La sfida (possibile) sui suicidi in carcere di Luca Ricolfi* Il Messaggero, 12 gennaio 2024 Quello delle donne uccise non è l’unico tema su cui andiamo presto in sonno. Ci sono drammi su cui l’opinione pubblica, più che andare in sonno, è in letargo perpetuo. Il più clamoroso, probabilmente, è quello dei suicidi in carcere, l’ultimo dei quali risale a pochissimi giorni fa. Ogni tanto i quotidiani riferiscono di un caso, specie se ci sono indizi sufficienti a ipotizzare responsabilità penali nel comportamento di giudici, medici o personale carcerario. Ma raramente si tenta un bilancio o si apre una discussione. Eppure i numeri, ormai, sono paragonabili a quelli delle donne uccise. Lunedì 1° gennaio 2024. L’anno nuovo inizia con un femminicidio, o meglio con l’uccisione di una donna (una definizione rigorosa e condivisa di femminicidio ancora non esiste). Otto giorni dopo, il 9 gennaio, i casi sono già saliti a 6, quasi 1 al giorno. Se le cose andassero avanti a questo ritmo, alla fine dell’anno le donne uccise sarebbero circa 250, più del doppio di quelle (113) dell’anno appena terminato. Ma l’opinione pubblica, ultra-mobilitata per il caso di Giulia Cecchettin, è già in sonno. Quello delle donne uccise non è l’unico tema su cui andiamo presto in sonno. Ci sono drammi su cui l’opinione pubblica, più che andare in sonno, è in letargo perpetuo. Il più clamoroso, probabilmente, è quello dei suicidi in carcere, l’ultimo dei quali risale a pochissimi giorni fa. Negli ultimi 30 anni, i suicidi in carcere sono stati quasi sempre dell’ordine di 1 alla settimana, quali che fossero i governi in carica, ma negli ultimi 6-7 anni hanno mostrato una inquietante tendenza all’aumento. Fino al 2017 la media era dell’ordine di 50 casi all’anno, ma negli ultimi anni è salita intorno a 65, con un picco di 84 casi (massimo storico) nel 2022, regnante Draghi. Nell’ultimo anno i casi sono stati 68, il valore più alto degli ultimi 30 anni dopo quello del 2022. Una differenza importante con le uccisioni di donne è che, nel confronto internazionale, la situazione dell’Italia è di gran lunga più grave sui suicidi in carcere che sulle uccisioni di donne. A livello europeo, ad esempio, siamo fra i paesi meno pericolosi in materia di femminicidi, ma fra i più insicuri in materia di suicidi in carcere (solo 5-6 paesi su 27, in particolare Francia e Portogallo, hanno valori nettamente peggiori dei nostri). Ma c’è una seconda differenza importante fra il dramma dei femminicidi e quello dei suicidi in carcere, ed è che le cause dei femminicidi sono estremamente complesse, diffuse e difficili da decifrare in termini scientifici (anche se facilissime da denunciare in termini ideologici), mentre quelle dei suicidi in carcere sono chiarissime, ben localizzate, e proprio per questo relativamente neutralizzabili. Fra esse: sovraffollamento carcerario (in forte aumento negli ultimi 2 anni), carenze di personale (guardie e operatori sociali), inadeguatezza delle strutture che dovrebbero occuparsi dei detenuti con problemi psichiatrici, insufficienza dei programmi di rieducazione, professionalizzazione e accompagnamento al lavoro. La controprova ce la forniscono i paesi scandinavi, dove il tasso di suicidio della popolazione generale è ampiamente superiore al nostro, ma quello della popolazione carceraria è più basso: indizio evidente del fatto che trattamenti più umani possono incidere fortemente sui tassi di suicidio dei detenuti. Come e perché si sia arrivati a questa situazione è abbastanza noto. Di fronte alle sacrosante e meritorie denunce della situazione carceraria da parte di associazioni e gruppi (Antigone, Ristretti Orizzonti, Nessuno tocchi Caino…), di fronte alla storica sentenza della Corte Europea di Strasburgo contro il sovraffollamento carcerario in Italia (2013), la maggior parte delle forze politiche hanno preferito puntare su amnistie, indulti, decreti svuota-carceri, misure alternative alla detenzione, depenalizzazioni, piuttosto che sostenere i costi di una umanizzazione delle carceri. È così che siamo arrivati alla situazione attuale, in cui le omissioni dei governi passati si vengono pericolosamente a sommare alle scelte securitarie del governo in carica. Si può essere favorevoli o contrari alla linea attuale, che punta molte delle sue carte su moltiplicazione dei reati, inasprimento delle pene, misure di “incapacitazione” (mettere in condizione di non nuocere) verso gli autori dei crimini di maggiore allarme sociale, come risse, rapine, aggressioni, reiterati furti e borseggi. Ma, proprio perché la via imboccata dal nuovo esecutivo è securitaria, e inevitabilmente porterà a un aumento del numero di detenuti, credo che oggi meno che mai si possa chiudere gli occhi di fronte alla situazione delle carceri, di cui il dramma dei suicidi è il segnale. Rendere, se non più sopportabile, almeno più umana la condizione di chi è in carcere, avrebbe dovuto essere uno degli imperativi categorici dei numerosi governi che si sono succeduti negli ultimi decenni. L’aver rimosso il problema non lo ha cancellato, ma lo ha consegnato al nuovo governo. È paradossale, ma è così: della umanizzazione delle carceri dovrà occuparsi il governo di Giorgia Meloni. *Fondazione Hume L’isolamento in cella che uccide: l’effetto deleterio sulla psiche di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 gennaio 2024 La vicenda di Matteo Concetti, 25 anni, fisico da body builder e testa gravata da particolari patologie psichiatriche, ritrovato senza vita impiccato nel bagno della sua cella di isolamento del carcere Montacuto di Ancona, pone nuovamente al centro dell’attenzione il problema dell’isolamento come sanzione disciplinare. Soprattutto nei confronti di chi, come Matteo, tanto che la procura di Ancona ha aperto una inchiesta, ha patologie psichiatriche e l’isolamento può risultare deleterio. Viene utilizzato per sedare i detenuti che danno in escandescenza (come nel caso del ragazzo finito al centro della cronaca grazie alla segnalazione della senatrice Ilaria Cucchi), oppure che compiono più volte atti di autolesionismo o tentativi di suicidio. L’uso dell’isolamento come rimedio può sfociare in tragedia, come dimostrano i casi di suicidio verificatisi nelle celle stesse, denunciati da anni dall’associazione Antigone. Al fine di prevenire i suicidi in carcere, nel 2019 Antigone ha presentato una proposta di legge per una riforma completa del regime dell’isolamento. Tuttavia, tale proposta è rimasta inevasa. L’associazione sostiene che la prevenzione dei suicidi richieda l’approvazione di norme che possano garantire maggiori contatti con l’esterno e con le persone care, riducendo così l’isolamento affettivo, sociale e sensoriale. L’isolamento disciplinare rappresenta una delle pene più severe all’interno delle strutture penitenziarie. Le regolamentazioni variano da paese a paese, ma una soglia comune, stabilita dalle Mandela Rules, è di 15 giorni massimi, termine che, tuttavia, non viene rispettato uniformemente in tutto il mondo. In Italia, questo periodo è il massimo consentito, mentre in altri paesi europei, come Francia e Danimarca, può estendersi fino a 30 giorni. Eppure, dietro a questa pratica si celano diverse criticità e abusi che richiedono un’attenzione urgente. Le autorità garanti hanno rilevato un preoccupante fenomeno legato all’aggiramento della durata massima dell’isolamento attraverso l’emissione di più provvedimenti consecutivi. Le raccomandazioni degli organismi internazionali sono chiare: questa pratica dovrebbe essere vietata. Eppure, troppo spesso, ciò avviene senza che venga effettuata una valutazione accurata delle alternative meno gravose per la salute dei detenuti e la tutela dei diritti umani. Gli effetti deleteri dell’isolamento - L’isolamento disciplinare, il quale dovrebbe essere riservato a casi eccezionali, è spesso applicato automaticamente, senza una ricerca preventiva di alternative. Questo comportamento da parte delle amministrazioni penitenziarie contribuisce a banalizzare uno strumento potenzialmente pericoloso, con gravi conseguenze sulla salute mentale e fisica dei detenuti. Il XVII Rapporto di Antigone del 2021, in particolare il capitolo a firma di Claudio Paterniti Martello e Federica Brioschi, ci viene in aiuto, facendo luce su questa pratica dilagante che ha effetti devastanti sulla salute fisica e mentale dei detenuti. La durata massima di 15 giorni, come stabilito dalle Mandela Rules, è un limite arbitrario, con alcuni individui che crollano prima e altri dopo. Come riporta Antigone, quel che è certo è che a lungo termine l’isolamento porta alla morte sociale. Una volta usciti dall’isolamento, spesso i detenuti si comportano come se fossero ancora isolati, soffrendo di sociofobia e perdendo la capacità di interagire con altri esseri umani. Questo risultato è l’esatto opposto di ciò che i sistemi penitenziari ufficialmente perseguono, ovvero la risocializzazione del reo. Alcuni studi identificano una vera e propria sindrome da isolamento, manifestata attraverso disturbi del sonno, dell’appetito, ansia, panico, rabbia, perdita di controllo, allucinazioni e automutilazione. A questi si aggiungono vari sintomi psichiatrici, tra cui ipersensibilità, pensieri ossessivi, disfunzioni cognitive, irritabilità, aggressività, paranoia, mancanza di speranza, letargia, depressione e senso di imminente crollo emotivo, comportamento suicida. Lo studio di Antigone evidenzia diversi nodi critici, tra cui gli effetti deleteri sulla salute, il rischio di violenze e torture, il trattamento inumano e degradante, e la fragilità delle garanzie procedurali per chi è isolato. Le condizioni materiali delle celle predisposte per l’isolamento spesso mancano di elementi essenziali, contribuendo ulteriormente al degrado della situazione. Si parla delle cosiddette “celle lisce”, dove a volte mancano persino materassi, coperte, lenzuola. In molti casi, il bagno è visibile dallo spioncino o tramite telecamere a circuito chiuso. È comune che non ci siano vetri alle finestre né alcuna forma di riscaldamento. In genere, anche le aree esterne, dove si passano le ore d’aria, sono le peggiori dell’istituto perché piccole e spesso coperte da reti. Le raccomandazioni internazionali - L’isolamento disciplinare nelle carceri, seppur teoricamente riservato a casi eccezionali, si configura spesso come una pratica dilagante, con gravi impatti sulla salute mentale e fisica dei detenuti. Questa realtà, ben nota alle autorità, è in contrasto con le raccomandazioni internazionali che cercano di salvaguardare la dignità e il benessere degli individui nelle carceri. Le Regole Penitenziarie Europee, ad esempio, stabiliscono chiaramente la necessità di almeno due ore al giorno di “contatti umani significativi” per coloro che sono all’isolamento. Questi incontri non sono meri dettagli organizzativi, ma elementi fondamentali per preservare la personalità e il benessere emotivo dei detenuti. Tuttavia, la realtà nelle sezioni di isolamento spesso trascura tali disposizioni, aumentando il rischio di abusi e suicidi. Un altro aspetto cruciale sottolineato dalle raccomandazioni internazionali è la richiesta di una visita medica quotidiana per chi è in isolamento. Questo approccio mira a monitorare attentamente la salute fisica e mentale dei detenuti, ma spesso le visite non avvengono regolarmente. Detenuti che rifiutano le visite o medici che non rispettano l’obbligo contribuiscono a creare un vuoto nella sorveglianza, compromettendo ulteriormente la salute dei ristretti. Il ruolo dei medici in questo contesto è fondamentale. Tuttavia, la diffidenza nei confronti dei detenuti e l’assuefazione ai meccanismi interni del carcere possono minare l’efficacia dell’operato medico. La creazione di un ambiente in cui la fiducia tra detenuti e personale medico possa prosperare è cruciale per garantire un adeguato monitoraggio e sostegno. Il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (Cpt) ha sempre prestato particolare attenzione ai detenuti in isolamento. La motivazione di tale attenzione risiede nella consapevolezza che questa misura può avere effetti estremamente dannosi per la salute psichica, somatica e per il benessere sociale delle persone coinvolte. Secondo i rapporti del Cpt “l’indicatore più significativo dei danni causati dall’isolamento è il tasso notevolmente più elevato di suicidi tra i detenuti sottoposti a tale regime rispetto a quello riscontrato nella popolazione carceraria generale”. Questa drammatica constatazione solleva questioni importanti sul divieto della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti. La prolungata e indeterminata durata dell’isolamento aggrava ulteriormente gli effetti dannosi, mettendo in discussione la coerenza delle politiche carcerarie e la loro aderenza agli standard internazionali. Risulta quindi evidente che l’isolamento carcerario non solo viola le raccomandazioni internazionali, ma mina la dignità umana e il diritto alla salute mentale dei detenuti. Un approccio riformatorio è urgente, ponendo l’accento su politiche carcerarie improntate al rispetto dei diritti umani e all’adozione di pratiche che promuovano la riabilitazione anziché il perpetuarsi di cicli dannosi, tanto da portate in casi estremi anche alla morte. Ed è quello che è accaduto con il 25enne Matteo Concetti. Sovraffollamento nelle carceri. Situazione gravissima, figlia del panpenalismo di questo governo di Aldo Torchiaro Il Riformista, 12 gennaio 2024 L’occupazione media è del 127% per ciascun istituto. Tutto nell’illegalità e nel tradimento della Costituzione. “La situazione è gravissima, i diritti non possono rimanere fuori dal carcere”: il grido di Rita Bernardini, Nessuno Tocchi Caino, squarcia l’aria. La conferenza stampa che riunisce attivisti per i diritti e parlamentari riporta le lancette del problema alla mezzanotte. È una lunga nottata, il tunnel di chi sta in carcere. “Le regole del Consiglio d’Europa dicono che la vita all’interno delle carceri deve somigliare, pur in assenza della libertà, alla vita fuori”. In Italia non ci si avvicina nemmeno. Ci sono carceri in cui le infermerie non hanno i medicinali di base. Altri in cui per regolamento interno non viene ammesso ai famigliari di consegnare alimenti ai propri cari. I 189 istituti penitenziari italiani hanno 3640 celle inagibili. La capienza regolamentare effettiva, al netto, è di 47540 posti. Peccato che i detenuti siano 60166. Il sovraffollamento medio è del 127% per ciascun istituto. A spanne, Giorgia Meloni ha detto di conoscere che il sovraffollamento è del 120 per cento. Arrotondava per difetto. La media del pollo la conosciamo: se c’è qualche carcere al 100%, significa che altre hanno il 150% dei posti occupati. E tutto nell’illegalità, nel tradimento della Costituzione e di tutto l’ordinamento che norma la detenzione. Con il paradosso che per riparare ad un reato, i condannati - o anche i detenuti in attesa di giudizio - vengono sottoposti ad abusi e illeciti, in un regime illegale. Il governo cosa sta facendo? Poco e niente, assicurano Sergio D’Elia e Elisabetta Zamparutti, che insieme a Rita Bernardini portano avanti da molti anni le attività di Nessuno Tocchi Caino. “Basti guardare all’organico sottodimensionato nelle carceri. Se soffrono i detenuti, soffrono anche gli agenti della Polizia Penitenziaria. Unica forza di polizia costretta a fare gli straordinari obbligati”, viene illustrato da Nessuno Tocchi Caino. “I concorsi vanno deserti, i dirigenti penitenziari rinunciano, perfino gli educatori faticano a stare dentro ai meccanismi di questa macchina infernale, inceppata. Tutto l’organico è sotto dotato. Anche i magistrati di sorveglianza (260 in tutta Italia) sono pochissimi. E hanno un carico di lavoro incredel dibile, devono occuparsi di mille adempimenti con obbligo di reperibilità 24 ore su 24, per turni su tutto l’anno. Non ce la fanno, non ce la possono fare”. Basti pensare ai centomila “liberi sospesi” che stanno fuori dal carcere per anni, prima di aspettare una decisione del magistrato di sorveglianza. Un quadro drammatico e strutturale. È urgente correre ai ripari. Una prima proposta, a prima firma deputato di Italia Viva, Roberto Giachetti, prevede di portare da 45 a 75 i giorni di liberazione anticipata. Una misura piccola ma efficace per ridurre l’impatto degli oltre 14mila detenuti con due anni di pena da scontare. E poi una seconda iniziativa: affidare la facoltà di concedere pene alternative ad una parte della detenzione ai Direttori degli istituti di pena, che conoscono i detenuti e non solo gli incartamenti. Una misura che alleggerirebbe il carico di lavoro dei magistrati di sorveglianza. “Abbiamo avuto il primo governo Conte dove il contributo di Bonafede e del capo del Gap, Basentini hanno contribuito ad aggravare la situazione nelle carceri, dove la situazione è diventata esplosiva”. Giachetti mette in luce il cuore del problema: “Il panpenalismo di questo governo, autentica fabbrica di nuovi reati, è insostenibile. Il 26% dei detenuti sono in attesa