicolo e disporre l’autopsia, richiesta avanzata in precedenza per ben sette volte dai legali della famiglia e accolta solo ora. La stessa famiglia aveva ottenuto di poter custodire la salma in una cella frigo per tutto questo tempo. Firenze. Il degrado di Sollicciano tra muffa, insetti e gravi carenze igieniche di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 gennaio 2024 Invasioni di cimici, presenza di volatili e gravi carenze strutturali: il carcere di Sollicciano a Firenze, è stato recentemente oggetto di un’ordinanza emessa dal magistrato di Sorveglianza. L’ordinanza riguarda un detenuto del penitenziario e ha evidenziato un quadro da terzo mondo. Lo stesso magistrato ha effettuato una visita al carcere il 24 agosto 2022, durante la quale ha potuto constatare le condizioni degradanti in cui i detenuti sono costretti a vivere. In particolare, sono state riscontrate infiltrazioni d’acqua, presenza di muffa e condensa, e invasione di insetti come cimici e zanzare. Le celle detentive sono risultate in condizioni igienico- sanitarie insufficienti, con calcare sui piatti doccia e sulle mattonelle di rivestimento. Inoltre, sono state ravvisate carenze strutturali come la presenza di umidità e infiltrazioni su pareti e soffitti, con macchie di umidità e annerimento della parete interessata. Il magistrato di Sorveglianza ha anche segnalato la presenza di numerosi volatili alimentati con avanzi di cibo, fatti avvicinare ai terrazzi dell’istituto dai detenuti, che potrebbero essere possibili vettori di zecche. Inoltre sono state riscontrate tracce di morsi e punture di insetti sui corpi di alcuni detenuti. La cucina del carcere, inaugurata nel 2020, è stata oggetto di un’importante ristrutturazione, ma è attualmente in fase di rifacimento e non utilizzabile. Inoltre, sono stati individuati problemi di carattere strutturale che hanno comportato l’inagibilità della cucina, con distacco delle piastrelle della pavimentazione. Il magistrato di Sorveglianza ha richiamato la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, secondo la quale la carcerazione non fa perdere al detenuto il beneficio dei diritti sanciti dalla Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali (Cedu). In particolare, l’articolo 3 della Convenzione impone alle autorità un obbligo positivo di assicurare che ogni detenuto sia ristretto in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana. Le condizioni degradanti riscontrate nel carcere di Sollicciano sono state giudicate in violazione dell’articolo 3 della Cedu. Il magistrato ha disposto una riduzione della pena per il detenuto e ha segnalato la necessità di interventi funzionali per attenuare il disagio dei detenuti. Sono 312 giorni di sconto di pena per le condizioni degradanti di detenzione ottenuti dal detenuto grazie al supporto dell’associazione “L’altro diritto”, che ha redatto il reclamo ex art. 35 ter dell’ordinamento penitenziario per la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. L’accoglimento del ricorso, presentato dalla persona detenuta si è basato, tra l’altro, sugli esiti del sopralluogo effettuato il 5 luglio scorso dal personale della U. F. C. Igiene Pubblica e Nutrizione Firenze, durante il quale sono state riscontrate infiltrazioni d’acqua in molte zone comuni all’interno delle sezioni, muffe nelle docce, alcune celle inagibili per perdite d’acqua e, in alcuni casi, pareti annerite, insufficiente aerazione degli ambienti, finestre bloccate per la presenza di nidi di vespe, la presenza di volatili ‘ possibili vettori di zecché e carenze strutturali nei locali cucina e di approvvigionamento del vitto. Come si legge nell’ordinanza, lo stesso magistrato, nel corso di un sopralluogo effettuato di persona lo scorso agosto, aveva constatato la presenza di cimici sui muri e le gravi carenze strutturali dell’istituto. Verona. Ostellari in visita a Montorio: “Non ho visto privilegiati. Piano contro i suicidi” di Angiola Petronio Corriere del Veneto, 13 gennaio 2024 Il sottosegretario Ostellari nel carcere di Verona, l’appello agli imprenditori: “Producete qui”. La Regione studia la creazione di sportelli psicologici e di task force multifunzionali per prevenire il disagio. Tre suicidi e due tentati suicidi in pochi mesi, una polemica sui presunti privilegi del killer di Giulia: con queste premesse è nata la visita del sottosegretario alla Giustizia Ostellari a Montorio: “Non ho visto privilegiati, per savare i detenuti bisogna farli lavorare”. Non lo ha incontrato. Come non ha incontrato nessun detenuto. E non lo ha neanche mai nominato. Ha volutamente lasciato Filippo Turetta sullo sfondo, il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari che ieri - con il presidente della commissione Giustizia della Camera Ciro Maschio e l’assessore veneto alla Sanità Manuela Lanzarin - ha visitato la casa circondariale di Verona. Quel carcere, nella frazione di Montorio, che ha contato tre suicidi in meno di un mese tra novembre e dicembre e due tentati suicidi tra l’ultima notte dell’anno e lunedì scorso. È lì che Turetta è recluso. Finito nell’agone delle polemiche per un presunto uso della Playstation e per ventilati “privilegi”, il 22enne reo confesso dell’omicidio di Giulia Cecchettin. Diatriba liquefatta dallo stesso Ostellari. “Qui abbiamo persone che si sono tolte la vita - la sua premessa-. Parlare di Playstation significa fare un torto a loro e alla nostra intelligenza. Mi limito quindi a ribadire che in questo carcere, come negli altri, non si applicano trattamenti di favore nei confronti di nessuno e le decisioni su quelle che possono essere