di giudizio, non è accettabile in uno Stato di diritto”. Maria Elena Boschi, concludendo l’incontro, lancia un’idea ulteriore: “Bisognerebbe rendere obbligatoria per tutti i parlamentari una visita in carcere. Questo aiuterebbe i decisori a capire quanto sia grave la situazione umanitaria nelle case di pena. “Visto che il problema riguarda le competenze del Sottosegretario Delmastro, chiediamo che perlomeno le sue deleghe vengano distribuite ad altri, con una postura istituzionale meno scivolosa di quella che abbiamo visto finora da lui”, conclude Boschi. Proposte e appelli che non rimangono sulla sola carta ma saranno sulla pelle dei promotori, che tra pochi giorni inizieranno un Satyagraha, uno sciopero della fame a staffetta per chiedere alla premier Giorgia Meloni di ascoltarne le ragioni. Carceri, anziani dietro alle sbarre: quanti sono, il caso del 90enne al 41bis di Simona Pletto Libero, 12 gennaio 2024 Fanni Sisinia, 74 anni, l’altro ieri sera, nella sua casa di Bonagia, a Palermo, ha strangolato la figlia Maria Cirafici di 44 anni, con problemi di depressione. La madre reo confessa dell’omicidio della figlia, è stata arrestata ed è finita in carcere. Fanni è la detenuta numero 2.541 nella fascia degli over 65, su un totale di 51.179 carcerati, di cui 18.894 stranieri per un costo giornaliero di 152 euro al giorno. Un popolo in costante crescita quello dei “nonni” tra le sbarre (deteniamo il primato nella Ue per detenuti ultra sessantacinquenni), nonostante la legge preveda che - in via ordinaria- 70 anni sia il limite massimo per la privazione della libertà per motivi di giustizia. In realtà non c’è alcun automatismo. Ogni caso viene valutato a se, e il destino di questi anziani in bilico tra carcere, detenzione domiciliare o strutture alternative, è sempre nelle mani del giudice di turno. Risultato: negli istituti penitenziari italiani alla fine dello scorso anno erano presenti oltre mille detenuti con più di 70 anni di età (993 solo nel 2021 secondo il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), più del doppio di quanti ce ne fossero dieci anni prima. Non mancano i reclusi che hanno raggiunto la soglia dei 90 anni, soprattutto gli ergastolani che sono al 41 bis. Anziani con le ovvie patologie legate alla loro età, compresi i tumori. Molti altri di loro, comunque, non hanno commesso gravissimi reati. Eppure, per tanti, l’ipotesi di detenzione domiciliare - che ha una finalità umanitaria dettata dalla circostanza che il superamento di una certa soglia di età comporta - in alcuni casi non viene applicata. Poi ci sono i casi di disperati, di persone sole che non hanno più legami familiari, molte provenienti dalla strada. Vista l’età e la malattia, potrebbero accedere alle misure alternative, il problema è che non ci sono posti. E il carcere, che rimane l’unica accoglienza possibile, si trasforma inevitabilmente in un deposito. E infine ci sono gli anziani che i giudici considerano recidivi, oppure pericolosi socialmente. Carceri al collasso, Bernardini e Giachetti in sciopero della fame di Giacomo Puletti Il Dubbio, 12 gennaio 2024 Partirà il 23 gennaio lo sciopero della fame organizzato da Nessuno tocchi Caino e che coinvolgerà, al momento, la presidente dell’associazione Rita Bernardini, e il deputato di Italia viva Roberto Giachetti. L’iniziativa è stata presentata ieri in conferenza stampa alla Camera dagli stessi Bernardini e Giachetti, assieme alla deputata di Iv Maria Elena Boschi, Sergio D’Elia ed Elisabetta Zamparutti, quest’ultimi rispettivamente segretario e tesoriera dell’associazione. Bernardini ha snocciolato alcuni dati sulle nostre carceri, come il sovraffollamento al 127% e gli 84 suicidi in cella nel 2022, ai quali sono seguiti i 68 del 2023. “La nostra iniziativa è a beneficio di tutta la comunità penitenziaria - ha sottolineato - perché quando stanno bene i detenuti stanno bene anche gli agenti penitenziari”. L’interlocutore della protesta è la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, che ha proposto la creazione di nuove carceri ma secondo Giachetti “non si rende conto di quello che dice”. E nel mirino c’è anche il ministro della Giustizia, Carlo Nordio. “Riconosco la buona fede ma nel Dl sicurezza approvato in Cdm il governo ha messo nuovi 15 reati tra cui la rivolta nelle carceri, anche la resistenza passiva e il digiuno - ha detto Giachetti - La follia più totale”. Il deputato ha poi presentato la sua proposta di legge. “Prevede 75 anziché 45 giorni di liberazione anticipata, una misura che tende a far diminuire la popolazione detenuta - ha spiegato Poi c’è quella ordinamentale, in modo che la liberazione anticipata sia di 60 giorni ogni semestre”. Boschi ha infine posto l’accento sul problema della mancanza di posti nelle Rems e delle madri detenute in carcere. La riforma Nordio mette in crisi le opposizioni di Mario Di Vito Il Manifesto, 12 gennaio 2024 Continuano i lavori in commissione: Iv e Azione ormai organiche alla destra, M5s sulle barricate, il Pd invece fatica a compattarsi. L’offensiva della destra sulla giustizia continua ad avanzare, passo dopo passo, lenta ma inesorabile. Niente di nuovissimo, in realtà: in commissione, al Senato, si sta votando il ddl Nordio, i cui contenuti sono noti dall’estate, così come è noto da mesi che la maggioranza avrebbe fatto muro davanti alle proposte di modifica dell’opposizione. E così, dopo il colpo di spugna sull’abuso d’ufficio, la martellata alla legge Severino e la spallata al reato di traffico d’influenze, ieri è arrivata la stretta sulle intercettazioni: un emendamento di Pierantonio Zanettin di Forza Italia non consentirà l’inserimento nelle trascrizioni di “dati che consentono di identificare soggetti diversi dalle parti”. Non solo: le conversazioni tra gli indagati e i propri avvocati andranno di strutte. La maggioranza ha votato sì in maniera compatta, con l’aggiunta di Italia Viva. Lega e Forza Italia, poi, hanno portato a casa anche un altro risultato destinato a far discutere non poco: i test psicoattitudinali ai magistrati, questione che sarà inserita (dal solito Zanettin) nel dl da approvare in commissione entro la fine del mese. “Quando ero ministro della Pubblica amministrazione - ha detto la presidente di commissione, la leghista Giulia Bongiorno - nessuno si meravigliava che i test fossero imposti ai dipendenti. È normale che siano necessari per un lavoro di grande responsabilità e delicatezza come quello dei magistrati”. All’ipotesi, che circola in varie forme e modi sin dai tempi di Berlusconi, i magistrati sono da sempre contrarissimi. Non è del tutto un caso, in questo contesto, l’attacco (quasi) a freddo inserito en passant da Nordio in una delle sue risposte al question time di ieri al Senato. Il tema riguardava le esternazioni dei magistrati: “Stiamo valutando anche interventi legislativi perché hanno raggiunto un livello di intollerabile denigrazione dell’intero corpo della magistratura. Èil minimo di buonsenso ribadire il concetto per cui un magistrato deve non solo essere ma anche apparire imparziale”. Sullo sfondo si agita il vero spettro della legislatura: la separazione delle carriere, la madre di tutti gli scontri tra politica e magistratura. Nordio la farebbe pure subito, ma a palazzo Chigi si sa che il tema darà luogo a uno scontro rispetto al quale quelli in corso (e quelli passati) sono una passeggiata di salute. E se, in attesa del colpo grosso, il governo continua a cambiare i connotati della giustizia italiana mattoncino dopo mattoncino, le opposizioni non riescono in alcun modo a compattarsi: Iv e Azione sono in tutto e per tutto organiche alla maggioranza, il M5S - coerentemente con la sua storia giustizialista - ha gioco facile a gridare allo scandalo un giorno sì e l’altro pure. E il Pd inciampa continuamente nelle sue contraddizioni: sull’abuso d’ufficio, ad esempio, da un lato abbiamo il corpaccione parlamentare del partito che si è espresso contro la soppressione voluta dalla destra, mentre molti sindaci hanno esultato perché da tempo chiedevano che quel reato venisse cancellato dal codice penale. In questo contesto a poco serve la rivendicazione di aver presentato diverse proposte di revisione dell’abuso d’ufficio (tutte respinte dal parlamento), perché le posizioni interne sono chiare e ormai cristallizzate: “L’abolizione è una vittoria di tutti”, dice il sindaco dem di Pesaro Matteo Ricci. “Cancellare dal nostro ordinamento quel concetto è da forze politiche autoritarie”, ribatte l’ex Guardasigilli Andrea Orlando. “Continueremo a batterci per tutelare i sindaci e la legalità. Tenere insieme queste sfide è possibile a partire dalle nostre proposte che sono concrete - si legge in una nota firmata dalla responsabile per la giustizia Debora Serracchiani e dai capigruppo nelle commissioni di Senato e Camera Alfredo Bazoli e Federico Gianassi - l’abrogazione è una risposta sbagliata ad una domanda giusta”. Il problema è che ormai il treno è partito, e difficilmente lo si potrà fermare chiedendo la modifica di un reato in via di abrogazione. E mentre i dem cercano di far quadrare il proprio cerchio, Giuseppe Conte prepara la sua controffensiva: “Non vogliamo tornare alle immagini dei cittadini che tirano le monetine ai politici. Vogliamo fare di tutto per allontanare il ritorno di quelle immagini. Siamo molto preoccupati, cerchiamo di riportare l’attenzione sulla questione morale”, ha detto l’ex premier rilanciando la più antica delle sue proposte, firmata all’inizio della legislatura, come primo atto: una legge sul conflitto d’interessi. Se Nordio accusa le toghe: “Da loro suggerimenti alla politica per azioni quasi eversive” di Liana Milella La Repubblica, 12 gennaio 2024 Al Senato il Guardasigilli risponde al forzista Zanettin e annuncia “interventi legislativi” contro i giudici “perché alcune esternazioni hanno raggiunto livelli di intollerabile denigrazione”. Questa è Toghe, la newsletter sulla giustizia di Liana Milella. Dopo Guido Crosetto, adesso Carlo Nordio. Anche lui in una sede istituzionale, il Senato della Repubblica. Dove il ministro della Giustizia risponde ai question time, tra cui quello del forzista Pierantonio Zanettin, che da tre giorni sta spendendo tutte le sue energie, in stretta liaison con la leghista Giulia Bongiorno, per portare a casa, dopo ormai sei mesi, il ddl anti giudici di Nordio. Il Guardasigilli gli spiega che un cronoprogramma non si può raccontare “in tre minuti”. E poi eccolo lanciarsi in un passaggio di cui certamente le opposizioni gli dovranno chiedere conto. Ma cos’ha detto alla lettera: “Noi stiamo valutando anche degli interventi legislativi, perché alcune esternazioni hanno raggiunto livelli di intollerabile denigrazione dell’intero corpo della magistratura. Esternazioni sulle quali ovviamente non mi pronuncio, su cui si stanno già pronunciando gli organismi competenti. Ma credo che sia proprio un minimo di buon senso ribadire il concetto quasi banale che il magistrato non solo dev’essere, ma apparire imparziale. Se poi a questo aggiunge anche dei suggerimenti alla politica affinché intraprenda delle azioni che possono essere definite quasi “eversive”, allora la situazione è molto grave”. Chi sono i magistrati che in Italia danno “suggerimenti alla politica affinché intraprenda azioni che possono essere definite quasi eversive”? Qui siamo ben oltre le preoccupazioni del ministro della Difesa Guido Crosetto che prima in un’intervista, e poi in ben due sedute alla Camera, ha ribadito che la magistratura si fa “opposizione politico-partitica”. Tant’è che lui ha sentito il bisogno di dirlo e di esprimere il suo allarme. Ovviamente smentito dai magistrati che rivendicano il loro diritto di parlare nei pubblici dibattiti esprimendo il proprio pensiero. Ma con le parole di Nordio - pronunciate al Senato giovedì 11 gennaio intorno alle 16 nel corso del question time - è una bazzecola la “preoccupazione” per giudici che parlano nei loro congressi. Crosetto, in particolare, si riferiva a quello di Area, che si è svolto a Palermo all’inizio di ottobre e a quello di Magistratura democratica che ha chiuso lo stesso mese a Napoli, dove ha parlato anche il presidente del Senato Ignazio La Russa. L’accusa di Nordio - che accenna a verifiche dei suoi uffici in corso, e c’è da supporre che si riferisca all’ispettorato - è molto grave. Dalle toghe giungerebbero “suggerimenti alla politica affinché intraprenda azioni che possono essere definite quasi eversive”. Non resta, a questo punto, che invitare Nordio a un nuovo e immediato question time per spiegare al Paese a cosa si riferisce, anche facendo i nomi dei magistrati che si sarebbero macchiati di suggerimenti “quasi eversivi”. E forse stavolta è il caso che entri in scena anche il Copasir. L’Ue avvisa Nordio: guai se abolite l’abuso d’ufficio di Errico Novi Il Dubbio, 12 gennaio 2024 Il ministro sdrammatizza le critiche della Commissione europea: “Nessun altolà, noi abbiamo un arsenale normativo”. La Lega non ci sta: “È un’ingerenza”. Quando si presenta nell’aula del Senato, di primo pomeriggio, Carlo Nordio esibisce il proprio consueto e ineguagliabile aplomb: l’Europa, dice, “non ci chiede di reintrodurre il reato di abuso d’ufficio: ci chiede di combattere la corruzione. E noi, contro la corruzione, abbiamo un arsenale normativo”. Segno che l e obiezioni avanzate poco prima da Christian Wigand, portavoce Giustizia della Commissione Ue, non hanno provocato traumi al guardasigilli italiano. Tanto che, di fronte alle opposizioni gongolanti per la coincidenza insperata fra il question time di Palazzo Madama e le critiche di Bruxelles, Nordio chiude la faccenda con tono liquidatorio: “È irrituale e improprio il riferimento che si fa alla volontà dell’Europa”. Ciò detto, è inevitabile che il ministro della Giustizia sia un po’ infastidito dall’idea di dover riprendere il discorso con Didier Reynders, il commissario Ue al quale il portavoce Wigand fa riferimento. Nordio aveva rassicurato già l’estate scorsa il titolare europeo della Giustizia sul fatto che abolire l’abuso d’ufficio non avrebbe indebolito la lotta al malaffare. Fatto sta che ora il guardasigilli ha un intralcio più ingombrante, sulla strada che dovrebbe condurlo alla prima vera vittoria del suo mandato, cioè il definitivo via libera al suo “pacchetto” di norme. Una mini riforma penale di cui l’addio al reato che paralizza i sindaci è il contenuto centrale, suggellato tre giorni fa dal sì della commissione Giustizia di Palazzo Madama. L’intralcio ha dunque le fattezze del portavoce europeo Wigand, che ieri ha rilanciato critiche analoghe a quelle dell’opposizione e dalla magistratura italiane. Ha prima chiarito che “la lotta alla corruzione è una priorità assoluta” per la Commissione Ue. Ha poi ricordato come Bruxelles abbia “adottato un pacchetto di misure anticorruzione a maggio per rafforzare la prevenzione e la lotta alla corruzione” - e già qui il verbo “to adopt” sconta un difetto di chiarezza, nella traduzione italiana, perché si riferisce alla “proposta di direttiva” elaborata da Europarlamento e Consiglio Ue ma non ancora effettivamente varata. Su quella bozza, peraltro, lo scorso 26 luglio il Parlamento italiano ha espresso un parere critico, proprio per la pretesa di “imporre” agli Stati membrI il reato di abuso d’ufficio. Ma concluse le premesse, il portavoce Giustizia dell’Ue è venuto al dunque: “Siamo a conoscenza del disegno di legge italiano che propone alcuni emendamenti alle disposizioni sui reati contro la pubblica amministrazione: come spiegato nel nostro rapporto sullo Stato di diritto a luglio 2023, queste modifiche depenalizzerebbero importanti forme di corruzione e potrebbero avere un impatto sull’effettiva individuazione e sul contrasto della corruzione. L’iter legislativo è in corso e continueremo naturalmente a seguirne gli sviluppi”. Se non è una severa bocciatura del ddl Nordio, ci va abbastanza vicino. Una sorpresa, considerata la fitta e fin qui positiva interlocuzione tra Nordio e Reynders. L’inattesa bacchettata di Bruxelles ravviva la strategia delle opposizioni: del Movimento 5 Stelle ma soprattutto del Pd, imbarazzato, sull’abuso d’ufficio, dall’entusiasmo che i propri sindaci manifestano per l’abolizione appena votata in Senato. Certo è difficile ipotizzare un ripensamento dell’Esecutivo. La soppressione del 323 è una scelta concepita in funzione del Pnrr. Utile cioè a tranquillizzare i sindaci che, da qui al 2026, dovranno firmare i bandi di gara per attuare quel piano. Di fatto, Giorgia Meloni è nella posizione di poter replicare a Bruxelles che le stringenti richieste sull’attuazione del Recovery mal si conciliano con l’atteggiamento occhiuto sull’abuso d’ufficio, strettamente correlato al primo tema. Nordio è tranquillo proprio perché può contare sulla tenuta di questa maginot. A rassicurarlo ieri è stata innanzitutto la Lega, con una breve nota che rispolvera anche l’antico spirito eurocritico: secondo il Carroccio, l’intervento di Bruxelles rappresenta “l’ennesima intromissione in vicende che riguardano solo l’Italia e gli italiani: il governo”, assicura il partito di Matteo Salvini, “è determinato a far lavorare sindaci e imprenditori”. E poi, “per il ministero della Giustizia, dal 2019 al 2022 ci sono stati in totale 21.278 procedimenti con appena 202 condanne” che equivalgono allo “0,95 per cento”. Dall’altro fronte si registra una non banale nota della responsabile dem per la Giustizia Debora Serracchiani e del capogruppo in commissione alla Camera Federico Gianassi, che oltre a controrilanciare sulla modifica del 323 aprono al superamento della legge Severino. Assai meno dialettica è la posizione di Alleanza Verdi-sinistra: per il deputato e coportavoce Angelo Bonelli “è grave” che, con la stilettata europea, “si prospetti l’ennesima procedura di infrazione”. A tenere il punto è invece quell’Enrico Costa, responsabile Giustizia di Azione, diventato tra i più convinti alleati del garantismo di Nordio: “Non so quale testo abbiano sottoposto al portavoce Ue: si tratta certamente di un equivoco, visto che nessunissima norma sulla corruzione è depenalizzata”. Ma per il resto dell’opposizione, le obiezioni europee sono il più insperato degli assist. Sull’abuso d’ufficio l’Italia si scontra con l’Europa, ma al governo non interessa di Vitalba Azzollini* Il Domani, 12 gennaio 2024 Se l’abuso d’ufficio dovesse essere giudicato solo dal numero di condanne cui ha portato, si potrebbe dire che si tratta di un reato “evanescente”, come l’ha definito il ministro della Giustizia, Carlo Nordio. Nel 2021, su 5.418 procedimenti definiti dall’ufficio Gip/Gup (giudice per le indagini preliminari/giudice dell’udienza preliminare) ci sono state 4.613 archiviazioni, 9 sentenze di condanna e 35 patteggiamenti. All’esito del dibattimento, poi, su 513 procedimenti le condanne sono state 18. Ma per comprendere meglio il tema serve qualche considerazione ulteriore. L’eliminazione del reato di abuso d’ufficio viene motivato con la necessità di contrastare la burocrazia difensiva, causa di inefficienza amministrativa. Si tratta della “paura della firma”, che induce i pubblici funzionari a evitare di assumere decisioni utili per la collettività, preferendone altre meno impegnative o addirittura restando inerti, per timore di esporsi a eventuali addebiti penali. E non solo. Come affermato dalla Corte costituzionale (sentenza n. 8/2022), il mero rischio di “coinvolgimento in un procedimento penale, con i costi materiali, umani e sociali (per il ricorrente clamore mediatico) che esso comporta, basta a generare un “effetto di raffreddamento”, che induce il funzionario ad imboccare la via per sé più rassicurante”. Queste conclusioni omettono di considerare che il funzionario pubblico è spesso spinto a restare immobile a causa della complessità e mutevolezza di regole e procedure, e della conseguente imprevedibilità delle decisioni dei giudici amministrativi. Norme più semplici e chiare metterebbero funzionari e amministratori in condizione di sapere sempre se, cosa e come possono fare e firmare, rendendoli meno incerti, quindi più efficienti. Gli impatti normativi andrebbero sempre valutati su ogni piano e in ogni direzione. Dunque, devono essere considerati non solo quelli prodotti dalla norma sull’abuso, ma anche quelli derivanti dalla sua abrogazione. Quest’ultima potrebbe determinare l’effetto di una riespansione di altre ipotesi penali nelle quali è presente l’abuso: la corruzione, con cui il pubblico ufficiale abusa della sua funzione, facendone oggetto di “commercio” illecito; la concussione, con cui egli ne abusa attraverso una condotta sostanzialmente estorsiva; il peculato, ove l’abuso avviene mediante l’appropriazione di beni pubblici. In altre parole, cittadini che ritengano di avere subito un abuso da un funzionario pubblico potrebbero comunque accusarlo di reati anche più gravi dell’abuso d’ufficio. Dunque, la paura della firma potrebbe non attenuarsi, anzi. Per altro verso, l’eliminazione dell’illecito in esame potrebbe creare “zone franche”, cioè lasciare dei vuoti. La presidente della commissione Giustizia, Giulia Bongiorno, ha rassicurato che tali vuoti saranno colmati mediante una revisione complessiva dei reati contro la pubblica amministrazione. Allora ci si domanda perché tale revisione non sia stata avviata contestualmente all’abolizione dell’abuso di ufficio, per colmare le lacune. Domanda retorica per un governo che finora si è segnalato per norme talora inutili e pure dannose, adottate sull’onda emotiva o fondate su rivendicazioni ideologiche, più che su razionali stime dei loro impatti. L’eliminazione del reato non sembra incorrere in vizi di costituzionalità (art. 117) per contrasto con Convenzione Onu contro la corruzione (Convenzione di Merida, ratificata dall’Italia nel 2009), in quanto essa pare prevedere non l’obbligo di sancire certe ipotesi delittuose, ma solo la facoltà. Invece, un contrasto vero e proprio si avrebbe rispetto alla proposta di direttiva dell’Ue sulla lotta alla corruzione, ove approvata. La direttiva - contro la cui presentazione la Camera ha votato nel luglio scorso - è stata voluta dalla Commissione Ue a seguito del Qatargate. Essa rende obbligatoria per gli Stati membri la criminalizzazione dell’abuso d’ufficio, oltre che del traffico di influenze e di altre fattispecie. A seguito del voto sull’abolizione dell’abuso d’ufficio, l’Ue - ribadendo quanto già affermato nell’ultima relazione sullo stato di diritto, con riguardo all’Italia - ha fatto presente che così si indebolisce la lotta alla corruzione. La Lega ha replicato che si tratta di una “intromissione” dell’Ue, forse non considerando la direzione in cui stanno andando i paesi europei, con la proposta di direttiva, mentre l’Italia procede in senso opposto. Ma forse a questo governo ciò non interessa. *Giurista Intercettazioni, stretta del governo e tutele per la difesa di Simona Musco Il Dubbio, 12 gennaio 2024 Ddl Nordio, tratto di penna sui dati dei non indagati dal fascicolo processuale. Il M5S: “Vittime più esposte”. Stretta sulle intercettazioni in commissione Giustizia del Senato, con il sì alla cancellazione dal fascicolo processuale dei dati dei non indagati che risultino captati nelle intercettazioni predisposte dagli inquirenti. Il principio è contenuto in un emendamento presentato dal senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin al ddl Nordio che non vieta solo la pubblicazione dei dati dei non indagati, ma blocca la trascrizione degli ascolti di soggetti terzi da parte della polizia giudiziaria. La norma non vieta, ovviamente, l’intercettazione, ma la trascrizione nelle carte del procedimento se si tratta di dati che potrebbero far identificare chi non rientra nelle indagini. L’emendamento, secondo i critici, sarebbe stato scritto per “favorire” - a danno ormai fatto - Matteo Salvini, il cui nome non sarebbe apparso nell’inchiesta Anas nel caso in cui questa norma fosse stata già in vigore. Ma a volerla guardare da un altro punto di vista, nemmeno il nome del figlio di Mattarella - assolutamente inutile ai fini dell’inchiesta - sarebbe stato tirato in ballo. “Sono stato tempestato di telefonate dai giornalisti, tutti mi chiedevano se l’emendamento fosse stato pensato sulla base dell’inchiesta su Verdini - ha spiegato al Dubbio Zanettin -. È del tutto ovvio che quando facciamo norme generali e astratte queste possano ricadere su casi concreti e attuali, ma non è questa la finalità. Sono pensate a tutela di tutti i cittadini”. “Un vulnus all’accertamento della verità”, ha protestato il senatore grillino Roberto Scarpinato, che contesta anche quella parte del ddl che “cancella” l’appello del pm per gli imputati che dopo citazione diretta in giudizio siano stati assolti in primo grado. Una scelta, ha proseguito l’ex magistrato, che “non tutela le vittime di reato”. Ma a ribattere sono stati Zanettin e il vice ministro alla Giustizia Francesco Paolo Sisto. “È una norma di ulteriore garanzia che rafforza la concreta applicazione del principio della presunzione di non colpevolezza, una battaglia storica di FI”, si legge in una nota. Ad esprimere soddisfazione è anche la presidente della Commissione Giustizia, la leghista Giulia Bongiorno: “Chi parla di improvvisi black out informativi non ha letto il testo - ha commentato -. Ci sono soprattutto delle norme volte a tutelare terzi soggetti che nulla hanno a che vedere con le indagini”. A favore si sono espresse la maggioranza e Italia viva. E il ddl Nordio, ha affermato anche per rispondere a chi lamenta la cancellazione dell’abuso d’ufficio, “fa delle scelte importanti rispetto al programma della maggioranza. Dal punto di vista politico è un provvedimento importante, dal punto di vista tecnico credo abbia fatto fare un passo avanti. La Lega ha votato convintamente l’abolizione dell’abuso d’ufficio. Nello stesso momento ha un accordo con la maggioranza, che io personalmente ho fatto con il ministro Nordio, su quello che accadrà a valle. Cioè una volta abolito l’abuso d’ufficio è giusta una revisione di tutti i reati contro la pubblica amministrazione. Non voglio che ci siano vuoti di tutela”, ha aggiunto. Dal canto suo, il ministro della Giustizia, rispondendo al Question time al Senato, ha ribadito anche la sua idea sul trojan, “un vulnus alla nostra privacy e all’articolo 15 della Costituzione”. La stretta prevista dal ddl Nordio riguarda anche i giornalisti, che non potranno più citare letteralmente dialoghi che non siano stati inseriti dal giudice nella motivazione di un provvedimento o utilizzati nel corso del dibattimento, impedendo, dunque, la possibilità di attingere alla richiesta del pm. Una norma che potrebbe essere superata dalla delega affidata dalla Camera al governo e firmata da Enrico Costa di Azione, in base alla quale sarà vietato pubblicare letteralmente anche l’ordinanza con cui il gip applica le misure cautelari. Ma non solo: il governo ha dato l’ok anche all’emendamento - sempre firmato da Zanettin - per tutelare il rapporto indagato-avvocato, la cui discussione è rinviata, assieme ai circa 40 rimasti a martedì 16 gennaio. Come anticipato dal Dubbio, il testo dell’emendamento è stato riformulato dal governo eliminando due punti: non è prevista la distruzione delle conversazioni - che potrebbe però essere oggetto di un ulteriore intervento - e non sarà istituito l’albo contenente i numeri dei difensori. La proposta del senatore forzista prevede, nello specifico, il divieto del sequestro e del controllo delle comunicazioni tra l’indagato e il suo difensore, salvo nei casi in cui l’autorità giudiziaria ritenga, fondatamente, che si tratti di reato. La seconda modifica prevede l’immediata interruzione delle operazioni di intercettazioni nei casi in cui le comunicazioni rientrano tra quelle espressamente vietate, che non possono in nessun caso essere trascritte nemmeno sommariamente, pena contestazione di illecito disciplinare. Ma non solo: nell’ottica del senatore va vietata la proroga delle operazioni successive alla prima, “se nel corso degli ultimi due periodi di intercettazione non siano emersi elementi utili alle indagini”. Un punto sul quale già martedì le opposizioni avevano battagliato. Sempre per andare incontro agli avvocati, la Commissione ha accolto anche un emendamento a firma Maria Stella Gelmini e che va a correggere la norma Cartabia nella parte in cui i difensori di fiducia devono chiedere una procura nuova per poter presentare ricorso in appello. Con le correzioni di Azione, si torna alla versione precedente della norma per i difensori di fiducia, mentre rimane l’obbligo di rinnovo della procura quando per i difensori d’ufficio. Ma le modifiche in chiave garantista non si limitano alle intercettazioni. Il ddl prevede anche l’obbligo, per il pm - salvo in casi in cui si corra il rischio di inquinamento probatorio o pericolo di fuga - di interrogare l’indagato per il quale si ipotizza una misura cautelare. “Se consentito dalle concrete circostanze - si legge nel dll -, da un lato si evita l’effetto dirompente sulla vita delle persone di un intervento cautelare adottato senza possibilità di difesa preventiva, dall’altro si mette il giudice nelle condizioni di poter avere un’interlocuzione, e anche un contatto diretto, con l’indagato prima dell’adozione della misura”. Così il paradigma vittimario diventa pretesto che erode le garanzie di Ennio Amodio* Il Dubbio, 12 gennaio 2024 Non è certo sbagliato parlare di “sindrome napoleonica”. Dopo il lancio del premierato come nuova forma di governo, granitica per l’investitura popolare che scardina l’attuale impianto costituzionale dei rapporti tra Parlamento ed esecutivo, dal pensatoio del partito fraterno e tricolore spunta fuori un’altra invasione del terreno costituzionale che mira a rimodellare la fisionomia del nostro processo penale. Si vorrebbe inserire una norma là dove si riconoscono le garanzie dell’imputato, per collocare su quello stesso piano la tutela delle vittime del reato. Si annuncia dunque l’avvio di una stagione in cui la destra ambisce a rifondare il nostro ordinamento giuridico piuttosto che a riformarlo. Il proposito è quello di creare un nucleo di disposizioni a vocazione rigenerativa e a lunga gittata per dimostrare ora e ai posteri che la nostra Costituzione è un palazzo di prestigiosa architettura in cui abitano non solo i principi di una democrazia antifascista, ma anche nuovi fermenti culturali scoperti dalla ideologia della destra. Ciò che si ha di mira è dare l’idea di una svolta epocale in concomitanza con l’affermarsi di un nuovo regime, come è dimostrato, tra i tanti esempi offerti dalla storia, dalla legislazione napoleonica. Ad un primo sguardo, però, la proposta di legge costituzionale che investe la giustizia penale sembra di intonazione minimalista. Si vuole infatti inserire tra i principi che regolano la giurisdizione una disposizione scarna, così concepita: “La Repubblica tutela le vittime di reato e le persone danneggiate dal reato”. Ma l’apparente semplicità nasconde la volontà di aprire una finestra che illumina una realtà di notevole portata. L’intento infatti va ben al di là del solo scopo, già di per sé tutt’altro che irrilevante, di mettere l’imputato e la vittima del reato su un piano paritetico. Il vero obiettivo è quello di ridimensionare il garantismo insito nel giusto processo e in tutte le norme costituzionali sulla giustizia penale, per far intendere che la protezione delle persone offese da condotte criminose deve fungere da barriera contro l’estensione delle garanzie dell’imputato. A ben vedere, insomma, la proposta degli ideologici della destra vale di più per quel che non dice nel testo da inserire in Costituzione, facendo capire implicitamente che “è finita la pacchia” - per usare il gergo tanto caro ai giustizialisti - essendo giunta l’ora di smettere di coccolare gli imputati - delinquenti e di trattarli con i guanti di velluto nella quotidianità dell’esperienza giudiziaria. Che sia proprio questo il significato dell’altarino che dovrebbe ospitare la tutela delle vittime in Costituzione, è confermato dalla normativa del codice vigente in cui si prevedono tre diversi canali processuali attivabili da chi ha subìto le conseguenze del crimine: la costituzione di parte civile con la quale il danneggiato chiede il risarcimento al giudice penale, secondo uno schema recepito fin dall’Ottocento dal sistema francese; l’intervento adesivo rispetto all’azione del pubblico ministero, con il supporto di prove e memorie, che riecheggia un modello tedesco; la giustizi riparativa, ereditata dal processo angloamericano che si colloca, fuori dal giudizio penale con la ricerca di soluzioni soddisfacenti per la vittima. Non c’è nessun altro Paese che, come l’Italia, sappia offrire così tanti ed efficaci rimedi alle persone offese dal reato. Elevare la loro tutela al livello costituzionale non può quindi promuovere ulteriori passi in avanti. Da qui la conferma che la proposta di legge costituzionale non è un incentivo, ma un freno, in un’altra direzione, cioè nei confronti del garantismo a favore dell’imputato. L’esperienza storica attesta, del resto, che già nel passato la bandiera dei diritti delle vittime del reato è stata impugnata per contrastare le ideologie giuridiche propense a rivendicare nel modo più pieno il rafforzamento delle garanzie processuali dell’imputato. Negli anni a cavallo tra Otto e Novecento, la Scuola positiva di diritto penale di Ferri e Garofolo si è schierata a favore delle persone offese dal reato indicando espressamente la necessità di contenere la spinta a privilegiare il garantismo sostenuto dalla politica dello Stato liberale attenta a prevenire e sanzionare gli abusi ricorrenti nella pratica giudiziaria in danno dell’imputato. I risultati della battaglia dei positivisti contra reum sono stati recepiti in parte anche dal codice Rocco che guardava ovviamente con favore il ripudio della ideologia liberale considerata foriera di un ingiustificato lassismo nei confronti degli imputati. La proposta di