le attività trattamentali e ricreative adeguate vengono prese da personale qualificato”. È evitare i suicidi, la priorità. Ed è sulla prevenzione che punta la “terapia” prospettata da Ostellari. “La cura contro i suicidi è il lavoro - le sue parole. Nelle carceri dove si lavora si verificano meno aggressioni, meno suicidi e c’è più armonia con il personale. In più il detenuto si trasforma da costo a risorsa, perché contribuisce al pagamento delle spese”. A Montorio tra sartoria, falegnameria, panetteria e pasticceria sono impiegati 35 detenuti. Altri 12 lavorano all’esterno come carpentieri e in 58 stanno facendo formazione per poi svolgere i tirocini all’esterno. “C’erano vari laboratori, come a Padova. Ora molti spazi sono inutilizzati”, ha detto Ostellari. Che ha lanciato un appello. “Esiste una legislazione che consente alle imprese di investire e produrre in carcere. Qui, come da altre parti, c’è un forte tessuto imprenditoriale. Auspico che cooperati ve e aziende scelgano di trasferire alcune lavorazioni”. Con, in carcere, un “aiuto strumentale” per prevenire i suicidi che possa sopperire all’impossibilità di una sorveglianza 24 ore su 24. “Abbiamo dato disposizione al dipartimento di effettuare uno studio per verificare se c’è la possibilità di utilizzare degli strumenti tecnologici come quelli per misurare il battito cardiaco dei detenuti e allertare in caso di problemi”, ha continuato Ostellari. Il tutto senza dimenticare quel sovraffollamento cronico che avviluppa Montorio. Capienza regolamentare per 335 detenuti, capienza entro la Convenzione europea dei diritti dell’Uomo 610 reclusi. Attualmente sono in 545, nel carcere di Verona. “Il problema c’è - ha commentato Ostellari -. Ma le soluzioni a cui questo governo sta pensando non sono quelle della sinistra, del “libera tutti” con indulti o leggi svuota-carceri. Noi non faremo sconti a nessuno. Siamo al lavoro per costruire nuovi penitenziari. Per i minori lo abbiamo già fatto, penso alla riapertura dell’istituto penale per minorenni di Treviso e alla prossima inaugurazione di quello di Rovigo, che avverrà entro l’anno. Con quella sanità penitenziaria che con l’inclusione sociale è uno dei due ambiti in cui interviene anche la Regione. “L’intenzione - ha detto l’assessore Lanzarin - è quella di rafforzare sia il supporto psichiatrico che quello psicologico e l’idea che stiamo studiando è di creare degli sportelli psicologici e delle task force multifunzionali e multidisciplinari”. È stato il presidente della commissione Giustizia Ciro Maschio a illustrare ulteriori “mosse future” sulle carceri, dall’uso delle body-cam da parte della polizia penitenziaria alle nuove assunzioni. Sempre nell’ottica dell’”espiazione della pena e della qualità di vita” dei detenuti. Rimini. Carcere, prima sezione da incubo: “Presto via alla ristrutturazione” di Andrea G. Cammarata Il Resto del Calino, 13 gennaio 2024 Parliamo di inclusione anche per le persone private della libertà. È la Rimini che pensa ai diritti dei detenuti e lo fa tramite un imminente convegno dedicato proprio alle pene alternative al carcere. Intanto la tanto discussa Sezione prima dei Casetti, verrà finalmente ristrutturata con lo scopo di sanare le indecorose situazioni di “vivibilità”. In contrasto con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. A spiegarlo è l’avvocato Giorgio Galavotti, garante delle persone private della libertà del comune di Rimini, il quale annuncia un’istruttoria per individuare dove trasferire i 32 detenuti che abitano tuttora la Sezione prima. Galavotti pensa a quei “detenuti che hanno diritto agli arresti domiciliari ma sono privi di un domicilio dove scontare la pena”. E al Centro congressi Sgr, il 19 gennaio (dalle ore 15 alle 19), si terrà il convengo “Presente e futuro della pena”, organizzato dalla Camera Penale Rimini e moderato dalla presidente Annalisa Calvano. Il tema ruota sulle pene sostitutive, giustizia riparativa e misure alternative. Relatore del tema ‘Le nuove pene sostitutive e le prime applicazioni’, sarà Francesco Pio Lasalvia, giudice del Tribunale di Rimini. Durante il convegno, insieme al garante comunale e all’assessore Kristian Gianfreda, verranno poi discussi i progetti del Comune a favore dei detenuti dei Casetti. Interverrà poi Roberto Cavalieri, garante regionale delle persone private della libertà, sullo stato della detenzione in Emilia- Romagna. “La riduzione dell’utilizzo del carcere come pena, favorendo al contempo l’accesso a sanzioni alternative, fa parte anche delle soluzioni avallate dal ministro Nordio”, spiega Galavotti aggiungendo che intende recarsi in carcere “almeno una volta ogni due settimane” per ascoltare i detenuti. Perplessità poi sulle “visite specialistiche che saltano, perché non ci sono gli agenti di polizia penitenziaria che si fanno carico di accompagnare i detenuti, e molti di loro ottengono le cure con grande ritardo”. E frustrazione: “Non è semplice far leva sull’Asl affinché allunghi il servizio di guardia medica anche di notte all’interno del carcere”. A ciò si aggiungono i detenuti in attesa di giudizio. “I tempi d’attesa non aiutano. C’è un arretrato, bisogna abbreviare i tempi di risposta per ottenere le pene alternative utili a ridurre la popolazione carceraria, quando ci sono le possibilità”. C’è infine il tema del lavoro in carcere, con “alcune imprese” pronte a trasferire la produzione proprio in carcere. Treviso. Carcerati assunti per lavori di falegnameria, elettronica, informatica di Eleonora Biral trevisotoday.it, 13 gennaio 2024 Con un un accordo tra la casa circondariale di Treviso e