legge costituzionale di oggi risulta quindi viziata in radice da una visuale antigarantista, ancor più inaccettabile nel sistema vigente di stampo accusatorio in cui appare intollerabile puntare sulla presenza nel processo di soggetti che si aggiungono alla azione del pubblico ministero. La vittima del reato non è una parte nella vicenda giudiziaria perché è la pubblica accusa che, come diceva Montesquieu, veglia sulla legalità affinché i cittadini dormano sogni tranquilli. Certo, chi subisce il trauma delle condotte criminose deve poter dare alla giustizia tutto il suo contributo affinché sia punito il colpevole. Ma il rancore e il desiderio di vendetta delle persone offese non possono essere incanalati nel processo penale che, come insegna l’esperienza del diritto moderno, deve essere in concreto giusto anche nel saper espungere dalla pena applicata le spinte viscerali verso misure sanzionatorie esemplari o irragionevoli. *Giurista Da Forza Italia una legge per fermare il “far west” degli interrogatori di Valentina Stella Il Dubbio, 12 gennaio 2024 Depositata due giorni fa in commissione Giustizia alla Camera una proposta di legge di Forza Italia, a prima firma del deputato Tommaso Calderone, dal titolo “Modificazioni al Codice di procedura penale in materia di attuazione dei principi del giusto processo”. Secondo quanto riportato nella relazione introduttiva, nell’ambito dell’articolo 430 che, nel codice di rito, “regola la delicata fase che intercorre tra la fine delle indagini preliminari e l’inizio del processo penale, si può notare come le garanzie poste a tutela della persona rinviata a giudizio sono di fatto eluse da disposizioni che possono integrare una grave compressione del diritto di difesa” di chi è sottoposto a procedimento penale. Come è noto, prosegue la relazione, “il termine ultimo per la richiesta di accesso ai riti alternativi è costituito dall’udienza preliminare”. Ed è evidente che “l’assunzione di ulteriori prove da parte del pm, unitamente alla ridetta preclusione costituita dall’udienza preliminare, nella sostanza rischia di inficiare in radice il giudizio prognostico fatto dall’imputato alla chiusura delle indagini preliminari circa l’opportunità di fruire o meno del patteggiamento ovvero del giudizio abbreviato”. Calderone, capogruppo Giustizia di FI, presenta il testo insieme con gli altri due deputati azzurri della seconda commissione, Annarita Patriarca e Pietro Pittalis. Il parlamentare siciliano spiega la novità della norma a partire dal fatto che, dal termine delle indagini alla udienza preliminare, “il pm può solo assumere prove sopravvenute: se ad esempio poteva sentire un testimone nel corso delle indagini preliminari e non vi ha provveduto, non può più farlo quando quella fase è conclusa”. Potrà assumere, a quel punto, “solo prove sopravvenute, e non quelle che doveva o poteva assumere nella loro sede tipica”. Stessa condizione è prevista tra il rinvio a giudizio e l’inizio del processo. Calderone fa il seguente esempio: “Il giudice dell’udienza preliminare il 1° febbraio 2024 rinvia a giudizio l’imputato e fissa la prima udienza dibattimentale per il 30 aprile. In questo lasso di tempo il pm può acquisire solo prove sopravvenute”, ad esempio sentire un nuovo testimone. “La novità significativa di questa norma - ci spiega Calderone - è che si deve rimettere in termini il giudizio abbreviato o il patteggiamento”. In altre parole, se l’imputato è sicuro che il pubblico ministero non ha prove sufficienti per la condanna, decide di andare a dibattimento. Tuttavia, se nel frattempo la pubblica accusa ha acquisito nuove prove che potrebbero mettere in dubbio l’esito assolutorio, all’imputato verrà dato il diritto, nella prima udienza del processo, di accedere al rito abbreviato (che non ha bisogno dell’avallo del giudice) o al patteggiamento (che è a discrezione del giudice). La proposta di legge dunque “intende rendere pieno ed effettivo il diritto di difesa: nei casi di attività integrativa d’indagine, procrastina per l’imputato l’opzione di accesso ai riti alternativi, così fondata sull’effettiva e completa conoscenza di tutti gli elementi a suo carico”. Già la riforma Cartabia tende a favorire i riti alternativi: questa proposta va in tale direzione. Il testo di FI prevede anche l’abrogazione dei commi 1- ter e 1- quater dell’articolo 581 del codice di procedura penale, relativi all’elezione di domicilio e all’obbligo di conferire un nuovo specifico mandato al difensore per le impugnazioni. Secondo Calderone, le due norme sono inutili: “Non servono alla collettività né all’imputato, e neppure a velocizzare i processi: sono solo dannose per l’avvocato e gli assistiti più deboli”. Una disfunzione più volte segnalata dal Cnf e dall’Unione Camere penali, che proprio per quel passaggio della legge Cartabia è in stato di agitazione. Il ministro Carlo Nordio ha incontrato due volte i vertici dell’Ucpi e assicurato loro di condividere la necessità di abrogare quei commi, con lo strumento legislativo più rapido possibile. Da quanto appreso da fonti di via Arenula e Presidenza del Consiglio, la richiesta di abrogare le norme in questione avrebbe avuto il placet anche del sottosegretario Alfredo Mantovano, che ha un peso notevole nelle scelte di Palazzo Chigi sulla giustizia. Ma serve un via libera anche dal ministro per gli Affari Ue Raffaele Fitto e addirittura da Bruxelles: se l’abrogazione fosse ritenuta ostativa al raggiungimento degli obiettivi del Pnrr, sarebbe accantonata. Il che conferma come l’Italia, sulla giustizia e non solo, sia in una sorta di libertà vigilata da parte dell’Ue. Strage di Erba, nuovi testimoni per la difesa: “La strage fu una faida per droga” di Giusi Fasano Corriere della Sera, 12 gennaio 2024 La pista è già stata esclusa dalla Cassazione. Rosa e il marito Olindo dal carcere: siamo innocenti. Testimoni. Nuovi e usati. Gente che dovrebbe venire in aula, a Brescia il 1° marzo, a scagionare Olindo Romano e Rosa Bazzi dall’accusa di essere gli assassini che la sera dell’11 dicembre 2006 uccisero a colpi di coltello e spranghe Raffaella Castagna, suo figlio Youssef, sua madre Paola e la sua vicina, Valeria Cherubini. Dopo la decisione di riaprire il processo, i loro avvocati ci credono molto. Fabio Schembri, fra loro da sempre il più attivo per provare l’innocenza dei due ergastolani, è certo che anche questo tassello delle “nuove testimonianze” - pur non essendo il più importante - servirà a comporre il puzzle dell’assoluzione e a guardare, dopo più di 17 anni, in direzione della faida: una guerra fra un gruppo di marocchini e i rivali tunisini, a cui apparteneva anche il marito di Raffaella, Azouz Marzouk. Motivo: droga. Ma, come dicevamo, parte di quei testi sono già stati sentiti e nessuna delle tre sentenze emesse fin qui li ha ritenuti di una qualche importanza. Poi ce ne sono altri che magari hanno messo piede in un’aula di giustizia ma da imputati, mai da testimoni del caso Erba, e altri ancora dalla fedina penale pulita. Di questi ultimi fa certamente parte l’allora capitano dei carabinieri di Erba, Beveroni, che nel libro dei sogni della difesa dovrebbe raccontare di come il suo luogotenente, il maresciallo Gallorini, “indusse” in un “falso ricordo” il testimone oculare della strage, Mario Frigerio, suggerendogli il nome di Olindo e condizionando, è l’ipotesi delle difese, l’intero percorso dell’inchiesta. La Cassazione - Percorso che invece a loro dire porta fuori pista perché la pista giusta sarebbe quella di Azouz e della droga. E poco importa se nella sentenza della Cassazione che ha confermato l’ergastolo per Olindo e Rosa c’è scritto che “gli accertamenti condotti hanno escluso che Marzouk avesse conti in sospeso con ambienti della malavita” e che “non si può ritenere fondata l’ipotesi di una vendetta della malavita organizzata contro Marzouk, laddove la malavita avrebbe usato ben altre armi per raggiungere lo stesso risultato”. Fra i testimoni che dovrebbero contribuire alla libertà di Olindo e Rosa c’è Abdi Kais, nome nuovo di pacca un tempo in affari con Azouz a suon di stupefacenti, che è diventato suo compagno di cella e che si è ricordato di quella volta che Azouz gli disse, in sostanza, “sono tanto preoccupato per mia moglie e mio figlio. Quando esci dacci un occhio tu, per favore”. Altro teste inedito è Giovanni Tartaglia, ex maresciallo congedato con disonore dall’Arma dopo una condanna per circonvenzione di incapace (portò via decine di migliaia di euro a una pensionata) e concussione (si inventò un incidente per avere soldi da un pensionato). Lui magari non sa che l’azienda delle intercettazioni purtroppo non fu avvisata del cambio di letto di Frigerio, e quindi è probabile che venga in aula a raccontare “strani” buchi temporali nelle intercettazioni ambientali in ospedale, ipotizzando che la società delle intercettazioni avrebbe a che fare con inquirenti del caso Erba. Peccato però che citi la società sbagliata. Poi ci sono i testi Fabrizio Manzeni, vicino di Olindo e Rosa, e un nordafricano che “ha dato generalità false quando è stato sentito a verbale: Chemcoum invece di Lofti”, come dice l’avvocato Schembri. Raccontano entrambi di extracomunitari attorno alla corte la sera della strage (Lofti parla inoltre di un furgone bianco). Ma anche qui: la Cassazione sul loro conto ha scritto, nel capitolo “pista alternativa”, che diedero “indicazioni generiche”. Ieri Olindo e Rosa hanno scritto al Tg1. “Siamo innocenti. Non passa giorno che non pensiamo alle povere vittime di una strage ancora senza colpevoli”. Sulla pista alternativa: “È troppo brutto far uscire la verità che può trattarsi di criminali che hanno fatto tutto questo per la droga?”. Si definiscono “due persone semplici”, “chiusi in cella per due giorni, senza capire cosa stava succedendo”. Poi quei due carabinieri “mi hanno fatto una testa così - scrive Olindo - dicendo che era meglio confessare perché avremmo avuto un forte sconto di pena”. Prossima tappa il 1° marzo. Strage di Erba, Luciano Garofano: “Il sangue trovato sull’auto di Olindo è sufficiente a condannarli” di Giusi Fasano Corriere della Sera, 12 gennaio 2024 L’ex comandante del Ris: “Il campionamento fu perfetto. L’assenza di tracce degli accusati sulla scena del crimine? Va detto che era molto compromessa dalle fiamme e dal materiale usato dai vigili del fuoco”. A dicembre del 2006 al comando del Ris c’era il generale Luciano Garofano. Lui e i suoi uomini passarono giornate intere a raccogliere reperti nella casa della strage di Erba, nell’appartamento di Olindo Romano e Rosa Bazzi e nel loro camper. Generale, lei è fra i colpevolisti, giusto? “Sì, perché credo alla valenza scientifica della traccia ematica trovata sull’auto di Olindo, una traccia analizzata con precisione dal professor Previderè: era il sangue di una delle vittime, Valeria Cherubini. Su quella traccia mi pare che oggi conti molto la difesa. Secondo loro è un elemento chiave per la revisione. Ma ci terrei a dire che è già stato detto molto sull’argomento: già in primo grado la sentenza dedica venti pagine a questo tema, affronta e smonta il problema di una eventuale contaminazione sollevato dalle difese, parla delle operazioni che vanno dall’individuazione alla consegna della traccia al professor Previderè. Insomma: è già tutto scritto”. E gli altri elementi che l’accusa oggi porta in dote nel processo di revisione? “Io parlo per la parte che riguarda le mie competenze. Le confessioni degli imputati e la testimonianza di Frigerio non sono materie mie”. Quindi la traccia di sangue sull’auto di Olindo secondo lei sarebbe di suo sufficiente per una condanna? “Sì. Il profilo emerso dalla traccia era netto, buono. E non è vero che una traccia invisibile all’occhio umano non possa dare un profilo completo. Non me la sento di dire che ci può essere stato uno scambio di reperti e men che mai direi che si sono inventati una traccia. Questo mi rifiuto anche solo di pensarlo”. Perché non fu il Ris a esaminare l’auto di Olindo? “Perché l’auto non era più nella corte di Erba quando noi siamo intervenuti. Era stata portata in caserma. La traccia ematica fu rinvenuta dal brigadiere Fadda il 26 dicembre con una ricerca classica: prima un esame visivo, poi luci forensi e poi il luminol. Raccolsero quattro tracce, la numero 3 sul battitacco si rivelò sangue umano”. La difesa di Olindo e Rosa chiama in causa le modalità con cui la macchia ematica è stata individuata, raccolta, classificata... “Non li giustifico completamente ma purtroppo può capitare che nei reparti minori dell’Arma che non sono i Ris si possano fare operazioni non tutte corrette. Ma il campionamento e il repertamento di quella traccia sono stati precisi e perfetti, quindi la valenza scientifica resta”. Lei fu citato come teste della difesa e non dell’accusa. Perché? “Perché noi non trovammo tracce biologiche o impronte digitali degli accusati a casa delle vittime né tracce delle vittime nelle pertinenze degli accusati. Per la pubblica accusa questo esito non aveva valenza e invece gli avvocati della difesa hanno ritenuto che ne avesse per loro. Io ho semplicemente riferito in aula, con l’onestà che dovevo, i risultati di quel che avevamo accertato”. Secondo lei come si spiega quell’assenza di tracce? “Va detto che la scena del crimine era molto compromessa dalle fiamme e dal materiale usato poi dai vigili del fuoco. Per quel che riguarda loro non possiamo escludere che abbiano predisposto tutto e si siano cambiati d’abito come loro stessi avevano detto prima di ritrattare la confessione”. Strage di Erba, Vittorio Feltri: “Inchiesta imbrogliata. Sono convinto che saranno assolti” di Riccardo Bruno Corriere della Sera, 12 gennaio 2024 Il giornalista: “La loro confessione fu estorta, sono caduti in trappola. Per l’accusa, quei due disgraziati hanno imbrattato di sangue tutto l’appartamento della strage. Ma nella loro abitazione non è stato trovato neppure un panno sporco” Direttore, lei ha sempre creduto nell’innocenza di Olindo e Rosa... “Lo ripeto da 17 anni. La mia sensazione è sempre stata quella di un’inchiesta molto imbrogliata, condotta in modo pedestre. E ci sono degli elementi oggettivi che contrastano con la colpevolezza di quei due - è convinto Vittorio Feltri, direttore editoriale de Il Giornale. Ho seguito bene il processo di primo grado, mi è sembrato molto lacunoso. Sono rimasto al vecchio motto latino in dubio pro reo. In questo caso non è stato così”. Qual è stato il primo elemento che l’ha spinta a dubitare della versione ufficiale? “Quando ho cominciato a seguire l’inchiesta ho notato subito che era piena di contraddizioni. Ad esempio: secondo l’accusa, quei due disgraziati hanno imbrattato di sangue tutto l’appartamento dove hanno compiuto la strage. Però la loro abitazione era pulita, non è stato trovato niente, neppure un panno sporco”. Ci sarebbe la traccia di sangue trovata nella loro auto... “Esiste a parole ma nei fatti non c’è. Sono tutte cose inventate, è tutto vago, abborracciato”. Un ruolo determinante alla base delle condanne nei tre gradi giudizio l’ha avuto la testimonianza di Mario Frigerio, scampato alla strage. “Quando è stato interrogato la prima volta non ha accusato Olindo. Lo ha fatto in un interrogatorio successivo, 10 giorni dopo. Io non posso sapere come siano andate effettivamente le cose, ma osservo che c’è una serie di elementi che contrasta con la logica”. Lei è un garantista ad oltranza, in questo caso però ha difeso quelli che per tutti (o quasi) erano i “Mostri”. È stato difficile? “Io faccio il giornalista, quando scrivo non mi aspetto il consenso o gli applausi. Dico quello che penso, poi uno ci può credere oppure no. E, in tutta sincerità, di fronte a questo caso, ho sempre avuto delle enormi perplessità”. Olindo e Rosa hanno confessato i delitti, anche se poi hanno ritrattato. Difficile non tenerlo in considerazione in fase di giudizio. “La loro confessione è stata estorta. Sono due deficienti, nel senso che non sono preparati né dal punto di vista lessicale né da quello logico. Sono caduti in trappola come dei poveri cristi”. Ora ci sarebbero elementi nuovi a loro discolpa, ma anche in base a quanto già acquisito il magistrato Cuno Tarfusser aveva presentato istanza di revisione. “L’ho letta. Ha fatto un lavoro certosino di cui bisognerà tenere conto. Sono gli stessi miei dubbi, che lui ha mostrato in modo magistrale”. Ci sarà un quarto processo. Come crede che finirà? “Sono convinto che verranno assolti. E in tal caso bisognerà concludere che la giustizia, a volte, fa delle cose assurde e sbagliate”. Lei sostiene anche l’innocenza di Alberto Stasi, riconosciuto colpevole della morte della fidanzata Chiara Poggi. “In questo caso la situazione si potrebbe dire comica se non fosse tragica. Stasi è stato assolto in primo e secondo grado, e condannato in Cassazione. Vuol dire che i giudici di terzo grado hanno dato degli imbecilli agli altri”. Ipotizziamo che Olindo e Rosa verranno assolti. Nessun risarcimento potrà compensare quanto subito... “Questo