la Cooperativa Alternativa Ambiente, 24 detenuti che hanno già svolto la riabilitazione nel polo occupazionale sono stati assunti come soci e percepiranno un salario. Tutto nasce dalla legge 193/2000, più comunemente chiamata legge Smuraglia, atta a favorire l’attività lavorativa dei detenuti. Attraverso tale norma si consente al carcerato di lavorare e percepire un salario, nonché gli si garantisce, in alcuni casi, un’occupazione quando sarà uscito di prigione. Non solo, la legge Smuraglia consente un risparmio sui costi sociali di mantenimento della famiglia del detenuto. E la casa circondariale di Treviso, insieme alla cooperativa sociale Alternativa, ha consentito l’assunzione di 24 nuovi soci all’interno della stessa cooperativa, tutti già inseriti nel polo occupazionale del carcere di Santa Bona. Grazie a questa assunzione, i detenuti svolgeranno lavori di falegnameria, digitalizzazione di contenuti, riparazioni di attrezzature elettroniche, incisione del vetro, assemblaggio dei contenitori per la raccolta differenziata dei rifiuti e così via. Proprio il 3 giugno 2013 la cooperativa Alternativa Ambiente ha assunto 24 carcerati di Treviso per consentire loro di svolgere un lavoro vero e proprio. Tutto questo mira a creare le condizioni di occupazione futura per i detenuti e dà la possibilità alle cooperative del territorio di collaborare, eventualmente, con le imprese. Attualmente la Cooperativa Alternativa Ambiente conta 400 soci, di cui 30 ex carcerati. Milano. Franco Gabrielli: “Diamo il taser anche ai vigili, così si sentiranno più tutelati” di Simona Buscaglia Corriere della Sera, 13 gennaio 2024 Primo test con due strumenti che saranno dati in dotazione alle pattuglie chiamate a intervenire in situazioni rischiose. A premere sull’acceleratore per dare in dotazione i taser anche ai vigili è Franco Gabrielli, il super consulente sulla sicurezza chiamato dal sindaco Beppe Sala. Ne ha parlato venerdì, durante la sua audizione in Commissione consiliare, precisando che è stata una delle prime informazioni che ha chiesto quando è arrivato nel “Comitato per la sicurezza e la coesione sociale”: “Si tratta di un tema di salvaguardia degli operatori della polizia locale”, ha detto. Sarebbe una dotazione di reparto e non individuale per ogni singolo agente, assegnato a persone formate e che riguarderebbe soltanto alcune tipologie di servizio. Questo strumento di difesa potrebbe essere dato, per esempio, “alle pattuglie che vengono mandate sul territorio a fare interventi e che potrebbero dover affrontare delle situazioni di pericolo”. L’ex capo della Polizia sottolinea, quindi, i buoni risultati raggiunti con la sperimentazione che era stata avviata nelle forze di polizia: “Non c’è stato un solo evento che abbia dimostrato un uso improprio del taser e non c’è un solo caso in cui c’è stato un abuso nell’utilizzo”. Il taser, comunque, non può essere considerato “la panacea di tutti i mali”, ma secondo Gabrielli offre almeno due vantaggi: “L’operatore si sente più tutelato e in molti casi basta solo far vedere che lo strumento è operativo”. Sul tema comunque “ci sono già attività dal punto di vista amministrativo, è una pagina già scritta”, aggiunge. All’inizio di aprile 2022 infatti il consiglio comunale aveva dato semaforo verde a un ordine del giorno (proposto dalla Lega e approvato da una parte della maggioranza) che impegnava il sindaco e la giunta a valutare le modalità di avvio della sperimentazione del taser anche per la polizia locale. Al momento, fa sapere l’assessore alla sicurezza Marco Granelli, Palazzo Marino sta lavorando su due fronti: redigendo il regolamento e attuando “la necessaria convenzione con Ats per avviare la sperimentazione che, come previsto dalla legge, ci consentirà di avere due taser, la cui spesa è già coperta”. Gli strumenti verranno dati in dotazione “ogni giorno a pattuglie di agenti che saranno identificati secondo il tipo di attività e formati per utilizzarli”. Venerdì è stata data anche qualche precisazione in più sulla nuova figura dei vigili di prossimità: dovrebbero iniziare a girare nei quartieri, in coppia e prevalentemente a piedi, già da metà febbraio. Per Gabrielli comunque “la crocifissione di Milano come città più insicura del Paese è una errata percezione della realtà”, dal 2010 infatti il livello della delittuosità “è costante”. Riporta alcuni i dati: in calo gli omicidi, dimezzati i furti in casa e in auto ma sono “esplosi quei reati come le rapine in strada e i borseggi”, aumentati rispettivamente del 50 per cento e del 25 per cento. L’audizione è poi, per Gabrielli, anche l’occasione per levarsi qualche sassolino dalla scarpa, sgomberando il campo dalle insinuazioni su una sua possibile candidatura alle europee o a sindaco della città. Ribadisce che svolgerà il compito assegnatogli da Sala e quando non sarà più utile: “ognuno andrà per la sua strada”. Del resto, già in passato aveva rifiutato di fare politica, come sindaco di Roma: nel 2013 quando glielo chiese “il centrosinistra e anche il presidente Silvio Berlusconi” e poi nel 2021. Il database della democrazia di Sabino Cassese Il Foglio, 13 gennaio 2024 Tutto vero quello che pensiamo dell’Italia e dei suoi problemi? Per capire chi siamo e come stiamo cambiando, ci può aiutare la statistica. Le risposte dell’Istat sul rapporto tra società e istituzioni, con qualche domanda in sospeso. Se ci si ammala nel Sud, ci si va a curare nel Nord. È una manifestazione di sfiducia dei meridionali nei confronti della sanità, che essi stessi gestiscono, attraverso le regioni? È anche un segno del fatto che l’Italia non è ancora unita, tanto che i diritti che spettano a un terzo della popolazione (quanti sono gli abitanti del Sud), hanno ancora bisogno di essere garantiti fissando a livello nazionale i livelli essenziali delle prestazioni? Si fa un gran discutere di autonomia differenziata, un tema che spaventa perché potrebbe rappresentare la “secessione dei ricchi”. È il riconoscimento di una grande distanza tra due parti della popolazione italiana, una distanza che potrebbe aumentare assegnando maggiori poteri autonomia alle regioni - quelle del Nord come quelle del Sud - che lo richiedano? Il tasso di realizzazione degli investimenti previsti dalle leggi oscilla tra il 10 e il 20 per cento: vuol dire che tra il 90 e l’80 dei programmi del legislatore non vengono realizzati, o vengono realizzati con grave ritardo. Dobbiamo preoccuparci di questa scarsa capacità dello stato di attuare gli obiettivi indicati dai rappresentanti del popolo? Questi tre esempi sono segni di divari territoriali, della distanza tra stato e società, della “incapacità” dello stato, arcigno invece che mite e compassionevole? Ci dobbiamo preoccupare di questi indicatori? Sono i segni di una malattia grave, che richiede il ricovero in ospedale, o sono indicatori di ferite che, ben curate, possono guarire? Questi problemi fanno parte di una cultura diffusa, preoccupano l’opinione pubblica, sono oggetto degli scambi quotidiani nel mondo della politica. Ma l’ambito delle nostre conoscenze, quello che sappiamo dei nostri poteri pubblici, è definito da quello che vediamo e da quello che, per nostro conto, vedono i media, radio televisione e rete. Tutti questi occhi, quelli nostri, quelli della radio, quelli della televisione, quelli della rete, sono fermi sull’episodico e sul quotidiano e non costituiscono una base sufficientemente robusta per orientarci, consentirci di valutare, permetterci di trarre dalle valutazioni delle conclusioni (ad esempio, un voto). L’Istituto di statistica - Eppure, sono tanti gli organismi, le fondazioni, gli enti, pubblici o privati, nazionali e sovranazionali, che raccolgono dati, producono rapporti e ricerche. Uno di questi è l’Istat, l’istituto di statistica, alla cui nascita contribuirono, nel 1926, due tecnici, un accademico, Alberto de Stefani, e un imprenditore, Giuseppe Volpi, sostituendolo alla divisione di statistica di un ministero. L’Istituto centrale di statistica, ispirato al criterio, proprio del fascismo, del culto dello stato e della centralizzazione, poi, nel 1988-89, è cambiato, mutando persino nome: è diventato Istituto nazionale di statistica, vertice di una rete che si chiama Sistema statistico nazionale, che include anche gli uffici statistici di regioni, province, comuni, camere di commercio, enti pubblici, prefetture, e che ora fa parte anche del Sistema statistico europeo. Ho partecipato alla preparazione e alla redazione della normativa del 1989, perché per un quarto di secolo ho studiato l’ordinamento statistico e per un decennio ho fatto parte dell’organo di vertice dell’Istat, e ricordo di avere suggerito di assumere come esempio il Servizio sanitario nazionale, un servizio a rete, per organizzare su base nazionale anche la raccolta ed elaborazione delle statistiche. L’Istat pubblica puntualmente un annuario. Con il recentissimo annuario statistico 2023 voglio dare inizio a una serie di articoli, di cui questo è il primo, per chiedermi se l’immagine del nostro Paese e dei suoi problemi, che i nostri occhi e i media ci trasmettono, sia quella giusta: se sia confermata dai dati statistici o non finisca per condurci dalla parte sbagliata, facendoci percepire la nostra società, il nostro stato e i loro reciproci rapporti in modo errato. Il programma è di chiedere un aiuto ai dati all’Istat (e poi ad altri rapporti, ben sapendo che anche questi vanno interpretati e vagliati, che la fonte deve essere affidabile, la scelta dei dati rigorosa, l’interpretazione corretta) per capire chi siamo e come stiamo cambiando, e come sta mutando il mondo intorno a noi, per cercare di rispondere a domande che ci poniamo tutti i giorni, ma non fermandoci soltanto sul quel che accade, tenendo anche conto del “senso delle cose”, cioè della loro direzione di marcia. Quanto distanti sono le istituzioni dalla società? Le prime domande: quanto distanti sono le istituzioni dalla società? In che modo si riflette la società nelle istituzioni? Quanto le istituzioni sono rappresentative della società? L’annuario statistico del 2023 contiene un capitolo riguardante le istituzioni pubbliche. Esaminiamolo. Le istituzioni pubbliche sono 12.780, con 104.005 unità locali. Vi lavorano 3.601.709 persone (di cui l’11,7 per cento a tempo determinato e il 5,7 per cento non dipendenti). 40.000 sono le unità locali-scuole pubbliche, 104 le province e le città metropolitane, 7.903 i comuni, 594 le comunità montane, 191 le aziende sanitarie ed enti del settore sanitario, 70 le università pubbliche, 2.973 gli enti pubblici. I dipendenti pubblici sono poco meno del 5 per cento degli abitanti (mentre - come apprendiamo da altra fonte - in Francia rappresentano l’8,4 e nel Regno Unito il 7,8 per cento dei residenti). L’incremento annuo dei dipendenti pubblici oscilla intorno all’1 per cento. Alla diminuzione dei dipendenti pubblici a tempo indeterminato dell’ultimo decennio ha corrisposto un (minore) aumento dei dipendenti a tempo determinato. Già da questi dati si comprende che i poteri pubblici sono diffusi sul territorio, per cui non possiamo temere un eccesso di centralizzazione; che non rappresentano un corpo di dimensioni troppo vaste, per