è evidente. Però meglio tardi che mai”. Caso Mattarelli, la procura deve riaprire l’inchiesta di Fabio Anselmo e Ilaria Cucchi Il Domani, 12 gennaio 2024 I familiari del ragazzo morto in provincia di Varese dopo un inseguimento dei carabinieri chiedono giustizia. Ma il gip ha archiviato. I fatti ricostruiti da Domani mettono in forte dubbio l’ipotesi del suicidio. La morte di Simone Mattarelli merita ed esige chiarezza. La vita di Simone lo richiede, la richiesta di verità della famiglia non può cadere nel vuoto. Sono le ore 2.06 della notte tra il 2 e 3 gennaio 2021 quando Simone ha alle calcagna i carabinieri perché non si è fermato all’alt: “Papà, l’ho fatta grossa, non mi sono fermato al posto di blocco, sono inseguito dai carabinieri, cerco di nascondermi lì da te. Li ho fatti troppo incazzare, se mi prendono quelli mi ammazzano”, dice al telefono al padre durante la sua corsa in auto. Pressoché incensurato (un ritiro di patente anni prima), Simone era un bravo ragazzo, appassionato di motori, faceva il gommista. Non aveva alcun motivo per comportarsi in quel modo. Certo, aveva violato il coprifuoco perché, per andare a mangiare un panino al McDonald’s di Lentate sul Seveso, aveva fatto tardi. Erano le 23.30 quando ha incontrato i carabinieri che, ovviamente, lo volevano fermare per fargli la multa prevista dalle norme sul lockdown. Aveva assunto cocaina, e questo non lo ha aiutato. Era ovviamente disarmato e del tutto inoffensivo. Fatto sta che, nell’inseguimento, l’auto dei militari finisce fuori strada danneggiandosi. Simone imbocca una strada sterrata e poi abbandona l’auto all’imbocco del boschetto di Origgio, proseguendo la fuga a piedi. Sono le 2.42: il padre, spaventato, riesce a ricontattare telefonicamente Simone, con il quale ha una conversazione e capisce che il figlio non è più alla guida del veicolo perché ne percepisce chiaramente il respiro affannato. Sente attraverso il telefono di suo figlio dei colpi di pistola, e Simone gli riferisce: “Lo senti? Mi sparano dietro, papà. Ti ho mandato la posizione”. Simone non vuole morire. Tantomeno suicidarsi. Corre perché ha paura. I militari riferiranno poi di aver esploso ben otto colpi di pistola a scopo intimidatorio. Bossoli e ogive verranno, in seguito, cercati a lungo senza successo. Alle 4.30 Luca Mattarelli, padre di Simone, raggiunge la caserma dei carabinieri di Desio per avere notizie del figlio. Mentre sta parcheggiando, arrivano un carro attrezzi che trasporta una macchina dei carabinieri e l’auto di Simone guidata da uno sconosciuto e due militari sporchi di fango. Ma Simone non c’è. Verrà ritrovato cadavere, secondo le fonti ufficiali, soltanto alle ore 15.45, all’interno di un capannone industriale, non lontano dai luoghi delle ricerche dei proiettili esplosi e dei bossoli, impiccato a un macchinario, con la sua cintura dei pantaloni. Spariti il giubbotto che indossava e il suo cellulare. Mistero sulla loro fine. I carabinieri acquisiscono di iniziativa le telecamere di sorveglianza del capannone industriale, ma soltanto 11 su 14, per ragioni di privacy, dicono. I filmati di quella notte riprendono, tuttavia, dei movimenti di persone all’interno dello stabile, un’ora prima del ritrovamento del cadavere. Una, in particolare, viene ripresa nell’atto di uscire con in mano un borsone. Nessuna indagine verrà svolta per identificarla con certezza e per comprenderne motivo e scopo della sua presenza in quei luoghi prossimi al corpo un’ora prima del suo ritrovamento ufficiale. La comoda verità - Mattarelli si è suicidato. Lo stabiliscono, certi, i magistrati. Tutta colpa della cocaina. Un gesto estremo compiuto all’esaurimento dell’assunzione della sostanza, in stato confusionale. Quel ragazzo lo avrebbe compiuto in una conseguente improvvisa crisi depressiva. Incredibile. La tesi, però, ora trova smentita negli accertamenti compiuti dal tossicologo della famiglia, che rileva una quantità non trascurabile della sostanza stupefacente nel sangue del ragazzo, scientificamente incompatibile con il quadro depressivo maniacale sostenuto dalla procura di Busto Arsizio. Simone era tutt’altro che depresso, viceversa versava in uno stato “intermedio” tra l’euforica eccitazione e comunque ben lontano da quello depressivo-maniacale. Simone non aveva alcun motivo per suicidarsi. Servirebbero pagine e pagine per elencare tutti i lati oscuri della vicenda. Basti solo pensare che, riguardo l’impiccamento suicidario, quel ragazzo lo avrebbe posto in essere stringendo la propria cintura dei pantaloni attorno al collo, annodata nella sua parte anteriore con le proprie mani, appoggiando saldamente al pavimento entrambi i piedi. Proprio i palmi delle mani portano ferite evidenti con versamento di sangue. Antecedenti, quindi, la sua morte. Un cadavere non sanguina. È fatto noto. Sangue è presente sul volto del ragazzo, ma totalmente assente sulla cintura impugnata da Simone per strangolarsi. Il corpo presenta segni evidenti di traumi sul collo, sulla bocca e sulla parte alta della schiena. Tutte circostanze rilevate e riscontrate dai consulenti della famiglia, ma anche dalle fotografie scattate. Sono state ignorate dai magistrati. Ma v’è di più! Sotto le unghie delle mani del ragazzo sono state repertate tracce evidenti di dna appartenente a persona diversa. In quanti casi di omicidio è stata decisiva la prova del dna ritrovato sui corpi delle vittime? Tutto ciò non vale ulteriori indagini? Inutili gli sforzi dei familiari, che hanno il sacrosanto diritto a indagini che possano fugare ogni ombra sulla morte di Simone. Ci ribelliamo all’idea che l’autorità possa rimanere inerte di fronte a tutto questo. Le 12 ore che hanno segnato la morte di Simone Mattarelli di Stefano Vergine Il Domani, 12 gennaio 2024 Il caso è stato archiviato dai magistrati di Busto Arsizio, ma la famiglia del giovane non crede alla tesi del suicidio. Sono molti gli elementi che non tornano nella morte del 28enne trovato impiccato tre anni fa dopo un inseguimento con i carabinieri. Simone Mattarelli si è suicidato a causa dell’assunzione di cocaina. Più precisamente, il giovane si è tolto la vita mentre era nell’ultima fase provocata dalla sostanza, quella che gli esperti chiamano “depressiva” e che la gente comune conosce come “down”. Questo ha stabilito la pm Susanna Molteni, della procura di Busto Arsizio, la cui tesi è stata accolta dal giudice per le indagini preliminari, Tiziana Landoni, il 20 gennaio del 2022. I familiari di Simone, assistiti dall’avvocata Roberta Minotti e dalla criminologa Roberta Bruzzone, sono però convinti che si sia trattato di omicidio. Per questo da tempo chiedono la riapertura del caso. L’inizio - I fatti si svolgono nella periferia nord-ovest di Milano, tra il 2 e il 3 gennaio del 2021. In quel momento l’Italia è in lockdown per via della pandemia. La sera del 2 gennaio, Mattarelli sta girando in auto tra le province di Varese, Como e Monza. Alle 23.30, mentre è in vigore il coprifuoco, una pattuglia dei carabinieri gli intima l’alt, ma lui non si ferma. Inizia un lungo inseguimento, a cui parteciperanno in tutto 14 carabinieri. Alle 2.30 circa Simone prende una strada di campagna, a Origgio, 20 chilometri a nord di Milano. La sua macchina s’impantana, lui scende e si mette a correre. Due carabinieri lo seguono a piedi, sparano 8 colpi intimandogli di fermarsi. Sono le 2.35. La bodycam accesa da uno dei due militari registra quegli attimi. Le immagini mostrano un campo, poi un piccolo bosco e, subito dietro, un grande stabilimento industriale. Fa parte della Eurovetro, un’azienda che ricicla vetro. Mattarelli scappa in direzione della fabbrica. I carabinieri lo cercano per poco più di 10 minuti. Alle 2.45 la bodycam viene spenta e le gazzelle rientrano nelle rispettive caserme. Il corpo - Secondo la ricostruzione dei carabinieri, il corpo del ragazzo viene ritrovato quasi 12 ore dopo: intorno alle 15.40 del 3 gennaio, dentro uno degli edifici della Eurovetro. Impiccato con la sua cintura a un macchinario industriale. Nel sangue di Simone vengono trovate tracce di cocaina. Secondo Luca Morini, l’esperto chimico scelto come consulente dalla procura, la vittima era nell’ultima fase provocata dalla sostanza, quella “depressiva”. La dinamica degli eventi “è suggestiva di un quadro depressivo/maniacale sofferto dal Mattarelli”, scrive Morini nella sua relazione tecnica, che porterà la giudice Landoni ad archiviare il caso come suicidio. I nuovi elementi - Da allora i familiari di Mattarelli hanno già tentato una volta di far riaprire l’inchiesta, ma non ci sono riusciti. Nell’ottobre del 2022, la serie di presunte anomalie segnalate alla procura dall’avvocata Minotti (tra cui la mancanza di tracce ematiche sulla cintura di Simone, il modo in cui si sarebbe impiccato, la decisione dei carabinieri di non sequestrare tutte le telecamere di sorveglianza della Eurovetro) non è bastata a convincere i magistrati di Busto Arsizio ad avviare nuove indagini. Di recente, però, la famiglia Mattarelli ha ottenuto due nuovi pareri tecnici che, come svelato da Domani, contraddicono la tesi della procura. Il primo parere, a cura del consulente chimico Oscar Ghizzoni, stabilisce che Simone non era in down da cocaina quando ha perso la vita, ma si trovava ancora “in una fase intermedia tra quella di eccitazione e quella di agitazione psicomotoria e confusionale”. Il secondo parere riguarda invece il dna. Su due unghie di Mattarelli, il biologo Pasquale Linarello ha trovato materiale genetico appartenente a un’altra persona. “È distinguibile una componente minoritaria diversa dal Mattarelli, che può essere quindi utilizzata per comparazione, al fine di identificare il possibile contributore”, scrive Linarello. Ancona. Più di un tentato suicidio al mese. Sembra un incubo, è il carcere di Montacuto di Antonio Pio Guerra Corriere Adriatico, 12 gennaio 2024 Sono 14 tentativi di suicidio ed oltre 170 atti autolesionistici: è il bollettino di guerra con cui il carcere di Montacuto ha chiuso il 2023. Numeri ai quali si aggiunge il suicidio di Matteo Concetti, il 25enne di Rieti che lo scorso 5 gennaio si è tolto la vita in una cella d’isolamento del carcere anconetano. Pochi giorni prima, il 21 dicembre, tra le mura di Montacuto c’è entrata per un’ispezione anche Giulia Torbidoni, presidente della sezione marchigiana dell’associazione Antigone. “Direi che i casi di autolesionismo sono triplicati, visto che siamo passati dai 46 del 2022 ai 177 del 2023” osserva Torbidoni. Incremento del 100%, invece, per i tentativi di suicidio: 7 nel 2022, 14 nel 2023. “Da quando è stata introdotta la nuova organizzazione della Media Sicurezza, nelle due sezioni “chiuse” si stanno registrando molti più eventi critici” racconta. Ad oggi, infatti, a Montacuto esistono sei sezioni: due di Alta Sicurezza 3, due di Media Sicurezza “aperta” (coi detenuti che passano l’intera giornata fuori dalle celle) e due di Media sicurezza “chiusa” (dove i detenuti trascorrono fuori dalle celle soltanto le otto ore previste dalla legge). “In queste ultime due sezioni - spiega Torbidoni - arrivano detenuti che sono stati trasferiti da altri carceri per motivi disciplinari”. E ci devono rimanere per almeno sei mesi. Le celle misurano 23 mq ma a condividerle sono cinque persone. Anche Matteo Concetti, prima dell’isolamento, stava in una di queste. Proprio il sovraffollamento è uno dei problemi maggiori. “Al momento della nostra visita c’erano 330 presenti su una capienza del carcere di 257” fa la presidente. E parlando delle celle, la situazione non migliora. “Quelle più vicine all’esterno hanno problemi di riscaldamento ed il comandante del carcere ci spiegava che stanno tamponando con delle stufette elettriche” dice Torbidoni. Anche l’acqua calda è un bene di lusso ed è disponibile soltanto in alcune fasce orarie. I problemi di questo carcere sono ben noti anche al Sappe, il sindacato della Polizia penitenziaria. Francesco Campobasso, segretario per le Marche e l’Emilia Romagna, arriva dire che “nel distretto, quello di Ancona è una delle carceri messi peggio assieme ad Ascoli e Forlì”. La carenza di organico fa quasi spavento. “Abbiamo 115 agenti per un fabbisogno di 176” avverte. “Ci è stato insegnato che il rapporto ideale è di un agente ogni due detenuti. Considerando che il totale degli uomini va diviso su quattro turni, siamo ben al di sotto della media” nota Campobasso. Le criticità aumentano se si prendono in considerazione anche i poliziotti con qualifiche più elevate. “Mancano 7 sovrintendenti e 15 ispettori, senza considerare il fatto che c’è un solo comandante che non ha nemmeno il vice” aggiunge Campobasso. Stabili, ma comunque tante, le aggressioni alla polizia penitenziaria. “Ma il problema delle aggressioni coinvolge tutti i penitenziari d’Italia”. “E noi non siamo formati per la gestione di detenuti psichiatrici” ricorda. Persone che dovrebbero aver accesso alle REMS ma non sempre è così. Un ultimo dato è degno di nota: su una popolazione di 60mila detenuti in Italia, nel 2023 ci sono stati 68 suicidi. Più d’uno ogni mille, contro l’uno su diecimila della popolazione comune. Uno ogni cinque giorni. “Se in una cittadina come Fano si verificassero tutti questi suicidi, io credo che una domanda ce la porremmo” si interroga Torbidoni. Di sicuro ci sono solo i primi due suicidi in carcere del 2024: quello di Matteo e quello di un detenuto del Due Palazzi di Padova. Viterbo. “Violenze sui detenuti”, prosciolti il procuratore Auriemma e la pm Dolce di Alessio Campana La Repubblica, 12 gennaio 2024 I due erano stati accusati di omissione di atti d’ufficio per non aver approfondito i fatti riportati dal Garante sui pestaggi avvenuti nel carcere, culminati col suicidio di un recluso. Il procuratore di Viterbo Paolo Auriemma e la pm Eliana Dolce agirono correttamente, il fatto contestato “non sussiste”: lo ha deciso il tribunale di Perugia che, questa mattina, ha prosciolto con formula piena i due magistrati viterbesi dall’accusa di “rifiuto o omissione d’atti d’ufficio”. per non aver indagato e approfondito le violenze che sarebbero avvenute sui detenuti del Mammagialla di Viterbo nel 2018 e culminati col suicidio di un detenuto in isolamento. Nei loro confronti la procura perugina aveva dapprima richiesto l’archiviazione e poi, di fronte al gup, il non luogo a procedere. Era stato infatti il gip a disporre, dopo che la procura non aveva ravvisato illeciti, l’imputazione coatta dando vita al procedimento che si è concluso stamani. La contestazione nei loro confronti era appunto quella di “rifiuto o omissione d’atti d’ufficio”. Auriemma e Dolce, in particolare, erano accusati di non aver indagato in maniera approfondita sui fatti riportati dal Garante dei detenuti del Lazio in un esposto del 2018. Nel dettaglio, di non aver iscritto nell’apposito registro le notizie di reato che - secondo l’iniziale ipotesi accusatoria - sarebbero invece emerse da un esposto depositato l’8 giugno del 2018 e che conteneva dichiarazioni di detenuti che affermavano di aver subìto violenze in carcere, tra cui Hassan Sharaf, il ventunenne egiziano trovato impiccato nella sua cella d’isolamento. Il procedimento - riporta il capo d’imputazione che era stato formulato su ordine del gip umbro - venne iscritto dalla procura di Viterbo l’11 agosto del 2018 “nel registro modello 45 (fatti non costituenti notizia di reato) nonostante dallo stesso emergessero specifiche notizie di reato”. Da qui l’accusa di omissione di atti d’ufficio. Tuttavia secondo la procura di Perugia, come detto, i due magistrati viterbesi avevano agito correttamente, per questo era stata richiesta l’archiviazione e poi, in udienza, il non luogo a procedere. Anche il difensore dei magistrati, l’avvocato Filippo Dinacci, di fronte al gup aveva chiesto il proscioglimento dei suoi assistiti. Esattamente quello che è avvenuto, con il tribunale di Perugia che ha prosciolto Auriemma e Dolce con una formula piena. Bologna. Dall’asse tra Ima, Gd e Marchesini nuovi meccanici dal carcere di Ilaria Vesentini Il Sole 24 Ore, 12 gennaio 2024 È una piccola officina meccanica come ce ne sono tante lungo la via Emilia, dove si assemblano e si montano componenti e gruppi per le macchine automatiche e dove sono assunti a tempo indeterminato una quindicina di dipendenti, con regolare contratto e stipendio. La particolarità di FID-Fare Impresa in Dozza, è che a lavorare sono i carcerati della casa circondariale di Bologna e che la fabbrica è racchiusa dentro le mura dell’istituto di pena in via del Gomito. La Srl metalmeccanica è frutto di una iniziativa unica nel panorama nazionale che nel 2012 ha messo insieme i tre principali concorrenti mondiali insediati nella packaging valley bolognese - i gruppi Marchesini, Ima e Gd - azionisti e committenti di FID con un 3o% a testa del capitale, protagonisti assieme alla Fondazione Aldini Valeriani (l’altro lo% delle quote, Fav si occupa della formazione tecnica professionale) di un progetto che ha permesso fin qui l’inserimento in pianta stabile nelle piccole aziende della subfornitura emiliana di una cinquantina di ex detenuti, una volta scontata la condanna. “Io, Alberto (Vacchi, presidente e ad di Ima, ndr) e Isabella (Seragnoli, presidente di Gd-Coesia, ndr) siamo amici oltre che concorrenti e amiamo fare cose complesse - racconta Maurizio Marchesini, numero uno dell’omonimo gruppo di Pianoro e presidente di FID - e attivare un’azienda in carcere è davvero una cosa complicata. Ma è bastata una telefonata per metterci d’accordo e dare forma alla scintilla accesa da Italo Minguzzi”. Un avvocato che nel 2010 era nel cda di Ima e lanciò l’idea assieme a Marco Vacchi, allora al vertice sia di Ima sia della Fondazione Aldini Valeriani. Minguzzi è ancor oggi presidente onorario della piccola azienda da 2oomila euro di fatturato annuo, società di capitali con finalità sociale (non distribuisce utili) guidata da Gianguido Naldi, ex dipendente e sindacalista Coesia nonché ex segretario Fiom Bologna ed Emilia-Romagna. Un’alleanza tra industria, scuola, sindacato e amministrazione penitenziaria che diventa attività concreta grazie ai tutor, operai e tecnici in pensione (ex dipendenti) dei tre big del packaging che in modo volontario affiancano i lavoratori di FID. Figure strategiche e insostituibili sia per la riuscita del percorso professionale dei detenuti dentro il carcere sia nella fase del loro reinserimento in società a fine pena, perché diventano maestri di vita, punti fermi di riferimento. Come confermato dalla ricerca “La fabbrica in carcere e il lavoro all’esterno: uno studio di caso su Fare Impresa in Dozza” commissionata all’Università di Bologna e presentata lo scorso giugno, per valutare i risultati raggiunti da FID nei primi dieci anni di vita e definire nuovi obiettivi e replicabilità. “I dipendenti di FID fanno turni di 3o ore settimanali, 6 ore al giorno da lunedì al venerdì perché i ritmi carcerari non permettono di mandarli in fabbrica un’ora prima e farli uscire un’ora più tardi per coprire le canoniche otto ore - spiega Naldi -. Il carcere seleziona 20-25 candidati tra i detenuti e noi ne scegliamo circa una metà che ammettiamo al corso di formazione di 280 ore tra lezioni teoriche e stage, tenuto dalla Fondazione Aldini Valeriani, privilegiando chi ha già qualche esperienza nel settore meccanico e chi ha un orizzonte di pena residua da scontare di 3-4 anni, per garantire da un lato la rotazione di chi ha accesso a questa opportunità e, dall’altro, per non dover ripartire ogni anno da zero. Produttività ed efficienza dipendono molto dall’esperienza, le commesse sono assicurate dai soci e si tratta di lavori manuali altamente specializzati. In questo momento siamo alle prese con il problema di dover formare in fretta nove detenuti neoassunti, perché sono uscite lì persone in blocco e servono un paio d’anni per imparare bene il mestiere”. “Non siamo gli unici ad aver avviato aziende in carcere, ma credo sia unico il gioco di squadra che ha permesso il successo di questo progetto, che coinvolge tutta la filiera - sottolinea Marchesini - perché dopo il percorso formativo e lavorativo in Dozza sono le nostre piccole aziende subfornitrici ad assumere gli ex detenuti: offrono un luogo più semplice e più inclusivo dove lavorare rispetto alle nostre grandi realtà industriali. Credo che la civiltà e il progresso di un territorio si misurino anche dalla sua capacità di recuperare chi ha commesso crimini. O buttiamo via le chiavi del carcere o a tutti conviene che queste persone vengano riabilitate e reinserite in società avendo acquisito competenze e abilità spendibili sul mercato. L’indice di reiterazione dei reati è del 10% tra chi ha completato il percorso in FID (contro un dato medio nazionale del 6o%, ndr)”. Paradossalmente, però, il carcere è un ambiente protetto e i problemi più grossi del progetto FID emergono nella fase di reinserimento a fine condanna: uno stipendio di 1.200 euro al mese è un privilegio tra le mura della Dozza, poca cosa quando si deve trovare casa e pagare le utenze con lo stigma dell’ex detenuto. Sono una cinquantina (65 con i detenuti al lavoro oggi in FID) le persone assunte nella filiera di Marchesini-Ima-GD, cui dal 2019 si è aggiunta anche la Faac dei cancelli automatici come committente. Il prossimo passo è allargare spazi e occupati in carcere e replicare il modello in altri istituti di pena, riprendendo progetti congelati dal Covid. “Stiamo chiedendo di ampliare lo stabilimento dentro la Dozza, la domanda di lavorazioni meccaniche è in forte aumento, anche perché fuori le aziende non trovano personale da assumere, mentre noi potremmo facilmente raddoppiare i detenuti da inserire in officina - precisa l’ad Naldi. E vorremmo riprendere le attività dell’ex caseificio che fino a pochi anni fa operava dentro il carcere”. Firenze. Detenuti a lezione per diventare ristoratori di Andrea Guida firenzetoday.it, 12 gennaio 2024 Il corso è rivolto ai detenuti a fine pena o che hanno commesso reati minori. Ripartire dopo un periodo passato in galera non è mai semplice. Il momento più difficile è sicuramente quello del reinserimento nel mondo del lavoro. Per questo motivo l’Università di Firenze ha deciso di finanziare un corso professionale per i detenuti a fine pena con l’obiettivo di dare a queste persone una seconda possibilità. A dirigere il corso è Pierluigi Madeo, titolare e chef del gruppo Pizzaman. Il corso ha una durata di 120 ore e si divide tra teoria e pratica. Il fine è insegnare ai carcerati i segreti per diventare pizzaioli. Non solo. Una parte del percorso, curata dal docente Mattia Rossini, è orientata anche sulla comunicazione e sul marketing per coloro che hanno l’obiettivo di diventare ristoratori. “Il corso è rivolto ai detenuti che sono a fine pena o che hanno commesso reati minori - racconta Pierluigi Madeo -. Viene svolto nel laboratorio del carcere di Solliccianino, che dispone di un forno a legna. A fine corso si fornisce anche la possibilità di fare uno stage presso il ristorante”. Una grande opportunità che permette ai detenuti di lasciare l’istituto penitenziario con in tasca una buona possibilità di lavoro. Il corso è rivolto a 4/5 persone, che verranno scelte dagli educatori tra coloro che si sono comportati bene durante il percorso della riabilitazione carceraria. “L’età media va dai 25 ai 35 anni - aggiunge Madeo. Come tutti avevo dei pregiudizi all’inizio, ma dopo aver frequentato queste persone mi sono chiesto il perché si trovassero all’interno di un carcere. Ho trovato persone brave, che hanno da raccontare tanta vita e che hanno voglia di rimettersi in gioco per recuperare il tempo perso”. Tra le fredde celle del carcere, Pierluigi racconta di come là dentro ci siano persone che nonostante tutto continuano a sognare e pensare a progetti di vita a lungo termine. “Mi ha colpito la storia di un allievo in particolare. Prima del carcere faceva il carpentiere. Con questo corso mi ha raccontato che il suo sogno adesso è tornare al suo paese di origine, dalla sua famiglia, e aprire una pizzeria tutta sua”. Un’esperienza gratificante non solo per i carcerati, ma anche per lo stesso Pierluigi: scegliendo di mettersi in gioco in un contesto diverso, ha arricchito il proprio bagaglio dal punto di vista umano. “Inizialmente mi sembrava strano passare dalle scuole al carcere. Mi sono ricreduto. Ho capito quanto sia importante dare una seconda chance nella vita, mi sento più ricco dal punto di vista personale. Non vedo l’ora di finire il primo corso e iniziarne un altro per conoscere altre storie di vita”. Torino. “Perché loro e non io?”, a Palazzo Barolo al via un ciclo di conferenze sulle carceri diocesi.torino.it, 12 gennaio 2024 Apertura venerdì 19 gennaio 2024 alle 17; interviene l’Arcivescovo. Con la mostra “Giulia & Tancredi Falletti di Barolo Collezionisti”, allestita alla Galleria Sabauda e aperta fino al prossimo 7 aprile, si chiude il programma di eventi organizzati nel corso del 2023 per celebrare il Bicentenario del Distretto Sociale Barolo a Torino ma, con nuovi appuntamenti, la proposta di iniziative culturali e di carattere sociale dell’Opera Barolo prosegue già a partire dalle prime settimane del 2024. È infatti in programma un ciclo di incontri a Palazzo Barolo (via delle Orfane 7) dedicati alle tematiche del carcere: sei appuntamenti, in calendario dal 19 gennaio al 13 dicembre 2024, in cui saranno affrontati argomenti come le condizioni di vita dei detenuti e di chi lavora nei luoghi di reclusione; le iniziative culturali, le attività educative e formative dentro e fuori gli istituti di pena torinesi; la giustizia riparativa; le alternative alla reclusione per scontare le condanne; le luci e le ombre del sistema carcerario nel nostro Paese. Il ciclo di conferenze sul carcere, organizzato dall’Opera Barolo in collaborazione con il settimanale diocesano “La Voce e Il Tempo”, si intitola “Perché loro e non io? (Papa Francesco). Perché loro sono dentro e io fuori? (Giulia di Barolo)” e si apre venerdì 19 gennaio 2024 alle ore 17 - il giorno della morte della Marchesa Giulia di Barolo, di cui nel 2024 ricorre il centosessantesimo anniversario - con l’incontro sul tema “A scuola in carcere” e la presentazione del libro “E-mail a una professoressa. Come la scuola può battere le mafie” (Edizione Effatà). Nella prima delle sei conferenze, tutte ospitate a Palazzo Barolo, sono previsti gli interventi di monsignor Roberto Repole, arcivescovo di Torino e presidente dell’Opera Barolo, degli autori del libro, Marina Lomunno, caporedattore del settimanale diocesano “La Voce e il Tempo” e del francescano Giuseppe Giunti, della scrittrice Margherita Oggero, di Elena Lombardi Vallauri, direttore della Casa circondariale torinese “Lorusso e Cutugno”, di Emma Avezzù, procuratore dei Minorenni del Piemonte e della Valle d’Aosta, di Monica Cristina Gallo, garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Città di Torino, e di Arturo Soprano, presidente emerito della Corte d’Appello di Torino e membro del Consiglio d’Amministrazione dell’Opera Barolo. Affidato a Marco Bonatti, giornalista e responsabile della Comunicazione della Commissione diocesana per la Sindone, il compito di moderare l’incontro. Nel 2024 ricorre il centosessantesimo anniversario della morte della marchesa Giulia Falletti di Barolo, il cui impegno in campo sociale è iniziato proprio prestando attenzione alla condizione delle donne recluse nelle carceri della Torino del suo tempo e che, nel 1823, l’ha spinta a istituire il Rifugio: un luogo per ospitare e offrire assistenza alle donne che, una volta scontata la pena, lasciavano il carcere per tornare libere in una società dove da ex detenute e senza alcun aiuto, reinserirsi per vivere una vita onesta e dignitosa risultava un’impresa ardua, se non impossibile. Quel Rifugio è stato il primo nucleo di quel complesso che nel tempo è divenuto il Distretto sociale Barolo: una vera e propria cittadella dell’accoglienza dove oggi operano 17 realtà del “sociale” che, quotidianamente, garantiscono servizi fondamentali a donne in difficoltà, giovani fragili, detenuti, migranti e persone che vivono in condizione di marginalità. Un sostegno fornito in varie forme che, tradotto in numeri, assicura ogni anno aiuti per 15mila persone, mille famiglie e quasi 2mila tra adolescenti e bambini. Siamo scivolati nell’età dell’inquietudine, ma scegliere si può di Barbara Stefanelli Corriere della Sera, 12 gennaio 2024 Non rabbia, bensì “sfinimento emotivo” è lo stato d’animo più diffuso. Il ruolo delle decisioni di leader e cittadini. L’età dell’incertezza, che ci ha confinati in un limbo grigio nei mesi del contagio epidemico, sembra essersi lentamente trasformata - e da quest’autunno, di colpo, cristallizzata - nell’età buia dell’inquietudine. Lo ha raccontato bene il sondaggio curato da Nando Pagnoncelli, pubblicato il 2 gennaio sul Corriere. “Preoccupazioni”, “disagio”, “difficoltà”, “appannamento” sono le parole-chiave ricorrenti nella sintesi della ricerca. I temi classici dell’economia e del lavoro, da sempre dominatori nella classifica dell’ansia, ormai incalzati da un gruppo disordinato che incrocia e nomina “sanità”, “immigrazione”, “le guerre”, “la perdita di potere d’acquisto”, “l’ambiente” come fonte del proprio disorientamento. Non è tuttavia la rabbia il sentimento che definisce la reazione diffusa degli italiani, stretti dentro questo perimetro di segmenti critici, nazionali e internazionali. Bensì “lo sfinimento emotivo”. Una stanchezza che scivola nella rassegnazione. Come se “l’andamento” fosse una curva impersonale che segue il suo corso e ci trascina giù. La grande speranza che si era raccolta nel Pnrr pare incagliata nel confronto tra burocrazie e ricatti di vicinato. Il governo fatica a trovare misure efficaci, l’opposizione non viene percepita in grado di proporne di migliori, anzi. I conflitti globali non fanno che complicarsi, un’escalation senza fine che ci spaventa e confonde e divide. Tutto questo come se non avessimo scelta. Se non quella di spostarci a lato del fiume degli eventi - “eventi estremi” ci ha insegnato a dire il glossario climatico davanti ai cambiamenti fuori controllo - invocando un tetto, un bunker o la spianata di ogni impegno civile. Eppure, abbiamo sempre la possibilità di scegliere e così di determinare stagioni buone/cattive. Perché ci sono state, sì, stagioni buone e stagioni cattive “determinate dalle grandi scelte dei protagonisti della scena internazionale”, ha scritto Thomas L. Friedman ragionando sui suoi quasi trent’anni di analisi di politica estera per il New York Times. C’è stato Mikhail Gorbaciov, e la nascita della democrazia nei territori ex sovietici. Ci sono stati Rabin e Arafat, e quella stretta di mano davanti a Bill Clinton, il 13 settembre 1993, che sigillava gli accordi di Oslo. C’è stato lo sforzo di apertura della Cina voluto da Deng e dell’India sotto l’impulso iniziale di Singh. Ci sono stati Nelson Mandela, Barack Obama, il sogno in accelerazione di un’Europa unita democratica e liberale dopo il crollo del Muro di Berlino. Tutti questi passaggi storici - sempre Friedman - “erano il frutto di decisioni intelligenti prese sia dai leader sia dai cittadini”. Abbiamo persino condiviso, a strappi, la convinzione di poter costruire una strategia globale per “salvare il Pianeta”. L’errore più grave oggi - alla vigilia di un eccezionale anno elettorale, 76 Paesi al voto - sarebbe quello di consegnare quella nostra inquietudine nelle mani, o ai piedi, di leadership inadeguate. Esercitate a lasciar sprofondare la propria incompetenza dentro un intreccio fitto di promesse insostenibili e ipotesi di complotto. Capaci solo di bucare la nostra stanchezza e distrazione alzando il volume fino ad assordarci o spegnerci, in fondo più pericolosi delle allucinazioni da Intelligenza Artificiale. La trappola è credere che non sia, mai, il momento per agire. Che scegliere adesso non sarebbe comunque abbastanza. Settecento senzatetto morti nell’ultimo biennio: i poveri non sono nell’agenda politica di Massimo Pasquini* Il Fatto Quotidiano, 12 gennaio 2024 In Italia assistiamo impassibili ad una strage dei senza volto e senza diritti. Sono stati più di 700 i senza fissa dimora morti nel biennio 2022-2023, undici nella prima settimana del 2024. Il freddo d’inverno “sorprende” i nostri amministratori politici locali, come il caldo torrido d’estate. Sembrerà strano ma il freddo e il caldo, nel nostro Paese e in particolare nei nostri comuni, diventa emergenza. Con i comuni che intervengono sempre troppo tardi e in maniera assolutamente insufficiente. I dati sono drammatici, parliamo di una vera e propria strage che non fa notizia. Una strage di invisibili dei quali, spesso, sono sconosciute storia e condizione precedente, perfino il nome. Non si tratta “solo” di intervenire con servizi: dormitori, mense, piani freddo, interventi che dovrebbero essere programmati; ma spesso i comuni si attivano in colpevole ritardo adottando iniziative insufficienti. Anche in tale contesto la risposta sta nel non inseguire l’emergenza, ma attuare misure strutturali a partire dal diritto all’abitare, intervento fondamentale da garantire a chi non ha un luogo dove vivere e che vuole, magari, anche riprendere un percorso di vita. I poveri non sono nell’agenda politica. L’ho scritto spesso, ora anche in relazione ai poveri dei poveri, i senza fissa dimora, quelli che per la loro condizione e nella loro condizione muoiono quasi uno al giorno. Eppure il Parlamento europeo ha chiesto che al fenomeno dei senzatetto, una delle forme più gravi di povertà, causato da fattori strutturali, istituzionali e personali, si ponga fine entro il 2030. Secondo l’Istat sono oltre 96.000 le persone senza dimora iscritte in anagrafe. La maggioranza è composta da uomini e il 38% è rappresentato da cittadini stranieri, provenienti per oltre il 50% dei casi dal continente africano. L’Istat afferma altresì che le persone senza fissa dimora censite sono residenti in poco meno di 2200 comuni, ma si concentrano per