cui non possiamo temere che sia eccessivamente pesante sulla società; che non cresce a un ritmo eccessivo, per cui non dobbiamo avere timore che diventi un nuovo Leviatano. Se ci si addentra nello stato e si considera che gli addetti delle forze armate, delle forze di polizia e delle capitanerie di porto ammontano a 477.000 unità, mentre quelli della sanità e della scuola insieme sono più del triplo, ci si rende conto che l’”État Providence” è ben più robusto dell’”État Puissance”, cioè che il volto mite e compassionevole dello stato prevale di gran lunga su quello autoritario. Se si cerca, poi, di capire quanto della forza organizzativa della società sia concentrata nei poteri pubblici e quanto, invece, sia legata alla capacità della società di auto-organizzarsi, si scopre che le istituzioni non profit sono 363.499, con un numero di 870.183 dipendenti. Si tratta perlopiù di associazioni, di cui un terzo sportive, ma quasi la metà del personale che vi lavora si interessa di assistenza sociale e di protezione civile. Questo è un segno della capacità della società di camminare da sola e persino di fare a meno dello stato. Infine, ci si aspetta che i poteri pubblici siano rappresentativi della società, che ne riflettano fedelmente le grandi distinzioni, a cominciare da quella tra uomini e donne. Ora, la popolazione italiana è composta per il 48,7 per cento di uomini e per il 51,3 di donne. La femminilizzazione del potere pubblico, complessivamente, è invece superiore, è del 58,5 per cento, con una presenza femminile particolarmente alta nella sanità, anche se particolarmente bassa ai vertici (solo il 15,7 per cento, ma in aumento, e con un forte divario tra il Mezzogiorno e il Nord-Est, perché nel Mezzogiorno la presenza femminile ai vertici è solo dell’11,4 per cento, mentre nel Nord è quasi del doppio, il 19,4 per cento). La ricerca di una “obiettività quantitativa” - Ci possiamo accontentare di questi dati o non dovremmo chiedere all’Istituto nazionale di statistica altri dati? L’appetito vien mangiando, e dall’Istat vorremo molto altro: da dove vengono i dipendenti pubblici? C’è ancora una forte meridionalizzazione dei poteri pubblici? Quali studi hanno fatto gli addetti alle macchine pubbliche e quale cultura portano quindi all’interno di esse? Perché c’è la forte carenza di competenze digitali segnalata dall’Istat? Da che cosa dipende la debole capacità amministrativa indicata dal basso tasso di realizzazione dei programmi di investimento? Qual è la causa dei tempi lenti dell’azione amministrativa? In conclusione, l’Istat fa un lavoro prezioso ma ci dovrebbe spiegare anche come cambiano i poteri pubblici; quanto essi siano capaci di interpretare la domanda sociale che, direttamente o attraverso il corpo politico, a essi si rivolge; come essi cambiano nel tempo. Un acuto studioso americano di storia, Theodore M. Porter, in un libro di quasi trent’anni fa intitolato “Trust in Numbers. The Pursuit of Objetivity in Science and Public Life”, edito da Princeton University Press nel 1995, ha osservato che l’esercizio del potere discrezionale di assumere decisioni è stato tradizionalmente prerogativa delle élites. Queste hanno perduto una parte del credito che avevano e la statistica e i suoi usi sono diventati manifestazione di una diffidenza verso le élites. Di qui la ricerca di una “obiettività quantitativa”. La ricerca di Porter e le sue riflessioni ci riportano alla radice della stessa parola statistica, che è in “stato” e ci ricordano che la statistica fa parte della democrazia. Contro i femminicidi: la sindrome degli annunci di Marco Balzano Corriere della Sera, 13 gennaio 2024 I provvedimenti annunciati sotto la spinta della reazione collettiva all’uccisione di Giulia Cecchettin non sembrano più all’ordine del giorno. Questo agitarsi convulso, così contrario al lavoro di regia e di meticolosa preparazione cui sarebbe chiamata la politica, conduce spesso a cavarsela con gli slogan. Mentre nuovi femminicidi si consumano con una cadenza che dà i brividi - cinque donne dall’inizio dell’anno - i provvedimenti annunciati sotto la spinta della reazione collettiva all’uccisione di Giulia Cecchettin non sembrano più all’ordine del giorno. Così, ora che l’attenzione sul caso sta calando, si avverte meglio la fumosità di tante dichiarazioni, confezionate più per assecondare l’indignazione e lo sconcerto dell’opinione pubblica che per cambiare radicalmente una situazione ormai insostenibile. Il punto è che le questioni cruciali si affrontano - se si affrontano - sempre sotto la spinta di un’emergenza. Ed emergenza è una parola che non mette più in allerta, perché si usa per ogni problema: un incidente sul lavoro o il caldo estivo, gli sbarchi a Lampedusa o i femminicidi. Questo agitarsi convulso, così contrario al lavoro di regia e di meticolosa preparazione cui sarebbe chiamata la politica, conduce spesso a cavarsela con gli slogan e ad adottare soluzioni che andrebbero meglio elaborate e ponderate più a fondo. Sganciandosi dall’impellenza e facendosi carico per tempo dei problemi, si potrebbero invece individuare con più chiarezza le cause a monte dei fatti di cronaca. Provo a fare qualche esempio. Nell’emergenza dei mesi scorsi è tornata alla ribalta la necessità dell’educazione affettiva, immediatamente demandata alla scuola. Ma questo governo, con i precedenti e più dei precedenti, non si è particolarmente impegnato a snaturare l’educazione civica - che racchiude tutte le altre educazioni - rendendola un contenitore più confuso di quanto non fosse già? Senza contare che non è prevista una formazione vera