il 50% in 6 comuni: Roma con il 23% delle iscrizioni anagrafiche, Milano (9%), Napoli (7%), Torino (4,6%), Genova (3%) e Foggia (3,7%). Dati sottostimati, perché come segnalato da Istat si riferiscono alla parte emersa del fenomeno, ovvero coloro iscritti alle anagrafi comunali o presso associazioni. In tale contesto, anche tra i senza fissa dimora, si riscontra una presenza non marginale di minori. Nel Piano di Azione Nazionale per l’Attuazione della Garanzia Infanzia (Pangi) del marzo 2022 si affermava che, con riferimento alla grave esclusione abitativa e alla condizione di senza dimora, si notava in Italia la presenza di minorenni senza fissa dimora, ospiti in strutture o in sistemazioni insicure o inadeguate. Openpolis a giugno 2023 indicava in circa 13.000 i minori senza fissa dimora presenti nel nostro Paese nel 2021. Nel 49% dei casi risultavano essere bambine e ragazze. Nelle tre maggiori città secondo Openpolis sono presenti il 44% dei minori senza fissa dimora. Anche in tale contesto si può affermare che il diritto all’abitare è la premessa di serie ed efficaci politiche di inclusione sociale. Sembrerebbe facile da comprendere, ma non riesce a fare breccia nell’agenda politica nazionale. Solo nella notte tra il 6 e il 7 gennaio tre persone senza dimora di origine magrebina sono morte a Padova, rimaste probabilmente intossicate dall’inalazione di monossido di carbonio. Questa tragedia è avvenuta all’interno di un immobile abbandonato. Un immobile abbandonato come ce ne sono a centinaia/migliaia nelle nostre città. Cattedrali dello spreco e del consumo di suolo inutile, ma intoccabili, in nome di una proprietà privata cialtrona e di uno zerbinaggio, sia culturale che politico, da parte delle amministrazioni locali, nei confronti di quel tipo di proprietà privata, ma anche rispetto a immobili pubblici, in attesa di speculazione (cosiddetta valorizzazione), fatto semplicemente inammissibile, perché spesso quegli immobili abbandonati sono sottratti all’uso pubblico e contenitori di degrado, veri buchi neri. Così nei soli 2022 e 2023 oltre 700 persone sono morte come se fosse normale o accettabile, nel terzo millennio, che si possa morire, nelle nostre luccicanti città, appaltate alla turistificazione, nel buio, tetro, triste e opprimente scenario dell’esclusione sociale e della indifferenza. *Attivista per il diritto alla casa, Responsabile Centro Studi e Ricerche di Unione Inquilini Sos cyberbullismo, un bambino ogni cinque ne è vittima di Paolo Travisi La Stampa, 12 gennaio 2024 Una condizione di molestie a ripetizione che tengono la vittima in uno stato di angoscia prolungata. Ecco come ci si può difendere. Ogni strumento tecnologico è un elemento neutro. Può essere utilizzato per il bene collettivo o del singolo individuo, ma può anche diventare un’arma o essere usato per limitare i diritti e per fare del male. Il mondo del web, così pervasivo, quasi senza separazione tra offline e online, ci espone a nuovi rischi, specialmente i più fragili: i bambini e gli adolescenti. I pericoli per i nativi digitali - e ancora di più per i nativi social - sono stati al centro di “Wallife Young. Verso un web più consapevole”, evento organizzato da Wallife, start-up che opera nel settore Insurtech per offrire protezione dai rischi derivanti dall’utilizzo improprio dell’hi-tech digitale, in collaborazione con l’Università Luiss, che ha visto la partecipazione di rappresentanti accademici, esperti di comunicazione e del mondo digitale confrontarsi sul tema del cyberbullismo e di come tutelare ragazzi e bambini dalle violazioni digitali. Senza allarmismi, ma i numeri fanno paura. Nel mondo ci sono “oltre 3 miliardi di gamers e, di questi, il 3%, circa 90 milioni di giovani, accusa disagi connessi al videogioco, mentre chi trascorre più di due ore al giorno e 20 ore a settimane può sviluppare una vera e propria dipendenza, specialmente nella fascia d’età tra 11 e 13 anni”, spiega Maria Enrica Angelona, ad di Wallife. Ma, oltre la dipendenza da gaming, che può causare aggressività e depressione anche nei bambini, e oltre al rischio di diventare vittime di truffe online, il dato ancora più preoccupante è relativo al cyberbullismo: un bambino su cinque ne è vittima. Secondo lo scenario illustrato da Michele Costabile, professore di Economia e Gestione delle Imprese alla Luiss di Roma, tra i relatori dell’evento di Wallife, “nella Generazione Alpha, ovvero i nati dal 2013 al 2023, il 62% dei bambini inizia a usare dispositivi mobile già prima dei cinque anni e, addirittura, un bambino su due possiede un device a proprio uso esclusivo”. In questo contesto, basato sull’individualità e sul rapporto esclusivo del device, spesso il controllo genitoriale viene meno. Se da un lato l’uso di strumenti digitali, connessi e interattivi, stimola lo sviluppo di attività cognitive e il pensiero creativo, dall’altro espone gli utenti più giovani a una serie di rischi che non possono essere sottovalutati. Tornando al cyberbullismo, questo fenomeno dilagante “è anche più dannoso del bullismo, perché crea ripetitività di molestie che tiene la vittima in uno stato di angoscia prolungata. E il bullo stesso, tramite l’intermediazione del web, si sente meno in colpa delle sue azioni”, aggiunge Angelona. La letteratura scientifica internazionale sottolinea una correlazione tra cyberbullismo e l’abbandono scolastico, provocato da ansia e depressione. Tra chi ha subito atti di cyberbullismo online, l’88% sostiene di subirli ogni giorno e il 68% durante il gioco online, mentre il dato più sorprendente - che sottolinea l’intreccio tra online e offline - è che nel 57% dei casi il cyberbullo è un compagno di classe della vittima e questa tende a non comunicare il suo disagio in famiglia: teme che come unica soluzione gli venga tolto lo smartphone, il computer o la console con cui si gioca e si comunica. In questo contesto diventa necessario aiutare ragazzi e famiglie ad avere un approccio consapevole, sensibilizzandoli sull’importanza di un utilizzo corretto della tecnologia. Lo sa bene, Manuela Baldo, insegnante e presidente dell’Associazione Soprusi Stop, che ha portato il suo contributo all’evento Wallife, sottolineando che “a nove anni la metà dei bambini ha già il cellulare, gioca online con persone sconosciute e in alcuni si connette anche di notte all’insaputa dei genitori. Se come forma di punizione viene tolta loro la connessione, allora manifestano disagi come tristezza e rabbia. Credo, quindi, sia fondamentale investire nella formazione degli insegnanti, che devono conoscere bene la tecnologia e possono insegnarla agli studenti”. Quest’ultimo aspetto è ciò che differenzia le nuove generazioni da quelle precedenti, ovvero una maggiore difficoltà da parte degli adulti - genitori e insegnanti - nell’intervenire in maniera efficace sulle interazioni dei minori con il mondo digitale. Se la tecnologia è uno strumento neutro, allora, quando usata in modo corretto, può diventare il mezzo ideale per contrastare abusi e violazioni, che derivano da un uso distorto della tecnologia stessa. Da qui Gian Luca Marcialis, professore di Tecnologie Biometriche all’Università di Cagliari, che alla Luiss ha presentato BullyBuster, un’app realizzata in collaborazione con gli atenei di Napoli, Bari e Foggia. Integra Intelligenza Artificiale e machine learning, installabile su smartphone o pc, per analizzare comportamenti, frasi, video, foto, interventi in chat che possano essere ricondotti ad azioni di bullismo o cyberbullismo. Segnalazioni che possono essere monitorate sui singoli device ed elaborate da un sistema di IA in grado di allertare le famiglie, le autorità scolastiche e, nel caso, anche le forze dell’ordine. “Uno dei tool che abbiamo sviluppato esegue l’analisi dei contenuti aggressivi nelle chat e compie una valutazione dello stato di benessere del giovane mentre sta interagendo, perché dal modo di scrivere può capire se ci sono elementi di stress - spiega Marcialis, convinto che un alert in tempo reale possa aiutare l’eventuale vittima - e permette all’individuo di prendere coscienza del proprio stato”. L’app di BullyBuster funziona in modo automatico e funge da sentinella h24, quando viene interfacciata ad apparati di videosorveglianza. “Installata su un sistema di videosorveglianza, come una telecamera, il software analizza l’aggregazione o la disgregazione all’interno di un gruppo, in seguito a casi di aggressioni e di risse, perché nel bullismo ha molta importanza la dinamica di gruppo. Il tool, quindi, può inviare degli alert a chi effettua il controllo di una determinata situazione, per esempio il dirigente scolastico”. Non a caso il progetto Bully Buster è stato inserito nella “Top 100 Global List of AI solutions for Sustainable Development Goals of United Nations”, l’elenco dei 100 migliori progetti mondiali basati sull’IA e rispondenti agli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Onu. Migranti. Il Cpr dello scandalo, l’infermiera testimone dei pm: “Così picchiavano i migranti” di Gaetano De Monte Il Domani, 12 gennaio 2024 L’inchiesta della procura lucana. Dai racconti degli infermieri del Centro di permanenza per i rimpatri e dalle intercettazioni degli operatori emergono i trattamenti inumani e degradanti nei confronti dei migranti, ma anche i tentativi di depistaggio. Tre poliziotti sono indagati. “Una volta a dicembre, a un nigeriano che aveva l’epilessia, un giovane infermiere aveva dimenticato di dare a questo ragazzo la compressa, la sera prima. Così, la mattina seguente ebbe una crisi epilettica ed inveì contro di me. Davanti alla mia scrivania c’erano i carabinieri. Uno di loro lo prese e gli diede tante di quelle mazzate in faccia. Mai vista una scena del genere”. È il 26 novembre del 2019 e, all’interno del centro di permanenza per i rimpatri di Palazzo San Gervasio che si trova tra le campagne di Potenza, l’infermiera Arianna Linsalata racconta a un suo collega un episodio che non appare isolato all’interno del Cpr. Già, perché le violenze delle forze dell’ordine, infatti, appaiono quasi una costante nel centro, a leggere le 289 pagine che compongono l’ordinanza di custodia cautelare firmata dal giudice per le indagini preliminari, Antonello Amodeo, su richiesta della procura lucana guidata da Francesco Curcio. L’inchiesta ha svelato un sistema di frodi nelle pubbliche forniture a danni del ministero dell’interno e, allo stesso tempo, gli abusi e i maltrattamenti che sarebbero stati commessi nei confronti dei migranti dal personale della struttura e dalle forze dell’ordine. Tanto che i poliziotti hanno dovuto indagare su tre loro colleghi, uno dei quali, Rosario Olivieri, è finito agli arresti domiciliari. La commissaria Paola Lupinacci, responsabile dell’ordine pubblico nel Cpr lucano, invece, è indagata insieme al medico responsabile della struttura, Donato Nozza, perché “agendo con crudeltà, con abuso dei loro poteri, cagionavano un verificabile trauma psichico al cittadino gambiano Lamin Sawaneh, costringendolo con la violenza a subire contro la sua volontà la somministrazione per mano intramuscolare da parte dell’operatrice sanitaria di una fiala del farmaco sedativo valium”, si legge nel capo di imputazione. Mentre ciò avveniva, hanno ricostruito i detective lucani: “I militari dell’arma dei carabinieri appartenenti al XII battaglione di Bari in servizio di ordine pubblico sotto il comando della Lupinacci mantenevano il Sawaneh steso per terra all’aperto a torso nudo e piedi nudi, immobilizzato con l’applicazione di fascette di contenimento ai polsi e alle caviglie e la pressione di un piede sulla testa”. “Ricorda episodi di pestaggi di ospiti da parte delle forze di polizia”? ha chiesto durante gli interrogatori uno dei detective della polizia che hanno condotto le indagini all’infermiera del Cpr Valeria Nisi. E Nisi ha risposto così: “c’erano tante situazioni, era un inferno lì dentro, e solo chi si trovava a vivere di persona lo può capire. Di episodi sgradevoli ce ne sono stati tantissimi. Ma c’è un episodio in particolare che non riesco a togliermi dalle orecchie”. L’infermiera ha poi raccontato di aver visitato un uomo che presentava contusioni ed ematomi su tutto il corpo, e lamentava dolori alle braccia. “C’erano dei veri e propri segni di manganellate sulla schiena”, ha aggiunto Nisi: “furono fatte medicazioni per le ferite sanguinanti, ma le forze dell’ordine mi dissero di non chiamare il 118”. Tuttavia, secondo la procura di Potenza, vi sarebbero stati anche dei tentativi di depistaggio. L’ispettore di polizia Rosario Olivieri avrebbe tentato di sviare le indagini, redigendo una relazione di servizio poi finita sulla scrivania del questore e del procuratore capo di Potenza, e nella quale si attestava che un uomo tunisino, Ben Check, avrebbe aggredito un’operatrice con un paio di forbici, pur sapendolo innocente. Una relazione che poi è risultata falsa. Come falsa sarebbe la comunicazione di reato inviata alla stessa procura lucana dall’ispettore di polizia Giovanni Capodieci (che per questo è indagato) e in cui veniva riferito di avere acquisito elementi in ordine al fatto che la somministrazione di valium a Lamin Sawaneh era avvenuta con il consenso di questi e per iniziativa del medico Nozza. “Cosa contraria al vero”, scrivono i giudici: “atteso che il Sawaneh aveva subito la somministrazione di Valium su espressa richiesta della Lupinacci (n.d.r. commissaria responsabile dell’ordine pubblico del Cpr) mentre era trattenuto a forza all’aperto da militari dell’Arma dei Carabinieri, immobilizzato al suolo con mezzi di contenzione”. C’è un altro infermiere, Antonio Romanelli, che nella chat Whatsapp del personale della società Engel che gestiva il Cpr fino al 2022, ha raccontato ai colleghi di aver notato “strane ferite” su un “ospite” che chiedeva il rivotril, il farmaco utilizzato per trattamenti di soggetti con epilessia, ma che nei Cpr italiani viene somministrato regolarmente per stordire i migranti. Secondo Romanelli l’origine delle ferite era dovuta al fatto che “i poliziotti avevano spiegato due cosine al malcapitato ospite”. In tutti i casi, l’impressione, a leggere le carte giudiziarie, è che in alcuni casi la violenza esercitata abbia visto il coinvolgimento delle diverse forze dell’ordine. In un passaggio dell’ordinanza di custodia cautelare, infatti, rispetto all’episodio della somministrazione forzata di farmaci al cittadino tunisino, Ben Check, gli inquirenti annotano che “le persone sicuramente coinvolte nel trattamento dell’uomo la sera del 30 novembre 2021 erano diverse”. E fanno i nomi di un commissario e di un ispettore di polizia, di un luogotenente dei carabinieri; di sei agenti della finanza che erano presenti, invece, scrivono che “non appaiono identificabili a vista poiché sono tutti col volto e con la testa coperti dai berretti e dai colli delle divise”. Migranti. Tra minori non accompagnati e Albania il governo dà i numeri di Giansandro Merli Il Manifesto, 12 gennaio 2024 Audizione al Comitato Schengen. Come funzionerà il protocollo? Piantedosi non risponde. Intanto i numeri del Viminale dicono che i ragazzi stranieri accolti in Italia sono meno di 10mila. Il 25-30% di quelli che sbarcano vanno via. In televisione sottolinea che squadre di tecnici italiani sono già impegnate nei sopralluoghi in Albania, ma con i parlamentari non risponde ai tanti dubbi che restano sull’accordo con Tirana. È la doppia giornata del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, che ieri si è diviso tra La7 e il Comitato parlamentare di controllo su Schengen, Europol e immigrazione. “Quando ci sarà la decisione della Corte costituzionale albanese partiremo per la realizzazione in tempi brevi di un progetto molto importante, uno dei successi del premier Giorgia Meloni, visto di buon occhio dall’Europa”, ha detto il titolare del Viminale in tv. Evidentemente il governo non teme la decisione dei giudici del paese delle aquile. La situazione, però, potrebbe rivelarsi più complicata da questo lato del mare. I punti interrogativi, giuridici e logistici oltre che economici, restano tutti lì sul piatto. Anzi, dopo tre giorni di audizioni nelle commissioni riunite Affari costituzionali ed Esteri della Camera sono aumentati: numerose le criticità rilevate dagli esperti sulla compatibilità con il diritto europeo e la costituzione italiana. Alcune questioni concrete sono state poste ieri al ministro durante il comitato Schengen: dove si realizzerà lo screening per decidere chi va in Albania e chi in Italia? Nel primo caso: che succederà a chi non ottiene asilo? Cosa si farà con quelli che ricevono il diniego alla domanda di protezione internazionale ma non possono essere espulsi? Come sarà garantita la difesa dei migranti trattenuti? A queste domande Piantedosi non ha risposto o lo ha fatto con affermazioni generiche. Sullo screening ha ricordato che il progetto ha due ambiti, l’hotspot a Shengjin e i centri di trattenimento a Gjader, poi però ha specificato che non sarà fatto in Albania, ma prima. Sulle