e propria per insegnare questa materia. Sottintendere che se ne può occupare qualsiasi docente - che, ben intesi, ci mette intelligenza e buona volontà - significa degradare il sapere psicopedagogico a un insieme di concetti vaghi trasmissibili da tutti, e non è così. Si ribatterà: il governo, d’accordo con l’opposizione, vuole far entrare a scuola gli esperti di educazione affettiva (ma non sessuale). Bene. Allora perché, se le intenzioni e i fondi erano pronti, aspettare l’ennesimo femminicidio? E se invece fondi e progetti mancano, perché imbastire soluzioni frettolose? Perché non studiare e strutturare una nuova e solida proposta educativa capace di fronteggiare la complessità del presente? Chi saranno e come entreranno nelle aule questi esperti? Come faranno lezione? A chi? Quando si comincia? Un annuncio che non preveda tali risposte è buono solo a placare l’opinione pubblica. Ma usciamo dalla scuola. I consultori e i centri d’ascolto spesso rimangono aperti poche ore al giorno, spesso sono gestiti da volontari e sono collocati in luoghi scomodi da raggiungere. È raro, ad esempio, che si trovino di fronte a scuole frequentate da centinaia di studenti. E soprattutto: i ragazzi sanno della loro esistenza? Sanno che in queste strutture ci sono ginecologi, psicologi e servizi fondamentali nei momenti di difficoltà? Quanta comunicazione viene fatta su questa offerta? Il rischio, in casi simili, è il più grave: lasciare deserte le poche strutture che sopravvivono e far credere così a chi le ritiene inutili di avere ragione. I numeri sul bonus psicologo parlano da soli: è stato riconfermato, certo, ma ne beneficerà un numero davvero esiguo di cittadini. I soldi investiti nella Sanità cambiano la qualità della nostra vita. La salvano. Permettono, ad esempio, a un reparto di Psichiatria non solo di somministrare medicine, ma anche di affiancare il paziente con un percorso psicoterapeutico, di assistenza e di ascolto, cosa che per mancanza di fondi accade meno di un tempo, riducendo la terapia ai soli farmaci, con buona pace di Franco Basaglia. Penso, infine, alle forze dell’ordine. Capita che una denuncia venga sottovalutata o presa in carico con troppa lentezza. Mi chiedo se la formazione in itinere manchi solo nella scuola o se il problema, come credo, sia sistemico. Senza personale e senza formazione non ci saranno mai protocolli né tempi chiari e il cittadino non si sentirà davvero tutelato nemmeno dopo aver denunciato. La soluzione non può essere solo repressiva: la sicurezza è prioritaria ma non è l’unica priorità. I primi obiettivi dell’educazione sono la civiltà e il rispetto. E l’educazione è uno strumento di relazione che si può apprendere, una forma mentis che si può acquisire. Chi investe di più in educazione ha maggiori capacità di interpretare il presente e di portare avanti esperienze che a volte restano ancora troppo marginali. Un esempio tra i tantissimi: affiancare al telefono rosa per chi è abusato, i centri per chi realizza di avere pulsioni violente o possessive. Spesso si tratta di piccole realtà senza fondi adeguati e sempre sul punto di chiudere, ma non mancano né i modelli positivi né una robusta tradizione di studi per guidarci. Dove ci sono investimento, formazione e personale, lo sguardo cambia, la riflessione si apre e si aggiorna, e la violenza non appare più un problema delle donne, ma una questione politica e sociale di tutta la collettività. Nessuno escluso. Migranti. Le bugie del ministro su chi muore in mare di Luca Bottura La Stampa, 13 gennaio 2024 Prima o poi doveva succedere: a furia di non separare i fatti dalle opinioni, abbiamo separato i fatti dai fatti. Non da ieri, ovviamente. Ma la surreale arringa difensiva di Matteo Salvini al processo Open Arms parrebbe marcare un punto di non ritorno. Se solo quel punto non fosse alle nostre spalle da tempo. Dire, come ha detto, che nel “suo” governo (suo?) i morti in mare diminuirono, può significare tre cose. La prima è processualmente nefasta: se era suo, Conte, Toninelli e Di Maio allora non c’entrano. La seconda è che questo governo è evidentemente altrui, di qui Cutro e altre stragi, accadute mentre Piantedosi spediva le navi di soccorso il più lontano possibile da gente che affoga. La terza, la più vera, che pure le raccoglie tutte, è che davvero vale tutto. E vale tutto perché Salvini utilizza la stessa tecnica ovunque si trovi: tv, aula di tribunale, parlamento (dove va meno). E la tecnica è sparare una salva di enormità che chi di potere, nel far west passivo-aggressivo della nostra informazione, trasformerà in materiale opinabile, rivedibile, interpretabile. Urlando. In prima serata. Col conduttore che fa pappa e ciccia e ti dà del tu. Siamo oltre Donald Trump, che diceva di poter sparare a Manhattan senza conseguenze elettorali. Siamo alla pistola carica dei decreti Salvini che esplode i suoi “colpi”, con esiti concreti, tanto qualcuno (oltre a lui) racconterà che le centinaia di morti non sono mai esistite, il botto non c’è stato. Tra l’altro è più o meno la linea difensiva del Fratello d’Italia col pistolino piccino picciò. Ora: chiunque sia incappato nella Giustizia sa bene che l’imputato ha il diritto di mentire. A volte gli conviene pure, perché dire la verità è noioso e quasi le favorisce, certe condanne. Il problema è quando non se ne sa più uscire: l’altra sera (naturalmente) su Rete 4, era ospite il ministro delle Infrastrutture e dei talkshow. Tra le altre cose, dopo aver risposto sui saluti romani rivendicando la legge sui maltrattamenti agli animali, e aver tuonato contro i processi tv, aggiungendo