navi di guardia costiera o marina, dunque. Verosimilmente per spedire al di là dell’Adriatico chi viene da paesi con cui l’Italia ha accordi di rimpatrio. Operazione delicata in alto mare. “I modelli operativi saranno definiti dalle strutture di salvataggio”, ha tagliato corto. Per adesso, dunque, non si sa nulla. Di fronte a questa reticenza del ministro il deputato d’opposizione Riccardo Magi (+Europa) è partito all’attacco: “Non si può andare avanti con l’esame del ddl di ratifica del protocollo senza che il governo chiarisca questi punti fondamentali. Piantedosi venga in commissione a rispondere”. Sempre in commissione Schengen il ministro ha dato altri numeri significativi: riguardano i giovani migranti che arrivano in Italia da soli. Meritano attenzione perché smontano la retorica sulla presunta “emergenza minori stranieri non accompagnati” che il governo ha alimentato in autunno. Obiettivo: varare il decreto che ha reso possibile accoglierli anche in strutture per adulti, complicato la conversione del loro permesso di soggiorno e reintrodotto l’Rx del polso per accertare l’età. Sapevamo che i minori arrivati via mare nel 2023 sono stati 17.319, circa 3mila in più dell’anno precedente. Ieri Piantedosi ha aggiunto che al 4 gennaio erano 2.263 nei centri di prima accoglienza, 1.576 in quelli di accoglienza straordinaria e 5.870 nei progetti del Sistema accoglienza e integrazione (Sai). Totale: 9.709. Molti meno di quelli sbarcati. Sarebbe questa l’emergenza per un paese di 60 milioni di abitanti? Tra l’altro, ha spiegato Piantedosi, da quei centri tanti ragazzi fuggono per continuare il viaggio: le percentuali oscillano tra il 25% e il 32% in base al tipo di struttura di accoglienza. Per tutti loro l’Italia è un paese di transito, non di arrivo. Migranti. Patto Italia-Albania: “Modello già bocciato nel Regno Unito” di Luigi Lupo Il Manifesto, 12 gennaio 2024 Intervista a Satvinder Juss, professore di Diritto al King’s College di Londra: “Viola la Convenzione sui rifugiati. Improbabile, poi, che le richieste di ammissione vengano evase entro 28 giorni. Difficilmente i richiedenti potranno essere respinti nei Paesi di origine”. I migranti corrono il rischio di maltrattamenti, con possibilità di violazione dei diritti umani, e il modello potrebbe creare un pericoloso precedente. La proposta di accordo tra Italia e Albania per la costruzione di due Cpr nel Paese governato da Edi Rama sembra fare acqua da tutte le parti. O quantomeno è questa la considerazione di Satvinder Juss, professore di Diritto al King’s College di Londra e avvocato al Gray’s Inn, uno dei maggiori esperti di politiche migratorie. Juss è stato ascoltato lunedì scorso a Roma, nella commissione riunita Affari esteri e Affari costituzionali, sull’intesa firmata da Edi Rama e Giorgia Meloni il 6 novembre scorso che prevede la costruzione di due strutture, operative dalla primavera 2024, con una capienza massima di 3mila persone alla volta, per accogliere ed esaminare le richieste di asilo di persone migranti salvate nel Mediterraneo da navi delle autorità italiane. Un accordo già bocciato dalla Corte costituzionale albanese e che ha ricevuto un primo parere negativo nell’audizione dell’esperto britannico. Cosa pensa dell’accordo tra Italia e Albania sui centri per migranti? Se l’accordo funzionerà, avrà implicazioni di più ampio respiro. Il modello di Roma potrebbe essere adottato da altri Paesi Ue, desiderosi di reprimere l’immigrazione clandestina. Tuttavia, è improbabile che le richieste di ammissione vengano evase rapidamente entro 28 giorni. Difficilmente i richiedenti asilo potranno essere prontamente respinti nei Paesi di origine e vedo difficile che i due Centri di accoglienza siano operativi entro l’inizio del 2024 oltre a poter operare sotto la giurisdizione italiana. Altrettanto irrealizzabile la possibilità che vengano ospitati ben 40mila rifugiati all’anno e che le spese dell’Italia non si moltiplichino pagando molti milioni in più allo stato albanese. Ma ancora più grave è il fatto che l’Italia è firmataria di un trattato internazionale, la Convenzione sui rifugiati, e ha il dovere di non rimpatriarli in un luogo dove potrebbero essere a rischio. L’Italia dovrebbe prendere nota di quanto accaduto nel Regno Unito nel novembre 2023. Il protocollo italiano è simile all’accordo con il Ruanda che la Gran Bretagna ha firmato nell’ottobre 2022. Ma nel novembre 2023 la Corte Suprema del Regno Unito ha ritenuto che non fosse attuabile nei confronti di un Paese che non rispettava i rifugiati. Come dimostrano anche recenti inchieste, ultima quella sul centro di Potenza, i Cpr sembrano quasi delle prigioni. Lo sarebbero anche in Albania? Ammesso che vengano costruiti, la risposta è sì. Questo perché l’Albania utilizzerà le caserme militari per i suoi due centri al confine meridionale, che si spera possano essere utilizzate come alloggi, ma dove tutte le prove dimostrano che le strutture sono sotto organico e sotto risorse. E questo nonostante il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, abbia affermato che i detenuti in Albania non sarebbero a rischio di violazioni dei diritti umani perché la loro detenzione e il loro trattamento ricadrebbero interamente sotto la giurisdizione italiana. Il diritto d’asilo Ue non può essere applicato al di fuori dell’Unione. Così saranno a rischio maltrattamenti. Come giudica l’operato del governo Meloni sul fenomeno migratorio? Si tratta in gran parte di una “politica performativa”. È progettata per fare appello ai sentimenti populisti. L’accordo con l’Albania non funzionerà perché il premier albanese Rama ha già detto che il suo Paese non è favorevole allo scarico dei migranti dell’Ue. L’Albania è, a sua volta, un Paese produttore di rifugiati con il più alto numero di bambini in questa condizione. Una nazione dove proliferano casi di persecuzione per faide sanguinarie, per l’espressione di orientamento sessuale e identità di genere, violenza domestica contro le donne e azioni di attori non statali. E ancora l’accordo esistente con la Grecia non funziona perché la struttura per il rimpatrio è vuota. Peraltro non sono chiari i termini dei negoziati con l’Italia. Si avvicinano le elezioni europee: sarà centrale il tema dell’immigrazione? Sì, perché la popolazione nata all’estero in Occidente sta aumentando più velocemente che mai. Il mondo ricco sta assistendo a un boom migratorio senza precedenti. Le persone sono in movimento. Questo non solo per le condizioni del mondo più povero, ma anche per la necessità dell’occidente di reperire lavoratori stranieri. I Paesi europei stanno affrontando le elezioni del 2024 e l’ascesa dei partiti di destra fa dell’immigrazione un tema centrale per loro. La delocalizzazione dei richiedenti asilo è sempre più considerata una politica da perseguire. Medio Oriente. “Nella Striscia di Gaza è genocidio”: la guerra di Bibi a processo di Umberto De Giovannangeli L’Unità, 12 gennaio 2024 Non sarà il processo del secolo, di certo, però, è un evento che va ben oltre la dimensione strettamente giuridica. Perché sul banco degli imputati sale lo Stato che nacque per dare un focolaio nazione a ciò che restava di un popolo sopravvissuto al più grande Genocidio che la Storia ha conosciuto. 11 gennaio 2024: il giorno della prima udienza alla Corte internazionale di Giustizia dell’Aja sull’accusa di genocidio intentata dal Sudafrica contro Israele. I giudici sono entrati solennemente nell’aula per ascoltare due giorni di discussioni. Gli avvocati del Sudafrica chiederanno ai giudici di imporre a Israele ordini preliminari vincolanti, tra cui l’arresto immediato della campagna militare di Israele a Gaza. Fuori dal tribunale si sono radunati manifestanti pro Palestina che sventolavano bandiere e altri filo-israeliani con striscioni che recitavano “Riportateli a casa”, riferendosi agli ostaggi ancora detenuti da Hamas. Il team dell’accusa è guidato dal ministro della Giustizia di Pretoria, Ronald Lamola, dalla giurista sudafricana Adila Hassim, da diplomatici ed esperti politici: uno è Jeremy Corbyn, l’ex leader laburista britannico, investito dalle polemiche quando s’è rifiutato di definire Hamas un’organizzazione terroristica. Il Sudafrica ha fornito prove che dimostrano un “modello di condotta genocida” da parte di Israele. Adila Hassim, una degli avvocati del Sudafrica, ha affermato davanti alla Corte internazionale di Giustizia dell’Aja, che “le azioni di Israele mostrano un modello sistematico di condotta da cui si può dedurre un genocidio”. In un documento di 84 pagine, il Sudafrica ha citato prove che dimostrano che Israele sta commettendo un genocidio uccidendo i palestinesi a Gaza, causando gravi danni mentali e fisici, evacuazioni forzate, fame diffusa e creando condizioni “calcolate per provocare la loro distruzione fisica”. I palestinesi di Gaza “vengono uccisi nelle loro case, nei luoghi in cui cercano rifugio, negli ospedali, nelle scuole, nelle moschee, nelle chiese”, ha detto Hassim rivolgendosi ai giudici, “il livello di uccisioni è così ampio che i corpi trovati sepolti in fosse comuni spesso non vengono identificati”. “Nessun attacco, per quanto grave, può giustificare una violazione della convenzione, sia sul piano della legge che della moralità”. È quanto ha affermato il ministro della Giustizia sudafricano Ronald Lamola parlando davanti ai giudici della Corte internazionale. “Israele ha oltrepassato questa linea e ha violato la Convenzione sul genocidio”, ha aggiunto Lamola, “questo è il motivo per cui il Sudafrica ha intentato questa causa”. Dopo quasi cento giorni di guerra, secondo Hamas, i morti nella Striscia sono più di 23.357. I feriti 59.410. Ottomila i dispersi. A morire, più del 60%, sono donne e bambini. Israele s’è affidato a cinque avvocati internazionali, coordinati dall’inglese Malcolm Shaw, accademico di Cambridge. La Cig è composta da 15 giudici e due possono essere nominati dai Paesi in causa: Netanyahu ha scelto a sorpresa l’ex presidente della Corte suprema israeliana Aaron Barak, 87 anni, scampato alla Shoah in Lituania, considerato il più grande giurista israeliano vivente. Da tutti, meno che da diversi ministri di estrema destra, che lo considerano una specie di nemico pubblico numero uno per le sue dure parole sulla (contestatissima) riforma giudiziaria voluta dal governo di cui fanno parte “Anche oggi abbiamo visto un mondo alla rovescia: Israele è accusato di genocidio mentre sta combattendo il genocidio”. Così il premier Benjamin Netanyahu sull’udienza all’Aja. “L’ipocrisia del Sudafrica grida al cielo. Israele - ha aggiunto - combatte contro terroristi assassini che hanno commesso crimini terribili contro l’umanità: hanno massacrato, violentato, bruciato, smembrato, ucciso bambini, donne, anziani, giovani. Un’organizzazione terroristica che ha commesso il crimine più terribile contro il popolo ebraico dai tempi della Shoah e ora c’è chi viene a difenderla in nome della Shoah. Che audacia. mondo sottosopra”. Una posizione che trova il consenso del leader dell’opposizione, Yair Lapid. Di segno opposto è la reazione che arriva da Ramallah. Il governo dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) spera che possa “trionfare la giustizia” alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja. Il ministero degli Esteri palestinese ha detto che “l’obiettivo principale della strategia legale dello Stato palestinese è ritenere responsabile Israele, potenza occupante, davanti a tutte le istituzioni internazionali di giustizia e tramite tutti gli strumenti legali”. L’Anp, ha aggiunto, mantiene un “coordinamento continuo” con il Sudafrica a proposito delle accuse di genocidio mosse a Israele. Il ministero degli Esteri palestinese ha quindi voluto ringraziare il Sudafrica per il suo “passo coraggioso” che ha “mobilitato la comunità internazionale per fare chiarezza sul crimine di genocidio commesso da parte di Israele e le sue implicazioni legali”. Il ministero ha quindi lamentato che “alcuni paesi e organizzazioni internazionali sono complici con i loro veti e la loro fornitura di tutti i tipi di armi e influenza politica legale a Israele”. Condizioni detentive “critiche” in Ungheria. C’è da riportare a casa Ilaria Salis di Massimo Congiu Il Manifesto, 12 gennaio 2024 La situazione in cui si trova Ilaria Salis, detenuta a Budapest da febbraio dell’anno scorso in quanto imputata per aggressione a due neonazisti, fotografa una realtà drammatica: quella delle carceri ungheresi. In una lettera scritta al suo avvocato Eugenio Losco, menzionata dall’articolo di Mario Di Vito su il manifesto del 11 gennaio, Ilaria racconta condizioni igieniche spaventose che comprendono la presenza di cimici, topi e scarafaggi, “una dotazione mensile di 100 milligrammi di sapone, quattro pacchi di carta igienica e un ciuffo di cotone per il ciclo mestruale”. L’elenco degli orrori aumenta con il riferimento a trasferimenti in catene, un’ora d’aria al giorno e, a quanto pare non sempre garantita, detenuti costretti a guardare il muro durante le soste nei corridoi. Ilaria vive questo incubo da ormai undici mesi e per sei non ha potuto comunicare con nessuno, neanche con i suoi familiari. Il suo è un caso che ci tocca direttamente in quanto coinvolge una nostra connazionale, ma è sintomatico di un sistema detentivo, quello ungherese, i cui problemi di sovraffollamento sono dovuti, soprattutto, alla facilità con cui nel paese si ricorre alle pene detentive anche per reati di lieve entità. Intervistate da Il Manifesto verso la metà di dicembre scorso, Zsófia Moldova ed Erika Farkas del Comitato Helsinki Ungherese, raccontano che “l’Ungheria è lo stato Ue con la più alta percentuale di persone in carcere rispetto alla popolazione. La lunghezza delle pene detentive è superiore alla media europea”. Non basta, il codice di procedura penale in vigore nel paese prevede che, ad esempio, “per i reati punibili con oltre un decennio di carcere, come nel caso della Salis - che di anni ne rischia sedici - la carcerazione preventiva può durare anche quattro anni”. Una sproporzione evidente. Di fatto, l’Ungheria è stata già richiamata da Bruxelles per le sue condizioni di detenzione. Nel discorso annuale alla nazione tenuto a febbraio del 2020, il primo ministro Orbán attaccava la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per aver imposto allo stato ungherese di indennizzare dei detenuti sulla base di segnalazioni di organizzazioni civili che denunciavano le condizioni disumane caratterizzanti il sistema detentivo nazionale. È sempre il Comitato Herlsinki Ungherese a denunciare da tempo politiche penali che, nel paese, producono migliaia di casi di custodia cautelare senza alcuna giustificazione e i gravi problemi esistenti nelle carceri ungheresi sotto il profilo igienico e della vivibilità: celle infestate da insetti, scarsa aerazione, strutture inadeguate che determinano condizioni degradanti e disumanizzanti per i ristretti. Senza contare che gli istituti di pena soffrono di squilibri a livello di proporzione fra il numero dei detenuti e quello degli operatori penitenziari. Abbiamo parlato di sanzioni comminate allo stato ungherese per motivi riguardanti il sistema carcerario; il riferimento particolare è alla sentenza pilota del marzo 2015 con la quale la seconda sezione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo accoglieva all’unanimità il ricorso per violazione degli articoli 3 e 13 CEDU sollevato da sei detenuti e “condannava l’Ungheria a corrispondere somme comprese fra 5.000 e 26.000 euro a titolo di danno non patrimoniale. Sei cittadini ungheresi detenuti dal 2006 in diverse carceri del paese e in celle nelle quali avevano a disposizione uno spazio vitale compreso fra 1,5 e 3,3 metri quadrati. Le loro denunce comprendevano anche la mancanza di separazione fra le toilette e lo spazio restante delle celle, più i problemi igienici già menzionati, la scarsità di lenzuola pulite, la difficoltà di utilizzare le docce e il poco tempo da passare fuori dalle celle. Nel 2020 la quota di detenuti nel paese era già molto alta, e ha continuato ad aumentare in misura maggiore che altrove; questo è successo anche in Polonia ma, a quanto pare, con cifre meno alte che in Ungheria. È un quadro sconfortante, senza dubbio. Ma torniamo alla nostra connazionale: Ilaria Salis, che dall’inizio si è dichiarata non colpevole, è in attesa della prima udienza prevista per il 29 gennaio prossimo. Ce n’è anche per Gabriele Marchesi, 24 anni, pure accusato di aver partecipato alle aggressioni ai danni di neonazisti nel febbraio scorso. Il giovane è ai domiciliari in Italia e l’Ungheria lo vorrebbe nelle sue carceri ma la procura è contraria alla sua consegna sia per la “tenuità del fatto contestato”, sia per i dubbi sul sistema detentivo ungherese. Così, la sua situazione e le prospettive che lo attendono sono oggetto di approfondimento. L’auspicio è che si faccia tutto il possibile per portare via Ilaria Salis da quell’inferno e impedire che Marchesi ci finisca a sua volta.