però - in tv - che il suo processo è un attacco politico privo di fondamento, ha parlato del suocero Denis Verdini. Ha invitato il pubblico a non credere ai giornali - come Grillo: i populisti si somigliano - perché ne fu avversario politico ma, da quando lo conosce, sa che si tratta di una brava persona. Due dettagli. Il primo: Verdini e Salvini erano alleati. Il secondo: l’uomo che sussurrava ai banchieri e ai politici, molto trasversalmente, è una brava persona condannata in via definitiva a 11 anni per magheggi nell’ambito bancario e (attenzione) editoriale. Solo che il nostro inarrestabile analfabetismo di cittadinanza, ha tolto ossigeno anche all’espressione “sentenza passata in giudicato”. Meglio: vale solo per gli amici, e se è favorevole. Altrimenti si accede alla versione dopata del (sacrosanto) garantismo. Al quarto grado di giudizio: il casinismo. Roba seria e funzionale: ci si vincono le elezioni. Giorgia Meloni, secondo il sito di fact checking “Pagella politica”, nel solo 2023 ha mentito quasi quattro volte su dieci ed è stata imprecisa anche gravemente altre tre volte su dieci. Una modalità che confina con l’abuso della credulità popolare ed è forse più insidiosa di mille riforme istituzionali. O, forse, la sua premessa. Il sottosegretario Mollicone, già artefice di battaglie decisive come quella contro Peppa Pig, l’uomo secondo cui le coppie omosessuali sono illegali e la pedofilia va preferita alla maternità surrogata, sta lavorando in questi giorni a un organismo governativo che dovrebbe vigilare sulle fake news. Faccio mie le parole di un commentatore su X: “Per una volta, nessuno potrà accusare il governo di legiferare su qualcosa che non conosce”. Cosa potrà mai andar storto? Migranti. Lo show di Salvini al processo Open Arms: “Con me meno morti”. Ma non è stato così di Laura Anello La Stampa, 13 gennaio 2024 Il leader della Lega rivendica i buoni risultati sul calo degli sbarchi, ma fu l’effetto del patto Italia-Libia siglato da Minniti. E le vittime nel Mediterraneo aumentarono. Lo scandisce all’apice di una dichiarazione spontanea che dura 59 minuti, con toni da comizio. “Durante la mia gestione del ministero dell’Interno sono diminuiti in maniera considerevole gli sbarchi e soprattutto i morti, di questa cosa ne vado orgoglioso innanzitutto come genitore. Meno sbarchi e meno morti, cosa che non è accaduta dopo”. Parla nell’aula bunker di Palermo Matteo Salvini, sotto processo per sequestro di persona per il caso della nave Open Arms, quando dal 2 al 20 agosto 147 migranti salvati dall’imbarcazione dell’Ong - 32 minorenni - rimasero in mare senza potere sbarcare. Lui, allora ministro degli Interni, oggi al dicastero dei Trasporti, agitava lo spettro del rischio di infiltrazioni terroristiche, oltre che la consueta bandiera della difesa del sacro suolo. Estate caldissima, con il governo Conte 1 che si avviava al capolinea. Adesso Salvini passa al contrattacco, provando a rivendicare i risultati di quegli anni, con una punta di veleno “su quel che è accaduto dopo”. Un dopo che fa riferimento al ministro Lamorgese, suo successore, ma che pare alludere con una punta di veleno anche all’attuale governo Meloni, quando i numeri dei migranti sono tornati a crescere. In realtà, a guardare i grafici, le cose non stanno come dice Salvini, ministro degli Interni dal giugno 2018 al settembre del 2019. Il punto di crollo degli sbarchi e dei morti coincide con quel memorandum Italia-Libia voluto nel 2017 dall’allora presidente del consiglio Gentiloni e dal suo ministro Marco Minniti, firmatari di quel patto più che controverso con il governo libico che fece insorgere un pezzo di sinistra (e rinnovato alla sua scadenza nel 2022): finanziamenti alla guardia costiera del Paese africano, cooperazione per evitare le partenze e tutto quello che aprì la strada alla “caccia al migrante”, alle prigioni, alle detenzioni. Ma sui numeri il patto funzionò eccome, mentre l’Europa si girava dall’altra parte: gli arrivi via mare nel 2016 erano stati oltre 181 mila, spinti dalle crisi internazionali, nel 2017 scesero a 119.369. Nel 2018 - quando Salvini si insediò e gli effetti del memorandum andarono a regime - gli sbarchi diventarono 23.370, scesero ancora nel 2019 a 11.471, e risalirono nel 2020 a 34.154, per poi puntare di nuovo verso l’alto, quando si aprì la crisi tunisina e nacque la nuova rotta. Il biennio Salvini è figlio indiscutibilmente delle scelte precedenti. Quanto ai morti invece, secondo il rapporto “Viaggi disperati” dell’Unhcr, nei mesi del 2019 che videro Salvini ministro degli Interni, morirono cercando di raggiungere l’Italia dalla Libia 637 migranti. Nell’anno precedente, il 2018 (gestito per metà da Salvini) i morti e i dispersi in mare furono 1.312. Rispetto al predecessore Minniti, un incremento del 19 per cento. Ma non c’è solo la rivendicazione dei successi nelle dichiarazioni spontanee di Salvini. C’è il ribadire che quelle scelte furono di tutto il governo di allora: “La politica in tema di immigrazione, che puntava a contrastare il traffico di essere umani, era condivisa da tutto il governo. Dal presidente del consiglio Conte e dai ministri Di Maio e Toninelli”. Una “chiamata di correo” che l’ex premier, quando depose come testimone un anno fa, respinse in modo deciso: “Sollecitai al ministro Salvini il rilascio del porto sicuro - disse - perché fare sbarcare i minori era indiscutibile. Cercai di esercitare una sorta di moral suasion, perché la posizione del Viminale mi appariva non avesse il minimo fondamento giuridico, prima che politico”. Così come smentì un altro punto su cui Salvini ieri è tornato, sostenendo che fosse prassi non consentire lo sbarco senza un accordo di redistribuzione dei migranti con gli altri Paesi. “Non ho mai detto che la condizione dovesse essere la redistribuzione preventiva” ha sostenuto Conte, così come l’ex ministro Lamorgese. Posizioni contrastanti anche sulla presenza di eventuali terroristi: “Ho tutelato la sicurezza nazionale, le stragi avvenute in Francia, Germania e Belgio sono state commesse da persone arrivate illegalmente in Italia” ha detto ieri Salvini. “Mai sentito di terroristi o criminali a bordo” gli ribatte Conte. Erano tempi, quelli, in cui ci si preparava a raccogliere i cocci del governo. Adesso, in vista delle Europee, si torna a parlare per proclami. Medio Oriente. Israele all’Aja, il giorno della difesa: “A Gaza nessun genocidio” di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 13 gennaio 2024 Parlano i legali di Tel Aviv in udienza alla Corte internazionale di giustizia. Respinte le accuse mosse dal Sudafrica, rivendicato il diritto a difendersi. Israele non ci sta e respinge con sdegno l’iniziativa del Sudafrica che ha portato lo Stato ebraico davanti la Corte internazionale di giustizia (Cig) con l’accusa, gravissima, di genocidio. Dopo le requisitorie di Pretoria, il secondo giorno di udienze a l’Aja è consacrato alle repliche della difesa. E il team legale di Tel Aviv, pur non potendo negare le stragi di civili a Gaza (23mila vittime in tre mesi), punta a dimostrare che dietro l’offensiva militare contro Hamas non c’è nessuna volontà di sterminio della popolazione palestinese. Si tratta di un aspetto cruciale per determinare il crimine di genocidio, che ha il suo fondamento nell’intenzione. Secondo Pretoria la volontà di annientare la popolazione civile sarebbe suffragata da alcune dichiarazioni degli esponenti più estremisti, del governo Netanyahu. “Non tutti i conflitti sono genocidi. Il crimine di genocidio nel diritto internazionale si distingue tra le violazioni come l’apice del male, il crimine dei crimini, il massimo della malvagità. Se le accuse di genocidio dovessero diventare moneta comune nei conflitti armati ovunque si siano verificati, l’essenza di quel crimine andrebbe persa”, tuona l’avvocato Malcolm Shaw. Un altro membro del collegio difensivo, la giurista Galit Rajuan, ha sottolineato come ogni conflitto armato nelle aree urbane porti con sé la perdita di vite civili, denunciando a sua volta il movimento islamista di utilizzarli come scudi umani per rallentare l’offensiva dell’Idf: “Si servono di strutture apparentemente civili per scopi militari. Case, scuole, moschee, strutture e rifugi dell’Onu sono tutti sfruttati per scopi militari da Hamas, anche come siti di lancio di razzi. Diversi palestinesi di Gaza hanno inoltre riferito che Hamas ha rubato aiuti come carburante e attrezzature mediche”. Rajuan ha poi definito “incredibile” l’accusa di genocidio rivolta allo stato ebraico, affermando che l’esercito israeliano “nei limiti del possibile ha sempre avvertito i residenti prima di sferrare un raid aereo, una precauzione che richiede risorse e intelligence e non ha mai colpito deliberatamente edifici civili e ospedali che sono stati danneggiati dai combattimenti che avvengono nelle loro vicinanze”. Respingendo inoltre le insinuazioni sulla deportazione dei palestinesi al di fuori della Striscia: “Non c’è nessuna volontà di trasferire i palestinesi, è una notizia falsa, abbiamo solo organizzato evacuazioni come misure di protezione secondo le leggi sul diritto umanitario”. Il legale più celebre e quotato del team legale israeliano, l’avvocato Christopher Staker, già capo del dipartimento giuridico della Cig, ha poi rivendicato il diritto di Israele a difendersi dopo l’attacco su larga scala del 7 ottobre, spiegando che mettere in pausa le operazioni militari darebbe a Hamas la possibilità di riorganizzarsi: “Questo non è un caso in cui misure provvisorie possono imporre ad entrambe le parti in conflitto una reciproca moderazione: perché Hamas intende continuare i suoi attacchi contro Israele e i suoi cittadini: ciò priverebbe Israele della capacità di far fronte alla minaccia alla sua sicurezza, metterebbe fine ai tentativi di salvare gli ostaggi ancora a Gaza” e Hamas avrebbe più tempo per sviluppare le proprie capacità, permettendogli di rappresentare una minaccia ancora maggiore”. Le conclusioni dell’audizione sono spettate a Gilad Noam, viceprocuratore generale di Israele per il quale l’accusa non è riuscita a dimostrare che è in corso un genocidio dei palestinesi di Gaza: “Gli eventi che sono oggetto del presente procedimento si verificano nel quadro di una guerra istigata da Hamas, disciplinata dal quadro giuridico del diritto internazionale umanitario. Israele ha adempiuto a tutti i suoi obblighi legali, le misure provvisorie richieste sono ingiustificate”. Come era prevedibile, le arringhe non hanno affatto convinto il ministro della Giustizia sudafricano, Ronald Lamola, il quale ha confermato le posizioni di Pretoria sostenendo che Israele non ha presentato prove sostanziali per scagionarsi. “Lo Stato di Israele oggi non è riuscito a confutare la tesi del Sudafrica presentata ieri alla Corte. Rimaniamo fedeli ai fatti, alla legge e a tutte le prove che abbiamo presentato”, continua Lamola, precisando che il Sudafrica ritiene ancora che Tel Aviv agisca “in violazione della Convenzione sul genocidio”. A queste parole è seguita una coda acida, con diversi esponenti dell’esecutivo di Tel Aviv che accusano Pretoria di “fare il gioco di Hamas” e sostanzialmente di “fare il tifo per i terroristi”.